DIARIO VENERDÌ 22 GIUGNO 2007 LA REPUBBLICA 51 DI DI ANNIVERSARI/ A DUECENTO ANNI DALLA NASCITA La sinistra ne ha fatto per lungo tempo un’icona, una bandiera contro l’oppressione alter Maturi, uno dei maestri della nostra storiografia e grande storico del Risorgimento, nel celebre saggio del 1930 su La crisi della storiografia italiana metteva in guardia con la sua sapida arguzia dalla “mania dei centenari”. Non che avesse nulla contro di essi; ma ne temeva la deriva retorica, l’insinuarsi delle «tendenze agiografiche ed apologetiche, che la critica storica esorcizza con tanta tenacia». Orbene, siamo vicini ad un bicentenario che fa tremare le vene e i polsi: quello dell’eroe dei due mondi, nato a Nizza il 4 luglio 1807. Come noto, con re Vittorio, Cavour e Mazzini, Garibaldi costituisce una delle massime icone del Risorgimento. Il suo mito personale superò ogni frontiera e si protrasse nel tempo diventando una bandiera contesa dai più acerrimi nemici. Dei quattro l’unico che per questo aspetto gli può essere accostato, pur senza raggiungerlo, è certamente Mazzini, il quale in vita e dopo fu anch’egli oggetto di ammirazione, amore e di culto su scala internazionale. Vittorio Emanuele II rimase un re tra tanti re. Cavour certo lasciò un’orma profonda non solo nel nostro paese; i grandi statisti della sua epoca ne capirono l’altezza, e anche insigni studiosi europei. Ma la stella di Garibaldi brillò come quella di nessun altro. In un saggio del 1997 compreso nel volume da lui curato I luoghi della memoria. Personaggi e date dell’Italia unita, Mario Isnenghi così ha indicato efficacemente il prorompere del mito: «Quando, ormai quarantenne, torna dal Sudamerica in Italia per esser presente al grande appello del 1848 (...) Garibaldi è già un personaggio di notorietà sovranazionale (....). Le sue memorie corrono il mondo in diverse versioni e lingue. Narratori d’avventura quali Alexandre Dumas hanno già additato in quel combattente per la libertà dei popoli il nuovo vivente “moschettiere”. Victor Hugo, Georges Sand e tutta una serie di personalità e leader d’opinione collaborano alla sua fama. Romanzo storico, romanzo d’appendice e teatro d’opera predispongono il secolo dei romantici a inverare i propri sogni in quel marinaio ribelle, condannato a morte dal suo re, ramingo da un continente all’altro, figura vivente di un’epica popolare». Ma quali furono i presupposti, i mattoni dell’immensa popolarità di Garibaldi, “pirata” sudamericano, condottiero di volontari che lo idoleggiavano, dittatore, mazziniano e poi duro critico della strategia di Mazzini, prima considerato dai sabaudi un terrorista e in seguito generale al servizio di re Vittorio, democratico repubblicano accusato da una parte degli stessi suoi di aver abbandonato la causa della democrazia e della repubblica nel momento decisivo del Risorgimento, costruttore della nazione italiana e sostenitore della libertà e dell’indipendenza di ogni popolo oppresso ma al tempo stesso internazionalista e fautore degli Stati Uniti d’Europa, massone e anticlericale, oggetto dei maggiori onori ma sdegnoso di tutte le “patacche” di cui non aveva bisogno, Cincinnato nella sua piccola Caprera ma cittadino del mondo e sostenitore della Prima Interna- Tra storia e retorica si è svolto il percorso di un eroe che comunque ha cambiato l’Italia W GARIBALDI Cosa resta del suo mito MASSIMO L. SALVADORI zionale, dei diritti umani e sociali dei più deboli, oggetto di due opposte leggende: l’una quella dei suoi devoti e l’altra “nera” dei suoi denigratori in primo luogo cattolici? Quei presupposti, quei mattoni, il segreto dell’immenso fa- scino di Garibaldi che oltrepassa il suo tempo e il suo mondo sono da vedersi soprattutto negli atti di una vita spesa con tutte le forze al servizio dell’umanità