Alberto Rinaldini
La resistenza 70 anni dopo
Tra storia e memoria
1.Premessa
Ritornare a parlare di Resistenza, per me, è chiarire quello che ho
vissuto “in modo
aurorale”, poi solare ma acritico, infine con
nuvole che ne oscurano la chiarezza e invitano ad andare oltre, più
a fondo,
sapendo che la conoscenza è complessa ed
intrinsecamente limitata. Ciò è tanto più vero perché nel ‘43‘45 avevo
10-12 anni. Quello che vissi lo ritenevo parte della
vita. Era un evento enorme che solo crescendo ho cominciato a
capire. Quei duelli aerei nel nostro cielo, quelle case incendiate non
lontano dalla mia, la presenza di tedeschi alloggiati a un tiro di
schioppo da noi, quel sibilare dei proiettili da cannone che
passavano sopra le nostre teste nel settembre del 1944, la breve
esperienza come sfollati al passaggio del fronte e la presenza, al
ritorno, dei soldati polacchi nel granaio di casa che ci accolsero con
gentilezza e grande rispetto, hanno segnato la mia fanciullezza. La
paura e l’avversione ai tedeschi presenti nelle nostre colline dell’
alta Romagna, territorio della linea gotica, era il sentire comune
della gente. Comune, anche se silenziosa, la simpatia per i
1
partigiani. Ma si disapprovava il loro modo di contrastare i
tedeschi provocando rappresaglie nei civili. Atti terroristici contro i
tedeschi era invece la strategia dei partigiani comunisti, non di
tutti i partigiani. Un reparto dell’8a Brigata Garibaldi – ricorda
Luciano Foglietta in “La liberazione di Santa Sofia”, (il capoluogo
della nostre colline), aveva messo in atto
una specie di
ammutinamento. Combattevano contro lo straniero, ma volevano
evitare le terribili rappresaglie tedesche contro la popolazione.
Furono invitati a Pieve di Rivoschio
presso il Comando della
Brigata. “Ci fecero il processo – narra Vero Stoppioni, uno del
reparto – e ci condannarono a morte”. La sentenza sarebbe stata
eseguita solo se altri si fossero distaccati dalla Brigata. “Siamo
vissuti – continua - per tre mesi a Spinello ( frazione di Santa Sofia
che dista 3 kilometri da casa mia) in questa situazione. Se ci
prendevano i fascisti ci impiccavano, se ci prendevano i tedeschi
peggio che mai. Dovevamo stare attenti anche ai partigiani
“ortodossi” poiché potevano farci fuori loro”. (1) A noi delle
montagne sfuggiva la strategia: i partigiani comunisti provocavano
feroci rappresaglie con azioni terroristiche contro i tedeschi per
2
aizzare contro di loro la popolazione;
i
tedeschi
con la
rappresaglia volevano fare comprendere alla popolazione che non
ci sarebbe stata nessuna clemenza per i sostenitori dei ribelli. Si
innescava così il circolo vizioso infernale. Giorgio Bocca scrive. “ in
realtà, e i comunisti lo sanno bene, il terrorismo ribelle non è fatto
per prevenire
quello dell’occupazione ma per provocarlo, per
inasprirlo . Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le
punizioni le rappresaglie, per coinvolgere gli incerti, per scavare il
fosso dell’odio. E’ una pedagogia impietosa, una lesione feroce”.
(2) Con l’arrivo e l’arresto del fronte sulla linea gotica i reparti
nazifascisti, impegnati a garantire la sicurezza del fronte e delle
retrovie dagli attacchi della guerriglia, si renderanno responsabili
degli eccidi più efferati ai danni della popolazione civile. Non
faranno distinzione tra lotta ai partigiani e popolazione civile. Due
terribili stragi su tutte: Sant’Anna di Stazzena (12 agosto 1944,
560 vittime) e Marzabotto (29 settembre -5 ottobre, 770 vittime).
Interessante, per folle che possa sembrare, l’opinione di Kesserling
relativamente a queste vicende. Nelle sue memorie “sosteneva
che i tedeschi agivano secondo dettami della legge militare mentre
i partigiani contro il diritto internazionale. Lui soldato, i partigiani
delinquenti. Mascalzoni che effettuano imboscate, compivano atti
di sabotaggio di ogni genere, omicidi, impiccagioni, morti procurate
per annegamento e assideramento, scottature
e crocifissioni,
nonché brutali crimini contro l’umanità, per non parlare
dell’avvelenamento dei pozzi. In definitiva per Kesserling: chi
portava un’uniforme militare era autorizzato a qualsiasi azione
militare; chi difendeva il proprio territorio da un esercito nemico
spietato, era un delinquente”.(3)
Lo studioso aggiunge il nome
delle unità tedesche che si “distinsero” per la loro ferocia, per non
dimenticare: il battaglione d’addestramento da montagna
Mittenwald, il reparto di addestramento da montagna SS, la 135°
brigata da fortezza , ma soprattutto la 16° divisione meccanizzata
“Reichfuhrer” SS, fra cui spicca il reparto esploratori al comando
del Maggiore Walter Reder” (4)
3
Note sulla Brigata Garibaldi che operò nei nostri monti
Il “ritornare” sul tema della Resistenza è quasi “rivivere” il tempo
dei miei 82 anni di vita: fanciullo , studente, docente di storia,
ormai al tramonto. Le osservazioni che seguono sono un
chiarimento a me stesso di una realtà infinitamente più grande …
che sento, nel tempo, diversamente “mia”… a partire dai luoghi
delle mie radici. Occorre ricordare che vanno distinte due fasi
della resistenza dei partigiani della Brigata Garibaldi nei nostri
monti: la prima sotto il comando di Libero, la seconda sotto quello
di Pietro. Sotto il comando di Pietro avviene lo sterminio della
Brigata durante il feroce rastrellamento nazifascista (12-20 aprile
1944) e la ricostruzione della Brigata in giugno. Rinasce con forte
connotazione
politica comunista, consolidata dalla pretestuosa
fucilazione di Libero. A questa seconda fase risalgono i miei ricordi,
il passaggio del fronte e la liberazione di Santa Sofia. Tratterò la
prima fase nell’articolo su Libero.
2. Dal mito all’anti mito, ad una lettura più complessa della
Resistenza.
Nel 1976 ero docente al Liceo Fermi e all’entrata della scuola
campeggiava una enorme scritta: La Resistenza è solo rossa.
Segno evidente del mito e insieme la critica ai “matusa” del PCI
che avevano fatto la Resistenza. I giovani del ‘68 ritenevano
infatti i compagni del PCI “traditori” di quella folata rivoluzionaria
per altro presente solo in alcune frange di partigiani comunisti.
Nel primo decennio del 2000 mi sono trovato a leggere i libri di
Pansa gran picconatore del mito. Ricordo “Sangue dei vinti”, la
“Grande bugia”e “Sconosciuto 1945”, I Gendarmi della memoria”.
Venivano “ridimensionati” quando non sbugiardati storici di sinistra
come Giorgio Bocca e Giovanni De Luna, Nicola Tranfaglia, Sergio
Luzzato, Angelo D’Orsi e tanti altri, definiti “esorcisti” nella Grande
Bugia … Così Pansa
andava ben oltre Claudio Pavone e al
revisionismo di De Felice, studiosi questi ultimi
che avevano
accompagnato le mie lezioni di storia. Ne fui coinvolto. Quello che
sostiene Pansa per qualcuno si tratta di “di rovescismo”: i vinti
appaiono le vittime, i vincitori i carnefici.(5) Sbiadita l’egemonia
4
culturale comunista con la caduta del muro di Berlino, anche il mito
della Resistenza “opera solo dei
partigiani” e
“solo rossa”
affondava inevitabilmente. Ma anche l’anti mito, imperversante
nell’ultima decade del Novecento e nel primo decennio del 2000,
ormai perde le ali. E allora dopo 70 anni possiamo guardare indietro
con maggior serenità ricuperando quella che fu taciuto o falsificato
o “rovesciato”. Essendo la storia per natura –al di là delle date dei
fatti e dei nomi – sempre rivedibile, possiamo allargare l’orizzonte
del nostro conoscere e “recuperare “ elementi qualificanti il quadro.
Senza pretendere di aver capito e detto tutto.
2.1 Il mito della Resistenza è stato in gran parte opera dei
Comunisti che misero il cappello sulla Resistenza fino agli anni ’90.
