Le certezze svanite
Crisi della famiglia e del rapporto di coppia
nel romanzo italiano dell’età giolittiana
e del primo dopoguerra
Atti del Convegno internazionale di Göteborg
(12–14 settembre 2007)
a cura di
Ulla Åkerström e Enrico Tiozzo
ARACNE
Copyright © MMVIII
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, 133 A/B
00173 Roma
(06) 93781065
ISBN
978–88–548–1741–8
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I edizione: aprile 2008
Indice
7
Prefazione
11
Matrimonio e famiglia nella letteratura italiana
EUGENIO RAGNI, Università di Roma Tre
55
Lucio d’Ambra e Mario Mariani. Due opposte letture
politiche del rapporto di coppia
ENRICO TIOZZO, Università di Göteborg
149
La donna nuova e il rapporto di coppia in Regina di Luanto
ULLA ÅKERSTRÖM, Università di Göteborg
169
La crisi della famiglia nel romanzo pirandelliano
GIOVANNA SCIANATICO, Università di Lecce
183
La crisi della coppia fra l’Ottocento e il Novecento vista
attraverso tre romanzi dell’epoca
BODIL ZALESKY
205
La crise de la famille et la crise du couple dans la littérature
française pendant la première moitié du XXe siècle
EVA AHLSTEDT, Université de Göteborg
5
6
Prefazione
Prefazione
Il Convegno è stato aperto dall’Ambasciatore d’Italia, il professor
Francesco Caruso, giunto a Göteborg non solo per dare il suo caloroso
benvenuto ai convegnisti italiani e svedesi, ma anche per assistere attivamente all’intera prima giornata dei lavori, a conferma di un impegno a tutto campo, sempre efficace e concreto, per le iniziative scientifiche e pedagogiche a favore della lingua e della letteratura italiana in
Svezia. Al suo intervento hanno fatto seguito quelli del direttore
dell’Istituto Italiano di Cultura di Stoccolma, il professor Giuseppe
Manica, anch’egli attivissimo nel lavoro di tessitura per la diffusione
dell’italiano a livello universitario in Svezia, della preside della Facoltà
umanistica dell’Università di Göteborg, la professoressa Sally Boyd, e
della preside dell’Istituto di lingue romanze della stessa Università, la
professoressa Eva Ahlstedt.
Il Convegno, reso concretamente possibile dal contributo determinante del Ministero degli Affari Esteri, dell’Ambasciata d’Italia e
dell’Istituto Italiano di Cultura di Stoccolma, oltre che dall’impegno
dell’Istituto di lingue romanze dell’Università di Göteborg, si è contraddistinto come la prima manifestazione scientifica internazionale,
nel campo della letteratura italiana, tenuta presso questa Università. Il
suo tema (Le certezze svanite. Crisi della famiglia e del rapporto di
coppia nel romanzo italiano dell’età giolittiana e del primo dopoguerra), volutamente aperto ad interventi scientifici impostati da varie angolazioni, presentava tuttavia alcune necessarie delimitazioni storico–
critiche nel suo doppio rimando al formato ampio del romanzo e ad
uno spazio temporale corrispondente ai primi trenta anni del Novecento. L’attualità dell’argomento, oggetto di approfondito dibattito politico e di vivace scontro culturale anche ai nostri giorni con le proposte
7
8
Prefazione
avanzate dal governo sulle convivenze di fatto, è stata sottolineata ―
all’apertura dei lavori ― dalla lectio magistralis di Eugenio Ragni che
si è assunto il compito di un’illuminante e documentata cavalcata critica attraverso cinque secoli, partendo dalla visione della famiglia e
del rapporto di coppia nell’Umanesimo, espressa da Leon Battista Alberti, per giungere fino alle istanze piú drammatiche della questione
femminile avanzate da Sibilla Aleramo. Il successivo intervento, di
Enrico Tiozzo, che ha esaminato le opposte visioni politiche della famiglia e del rapporto di coppia, durante gli anni del fascismo, reperibili nelle opere di due scrittori dimenticati (il conservatore Lucio
d’Ambra e il sovversivo Mario Mariani), ha concluso i lavori della
prima giornata.
I lavori della seconda giornata sono stati aperti da Ulla Åkerström
che ha esaminato la problematica del rapporto di coppia nell’opera di
Regina di Luanto (un’autrice finora rimasta sostanzialmente esclusa
dalle indagini scientifiche) mettendo in luce, in questa produzione narrativa, la figura della “donna nuova” e stabilendo cosí un’essenziale
continuità tematica con gli spunti di riflessione e di discussione proposti nella parte finale dell’intervento di Ragni. L’intervento successivo
di Giovanna Scianatico ha seguito, con ampiezza di documentazione e
puntualità di riscontri, lo svolgersi e, per alcuni versi, l’evolversi del
tema della famiglia e del rapporto di coppia nel romanzo di Pirandello.
Nel corso dell’intervento sono stati proposti stimolanti temi di approfondimento, destinati al seminario conclusivo, come quello del ruolo
di vittima della protagonista de L’esclusa, ulteriore esemplificazione
di una famiglia “di fatto fondata sulla violenza dell’autorità maschile”.
L’ultimo intervento della giornata è stato quello di Bodil Zalesky, che
ha allargato la prospettiva ermeneutica alla letteratura tedesca inserendo nella sua analisi un confronto tra Il piacere, Una donna ed Effi
Briest.
La terza e conclusiva giornata, con la relazione di Eva Ahlstedt, oltre ad un gradito sconfinamento nella letteratura francese, ha registrato
di nuovo un evidente collegamento con l’immagine della donna “vittima” all’interno del matrimonio primonovecentesco grazie ad un’analisi attenta e documentata dei romanzi di Gide e di Colette, e con una
proposta di lettura in questa chiave di Thérèse Desqueyroux e di La
Fin de la nuit di Mauriac, stabilendo cosí definitivamente l’asse tema-
Matrimonio e famiglia nella letteratura italiana
9
tico del Convegno ed offrendo un’evidente traccia di base per la discussione finale nel seminario e per le conclusioni traibili dalle tre
giornate dei lavori.
All’immagine della donna schiacciata dalla violenza maschile e
prigioniera, nel matrimonio e nella vita di coppia primonovecenteschi,
di unioni non volute con mariti per lo piú dispotici ed esecrabili, via
via delineatasi attraverso gli interventi di Ragni, Åkerström, Scianatico e Ahlstedt, Tiozzo ha contrapposto ― nel seminario finale diretto
da Giovanna Scianatico ― una visione della vita di coppia, nel primo
Novecento, in grado di tenere conto però anche delle possibili sofferenze e difficoltà riscontrabili nelle figure dei mariti e dei padri, soli
responsabili con il loro lavoro quotidiano ― in quella fase storica ―
del mantenimento economico dell’intera famiglia, coadiutori nell’educazione dei figli e sottoposti ad un continuo sforzo psicologico e
comportamentale per dimostrare alle loro compagne (che fieramente
lo esigevano) il non affievolirsi di un’attrazione fisica e di un amore
romantico almeno uguali a quelli dimostrati nei primi mesi di matrimonio.
Attraverso una discussione, ricca di richiami e di riscontri nella letteratura italiana del Novecento, che ha spaziato dalla posizione conservatrice sui rapporti famigliari di una scrittrice radicale come Natalia
Ginzburg, fino all’uxoricidio proposto da Alba de Céspedes, in Dalla
parte di lei, per il marito distratto e disamorato, si è giunti alla constatazione dell’ineliminabilità di una certa polarizzazione odierna tra una
visione (che definiremmo in modo volutamente semplicistico) maschilista ed una visione (definibile in modo altrettanto semplicistico)
femminista del rapporto di coppia primonovecentesco e si è giunti alla
conclusione della necessità della ricerca di una visione il piú possibile
slegata da preconcetti e luoghi comuni che, tenendo conto degli effettivi fattori storici e letterari dell’epoca studiata, sia in grado di inquadrare oggettivamente e senza forzature di parte l’evolversi di un tema
che ha attraversato ed influenzato cosí profondamente il romanzo italiano ed europeo.
Göteborg, gennaio 2008
ET
UÅ
10
Prefazione
Matrimonio e famiglia nella letteratura italiana
EUGENIO RAGNI
Università di Roma Tre
Credo che a un cittadino nordeuropeo possa riuscire inspiegabile
che nell’Italia del 2007 sia argomento dibattutissimo ― a livello addirittura istituzionale ― il concetto di famiglia o, più generalmente,
quello di coppia, intesa sia come famiglia regolarmente sposata ― con
matrimonio civile o religioso, indifferentemente ― sia invece come
convivenza di due esseri umani che si sono uniti in base a una libera
scelta. Le diatribe odierne vertono addirittura su cosa debba intendersi
per “famiglia”: un’unione comunque sancita, davanti a un sindaco o a
un altare, o anche una coppia di persone conviventi per periodi medi o
lunghi sotto un medesimo tetto?
Le recenti proposte avanzate dall’attuale governo ― prima i PACS,
poi i DI.CO ― hanno suscitato turbolente contese parlamentari, al
punto che l’esecutivo ha dovuto ritirarle perché stava cadendo proprio
sulla proposta di sanare con una legge, peraltro neppure adeguata, la
condizione di un numero impressionante di convivenze di fatto, per le
quali non vigono ovviamente i diritti che reggono invece le coppie cosiddette “regolari”: per citarne solo qualcuna, al convivente che non
sia in qualche modo “interno” al nucleo familiare “ufficiale”, diciamo
così, non è concesso di accedere in un ospedale al capezzale del partner moribondo; e, ancor più grave, nelle disposizioni testamentarie il
convivente viene considerato un “estraneo” e quindi l’eventuale eredi11
12
EUGENIO RAGNI
tà sarà tassata pesantemente, non nella modesta percentuale sancita
dalle clausole del diritto di famiglia1.
Ora, è ovvio che provvedimenti e leggi concernenti il nucleo familiare, generalmente inteso come cellula fondamentale e rappresentativa dell’organizzazione sociale, debbano andare di pari passo con le vicende storiche, con il mutare della società in generale e più capillarmente ― e realisticamente ― con il modificarsi delle convenzioni
collettive, dei costumi, della mentalità: con tutto ciò insomma che i
più importanti avvenimenti storici producono all’interno dei singoli
nuclei sociali, condizionandone in misura più o meno apprezzabile le
leggi e i comportamenti.
Diversamente da gran parte delle altre nazioni europee2, in Italia la
plurisecolare dominazione e poi la costante ingerenza del cattolicesimo anche su delicate questioni di Stato hanno fatto sì che l’evoluzione
dei concetti di famiglia e, più latamente, di coppia non conoscesse variazioni di rilievo praticamente fino all’unità, vale a dire fino agli anni
Sessanta–Settanta del secolo XIX. E nonostante nei primi decenni del
Novecento e soprattutto nel secondo dopoguerra si siano verificate
trasformazioni abbastanza rilevanti nel costume delle nuove generazioni e, di riflesso, nella struttura e nei rapporti interni alla famiglia, si
direbbe che negli ultimi tempi la tensione innovativa si sia indebolita e
in alcune particolarità si siano fatti, incredibile a dirsi, anche passi indietro.
Chiara, 28 anni, si è inginocchiata al confessionale al Santuario di Santa Rita
da Cascia, a Torino. Don Leonardo, dopo qualche domanda sulla sua vita
sentimentale, le ha posto il problema: «Lei è sposata?». No, ha risposto Chiara. Lei e Aldo, fidanzati dai tempi della scuola, convivono da un anno. «La
Chiesa non accetta questi nuovi legami. Vada», ha replicato il parroco. E anche monsignor Mauro Cozzoli, ordinario di teologia morale alla Pontificia
università lateranense, non ha dubbi: «Vivere more uxorio contrasta con la
morale insegnata dalla Chiesa, perciò è vivere in stato di peccato. Confessare
questo peccato senza volontà di pentimento, senza cessare cioè la convivenza, rende invalido il sacramento della riconciliazione».
1
I nostri parlamentari godono invece di una legge interna al loro gruppo che riconosce in
tutto e per tutto i diritti di un convivente; fra l’altro senza specificare se ciò valga solo per le
coppie eterosessuali.
2
La sola eccezione evidente credo si possa indicare nella Spagna pre–Zapatero.
Matrimonio e famiglia nella letteratura italiana
13
Non si tratta, come sembrerebbe, della pagina d’un romanzo perbenista dell’Ottocento e nemmeno di un fatto accaduto nell’Italia bacchettona dell’immediato secondo dopoguerra, quando ― come ai
tempi controriformistici del famigerato “Braghettone” incaricato di
spennellare provvidenziali mutande su santi e dannati del michelangiolesco Giudizio universale ― religiosi e parlamentari lanciavano
crociate non solo contro scollature e minigonne, ma perfino contro i
capolavori di Modigliani, Goya, Manet esposti nei musei: convinti,
questi buoni padri di famiglia, di arginare con la classica foglia di fico
quella che per loro era la pretesa “dissolutezza” dei nuovi tempi, ed
era invece il segno di una spontanea evoluzione del costume, un colpo
finalmente diretto contro l’esiziale pruderie di una parte della classe
dirigente e della quasi totalità dell’establishment clericale.
