Alberto Rinaldini La resistenza 70 anni dopo Tra storia e memoria 1.Premessa Ritornare a parlare di Resistenza, per me, è chiarire quello che ho vissuto “in modo aurorale”, poi solare ma acritico, infine con nuvole che ne oscurano la chiarezza e invitano ad andare oltre, più a fondo, sapendo che la conoscenza è complessa ed intrinsecamente limitata. Ciò è tanto più vero perché nel ‘43‘45 avevo 10-12 anni. Quello che vissi lo ritenevo parte della vita. Era un evento enorme che solo crescendo ho cominciato a capire. Quei duelli aerei nel nostro cielo, quelle case incendiate non lontano dalla mia, la presenza di tedeschi alloggiati a un tiro di schioppo da noi, quel sibilare dei proiettili da cannone che passavano sopra le nostre teste nel settembre del 1944, la breve esperienza come sfollati al passaggio del fronte e la presenza, al ritorno, dei soldati polacchi nel granaio di casa che ci accolsero con gentilezza e grande rispetto, hanno segnato la mia fanciullezza. La paura e l’avversione ai tedeschi presenti nelle nostre colline dell’ alta Romagna, territorio della linea gotica, era il sentire comune della gente. Comune, anche se silenziosa, la simpatia per i 1 partigiani. Ma si disapprovava il loro modo di contrastare i tedeschi provocando rappresaglie nei civili. Atti terroristici contro i tedeschi era invece la strategia dei partigiani comunisti, non di tutti i partigiani. Un reparto dell’8a Brigata Garibaldi – ricorda Luciano Foglietta in “La liberazione di Santa Sofia”, (il capoluogo della nostre colline), aveva messo in atto una specie di ammutinamento. Combattevano contro lo straniero, ma volevano evitare le terribili rappresaglie tedesche contro la popolazione. Furono invitati a Pieve di Rivoschio presso il Comando della Brigata. “Ci fecero il processo – narra Vero Stoppioni, uno del reparto – e ci condannarono a morte”. La sentenza sarebbe stata eseguita solo se altri si fossero distaccati dalla Brigata. “Siamo vissuti – continua - per tre mesi a Spinello ( frazione di Santa Sofia che dista 3 kilometri da casa mia) in questa situazione. Se ci prendevano i fascisti ci impiccavano, se ci prendevano i tedeschi peggio che mai. Dovevamo stare attenti anche ai partigiani “ortodossi” poiché potevano farci fuori loro”. (1) A noi delle montagne sfuggiva la strategia: i partigiani comunisti provocavano feroci rappresaglie con azioni terroristiche contro i tedeschi per 2 aizzare contro di loro la popolazione; i tedeschi con la rappresaglia volevano fare comprendere alla popolazione che non ci sarebbe stata nessuna clemenza per i sostenitori dei ribelli. Si innescava così il circolo vizioso infernale. Giorgio Bocca scrive. “ in realtà, e i comunisti lo sanno bene, il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell’occupazione ma per provocarlo, per inasprirlo . Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni le rappresaglie, per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. E’ una pedagogia impietosa, una lesione feroce”. (2) Con l’arrivo e l’arresto del fronte sulla linea gotica i reparti nazifascisti, impegnati a garantire la sicurezza del fronte e delle retrovie dagli attacchi della guerriglia, si renderanno responsabili degli eccidi più efferati ai danni della popolazione civile. Non faranno distinzione tra lotta ai partigiani e popolazione civile. Due terribili stragi su tutte: Sant’Anna di Stazzena (12 agosto 1944, 560 vittime) e Marzabotto (29 settembre -5 ottobre, 770 vittime). Interessante, per folle che possa sembrare, l’opinione di Kesserling relativamente a queste vicende. Nelle sue memorie “sosteneva che i tedeschi agivano secondo dettami della legge militare mentre i partigiani contro il diritto internazionale. Lui soldato, i partigiani delinquenti. Mascalzoni che effettuano imboscate, compivano atti di sabotaggio di ogni genere, omicidi, impiccagioni, morti procurate per annegamento e assideramento, scottature e crocifissioni, nonché brutali crimini contro l’umanità, per non parlare dell’avvelenamento dei pozzi. In definitiva per Kesserling: chi portava un’uniforme militare era autorizzato a qualsiasi azione militare; chi difendeva il proprio territorio da un esercito nemico spietato, era un delinquente”.(3) Lo studioso aggiunge il nome delle unità tedesche che si “distinsero” per la loro ferocia, per non dimenticare: il battaglione d’addestramento da montagna Mittenwald, il reparto di addestramento da montagna SS, la 135° brigata da fortezza , ma soprattutto la 16° divisione meccanizzata “Reichfuhrer” SS, fra cui spicca il reparto esploratori al comando del Maggiore Walter Reder” (4) 3 Note sulla Brigata Garibaldi che operò nei nostri monti Il “ritornare” sul tema della Resistenza è quasi “rivivere” il tempo dei miei 82 anni di vita: fanciullo , studente, docente di storia, ormai al tramonto. Le osservazioni che seguono sono un chiarimento a me stesso di una realtà infinitamente più grande … che sento, nel tempo, diversamente “mia”… a partire dai luoghi delle mie radici. Occorre ricordare che vanno distinte due fasi della resistenza dei partigiani della Brigata Garibaldi nei nostri monti: la prima sotto il comando di Libero, la seconda sotto quello di Pietro. Sotto il comando di Pietro avviene lo sterminio della Brigata durante il feroce rastrellamento nazifascista (12-20 aprile 1944) e la ricostruzione della Brigata in giugno. Rinasce con forte connotazione politica comunista, consolidata dalla pretestuosa fucilazione di Libero. A questa seconda fase risalgono i miei ricordi, il passaggio del fronte e la liberazione di Santa Sofia. Tratterò la prima fase nell’articolo su Libero. 2. Dal mito all’anti mito, ad una lettura più complessa della Resistenza. Nel 1976 ero docente al Liceo Fermi e all’entrata della scuola campeggiava una enorme scritta: La Resistenza è solo rossa. Segno evidente del mito e insieme la critica ai “matusa” del PCI che avevano fatto la Resistenza. I giovani del ‘68 ritenevano infatti i compagni del PCI “traditori” di quella folata rivoluzionaria per altro presente solo in alcune frange di partigiani comunisti. Nel primo decennio del 2000 mi sono trovato a leggere i libri di Pansa gran picconatore del mito. Ricordo “Sangue dei vinti”, la “Grande bugia”e “Sconosciuto 1945”, I Gendarmi della memoria”. Venivano “ridimensionati” quando non sbugiardati storici di sinistra come Giorgio Bocca e Giovanni De Luna, Nicola Tranfaglia, Sergio Luzzato, Angelo D’Orsi e tanti altri, definiti “esorcisti” nella Grande Bugia … Così Pansa andava ben oltre Claudio Pavone e al revisionismo di De Felice, studiosi questi ultimi che avevano accompagnato le mie lezioni di storia. Ne fui coinvolto. Quello che sostiene Pansa per qualcuno si tratta di “di rovescismo”: i vinti appaiono le vittime, i vincitori i carnefici.(5) Sbiadita l’egemonia 4 culturale comunista con la caduta del muro di Berlino, anche il mito della Resistenza “opera solo dei partigiani” e “solo rossa” affondava inevitabilmente. Ma anche l’anti mito, imperversante nell’ultima decade del Novecento e nel primo decennio del 2000, ormai perde le ali. E allora dopo 70 anni possiamo guardare indietro con maggior serenità ricuperando quella che fu taciuto o falsificato o “rovesciato”. Essendo la storia per natura –al di là delle date dei fatti e dei nomi – sempre rivedibile, possiamo allargare l’orizzonte del nostro conoscere e “recuperare “ elementi qualificanti il quadro. Senza pretendere di aver capito e detto tutto. 