La ragioni della costruzione del mito? La parte più consistente dei
partigiani era legata all’ideologia comunista, senza credere che il
colore fosse per tutti egualmente rosso. Il socialismo reale sovietico
poi faceva sognare, alla frangia della sinistra, una rivoluzione
sociale. Con la vittoria della DC del 1948 il sogno fu costretto a
”seppellire le armi” e si gridò al tradimento della Resistenza. Il
terrorismo rosso degli anni settanta, non a caso, si rifaceva
proprio a questo tradimento ricuperando “le armi sotterrate” dalla
parte più rossa del movimento comunista. Si contestava anche il
“realismo di Palmiro Togliatti” che, con la svolta di Salerno del
marzo ‘44, aveva portato all’intesa dei partiti antifascisti con
Badoglio e la monarchia contro in nazifascismo, con l’amnistia del
1946 “aveva amnistiato gli italiani dal passato fascista e “guidato il
Pci nella via democratica, e con l’accettazione dell’articolo 7 in
Costituzione aveva contribuito alla pacificazione civile -religiosa del
Paese. La costruzione del mito resistenziale – scrive Angelo D’Orsi
– “avviene fin dai primi anni della Repubblica: La divisione in due
Italie, un’ esaltazione acritica e priva di mediazioni del significato
dell’attività dei resistenti, la loro dilatazione numerica attraverso
la qualifica di partigiano o oppositore al regime fascista a chi non
la meritava, l’estensione dei benefici di legge a coniugi e figli in
modo spesso meramente clientelare e così via, una semplicistica
contrapposizione fra buoni e cattivi, mentre una cortina di fumo
5
vagamente leggendario attorno al 25 aprile (l’epica antieroica di
un Fenoglio cominciò ad essere conosciuta e apprezzata solo dopo
gli ultimi anni Sessanta e i Settanta), con la connessa agiografia
dei partigiani, dei loro capi, delle loro imprese. Tutto ciò , in
generale, in una
misconoscenza
dei dati, dei numeri, delle
situazioni, tanto da parte dei denigratori , quanto da quella degli
apologeti. Del resto dati e numeri furono disponibili parecchi anni
più tardi”.(6)
2. 2 L’antimito
Il crollo del socialismo reale è l’atmosfera adatta per fare prevalere
una rilettura “critica”, detta anche revisionista,
del fenomeno
resistenziale. Gli studi di Renzo De Felice tracciano la strada già a
metà degli anni ’70. I suoi allievi forzano l’antimito, fino alla
Grande Bugia di Pansa. Il “Sangue dei vinti” infatti mette in luce gli
orrori taciuti dalla vulgata della Resistenza definita nell’altro suo
testo “La grande bugia”. I ragazzi di Salò paiono le vittime? C’è il
rischio. Se come insegnante
ero stato attratto dalla lettura
defeliciana della Resistenza e dalla visione critica del volume “ Una
guerra civile” di Claudio Pavone , ormai in pensione sono stato
coinvolto dalla “rilettura” di Pansa … La storia è sempre in qualche
modo un’interpretazione dei fatti e cambia col cammino dell’uomo
nel tempo. Gli studi di De Felice vengono alla luce prima del
crollo del miro di Berlino del 1989, quelli di Claudio Pavone dopo,
nel 1991. La novità
di questi studiosi “critici” della “vulgata
resistenziale” era la provenienza degli autori
dalla militanza
comunista. Anche il giornalista storico Gianpaolo Pansa proveniva
dalle file del Pci. Nell’opera di Claudio Pavone troviamo moltiplicata
per tre quella particolare guerra che si combatté in Italia fra l’8
settembre del ’43 e il 25 aprile del ’45: una guerra nazionale come
liberazione dal nazifascismo; una guerra sociale che punta alla
liberazione dal nemico di classe in cui c’è l’ansia di una giustizia per
i poveri, gli oppressi, per i senza voce e la speranza del
cambiamento politico e sociale … il cosiddetto “vento del Nord”
che viene meno con la vittoria della DC del 1948; una guerra
civile: italiani contro italiani.
6
Il discorso revisionista rischia di spostare l’attenzione dall’azione
alla ritorsione, per mostrare l’insipienza politico – militare delle
formazioni partigiane che finivano per scagionare i nazifascisti che
non facevano che “replicare“ ad atti insensati di violenza? La
polemica sull’attentato di Via Rasella del marzo 1944
è
emblematica. C’è chi lo ritiene azione
“terrorista” e chi lo
legittima in quanto atto di belligeranza contro l’invasore. E sono
corsi fiumi d’inchiostro dall’una e dall’altra parte.
3.Perplessità su via Rasella.
Anzitutto solo la parte comunista della Resistenza romana volle
l’attentato. Inoltre non si dice che i tedeschi uccisi in via Rasella
erano “italiani”. I gap romani non lo sapevano? Interessante
quanto dimostra lo storico Lorenzo Baratter in Le Dolomiti del
terzo Reich, 2005. Le SS uccise nell’attentato non erano SS, ma
sudtirolesi costretti dal Fhurer ad arruolarsi “come volontari”. Dopo
l’8 settembre il Sud Tirolo era stato annesso infatti alla Germania
nazista. Gli uccisi non avevano partecipato alla deportazione degli
Ebrei di Roma. I superstiti si rifiutarono di prendere parte alla
rappresaglia
e vendicare i commilitoni uccisi. Nel 1946 nella
conferenza di Pace di Parigi , la delegazione italiana presentò un
memoriale in cui del III battaglione Bozen si dice: “Unità di questo
reggimento furono impegnate anche a Roma nei famosi
rastrellamenti che ebbero luogo nel ’43 - ’44”. Ad opera del
“Bozen” dunque un migliaio di ebrei romani sarebbe stato deportati
nei campi di sterminio del III Reich. Rilevante la grave distorsione
della verità: “La discordanza di date , tuttavia, è evidente. Il 18
ottobre del 1943 gli uomini del Bozen si trovavano a mille
chilometri
dalla
capitale
nella
caserma
di
Gries”.
(7)
Vedrei volentieri sui libri di Storia un cenno almeno al dramma del
III battaglione Bozen. Oltre l’atto di belligeranza della Resistenza e
la tragedia terroristica della rappresaglia alle Fosse Ardeatine, si
dica chi erano gli uccisi di via Rasella e come si comportarono i
commilitoni sopravissuti. Erano italiani vittime prima del Fascismo,
poi del nazismo. Volontari “forzati”, disprezzati dai tedeschi, ma
non si piegano alla richiesta di vendicare i morti del loro battaglione
7
uccidendo innocenti. Sono loro stessi
resti degli uccisi in via Rasella furono
germanico sulla via Pontina, dove
nemmeno una targa di riconoscimento.
vittime innocenti. Persino i
“dimenticati” in un cimitero
giacciono tuttora
senza
(8)
Ancora oggi l’immagine del “Bozen” viene accostata a quella dei
peggiori criminali nazisti. E questo è possibile quando si fa uso
politico
della storia. Scrive Pierangelo Giovannetti:
“Davano
fastidio sia destra sia a sinistra. Per l’iconografia della Resistenza
erano SS di Kappler. Per la destra erano “italiani” diversi, in quanto
Sud tirolesi. Così per decenni non ci fu nemmeno una lapide che
indicasse i loro nomi. Né alle vedove o alle famiglie fu corrisposta
un aiuto, una pensione, un riconoscimento. Solo un foglio di carta
pergamena , vergato a mano con inchiostro di china, ne ricorda
l’esistenza. Fu apposto alle pareti del santuario mariano di Pietralba
dagli stessi sopravissuti: “In ricordo dei nostri compagni
caduti a Roma il 23 marzo 1944”(9)
3.OGGI
Al di là
del mito,
dell’anti mito e persino del cosiddetto
“rovescismo”, il nostro sguardo si apre ad un orizzonte più vasto.
Il termine Resistenza anzitutto non comprende solo la lotta armata
delle forze partigiane dell’Italia del Nord. La Resistenza prende il
via prima nell’esercito, poi nel movimento partigiano nel territorio
nazionale. Nella Divisione Acqui a Cefalonia si consumò una strage
che da sola
assomma più vittime
di tutte le stragi naziste
commesse in Italia dal ’43 al ’45. I soldati con i loro ufficiali si
rifiutarono di consegnare le armi ai tedeschi. Preferirono morire
per la patria, nel settembre del ’43, pochi giorni dopo l’8 settembre.
(10) Sono militari resistenti anche i 600 mila prigionieri che si
rifiutano di entrare nell’esercito di Salò. Reparti di militari in
Grecia, in Albania si unirono ai partigiani locali contro i nazisti. In
Corsica come in Francia molti nostri soldati gridano con i fatti il no
al nazismo. Il mito resistenziale ha emarginato l’apporto dei
militari che numerosi si oppongono ai Tedeschi dopo l’8 settembre.
8
Inoltre anche migliaia di carabinieri fecero la Resistenza. In 2mila
finiscono deportati in Germania, in 6 mila entrano in clandestinità.
Molti raggiungono il Sud, molti restano a Roma a combattere i
tedeschi fondando il Fronte clandestino dei carabinieri. Lo guida il
generale Caruso che , nel 1943 in pensione, vedendo i vertici
militari
fuggire , rientra in servizio
da clandestino. Senza
dilungarci ricordiamo come il martirologio dei carabinieri italiani
nella lotta per la liberazione sia impressionante: 2735 sono i
caduti, i feriti 6521. Noto è il sacrificio di Salvo D’Acquisto, che si
fa uccidere a 22 anni per evitare la rappresaglia per un attentato
che non ha commesso. Ma vanno ricordati anche i tre carabinieri di
Fiesole. I tedeschi, in difficoltà per l’avvicinarsi degli Alleati,
accorgendosi che i carabinieri sono spariti, ritengono che siano
con i partigiani. Il loro comandante, Giuseppe Amico, è infatti il
capo della Resistenza di Fiesole. Sospettato di aiutare i partigiani,
viene condotto con altri
al passo del Giogo sulla linea gotica.