Il testo che ho letto è invece, ahimé, una notizia apparsa sul «Corriere della Sera» il 31 agosto 2007. No comment.
Presumendo, non so quanto a torto, che questo conservatorismo ―
più che reazionario, ormai antistorico ― sia un aspetto mal conosciuto
e oserei dire incredibile per molti, ho creduto opportuno privilegiare
un excursus iniziale nel quale delineerò la lunghissima persistenza in
Italia (e di riflesso nella sua letteratura) di un’idea di coppia e di famiglia che ancora oggi presenta evidenti aspetti conflittuali irrisolti; avvertendo subito che l’apparente taglio sociologico di quanto dirò sottintende un’effettiva corrispondenza letteraria, che per comprensibili
ragioni di tempo e di opportunità non poteva essere compiutamente
esplicitata in questa sede.
Come era accaduto per la lingua, la filosofia, le festività, per alcuni
riti e perfino per qualche mito, a parte alcuni adattamenti la “santità” e
l’obbligo del matrimonio che la Chiesa persegue da sempre non è altro
che un’adozione pressoché letterale del concetto di famiglia già presente nel diritto e nella consuetudine latina antica, accentrata unicamente
sul pater familias e sul riconoscimento del suo imperio assoluto, che arrivava al diritto di vita e di morte su moglie, figli, schiavi. E non sarà a
questo proposito inutile ricordare che anche l’etimologia del vocabolo
italiano famiglia, risalente al diminutivo familiola(m), “gruppo di servi”, sottolinea l’autorità che il pater, l’esponente più vecchio o più importante, deteneva nei confronti di chi gli era sottoposto. Quasi mai e-
14
EUGENIO RAGNI
sercitato in forme estreme, questo diritto era comunque espressamente
codificato e pertanto ineccepibile e soprattutto applicabile.
Questa conclamata e perpetuata preminenza della figura maschile
all’interno della famiglia e della vita attiva portava di conseguenza a
una svalutazione della donna, che lungo tutto il medioevo, fatte pochissime eccezioni, era spesso addirittura considerata non soltanto alla
stregua di un oggetto ma, sull’inappellabile autorità della Patristica,
l’essere demoniaco messo a fianco dell’uomo per condurlo a perdizione. Non era stata forse Eva a cedere per prima alla tentazione del serpente, facendo sì che fosse però Adamo a mordere per primo il pomo
proibito? Esemplare sotto questo riguardo è il componimento anonimo
di metà secolo XII, i Proverbia quae dicuntur super natura feminarum, un testo sulla donna tutto in negativo, che riprende e trasmette
letterariamente una lunghissima serie di esempi inerenti appunto alla
convinzione che la donna, oltre ad essere la rovina dell’uomo, fosse
oltretutto depositaria e maestra di tutti i sette vizi capitali; non solo:
era anche priva di anima razionale, possedendo soltanto, alla stregua
degli animali, la vegetativa e la sensitiva. A lei ― e sarà concetto che
durerà nei secoli e che ancora oggi è presente in qualche plaga mediterranea ― sono demandate soltanto la procreazione e la cura dei figli,
l’organizzazione materiale della casa e l’assoluta, devota sottomissione nei confronti del marito.
Subordinazione e sostanziale reclusione della donna nella casa erano conseguenti non soltanto a questi specifiche imposizioni legalizzate, ma anche allo schiacciante carico di lavoro che l’andamento della
casa poneva sulle sue spalle, ove, come invece nelle famiglie abbienti,
non intervenisse l’aiuto di persone di servizio.
La concezione monolitica del rapporto familiare non fu (né resterà)
un’esclusiva clericale: quando infatti, con l’Umanesimo, si riscoprirà
il mondo classico, anche l’intellettualità laica adotterà a modello di
famiglia la medesima formula appena attenuata del pater familias come centro propulsore, ma anche assoluto demiurgo e gestore dell’intero nucleo familiare.
Leon Battista Alberti ― notissimo come grande architetto, prodigioso rielaboratore dei principi vitruviani, e a noi specialisti d’italianistica anche come promotore della lirica in volgare ― è anche autore di
un trattato, il primo in volgare nella storia della letteratura italiana: i
Matrimonio e famiglia nella letteratura italiana
15
quattro libri Della famiglia, composti nel biennio 1433–343. In essi
troviamo infatti ribadita l’autorità assoluta del capofamiglia, pilastro
indiscusso del nucleo sotto ogni punto di vista e responsabilità, cui sono riconosciuti per questo tutti i diritti sui componenti del nucleo familiare, sia diretti (moglie, figli, consanguinei conviventi, ecc.) che
aggiunti (generi e nuore, altri parenti acquisiti, servitù). L’ambientazione fittizia del trattato al capezzale del padre in fin di vita ― a Padova nel 1421 ― permette di introdurre come interlocutori i figli e i
congiunti. E questa sorta di riunione familiare è immaginata dall’autore per dichiarare simbolicamente l’unità della famiglia intorno al suo
perno, il padre, ma vuole raffigurare anche e soprattutto la trasmissione di generazione in generazione di un asse ereditario etico, nell’ambito del quale proprio il concetto e la realtà della famiglia rivestono un
ruolo di assoluta preminenza, rappresentando una fondamentale cellula–modello dell’organismo statale di cui è parte4.
Naturalmente si tratta di una visione utopica, di un sogno di vita associata che risulta drammaticamente diversa dalla cruda realtà delle
sanguinose contese che opponevano famiglia a famiglia all’interno di
3
Un’ottima edizione commentata dell’opera è quella curata da R. Romano e A. Tenenti
per Einaudi (1969).
4
Ciascuno dei quattro libri affronta una componente specifica dell’argomento. Il I libro
(«dell’oficio de’ maggiori nelle famiglie e della osservanza de’ minori verso e’ maggiori e
della educazione de’ figlioli») è incentrato sulla pratica educativa da applicare nell’ambito
familiare, in rapporto soprattutto alle relazioni fra anziani e giovani. Il II («de re uxoria») tratta specificamente del matrimonio. Ribadita l’assoluta centralità autoritaria del capofamiglia,
accennando al divorzio l’Alberti tiene a precisare una sostanziale differenza con l’antica Roma: se nell’antichità era possibile divorziare in caso di gravissima, inguaribile e contagiosa
malattia, oppure nel caso di accertata sterilità della moglie, invece «oggi e’ costumi civili, le
religiose costituzioni […] affermano el matrimonio essere non congiunzione di membra tanto,
ma più unione di volontà e animo; e per questo statuiscono sposalizio essere sacramento e legame religioso, però vietano che quegli e’ quali sono così per divino sacramento congiunti
mai si separino per volontà umana. Quella adunque utile alla famiglia antiqua consuetudine di
lasciare quella sterile per tor questa colla quale s’acquisti figliuoli, oggi, come vedete, non è
valida a rompere el vincolo religioso congiugale». Nel III libro si disserta sull’economia familiare, prospettando le regole che debbono presiedere all’amministrazione oculata del patrimonio. Il protagonista del libro, Giannozzo, un anziano parente, esemplare figura di pater familias di lunga esperienza e proverbiale saggezza, sottolinea che il legame fra le generazioni non
è soltanto l’eredità economica, ma soprattutto il lascito etico–spirituale dei padri. Il IV libro
tratta infine dell’amicizia, dei legami e, diciamo, delle “valenze” che si possono e debbono
aprire con i componenti del nucleo sociale con i quali si entra in contatto, formando quindi
una comunità di famiglie legate da un sentire etico comune e cementati dalla solidarietà.
EUGENIO RAGNI
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una stessa città. Non è infatti casuale che l’Alberti, figlio naturale riconosciuto e colpito, assieme a tutti i membri maschi della famiglia,
dall’odio di parte e quindi costretto all’esilio5, abbia dedicato il primo
trattato in volgare proprio alla definizione della famiglia ideale.
Un poeticissimo esempio di amor familiare ci viene consegnato da
un altro insigne umanista, Giovanni Pontano, che nel 1505 pubblica a
Napoli una raccolta di elegie composte nel trentennio 1461–1490, significativamente intitolata De amore coniugali. Lontano dalla famiglia per ragioni di servizio militare, il Pontano esprime i propri sentimenti nei confronti della moglie, delle due figlie e del figlioletto Lucio, cui sono dedicate le originalissime Naeniae, dolci ninnananne.
Anche in questo inno di cattivante intimità sentimentale, cui fanno da
bordone la nostalgia per la vita domestica e il desiderio del ritorno,
l’idea di famiglia non è però diversa da quella teorizzata dall’Alberti:
benché lontano e a lungo assente, il pater familias domina comunque
il gruppo con raccomandazioni e consigli, non lesinando massime ed
esempi morali tratti dai classici, preoccupandosi del patrimonio da gestire e delegando solo occasionalmente alla moglie il compito di vigilare sui figli nelle occorrenze della quotidianità.
Infatti solo la morte del capofamiglia determinava in genere il trasferimento di tutti i poteri gestionali alla vedova, che ne assumeva in
toto il ruolo. Ne abbiamo una delle testimonianze più straordinarie
nelle 73 lettere scritte ai figli esuli da un’eccezionale figura di mater
familias, la nobildonna fiorentina Alessandra Macinghi Strozzi, giovane vedova di Matteo Strozzi, avversario sfortunato di Cosimo de’
Medici e da questi bandito a Pesaro e lì morto di peste assieme a tre
dei suoi sette figli.
Anello di congiunzione fortissimo per l’unità della famiglia dispersa, che ha però in lei il proprio centro e la propria ragione di sopravvivenza, per vent’anni la donna si batte per far togliere ai figli il bando,
riuscendovi nel 1466. Queste sue missive, che vanno dal 1447 al ’70,
costituiscono oltretutto una fonte preziosa per chi voglia conoscere alcuni particolari di una vita quotidiana di metà Quattrocento, in cui alla
cura degli interessi, all’amore verso i tre figli, al ricordo del marito, al
5
La famiglia Alberti («sanza vera cagione inculpata», afferma Leon Battista) era stata
condannata all’esilio in seguito a una supposta loro complicità nel tumulto dei Ciompi.
Matrimonio e famiglia nella letteratura italiana
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rimpianto per i non molti anni di vita in comune trascorsa in Firenze si
aggiungono i piccoli fatti, gli oggetti, i problemi, gli abiti, le gioie e le
contrarietà di una consuetudine familiare che, grosso modo, è quella di
tutti i tempi6.
Ancora sullo scorcio del Quattrocento Vespasiano da Bisticci scriveva che a lui, di tutte le donne, «piacevano le pudiche, l’oneste, le
continentissime» e in particolare quelle che osservavano le regole di
san Paolo: oltre al dovere «di allevare bene i figliuoli», di badare alla
casa e obbedire al marito, dovevano osservare il precetto «di non parlare, massime in chiesa», regola della quale, secondo Vespasiano, «le
donne hanno grandissimo bisogno».
Com’è noto, il Rinascimento pone l’uomo al centro del mondo in
cui vive. Sull’uomo e su tutti gli aspetti della sua struttura fisica, della
sua attività operativa e intellettuale si accentra infatti l’attenzione degli
artisti e dei cultori di scienza: nasce lo studio anatomico, l’uomo diviene soggetto centrale e onnipresente nelle arti figurative, ma è soprattutto rappresentato come una sorta di demiurgo di se stesso, creatore del mondo in cui vive e agisce, lione e golpe, come dice Machiavelli: leone e volpe, essere forte e astuto governato dalla virtus tenacemente pronta ad afferrare ogni occasione. La sola incognita che può
6
Qualche esempio, attinto ad apertura di libro dall’edizione curata da Angela Bianchini
(A. Macinghi Strozzi, Tempo di affetti e di mercanti. Lettere ai figli esuli, Milano, Garzanti,
1987): «Per Soldo ti mandai due palle gonfiate e un paio di coltellini e una dozzina di penne;
ché veduto che Matteo non veniva, le die’ a lui. Avevo ordinato di mandarti le pianelle fratesche, e gli asciugatoi e’ fazzoletti, tutto per Matteo: ora conviene le mandi per altri. Avvisami
se di costà ci viene vetturali. E ancora ti manderei del finocchio, vogliendone. El panno per le
camice è ordinato di farlo; […] ed è fine, forse troppo per camice. […] Quel lino mi mandasti,
m’ha fatto una bella riuscita. […] Vedi ch’io non ho altro bene in questo mondo che voi tre
mia figliuoli; e per la salute vostra mi v’ho levati a uno a uno dinanzi, non guardando a la mia
consolazione: e ora ho tanto dolore di levarmi dinanzi questo ultimo, ch’io non so come mi
viverò sanza lui; ché troppo gran duolo sento, e troppo amore gli porto; ché somiglia tutto il
padre, ed è fatto un bello garzoncello in questo tempo ch’è stato in villa» (pp. 79–81). «De’
marzolini e del finocchio m’ingegnerò di mandartene al tempo, e del migliore ch’io potrò avere» (p. 181). «Questa mia è scritta cogli occhiali: rileggete e rivolgete più d’una volta, tanto
che intendiate bene» (p. 195). «I’ ho ricolto staia 27 e mezzo di grano e barili nove di vino a
Pazzolatico, tra bianco e vermiglio, e nove a Quaracchi: en tutto, ho barili 18. E se non fussi
la carestia del pane, el vino varrebbe un fiorino largo el barile; ma vale 3 lire e soldi. Abbiàno
un magro anno pe’ pover’uomini: e con questo ce ne muore di pesta. È morto parecchi a questi dì» (p. 264).