2.1 Il mito della Resistenza è stato in gran parte opera dei Comunisti che misero il cappello sulla Resistenza fino agli anni ’90. La ragioni della costruzione del mito? La parte più consistente dei partigiani era legata all’ideologia comunista, senza credere che il colore fosse per tutti egualmente rosso. Il socialismo reale sovietico poi faceva sognare, alla frangia della sinistra, una rivoluzione sociale. Con la vittoria della DC del 1948 il sogno fu costretto a ”seppellire le armi” e si gridò al tradimento della Resistenza. Il terrorismo rosso degli anni settanta, non a caso, si rifaceva proprio a questo tradimento ricuperando “le armi sotterrate” dalla parte più rossa del movimento comunista. Si contestava anche il “realismo di Palmiro Togliatti” che, con la svolta di Salerno del marzo ‘44, aveva portato all’intesa dei partiti antifascisti con Badoglio e la monarchia contro in nazifascismo, con l’amnistia del 1946 “aveva amnistiato gli italiani dal passato fascista e “guidato il Pci nella via democratica, e con l’accettazione dell’articolo 7 in Costituzione aveva contribuito alla pacificazione civile -religiosa del Paese. La costruzione del mito resistenziale – scrive Angelo D’Orsi – “avviene fin dai primi anni della Repubblica: La divisione in due Italie, un’ esaltazione acritica e priva di mediazioni del significato dell’attività dei resistenti, la loro dilatazione numerica attraverso la qualifica di partigiano o oppositore al regime fascista a chi non la meritava, l’estensione dei benefici di legge a coniugi e figli in modo spesso meramente clientelare e così via, una semplicistica contrapposizione fra buoni e cattivi, mentre una cortina di fumo 5 vagamente leggendario attorno al 25 aprile (l’epica antieroica di un Fenoglio cominciò ad essere conosciuta e apprezzata solo dopo gli ultimi anni Sessanta e i Settanta), con la connessa agiografia dei partigiani, dei loro capi, delle loro imprese. Tutto ciò , in generale, in una misconoscenza dei dati, dei numeri, delle situazioni, tanto da parte dei denigratori , quanto da quella degli apologeti. Del resto dati e numeri furono disponibili parecchi anni più tardi”.(6) 2. 2 L’antimito Il crollo del socialismo reale è l’atmosfera adatta per fare prevalere una rilettura “critica”, detta anche revisionista, del fenomeno resistenziale. Gli studi di Renzo De Felice tracciano la strada già a metà degli anni ’70. I suoi allievi forzano l’antimito, fino alla Grande Bugia di Pansa. Il “Sangue dei vinti” infatti mette in luce gli orrori taciuti dalla vulgata della Resistenza definita nell’altro suo testo “La grande bugia”. I ragazzi di Salò paiono le vittime? C’è il rischio. Se come insegnante ero stato attratto dalla lettura defeliciana della Resistenza e dalla visione critica del volume “ Una guerra civile” di Claudio Pavone , ormai in pensione sono stato coinvolto dalla “rilettura” di Pansa … La storia è sempre in qualche modo un’interpretazione dei fatti e cambia col cammino dell’uomo nel tempo. Gli studi di De Felice vengono alla luce prima del crollo del miro di Berlino del 1989, quelli di Claudio Pavone dopo, nel 1991. La novità di questi studiosi “critici” della “vulgata resistenziale” era la provenienza degli autori dalla militanza comunista. Anche il giornalista storico Gianpaolo Pansa proveniva dalle file del Pci. Nell’opera di Claudio Pavone troviamo moltiplicata per tre quella particolare guerra che si combatté in Italia fra l’8 settembre del ’43 e il 25 aprile del ’45: una guerra nazionale come liberazione dal nazifascismo; una guerra sociale che punta alla liberazione dal nemico di classe in cui c’è l’ansia di una giustizia per i poveri, gli oppressi, per i senza voce e la speranza del cambiamento politico e sociale … il cosiddetto “vento del Nord” che viene meno con la vittoria della DC del 1948; una guerra civile: italiani contro italiani. 6 Il discorso revisionista rischia di spostare l’attenzione dall’azione alla ritorsione, per mostrare l’insipienza politico – militare delle formazioni partigiane che finivano per scagionare i nazifascisti che non facevano che “replicare“ ad atti insensati di violenza? La polemica sull’attentato di Via Rasella del marzo 1944 è emblematica. C’è chi lo ritiene azione “terrorista” e chi lo legittima in quanto atto di belligeranza contro l’invasore. E sono corsi fiumi d’inchiostro dall’una e dall’altra parte. 3.Perplessità su via Rasella. Anzitutto solo la parte comunista della Resistenza romana volle l’attentato. Inoltre non si dice che i tedeschi uccisi in via Rasella erano “italiani”. I gap romani non lo sapevano? Interessante quanto dimostra lo storico Lorenzo Baratter in Le Dolomiti del terzo Reich, 2005. Le SS uccise nell’attentato non erano SS, ma sudtirolesi costretti dal Fhurer ad arruolarsi “come volontari”. Dopo l’8 settembre il Sud Tirolo era stato annesso infatti alla Germania nazista. Gli uccisi non avevano partecipato alla deportazione degli Ebrei di Roma. I superstiti si rifiutarono di prendere parte alla rappresaglia e vendicare i commilitoni uccisi. Nel 1946 nella conferenza di Pace di Parigi , la delegazione italiana presentò un memoriale in cui del III battaglione Bozen si dice: “Unità di questo reggimento furono impegnate anche a Roma nei famosi rastrellamenti che ebbero luogo nel ’43 - ’44”. Ad opera del “Bozen” dunque un migliaio di ebrei romani sarebbe stato deportati nei campi di sterminio del III Reich. Rilevante la grave distorsione della verità: “La discordanza di date , tuttavia, è evidente. Il 18 ottobre del 1943 gli uomini del Bozen si trovavano a mille chilometri dalla capitale nella caserma di Gries”. (7) Vedrei volentieri sui libri di Storia un cenno almeno al dramma del III battaglione Bozen. Oltre l’atto di belligeranza della Resistenza e la tragedia terroristica della rappresaglia alle Fosse Ardeatine, si dica chi erano gli uccisi di via Rasella e come si comportarono i commilitoni sopravissuti. Erano italiani vittime prima del Fascismo, poi del nazismo. Volontari “forzati”, disprezzati dai tedeschi, ma non si piegano alla richiesta di vendicare i morti del loro battaglione 7 uccidendo innocenti. Sono loro stessi resti degli uccisi in via Rasella furono germanico sulla via Pontina, dove nemmeno una targa di riconoscimento. vittime innocenti. Persino i “dimenticati” in un cimitero giacciono tuttora senza (8) Ancora oggi l’immagine del “Bozen” viene accostata a quella dei peggiori criminali nazisti. E questo è possibile quando si fa uso politico della storia. Scrive Pierangelo Giovannetti: “Davano fastidio sia destra sia a sinistra. Per l’iconografia della Resistenza erano SS di Kappler. Per la destra erano “italiani” diversi, in quanto Sud tirolesi. Così per decenni non ci fu nemmeno una lapide che indicasse i loro nomi. Né alle vedove o alle famiglie fu corrisposta un aiuto, una pensione, un riconoscimento. Solo un foglio di carta pergamena , vergato a mano con inchiostro di china, ne ricorda l’esistenza. Fu apposto alle pareti del santuario mariano di Pietralba dagli stessi sopravissuti: “In ricordo dei nostri compagni caduti a Roma il 23 marzo 1944”(9) 3.OGGI Al di là del mito, dell’anti mito e persino del cosiddetto “rovescismo”, il nostro sguardo si apre ad un orizzonte più vasto. Il termine Resistenza anzitutto non comprende solo la lotta armata delle forze partigiane dell’Italia del Nord. La Resistenza prende il via prima nell’esercito, poi nel movimento partigiano nel territorio nazionale. Nella Divisione Acqui a Cefalonia si consumò una strage che da sola assomma più vittime di tutte le stragi naziste commesse in Italia dal ’43 al ’45. I soldati con i loro ufficiali si rifiutarono di consegnare le armi ai tedeschi. Preferirono morire per la patria, nel settembre del ’43, pochi giorni dopo l’8 settembre. (10) Sono militari resistenti anche i 600 mila prigionieri che si rifiutano di entrare nell’esercito di Salò. Reparti di militari in Grecia, in Albania si unirono ai partigiani locali contro i nazisti. In Corsica come in Francia molti nostri soldati gridano con i fatti il no al nazismo. Il mito resistenziale ha emarginato l’apporto dei militari che numerosi si oppongono ai Tedeschi dopo l’8 settembre. 