Riesce a fuggire
e si unisce ai partigiani e invita i suoi tre
carabinieri di Fiesole a seguirlo. I tedeschi che si sentono in
trappola per la vicinanza degli Alleati, emettono un bando: tutti gli
uomini tra i 17 e 45 anni devono presentarsi. I renitenti saranno
passati per le armi. Tra coloro che si presentano 10 vengono
chiusi nel sottoscala dell’albergo
Aurora. In caso di attentati
verrebbero fucilati. Il tenente Hiessich, accortosi della fuga dei
carabinieri,
grida che farà uccidere dieci ostaggi se i carabinieri
non si consegneranno: “ O saranno fucilati loro, o saranno fucilati i
civili”. Il 12 agosto 1944 , in una bellissima giornata di sole, i tre
carabinieri vanno incontro alla morte. Hanno deciso di presentarti al
comando tedesco pur sapendo quello che li attende. Sono lì solo per
salvare la vita dei dieci ostaggi. Vittorio Marandola, Fulvio
Sbarretti e Alberto la Rocca
vengono chiusi nello stesso
seminterrato degli ostaggi. Tre quarti d’ora dopo , i dieci ostaggi
sentono i carabinieri gridare: “Viva l’Italia” … subito dopo raffiche di
mitra e colpi di pistola. (11)
9
3.1 “Donne e uomini della “resistenza”
Il cap. XI “Roma liberata” - del libro “Possa il mio sangue servire”
di Aldo Cazzullo, Rizzoli aprile 2015 – mette in luce come la
storiografia abbia oscurato personaggi e movimenti di Resistenza
diversa
da
quella
fissata
nella
memoria
nazionale.
Significativamente il libro porta, come sottotitolo, Donne e uomini
della Resistenza”. L’orizzonte della nostra resistenza si estende
oltre la lotta armata del Nord Italia. Scrive
l’autore:
“ Gli uomini e le donne della Resistenza avevano ragione . Fecero
la scelta giusta, schierandosi contro l’invasione nazista e i suoi
collaboratori. Combatterono la buona battaglia.
Eppure
quest’ovvietà, mai messa in discussione in nessuno dei Paesi
occupati da Hitler durante la seconda guerra mondiale, in Italia
non viene accettata. La Resistenza a lungo è stata considerata,
con qualche eccezione, come “cosa di sinistra”, una ”roba da
comunisti”: fazzoletto rosso e Bella Ciao. Poi, negli ultimi dieci
anni, i partigiani sono stati presentati come carnefici sanguinari,
che si accanirono
su vittime innocenti, i “ragazzi di Salò”.
Entrambe queste versioni sono parziali e false. La Resistenza non è
il patrimonio di una fazione. Fu fatta certo dai partigiani comunisti,
ma anche da quelli cattolici, socialisti, giellisti, liberali, monarchici,
apolitici. E fu fatta dalle donne, dai militari, dagli ebrei, dai civili. Ci
furono bande composte da carabinieri, altre da alpini. I primi a
resistere furono i soldati che presidiavano l’isola greca di Cefalonia,
fucilati per essersi opposti ai tedeschi. Furono resistenti la maggior
parte degli 810 mila soldati italiani fatti prigionieri all’indomani
dell’8 settembre ’43. Di questi infatti, 94 mila
decidono di
schierarsi con Salò. Altri 103 mila cederanno alle pressioni dei
reclutatori fascisti nei campi. Resistettero in 615. 813, secondo un
dato del 1944: scelsero di restare nei lager a patire la fame e le
botte piuttosto che andare a Salò a uccidere altri italiani.
Resistettero le migliaia di soldati che si batterono e morirono al
fianco degli alleati per liberare la patria dai nazisti.” (12)
Tra i militari prigionieri e internati troviamo Giovanni Guareschi,
l’inventore di Peppone e Don Camillo. Nel Diario Clandestino
10
1943 - 1945 racconta “le pressioni operate dalle lettere delle
madri, dei padri, delle mogli, dei figli o delle fidanzate” che
esortavano gli internati ad aderire a Salò. Molti cedono “Perché
convinti che questo rappresentasse il loro tornaconto” “perché
innamorati”, “perché malati
gravemente, o vecchi, avevano
certezza di essere posti in congedo e rimandati a casa”,”perché con la famiglia in disperate condizioni economiche o esasperati
dal non ricevere notizie della famiglia stessa – volevano comunque
arrivare in Italia e rivedere i loro cari oppure procurare loro
qualche
aiuto finanziario”, “perché
suggestionati
dalla
propaganda o dai compagni” , “perché avevano paura dei tedeschi”.
Dopo il ritorno in patria, 15 mila disertori – commenta Aldo
Cazzullo - abbandonano
le divisioni della Repubblica sociale
addestrate in Germania, in particolare l’Italia e la Littorio: sono
quasi tutti ex internati, che fuggono in montagna o tentano di
raggiungere le linee alleate. (13)
3.2 Resistono suore.
Resistettero suore e sacerdoti che protessero e nascosero i
partigiani. Avrebbero preferito restare tranquilli per i fatti loro, ma
messi di fronte a una scelta fecero quella più rischiosa, e aiutarono
quei ragazzi che avrebbero potuto essere loro figli, a volte a prezzo
della vita. Colpisce il capitolo “Arrestate quelle suore” nel testo di
Aldo Cazzullo.
Originale esempio di resistenza offre
suor
Enrichetta: beata per la chiesa, medaglia d’argento per la
Repubblica italiana. Incarcerata dai tedeschi per aver solidarizzato
con i resistenti in carcere scrive: “ Per tanta marea di ingiustizie, di
oppressioni e di dolori, Signore, abbi pietà del povero mondo e di
questa nostra carissima, distrutta Patria, e fa che dalle sue
macerie intrise di lacrime e di sangue purificata risorga presto
bella, più laboriosa e forte …” Dopo il 25 aprile è liberata e sceglie
di tornare a San Vittore, dove ora sono rinchiusi i suoi persecutori:
gerarchi e funzionari fascisti, ausiliarie di Salò. Al processo di
beatificazione
aperto dal cardinal Martini nel
2011 c’e la
testimonianza di Indro Montanelli, un giornalista che aveva
attraversato il fascismo ed era stato condannato a morte da Salò: “
11
Suor Enrichetta era una stupenda figura di religiosa. Una suora
buonissima e coraggiosa. Le sarò grato per sempre. Io ero al quinto
raggio, quello degli isolati, non avrei potuto vedere nessuno.
Invece, grazie a suor Enrichetta, attraverso un intrico di corridoi e
di cunicoli, riuscii per tre volte ad incontrare mia moglie, anche lei
imprigionata e condannata a trent’anni. Tutti noi ricevevamo,
grazie alla sua regia, bigliettini e informazioni . Così grande era il
conforto di quegli incontri furtivi, così immensa la gratitudine per
chi con grande rischio personale li rendeva possibili, che ancora
oggi il ricordo di suor Enrichetta e della sua veste frusciante suscita
in me la devota ammirazione che si deve ai santi o agli eroi. In
questo caso, a entrambi” (14) Un esempio tra i tanti che infiorano
il capitolo. Numerose infatti sono le suore che aiutano partigiani,
salvano ebrei dalla deportazione . Solo in Roma, secondo la ricerca
di suor Grazia Loparco, sono 133 i conventi femminili che
nascondono ebrei e antifascisti. A Milano la superiora Madre Rosa
Chiarini, superiora
della casa di Nazareth, ospita un capo
partigiano cattolico, Enrico Mattei, il futuro fondatore di Eni. A
Torino suor Giuseppina De Muro riuscì a liberare 500 prigionieri in
blocco.