18
EUGENIO RAGNI
ostacolarne la riuscita è la capricciosa fortuna ― ancora un agente
femminile! ― che con i suoi percorsi imprevedibili può annullare, è
vero, le positività di virtù e occasione, ma può essere anche asservita
ai voleri del vir che riesca nell’impresa, piuttosto aleatoria, di afferrarne il crine d’oro che, unico capello, le ondeggia capricciosamente dietro il capo ad ogni volubile ghirigoro dell’unica ruota su cui viaggia.
E si scoprono e valorizzano con questa focalizzazione altre caratteristiche dell’uomo, evidenziate peraltro già in Boccaccio, attinenti alla
sfera più squisitamente “fisica” dell’uomo. A parte la fortissima carica
di realtà che intride le novelle, è Fiammetta ― ancora una donna, ma
stavolta in positivo ― a sollecitare gli altri nove compagni, perplessi
di fronte alla proposta di sottrarsi al probabilissimo contagio, ad abbandonare ogni rimorso di coscienza e a salire sulle colline di Fiesole,
adducendo a sostegno della propria mozione un argomento disinvoltamente (e realisticamente) incontrovertibile: se, come ripetono chierici e scritture, al pari dell’anima anche il corpo è un dono di Dio,
anch’esso dovrà essere, ove possibile, protetto e salvaguardato.
Salvare e curare anche il corpo, dunque, e considerarne adeguatamente, in tutta dignità ed equilibrio, le esigenze naturali: una grandissima novità, che demoliva in pratica le deformanti demonizzazioni che
la predicazione religiosa, da san Paolo in poi, aveva costruito sulle fisicità dell’uomo, in particolare nei confronti del sesso: che viene finalmente considerato istinto naturalissimo e incoercibile come la fame
o la sete, e perde perciò in buona parte la connotazione di peccato che
secoli di assurdi obblighi e inviti alla castità avevano associato alle
pur naturali pratiche erotiche. Il Decameron è un repertorio significativo e abbastanza esauriente di coppie, regolarmente sposate o liberamente unite, che si rapportano volontariamente e felicemente, molte
delle quali legate da un sentimento saldo e assoluto; a prevalere ― al
di là dell’eventuale ufficialità del connubio ― è dunque solo la libera,
naturale scelta. Nel prencipe galeotto anche l’adulterio ― per la Chiesa, una colpa da inferno immediato ― risulta esorcizzato e in più casi,
per non dire sempre, viene perfino difeso, imputato com’è di solito
non a chi lo compie, ma a chi in un modo o nell’altro lo “promuove”,
lo causa: ad esempio, un marito violento, o un altro poco assiduo nei
doveri coniugali perché disamorato o perché vecchio, o ancora un marito sciocco al punto da “aiutare” l’amante nell’impresa di seduzione,
Matrimonio e famiglia nella letteratura italiana
19
e così via. Non si dimentichi che per Boccaccio il solo gravissimo
peccato dell’essere umano è la stupidità o, rovesciando i termini, la
dote di base dell’individuo è l’astuzia, forza che dà impulso e sostiene
ogni sua impresa.
È una visione nuova e rivoluzionaria dell’uomo e del suo mondo di
relazione, che non a caso è costata al Boccaccio ― autore peraltro in
vecchiaia dell’ultra misogino trattatello del Corbaccio ― un posto
d’onore fra i libri proibitissimi di tutti i tempi: e questo perché la sua è
una visione che varrà a promuovere una nuova concezione della donna, e conseguentemente del rapporto di coppia e del sesso, in molti autori del primo Rinascimento: in Ariosto7, ad esempio, o nel Castiglione8; o ancora, su un fronte provocatoriamente spregiudicato in Pietro
Aretino.
Del tutto nuove sono poi le figure delle varie cortigiane, donne libere che troppo spesso vengono aggregate, per cattiva informazione, a
un ruolo esclusivo di prostitute d’alto bordo, e che invece, a differenza
7
Nel Furioso Angelica sceglierà il partner, Medoro, rifuggendo, oltre alle soffocanti pressioni di tutti i paladini, ogni imposizione prevaricatoria, moralistica o d’interesse; Isabella, fedelissima al suo Zerbino, piuttosto che cedere a Rodomonte escogita uno stratagemma e si fa
uccidere da lui; Olimpia, sposa malmaritata, diventa uxoricida per amore di Bireno e gli resta
fedele anche quando questi, liberato da Orlando dalla prigionia in cui lo tiene Cimosco, suocero di Olimpia, la tradisce innamorandosi della sorella di lei e abbandonandola su un’isola
deserta, dove sarà offerta come vittima sacrificale all’orca, ma sarà salvata da Orlando. Anche
se qua e là nel poema s’incontrano personaggi femminili di non specchiata virtù ― tutti secondari, però ― , a prevalere sono figure positive di donna, alcune di esse valorosissime guerriere, spesso pari per forza ai maschi: come Bradamante, che in duello vince addirittura Rodomonte. Il solo personaggio femminile “negativo”, Alcina, risulta al confronto un po’ vieux
jeu, ispirata cioè a un cliché narrativo in qualche modo superato.
8
Nel terzo libro del Cortegiano (cap. 56) il Castiglione, ammette la possibilità per la donna di divorziare, in quanto «molte se ne trovano, alle quali i mariti senza causa portano grandissimo odio e le offendono gravemente, talor amando altre donne, talor facendo loro tutti i
dispiaceri che sanno imaginare; alcune sono dai padri maritate per forza a vecchi, infermi,
schifi e stomacosi, che le fan vivere in continua miseria. […] Quando, o per le stelle nemiche,
o per la diversità delle complessioni, o per qualche altro accidente, occorre che nel letto, che
dovrebbe esser nido di concordia e d’amore, sparge la maledetta furia infernale il seme del
suo veneno, che poi produce lo sdegno, il sospetto e le pungenti spine dell’odio che tormenta
quelle infelici anime, legate crudelmente nella indissolubil catena insino alla morte, perché
non volete voi che a quella donna sia licito cercar qualche refrigerio a così duro flagello e dar
ad altri quello che dal marito è non solamente sprezzato, ma aborrito? Penso ben che quelle
che hanno i mariti convenienti e da essi sono amate, non debbano fargli ingiuria; ma l’altre,
non amando chi ama loro, fanno ingiuria a se stesse».
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EUGENIO RAGNI
della gran massa delle donne anche di nobile lignaggio, erano abbastanza istruite per l’epoca, molte in grado di gestire quelli che oggi si
chiamerebbero “salotti” intellettuali, e alcune tanto esperte nell’ars
dictandi dall’essersi cimentate sia nella composizione di liriche più
che pregevoli (come Veronica Franco) o addirittura di trattati impegnativi (come il Dialogo sull’infinità d’Amore di Tullia d’Aragona). E
a proposito della trattatistica e di figure femminili inedite in letteratura, non si potrà certo ignorare la più che libera Nanna dell’Aretino,
che nei famigerati Ragionamenti insegna alla figlia come gestire oculatamente e fruttuosamente il mestiere più vecchio del mondo.
D’altra parte, per quanto riguarda più specificamente la famiglia,
alcuni papi e molti cardinali del primo Rinascimento fornivano un eloquente esempio di disinvoltura coniugale ― naturalmente segreta o
mascherata ―, procreando quelli che chiamavano ufficialmente “nipoti”, liberamente ammessi nei sacri palazzi e generosamente favoriti,
eletti cardinali a cinque/sei anni, privilegiati nelle carriere ecclesiastica
e secolare: e basterà citare l’esempio conosciutissimo di papa Alessandro Borgia, del figlio Cesare detto il Valentino, della figlia Lucrezia, ingiustamente dipinta come avvelenatrice e incestuosa, in realtà
puro strumento di alleanze politiche, divenuta infine splendida e moralissima duchessa d’Este.
Una visione realistica del rapporto di coppia esterno e interno alla
famiglia, e siamo nel 1517, è quello offerto dal Machiavelli nella
Mandragola: dove i vecchi tòpoi teatrali della giovane malmaritata a
un vecchio abbiente, del giovane vagheggino innamorato a distanza e
del servo astuto e maneggione concorrono, abilmente modificati, a ritrarre un microcosmo familiare, nel quale tutto è dominato dall’interesse personale: il giovane Callimaco vuole conquistare la bellissima
Lucrezia, il vecchio Nicia vuole ad ogni costo un figlio, la suocera Sostrata teme che la sterilità della figlia possa prima o poi causare il divorzio, il che determinerebbe un ritorno all’indigenza anche per lei,
che col matrimonio della figlia ha acquisito una posizione di rispetto e
soprattutto una nicchia calda e ben fornita d’ogni bendiddio; non intendendo perdere questo vantaggio fortunosamente e faticosamente
guadagnato, su suggerimento del servo Ligurio, a sua volta interessato
al consistente guadagno promessogli da Callimaco, Sostrata spinge il
prete ad accettare il compito di convincere la timoratissima Lucrezia a
Matrimonio e famiglia nella letteratura italiana
21
sottoporsi al falso cerimoniale della mandragola, l’erba miracolosa
della fertilità, e a congiungersi una sola volta con uno sconosciuto, che
in realtà è il giovane amante travestito da vecchio mendicante, che le
rivela solo dopo il congiungimento la propria identità. Alla fine ognuno avrà così raggiunto il proprio tornaconto: anche la mogliettina fino
ad allora castissima e fedele che, praticamente costretta all’adulterio
perfino dal confessore, accetta volentieri il “parentado”, avendo oltretutto gustato, dirà il giovane, «che differenzia è dalla giacitura mia a
quella […] d’uno marito vecchio». L’etica e la morale possono gettarsi dunque alle ortiche: la natura e l’interesse seguono leggi diverse,
molto più drasticamente (e utilitaristicamente) aderenti alla realtà della
vita.
Ma la nuova mentalità e soprattutto la conquista di un ruolo ben diverso della donna all’interno della famiglia, della coppia e, di conseguenza, della società che sono sbocciate nel primo Cinquecento, sarà in
pratica spazzata via dalla Riforma cattolica: che risusciterà quasi tutti i
vecchi clichés moralistici e reprimerà con ogni mezzo i sempre più rari
tentativi di aprire nuovi orizzonti; e questo non soltanto nell’àmbito ristretto dei nuclei familiari, ma nella cultura, nella scienza, nella libertà
d’espressione. Il peccato dei peccati torna ad essere la cosiddetta “lussuria”, vocabolo letterario decisamente più evocativo e “peccaminoso” del
più dimessamente operativo “fare sesso”. E come nei periodi più ottenebrati della storia, la donna torna ad essere la tentatrice, una delle più
pericolose emanazioni del demonio; o anche, meno teologicamente, la
strega per eccellenza, la madre di tutte le disgrazie che affliggono i
giorni dei poveri mortali: un essere malefico, insomma, del quale soltanto il fuoco di un rogo può eliminare i tristi poteri.
Demonizzata la donna, e con lei il sesso, è inevitabile il ritorno alla
rigida concezione verticalistica della famiglia e del rapporto di coppia,
in cui la figura del capofamiglia è privilegiata anche quando sia del
tutto indegna del ruolo che la legge e le convenzioni gli riconoscono.
A metà Cinquecento la triste vicenda di Isabella di Morra e Diego
Sandoval di Castro mostra come le donne della famiglia dovessero
sottostare all’intero androceo, non soltanto al padre. La scoperta di
uno scambio di componimenti poetici e forse di qualche lettera fra i
due ― a far da tramite, come nei romanzi, un pedagogo ― spinse infatti i fratelli di lei a lavare nel sangue il presunto affronto alla sorella
EUGENIO RAGNI
22
e alla famiglia (il Sandoval era sposato): sicché, siamo agli inizi del
1546, Isabella e il messaggero vennero pugnalati, e nell’autunno tre
archibugiate uccisero il presunto amante9.
Estremo, ma esemplare, il cruento “fattaccio” di casa Cenci nella
Roma di fine Cinquecento dimostra inoltre quali sacche di odio e violenza potessero formarsi e deflagrare in una famiglia, dominata da un
padre che, forte della concezione che glie ne dà il diritto, non è soltanto un padre–padrone ma un violento tiranno, che si spinge fino ad abusare della figlia Beatrice, la quale con la complicità della matrigna,
dell’amante e del fratello decide di farlo uccidere da due sicari, uno
dei quali suo amante, facendo però in modo che sembri un incidente.