8 Inoltre anche migliaia di carabinieri fecero la Resistenza. In 2mila finiscono deportati in Germania, in 6 mila entrano in clandestinità. Molti raggiungono il Sud, molti restano a Roma a combattere i tedeschi fondando il Fronte clandestino dei carabinieri. Lo guida il generale Caruso che , nel 1943 in pensione, vedendo i vertici militari fuggire , rientra in servizio da clandestino. Senza dilungarci ricordiamo come il martirologio dei carabinieri italiani nella lotta per la liberazione sia impressionante: 2735 sono i caduti, i feriti 6521. Noto è il sacrificio di Salvo D’Acquisto, che si fa uccidere a 22 anni per evitare la rappresaglia per un attentato che non ha commesso. Ma vanno ricordati anche i tre carabinieri di Fiesole. I tedeschi, in difficoltà per l’avvicinarsi degli Alleati, accorgendosi che i carabinieri sono spariti, ritengono che siano con i partigiani. Il loro comandante, Giuseppe Amico, è infatti il capo della Resistenza di Fiesole. Sospettato di aiutare i partigiani, viene condotto con altri al passo del Giogo sulla linea gotica. Riesce a fuggire e si unisce ai partigiani e invita i suoi tre carabinieri di Fiesole a seguirlo. I tedeschi che si sentono in trappola per la vicinanza degli Alleati, emettono un bando: tutti gli uomini tra i 17 e 45 anni devono presentarsi. I renitenti saranno passati per le armi. Tra coloro che si presentano 10 vengono chiusi nel sottoscala dell’albergo Aurora. In caso di attentati verrebbero fucilati. Il tenente Hiessich, accortosi della fuga dei carabinieri, grida che farà uccidere dieci ostaggi se i carabinieri non si consegneranno: “ O saranno fucilati loro, o saranno fucilati i civili”. Il 12 agosto 1944 , in una bellissima giornata di sole, i tre carabinieri vanno incontro alla morte. Hanno deciso di presentarti al comando tedesco pur sapendo quello che li attende. Sono lì solo per salvare la vita dei dieci ostaggi. Vittorio Marandola, Fulvio Sbarretti e Alberto la Rocca vengono chiusi nello stesso seminterrato degli ostaggi. Tre quarti d’ora dopo , i dieci ostaggi sentono i carabinieri gridare: “Viva l’Italia” … subito dopo raffiche di mitra e colpi di pistola. (11) 9 3.1 “Donne e uomini della “resistenza” Il cap. XI “Roma liberata” - del libro “Possa il mio sangue servire” di Aldo Cazzullo, Rizzoli aprile 2015 – mette in luce come la storiografia abbia oscurato personaggi e movimenti di Resistenza diversa da quella fissata nella memoria nazionale. Significativamente il libro porta, come sottotitolo, Donne e uomini della Resistenza”. L’orizzonte della nostra resistenza si estende oltre la lotta armata del Nord Italia. Scrive l’autore: “ Gli uomini e le donne della Resistenza avevano ragione . Fecero la scelta giusta, schierandosi contro l’invasione nazista e i suoi collaboratori. Combatterono la buona battaglia. Eppure quest’ovvietà, mai messa in discussione in nessuno dei Paesi occupati da Hitler durante la seconda guerra mondiale, in Italia non viene accettata. La Resistenza a lungo è stata considerata, con qualche eccezione, come “cosa di sinistra”, una ”roba da comunisti”: fazzoletto rosso e Bella Ciao. Poi, negli ultimi dieci anni, i partigiani sono stati presentati come carnefici sanguinari, che si accanirono su vittime innocenti, i “ragazzi di Salò”. Entrambe queste versioni sono parziali e false. La Resistenza non è il patrimonio di una fazione. Fu fatta certo dai partigiani comunisti, ma anche da quelli cattolici, socialisti, giellisti, liberali, monarchici, apolitici. E fu fatta dalle donne, dai militari, dagli ebrei, dai civili. Ci furono bande composte da carabinieri, altre da alpini. I primi a resistere furono i soldati che presidiavano l’isola greca di Cefalonia, fucilati per essersi opposti ai tedeschi. Furono resistenti la maggior parte degli 810 mila soldati italiani fatti prigionieri all’indomani dell’8 settembre ’43. Di questi infatti, 94 mila decidono di schierarsi con Salò. Altri 103 mila cederanno alle pressioni dei reclutatori fascisti nei campi. Resistettero in 615. 813, secondo un dato del 1944: scelsero di restare nei lager a patire la fame e le botte piuttosto che andare a Salò a uccidere altri italiani. Resistettero le migliaia di soldati che si batterono e morirono al fianco degli alleati per liberare la patria dai nazisti.” (12) Tra i militari prigionieri e internati troviamo Giovanni Guareschi, l’inventore di Peppone e Don Camillo. Nel Diario Clandestino 10 1943 - 1945 racconta “le pressioni operate dalle lettere delle madri, dei padri, delle mogli, dei figli o delle fidanzate” che esortavano gli internati ad aderire a Salò. Molti cedono “Perché convinti che questo rappresentasse il loro tornaconto” “perché innamorati”, “perché malati gravemente, o vecchi, avevano certezza di essere posti in congedo e rimandati a casa”,”perché con la famiglia in disperate condizioni economiche o esasperati dal non ricevere notizie della famiglia stessa – volevano comunque arrivare in Italia e rivedere i loro cari oppure procurare loro qualche aiuto finanziario”, “perché suggestionati dalla propaganda o dai compagni” , “perché avevano paura dei tedeschi”. Dopo il ritorno in patria, 15 mila disertori – commenta Aldo Cazzullo - abbandonano le divisioni della Repubblica sociale addestrate in Germania, in particolare l’Italia e la Littorio: sono quasi tutti ex internati, che fuggono in montagna o tentano di raggiungere le linee alleate. (13) 3.2 Resistono suore. Resistettero suore e sacerdoti che protessero e nascosero i partigiani. Avrebbero preferito restare tranquilli per i fatti loro, ma messi di fronte a una scelta fecero quella più rischiosa, e aiutarono quei ragazzi che avrebbero potuto essere loro figli, a volte a prezzo della vita. Colpisce il capitolo “Arrestate quelle suore” nel testo di Aldo Cazzullo. Originale esempio di resistenza offre suor Enrichetta: beata per la chiesa, medaglia d’argento per la Repubblica italiana. Incarcerata dai tedeschi per aver solidarizzato con i resistenti in carcere scrive: “ Per tanta marea di ingiustizie, di oppressioni e di dolori, Signore, abbi pietà del povero mondo e di questa nostra carissima, distrutta Patria, e fa che dalle sue macerie intrise di lacrime e di sangue purificata risorga presto bella, più laboriosa e forte …” Dopo il 25 aprile è liberata e sceglie di tornare a San Vittore, dove ora sono rinchiusi i suoi persecutori: gerarchi e funzionari fascisti, ausiliarie di Salò. Al processo di beatificazione aperto dal cardinal Martini nel 2011 c’e la testimonianza di Indro Montanelli, un giornalista che aveva attraversato il fascismo ed era stato condannato a morte da Salò: “ 11 Suor Enrichetta era una stupenda figura di religiosa. Una suora buonissima e coraggiosa. Le sarò grato per sempre. Io ero al quinto raggio, quello degli isolati, non avrei potuto vedere nessuno. Invece, grazie a suor Enrichetta, attraverso un intrico di corridoi e di cunicoli, riuscii per tre volte ad incontrare mia moglie, anche lei imprigionata e condannata a trent’anni. Tutti noi ricevevamo, grazie alla sua regia, bigliettini e informazioni . Così grande era il conforto di quegli incontri furtivi, così immensa la gratitudine per chi con grande rischio personale li rendeva possibili, che ancora oggi il ricordo di suor Enrichetta e della sua veste frusciante suscita in me la devota ammirazione che si deve ai santi o agli eroi. In questo caso, a entrambi” (14) Un esempio tra i tanti che infiorano il capitolo. Numerose infatti sono le suore che aiutano partigiani, salvano ebrei dalla deportazione . Solo in Roma, secondo la ricerca di suor Grazia Loparco, sono 133 i conventi femminili che nascondono ebrei e antifascisti. A Milano la superiora Madre Rosa Chiarini, superiora della casa di Nazareth, ospita un capo partigiano cattolico, Enrico Mattei, il futuro fondatore di Eni. A Torino suor Giuseppina De Muro riuscì a liberare 500 prigionieri in blocco. 