ch’egli considerava la migliore: l’umanità dei variamente oppressi (e non stupi- INDRO MONTANELLI “ IL GIOVANE marinaio cui la condanna a morte conferiva una improvvisa notorietà, era nato a Nizza – che allora faceva parte dello Stato piemontese – nel 1807, ma la famiglia era originaria di Chiavari. Suo padre, che faceva il capitano di mare, era un buon uomo molto rispettoso dell’autorità e un po’ bigotto (...). Garibaldi non era un esibizionista. La popolarità gli piaceva, come piace a tutti, ma non lo inebriava, e non le correva dietro. A fargliela erano stati gli altri, non lui, che delle sue imprese parlava con molta modestia. In mezzo a tanta ammirazione, era rimasto l’uomo semplice di sempre, senza cupidigia di potere e tanto meno di denaro. C’era in lui il disinteresse di un eroe da western, arrivato a posizioni di comando solo in forza d’innate qualità carismatiche. Era diventato un capo perché gli uomini spontaneamente lo seguivano, e senza mai assumerne le pose gladiatorie. Non era un invasato della disciplina. Solo in combattimento la esigeva, ma non aveva quasi mai bisogno d’imporla. GARIBALDI sce perciò che quando venne accolto in trionfo a Londra nel 1864, la regina Vittoria non vedesse l’ora che quel poco di buono se ne andasse). Garibaldi era ben consapevole di sé, di essere diventato un capi- tolo della storia universale, uno dei suoi eroi destinato a non tramontare. Quando lo riteneva opportuno, recitava anche la parte del solitario, sdegnoso degli onori del mondo e dei suoi riti. Ma seppe abilmente, con tenacia, contribuire al mito di chi, avendo iniziato come un “povero mozzo” una “vita tempestosa”, come disse nelle sue Memorie, aveva visto se stesso divenire lo stendardo incarnato dei combattenti per la loro libertà in Sudamerica, in Italia, in Francia, nei Balcani, in Polonia, in Russia e ancora in altri paesi. Era un esempio e bisognava fare i conti con un’immagine da trasmettere. Assurto per i molti ferventi seguaci al ruolo di eroe per antonomasia, Garibaldi fu fatto oggetto di un vero culto, dando luogo persino a un mercato di cimeli. E vi fu anche chi lo dipinse mescolando i tratti di Gesù con i suoi. Che dopo la sua morte le parti contrapposte degli italiani sia siano contesi Garibaldi non deve meravigliare. Accadde qualcosa di simile anche a Mazzini, ma non così in grande. Ed è soprattutto emblematico quanto accadde negli anni del fascismo, della Resistenza e dei primi anni della Repubblica. Per Mussolini, che aveva l’appoggio entusiastico di Ezio Garibaldi, l’eroe era uno dei suoi, un costruttore ante litteram dell’Italia risorta. All’opposto per gli antifascisti dell’emigrazione (e avevano ragione) Garibaldi era uno dei padri dell’ideale democratico repubblicano, un alfiere dell’emancipazione politica e sociale delle classi e dei popoli oppressi, un nemico dell’oppressione clericale. I comunisti poi si consideravano i figli prediletti del rosso eroe. La contrapposizione si rinnovò nel corso della guerra civile 1943-45. I comunisti costituirono le loro brigate ponendole sotto l’insegna di Garibaldi, e un’analoga operazione fecero reparti della Repubblica di Salò. Entrambe le parti invocavano un nuovo Risorgimento d’Italia. Dopo il 1945 si rinnovò in grande stile la vicenda, che non aveva mai avuto fine, dell’uso contrapposto dell’icona. Il Fonte popolare costituito da socialisti e comunisti eresse a suo emblema ufficiale la gran testa di Garibaldi e ricoprì con i suoi manifesti i muri del paese. Dallo schieramento avverso si rispose in una duplice chiave: da un lato in luogo del Garibaldi di un tempo che confondeva i tratti del proprio volto con quelli di Gesù i manifesti anti-Fronte mostrarono un Garibaldi i cui tratti si sovrapponevano a quelli di Stalin, dall’altro si raffigurò il condottiero a cavallo