Ai sospetti degli inquirenti seguono la delazione, le confessioni estorte
con la tortura e le pesantissime condanne, che portano all’atroce supplizio pubblico dei colpevoli, cui non fu concessa alcuna attenuante
per la conclamata violenza paterna, né in particolare per l’abuso nei
confronti della giovane Beatrice, sùbito compianta popolarmente come vittima e per questo entrata a far parte di una certa mitologia letteraria che ha ispirato scrittori della statura di Shelley e Stendhal, storici, romanzieri e autori di teatro, da ultimo Alberto Moravia.
Un quadro idilliaco della famiglia è invece quello descritto da Torquato Tasso nel dialogo Il padre di famiglia, scritto nel 1580 ma
stampato solo tre anni dopo. Sullo schema del trattato albertiano, il
protagonista, un gentiluomo possidente di Borgo Vercelli, disserta
saggiamente su matrimonio, famiglia, amministrazione della casa,
rapporti fra coniugi e fra genitori e figli:
dico che la cura del padre di famiglia a due cose si stende, alle persone e a le
facoltà, e che con le persone tre uffici dee esercitare, di marito, di padre e di
signore; e nelle facoltà due fini si propone, la conservazione e l’accrescimento.
La struttura piramidale della famiglia non sembra però molto cambiata in due secoli, anche se le forme di patria potestas descritte dal
gentiluomo appaiono improntate a una rigidezza un po’ ammorbidita,
9
Introdotti da un pregevole saggio, i canzonieri dei due sfortunati personaggi sono stati
recentemente riproposti in edizione critica commentata da Tobia R. Toscano, Roma, Salerno
Editrice, 2007.
Matrimonio e famiglia nella letteratura italiana
23
almeno in linea teorica; né troppo mutata risulta nella sostanza la posizione di moglie
dico ch’il marito dee procurar d’averla anzi giovinetta ch’attempata, non solo
perch’in quell’età giovanile la donna è più atta a generare, ma anco perché
secondo il testimonio d’Esiodo può meglio ricever e ritener tutte le forme de’
costumi ch’al marito piacerà d’imprimerle. […] Or, s’avverrà che ’l marito
[…] tolga la moglie, molto più agevolmente potrà in lei essercitar quella superiorità che dalla natura all’uomo è stata concessa, sanza la quale alle volte
aviene ch’egli così ritrosa e inobediente la ritrovi ch’ove credeva d’aver tolta
compagna che l’aiutasse a far più leggiero quel che di grave porta seco la nostra umanità, si trova d’essersi avenuto ad una perpetua nemica. […] Virtù
dunque della donna è il sapere ubbedire all’uomo non in quel modo che ’l
servo al signore e ’l corpo all’animo ubbedisce, ma civilmente in quel modo
che nelle città ben ordinate i cittadini ubbediscono alle leggi e a’ magistrati
[…].
Virtù propria dell’uomo è la prudenza e la fortezza e la liberalità, della donna
la modestia e la pudicizia10.
Meglio poi che non traffichi «nella cucina o ’n altre cose sordide
che posson bruttare il corpo»; ma, oltre a tenere in perfetto ordine la
casa, dovrà occuparsi delle derrate alimentari che affluiscono in dispensa, organizzandone accuratamente i consumi; però «principalissima cura sua dee esser quella de’ lini e delle tele e delle sete, con le
quali ella potrà non solamente provedere a’ bisogni e alla orrevolezza
della casa, ma fare anco alcuno onesto guadagno»; e a proposito di
stoffe, la buona madre di famiglia deve anche tessere, per essere in caso all’altezza di «fare alla figliuola ricco e orrevol corredo»; con il che
«par ch’ella in un certo modo s’avanzi e che co ’l marito possa venire
in paragone»11.
Come si vede, c’è soltanto un po’ più di considerazione per il lavoro della donna (e qui si tratta di una gentildonna abbiente), ma il carico di lavoro resta.
Illuminato da insigni studiosi, da grandissimi artisti, da una straordinaria propensione alla libertà intellettuale e alla creazione fantastica,
10
T. Tasso, Il padre di famiglia, in Id., Prose, a c. di E. Mazzali, Milano–Napoli, Ricciardi, 1969, pp. 93–94.
11
Ivi, p. 112–13.
24
EUGENIO RAGNI
il Seicento è anche sinistramente rischiarato però dalle fiamme in cui
bruciano migliaia di eretici veri o supposti e di presunte streghe. E non
è certo questo il luogo e l’occasione per rievocare le vergognose repressioni di persone e di idee che avrebbero certamente giovato al genere umano infinitamente più di prediche barocche, indici dei libri
proibiti, dei cerimoniali suggestivamente fastosi, dell’inquisizione,
degli autos–da–fè, e anche più dei concili che tendevano a reinstaurare
un passato di prescrizioni e proscrizioni.
La restaurazione post tridentina riuscirà in Italia a intridere profondamente mentalità, consuetudini, ideologie: tanto che il Settecento illuminista non riuscirà ― se non molto parzialmente ― a recuperare
l’impulso innovatore che aveva caratterizzato il Rinascimento, e neppure a far adeguatamente tesoro della fantasiosa inventività barocca.
La dea Ragione che domina il secolo dei lumi sollecita e promuove le
scienze, cura società e politica, ma non interviene gran che a cambiare
la mentalità tradizionale nei confronti della donna e della famiglia. I
nuclei familiari rappresentati nelle commedie di Goldoni, per esempio
― dove pure, novità prerivoluzionaria, anche i servi assumono una loro dignità di persone e partecipano attivamente alla vita familiare, divenendo spesso complici dei loro “padroncini” ― sono famiglie sostanzialmente conformi alla tradizione, il più delle volte aggregabili al
ceto medio o a quello della piccola nobiltà; e se le litigiose chioggiotte
delle Baruffe sono tutte tipi realisticamente credibili, e se Mirandolina,
la Locandiera, raffigura un tipo di donna indipendente e intraprendente abbastanza nuovo sulle scene: è anche vero che la sua impresa di
seduzione conferma in sostanza la caparbia diffidenza che la sua vittima, il cavaliere di Ripafratta, nutre nei confronti delle donne in genere12, e nel complesso l’universo femminile del Goldoni è una versione
solo più realistica della damina frivola, quasi sempre protagonista del
solito gioco di coppia “ti–incontro/ti–prendo/ti–lascio/ti–riprendo/ti–
rilascio/ti–sposo”, vale a dire dell’abusato cliché che riscuote da sem12
Cfr. La locandiera, a. I, sc. IV: «Io certamente non vi è pericolo che per le donne abbia
che dir con nessuno. Non le ho mai amate, non le ho mai stimate, e ho sempre creduto che sia
la donna per l’uomo una infermità insopportabile»; e ancora: «Arte, arte sopraffina. Poveri
gonzi! Le credete, eh? A me non la farebbe. Donne? Alla larga tutte quante elle sono»;
«quando considero che per aver figlioli mi converrebbe soffrire una donna, mi passa subito la
volontà».
Matrimonio e famiglia nella letteratura italiana
25
pre e ancora oggi un gran successo sui palcoscenici (e sugli schermi)
di tutto il mondo, ma che raramente si presta ad affondi nella realtà del
tempo. La singolare struttura socio–politica di Venezia, peraltro in
imminentissima crisi, ma soprattutto l’occhio (e il carattere) dell’autore smussano ed edulcorano infatti una situazione reale ben diversa,
che solo talvolta mostra qualche addentellato con il momento storico:
accade per esempio in La famiglia dell’antiquario (1749), dove nei
contrasti fra suocera e nuora è possibile leggere in filigrana ― ma,
come sempre in Goldoni, senza autorizzazione a trarne implicazioni
ideologiche ― la collisione fra la sfibrata classe aristocratica e la nuova, ambiziosa borghesia nascente; o nella Trilogia della villeggiatura,
del 1761, in cui la rappresentazione di un momento particolare nella
vita di due famiglie abbienti, la villeggiatura appunto, è tratteggiato
con notevole verità, ma soprattutto vi aleggiano malinconici presagi di
un immediato futuro difficile, nel quale, prevedono i due anziani patres familiarum, non si avranno più i mezzi per certi lussi, e si dovrà
ben presto rinunciare a quello, certo fra i meno vitali, di “andare in
villa”.
Alla fine del secolo la rivoluzione francese prima e Napoleone poi
attueranno molti cambiamenti in parecchi campi; ma non molti però
nella concezione di coppia e di famiglia: se infatti da un lato Bonaparte abolirà felicemente le istituzioni monastiche, il maggiorascato
e le differenze che la legislazione fino allora vigente stabiliva fra i
diversi figli, e se introdurrà addirittura il divorzio (che peraltro verrà
abrogato all’indomani della sua caduta), ribadirà però il ruolo fondamentale di un solido nucleo familiare dalla struttura conforme alla
tradizione, come sintetizzato nello slogan: “Famiglia forte in forte
Stato”.
E a proposito dei primi due decreti napoleonici concernenti gli assi ereditari, vengono quasi automaticamente alla memoria le straordinarie pagine in cui il Manzoni ritrae la nobile famiglia della “monaca di Monza”, nelle cui drammatiche vicende entrano infatti esemplarmente la legge del maggiorascato, per il quale l’intero patrimonio familiare doveva essere ereditato dal primogenito, e l’istituto della monacazione, di solito forzata come nel caso appunto della “sventurata” Gertrude.
EUGENIO RAGNI
26
La nostra infelice stava ancora nascosta nel ventre della madre, che la sua
condizione era irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi
s’ella sarebbe un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva mestieri, non il suo assenso, ma la sua presenza.
La figura del principe paterfamilias è qui emblema del persistere
della concezione autoritaria interna a ogni gruppo familiare, in particolare se appartenente alla nobiltà: il principe padre era infatti
un gran gentiluomo milanese, il quale poteva contarsi fra i più doviziosi della
città. Ma il concetto indefinito ch’egli aveva del suo titolo gli faceva parere le
sue sostanze appena sufficienti, scarse anzi a sostenerne il decoro; e tutte le
sue cure erano rivolte a conservarle, almeno quali erano, unite in perpetuo,
per quanto dipendeva da lui. Quanti figliuoli egli s’avesse non appare chiaramente dalla storia; si rileva soltanto ch’egli aveva destinati al chiostro tutti i
cadetti dell’uno e dell’altro sesso, per lasciare intatta la sostanza al primogenito, destinato a perpetuare la famiglia, a procreare cioè dei figliuoli, per tormentarsi e tormentarli nello stesso modo13.
La vicenda si arricchisce di tratti tipicamente secenteschi, appena
più “barocchi”, credo, di quelli che Manzoni avrebbe potuto riscontrare negli anni in cui scriveva e riscriveva il suo romanzo, due secoli
dopo; e mi riferisco all’educazione minuziosamente programmata per
disporre naturalmente la piccola Gertrude alla clausura monacale: non
le si mettono intorno giocattoli tradizionali, ma altarini, bambole in
abiti ecclesiastici, ostie; la si obbliga a lunghi soggiorni in un monastero, facendole promesse di grandi poteri quando fosse badessa; c’è
soprattutto la dissimulazione honesta, la proditoria mascheratura delle
vere intenzioni e dei programmi precostituiti per lei dietro melliflue
lusinghe e, ove queste non valessero, i bruschi passaggi alla violenza
dell’imposizione. Lo spaccato di famiglia è inoltre mirabilmente completato anche attraverso le figure della madre, praticamente assente e
comunque passivamente assoggettata alla volontà del marito; e c’è poi
il comportamento altrettanto asservito dei parenti e del primogenito,
del tutto insensibili alle sofferenze della fanciulla; e infine quello, obbligato ma altrettanto crudele, della servitù:
13
A. Manzoni, I promessi sposi, cap. IX.
Matrimonio e famiglia nella letteratura italiana
27
La famiglia dei serventi si conformava nelle maniere e nei discorsi
all’esempio e alle intenzioni della famiglia padrona: […] con una noncuranza
manifesta, benché accompagnata da un leggiero ossequio di familiarità.
Alla fine Gertrude non ha altro scampo che cedere: non le resta che
implorare il perdono, «mostrandosi indeterminatamente pronta a tutto
ciò che potesse piacere a chi doveva accordarlo». Entra così nel chiostro, e il séguito della sua storia è drammaticamente noto14.
Le cose non cambieranno molto nella concezione della famiglia
nei primi decenni dell’Ottocento. Una significativa descrizione della
formalità che improntava i rapporti fra i vari membri di una famiglia
(romana e borghese, questa volta) è offerta dallo storico David Silvagni:
Il principio che informava la famiglia era l’autorità. Il rispetto per l’autorità
paterna esagerato, ma vero, era il cardine di tutto l’andamento della famiglia.
La moglie trattava rispettosamente il marito chiamandolo “Signor Pietro” o
“Signor Paolo”, i figli s’indirizzavano ai genitori dicendo loro: “Signor padre,
signora madre”; il padre dava del “voi” alla moglie ed ai figli, pronome usato
anche colla servitù, e che indicava poca confidenza e superiorità assoluta15.