3.3 Resistono sacerdoti Tra il 1943 e il 1945 furono assassinati in Italia 400 tra sacerdoti e monaci. Chi furono gli assassini? I compagni comunisti? Alcuni dei quali, è vero, si macchiarono di orribili delitti, in particolare in Emilia. Ma furono molto di più i preti uccisi dai tedeschi (120) e dai fascisti (190). Dell’accanimento delle camicie nere è testimonianza esplicita il resoconto a Mussolini del ministro dell’interno della Repubblica sociale Buffarini Guidi: “Alla cordialità del clero per il fascismo si è sostituita una gelida distanza, e spesso gesti di aperta ostilità”. A volte i preti scelgono apertamente la Resistenza: Don Comensoli nel Bresciano, don Mazzolari e don Scagliosi nel Mantovano animano le prime bande; don Pasquino Borghi, parroco di Scandiano, sopra Reggio Emilia, nasconde i partigiani nella canonica: arrestato, percosso, fu fucilato tra il 29 e il 30 gennaio del 1944. Atri sacerdoti si sacrificano per salvare o assistere la 12 loro comunità. Come don Ferrante Bagiardi parroco a Castelnuovo dei Sabbioni, nella diocesi di Fiesole. Il 4 luglio 1944 i tedeschi radunano nella piazza del paese 74 ostaggi. Don Ferrante ne chiede la liberazione. Di fronte al rifiuto dell’ufficiale nazista si unisce a loro , impartisce l’assoluzione e rassicura gli ostaggi: “Vi accompagno io davanti al Signore” e muore con loro. Così muore, nella stessa diocesi, don Giovanni Fondelli, parroco di Meleto. Nel 1944 nella provincia di Arezzo furono uccisi 17 sacerdoti e un seminarista. Nell’eccidio di Stazzena muore don Innocenzo Lazzeri, il parroco di Farnocchia, medaglia d’oro al valor civile, che offre invano la propria vita per salvare altri innocenti. Prima di cadere mostra alto ai carnefici il corpo straziato di un bambino. Il parroco di Stazzena, don Fiore Menguzzo, viene impiccato con tutta la sua famiglia. Il settembre 1944 sull’Appennino è ancora più terribile per i religiosi toscani. Il 2 all’abbazia di Farneta vengono fucilati dodici monaci certosini, il 7 è ucciso il priore della certosa di Montenagno, padre Martini Binz insieme col vescovo venezuelano Salvador Montes de Oca. Altri dieci certosini saranno fucilati nel massacro del Frigido, insieme con 160 ostaggi tra cui quattro sacerdoti. Il calvario dei sacerdoti ad opera dei nazifascisti s’allarga alle altre regioni del Nord. Ne abbiamo ricordato alcune vittime sulla “linea gotica”, l’ultima frontiera prima del crollo definitivo dei nazisti in Italia. Il martirologio in Piemonte non è meno impressionante. Nella strage di Boves muoiono don Giuseppe Bernardi e don Mario Ghibaudo. Il 24 agosto don Costanzo Demaria seviziato e ucciso il 14 settembre. Sono troppi i sacerdoti del Nord Italia vittime dei nazifascisti. Sarebbe impossibile, racchiudere in poche pagine il contributo che i sacerdoti italiani diedero alla Resistenza. Sarebbe disonesto anche no ricordare che, prima e soprattutto dopo la liberazione, oltre cento preti furono assassinati da partigiani comunisti per odio ideologico. Alcuni si erano schierati con Salò, molti avevano “sola la colpa” di indossare la veste. La furia omicida colpì un seminarista di 14 anni, Rolando Rivi, ucciso a Modena nell’aprile del 1945. (15) 13 3. 4 Resistenza dei civili La Resistenza comprende anche gli operai delle fabbriche. Scrive il New York Times il 9 marzo dando la notizia dello sciopero generale del 1 marzo del 1944: “ In fatto di dimostrazione di massa non è mai avvenuto nulla di simile nell’Europa occupata che possa assomigliare alla rivolta degli operai italiani. Lo sciopero è il punto culminante di una campagna di sabotaggi, di scioperi locali e di guerriglia che sono meno conosciuti dei movimenti di resistenza degli altri paesi perché l’Italia del Nord è rimasta più di altri tagliata fuori dal mondo. Ma è una doppia schiavitù, sanno combattere con coraggio e con audacia quando hanno una causa per cui combattere.” ( 16) Si calcola che lo sciopero abbia mobilitato mezzo milione di persone. Se la risposta fosse stata debole, la repressione sarebbe stata spietata. Ma 500.mila manifestanti non si possono deportare. Fin dai primi giorni di occupazione è la grande maggioranza degli italiani a rifiutare di collaborare con i nazisti. Gli imprenditori dichiarano “indispensabili alla produzione bellica” anche operai che non lo sono; i medici rilasciano certificati di malattia, rischiando in prima persona; i ferrovieri rallentano la corsa dei treni, per consentire ai prigionieri di saltare giù e nascondersi. E il progetto tedesco di portare un milione di lavoratori coatti in Germania fallisce. Le autorità fasciste riconoscono che la popolazione civile è contro di loro. Da Bologna, da Genova, da Rovigo, da Imperia, da Padova corale è l’ammissione dei rapporti al ministero degli Interni della RSI: gli Italiani vedono con ostilità il nazifascismo. L’attività ribellistica è ovunque viva. Anche le scuole e le Università a cominciare da quella di Padova, chiusa dal rettore Concetto Marchesi. Prima di partire per la Svizzera scrive agli studenti: “Non posso lasciare l’ufficio del Rettore senza rivolgervi un ultimo appello. Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra patria. Traditi dalle parole, dalla violenza, dall’ignavia, dalla servilità criminosa, voi insieme alla gioventù operaia e contadina dovete rifare la storia dell’Italia e costituire il popolo italiano”. Nell’Università di Padova 116 saranno tra professori, 14 assistenti e studenti i caduti nella guerra di liberazione. Sulla Rivista “Italia e civiltà” Enrico Sacchetti mette in dubbio la sincerità dei docenti nel giurare fedeltà al regime: “Non facciamoci illusioni: in questi ultimi tempi siamo vissuti immersi fino al collo in una colossale truffa. Non bisogna ignorare e dimenticare che i più dei professori d’Università avevano, a suo tempo, giurato tranquillamente il falso dopo che per anni avevano tutti i giorni invitato i loro alunni a infischiarsene allegramente dei sogni di grandezza mussoliniana e a irriderli; e che i più dell’ordine medio hanno fatto altrettanto”.(17) Certo non tutti i soldati accettarono la reclusione in Germania, non tutte le reclute salirono in montagna, non in tutte le Università si ha lo stesso livello di opposizione alla RSI. Mussolini diceva di poter fare affidamento su un esercito di 400.000 uomini, sommando tutti i vari corpi, compresa la guardia nazionale. Ma gli italiani davvero disposti a battersi per il fascismo morente sono molto meno. Anche tra gli intellettuali tuttavia un ceto numero aveva seguito Giovanni Gentile che scelse Salò. 3.5“Alleanza inattesa” … nei nostri monti. Nella terra in cui vissi ragazzo, a monte di Santa Sofia e di Bagno di Romagna, nacque anche un’altra forma di resistenza. Siamo nella prima fase della resistenza partigiana sui nostri monti. Lo storico Roger Absalon parla di “alleanza inattesa” tra mondo contadino e prigionieri alleati in fuga dopo l’8 settembre 1943. E’ un argomento poco conosciuto, parlando del comandante Libero si capirà meglio anche il perché. Contadini ospitano, con grave rischio di essere scoperti e mandati a morte, soldati e ufficiali alleati fuggiti dalle prigioni di Anghiari e di Firenze dopo l’8 settembre del ‘43. Trovano rifugio prima presso i monaci di Camaldoli, poi presso contadini nelle vallate dell’ Alto Bidente: nella parrocchie di Ridracoli ( Seghettina); Casanova dell’Alpe (poderi: Fiurle, Romiceto, Valdora, Castelluccio, Casone), Strabatenza (poderi: Mulino, Vinco, Trappisa, Bottega, Ponte, Casaccia, Cetoraia, Casina, Mulinaccio, Ponte); Poggio alla Lastra (poderi: Mulino del Ponte Vecchio, Casone, Ca’di Veroli, Valcupa, Molino, Pratolino, Raggiolo); Rio Salso. Località del Comune di Bagno di Romagna, lungo le valli 15 del Bidente che sfociano in Santa Sofia. I contadini sfidano il divieto di Kesserlig del 21 settembre del 1943 che minacciava la condanna a morte per chiunque avesse aiutato i soldati alleati evasi. Disposizioni inasprite dal bando del comando di Forlì che minaccia la fucilazione per chi ospita o protegge o fornisce vestiario e alimenti ai “banditi”, incendio di case ove vengano commessi attentati contro i soldati tedeschi o italiani. In queste vallate trova rifugio un numero cospicuo di soldati sbandati stranieri. Arrivano anche una decina di generali inglesi ed Generali inglesi una quindicina di ufficiali di grado diverso, fuggiti dal Campo n° 12 del Castello di Vincigliata, vicino Firenze. Fanno parte di questo gruppo il Tenente Generale comandante in capo e governatore della Cirenaica sir Philip Neame; il Maresciallo dell’aria Owen Tudor Boyd, della RAF; il Tenente generale Dick O’Connor, specialista della guerra nel deserto, che aveva condotto l’avanzata inglese sul 16 fronte marmarico nel dicembre ’40; il suo aiutante di campo, Tenente T. Daniel, conte di Ranfurly e “pari” d’Inghilterra; il Generale neozelandese James Hargest, il Maggiore generale Gambier Parry; i Generali di brigata D.A. Stirling, E.W. Vaugham, J.F.B. Combe, J. Todhunter e B. F. Armstrong; i Capitani J.T. Ferguson, A.P. Spooner, J. Kerints, G. Ruggles-Brise; ci sono anche un capitano americano e alcuni soldati neozelandesi. (17 bis) Militari e generali furono protetti