che guidava la carica delle vere camicie rosse contro uno spaventato Togliatti, servo dello straniero russo, messo in fuga. Così la vicenda di Garibaldi ha costituito un aspetto assai significativo, uno specchio eloquente delle “divisioni d’Italia”. Siamo, dunque, a celebrare, duecento anni dopo, la nascita dell’eroe dei due mondi. Freschissimi di stampa sono appena apparsi due libri interessanti. Il primo è Giuseppe Garibaldi tra storia e mito, a cura di C. Ceccuti e M.Degl’Innocenti, Lacaita editore, a cui ha collaborato una serie di studiosi e nel quale i temi da me sommariamente indicati vengono ben analizzati; il secondo è Camicie rosse. I garibaldini dall’Unità alla Grande Guerra, di E. Cecchinato, edito da Laterza. Ora seguiranno altri lavori. Ed è da augurarsi che almeno gli studiosi si ispirino all’aurea raccomandazione di Maturi. Repubblica Nazionale “ 52 LA REPUBBLICA LE TAPPE VENERDÌ 22 GIUGNO 2007 DIARIO LA GIOVINEZZA 1807-1832 Nasce a Nizza nel 1807; il padre è un capitano di cabotaggio. Nel 1832 parte per Taganrog nel mare d’Azov. Nel ’33, diretto a Costantinopoli, conosce i seguaci di Saint-Simon IL SUDAMERICA 1835-1848 Fugge in Sudamerica, dove rimane per dodici anni. Combatte con i repubblicani in Brasile e in Uruguay nella “guerra grande” con l’Argentina. Nel 1841, sposa la brasiliana Anita, dalla quale ha tre figli L’INDIPENDENZA 1848-1859 Nel ’48 torna per partecipare alla prima guerra d’indipendenza contro l’Austria. Nel ’49, difende Roma dai francesi. Dieci anni dopo, guida i Cacciatori delle Alpi contro gli austriaci in Lombardia UN’ONDATA DI EVENTI, QUASI UN ASSALTO GARIBALDINO L’ITALIA CHE SI APPROPRIA DELLE SUE GRANDI GESTA FRANCESCO MERLO I LIBRI MARIO ISNENGHI Garibaldi fu ferito! Donzelli 2007 INDRO MONTANELLI MARCO NOZZA Garibaldi Bur 2007 GIUSEPPE GARIBALDI Il governo dei preti Kaos 2006 Memorie Kaos 2006 Epistolario Istituto per la Storia del Risorgimento italiano 2006 Cantoni il volontario Kaos 2006 MINO MILANI Giuseppe Garibaldi Mursia 2006 LORENZO DEL BOCA Indietro Savoia! Piemme 2004 ALEXANDRE DUMAS Viva Garibaldi Einaudi 2004 ALFONSO SCIROCCO Garibaldi Laterza 2004 Storia d’Italia dal Risorgimento alla Repubblica Il Mulino 1993 FRANCESCO PAPPALARDO Il mito di Garibaldi Piemme 2002 MAX GALLO Garibaldi. La forza di un destino Bompiani 2000 (segue dalla prima pagina) pesso i grandi eventi hanno un inizio comico. In questo senso è davvero buffo che il Regno delle due Sicilie, una rispettabile potenza mediterranea – sia pure gerontocratica come l’Italia d’oggi – con la sua flotta militare e mercantile, con la sua fanteria, con il suo apparato industriale e bancario, sia stato sbaragliato da poco più di una scolaresca in gita o in vacanza di sopravvivenza. Ecco: il successo dell’approssimativa spedizione dei Mille promuove al rango di progetto politico (garibaldino) qualsiasi colpo di mano, anche il più disturbato e il più astruso. Si dice “non fare il garibaldino” per invitare alla ragione, alla calma, alla compostezza, a non prendere le cose di irruenza, di petto, a non votarle al fallimento. Il modello garibaldino è: “ora ci penso io”. Ed è un mito ovviamente ottocentesco, anche perché nel nostro Novecento non ci sono padri della patria. C’era, per esempio, Garibaldi nello squadrismo di Balbo e Farinacci. E nello slogan di D’annunzio a Fiume «a chi l’ignoto? a noi!» risuonava il grido garibaldino della sconfitta di Mentana: «venite a morire con me! avete paura di venire a morire con me?». C’era del garibaldismo nella marcia su Roma, che poteva essere sbaragliata da uno sbuffo dell’esercito italiano; ma anche nella seduta del Gran Consiglio del luglio del 1943 che si illudeva di cambiare con un colpo di teatro il destino di un fascismo perduto e di un paese sconfitto. E c’era ovviamente Garibaldi