le l a V a i d e M Araberara - 27 Settembre 2013 “Hanno ricordato l’uomo che era prima, meraviglioso, un po’ me lo aspettavo, ma avevo paura l’avessero dimenticato, no, non le persone importanti...” di Luciana Previtali Radici (Ottobre 2005) » LEFFE - il 21 settembre Il polo scolastico nel nome di Gianni Radici Inaugurazione del polo scolastico sabato 21 settembre e intitolazione a Gianni Radici che per Leffe è stato e sarà ancora a lungo il punto di riferimento sociale ed economico. Doveva esserci Luciana Previtali Radici, la ‘regina madre’ dell’impero Radici, la moglie di Gianni che per motivi di salute non ha potuto esserci. Ma è come se la signora Luciana ci fosse stata, lei che ha sempre tenuto le redini della famiglia e anche adesso, nonostante l’età non ha mai mollato. E adesso che ormai è ottobre ed è l’anniversario della morte di Gianni, era il 5 ottobre 2005, Gianni aveva 81 anni, riproponiamo il ricordo di Gianni raccontato da chi l’ha conosciuto meglio, da chi l’ha amato, da chi lo conserva nel cuore, quello di Luciana Previtali Radici nell’intervista-confessione che ci rilasciò nella sua casa di Leffe proprio in quell’ottobre del 2005 quando Gianni morì. » ottobre 2005 l’intervista di Piero Bonicelli “L’autunno dei Patriarchi lascia nostalgia di estati folgoranti che addolciscono il dolore. Gianni Radici è morto un pomeriggio di ottobre, nell’autunno della vita. Ha trasformato un settore, quello dei ‘copertini’, sostanzialmente artigianale e addirittura familiare, in un’industria, portando in Valgandino tutta la produzione, sedendo con i potentati economici della terra, ma conservando la consapevolezza delle radici (il cui cognome era predestinazione) in paese. “Non l’hanno dimenticato”, Luciana Previtali Radici, la ‘regina madre’ dell’impero Radici, è nella grande casa sulla collina che si inerpica dietro Leffe. Il Patriarca non c’è più, non c’è più l’uomo che ha costruito l’impero, l’uomo che ha amato e ama, pur nel pudore delle parole, con i lucciconi delle lacrime che annebbiano il presente, favorendo il flashback sul passato. Gianni Radici sembra ancora qui, nella sala da pranzo dove si sta preparando la cena di un sabato di ottobre, il suono dei campanacci delle mucche al pascolo poco sotto, due cascine sul giogo, una strada che sale, sale e a un certo punto la villa e dentro la villa una grande tavolata, perché nelle famiglie patriarcali si mangia tutti insieme, ci si sorregge a vicenda e a capotavola per un momento sembrerà di doverlo ancora aspettare: “In tanti anni di matrimonio non è mai mancato, alle 12 e alle 7 di sera si mangiava insieme”. Questa sera non ci sarà. Sono passati pochi giorni, funerali imponenti: “Hanno ricordato l’uomo che era prima, meraviglioso, un po’ me lo aspettavo, ma avevo paura l’avessero dimenticato, no, non le persone importanti, lui era uno che gli amici li aveva tra i dipendenti”. Ma le assenze pesano di più nel tempo, all’inizio c’è il dolore forte, è nei giorni successivi che spuntano i ‘vuoti’, i piccoli gesti quotidiani, ci si sorprende a non avere presenze, a non aver risposte, la casa che sembra più grande, più vuota. L’aveva visto sulla piazza di Leffe, dove nel 1944 i giova- Luciana Previtali Radici racconta Gianni Radici ‘L’uomo che volle farsi imperatore’ notti restati a casa, esentati dal militare, per lavoro giocavano a la ‘bala’: “Gianni, che aveva rilevato uno stabilimento da un amico e ne aveva fatto una fabbrica di coperte, a volte faceva dei cartellini di lavoro per giovani che venivano ricercati dai tedeschi. Venivano su con un camion e fermavano i giovani per portarvi via, in genere quando si sapeva che arrivavano i tedeschi, i giovani leffesi scappavano nel bosco, lui ne ha salvati tanti”. Il padre aveva un magazzino a Milano ma era un ‘commerciante’, niente a che vedere con l’industria. E così il fratello maggiore Gino che aveva seguito il padre. Gianni vedeva lontano. Così ha fondato l’impero, cominciando dalle coperte, che anche nel dopoguerra vendeva in Germania: “Sì, guardava lontano”. Luciana era una ragazza di città, ‘sfollata’ in Valgandino, una famiglia benestante, che a Leffe era arrivata per la minaccia di un bombardamento imminente su Bergamo. La ragazza dalla casa dello zio dove alloggiava guardava i ragazzi che giocavano a ‘bala’ in piazza ‘un gioco con una palla di stracci’. Una ragazza di città corteggiata, ma che non aveva messo gli occhi su nessuno in particolare. Lavorava in banca, a Bergamo, prendeva il trenino, scendeva a Gazzaniga e poi, ‘quando c’era’, saliva con la corriera a Leffe: “Ma il più delle volte » colzate si andava a piedi. Ma dietro la corriera ricordo il galoppo di un cavallo che trainava un carrozzino, me lo ricordo quel galoppo, era Gianni che veniva a Gazzaniga con la speranza di darmi un passaggio”. Lei non si voltava a guardare, sentiva il galoppo del cavallo. Poi un giorno da Leffe, era il giorno dei Santi (‘me lo ricordo perché il 13 dicembre avrei compiuto 18 anni’) hanno bisogno di qualcuno che li porti a Gazzaniga a prendere il treno. Un cugino di Gianni si dà da fare, glielo procura lui qualcuno che li trasporti a Gazzaniga. Quel ‘qualcuno’ è Gianni. Ma non si scambiano una parola: “Sì, era un bel