dai partigiani e ospitati dai contadini delle valli: li accolsero nelle loro case, li sfamarono e li sottrassero più volte ai rastrellamenti. Le vicende di questo episodio - poco conosciuto - sono raccontate nel volume La Romagna e i generali inglesi (1943-1944);Gli Alleati salvati dai patrioti, nella storia dei luoghi e della prima resistenza Romagnola, a cura di E.Bonali e D.Mengozzi (Milano, Angeli 1982). In esso è riportato anche il diario, scritto in quei giorni, dal tenente generale Philip Neame - uscito a Londra nel 1946 col titolo Playing whit Strife. The Autobiography of a Soldier - che si sofferma a lungo sulle persone che permisero a lui e agli altri inglesi di sopravvivere in luoghi impervi: “Di una cosa, scrive, eravamo assolutamente certi: che nessun contadino italiano di queste colline ci avrebbe mai traditi, per danaro o per minacce”. Boyd, Neame e O’Connor, grazie alla “trafila” della Resistenza e dei servizi segreti, il 30 ottobre del ‘43 riuscirono a raggiungere Pesaro per unirsi poi al Comando alleato. Altri rimasero in Romagna fino a marzo per coordinare il sostegno agli ex prigionieri e per tenere i contatti con la nascente formazione partigiana. Tra questi Combe e Tedhunter. Contro tedeschi e fascisti, già nell’inverno del ’43, si stavano formano infatti formazioni partigiane, inquadrate nella Brigata "Garibaldi” di Romagna, sotto il comando di Libero. Pongono le loro basi nelle impervie valli scavate da Bidente che dalla dorsale appenninica scende verso Santa Sofia: tre valli parallele che prendono il nome dalle frazioni di Pietrapazza - Strabatenza, di Ridracoli e di Corniolo. Solo quest’ultima, che scende dal Falterona, è percorsa da una carrozzabile costruita negli anni ’30. Le altre sono raggiungibili solo con mulattiere che innervano una fitta maglia di poderi. In questo territorio impervio, boscoso, di difficile 17 accesso, trovano una popolazione di contadini predisposta all’ospitalità e alla solidarietà. Grazie alle schede ASC ( Allied Screening Commission (Italy)(Commissione alleata di verifica) veniamo a conoscere la storia di tanti militari britannici, neozelandesi, australiani, maltesi, sud africani ecc.. La loro storia riemerge grazie a queste schede, utilizzate dallo storico Roger Absalon e consegnate -fine anni 70 - all’Istituto storico di Urbino. Con mia sorpresa vengo a conoscere che famiglie vicine alla mia, in parte con noi imparentate, accolsero in casa per mesi soldati inglesi. Presso la zia Colomba nel podere dei Sassoni, poche centinaia di metri sotto la nostra casa, a lungo sono stati ospitati militari alleati evasi. Anche a Ciscolina, ancora più vicina, ma sopra di noi, c’era un’altra base sicura per i militari stranieri alleati. Siamo nel territorio di Spinello, frazione del comune di Santa Sofia. Le due case citate fanno parte della rete di case di contadini sparse per questi nostri monti che aiutano soldati alleati ex prigionieri. Quasi 60 famiglie, senza contare quelle che non hanno richiesto alcun rimborso, riuscirono con l’apporto corale delle donne e dei bambini a creare, durante i lunghi mesi del passaggio del fronte, una perfetta catena di sussistenza e di copertura. Un’attività resa ancora più pericolosa se si considera che alla Casaccia di Strabatenza si era insediato il comando della Brigata Garibaldi. Quelle famiglie riuscirono a destreggiarsi tra nazifascisti, partigiani, spie, sfollati e soldati in fuga, cercando di evitare alle loro case e ai loro cari rappresaglie sanguinose. Di questi contadini cooperanti - scrive Oscar Bandini -: “Volti e nomi di contadini, boscaioli, preti di campagna, possidenti che, salvo rare eccezioni, non hanno mai ricevuto dall’Italia nata dalla Resistenza , un attestato di riconoscenza. (…) Restano le citazioni nei libri e nei diari, le note a piè pagina di alcuni saggi, le lettere di tanti militari, che a distanza di anni, hanno inviato alle famiglie che li avevano ospitato a rischio della vita. Restano infine le schede dell’ASC, il timbro formale del loro apporto nella salvezza di centinaia di militari alleati in fuga verso la libertà”.(17 tris) 18 La prima fase della Brigata Garibaldi guidata dal comandante Libero non ha ricevuto il riconoscimento meritato. Il perché verrà chiarito nel prossimo articolo. L’interesse economico è alla base dei cooperanti contadini? Certo le ragioni politiche si mescolano con le ragioni economiche e ragioni morali. Ma il rischio corso non valeva l‘utile sperato dai contadini che sognavano di alleggerire la loro povertà. A questo punto, allargando lo sguardo a tutto il Centro Nord Italia, viene da chiedersi quale sia la consistenza della tesi dell’attendismo di cui parla Renzo De Felice. Secondo l’illustre studioso la via scelta dagli italiani (’43- ’45) era né appoggiare, né contrastare, ma “attendere”. E’ vero che i partigiani creavano disturbo e disagio specie alla gente di montagna quando si sequestrava il bestiame o si chiedeva soldi, ma i rastrellamenti nazifascisti erano infinitamente più temuti. Noi bambini avevamo paura solo nel vedere un tedesco. E’ vero anche che molti, per convenienza, divennero partigiani il 25 aprile! Scrive Bocca: “Ai primi di marzo l’esercito partigiano ha 80 mila uomini; a metà aprile 130.000; nei giorni dell’insurrezione saranno 250-300 mila a girare armati e incoccardati”.(18) E’ vero, non pochi furono i simpatizzanti per RSI, ma maggioranza della popolazione era contraria ai nazifascisti. Più che attendismo che suona indifferenza, parlerei di attesa carica di speranza. Parlerei di una resistenza silenziosa carica di paura e di rischi, non scritta nelle storie ufficiali, neppure nei libri di testimonianze, dedicati di solito ai combattenti. Ricorda Aldo Cazzullo: “ Nella Langhe , dove sono cresciuto, i partigiani non erano considerati santi, e neppure particolarmente amati. I contadini avrebbero preferito di gran lunga essere lasciati in pace, anziché rischiare di avere aiutato o anche solo sfamato i ribelli.(…) Però, al momento di scegliere , quasi tutti non ebbero esitazioni a schierarsi con coloro che avrebbero potuto essere, e a volte lo erano, i loro figli.” (19) 4. Pagine nere della Resistenza Sono da ricordare le vendette ed eccessi dei vincitori dopo il 25 aprile. Si è parlato di una “seconda guerra civile” dopo il ’45. Ma è giusto anche ricordare i 45 mila partigiani uccisi, i 20 mila 19 mutilati. Ecco una pagina sul “nero” di partigiani dopo il 25 aprile. Scrive Aldo Cazzullo: “Certo, la Resistenza ha avuto pagine nere. E vanno ricordare anche quelle. I nostri giovani devono sapere che a Porzus, in Friuli, partigiani comunisti assassinarono partigiani cattolici come Guido Pasolini, fratello di Pier Paolo, lo scrittore, e Francesco De Gregori, zio del cantautore che ne porta il nome. Devono sapere che vent’anni di dittatura e venti mesi di spietata guerra civile lasciarono uno strascico di esecuzioni, e anche di vendette. Talora furono regolati conti privati, frutto di torti subiti, di antiche rivalità, di odio sociale, di volontà di arricchimento. In alcune zone, come il triangolo della morte emiliano, gruppi di comunisti che volevano la rivoluzione cominciarono a eliminare i “nemici di classe”: agrari, benestanti, sacerdoti. Altre esecuzioni che oggi sembrano esecrabili, all’epoca apparvero inevitabili, forse persino giuste, prima che l’amnistia Togliatti cancellasse la responsabilità financo delle torture, purché “non efferate e continuate”, e ci furono tribunali che mandarono assolti uomini che evirarono altri uomini, con il pretesto che “non di tortura continuata sio trattò”. Ma i nostri giovani devono sapere anche quel che era accaduto prima. Quando i “vinti” del 25 aprile, schierati con le SS e con la formidabile macchina da guerra tedesca, avevano il coltello dalla parte del manico e lo usavano, mentre i “vincitori “ venivano braccati, torturati, appesi”(20) Ricordo l’atteggiamento di alcuni partigiani comunisti della mia terra. Dopo la sconfitta del fronte social - comunista del 1948, rientrato a casa per le vacanze estive, sentivo in alcune persone sguardi minacciosi … Avevo 15 anni. Un seminarista studente di teologia era stato minacciato dai comunisti. Tirava davvero una brutta aria ben documentata nel detto: “ ogni prete ha il suo albero per l’impiccagione”. Folate di vento di comunisti che mal sopportavano la sconfitta elettorale e la fine del sogno di fare dell’Italia un paese sovietico? Sì, certamente. Non tutti i partigiani comunisti diventarono giustizieri dopo il 25 aprile, ma, forse, più di 18 mila sono le vittime ad opera dei comunisti che nella Resistenza vissero l’ideale stalinista, per altro più immaginato che 20 conosciuto. A questi ”comunisti rivoluzionari” va aggiunto il drappello di giustizieri che hanno usato la vittoria contro il fascismo per sistemare vecchi conti del ventennio fascista e/o del biennio ‘43- ’45 … Questi con i partigiani avevano nulla a che fare. 4. 