3.3 Resistono sacerdoti
Tra il 1943 e il 1945 furono assassinati in Italia 400 tra sacerdoti e
monaci. Chi furono gli assassini? I compagni comunisti? Alcuni dei
quali, è vero, si macchiarono di orribili delitti, in particolare in
Emilia. Ma furono molto di più i preti uccisi dai tedeschi (120) e dai
fascisti (190). Dell’accanimento delle camicie nere è testimonianza
esplicita il resoconto a Mussolini del ministro dell’interno della
Repubblica sociale Buffarini Guidi: “Alla cordialità del clero per il
fascismo si è sostituita una gelida distanza, e spesso gesti di aperta
ostilità”. A volte i preti scelgono apertamente la Resistenza: Don
Comensoli nel Bresciano, don Mazzolari e don Scagliosi
nel
Mantovano animano le prime bande; don Pasquino Borghi, parroco
di Scandiano, sopra Reggio Emilia, nasconde i partigiani nella
canonica: arrestato, percosso, fu fucilato tra il 29 e il 30 gennaio
del 1944. Atri sacerdoti si sacrificano per salvare o assistere la
12
loro comunità. Come don Ferrante Bagiardi parroco a Castelnuovo
dei Sabbioni, nella diocesi di Fiesole. Il 4 luglio 1944 i tedeschi
radunano nella piazza del paese 74 ostaggi. Don Ferrante ne
chiede la liberazione. Di fronte al rifiuto dell’ufficiale nazista si
unisce a loro , impartisce l’assoluzione e rassicura gli ostaggi: “Vi
accompagno io davanti al Signore” e muore con loro. Così muore,
nella stessa diocesi, don Giovanni Fondelli, parroco di Meleto. Nel
1944 nella provincia di Arezzo furono uccisi 17 sacerdoti e un
seminarista. Nell’eccidio di Stazzena muore don Innocenzo Lazzeri,
il parroco di Farnocchia, medaglia d’oro al valor civile, che offre
invano la propria vita per salvare altri innocenti. Prima di cadere
mostra alto ai carnefici il corpo straziato di un bambino. Il parroco
di Stazzena, don Fiore Menguzzo, viene impiccato con tutta la sua
famiglia. Il settembre 1944 sull’Appennino è ancora più terribile
per i religiosi toscani. Il 2 all’abbazia di Farneta vengono fucilati
dodici monaci certosini, il 7 è ucciso il priore della certosa di
Montenagno, padre Martini Binz insieme col vescovo venezuelano
Salvador Montes de Oca. Altri dieci certosini saranno fucilati nel
massacro del Frigido, insieme con 160 ostaggi tra cui quattro
sacerdoti. Il calvario dei sacerdoti ad opera dei nazifascisti s’allarga
alle altre regioni del Nord. Ne abbiamo ricordato alcune vittime
sulla “linea gotica”, l’ultima frontiera prima del crollo definitivo dei
nazisti in Italia. Il martirologio in Piemonte
non è meno
impressionante. Nella strage di Boves muoiono don Giuseppe
Bernardi e don Mario Ghibaudo. Il 24 agosto don
Costanzo
Demaria seviziato e ucciso il 14 settembre. Sono troppi i sacerdoti
del Nord Italia vittime dei nazifascisti. Sarebbe
impossibile,
racchiudere in poche pagine il contributo che i sacerdoti italiani
diedero alla Resistenza.
Sarebbe disonesto anche no ricordare che, prima e soprattutto
dopo la liberazione, oltre cento preti furono assassinati da
partigiani comunisti per odio ideologico. Alcuni si erano schierati
con Salò, molti avevano “sola la colpa” di indossare la veste. La
furia omicida colpì un seminarista di 14 anni, Rolando Rivi, ucciso
a Modena nell’aprile del 1945. (15)
13
3. 4 Resistenza dei civili
La Resistenza comprende anche gli operai delle fabbriche. Scrive il
New York Times il 9 marzo dando la notizia
dello sciopero
generale del 1 marzo del 1944: “ In fatto di dimostrazione di
massa non è mai avvenuto nulla di simile nell’Europa occupata che
possa assomigliare alla rivolta degli operai italiani. Lo sciopero è il
punto culminante di una campagna di sabotaggi, di scioperi locali e
di guerriglia che sono meno conosciuti dei movimenti di resistenza
degli altri paesi perché l’Italia del Nord è rimasta più di altri
tagliata fuori dal mondo. Ma è una
doppia schiavitù, sanno
combattere con coraggio e con audacia quando hanno una causa
per cui combattere.” ( 16)
Si calcola che lo sciopero abbia
mobilitato mezzo milione di persone. Se la risposta fosse stata
debole, la repressione sarebbe stata spietata. Ma 500.mila
manifestanti non si possono deportare. Fin dai primi giorni di
occupazione è la grande maggioranza degli italiani a rifiutare di
collaborare con i nazisti. Gli imprenditori dichiarano “indispensabili
alla produzione bellica” anche operai che non lo sono; i medici
rilasciano certificati di malattia, rischiando in prima persona; i
ferrovieri rallentano la corsa dei treni, per consentire ai prigionieri
di saltare giù e nascondersi. E il progetto tedesco di portare un
milione
di
lavoratori
coatti
in
Germania
fallisce.
Le autorità fasciste riconoscono che la popolazione civile è contro
di loro. Da Bologna, da Genova, da Rovigo, da Imperia, da Padova
corale è l’ammissione dei rapporti al ministero degli Interni della
RSI: gli Italiani vedono con ostilità il nazifascismo. L’attività
ribellistica è ovunque viva. Anche le scuole e le Università a
cominciare da quella di Padova, chiusa dal rettore
Concetto
Marchesi. Prima di partire per la Svizzera scrive agli studenti: “Non
posso lasciare l’ufficio del Rettore senza rivolgervi un ultimo
appello. Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza
e la vostra patria. Traditi dalle parole, dalla violenza, dall’ignavia,
dalla servilità criminosa, voi insieme alla gioventù operaia e
contadina dovete rifare la storia dell’Italia e costituire il popolo
italiano”. Nell’Università di Padova 116 saranno tra professori,
14
assistenti e studenti i caduti nella guerra di liberazione. Sulla Rivista
“Italia e civiltà” Enrico Sacchetti mette in dubbio la sincerità dei
docenti nel giurare fedeltà al regime: “Non facciamoci illusioni: in
questi ultimi tempi siamo vissuti immersi fino al collo in una
colossale truffa. Non bisogna ignorare e dimenticare che i più dei
professori
d’Università
avevano,
a
suo
tempo,
giurato
tranquillamente il falso dopo che per anni avevano tutti i giorni
invitato i loro alunni a infischiarsene allegramente dei sogni di
grandezza mussoliniana e a irriderli; e che i più dell’ordine medio
hanno fatto altrettanto”.(17) Certo non tutti i soldati accettarono la
reclusione in Germania, non tutte le reclute salirono in montagna,
non in tutte le Università si ha lo stesso livello di opposizione alla
RSI. Mussolini diceva di poter fare affidamento su un esercito di
400.000 uomini, sommando tutti i vari corpi, compresa la guardia
nazionale. Ma gli italiani davvero disposti a battersi per il fascismo
morente sono molto meno. Anche tra gli intellettuali tuttavia un
ceto numero aveva seguito Giovanni Gentile che scelse Salò.
3.5“Alleanza inattesa” … nei nostri monti.
Nella terra in cui vissi ragazzo, a monte di Santa Sofia e di Bagno
di Romagna, nacque anche un’altra forma di resistenza. Siamo
nella prima fase della resistenza partigiana sui nostri monti. Lo
storico Roger Absalon parla di “alleanza inattesa” tra mondo
contadino e prigionieri alleati in fuga dopo l’8 settembre 1943.
E’ un argomento poco conosciuto, parlando del comandante Libero
si capirà meglio anche il perché. Contadini ospitano, con grave
rischio di essere scoperti e mandati a morte, soldati e ufficiali alleati
fuggiti dalle prigioni di Anghiari e di Firenze dopo l’8 settembre
del ‘43. Trovano rifugio prima presso i monaci di Camaldoli, poi
presso contadini nelle vallate dell’ Alto Bidente: nella parrocchie di
Ridracoli ( Seghettina); Casanova dell’Alpe (poderi: Fiurle,
Romiceto, Valdora, Castelluccio, Casone), Strabatenza (poderi:
Mulino, Vinco, Trappisa, Bottega, Ponte, Casaccia, Cetoraia, Casina,
Mulinaccio, Ponte); Poggio alla Lastra (poderi: Mulino del Ponte
Vecchio, Casone, Ca’di Veroli, Valcupa, Molino, Pratolino, Raggiolo);
Rio Salso. Località del Comune di Bagno di Romagna, lungo le valli
15
del Bidente che sfociano in Santa Sofia. I contadini sfidano il
divieto di Kesserlig del 21 settembre del 1943 che minacciava la
condanna a morte per chiunque avesse aiutato i soldati alleati
evasi. Disposizioni inasprite dal bando del comando di Forlì che
minaccia la
fucilazione per chi ospita o protegge o fornisce
vestiario e alimenti ai “banditi”, incendio di case ove vengano
commessi attentati contro i soldati tedeschi o italiani.
In queste vallate trova rifugio un numero cospicuo di soldati
sbandati stranieri. Arrivano anche una decina di generali inglesi ed
Generali inglesi
una quindicina di ufficiali di grado diverso, fuggiti dal Campo n° 12
del Castello di Vincigliata, vicino Firenze. Fanno parte di questo
gruppo il Tenente Generale comandante in capo e governatore
della Cirenaica sir Philip Neame; il Maresciallo dell’aria Owen Tudor
Boyd, della RAF; il Tenente generale Dick O’Connor, specialista
della guerra nel deserto, che aveva condotto l’avanzata inglese sul
16
fronte marmarico nel dicembre ’40; il suo aiutante di campo,
Tenente T. Daniel, conte di Ranfurly e “pari” d’Inghilterra; il
Generale neozelandese James Hargest, il Maggiore generale
Gambier Parry; i Generali di brigata D.A. Stirling, E.W. Vaugham,
J.F.B. Combe, J. Todhunter e B. F. Armstrong; i Capitani J.T.