14
Di quali mali potessero esser madri le monacazioni forzate sono testimonianza tragica
le carte processuali della Causa violationis clausurae, deflorationis et homicidii Monialis in
Monasterio S.tae Margaritae Modoetiae patratorum a Io: Paulo Osio, conservate in un volume presso l’Archivio della Curia Arcivescovile di Milano: nelle quali sono registrate le vicende della monaca realmente esistita che, attraverso il racconto che ne fece Giuseppe Ripamonti a metà Seicento, ispirò al Manzoni la Geltrude del Fermo e Lucia ― in cui il racconto
della relazione erotica e dei delitti è ben circostanziato ― e la Gertrude dei Promessi sposi,
dove l’autore, fermandosi dunque al primissimo atto della vicenda, riassume invece i fatti delittuosi in un’unica, famosa frase: «La sventurata rispose». Gli atti del processo sono stati criticamente e integralmente trascritti da Giuseppe Farinelli nel volume Vita e processo di suor
Virginia Maria de Leyva monaca di Monza, Milano, Garzanti, 1985, pp. 198–747. A differenza del personaggio manzoniano, suor Virginia è però una figura del tutto scialba e deludente,
tragica ma solo perché troppo inerte e priva di personalità: plagiata o meno che sia, nel corso
del processo sembra non rendersi mai conto delle proprie responsabilità e della gravità di
quanto ha commesso. Sulle monacazioni forzate e alcune conseguenze che ne derivavano, si
veda R. Canosa, Il velo e il cappuccio. Monacazioni forzate e sessualità nei conventi femminili in Italia tra quattrocento e settecento, Roma, Sapere 2000, 1991.
15
D. Silvagni, La Corte e la società Romana nei secoli XVIII e XIX, I, Napoli, Berisio,
1967, p. 98. Per un quadro più esaustivo, si veda però l’intero cap. V, intitolato La casa e la
famiglia, pp. 91–106. Non sarà ozioso avvertire che peraltro non solo la stessa atmosfera vigeva nelle famiglie di gran parte d’Italia, ma che ancora oggi, specie nel Meridione e nelle i-
28
EUGENIO RAGNI
Sconcertante, fra tantissimi altri, il caso del padre di Cesare Beccaria: contrario al matrimonio per lo scarso censo della compagna di vita, che invece insisteva perché legittimasse la loro relazione, adì in tribunale e le autorità gli diedero ragione, condannando la donna agli arresti domiciliari!
Senza ovviamente giungere a simili assurdità, anche il Risorgimento perpetua l’autorità del capofamiglia e la subordinazione della donna
nell’ambito familiare e nel rapporto di coppia: ma ora, a parziale giustificazione di questo atteggiamento conservatore, subentra la ragione
sociopolitica epigraficamente enunciata da Massimo d’Azeglio: «Ora
che l’Italia è fatta, facciamo gli Italiani!»; e prima base per fare gli Italiani era, a giudizio comune, il rafforzamento e la valorizzazione della
famiglia come istituto. In questo, il genere “romanzo” poteva costituire ― com’era già convinzione del Manzoni ― un ottimo veicolo
nell’ambito dell’opera di rinnovamento educativo, avvertito come
pregiudiziale per la formazione di una vera nazione. È per questo che
prima e dopo l’unità non pochi testi pongono la famiglia al centro della trama. Anche un giovane garibaldino di idee certamente liberali come Ippolito Nievo affermava nel suo primo romanzo, Angelo di bontà
(1856): «Non vale, credimi, non vale lavorìo di congiure e misticismo
di sette dove la società è tarlata nel suo più santo fondamento, la famiglia». E non a caso anche il suo capolavoro, Le confessioni di un Italiano, è imperniato sulla storia di una famiglia e di una coppia, per
quanto anomala e solo virtuale: Carlino e la Pisana.
Più smaccatamente e utilitaristicamente moralistica appare la posizione dei non pochi galatei di fine secolo; uno di essi si apre con questa premessa–diktat:
Nell’iniziare le mie note, non ho nessuna esitanza. La prima immagine che
mi si affaccia, l’immagine che per me rappresenta la società e la felicità, è
quella della famiglia e quindi quella della casa, centro e vita della famiglia
stessa16;
sole maggiori, non è difficile ritrovare esempi di conservazione di questo uso, che è costante,
del resto, nei romanzi e nelle novelle di Verga.
16
E. Nevers, Galateo della borghesia. Norme per trattar bene, Torino, Giornale delle
Donne, 1883, p. 7. Notevolmente istruttivo sull’idea di famiglia, matrimonio, rapporti sociali,
ecc., si rivela un tour nel fitto scaffale dei manuali di bon ton pubblicati nei decenni postunitari: analisi e confronti costituirebbero un eccellente soggetto per un ampio saggio socio–
Matrimonio e famiglia nella letteratura italiana
29
all’interno della quale la condizione femminile non appare mutata di
molto, pur se qualcosa comincia a fermentare in direzione di un cambiamento, grazie soprattutto al formarsi dei primi movimenti femministi e alle rivendicazioni portate avanti da alcune esponenti del Neonato
socialismo.
Ma non sarà inutile evidenziare, io credo, che subordinazione e sostanziale reclusione casalinga della donna erano legate non soltanto alle impostazioni tradizionali e invalse del rapporto coniugale, ma segnatamente, come ho già osservato, allo schiacciante carico di lavoro
che l’andamento della casa poneva sulle sue spalle, anche dove, come
nelle famiglie mediamente abbienti, intervenisse il supporto di persone di servizio. Era inoltre opinione diffusa (ovviamente di comodo)
che la donna potesse “conversare con se stessa”, senza aver quindi alcun bisogno di relazionarsi con qualcuno all’esterno del nucleo familiare: inutile dire che in quest’ultima situazione aveva gran ruolo la
gelosia del marito. La donna/moglie doveva insomma amare in silenzio, badare a casa e figli, sopportando in caso anche l’affronto di essere messa affettivamente da parte; nel caso poi si comportasse analogamente al marito, la si omologava a una prostituta, concedendo così
al marito il diritto di scacciarla di casa all’istante, o addirittura, diritto
estremo, quello di ucciderla.
storico–antropologico. Fra i più diffusi ricorderò La gente perbene (1877) della Marchesa Colombi (Maria Antonietta Torriani), autrice di parecchi romanzi, fra cui spiccano In risaia
(1878) e Un matrimonio di provincia (1885); Saper vivere di Matilde Serao, datato 1889. Prolifica autrice di manuali di buone maniere fu anche la baronessa Maria Carolina Luigia Sobrero, in arte Mantea, di cui avrò occasione di parlare anche più avanti (Le buone usanze, Torino,
Streglio, 1897; Casi della vita, Il galateo della signorina e Per piacere … la giornata della
signorina, editi tutti e tre da Lattes, Torino, i primi due nel 1911, il terzo nel 1908; e non
mancò persino un suo Consigli pratici alle persone di servizio, Torino, Streglio, 1900). Compilati di solito da vere o posticce titolate, questi vademecum del comportamento erano specificamente indirizzati alle esponenti della nuova classe piccolo–borghese postunitaria, cui dopo
il primo conflitto saranno dedicati altri volumetti istruttivi, uno dei quali presenta già nel titolo
l’eloquente ambizione di “erudire” le ex fanciulle divenute le nuove “signore”: si tratta di Eva
regina, di Jolanda, alias marchesa Plattis Maiocchi, uscito nel 1923 a Milano presso la Perrella, il cui sottotitolo recita: Libro per le signore: moderno galateo: consigli e norme di vita
femminile contemporanea, eleganza, bellezza, amore, usi sociali, morale, educazione, igiene,
coltura [sic], ecc. All’educazione delle subentrate “fanciulle” vennero dedicate in particolare
le opere, popolarissime, di Anna Vertua Gentile, che fra romanzi e racconti dedicò loro un inequivocabile Come devo comportarmi? (1929). Sull’argomento si veda L. Tasca, Buone maniere e cultura borghese nell’Italia dell’Ottocento, Firenze, Le Lettere, 2004.
30
EUGENIO RAGNI
Già: è il famigerato “delitto d’onore”, considerato un dovere per il
marito offeso e fino a pochi anni fa (solo ventisei, per la cronaca) attenuante talmente forte in tribunale da far ridurre drasticamente la pena,
giusta l’art. 587 del Codice Penale. Sono decine e decine le trame che,
con varianti più o meno consistenti di casistica, raccontano storie di
adulterio punito, consumato, sospettato o solo presunto. Anche qui, un
nudo elenco indicherebbe soltanto una mera quantità, aridamente repertoriale; e comunque avrò occasione di tornare più avanti su qualcuno di questi romanzi.
L’ars retorica e l’impegno educativo che impronta la gran maggioranza delle opere letterarie della seconda metà dell’Ottocento non vincola affatto alcuni scrittori più giovani che, sulla scorta delle assai più
mature impostazioni ideologiche e formali divulgate nelle letterature
francese e russa, si impegnano anche rumorosamente (vedi la Scapigliatura) a svecchiare il repertorio italiano, ancora fermo al palo delle
fanciulle accanitamente perseguitate dalla sorte o dalla malvagità dell’ambiente; e penso, ad esempio, alle prolisse e piagnucolose novelle
in versi di Giulio Càrcano o ai più truci ma sostanzialmente affini romanzoni di Mastriani, autori che sembrano ignari o indifferenti ai contemporanei capolavori stranieri. Per darne un’idea, nello stesso anno
(1850) di Damiano. Storia di una famiglia del Càrcano usciva La lettera scarlatta di Hawthorne; un anno prima della Cieca di Sorrento
(1852) era stato pubblicato Moby Dick; contemporaneamente a Il conte pecoraio (1857) di Nievo usciva Madame Bovary.
D’altra parte, data anche la semplicità e la scarsa preparazione del
pubblico dei lettori italiani, la produzione nostrana media proseguirà a
lungo sul binario del cliché romantico della donna indifesa e coartata,
esposta alla malvagità del mondo17; senza però che questa condizione
di sofferenza e sopraffazione riesca a sradicare l’irriducibile opinione
dell’inferiorità anche intellettuale della donna18, cui fa da corollario
17
La si incontra ancora, per esempio, in Storia di una capinera di Verga (1870), in cui
compare anche il motivo della monacazione forzata; persiste nel romanzo della Serao La ballerina (1899). E si tratta di esempi che mi vengono alla memoria di primo acchito.
18
Al proposito, piuttosto significative risultano alcune proposizioni di pur illustri personaggi, decisamente meno illuminati sulla questione femminile. Cesare Lombroso imputava la
per lui conclamata inferiorità femminile alle minori dimensioni della massa cerebrale di
Matrimonio e famiglia nella letteratura italiana
31
l’idea di una innata e irresponsabile sua idoneità al tradimento. Significativo, anche se inserito nel contesto scherzoso di una beffa, il monologo di Ford nell’estroso libretto del Falstaff composto da Arrigo
Boito (1889):
È sogno? o realtà?… Due rami enormi
crescon sulla mia testa
È un sogno? Mastro Ford! Mastro Ford! Dormi?
Svegliati! Su! Ti desta!
Tua moglie sgarra e mette in malo assetto
l’onor tuo, la tua casa e il tuo letto!
L’ora è fissata, tramato l’inganno;
sei gabbato e truffato!
E poi diranno
che un marito geloso è un insensato!
Già dietro a me nomi d’infame conio
fischian passando, mormora lo scherno.
O matrimonio: inferno!
Donna: Demonio!
Nella lor moglie abbian fede i babbei!
Affiderei
La mia birra a un Tedesco,
tutto il mio desco
a un Olandese lurco,
la mia bottiglia d’acquavite a un Turco,
non mia moglie a se stessa. ― O laida sorte!
Quella brutta parola in cor mi torna!
le corna19!
L’anima storicistica e il realismo documentale che informa e sollecita indagini storico–antropologiche impronta anche molti testi letterari di fine Ottocento, che ambiscono a rappresentare il “vero” della vita
«quella semicriminaloide innocua che è la donna normale», la cui «ottusità dolorifica è darwiniana, per non dire teologica. Essa ci spiega perché così facilmente ricada nella gravidanza,
malgrado i dolori del parto e malgrado prenda così poca parte ai piaceri dell’amore. L’uomo
non farebbe altrettanto». E Strindberg: «La nubile può diventare domestica, balia [?!], ballerina, cantante, dama di corte, regina, prostituta. Quest’ultima possibilità manca all’uomo». E
Nietsche: «L’uomo dev’essere educato per la guerra, la donna per il riposo del guerriero. Il resto sono sciocchezze». Traggo questa silloge da Come una coppa di champagne. Storia, vita e
costume dell’Italia del nuovo secolo (1900–1920), a c. di R. Gervaso, Milano, Rizzoli, 1985,
p. 107.
19
A. Boito, Falstaff, a c. di E. Rescigno, Milano, Ricordi, 1991, pp. 81–82.
32
EUGENIO RAGNI
quotidiana, sottraendolo, almeno nelle intenzioni, alle sovrastrutture
deformanti della rielaborazione creativa, allo scopo di indagarne le origini, rappresentarne la fenomenologia, denunciarne le aberrazioni.