1 Da ricordare ai giovani Le stragi nazifasciste - come le pagine nere della Resistenza quelle più tragiche si consumarono sulla linea gotica, nella quale operano numerosi partigiani. Vennero perpetrate feroci rappresaglie naziste contro i civili. Alla sosta di Alexander, causa la difficoltà di procedere nell’autunno piovoso e nell’inverno del ‘44 sulla Linea gotica, s’aggiunse l’invito - dello stesso comandanteai partigiani di tornare a casa. La sosta se marca la vittoria difensiva dei tedeschi, segna la scarsa stima degli alleati della lotta armata dei partigiani e offre la possibilità ai nazifascisti di aumentare e potenziare i rastrellamenti dei partigiani ritenuti non combattenti per la libertà della loro patria, ma dei “banditi”. Va ricordato ai giovani che le pagine più nere della Resistenza “comunista” verranno scritte dopo il 25 aprile 1945, in particolare nel triangolo della morte (Bologna - Reggio Emilia – Ferrara) e nelle terre della Venezia Giulia ove l’ideologia rivoluzionaria comunista aveva mostrato la sua ferocia ancora prima con i partigiani di Tito. Si deve aggiungere che le squadre fasciste violente al momento dell’ascesa del fascismo lo furono ancora di più al suo tramonto. Il capitolo Massacri e massacratori del libro di Aldo Cazzullo ricorda le stragi Sant’Anna di Stazzena e di Marzabotto, in cui i fascisti collaborano al massacro operato da Reder; i crimini fascisti della banda Koch, della banda Carità, della X Mas, della legione Ettore Muti. E’ l’ora di togliere dall’oblio anche le pagine nere dell’occupazione italiana nei paesi balcanici: l’occupazione seminò rappresaglie non inferiori a quelle tedesche nell’Italia. Le foibe furono prima “tomba” dei massacri opera dei dominatori fascisti, poi dei titini … e seguì il triste esodo di 300.mila italiani. Il 10 febbraio, giorno della memoria per le sofferenze e il martirio di italiani, va completato 21 col ricordo delle vittime e il martirio delle popolazioni slave per mano degli italiani occupanti. 4. 2 “amnistia dei morti” I 400 sacerdoti o religiosi uccisi, furono più vittime dei nazifascisti che dei partigiani. Caddero, abbiamo detto, in 300 sotto i colpi delle esecuzioni sommarie o delle stragi nazifasciste. Giustiziati per il sospetto di aver aiutato i partigiani, i deportati, gli ebrei. Ma costoro hanno avuto il riconoscimento del loro sacrificio e godono il rispetto dei posteri. Inoltre hanno patito nel corso di una guerra dichiarata. Sono cioè parte di un gioco le cui regole –magari aberranti o applicate con disumanità – erano chiare. L’assassino era anche il nemico che applicava la sua ferocia per limitare le sue perdite . Nelle storie dei 100 e più sacerdoti uccisi da partigiani, salvo pochi casi, la guerra non c’è più. Non c’è un nemico dichiarato oltre il mitra, non si trova una necessità bellica che giustifichi l’assassinio.”E per di più – scrive Roberto Beretta – il sacrificio è stato coperto da una tale fama di onta e di ripugnanza morale che per decenni quasi nessuno ho più osato occuparsene: almeno per scoprire se tale vituperio avesse fondamento oppure no”. Giovanni Guareschi nel novembre del 1946 chiese a De Gasperi e all’ex ministro della giustizia Togliatti un’ amnistia per i morti. “Quanti morti irregolari, quanti morti clandestini sono nascosti nei campi del Nord Italia? Io sento nell’aria agitarsi questo carosello di fantasmi che non possono avere requie … Bisogna ricercare queste spoglie come si cercano i corpi travolti da un fiume in piena. Bisogna ritrovare tutte le vittime di questo fiume di sangue . E ridare a ognuna il suo nome. Bisogna liberare questi morti … Bisogna ritrovarli ad ogni costo. Avete amnistiato chi ha ucciso: perché non amnistiare chi ha pagato con la vita gli errori degli altri?”(21) Con amarezza conclude Roberto Beretta: “Sessant’anni dopo. Possiamo dire che l’”amnistia dei morti” non c’è ancora stata. L’ideologia continua a prevalere, quasi che riconoscere l’obiettiva dignità e persino grandezza delle vittime dei partigiani offuschi il valore della libertà e della democrazia conquistate certo – anche grazie alla Resistenza. La censura si è spinta al punto 22 di abbandonare al nemico ideologico persino alcuni dei propri eroi. Ho trovato infatti, e li elenco in questo capitolo, sacerdoti che figurano come martiri negli elenchi compilati dai reduci della RSI e della morte dei quali invece non è affatto definita la responsabilità, quando essa non sia avvenuta per puro incidente ovvero non sia addirittura assodato che furono ammazzati proprio dai nazifascisti. Militi ignoti caduti dunque in “terra di nessuno” ai quali tocca forse, più di qualunque altro testimone , simboleggiare la parzialità del giudizio degli uomini”. (22) 5.Roberto Vivarelli L’avventura del prof.Vivarelli aiuta a comprendere come un giovane studente, mio compagno nell’Istituto “Missionari della Consolata” – avevo 10 anni, lui 17 – improvvisamente lascia la scuola. Qualche mese dopo, in divisa delle Milizia, ricompare raggiante per salutare i superiori. Scomparso nella voragine della guerra civile o della “bella morte”? Dalla memoria viene fuori solo un cognome … Braschi. Leggendo in ‘ La Grande Bugia” il capitolo ‘Linciaggio’, si capisce il clima in cui ebbe inizio l’avventura del mio compagno di scuola nel ’44 … Ma ancora di più viene a luce come la difesa della patria potesse avere due strade che si scontrano fino a trasformarsi in una vera e propria guerra civile. Chi ha scelto la via di Salò aveva torto, chi ha scelto la via della resistenza aveva ragione. Roberto Vivarelli di famiglia fascista, a 14 anni nel 1944 si arruola nei reparti della RSI. Alla fine della guerra si ritrova tra gli sconfitti. A 16 anni torna al Liceo, cresce e la sua originaria scelta politica cambia. Diventa maestro nella ricerca storica, il più autorevole studioso delle origini del fascismo, alunno di Federico Chabod, curatore delle opere di Gaetano Salvemini, Docente di Storia contemporanea alla Normale di Pisa. Nel 2000 ha 71 anni. Decide di pubblicare un libretto in cui racconta la sua adolescenza in camicia nera. Incontra uno sbarramento di fuoco da storici comunisti. Si sono accorti di avere stimato un ex ragazzo di Salò, non pentito. Ha tenuto nascosto il nefando passato. Il libro di Vivarelli, edito dal Mulino, s’intitola: La fine di una stagione. 