Ferguson, A.P. Spooner, J. Kerints, G. Ruggles-Brise; ci sono anche
un capitano americano e alcuni soldati neozelandesi. (17 bis)
Militari e generali furono protetti dai partigiani e ospitati dai
contadini delle valli: li accolsero nelle loro case, li sfamarono e li
sottrassero più volte ai rastrellamenti. Le vicende di questo episodio
- poco conosciuto - sono raccontate nel volume La Romagna e i
generali inglesi (1943-1944);Gli Alleati salvati dai patrioti, nella
storia dei luoghi e della prima resistenza Romagnola, a cura di
E.Bonali e D.Mengozzi (Milano, Angeli 1982). In esso è riportato
anche il diario, scritto in quei giorni, dal tenente generale Philip
Neame - uscito a Londra nel 1946 col titolo Playing whit Strife. The
Autobiography of a Soldier - che si sofferma a lungo sulle persone
che permisero a lui e agli altri inglesi di sopravvivere in luoghi
impervi: “Di una cosa, scrive, eravamo assolutamente certi: che
nessun contadino italiano di queste colline ci avrebbe mai traditi,
per danaro o per minacce”. Boyd, Neame e O’Connor, grazie alla
“trafila” della Resistenza e dei servizi segreti, il 30 ottobre del ‘43
riuscirono a raggiungere Pesaro per unirsi poi al Comando alleato.
Altri rimasero in Romagna fino a marzo per coordinare il sostegno
agli ex prigionieri
e per tenere
i contatti con la nascente
formazione partigiana. Tra questi Combe e Tedhunter.
Contro tedeschi e fascisti, già nell’inverno del ’43, si stavano
formano infatti formazioni partigiane, inquadrate nella Brigata
"Garibaldi” di Romagna, sotto il comando di Libero. Pongono le loro
basi nelle impervie valli scavate da Bidente che dalla dorsale
appenninica scende verso Santa Sofia: tre valli parallele
che
prendono il nome dalle frazioni di Pietrapazza - Strabatenza, di
Ridracoli e di Corniolo. Solo quest’ultima, che scende dal Falterona,
è percorsa da una carrozzabile costruita negli anni ’30. Le altre
sono raggiungibili solo con mulattiere che innervano una fitta
maglia di poderi. In questo territorio impervio, boscoso, di difficile
17
accesso, trovano
una popolazione di contadini predisposta
all’ospitalità e alla solidarietà. Grazie alle schede ASC ( Allied
Screening Commission (Italy)(Commissione
alleata di verifica)
veniamo a conoscere la storia di tanti militari britannici,
neozelandesi, australiani, maltesi, sud africani ecc.. La loro storia
riemerge grazie a queste schede, utilizzate dallo storico Roger
Absalon e consegnate -fine anni 70 - all’Istituto storico di Urbino.
Con mia sorpresa vengo a conoscere che famiglie vicine alla mia, in
parte con noi imparentate, accolsero in casa per mesi soldati
inglesi. Presso la zia Colomba nel podere dei Sassoni, poche
centinaia di metri sotto la nostra casa, a lungo sono stati ospitati
militari alleati evasi. Anche a Ciscolina, ancora più vicina, ma
sopra di noi, c’era un’altra base sicura per i militari stranieri alleati.
Siamo nel territorio di Spinello, frazione del comune di Santa Sofia.
Le due case citate fanno parte della rete di case di contadini
sparse per questi nostri monti che aiutano soldati alleati ex
prigionieri. Quasi 60 famiglie, senza contare quelle che non hanno
richiesto
alcun rimborso, riuscirono con l’apporto corale delle
donne e dei bambini a creare, durante i lunghi mesi del passaggio
del fronte, una perfetta catena di sussistenza e di copertura.
Un’attività resa ancora più pericolosa se si considera che alla
Casaccia di Strabatenza si era insediato il comando della Brigata
Garibaldi. Quelle famiglie riuscirono
a destreggiarsi tra
nazifascisti, partigiani, spie, sfollati e soldati in fuga, cercando di
evitare alle loro case e ai loro cari rappresaglie sanguinose.
Di
questi contadini cooperanti - scrive Oscar Bandini -: “Volti e nomi
di contadini, boscaioli, preti di campagna, possidenti che, salvo rare
eccezioni, non hanno mai ricevuto dall’Italia nata dalla Resistenza ,
un attestato di riconoscenza. (…) Restano le citazioni nei libri e nei
diari, le note a piè pagina di alcuni saggi, le lettere di tanti militari,
che a distanza di anni, hanno inviato alle famiglie che li avevano
ospitato a rischio della vita. Restano infine le schede dell’ASC, il
timbro formale del loro apporto nella salvezza di centinaia di
militari alleati in fuga verso la libertà”.(17 tris)
18
La prima fase della Brigata Garibaldi guidata dal comandante Libero
non ha ricevuto il riconoscimento meritato. Il perché verrà chiarito
nel prossimo articolo. L’interesse economico è alla base dei
cooperanti contadini? Certo le ragioni politiche si mescolano con le
ragioni economiche e ragioni morali. Ma il rischio corso non valeva
l‘utile sperato dai contadini che sognavano di alleggerire la loro
povertà. A questo punto, allargando lo sguardo a tutto il Centro
Nord Italia, viene da chiedersi quale sia la consistenza della tesi
dell’attendismo di cui parla Renzo De Felice. Secondo l’illustre
studioso la via scelta dagli italiani (’43- ’45) era né appoggiare,
né contrastare, ma “attendere”. E’ vero che
i partigiani
creavano disturbo e disagio specie alla gente di montagna quando
si sequestrava il bestiame o si chiedeva soldi, ma i rastrellamenti
nazifascisti erano infinitamente più temuti. Noi bambini avevamo
paura solo nel vedere un tedesco. E’ vero anche che molti, per
convenienza, divennero partigiani il 25 aprile! Scrive Bocca: “Ai
primi di marzo l’esercito partigiano ha 80 mila uomini; a metà
aprile 130.000; nei giorni dell’insurrezione saranno 250-300 mila a
girare armati e incoccardati”.(18) E’ vero, non pochi furono i
simpatizzanti per RSI, ma maggioranza della popolazione era
contraria ai nazifascisti. Più che attendismo che suona indifferenza,
parlerei di attesa carica di speranza. Parlerei di una resistenza
silenziosa carica di paura e di rischi, non scritta nelle storie ufficiali,
neppure nei libri di testimonianze, dedicati di solito ai combattenti.
Ricorda Aldo Cazzullo: “ Nella Langhe , dove sono cresciuto, i
partigiani non erano considerati santi, e neppure particolarmente
amati. I contadini avrebbero preferito di gran lunga essere lasciati
in pace, anziché rischiare di avere aiutato o anche solo sfamato i
ribelli.(…) Però, al momento di scegliere , quasi tutti non ebbero
esitazioni a schierarsi con coloro che avrebbero potuto essere, e a
volte lo erano, i loro figli.” (19)
4.
Pagine nere della Resistenza
Sono da ricordare le vendette ed eccessi dei vincitori dopo il 25
aprile. Si è parlato di una “seconda guerra civile” dopo il ’45. Ma
è giusto anche ricordare i 45 mila partigiani uccisi, i 20 mila
19
mutilati. Ecco una pagina sul “nero” di partigiani dopo il 25 aprile.
Scrive Aldo Cazzullo: “Certo, la Resistenza ha avuto pagine nere. E
vanno ricordare anche quelle. I nostri giovani devono sapere che a
Porzus, in Friuli, partigiani comunisti assassinarono
partigiani
cattolici come Guido Pasolini, fratello di Pier Paolo, lo scrittore, e
Francesco De Gregori, zio del cantautore che ne porta il nome.
Devono sapere che vent’anni di dittatura e venti mesi di spietata
guerra civile lasciarono uno strascico di esecuzioni, e anche di
vendette. Talora furono regolati conti privati, frutto di torti subiti, di
antiche rivalità, di odio sociale, di volontà di arricchimento. In
alcune zone, come il triangolo della morte emiliano, gruppi di
comunisti che volevano la rivoluzione cominciarono a eliminare i
“nemici di classe”: agrari, benestanti, sacerdoti. Altre esecuzioni
che oggi sembrano esecrabili, all’epoca apparvero inevitabili, forse
persino giuste,
prima che l’amnistia Togliatti cancellasse la
responsabilità financo delle torture, purché
“non efferate e
continuate”, e ci furono tribunali che mandarono assolti uomini
che evirarono altri uomini, con il pretesto che “non di tortura
continuata sio trattò”. Ma i nostri giovani devono sapere anche quel
che era accaduto prima. Quando i “vinti” del 25 aprile, schierati con
le SS e con la formidabile macchina da guerra tedesca, avevano il
coltello dalla parte del manico e lo usavano, mentre i “vincitori “
venivano braccati, torturati, appesi”(20)
Ricordo l’atteggiamento di alcuni partigiani comunisti della mia
terra. Dopo la sconfitta del fronte social - comunista del 1948,
rientrato a casa per le vacanze estive, sentivo in alcune persone
sguardi minacciosi … Avevo 15 anni. Un seminarista studente di
teologia era stato minacciato dai comunisti. Tirava davvero una
brutta aria ben documentata nel detto: “ ogni prete ha il suo
albero per l’impiccagione”. Folate di vento di comunisti che mal
sopportavano la sconfitta elettorale e la fine del sogno di fare
dell’Italia un paese sovietico? Sì, certamente. Non tutti i partigiani
comunisti diventarono giustizieri dopo il 25 aprile, ma, forse, più di
18 mila sono le vittime
ad
opera dei comunisti che nella
Resistenza vissero l’ideale stalinista, per altro più immaginato che
20
conosciuto. A questi ”comunisti rivoluzionari”
va aggiunto
il
drappello di giustizieri che hanno usato la vittoria contro il fascismo
per sistemare vecchi conti del ventennio fascista e/o del biennio
‘43- ’45 … Questi con i partigiani avevano nulla a che fare.