Per ottenere una prospettiva funzionale, la narrazione deve di necessità abbracciare un segmento cronologico più esteso, e nascono così i
grandi cicli narrativi di Balzac (che già a metà secolo aveva concluso
la sua poderosa Comédie humaine), i più moderni di Zola (la saga familiare dei Rougon–Macquart) e la serie dei romanzi e dei diari dei
fratelli Goncourt, resoconti quasi “fotografici” della vita parigina di
fine secolo. Innestati su questi modelli d’oltralpe, ma documenti di
una realtà sociopolitica e ambientale ovviamente ben diversa, anche in
Italia nascono progetti di cicli narrativi imperniati su storie familiari,
su un ambiente o un personaggio emblematico.
Primo in Italia è il Verga, con il largamente incompiuto “ciclo dei
vinti”; poi Federico De Roberto, col ciclo dei Viceré, di cui fanno parte L’imperio e L’illusione; ne tenta ben tre ― senza però il supporto di
una base storica ― Gabriele d’Annunzio, che con la triade dei Romanzi della Rosa (Il piacere, L’innocente, Il trionfo della morte), del
Giglio (unico composto Le Vergini delle rocce) e del Melagrano (unico, Il fuoco), ci consegna personaggi e vicende troppo sopra le righe,
restando in pratica al palo della testimonianza di un certo costume
mondano vistosamente asservito al dominante egotismo dello scrittore. Un altro ciclo, senza alcuna intitolazione, è poi la tetralogia fogazzariana dei Maironi, costituita da Piccolo mondo antico, Piccolo mondo moderno, Il santo e Leila.
Sia I Malavoglia che Mastro–don Gesualdo hanno a perno una rappresentazione della famiglia. Nel primo romanzo, il nucleo familiare dei
pescatori di Acitrezza, che nelle prime pagine è ancora nettamente patriarcale nella figura dominante di Padron ’Ntoni, subisce ben presto le
prime incrinature, che via via si faranno più nette e insanabili col sopravvenire di esigenze nuove, economiche e soprattutto esistenziali.
Così, quelle cinque dita che secondo il patriarca formavano e dovevano
continuare a formare il forte pugno da opporre alle forze del destino20
20
G. Verga, I Malavoglia [1891], in Id. I grandi romanzi, a c. di F. Cecco e C. Riccardi,
Milano, Mondadori, 1987, p. 7: «Le burrasche che avevano disperso di qua e di là gli altri
Malavoglia erano passate senza far gran danno sulla casa del nespolo e sulla barca ammarata
sotto il lavatoio; e padron ’Ntoni, per spiegare il miracolo, soleva dire, mostrando il pugno
Matrimonio e famiglia nella letteratura italiana
33
vengono una dopo l’altra a mancare e i componenti della famiglia, tranne il più giovane Alessi, spariranno inghiottiti dal mare, come Bastianazzo e Luca, o dalla vita, come il giovane ’Ntoni e la sorella Lia.
Con Mastro–don Gesualdo l’attenzione del Verga si rivolge a una
già diversa struttura familiare, quella che, contrapposta alla patriarcale,
potrebbe etichettarsi come “coniugale”. Al centro della vicenda,
l’ambizione del protagonista, che “si è fatto da sé”, rompendosi per anni
la schiena nei cantieri e guadagnandosi duramente “la roba”; attorno,
oltre a inetti, invidiosi e superciliosi neoborghesucci e a blasonati qual
più qual meno in disarmo, c’è l’avida famiglia di lui, che lo pressa di
continue richieste d’aiuto, “succhiandogli il sangue”, come dice Gesualdo, al pari dei medici e degli avvocati. Raggiunta l’agiatezza, Gesualdo ambisce a un salto sociale: approfitta dello stato di indigenza in
cui si trovano i fratelli Trao, esponenti di una famiglia nobile che ben
rappresenta il decadere dell’aristocrazia siciliana a fine secolo XIX, per
chiedere la mano di Bianca Trao, forzosamente obbligata ad accettarlo
sia per le stringenti ragioni economiche espostele dai fratelli, sia soprattutto per aggirare lo scandalo di una segreta gravidanza in atto, frutto di
una relazione con un baronetto. L’unione interclassista costituisce già di
per sé un fatto scandaloso ed è infatti ampiamente chiacchierata
nell’ambiente altoborghese e aristocratico del luogo, che, pur compiangendo Bianca, non accetterà mai veramente la coppia, irridendo i comportamenti, le velleità nobiliari e le ambizioni politiche del parvenu.
Unita per mere ragioni d’interesse, la coppia ovviamente non funzionerà; e neppure la nascita di una figlia, frutto peraltro della relazione prematrimoniale di Bianca, varrà a ravvicinare i due coniugi: che resteranno estranei uno all’altro, così come estranea si mostrerà nei loro confronti anche la figlia Isabella, cresciuta da servitù e pedagoghi, educata
in collegi rinomati del continente, divenuta infine contessa di Leyra, ma
privata fin dall’infanzia delle sollecite tenerezze familiari. Deluso negli
affetti e abusato nella “roba” (anche il genero ha contratto un matrimonio d’interesse), Gesualdo morirà in una appartatissima stanza nel palazzo di città, solo come un estraneo.
chiuso […] ― Per menare il remo bisogna che le cinque dita s’aiutino l’un l’altro. Diceva pure, ― Gli uomini son fatti come le dita di una mano: il dito grosso deve far il dito grosso, e il
dito piccolo deve far da dito piccolo. E la famigliola di padron ’Ntoni era realmente disposta
come le dita della mano».
EUGENIO RAGNI
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Ma nel romanzo vive e soffre un’altra figura femminile, un personaggio che, oltre ad essere una creazione narrativamente felice, vive e
soffre una tipologia di coppia “irregolare”, di un rapporto more uxorio
conosciuto da tutti ma ufficialmente ignorato per ipocrita convenzione: emblema di un costume piuttosto diffuso nella realtà e frequentemente introdotto nei romanzi dell’epoca, variato nella connotazione
dei personaggi, nell’ambientazione, nell’eventuale contesto storico,
ma non nella sostanza. Mi riferisco a Diodata, personaggio nuovo in
letteratura ma non certo nella realtà di certe consuetudini soprattutto
meridionali. Diodata, serva e amante quasi animalescamente fedele,
s’incide nella memoria del lettore sia come donna ― sarà la sola persona ad amare Gesualdo e la sola a dargli un affettuoso commiato nel
momento della partenza di lui per Palermo ― sia come vittima, in
quanto donna umile, forse plagiata ma sinceramente devota, al punto
da accettare anche un marito impostole, un brav’uomo che però mai
sostituirà in lei la figura del venerato padrone21.
Analoga alla famiglia Trao, gli Uzeda dei Viceré rappresentano, per
precisa dichiarazione di De Roberto, «la storia di una grande famiglia,
[…] composta di quattordici o quindici tipi tra maschi e femmine, uno
più forte e stravolgente dell’altro. […] Il primo titolo era Vecchia razza», a significare l’intenzione dell’autore di rappresentare «il decadimento fisico e morale di una stirpe esausta»22.
Il gran numero di personaggi che agiscono e interagiscono nel romanzo, senza che nessuno di essi assurga anche solo episodicamente
al ruolo di protagonista, offrono sotto l’angolo visuale che qui interessa un ricco repertorio di “casi” familiari e di coppia, nella quasi totalità dominati e guidati dall’interesse personale o di famiglia, unico elemento propulsore di matrimoni, alleanze, contrasti e livori. La morte
di donna Teresa Uzeda, dispotica mater familias, accende nei quattro
figli maschi accanite rivalità, che condurranno la famiglia a una pro21
La stessa situazione ricorre in Il Marchese di Roccaverdina di Luigi Capuana (1901): il
marchese Antonio, non potendola sposare, combina le nozze fra l’amante Agrippina e il devoto Rocco, a condizione però che tra i due non intercorrano rapporti sessuali; ma ben presto, in
preda a un’assurda gelosia, uccide Rocco, lasciando che dell’omicidio sia accusato un altro;
ma i rimorsi ne mineranno la tempra, e morirà quasi pazzo.
22
F. De Roberto, lettera a F. De Giorgi, cit. in G. Borri, Come leggere i Viceré, Milano,
Mursia, 1995, p. 34.
Matrimonio e famiglia nella letteratura italiana
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gressiva degenerazione comportamentale ed economica, concretamente rivelata da corrispondenti segni di decadimento psicofisico. Delle
tre figlie, che sono escluse dall’asse ereditario dalla legge salica, Angiolina è monaca, Chiara viene data forzosamente in moglie al vecchio
marchese di Villardita, mentre Lucrezia, brutta ma volitiva, nonostante le opposizioni in famiglia sposerà un ricco borghese. Raimondo,
l’enfant gaté di donna Teresa, oltre a scialacquare parte del patrimonio, rende la vita impossibile e poi abbandona la moglie impostagli a
suo tempo dalla madre, e fugge con l’amante, la bellissima Isabella,
che sposerà appena sarà morta la moglie; ma poi abbandonerà anche
Isabella, restando solo e privo di mezzi.
Tanto il corale affresco dei Viceré mostra ampio respiro ed è sorretto da una ideologia deterministica di fondo, quanto invece pretestuoso,
concepito a posteriori e senza una precisa progettualità interna appare
al confronto il trittico dei cicli dannunziani, che esigerebbe invece, in
rapporto al tema che stiamo trattando, uno sviluppo a sé, in quanto anche a voler sorvolare su drammi e liriche, la casistica rappresentata nei
cinque romanzi è molto consistente e variegata, ma soprattutto l’analisi dei rapporti di coppia vi si articola spesso in sottili e sofisticati arabeschi che inibiscono ogni possibile sintesi: si pensi anche soltanto
al caleidoscopio di situazioni matrimoniali e di coppia prospettate in Il
piacere o alle torbide vicende coniugali che tormentano o travolgono i
personaggi del Giovanni Episcopo, di Le vergini delle rocce, di
L’innocente.
Molto più connesso a una specifica realtà storico–politica risulta
indubbiamente il percorso dei Maironi padre e figlio, protagonisti dei
quattro romanzi citati di Fogazzaro: nel primo dei quali, Piccolo
mondo antico, emerge una figura particolarmente interessante e soprattutto nuova di donna, Luisa, che campeggia in un interno familiare e coniugale ambientato negli anni del Risorgimento. Il rapporto
fra i due coniugi, due persone che si amano ma non si comprendono,
si incrina alla morte della figlia, la piccola Ombretta: contrariamente
al marito, che trova consolazione nella fede e nella partecipazione ai
moti di liberazione, Luisa, da sempre tiepida credente, perde del tutto
la fede, giudicando quella disgrazia una vera e propria ingiustizia divina; nonostante la sua conclamata razionalità non riuscirà a rassegnarsi: si separerà dal marito e cercherà inutilmente una consolazio-
EUGENIO RAGNI
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ne in pratiche paranormali, convinta di poter trovare la figlia in quella dimensione.
Ma ben altre figure di donna entrano nella letteratura italiana
dell’Ottocento, introdotte e, almeno in parte, sdoganate dall’innovazione verista (che predilige personaggi e vicende sopra le righe, con
protagonisti appartenenti di solito ai ceti bassi, come in La lupa di
Verga o in Assunta Spina di Salvatore di Giacomo), ma assai più dalla
popolarissima narrativa francese, più attenta alla compresenza e
all’interazione fra la nuova borghesia e i ceti inferiori più o meno emergenti; cui si aggiungeranno ben presto i grandi autori russi, Dostoevskij in particolare, e le problematiche pièces di Ibsen23.
Reagendo soprattutto a una tipologia femminile che, partita dalle
idealizzazioni trecentesche di Beatrice e Laura e perpetuatasi nel tempo fino a tutto il XVIII secolo, contrastava ormai nettamente con la
realtà sociale finalmente in movimento, Scapigliatura e Verismo e soprattutto la profluvie dei lettissimi feuilletons promuovono a protagoniste o quantomeno a deuteragoniste di romanzi, di novelle e pièces
teatrali donne decisamente meno virginali, spesso tangenziali, per così
dire, all’istituzione famiglia, ma che con la famiglia entrano in rovinosa collisione: contraltari della fanciulla e della donna virtuosa, incarnazione dei sogni proibiti di tanto popolo maschile, sono le femmes fatales che, pronipoti più o meno legittime delle ammalianti figure di incantatrici dei poemi classici, da Circe ad Alcina, approdano nella letteratura e soprattutto nei romanzi d’appendice, arrivando a colonizzare
anche i testi delle canzoni da tabarin24. Il pubblico maschile si identificava virtualmente nei protagonisti di quelle farraginose, sensualissime, travolgenti storie d’amore, mentre le gentili lettrici, oltre all’ovvio
coinvolgimento emotivo, vedevano nelle disinibite amanti, nelle adultere, nelle donne che si ribellavano alle convenzioni un esempio di li23
Per esempio, il dramma di Giacosa I diritti dell’anima ripercorre quasi alla lettera la
trama di Casa di bambola del commediografo norvegese (1879), la cui prima traduzione italiana, opera di Luigi Capuana, apparve proprio nello stesso anno della “prima” del dramma
giacosiano, il 1894.