23 Memoria 1943- 1945. Qual era la tesi di Vivarelli? Risponde lui stesso nell’intervista al “Piccolo” di Trieste“ del 13 dicembre 2000. “Se dovessi rimettermi oggi nei panni di allora, dovrei onestamente riconoscere che non avrei potuto fare una scelta diversa. E, se non l’ammettessi, sarei un ipocrita. Educazione, sentimenti, mentalità: tutto concorse a indirizzarmi in un certo modo. Volevo rendere testimonianza e mettere in gioco la mia vita. Sia chiaro: mi schierai dalla parte sbagliata. Ma come ho scritto in questo libro, le ragioni della mia vita non coincidono con le ragioni della storia”. Risponde poi a coloro che lo stanno linciando scrivendo, nella Rivista Il Mulino gennaio – febbraio 2001, con l’articolo “La lezione di una diatriba”: “Perché a distanza di oltre mezzo secolo dalla fine della guerra, mi sono deciso a raccontare come io ho vissuto gli anni dal 1943 al 1945, e che cosa mi sono proposto presentando in pubblico il mio racconto? Attraverso la rievocazione di un capitolo doloroso della mia vita che mi è costato non poca fatica esporre , ho voluto in prima istanza sollevare una questione morale: la nostra dignità di persone umane può dipendere dalla parte politica nella quale, spesso in forza di circostanze della vita, ci è capitato in un certo momento di militare? … Intendevo contestare il giudizio sommario che la parte vincente ha imposto nei confronti di tutti coloro che hanno militato nelle file della Repubblica di Salò. I quali , indipendentemente dal loro comportamento individuale, sono stati sbrigativamente bollati come persone moralmente indegne”. (23) Il prof. Vivarelli, già nel 1955, aveva esposta questa sua convinzione. Nella lettera inviata dagli Stati Uniti a “Il Ponte” diretto da Piero Calamandrei, protestava contro un’affermazione di Riccardo Bauer che definiva i combattenti di Salò “non esigue schiere di criminali”. Nella lettera Vivarelli spiegava che aveva militato da adolescente nei reparti della Rsi: “Non ho nessuna vergogna nel denunciarlo, perché so quanto l’animo era puro e quanto di entusiasmo e di buona fede ci fosse in quelle schiere che contavano numerosissimi ragazzi non ancora ventenni, arruolatisi per Salò non certo ‘per criminalità’”. Dunque si doveva sapere che Vivarelli era stato un ragazzo di Salò. Allora cosa disturbava del libro del prof. Vivarelli? Si poteva ammettere la 24 buona fede in tanti combattenti di Salò, ma non piaceva la mancanza di pentimento … Si temeva una dissacrazione della Resistenza? Poteva essere invece un aiuto per capire meglio anche la ‘scelta resistenziale’. Il libro ‘Fine di una stagione’ uscì in libreria l’11 novembre . Il fuoco di sbarramento era già stato scatenato ancora prima della pubblicazione. Il 12 novembre la Stampa pubblicò un’intervista di Alberto Papuzzi a Vivarelli. Il professore non aveva mai nascosto il proprio passato di giovanissimo combattente della Rsi e citava la lettera al ‘Ponte’ del 1955. Aggiungeva inoltre la stima goduta da personaggi come Salvemini, Ernesto Rossi, Mario Delle Piane, Franco Venturi. “ A tutti costoro il mio passato era perfettamente noto, ma non me ne fecero mai una colpa”. Infine andando al cuore del problema Vivarelli disse a Papuzzi: “ Vede io non intendo affatto riabilitare il fascismo … Ma non credo che l’avere militato nella parte che noi oggi giudichiamo giusta conferisca a ciascuno , automaticamente, una patente di nobiltà. Così come non credo che aver militato nella parte sbagliata conferisca una patente di ignominia”. (24) Confesso la mia ammirazione per il professor Vivarelli: testimone di chi ha scelto, adolescente, con chi stare nell’imbrogliato “biennio” della nostra guerra civile ’43-45. Tutto lo portava in quella direzione … Pur sentendomi più vicino a chi fece l’altra scelta, inorridisco a leggere giudizi di storici cattedratici che hanno linciato il prof. Vivarelli. Mi amareggia la squalifica pervenuta da Sergio Luzzatto, già suo allievo alla Normale di Pisa. Nella recensione del libro del maestro sul Corriere della Sera dell’11 maggio 2005, cinque dopo l’uscita del libretto, bolla il professore come l’autore di ‘estemporanea testimonianza da nazifascista impenitente’ , al quale ‘buona parte dell‘intelligenzia italiana aveva tolto il saluto’. Un distinto settuagenario che vantava i propri trascorsi in imberbe masnadiere’. E si era rivestito ‘ di panni svergognati’. Famoso per ‘ una scioccante rivendicazione saloiana”. (25) 6. Riflessioni conclusive: 6.1 Torno all’Alta Val Bidente, ove si trova il comune di Santa Sofia, la frazione di Spinello e le case di Montriolo: qui “ vissi” la 25 Resistenza quando avevo 10 - 12 anni. Ora prendono corpo lembi di storia di partigiani, del passaggio del fronte, dei tedeschi, delle case date alle fiamme. Riemergono carichi di significato nomi di partigiani nostrani, come Maciste, Dinola, Tom, Pietro e Paolo. Si materializza la strage nazista del 25 luglio 1944 sul Passo del Carnaio, distante un chilometro da casa nostra. Riemerge dal tempo l’esercito alleato, i polacchi del secondo Corpo di armata del generale Anders, che Il 20 ottobre 1944 liberarono Santa Sofia. In quest’atmosfera drammatica c’è anche la “ pagina nera” che riguarda il primo comandante dei partigiani che operavano nella mia zona. Trova una spiegazione anche il ricordo dello spavento delle donne all’arrivo di soldati di colore. Ma, per fortuna nostra, i soldati alleati che attraversarono la nostra zona con i polacchi erano indiani. Non erano i marocchini che dopo Cassino avevano stuprato donne, bambini e persino vecchi … Una macchia così grave - “ in quelle 24 /48 ore di liberà” – che trasformò la festa in tragedia … cancellando anche il loro eroismo nella liberazione di Cassino. La fama della bestialità di quelle ore di orgia violenta precede l‘avvicinarsi degli alleati. La propaganda tedesca e dei repubblichini usa questa macchia per screditare i liberatori descrivendoli come distruttori. Resta comunque incancellabile il dramma delle “marocchinate”. Ancora oggi se ne parla. Qualcuno ha voluto leggerlo come una vendetta da parte del comando francese della V armata – al cui comando operavano i marocchini – contro l’Italia che nel 1940 aveva attaccato alle spalle la Francia. (26) Santa Sofia rimase, dal 27 settembre al 18 ottobre, terra di nessuno. Il 27 settembre i partigiani avevano tentano infatti di liberare il paese, ma gli alleati rimasero fermi al passo del Carnaio, a dieci chilometri di distanza e le forze tedesche mantennero il dominio su metà del paese. Gli alleati non apprezzavano più di tanto i partigiani, pur servendosene? I partigiani nostrani della 8a Brigata Garibaldi erano troppo ideologizzati e gli alleati polacchi di comunismo se ne intendevano! Screzi e dissapori riemergono anche dopo la liberazione di Santa Sofia. Le responsabilità del fallimento dell’impresa dell’ottava Brigata Garibaldi di Romagna sono ascrivibili al desiderio di 26 mettere in atto “il piano insurrezionale” riservato dai partigiani ai centri maggiori. Così scrive Paolo, il vice comandante della Brigata, al capo Pietro il 27 settembre ’44: “Attualmente , ore 22,30, si inizia l’accerchiamento di Santa Sofia solo con le nostre forze perché vogliamo l’onore di liberarla con le nostre forze. (…) Avevamo chiesto l’appoggio di due carri armati inglesi , e mentre stavano passando Monteguidi , uno venne colpito e rimase ucciso lo stesso maggiore che si trovava all’interno”. Ma nel diario del prete di Monteguidi leggiamo la motivazione della mancata partecipazione degli alleati. Qualche autoblinda era arrivata fino a Gamberini, ma dopo la strada era stata fatta saltare dai tedeschi per circa 500 metri per cui macchinari pesanti non potevano transitare. (27) La ritirata tedesca era costellata da incendi e ruberie, stupri e massacri. Ricordo i 27 civili uccisi sul Passo del Carnaio del 25 luglio per rappresaglia per tre tedeschi uccisi (due il giorno 26 e uno il 25) dai partigiani proprio sul Passo. I tedeschi uccisero anche un sacerdote che aveva dato l’assoluzione ai condannati. Mentre si incamminava verso casa venne freddato con una raffica alle spalle. Ora vengo a conoscenza anche dei massacri di Collina di Pondo, la parrocchia della mamma . Ora partecipo alla riconoscenza del mio paese ai polacchi: qui trovarono la morte decine di militari. Qui sostò anche il generale Anders e, fino alla primavera del ’45, soldati polacchi restarono in paese. Erano rispettosi e bene accolti, ma crescente era l’avversione al comunismo dei locali partigiani. Questi volevano il comunismo, i polacchi credevano, dopo avere liberato l’Italia dai nazifascisti, di proseguire la loro marcia fino a Varsavia per liberarla dai comunisti. Arrivati a Bologna l’armata polacca però si sciolse. La Polonia era stata concessa dagli Alleati a Stalin! Qui finiva l’infinito viaggio di Anders, fatto prigioniero nel 1939 dai Russi in seguito alla occupazione della Polonia in esecuzione del Patto Ribentrop – Molotov. Liberato quando Hitler invase la Russia, si rifiutò di combattere con i sovietici e con un lungo viaggio alla guida di 50.000 polacchi attraversa le steppe dell’Uzbeckistan 27 Soldati polacchi a Santa Sofia 28 giunge in l’Iran. Da qui al Golfo Persico e s’imbarca su navi inglesi per Italia, ove combatterà a fianco degli Alleati contro i nazisti. Erano polacchi quegli alleati che vissero per qualche giorno anche nel granaio di casa nostra nell’ottobre del 1944. 