4. 1 Da ricordare ai giovani
Le stragi nazifasciste - come le pagine nere della Resistenza quelle più tragiche si consumarono sulla linea gotica, nella quale
operano
numerosi
partigiani. Vennero perpetrate
feroci
rappresaglie naziste contro i civili. Alla sosta di Alexander, causa la
difficoltà di procedere nell’autunno piovoso e nell’inverno del ‘44
sulla Linea gotica, s’aggiunse l’invito - dello stesso comandanteai partigiani di tornare a casa. La sosta se marca la vittoria
difensiva dei tedeschi, segna la scarsa stima degli alleati della
lotta armata dei partigiani e offre la possibilità ai nazifascisti di
aumentare e potenziare i rastrellamenti dei partigiani ritenuti non
combattenti per la libertà della loro patria, ma dei “banditi”. Va
ricordato ai giovani che le pagine più nere della Resistenza
“comunista” verranno scritte dopo il 25 aprile 1945, in particolare
nel triangolo della morte (Bologna - Reggio Emilia – Ferrara) e
nelle terre della
Venezia Giulia
ove l’ideologia rivoluzionaria
comunista aveva mostrato la sua ferocia ancora prima con i
partigiani di Tito. Si deve aggiungere che le squadre fasciste
violente al momento dell’ascesa del fascismo lo furono ancora di
più al suo tramonto. Il capitolo Massacri e massacratori del libro di
Aldo Cazzullo ricorda le stragi Sant’Anna di Stazzena e di
Marzabotto, in cui i fascisti collaborano al massacro operato da
Reder; i crimini fascisti della banda Koch, della banda Carità, della
X Mas, della legione Ettore Muti.
E’ l’ora di togliere dall’oblio anche le pagine nere dell’occupazione
italiana nei paesi balcanici: l’occupazione seminò rappresaglie non
inferiori a quelle tedesche nell’Italia. Le foibe furono prima “tomba”
dei massacri opera dei dominatori fascisti, poi dei titini … e seguì
il triste esodo di 300.mila italiani. Il 10 febbraio, giorno della
memoria per le sofferenze e il martirio di italiani, va completato
21
col ricordo delle vittime e il martirio delle popolazioni slave per
mano degli italiani occupanti.
4. 2 “amnistia dei morti”
I 400 sacerdoti o religiosi uccisi, furono più vittime dei nazifascisti
che dei partigiani. Caddero, abbiamo detto, in 300 sotto i colpi
delle esecuzioni sommarie o delle stragi nazifasciste. Giustiziati per
il sospetto di aver aiutato i partigiani, i deportati, gli ebrei. Ma
costoro hanno avuto il riconoscimento del loro sacrificio e godono
il rispetto dei posteri. Inoltre hanno patito nel corso di una guerra
dichiarata. Sono cioè parte di un gioco le cui regole –magari
aberranti o applicate con disumanità – erano chiare. L’assassino
era anche il nemico che applicava la sua ferocia per limitare le sue
perdite . Nelle storie dei 100 e più sacerdoti uccisi da partigiani,
salvo pochi casi, la guerra non c’è più. Non c’è un nemico dichiarato
oltre il mitra, non si trova una necessità bellica che giustifichi
l’assassinio.”E per di più – scrive Roberto Beretta – il sacrificio è
stato coperto da una tale fama di onta e di ripugnanza morale che
per decenni quasi nessuno ho più osato occuparsene: almeno per
scoprire
se tale vituperio avesse fondamento oppure
no”.
Giovanni Guareschi nel novembre del 1946 chiese a De Gasperi
e all’ex ministro della giustizia Togliatti un’ amnistia per i morti.
“Quanti morti irregolari, quanti morti clandestini sono nascosti nei
campi del Nord Italia? Io sento nell’aria agitarsi questo carosello
di fantasmi che non possono avere requie … Bisogna ricercare
queste spoglie come si cercano i corpi travolti da un fiume in piena.
Bisogna ritrovare tutte le vittime di questo fiume di sangue . E
ridare a ognuna il suo nome. Bisogna liberare questi morti …
Bisogna ritrovarli ad ogni costo. Avete amnistiato chi ha ucciso:
perché non amnistiare chi ha pagato con la vita gli errori degli
altri?”(21) Con amarezza conclude Roberto Beretta: “Sessant’anni
dopo. Possiamo dire che l’”amnistia dei morti” non c’è ancora
stata. L’ideologia continua a prevalere, quasi che riconoscere
l’obiettiva dignità e persino grandezza delle vittime dei partigiani
offuschi il valore della libertà e della democrazia conquistate certo – anche grazie alla Resistenza. La censura si è spinta al punto
22
di abbandonare al nemico ideologico persino alcuni dei propri
eroi. Ho
trovato infatti, e li elenco in questo capitolo, sacerdoti
che figurano come martiri negli elenchi compilati dai reduci della
RSI e della morte dei quali invece non è affatto definita la
responsabilità, quando essa non sia avvenuta per puro incidente
ovvero non sia addirittura assodato che furono ammazzati proprio
dai nazifascisti. Militi ignoti caduti dunque in “terra di nessuno” ai
quali tocca forse, più di qualunque altro testimone , simboleggiare
la parzialità del giudizio degli uomini”. (22)
5.Roberto Vivarelli
L’avventura del prof.Vivarelli aiuta a comprendere come
un
giovane studente, mio compagno nell’Istituto “Missionari della
Consolata” – avevo 10 anni, lui 17 – improvvisamente lascia la
scuola. Qualche mese dopo, in divisa delle Milizia, ricompare
raggiante per salutare i superiori. Scomparso nella voragine della
guerra civile o della “bella morte”? Dalla memoria viene fuori solo
un cognome … Braschi. Leggendo in ‘ La Grande Bugia” il capitolo
‘Linciaggio’, si capisce il clima in cui ebbe inizio l’avventura del mio
compagno di scuola nel ’44 … Ma ancora di più viene a luce come
la difesa della patria potesse avere due strade che si scontrano fino
a trasformarsi in una vera e propria guerra civile. Chi ha scelto la
via di Salò aveva torto, chi ha scelto la via della resistenza aveva
ragione.
Roberto Vivarelli di famiglia fascista, a 14 anni nel 1944 si arruola
nei reparti della RSI. Alla fine della guerra si ritrova tra gli sconfitti.
A 16 anni torna al Liceo, cresce e la sua originaria scelta politica
cambia. Diventa maestro nella ricerca storica, il più autorevole
studioso delle origini del fascismo, alunno di Federico Chabod,
curatore delle opere di Gaetano Salvemini, Docente di Storia
contemporanea alla Normale di Pisa. Nel 2000 ha 71 anni. Decide
di pubblicare un libretto in cui racconta la sua adolescenza in
camicia nera. Incontra uno sbarramento di fuoco da storici
comunisti. Si sono accorti di avere stimato un ex ragazzo di Salò,
non pentito. Ha tenuto nascosto il nefando passato. Il libro di
Vivarelli, edito dal Mulino, s’intitola: La fine di una stagione.
23
Memoria 1943- 1945. Qual era la tesi di Vivarelli? Risponde lui
stesso nell’intervista al “Piccolo” di Trieste“ del 13 dicembre 2000.
“Se dovessi rimettermi oggi nei panni di allora, dovrei onestamente
riconoscere che non avrei potuto fare una scelta diversa. E, se non
l’ammettessi, sarei un ipocrita. Educazione, sentimenti, mentalità:
tutto concorse a indirizzarmi in un certo modo. Volevo rendere
testimonianza e mettere in gioco la mia vita. Sia chiaro: mi
schierai dalla parte sbagliata. Ma come ho scritto in questo libro, le
ragioni della mia vita non coincidono con le ragioni della storia”.
Risponde poi a coloro che lo stanno linciando scrivendo, nella
Rivista Il Mulino gennaio – febbraio 2001, con l’articolo “La lezione
di una diatriba”: “Perché a distanza di oltre mezzo secolo dalla fine
della guerra, mi sono deciso a raccontare come io ho vissuto gli
anni dal 1943 al 1945, e che cosa mi sono proposto presentando in
pubblico il mio racconto? Attraverso la rievocazione di un capitolo
doloroso della mia vita che mi è costato non poca fatica esporre ,
ho voluto in prima istanza sollevare una questione morale: la
nostra dignità di persone umane
può dipendere
dalla parte
politica nella quale, spesso in forza di circostanze della vita, ci è
capitato in un certo momento di militare? … Intendevo contestare il
giudizio sommario che la parte vincente ha imposto nei confronti
di tutti coloro che hanno militato nelle file della Repubblica di Salò.