nella temerarietà di certe imprese resistenziali: nelle “Brigate Garibaldi”, per cominciare. E come dimenticare che la faccia di Garibaldi fu il logo del Fronte popolare socialcomunista nelle elezioni del 48? Persino il pingue Spadolini si sentiva garibaldino e duellava in garibaldinismo con Craxi, il quale esibiva la canottiera e il calzino corto anche perché si compiaceva di assimilare la propria naiveté alla rustica semplicità del Garibaldi intimo, quello che si faceva sedere accanto gli ospiti di riguardo e offriva loro, sulla punta del coltello, spicchi d’arancia infilzati alla contadina. E si può andare avanti sino a comprendere nel garibaldismo anche i disturbi della politica italiana: l’indipendentismo siciliano di Antonio Canepa, alias Mario Turri, le ronde verdi di Bossi, la presa leghista di piazza san Marco e persino il Sessantotto quando eravamo tutti garibaldini, tutti studenti come i Mille, tutti con il libretto rosso esibito come una camicia. Ecco perché stanno arrivando in libreria mille saggi sui Mille. Con accanimento ci si confronta sulle origini della camicia rossa: una svendita di grembiuli di macellaio o l’invenzione del pittore Gallino? E’ in pre- S ICONOGRAFIA GARIBALDINA LA BATTAGLIA DI CALATAFIMI Sopra, l’imbarco di Garibaldi a Genova per la Sicilia, ritratto dal vero da Girolamo Induno; sotto, da sinistra, Pio IX, Vittorio Emanuele II e Garibaldi; a destra, l’incontro a Teano A destra, il dipinto di Remigio Legat che ritrae Garibaldi e i Mille durante la battaglia di Calatafimi, combattuta il 15 maggio 1860 parazione un librone di Aldo A. Mola che, come egli stesso ha annunciato sul Sole, reinventa Garibaldi al punto da farne un uomo d’ordine, nega persino il suo ateismo, e lo descrive parlamentarista come Andreotti. Con la biografia di Garibaldi ogni esperimento è consentito. Egli stesso che, con le sue Memorie — scritte già in stile declamatorio da bicentenario — , è la quasi esclusiva fonte su stesso, spesso e volentieri si cambiava i connotati e si conce- deva qualche frottola: a Dumas raccontò che era nato nella stessa stanza dove era nato il generale Masséna; e alla sua amante biografa Speranza von Schwartz rivelò di essere il discendente del barone von Neuhof, un avventuroso che era stato proclamato re di Corsica. Volete un dettaglio rivelatore? L’iconografia descrisse l’eroe con gli occhi celesti. In realtà erano marrone. Un altro libro, di una studiosa inglese, lo immagina, niente- meno, come il precursore italiano di Che Guevara, anche se, forse, ci sono più tracce di Garibaldi in Giangiacomo Fetrinelli, mezzo terrorista e mezzo visionario, e ci basterà ricordare che, quand’era già l’Eroe dei due mondi, espose al duca di Sutherland il suo piano per scatenare una rivoluzione da Mantova al Bosforo e mandare a gambe all’aria un paio di antichi imperi, quello asburgico e quello ottomano. Evidentemente ormai Garibaldi si era convinto che il mondo fosse una replica frattale del regno delle due Sicilie. Insomma era diventato garibaldino: si credeva Garibaldi! Si rispolverano i vecchi aneddoti sulla sua vita spericolata alla Vasco Rossi: corsaro sui mari sudamericani; la ferita alla gamba in Aspromonte, gli amori irregolari, il poncho, la guerriglia, il fascino del nomade alla Attali, le signore Bovary in deliquio davanti al maschio barbuto, maschio di mare e di armi. Persino la raffinatissima Lady Shaftesbury implorò l’Eroe perché le mandasse una ciocca di capelli. Ma non aveva fatto i conti con l’accorto, italianissimo Cavour che, con segreta lungimiranza, detestava Garibaldi. Dunque Cavour, al quale già un solo mondo, quello piemontese, sembrava eccessivo, spedì a Londra un massiccio quantitativo di ciuffi autenticati con la firma falsa di Garibaldi da distribuire ai devoti. E lo si loda per la