6.2 “Gesù in camicia nera, Gesù partigiano”. E’il titolo di un libro scritto da Ulderico Munzi. E’ la metafora di una memoria “diversa” che dovrebbe essere condivisa. Al di là della verità dei fatti e misfatti compiuti dagli uni e dagli altri, al di là che i partigiani avevano ragione e gli altri torto, resta ancora rancore e odio … dopo 70 anni! Il libro riporta Il dialogo tra don Berto don Bartolomeo Ferrari, cappellano della Divisione partigiana Mingo dal 16 novembre 1944 – e don Gino Marchesini, cappellano della Guardia nazionale repubblicana. Don Berto ha nel cuore il ricordo cocente della settimana di Pasqua ’44: tra il 6 e l’11 aprile 72 partigiani caduti in combattimento nella zona dell’abbazia della Benedicta, 75 vengono fucilati, altri 17 saranno massacrati il 19 maggio con altri 42 al Passo del Turchino. Don Gino è testimone tra il 30 aprile e il 15 maggio 1945 di una delle più dure vendette partigiane, a Oderzo in Veneto. Entrambi cercano la riconciliazione , ma difendono due visioni inconciliabili d’Italia. Riprendiamo parti del dialogo tra i due riportate da Aldo Cazzullo(28). Don Berto Ferrari: “ Mettiamoci in ginocchio, fratello, e preghiamo. Noi abbiamo lo stesso Dio, la stessa fede, la stessa religione e tu sai che la religione è al di sopra di ogni professione politica e naturalmente deve influire sulle nostre azioni e sul nostro comportamento, sulla nostra morale e sul nostro amore verso il prossimo. Tu verso di me e io verso di te … Io mi sono battuto per la libertà , mentre tu …” Don Gino Marchesini: “ Mentre tu … ecco che spunta la vostra libertà! Tu lasci intendere che la tua è la vera libertà, mentre la mia non lo è. Devi sapere che io, ho fatto una libera scelta nell’andare con la Repubblica sociale. Secondo me, la libertà vuol dire soprattutto donarsi di certi limiti morali, avere doveri, obblighi 29 verso il prossimo. La mia libertà finisce dove comincia la tua …” Don Berto: “ Certi sacerdoti del tuo stampo, don Marchesini, non vogliono capire , non vogliono il dialogo. Nel Vangelo di Marco è scritto che il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. La vera libertà è in Cristo. E’ possibile che tu non voglia capire? Se io non accetto il giogo di un governo dittatoriale, difendo la mia dignità di cristiano, non tradisco alcun ideale, anzi creo un ideale. Ma non voglio insistere e ti ripeto: siamo fratelli, tu eri di là e io di qua. Noi abbiamo avuto la sorte di essere vincitori … Va bene, arrivo a dirti che non ti considero uno sconfitto. Né tanto meno un nemico. Ti considero uno che ha combattuto per un’idea, nella quale credeva, e per questo ti ammiro. Però, la realtà devi accettarla: l’idea che hai difeso è stata vinta, annullata ecco tutto.” Don Gino: “Noi non ci sentiamo vinti, proprio per nulla. E sai perché? Perché i nostri principi, l’amore per la Patria e per il sacrificio, non sono ideali da vinti. Anzi, c’è un sapore di vittoria morale nella nostra sconfitta. C’é stata solo una sopraffazione delle armi, questo sì, e l’accettiamo. Ma le nostre idee, per le quali abbiamo combattuto, restano sacrosante, intramontabili. (…)” Don Berto: ”Se hai fatto il tuo dovere con animo pulito, non hai nulla da rimproverarti , la tua missione è compiuta. Sei stato vicino ai tuoi ragazzi che credevano in un ideale, hai fatto bene, perché sopra tutto questo c’era Dio”. Don Gino: “Dio è al di sopra di tutto. Ce lo siamo già detto. Non avrei difficoltà ad abbracciarti. Ma l’abbraccio dovrebbe significare che siamo sacerdoti di Cristo, con i nostri pensieri, i nostri propositi, le nostre idee e i nostri principi; e non significare che io approvo la tua scelta del 1943. Per me, la mia è stata una scelta giusta, onesta, tu hai fatto bene a fare il tuo servizio anche a favore di quella gente, perché non si può abbandonare nessuno. C’è una sola strada, don Berto: abbracciamoci in Dio. Il resto rimanga com’è”. 6.3 Conclusione L’affido a queste righe di Aldo Cazzullo: “Molti, com’è inevitabile in un regime durato vent’anni, hanno avuto il padre o il nonno 30 fascista, talvolta anche dopo l’8 settembre. Oggi potrebbero dire, senza per questo amarli o stimarli meno, che il padre o il nonno non avevano gli strumenti e la libertà che oggi ci sembrano scontati e naturali, e quindi fecero in buona fede o sotto condizionamenti esterni una scelta talora comprensibile, talora giustificabile, ma in ogni caso sbagliata”( …) La storia dei resistenti non è storia dei vincitori, se non dal punto di vista ideale. E’ storia di vittime. Alcune morirono chiedendo vendetta. Altre, forse la maggior parte, morirono perdonando i loro carnefici invocando la pacificazione (…) Tutti sentono di contribuire a edificare un’Italia migliore”. (29) Si deve anche ricordare che non tutti i partigiani volevano la democrazia. Avevano fatto una scelta ideologica. Con il Duce si schierarono razzisti, antisemiti e diciottenni cresciuti col fascismo, convinti che il fascismo fosse l’Italia. A volte la scelta di campo è casuale … come dice un personaggio di Italo Calvino, il partigiano Kim: “ Basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima, e ci si trova dall’altra parte”. Alla fine molti pagarono con la vita i propri crimini, altri la propria scelta. Dopo 70 anni è tempo che la pietà umana - dovuta a tutti i caduti – e lo spirito di “riconciliazione nazionale” abbiano a prevalere. Le ragioni della storia non sempre coincidono con quelle della vita. Per cui dobbiamo dire: gli uomini e le donne della Resistenza hanno ragione; i loro avversari ebbero torto. Gli uni e gi altri, senza confonderli, sono la “nostra storia”. NOTE 1. Luciano Foglietta, La liberazione di Santa Sofia . Stampa S.T.C-S.Sofia. 2008, pag.20 2. Aldo Czzullo, Possa il mio sangue servire,Rizzoli 2015 pag.138 3. Gianni Angeli Munoz, Linea Gotica come luogo della memoria, Il Ponte Vecchio pag.46-47 4. Ivi pag. 48 5. Gianpaolo Pansa, La Grande Bugia, Sperling &Kupfer Editori 2006,pag.312 6. Micromega del 3 marzo 2015 Saggio 1 31 7. Rivista Il Tempietto n. 6 Del Centro Culturale il Tempietto del Don Bosco pag.26-34 8. Ivi 9. Avvenire 17 marzo 2004 10.cfr. n. 6 della Rivista Il Tempietto cit. 11.Aldo Cazzullo, Possa il mio sangue serviore , cit, pag,161-162 12.Ivi pag. 98 13 Ivi 14.Ivi pag. 80-81 15. Ivi pag.128 ; cfr. n. 6 Rivista Il Tempietto, cit. pag. 36-38 16 Ivi pag. 222 17. Ivi pag. 219 17 bis: notizie desunte da una ricerca condotta sui documenti dell’Archivio Comunale di Bagno di Romagna (Registri di deliberazioni dal 13/11/1942 al 2/6/1944 e dal 3/8/1944 al 2/6/1945; Carteggi anni 1944-1945), dell’archivio aggregato dell’ECA e sui registri e schede dell’Ufficio Anagrafe Comunale, oltre che su memoriali dattiloscritti, articoli e saggi. Tra questi, un rilievo particolare assume quello di Enrica Cavina, La strage del Carnaio - di prossima pubblicazione negli atti del convegno L’ evento e l’esperienza soggettiva del ricordo. Le stragi naziste di Tavolicci e del Carnaio (Forlì) di Fragheto (Pesaro), Civitella in Val di Chiana e San Pancrazio (Arezzo), tenuto a Bagno di Romagna il 26-27 Ottobre 2002 - che, tra l’altro, ne individua gli esecutori. Per la ricostruzione della giornata del 25 Luglio ’44, fondamentale è stato l’aiuto di Mario Bartolini, presente - ragazzo di 7 anni - sul Carnaio, che nel tempo ha raccolto preziose testimonianze su quei tragici momenti. Relazione approvata all’unanimità dal Consiglio Comunale con deliberazione n. 71 del 28 novembre 2003). 17 tris Oscar Bandini, Alto bidente, un grande corridoio umanitario, in ‘a cura di Luigi Lotti, Guerra in Romagna 1943 -1945 , Stilgraf Cesena 2014’, pag.105 18. Citazione di Aldo Cazzullo, op. Cit. Pag.343 19.Ivi pag.222 20. Ivi pag. 19-20 21. Ivi pag.243 32 22. Ivi pag, 250 23.Giampaolo Pansa, La Grande Bugia , cit. Pag. 360-387 24. Ivi 25.Ivi 26 Iris Origo, Guerra in Val D’Orcia. Longanesi pag.235 27 Luciano Foglietta, La liberazione di Santa Sofia, cit. pag. 15-16 28. Aldo Cazzullo, Possa il mio sangue servire, cit. pag,126-128 29. Ivi pag. 130 33