I quali , indipendentemente dal loro comportamento individuale,
sono stati sbrigativamente
bollati come persone moralmente
indegne”. (23) Il prof. Vivarelli, già nel 1955, aveva esposta questa
sua convinzione. Nella lettera inviata dagli Stati Uniti a “Il Ponte”
diretto da Piero Calamandrei, protestava contro un’affermazione di
Riccardo Bauer che definiva i combattenti di Salò “non esigue
schiere di criminali”. Nella lettera Vivarelli spiegava che aveva
militato da adolescente nei reparti della Rsi: “Non ho nessuna
vergogna nel denunciarlo, perché so quanto l’animo era puro e
quanto di entusiasmo e di buona fede ci fosse in quelle schiere
che contavano numerosissimi ragazzi
non ancora ventenni,
arruolatisi per Salò non certo ‘per criminalità’”. Dunque si doveva
sapere che Vivarelli era stato un ragazzo di Salò. Allora cosa
disturbava del libro del prof. Vivarelli? Si poteva ammettere la
24
buona fede in tanti combattenti di Salò, ma non piaceva la
mancanza di pentimento … Si temeva una dissacrazione della
Resistenza? Poteva essere invece un aiuto per capire meglio anche
la ‘scelta resistenziale’. Il libro ‘Fine di una stagione’ uscì in
libreria l’11 novembre . Il fuoco di sbarramento era già stato
scatenato ancora prima della pubblicazione. Il 12 novembre la
Stampa pubblicò un’intervista di Alberto Papuzzi a Vivarelli. Il
professore non aveva mai nascosto
il proprio passato di
giovanissimo combattente della Rsi e citava la lettera al ‘Ponte’ del
1955. Aggiungeva inoltre la stima goduta da personaggi come
Salvemini, Ernesto Rossi, Mario Delle Piane, Franco Venturi. “ A
tutti costoro il mio passato era perfettamente noto, ma non me ne
fecero mai una colpa”. Infine andando al cuore del problema
Vivarelli disse a Papuzzi: “ Vede io non intendo affatto riabilitare il
fascismo … Ma non credo che l’avere militato nella parte che noi
oggi giudichiamo giusta conferisca a ciascuno , automaticamente,
una patente di nobiltà. Così come non credo che aver militato nella
parte sbagliata conferisca una patente di ignominia”. (24)
Confesso la mia ammirazione per il professor Vivarelli: testimone di
chi ha scelto, adolescente, con chi stare nell’imbrogliato “biennio”
della nostra guerra civile ’43-45. Tutto lo portava in quella direzione
… Pur sentendomi più vicino a chi fece l’altra scelta, inorridisco a
leggere giudizi di storici cattedratici che hanno linciato il prof.
Vivarelli. Mi amareggia la squalifica pervenuta da Sergio Luzzatto,
già suo allievo alla Normale di Pisa. Nella recensione del libro del
maestro sul Corriere della Sera dell’11 maggio 2005, cinque dopo
l’uscita del libretto,
bolla il professore
come l’autore
di
‘estemporanea testimonianza da nazifascista impenitente’ ,
al quale ‘buona parte dell‘intelligenzia italiana aveva tolto il saluto’.
Un distinto settuagenario che vantava i propri trascorsi in imberbe
masnadiere’. E si era rivestito ‘ di panni svergognati’. Famoso per ‘
una scioccante rivendicazione saloiana”. (25)
6. Riflessioni conclusive:
6.1 Torno all’Alta Val Bidente, ove si trova il comune di Santa
Sofia, la frazione di Spinello e le case di Montriolo: qui “ vissi” la
25
Resistenza quando avevo 10 - 12 anni. Ora prendono corpo lembi
di storia di partigiani, del passaggio del fronte, dei tedeschi, delle
case date alle fiamme. Riemergono carichi di significato nomi di
partigiani nostrani, come Maciste, Dinola, Tom, Pietro e Paolo. Si
materializza la strage nazista del 25 luglio 1944 sul Passo del
Carnaio, distante un chilometro da casa nostra. Riemerge dal
tempo l’esercito alleato,
i polacchi del secondo Corpo di
armata del generale Anders, che Il 20 ottobre 1944 liberarono
Santa Sofia. In quest’atmosfera drammatica c’è anche la “ pagina
nera” che riguarda il primo comandante dei partigiani che
operavano nella mia zona. Trova una spiegazione anche il ricordo
dello spavento delle donne all’arrivo di soldati di colore. Ma, per
fortuna nostra, i soldati alleati che attraversarono la nostra zona
con i polacchi erano indiani. Non erano i marocchini che dopo
Cassino avevano stuprato donne, bambini e persino vecchi … Una
macchia così grave - “ in quelle 24 /48 ore di liberà” – che
trasformò la festa in tragedia … cancellando anche il loro eroismo
nella liberazione di Cassino. La fama della bestialità di quelle ore
di orgia violenta precede l‘avvicinarsi degli alleati. La propaganda
tedesca e dei repubblichini usa questa macchia per screditare i
liberatori descrivendoli come distruttori. Resta comunque
incancellabile il dramma delle “marocchinate”. Ancora oggi se ne
parla. Qualcuno ha voluto leggerlo come una vendetta da parte del
comando francese della V armata – al cui comando operavano i
marocchini – contro l’Italia che nel 1940 aveva attaccato alle spalle
la Francia. (26) Santa Sofia rimase, dal 27 settembre al 18
ottobre, terra di nessuno. Il 27 settembre i partigiani avevano
tentano infatti di liberare il paese, ma gli alleati rimasero fermi al
passo del Carnaio, a dieci chilometri di distanza e le forze tedesche
mantennero
il dominio su metà del paese.
Gli alleati non
apprezzavano più di tanto i partigiani, pur servendosene?
I
partigiani nostrani della 8a Brigata Garibaldi
erano troppo
ideologizzati e gli alleati polacchi di comunismo se ne intendevano!
Screzi e dissapori riemergono anche dopo la liberazione di Santa
Sofia. Le responsabilità del fallimento dell’impresa dell’ottava
Brigata Garibaldi di Romagna sono ascrivibili al desiderio
di
26
mettere in atto “il piano insurrezionale” riservato dai partigiani ai
centri maggiori. Così scrive Paolo,
il vice comandante
della
Brigata, al capo Pietro il 27 settembre ’44: “Attualmente , ore
22,30, si inizia l’accerchiamento di Santa Sofia solo con le nostre
forze perché vogliamo l’onore di liberarla con le nostre forze. (…)
Avevamo chiesto l’appoggio di due carri armati inglesi , e mentre
stavano passando Monteguidi , uno venne colpito e rimase ucciso lo
stesso maggiore che si trovava all’interno”. Ma nel diario del prete
di Monteguidi leggiamo la motivazione della mancata partecipazione
degli alleati. Qualche autoblinda era arrivata fino a Gamberini, ma
dopo la strada era stata fatta saltare dai tedeschi per circa 500
metri per cui macchinari pesanti non potevano transitare. (27)
La ritirata tedesca era costellata da incendi e ruberie, stupri e
massacri. Ricordo i 27 civili uccisi sul Passo del Carnaio del 25 luglio
per rappresaglia per tre tedeschi uccisi (due il giorno 26 e uno il
25) dai partigiani proprio sul Passo. I tedeschi uccisero anche un
sacerdote che aveva dato l’assoluzione ai condannati. Mentre si
incamminava verso casa venne freddato con una raffica alle
spalle. Ora vengo a conoscenza anche dei massacri di Collina di
Pondo, la parrocchia della mamma .
Ora partecipo alla riconoscenza del mio paese ai polacchi: qui
trovarono la morte decine di militari. Qui sostò anche il generale
Anders e, fino alla primavera del ’45, soldati polacchi restarono in
paese. Erano
rispettosi e
bene accolti, ma crescente era
l’avversione al comunismo dei locali partigiani. Questi volevano il
comunismo, i polacchi credevano, dopo avere liberato l’Italia dai
nazifascisti, di proseguire la loro marcia fino a Varsavia per
liberarla dai comunisti. Arrivati a Bologna l’armata polacca però si
sciolse. La Polonia era stata concessa dagli Alleati a Stalin! Qui
finiva l’infinito viaggio di Anders, fatto prigioniero
nel 1939 dai
Russi in seguito alla occupazione della Polonia in esecuzione del
Patto Ribentrop – Molotov. Liberato quando Hitler invase la Russia,
si rifiutò di combattere con i sovietici e con un lungo viaggio alla
guida di 50.000 polacchi attraversa le steppe dell’Uzbeckistan
27
Soldati polacchi a Santa Sofia
28
giunge in l’Iran. Da qui al Golfo Persico e s’imbarca su navi inglesi
per Italia, ove combatterà a fianco degli Alleati contro i nazisti.
Erano polacchi quegli alleati che vissero per qualche giorno anche
nel granaio di casa nostra nell’ottobre del 1944.
6.2 “Gesù in camicia nera, Gesù partigiano”.