gio- vanotto, vestito bene, sempre con cappello e cappotto. Un giorno va da mia mamma e le chiede se può venire in casa”. E quella è la dichiarazione d’amore. Leffe era un’isola felice nella corrente della miseria: “Anche a Bergamo era difficile in quei tempi trovare il pane bianco. Noi lo avevamo perché nel Patronato, che mio padre aveva costruito per don Bepo, c’erano tutte le attività, quindi anche il forno e ci portavano il pane. Ma a Leffe ricordo che si trovava il pane bianco. Eppure tra Bergamo e Leffe al tempo c’erano almeno dieci anni di differenza, come mentalità. Fatto sta che comincia il fidanzamento. Lui era un 125 anni dalla sua nascita Bondo di Colzate: un mese nel ricordo di Padre Alfonso Padre Alfonso a Bondo di Colzate è rimasto nel cuore di tutti, sono passati 125 anni dalla sua nascita ma il suo nome è tramandato di generazione in generazione e Bondo ne conserva gelosamente la memoria. E così in occasione del 125° anniversario della nascita e del secolo dalla professione dei voti, Bondo di Colzate ricorda la figura di Padre Alfonso, padre cappuccino prima missionario in Eritrea e poi impegnato nell’assistenza ai malati e ai bisognosi durante e dopo la seconda guerra mondiale a Milano. Si comincia venerdì 27 settembre al Teatro Parrocchiale di Bondo con lo spettacolo teatrale offerto da Anu- biSquaw “Il segreto della Dark Lady”. Il ricavato sarà destinato al progetto AnubiSquawforAfrica per la realizzazione di un pozzo nel villaggio di Chang’Ombe in Tanzania. E lo scavo di un pozzo fu la prima opera di padre Alfonso, nato a Bondo il 5 settembre 1888, nel villaggio di Mehelab, in Eritrea. La seconda parte delle celebrazioni si terrà a fine ottobre, a un secolo dalla professione solenne dei voti (il 1° novembre 1913), con una messa e il ricordo di Padre Alfonso nei documenti e nelle testimonianze. Un mese con Padre Alfonso a Bondo di Colzate dove la piazza principale porta il suo nome. giovanotto tranquillo. La sua vita era il lavoro. Era geniale, il padre era un commerciante, lui era già un industriale”. Lo prendono per matto. “No, io non gli ho mai detto che rischiava troppo o cose del genere. Le mie amiche di città mi dicevano, ma dove vai a finire, a Leffe? Io mi sono subito trovata bene. Del resto la valle l’avevo conosciuta anche prima, da ragazza, mi portavano al Farno a sciare. Gianni era appassionato di sci e di montagna. I suoi veri amici sono stati quelli di un gruppo che lui guidava ogni domenica in montagna, quelli sono sempre stati i suoi amici. Quando dieci anni fa in Ungheria ha avuto la sua malattia e non si è più potuto muovere, anche i suoi amici hanno smesso di andare in montagna”. Dell’amore parla poco, resta il pudore dei sentimenti e delle parole che li possono esprimere. Dalle coperte ai tappeti, Gianni è un vulcano di idee, sempre leggeva nel pensiero di quello che oggi chiamano mercato, anticipa le scelte, compra telai in Belgio, li importa: “A suo padre diceva che aveva comprato magari due o tre telai, invece ne aveva comprati venti. Trattava con le banche, ma restava legato al suo paese, alla gente. Certo che conosceva persone importanti, ma gli amici restavano quelli della piazza del paese. I miei figli li mandavo in colonia, a Cesenatico, con i figli dei dipendenti. Si andava insieme in pullman. E nel 1950 per l’Anno Santo eravamo andati tutti a Roma, con tutti i dipendenti”. Insomma, non era il classico ‘padrone’, restava quel ragazzetto che veniva dietro la corriera segnalando la sua presenza con quel galoppo del cavallo o quello che giocava in piazza a ‘bala’ con gli amici e di nascosto guardavano in su, verso il balcone, dove stava affacciata quella ragazza di città, che vestiva elegante e la gioventù del loco sognava di conquistarla. Ma a conquistarla è stato lui, quello che guardava e vedeva lontano, Gianni Radici. Ricordare fa male: quel giorno di molti anni fa, quando scendendo dall’auto si è bloccato, con le gambe molli e la bava alla bocca, si è chiuso nel silenzio: “Ma io l’ho sempre capito. E capivo quello di cui aveva bisogno”. Al punto che in un primo momento dice che “ha sempre continuato a parlare. E voleva essere portato nelle fabbriche, anche se non voleva la carrozzella, si informava di come andavano le cose. Ha sempre avuto intuito. Venivano delle persone, lui ascoltava quello che ci dicevano, mi faceva un segno indicando di tirar fuori il libretto degli assegni, capiva quando uno aveva bisogno di soldi”. Gianni era rimasto leffese: “In questi anni voleva essere portato nei santuari. Era devotissimo alla Madonna d’Erbia”. Quel giorno in Ungheria era stato preceduto da un segno: “Il Natale precedente era svenuto in ufficio, aveva fatto visite su visite, non gli avevano trovato niente… Quel giorno era più nervoso del solito, prima della dogana aveva detto in modo brusco di preparare i passaporti. Erano segnali. Ma era difficile fermarlo, voleva sempre guidare lui. Noi eravamo preoccupati, ma era difficile contraddirlo. Come voleva tutti attorno alla tavola, bambini e adulti. Un vero patriarca. Che non ha fatto pesare la fortuna, l’ha condivisa con il paese, sentendosi del paese. E il paese anche nei lunghi anni della malattia, non l’ha dimenticato”. 45