24
Si pensi a Vipera, grande successo di Anna Pappacena, in arte Anna Fougez, che pur
essendo donna cantava: «Vipera, vipera, al braccio di colei / che ha distrutto tutti i sogni miei,
/ sembravi il simbolo, l’atroce simbolo / della sua malvagità!».
Matrimonio e famiglia nella letteratura italiana
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bertà a loro negate dal censo, dalle convenzioni sociali, da una vita
quotidiana piatta quando non umile, comunque spenta e nella maggioranza dei casi drammaticamente faticosa e frustrante.
La cronaca non sembra del resto da meno: tant’è che per esempio il
romanzo–scandalo Circe (1912) di Annie Vivanti risulta uno sbiadito
canovaccio passionale se confrontato con le sanguinose vicende divenute di dominio pubblico al clamoroso processo contro Maria Tarnowska (1910), una bellissima russa, le cui irresistibili arti seduttive avevano travolto fino al delitto o al suicidio più di un amante; dimostrando quanto la realtà potesse facilmente superare la fiction più immaginosa di una Carolina Invernizio o di una Contessa Lara.
L’adulterio è comunque l’ingrediente più maneggiato nella narrativa tra Otto e Novecento, e lo sarà a lungo25. Spesso, però, il cedimento
dell’uno o dell’altro coniuge ― quasi sempre è però l’uomo a “tradire” ― non si profila come un colpo di fulmine, ma è posto in relazione con un momento di crisi della coppia, quando addirittura non lo si
rappresenti minato fin dall’inizio dalla già citata prassi ― abbastanza
frequente nelle classi nobili e in quelle alto e piccolo borghesi ― di
predeterminare l’unione indipendentemente dalla volontà, e spesso
addirittura della conoscenza diretta, dei due contraenti: che dunque
non si saranno scelti liberamente, ma avranno dovuto sottostare a obblighi e a convenzioni familiari, di solito connessi ad aridi calcoli economici uni– o bilaterali.
In qualche caso, ma credo solo per ragioni di pruderie, la “maliarda” dei romanzi ottocenteschi e primonovecenteschi sfrutta infatti la
crisi o il fallimento di un’unione in cui ci sia scarsa intesa sessuale, il
più delle volte dovuta alla quasi totale disinformazione della sposa:
una disinformazione in passato ampiamente diffusa, che trovava i punti di forza nei tabu legati in gran parte alla profonda e perpetuata for25
Per restare nell’àmbito del cafè chantant, e per quanto riguarda famiglia e adulterio, ancor più famosa è la canzone drammatica Profumi e balocchi di E. A. Mario, dove una tenera
minorenne tenta di far recedere la madre snaturata dal continuare a farsi bella per l’amante:
«Ella [la madre], nel salotto profumato / ricco di cuscini di seta, / porge il labbro tumido al
peccato, / mentre la bambina indiscreta / dischiude quel nido / pieno d’odor di Coty …
“Mamma!”, mormora la bambina,/mentre pieni di pianto ha gli occhi, / “Per la tua piccolina
non compri mai balocchi! / Mamma, tu compri soltanto i profumi per te!». Ben le sta, la snaturata genitrice riempirà di balocchi il letto di morte della povera, trascurata figlioletta (uccisa,
vien fatto di pensare, dalle esalazioni del Coty).
EUGENIO RAGNI
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mazione cattolica che condizionava pesantemente anche a livello psicologico l’educazione sommaria sull’argomento “sesso” delle cosiddette “fanciulle perbene”; e nell’alone di peccato che aleggiava per
tradizione sulle intimità fra coniugi26. Il risultato di queste inibizioni,
peraltro facilmente eludibili ed in effetti spessissimo eluse, poteva
stimolare in giovani coscienze meno lasche a coltivare fantasie erotiche eccessivamente allettanti27 o, al contrario, causare alle neo spose
traumi fisici o psicologici irreparabili28.
In una simile temperie, la solitamente più che disinibita “maliarda”
offriva invece all’uomo paradisi erotici meno routiniers, pimentati per
di più dal sempre invitante sapore del “proibito” e pertanto quasi sempre coinvolgenti in toto, e dunque movente non secondario dei vari
26
Ancora agli inizi del Novecento erano in vendita camicie da notte con su ricamato il
motto: «Non lo fo per piacer mio/ma per dare figli a Dio”; il tipo più diffuso era però un modello (bisex?) con funzionale fenditura anteriore. Non è una invenzione, ma se pure lo fosse
― e assolutamente non lo è – numerosi testi possono comunque testimoniare consuetudini
coniugali assurdamente costumate che solo da pochi decenni vengono ritenute ridicole e inaccettabili. Credo che tutti ricordino le pagine del Gattopardo, in cui il vigoroso principe di Salina autogiustifica i trascorsi con Sarah, «la sgualdrinella parigina che aveva frequentato tre
anni» prima, e le costanti evasioni extraconiugali con la ruspante Mariannina, dicendosi decisamente frustrato negli slanci amorosi dalla moglie che «a letto, si fa il segno della croce prima di ogni abbraccio e che, dopo, nei momenti di maggiore emozione non sa dire che “Gesummaria!”»; preferisce di gran lunga i «Principone!» della contadina e «i mon chat od i mon
singe blond» della francesina: esclamazioni che gli suonano «molto meglio di “Gesummaria”;
niente sacrilegio, almeno» (G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Milano, Feltrinelli,
1989, pp. 28–29). Restando comunque in àmbito coniugale, di recente la Chiesa ha ribadito la
condanna sia dei rapporti extraconiugali, sia, addirittura, dei preliminari erotici. Fino a qualche tempo fa, peraltro, anche senza proibizioni esterne, era normalmente giudicata del tutto
impraticabile la nudità fra coniugi, e ancor più quella fra genitori e figli; né erano ammessi in
famiglia discorsi anche solo allusivi sul sesso.
27
Come avviene, per esempio, nel curioso e anomalo romanzo liberty dell’oscura impiegata Clotilde Scanabissi Samaritani, nata e vissuta a Budrio, nota patria dell’ocarina, che a
proprie spese e con l’orientaleggiante pseudonimo di Nyta Jasmar pubblicò nel 1913 gli erotici Ricordi di una telegrafista, imperniato sulla doppia vita d’un’oscura impiegata, che in privato, la sera, si trasforma virtualmente in una sorta di intemperante Elena Muti e immagina
accese avventure d’amore, mantenute peraltro nei limiti di un osé che oggi suonerebbe solo
ingenuo o rusticamente paradannunziano, se non fosse per l’inatteso accostamento ossimorico
delle due personalità della protagonista, enunciato già in copertina, fra un mestiere banalmente quotidiano (telegrafista) e lo pseudonimo da mille e una notte dietro al quale si è nascosta
l’autrice fino a trent’anni fa. Il romanzo è stato ripubblicato a c. di G. Ungarelli (Torino, Einaudi, 1975)
28
È il caso, fra i tanti, di Giacinta, protagonista del romanzo omonimo di Luigi Capuana
(1879) e dei due personaggi semiatobiografici di Una donna di Sibilla Aleramo (1906) e di
Espatriata di Mantea, dei quali dirò più avanti.
Matrimonio e famiglia nella letteratura italiana
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“tradimenti”, dei “triangoli”, degli “abbandoni”: situazioni centrali di
un’infinità di trame romanzesche, il cui corollario più consueto è la
rovina economica del malcapitato fedifrago, normalmente ad opera
della donna–vampiro di turno. E citerò, fra i tanti citabili, Vortice di
Alfredo Oriani (1899), storia di un modesto ragioniere di provincia,
felicemente accasato, che, inviluppato in una squallida relazione con
un’attricetta, falsifica la firma su una cambiale per sovvenire a una richiesta di lei; quando si rende conto che il falso è stato scoperto, si uccide gettandosi sotto un treno29.
Analogo nella sostanza il caso narrato in Demetrio Pianelli di Emilio De Marchi (1890): Cesarino, fratello del protagonista, è un velleitario viveur che si rovina al gioco e falsifica un assegno; scoperto, si
uccide, lasciando ogni carico morale e materiale di moglie e figli a
Demetrio, il quale con il sacrificio delle proprie economie riuscirà a
riequilibrare la situazione, perdendo però oltre agli scarsi risparmi anche la pace, perché nascostamente innamorato della bella e irriflessiva
cognata Beatrice, che sposerà un cugino di Demetrio.
Bene o male l’uomo aveva modo di acquisire una maggiore informazione in campo sessuale, anche perché di solito l’iniziazione avveniva quasi ritualmente in una casa di tolleranza, cui in seguito lo dirigevano inoltre la proibizione di avere rapporti prematrimoniali, la frigidità o il precoce sfiorire della moglie; mentre la futura sposa, legata
fra l’altro al sacramentale ma non esclusivamente religioso diktat della
verginità da conservare fino al matrimonio, era invece scarsamente e
in qualche caso totalmente disinformata sull’atto sessuale; e questo,
oltre che per l’educazione familiare e cattolica, anche a causa della
censoria sorveglianza di frequentazioni e letture: queste ultime ostacolate oltretutto dalla ghettizzazione dei testi più o meno “osceni” nei
cosiddetti enfers delle biblioteche30.
29
A. Oriani, Vortice, a c. di E. Ragni, Atripalda, Mephite, 2008.
L’etichetta “toponomastica” di inferno la dice già chiara sull’origine puritanesca di queste sezioni off limits del patrimonio librario mondiale: che mi sembra degna filiazione, ma più
ipocrita, di quell’Index librorum prohibitorum di istituzione controriformistica ― “sospeso”,
non già “abolito”, appena quarant’anni fa ― , nel quale incredibilmente e ottusamente erano
registrati alla stregua di pericolosi virus un gran numero di classici, da Boccaccio a Moravia,
tanto per tracciare due eloquenti estremi cronologici.
30
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40
Ma l’aspirazione al nuovo, al diverso, perfino al proibito è da sempre prepotente, non la si può certo fermare con antiquati ricatti morali:
il nuovo Regno d’Italia è improntato al laicismo e la spinta di libertà
dopo tanti anni di repressione militare e di restrizioni moralistiche è
ormai inarrestabile. I romanzi osés di d’Annunzio vanno a ruba, anche
presso impensabili lettori: come Terresina, la moglie del tartassato
Oronzo Marginati, un modesto mezzemaniche romano, che confessa:
«di quello che scriveva lui, il novanta per cento un lo capivo e mi vergognavo perché tutte le signore dicevano che a Dannunzio toccalo
dappertutto ma lasciaci stare la lingua». Il poveretto deve privarsi
«d’un ombrello novo» per comprare alla moglie «ben cinque lire di
Forse che sì, ma può puro darsi di no» fresco di stampa. Terresina è
una fan accanita anche del Fogazzari, «suo sogno permanente», quasi
alla pari con d’Annunzio, il quale «in certi punti […] ci ha lo stesso
sapore sciropposo, ma con una puntarella aromatica». In simile temperie di apparente acculturamento postunitario, a soffrirne, oltre il marito, è soprattutto il già magro bilancio familiare31.
Nelle figure femminili che con discreta componente misogina la
gran parte degli scrittori rappresenta come altrettante mister Hyde al
femminile vengono recuperate tutte o quasi le caratteristiche inquietanti e “negative” della donna/demonio del passato; e a beneficio e
conforto dei moralisti, il più delle volte l’autore farà scontare loro pesantemente l’aver condotto per scelta o per costrizione una vita fuori
dagli schemi: ne vengono infatti ripagate con lo squallore di un’esistenza senza affetti, traboccante di compromessi morali e di sostanziale solitudine, spesso conclusa da una morte per malattia (tisi) o per
violenza (preferiti coltello o pugnale); mentre invece fra le protettive
mura di un appartamento borghese il turbato equilibrio familiare di solito si ricompone. È questa, più o meno, la trama del verghiano Il marito di Elena (1881), uno degli esempi ― anche se il meno moralistico
― di questo tipo di storie studiatamente rassicuranti.
Ma mentre il ritorno in famiglia del marito adultero è in genere accolto alla stregua di quello del biblico figliuol prodigo, difficilmente
accade altrettanto nel caso in cui ad abbandonare il tetto coniugale sia
31
L. Lucatelli, Come ti erudisco il pupo. Conferenza paterno filosofica […] di Oronzo E.
Marginati [1915], Milano, Rizzoli, 1977, passim.
Matrimonio e famiglia nella letteratura italiana
41
stata la moglie, vuoi effettivamente adultera o solo suppostamente tale. Una sostanziale carica di misoginia pervade questi racconti, nei
quali è generalmente l’uomo, novello Adamo ingenuo, a cader vittima
non soltanto delle arti incantatrici e amatorie di avventuriere in cerca
di un’agiata sistemazione sociale ed economica, di femmine sensuali
disinibite quanto interessate o di piccole Bovary annoiate, ma anche di
casalinghe inquiete e pericolosamente tentate dal “proibito” della relazione adulterina di per sé.