pirateria o, più precisamente, per la guerra di corsa, e al tempo stesso per il senso dello Stato, vale a dire per la doppiezza che caratterizzerà Togliatti. Lo si racconta bigamo come un radicale alla Pannella e familista come un democristiano alla Casini, e come tutti gli italiani di sempre. Ribelle come Casarini e poliziotto come Cantarini. Stratega nautico come D’Alema e facondo scrittore come Veltroni. Repubblicano e BENEDETTO CROCE Il Mazzini si studiava d’introdurre nell’opera nazionale di Garibaldi il suo programma repubblicano Storia d’Europa nel secolo decimonono 1932 ANTONIO GRAMSCI Se Garibaldi rivivesse sarebbe più folcloristico che nazionale: perciò oggi a molti la sua figura fa sorridere Quaderni del carcere 1929 ERIC J. HOBSBAWM Erano gli stessi uomini accorsi all’appello di Garibaldi, che parlava e agiva come “un vero liberatore di popolo” I banditi 1969 VITTORIO FOA Come se non si dovesse “parlare male di Garibaldi”, come si diceva quando ero bambino Questo Novecento 1996 Repubblica Nazionale VENERDÌ 22 GIUGNO 2007 LA REPUBBLICA 53 DIARIO GLI ULTIMI ANNI 1870-1882 Nel ’70 combatte in difesa della Francia repubblicana. Nel ’74, è deputato di Roma. Nell’82, dopo un giro a Napoli e in Sicilia, torna nella sua casa a Caprera, dove muore la sera del 2 giugno I MILLE 1860-1866 Con oltre mille uomini, le Camicie rosse, libera il Meridione dai Borboni. Nel ’62 l’esercito regio lo ferma in Aspromonte. Nel ’66, invade il Trentino. Costretto alla ritirata, risponde: “Obbedisco” COME LA POLITICA LO HA USATO: PARLA LUCY RIALL QUELL’EROE DA MASS-MEDIA ENRICO FRANCESCHINI roe romantico per antonomasia, rivoluzionario e ribelle, santo laico, simbolo dell’unità d’Italia, leggenda internazionale. C’è ancora qualcosa da aggiungere al ritratto di Giuseppe Garibaldi, iconica figura sul piedistallo di ogni piazza italiana, in occasione del bicentenario della nascita? Ebbene sì: oltre a tutto ciò, l’Eroe dei Due Mondi fu anche un incrocio tra Che Guevara e Bill Clinton, il primo Grande Comunicatore globale dell’Ottocento, un politico “naturale” capace di usare gli stessi trucchi “mediatici” a cui fanno ricorso i migliori leader odierni. A sostenerlo, in un libro pubblicato in questi giorni da Laterza, Garibaldi. L’invenzione di un eroe, è Lucy Riall, storica di origine irlandese, uscita dalla London School of Economics e da Cambridge, docente di Storia dell’Europa moderna al Birkbeck College di Londra, autrice di apprezzate opere sul nostro Risorgimento. Su Garibaldi esiste una vasta letteratura. C’era bisogno di un altro libro? «Quasi tutti quelli scritti in precedenza sono “per” o “contro” Garibaldi, ovvero ne abbracciano totalmente il mito o si propongono di distruggerlo. Il mio approccio è diverso. Volevo comprendere la fama di Garibaldi, analizzandone origini e conseguenze. La mia tesi è che c’era una strategia politica dietro la creazione del culto di Garibaldi, il cui obiettivo era comunicare un’idea di Italia fino ad allora circolata soltanto in letteratura, nella musica, nelle arti visive o trai circoli clandestini dei cospiratori. Il mio libro è differente dagli altri anche perché cerca di esplorare l’impatto globale della storia di Garibaldi. E la mia conclusione è che uno studio del mito di Garibaldi può dirci molto sulla forza e sulle debolezze dell’idea dell’Italia come nazione». E quale è stata la sua scoperta più rilevante? «La mia ricerca conferma il ruolo chiave di Giuseppe Mazzini nel promuovere l’immagine di Garibaldi; ma rivela che lo stesso Garibaldi fu uno scaltro regista di sé. Non era affatto l’umile ingenuo descritto dai suoi contemporanei e da alcuni storici. La sua carriera politica ebbe più successo di quanto generalmente si ritiene. E a livello privato, lo studio della sua corrispondenza suggerisce che