E’il titolo di un libro scritto da Ulderico Munzi. E’ la metafora di una
memoria “diversa” che dovrebbe essere condivisa. Al di là della
verità dei fatti e misfatti compiuti dagli uni e dagli altri, al di là che i
partigiani avevano ragione e gli altri torto, resta ancora rancore e
odio … dopo 70 anni! Il libro riporta Il dialogo tra don Berto don Bartolomeo Ferrari, cappellano della Divisione partigiana
Mingo dal 16 novembre 1944 – e don Gino Marchesini,
cappellano della Guardia nazionale repubblicana. Don Berto ha nel
cuore il ricordo cocente della settimana di Pasqua ’44: tra il 6 e l’11
aprile
72 partigiani caduti in combattimento nella zona
dell’abbazia della Benedicta, 75 vengono fucilati, altri 17 saranno
massacrati il 19 maggio con altri 42 al Passo del Turchino. Don
Gino è testimone tra il 30 aprile e il 15 maggio 1945 di una delle
più dure vendette
partigiane, a Oderzo in Veneto. Entrambi
cercano la riconciliazione , ma difendono due visioni inconciliabili
d’Italia. Riprendiamo parti del dialogo tra i due riportate da Aldo
Cazzullo(28).
Don Berto Ferrari: “ Mettiamoci in ginocchio, fratello, e
preghiamo. Noi abbiamo lo stesso Dio, la stessa fede, la stessa
religione e tu sai che la religione è al di sopra di ogni professione
politica e naturalmente deve influire sulle nostre azioni e sul nostro
comportamento, sulla nostra morale e sul nostro amore verso il
prossimo. Tu verso di me e io verso di te … Io mi sono battuto per
la libertà , mentre tu …”
Don Gino Marchesini: “ Mentre tu … ecco che spunta la vostra
libertà! Tu lasci intendere che la tua è la vera libertà, mentre la
mia non lo è. Devi sapere che io, ho fatto una libera scelta
nell’andare con la Repubblica sociale. Secondo me, la libertà vuol
dire soprattutto donarsi di certi limiti morali, avere doveri, obblighi
29
verso il prossimo. La mia libertà finisce dove comincia la tua …”
Don Berto: “ Certi sacerdoti del tuo stampo, don Marchesini, non
vogliono capire , non vogliono il dialogo. Nel Vangelo di Marco è
scritto che il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non
passeranno. La vera libertà è in Cristo. E’ possibile che tu non
voglia capire? Se io non accetto il giogo di un governo dittatoriale,
difendo la mia dignità di cristiano, non tradisco alcun ideale, anzi
creo un ideale. Ma non voglio insistere e ti ripeto: siamo fratelli, tu
eri di là e io di qua. Noi abbiamo avuto la sorte di essere vincitori
… Va bene, arrivo a dirti che non ti considero uno sconfitto. Né
tanto meno un nemico. Ti considero uno che ha combattuto per
un’idea, nella quale credeva, e per questo ti ammiro. Però, la realtà
devi accettarla: l’idea che hai difeso è stata vinta, annullata ecco
tutto.”
Don Gino: “Noi non ci sentiamo vinti, proprio per nulla. E sai
perché? Perché i nostri principi, l’amore per la Patria e per il
sacrificio, non sono ideali da vinti. Anzi, c’è un sapore di vittoria
morale nella nostra sconfitta. C’é stata solo una sopraffazione delle
armi, questo sì, e l’accettiamo. Ma le nostre idee, per le quali
abbiamo combattuto, restano sacrosante, intramontabili. (…)”
Don Berto: ”Se hai fatto il tuo dovere con animo pulito, non hai
nulla da rimproverarti , la tua missione è compiuta. Sei stato vicino
ai tuoi ragazzi che credevano in un ideale, hai fatto bene, perché
sopra
tutto
questo
c’era
Dio”.
Don Gino: “Dio è al di sopra di tutto. Ce lo siamo già detto. Non
avrei difficoltà ad abbracciarti. Ma l’abbraccio dovrebbe significare
che siamo sacerdoti di Cristo, con i nostri pensieri, i nostri propositi,
le nostre idee e i nostri principi; e non significare che io approvo la
tua scelta del 1943. Per me, la mia è stata una scelta giusta,
onesta, tu hai fatto bene a fare il tuo servizio anche a favore di
quella gente, perché non si può abbandonare nessuno. C’è una sola
strada, don Berto: abbracciamoci in Dio. Il resto rimanga com’è”.
6.3 Conclusione
L’affido a queste righe di Aldo Cazzullo: “Molti, com’è inevitabile in
un regime durato vent’anni, hanno avuto il padre o il nonno
30
fascista, talvolta anche dopo l’8 settembre. Oggi potrebbero dire,
senza per questo amarli o stimarli meno, che il padre o il nonno
non avevano gli strumenti
e la libertà che oggi ci sembrano
scontati e naturali, e quindi fecero in buona fede
o sotto
condizionamenti esterni una scelta talora comprensibile, talora
giustificabile,
ma in ogni caso sbagliata”( …)
La storia dei
resistenti non è storia dei vincitori, se non dal punto di vista ideale.
E’ storia di vittime. Alcune morirono chiedendo vendetta. Altre,
forse la maggior parte, morirono perdonando i loro carnefici
invocando la pacificazione (…) Tutti sentono di contribuire a
edificare un’Italia migliore”. (29) Si deve anche ricordare che
non tutti i partigiani volevano la democrazia. Avevano fatto una
scelta ideologica. Con il Duce si schierarono razzisti, antisemiti e
diciottenni cresciuti col fascismo, convinti che il fascismo fosse
l’Italia. A volte la scelta di campo è casuale … come dice un
personaggio di Italo Calvino, il partigiano Kim: “ Basta un nulla, un
passo falso, un impennamento dell’anima, e ci si trova dall’altra
parte”. Alla fine molti pagarono con la vita i propri crimini, altri la
propria scelta.
Dopo 70 anni è tempo che la pietà umana - dovuta a tutti i caduti
– e lo spirito di “riconciliazione nazionale” abbiano a prevalere. Le
ragioni della storia non sempre coincidono con quelle della vita. Per
cui dobbiamo dire: gli uomini e le donne della Resistenza hanno
ragione; i loro avversari ebbero torto. Gli uni e gi altri, senza
confonderli, sono la “nostra storia”.
NOTE
1. Luciano Foglietta, La liberazione di Santa Sofia . Stampa S.T.C-S.Sofia.
2008, pag.20
2. Aldo Czzullo, Possa il mio sangue servire,Rizzoli 2015 pag.138
3. Gianni Angeli Munoz, Linea Gotica come luogo della memoria, Il Ponte
Vecchio pag.46-47
4. Ivi pag. 48
5. Gianpaolo Pansa, La Grande Bugia, Sperling &Kupfer Editori
2006,pag.312
6. Micromega del 3 marzo 2015 Saggio 1
31
7. Rivista Il Tempietto n. 6 Del Centro Culturale il Tempietto del Don
Bosco pag.26-34
8. Ivi
9. Avvenire 17 marzo 2004
10.cfr. n. 6 della Rivista Il Tempietto cit.
11.Aldo Cazzullo, Possa il mio sangue serviore , cit, pag,161-162
12.Ivi pag. 98
13 Ivi
14.Ivi pag. 80-81
15. Ivi pag.128 ; cfr. n. 6 Rivista Il Tempietto, cit. pag. 36-38
16 Ivi pag. 222
17. Ivi pag. 219
17 bis: notizie desunte da una ricerca condotta sui documenti dell’Archivio
Comunale di Bagno di Romagna (Registri di deliberazioni dal 13/11/1942 al
2/6/1944 e dal 3/8/1944 al 2/6/1945; Carteggi anni 1944-1945),
dell’archivio aggregato dell’ECA e sui registri e schede dell’Ufficio Anagrafe
Comunale, oltre che su memoriali dattiloscritti, articoli e saggi. Tra questi,
un rilievo particolare assume quello di Enrica Cavina, La strage del Carnaio
- di prossima pubblicazione negli atti del convegno L’ evento e l’esperienza
soggettiva del ricordo. Le stragi naziste di Tavolicci e del Carnaio (Forlì) di
Fragheto (Pesaro), Civitella in Val di Chiana e San Pancrazio (Arezzo),
tenuto a Bagno di Romagna il 26-27 Ottobre 2002 - che, tra l’altro, ne
individua gli esecutori. Per la ricostruzione della giornata del 25 Luglio ’44,
fondamentale è stato l’aiuto di Mario Bartolini, presente - ragazzo di 7 anni
- sul Carnaio, che nel tempo ha raccolto preziose testimonianze su quei
tragici momenti.
Relazione approvata all’unanimità dal Consiglio Comunale con
deliberazione n. 71 del 28 novembre 2003).
17 tris Oscar Bandini, Alto bidente, un grande corridoio umanitario, in ‘a
cura di Luigi Lotti, Guerra in Romagna 1943 -1945 , Stilgraf Cesena 2014’,
pag.105
18. Citazione di Aldo Cazzullo, op. Cit. Pag.343
19.Ivi pag.222
20. Ivi pag. 19-20
21. Ivi pag.243
32
22. Ivi pag, 250
23.Giampaolo Pansa, La Grande Bugia , cit. Pag. 360-387
24. Ivi
25.Ivi
26 Iris Origo, Guerra in Val D’Orcia. Longanesi pag.235
27 Luciano Foglietta, La liberazione di Santa Sofia, cit. pag. 15-16
28. Aldo Cazzullo, Possa il mio sangue servire, cit. pag,126-128
29. Ivi pag. 130
33
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Tra storia e memoria