la sua reputazione di seduttore era pienamente giustificata: un’area della sua vita rimasta relativamente segreta sono le numerose relazioni simultanee di Garibaldi con un nutrito gruppo di ammiratrici». Davvero Garibaldi è stato un “grande comunicatore” ante-litteram, nello stile di Bill Clinton? «Gli abili manipolatori della propria immagine abbondano, nell’Ottocento, da Napoleone alla regina Vittoria. Ciò che rende Garibaldi il primo autentico eroe globale è la sua popolarità internazionale: fu veramente l’eroe “dei due mondi”. Comprese inoltre che, nell’opinione pubblica allargata creata dalla stampa, niente aveva E ‘‘ ,, successo come il tocco personale, umanizzante. Garibaldi fu un pioniere, con oltre cent’anni d’anticipo, dello stile di rilassata confidenza che i commentatori odierni associano a politici istintivi come Clinton». A proposito di manipolazioni, ritiene che il suo eroismo in battaglia e il suo contributo all’unificazione d’Italia fossero reali o in parte deformati dalle sue qualità di showman? «La campagna in Sicilia fu un trionfo di strategia militare. La sua capacità come leader di uomini in battaglia è senza uguali. E il suo coraggio innegabile: a Milazzo, appiedato e armato solo di spada, respinse quasi da solo una carica della cavalleria borbonica. Quanto al contributo all’unificazione italiana, fece non pochi errori nel 1859-’60, ma la sua incessante attività tenne viva la questione nazionale quando la maggior parte d’Europa voleva seppellirla. Ebbe una funzione vitale come simbolo di una nuova Italia. E per gli europei che seguivano le sue imprese sui giornali, rappresentò tutto quanto appariva giusto, eroico e poetico nella lotta per l’indipendenza dell’Italia, aiutando a mobilitare l’opinione pubblica internazionale in tal senso». Perché a un certo punto lo paragona a Che Guevara? «Erano entrambi leader guerriglieri, belli, affascinanti, rivoluzionari, con un richiamo internazionale. Per molti italiani degli anni ’60 e ’70, il Che sostituì proprio Garibaldi come eroe preferito. Tutti e due sono stati comandanti militari di successo, le cui vite furono mitizzate per fini politici». Pensa che alla fine del suo libro i lettori guarderanno a Garibaldi con maggiore o minore simpatia di prima? E lei, dopo averlo scritto, cosa prova per il generale? «Io provo ammirazione e rispetto. Come storico, non mi sono mai divertita tanto a scrivere un libro e spero di trasmettere questa sensazione a chi lo legge. Ma soprattutto vorrei che i lettori prendessero Garibaldi sul serio, comprendendo meglio la grande abilità politica da lui impiegata per produrre un’immagine che ha cambiato la mappa d’Europa». Ultimamente molti eroi storici vengono trasformati in eroi cinematografici, basti pensare ad Achille e Alessandro il Grande: ci sono già stati svariati film su Garibaldi, specie in Italia, ma crede che ora anche Hollywood potrebbe interessarsi di lui? E chi vedrebbe a interpretarlo sullo schermo? «Tutto il Risorgimento sembra un film melodrammatico, con eroi, traditori, belle donne, violenza, tragedia e lieto fine. Personalmente, tuttavia, mi dispiacerebbe vedere Garibaldi in versione hollywoodiana. Molto meglio affidare il suo mito a un regista latinoamericano. E come attore per la sua parte, non ho dubbi: Gael Garcia Bernal». L’interprete di Che Guevara, per aggiungere un’altra similitudine. C’era una strategia dietro la creazione del suo culto: comunicare una certa idea dell’Italia devoto al re. Eppure – ed è un dettaglio di vera grandezza! – anch’egli come Manzoni, un altro eroe del Risorgimento, arrivò consapevole alla morte: con la sensazione d’essere già un sopravvissuto, d’essere stato trasformato in una statua, con la coscienza di essere stato monumentalizzato; ma anche, soprattutto, con la certezza che sarebbe stato ripetutamente seppellito e riesumato ad ogni rinnovamento di stagione intellettuale o politica dei suoi epigoni. Garibaldi invano pretese di essere cremato in camicia rossa su un rogo di legni di Caprera e inutilmente chiese che il funerale fosse celebrato in forma privata. Accadde invece con Garibaldi quel che già era accaduto appunto con Manzoni e che accadrà con Verdi. «Governo, Parlamento, Province e Comuni entrarono in gare di statue, di lapidi, di dediche, di strade e di piazze. Un fiume di discorsi si rovesciò sull’Italia, una marea di bandiere abbrunate la sommerse. Si farneticò di un mausoleo da erigere sul Gianicolo o in Campidoglio o, addirittura, nel Pantheon dopo un corteo funebre attraverso tutto il Tirreno, scortato dalla flotta al completo con le teste coronate e i principi di sangue a bordo». Anche quel funerale, come si vede, è un archetipo. Tutti i funerali che seguirono, compresi quelli recenti dell’avvocato Agnelli e di Alberto Sordi, somigliano al funerale di Garibaldi che, come un attore senz’anima, è la maschera che tutti comicamente indossano. Perché nulla è cambiato. Tra mostre stanziali e mostre itineranti, tra giri ciclistici e pacchetti turistici dall’Uruguay a Caprera, questo bicentenario è la festa più in malafede d’Italia perché le compendia tutte. Lo si commemora al Senato e nelle Univer- sità, partono crociere e spedizioni in America; c’è persino un sottosegretario addetto alla Garibaldinite, l’onorevole Andrea Marcucci. E ci sarà anche la replica dell’imbarco a Quarto, non di mille studenti rivoluzionari ma dei mille studenti più meritevoli d’Italia, e dunque non più garibaldini ma garibaldologi. Quando la storia non la si fa, la si racconta e la si celebra. E’ un segno di decadenza l’eccesso di storiografia sulla storia, il predominio dei professori di storia sulla Storia, del racconto sul fatto. Io che non sono Garibaldi, ve ne parlo e divento Garibaldi: più vero di lui, più Garibaldi di Garibaldi. Ecco perché non si sta celebrando Garibaldi. Si sta riempiendo un vuoto. ‘‘ ,, Nelle sue “Memorie” egli stesso si cambiava i connotati e si concedeva qualche frottola GLI AUTORI Il testo del Sillabario di Indro Montanelli è tratto da L’Italia del Risorgimento (Bur). Di Lucy Riall è appena uscito Garibaldi. L’invenzione di un eroe (Laterza). Massimo L. Salvadori è professore di Storia delle dottrine politiche a Torino. DIARI ONLINE Tutti i numeri di “Diario” di Repubblica sono consultabili in Rete sul sito www.repubblica.it dalla homepage sul menu Supplementi. Qui i lettori potranno consultare le pagine comprensive di tutte le illustrazioni BALKANI Antiche civiltà tra il Danubio e l’Adriatico Adria Museo Archeologico Nazionale Via Badini, 59 8 luglio 2007 - 13 gennaio 2008 info: tel. 0426 71 200 - www.balkani.it in collaborazione con Ministero per i Beni e le Attività Culturali Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto Museo Nazionale di Belgrado Museo Archeologico Nazionale di Adria MEMORABILIA Un curioso orologio che ritrae Garibaldi. Il movimento delle lancette è scandito dall’oscillare dello stivale destro del condottiero I LIBRI COSIMO CECCUTI MAURIZIO DEGL’INNOCENTI (a cura di) Giuseppe Garibaldi tra storia e mito Lacaita 2007 INDRO MONTANELLI L’Italia del Risorgimento Rizzoli 2000 GILLES PÈCOUT Il lungo Risorgimento Bruno Mondadori 1999 DENIS MACK SMITH Garibaldi: una grande vita in breve Mondadori 1994 ALESSANDRO GALANTE GARRONE L’albero della libertà: dai giacobini a Garibaldi Le Monnier 1987 LUCIANO BIANCIARDI Garibaldi Mondadori 1982 OMAR CALABRESE Garibaldi: tra Ivanhoe e Sandokan Electa 1982 PIERO PIERI Storia militare del Risorgimento: guerre e insurrezioni Einaudi 1979 JASPER RIDLEY Garibaldi Mondadori 1976 PIETRO NENNI Garibaldi Ed. Avanti 1961 Repubblica Nazionale