Esponenti di questa tipologia sono, ad esempio, la Fosca di Iginio
Ugo Tarchetti (1869), le protagoniste dei verghiani Eva (1873) e Tigre
reale (1876); la Almerinda del racconto, anch’esso pesantemente misogino, di Vittorio Imbriani Dio ne scampi dagli Orsenigo (1876),
l’Irene di L’eredità Ferramonti di Gaetano Carlo Chelli (1884), la Ginevra del dannunziano Giovanni Episcopo (1892); e come rappresentante della femminilità apportatrice di disgrazie anche malgré soi, si
può scegliere la Beatrice del già ricordato Demetrio Pianelli. Ometto
naturalmente le numerose sciupamaschi di cui sono fitti i pur straordinari feuilletons di Carolina Invernizio, come «la bellissima ballerina
giavanese Nara» di Il bacio di una morta (1886).
Come ho accennato poco sopra, l’adulterio o il tradimento portano
quasi sempre, se scoperti, a un esito cruento, di cui è generalmente vittima la donna. Anche in questo caso i titoli sarebbero numerosissimi, e
basterà ancora una volta una più che sommaria esemplificazione: nel
già ricordato romanzo di Verga Il marito di Elena, la protagonista, adultera, è uccisa a pugnalate dal marito, come accade anche alla Ginevra del Giovanni Episcopo e all’adultera Palmira Pardi, personaggio
del Demetrio Pianelli;
Saranno un romanzo ottocentesco del 1901 e una commedia del
1917 a mettere finalmente in berlina l’usanza di cacciare la moglie fedifraga e il delitto d’onore; ma l’irrisione, l’ironia dissacrante e l’ampia adesione di un pubblico numeroso nelle librerie e in teatro non
serviranno però, come ho detto sopra, a cassare sùbito il famigerato
articolo 587.
Marta Ajala, protagonista di L’esclusa (primo romanzo di Pirandello, matrice della commedia L’uomo la bestia e la virtù), viene scacciata di casa seduta stante dal marito, che ha trovato una delle lettere in-
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EUGENIO RAGNI
viatele da uno spasimante e si convince di essere stato tradito. La donna, assolutamente innocente, si rifugia a casa del padre e nel tempo si
ricostruisce una vita. Ma il caso vuole che s’incontri nuovamente con
lo spasimante, e questa volta gli cede. Quando il marito, pentito e
convinto dell’innocenza di lei, le chiede di tornare insieme, gli rivela
la verità; nonostante ciò, ma per puro calcolo di onorabilità, l’uomo la
riaccetta ugualmente in casa.
In La maschera e il volto di Luigi Chiarelli le convenzioni sociali
imporrebbero al marito tradito di vendicare il proprio onore uccidendo
la moglie adultera, Savina: ma non volendo sottostare a regole invalse
così rozze, Paolo escogita un finto uxoricidio, obbligando la moglie a
espatriare per sempre. Difeso al processo dall’amante della moglie,
Paolo verrà assolto, e arriverà a riconoscere nel cadavere di una sconosciuta il corpo della donna. Ma Savina, disgustata dell’amante che
per salvare il marito l’ha infangata, ricompare mentre si stanno preparando i funerali dell’ignota; e a questo punto gli amici presenti avvertono Paolo che nessuno potrà ora salvarlo dall’accusa di simulazione
di reato, falso e vilipendio di cadavere. Ai due coniugi, riconciliati,
non resterà che fuggire all’estero.
Ma un conto erano fiction e teatro, in fondo fruizione di pochi acculturati; un altro era invece l’intento educativo che, soprattutto a
mezzo della scuola, doveva “fare gli Italiani”. Una volta raggiunta
l’unità, il testimone di questa “educazione” passa perciò ad opere molto più “programmate” e per ciò stesso più scopertamente moralistiche.
Cuore, anzi “illibrocuore” di Edmondo “dei Languori”, come era
caricaturalmente soprannominato De Amicis, è stato per almeno sei
decenni il “libro” esemplare per i ragazzi, con tirature da capogiro: era
il regalo adatto ad ogni occasione, in edizioni di tutti i tipi; in pratica,
lo si imponeva ai ragazzi in famiglia più che nella scuola, sperando
forse che Enrico, l’adolescente che nella finzione tiene il diario, o altri
suoi compagni di scuola “positivi” potessero essere assunti come modelli di comportamento (e di un comportamento che più borghese di
così non si può); avrebbero voluto, i donatori (e De Amicis con loro),
che i giovani lettori assorbissero dalle pagine di quel libro gli ideali di
patria, di coraggio, di dedizione rappresentati da molti personaggi del
libro che solo di recente sono stati riconosciuti stereotipati rappresentanti di un caleidoscopio sociale incoerente, i cui diversi elementi, an-
Matrimonio e famiglia nella letteratura italiana
43
che in una classe di scuola media, non si fondono, restano monadi,
non aprono valenze32. Se infatti poveri e ricchi convivono nell’aula, il
puro accidente di trovarsi a contatto e in contingenze d’interesse e di
vita comuni non basta a promuovere l’integrazione: infatti nessuno dei
ragazzi, dopo un intero anno scolastico, è cambiato, e questo nonostante i racconti mensili pieni di eroici tamburini sardi, piccoli scrivani
fiorentini, piccoli patrioti padovani, nonostante i muratorini moribondi, Franti che ― infame ― sorride, Garrone che generoseggia, Nobis
che superbeggia. E anche quello che dovrebbe essere il modello ideale
di famiglia, quella di Enrico, appare nulla più di un aggregato di quattro individui, all’interno del quale, sull’esempio dei genitori, perfino la
figlia femmina, la sorella di Enrico, sentenzia e promulga trite moralités.
Del resto anche nella realtà borghese del tempo i rapporti con padre
e madre e dei genitori fra loro erano generalmente improntati a formalità che oggi suonano irritanti, ma che agli esponenti delle generazioni
postunitarie suonavano come commi di un galateo insindacabile. E poi
non sarà ozioso ricordare che nella realtà quotidiana ― e di riflesso
nella fiction ― i figli della media e alta borghesia vivevano più con i
domestici che con i genitori, con conseguenze di distacco, di scarsissima o nulla confidenza, spesso di assoluta incomunicabilità.
Ma ormai causa di separazione o di divorzio non sono più soltanto
l’adulterio, il matrimonio forzato o per procura, ovvero l’incomprensione fra coniugi. Grazie ai movimenti femministi e al nascente socialismo, la donna sta acquisendo consapevolezza di identità e dignità e
soprattutto nozione dei diritti che il proprio ruolo merita all’interno del
nucleo familiare, della società e del mondo del lavoro, nel quale i
nuovi tempi l’hanno indotta o più spesso costretta ad entrare. E se
questa consapevolezza acquisita nella borghesia può anche generare le
non poche piccole Bovary ammalate di “vivere inimitabile” e frustrate
32
In una recensione apparsa sull’”Illustrazione Italiana” del 5 dicembre 1886, quindi a libro fresco di stampa, O. Brentani si augurava che il libro «potesse far del bene per tutti quei
ragazzoni che a dieci anni ridono in faccia al padre e comandano alla madre, a tutti quei bellimbusti immaturi, e quei villanzoni rozzi e cattivi che impestano le scuole». Il che la dice
lunga sulla reale situazione della scuola e soprattutto sull’idealizzazione che ne ha fatto De
Amicis. Per una lettura attualizzata di Cuore si veda la puntuale, arguta ed equilibratamente
dissacrante edizione commentata di L. Tamburini (Torino, Einaudi, 1972).
EUGENIO RAGNI
44
da un’agiata vita borghese, sul piano generale la donna aspira e si batte per acquisire un’emancipazione che possa gratificarla finalmente
col posto che le spetta, permettendole di accedere agli studi superiori,
a entrare in politica, a mettersi professionalmente in gara con l’uomo
e, in prima istanza, con il partner.
Stupisce però che la letteratura tardi a entrare nel vivo dei problemi
e delle ormai diffuse rivendicazioni femministe e a farsi carico di propagandare le nuove istanze che reclamano un mutamento radicale nei
rapporti di coppia e soprattutto, avviata ormai l’industrializzazione del
Paese, nel mondo del lavoro.
Ed è anche per questo faticoso ma progressivo affrancamento in
àmbito sociale che si fa sempre più numerosa la schiera di donne che
raccontano storie di donne, attingendo spesso ad esperienze personali
e descrivendone le condizioni sul lavoro o in famiglia. Dovrà trascorrere tuttavia ancora tempo perché il quadro si colori di denuncia esplicita: nella quasi totalità, infatti, toni e termini delle scritture femminili
si ferma a una mozione degli affetti33.
Esempio palmare, quello di una scrittrice “popolare” come Matilde
Serao. Giornalista, come si sa, molto seguita e romanziera forse ancor
più apprezzata da un vasto pubblico, aveva conosciuto precocemente e
di persona la difficile condizione delle donne lavoratrici, lo sfruttamento di cui erano vittime; sicché le sue inchieste e le sue pagine creative sono fittamente popolate di personaggi femminili rappresentati
nella concretezza di una vita difficile, economicamente precaria, soggetta a coercizioni e sacrifici molto più pesanti di quanto non accadesse ai pur vessati lavoratori maschi. Gli articoli che poi raccoglierà in Il
ventre di Napoli e il romanzo Il paese di Cuccagna sono esemplari in
questo senso, presentando un quadro sociale degradato e sofferente,
33
«[…] molti di questi romanzi sono caratterizzati da compensazioni nella maternità, da
rassegnazione, depressione o perfino da suicidi ed omicidi come soluzioni disperate. Spesso le
protagoniste sono completamente impreparate a quello che le aspetta nel matrimonio e, una
volta sposate, non possono più tornare indietro. Possono rassegnarsi ed accettare la situazione
(come per esempio Denza in Un matrimonio di provincia di Marchesa Colombi) o possibilmente ripagarsi con l’amore per un figlio (come Marta in L’indomani di Neera o come spera
Laura in Un martirio di Regina di Luanto prima di perdere il bambino che porta in grembo
[…]). Un’altra alternativa è quella di tuffarsi in relazioni extramatrimoniali, una soluzione che
non raramente porta alla rovina»: U. Åkerström, Tra confessione e contraddizione.Uno studio
sul romanzo di Alba de Céspedes, Roma, Aracne, 2004, pp. 162–63.
Matrimonio e famiglia nella letteratura italiana
45
che già da solo costituisce una denuncia: anche se come giornalista la
Serao avrebbe forse potuto indicare quali rimedi, anche palliativi, potevano essere progettati per migliorare le condizioni della plebe napoletana in genere e delle donne lavoratrici in particolare.
Certo, nessuna scrittrice aveva ancora indagato e descritto quel
mondo, in cui particolarmente sacrificata era appunto la donna, impegnata sul doppio, faticoso fronte di un lavoro dipendente e della gestione quotidiana della famiglia: pertanto deve essere riconosciuto a
donna Matilde il merito di aver precocemente e insistentemente introdotto sulla scena letteraria una dimensione sociale poco frequentata;
ma occorrerà anche aggiungere che, come a ben notato Anna Banti,
quella della Serao «è più la commozione di una dama generosa e benefica che quella di una indagatrice sociale e di una lavoratrice»34; e
non di rado alla commozione si aggiunge una buona dose di retorica
pietistica.
Ma non è tutto: proprio lei, che come donna e notissima giornalista
avrebbe potuto avere molta voce in capitolo e sostenere, anche nei
romanzi, la causa del contestato femminismo, si oppone con irruenza
degna di miglior causa alla concessione del voto alle donne, al divorzio, all’accesso dell’altra metà del cielo alle professioni, medicina avvocatura chimica (mentre esalta e appoggia invece le maestre elementari); arrivando perfino ad approvare l’espulsione dall’ospedale di Milano del medico laureato Anna Kuliscioff, perché è una «donna politica», una specie di monstrum per i tempi35. Né risparmia allusioni moralistiche alla condotta della divorziata Contessa Lara, Evelina Cat34
A. Banti, Matilde Serao, Torino, UTET, 1965, p. 128. Nelle sue storie, soprattutto, ma
anche negli articoli–inchiesta, i suoi personaggi inducono il lettore piuttosto alla commozione
e a un’umana pietà che allo sdegno per un’aberrazione sociale largamente imputabile alle autorità costituite, agli imprenditori rampanti, ai datori di lavoro, a un sistema insomma di sfruttamento globale che non poteva non trovare facile campo d’azione e di profitto in un ambiente
degradato e bisognoso come, purtroppo, la Napoli d’ogni tempo.
35
Anna Banti (op. cit., pp. 125–28) si chiede: «Era il prodotto di una convinzione sincera,
o una sorta di schermo alle facili accuse di virilismo contro una ragazza che esercitava una
professione da uomo?»; aggiungendo che con molta probabilità, dati anche i toni,
l’antifemminismo della scrittrice era un atteggiamento ispiratole dal marito e direttore del
giornale, Edoardo Scarfoglio, per il quale «la donna era la “femmina” non soltanto per vezzo
dialettale» (Banti, ivi). Per una disamina più articolata di questo atteggiamento della Serao si
veda W. De Nunzio Schilardi, L’antifemminismo di Matilde Serao, in La parabola della donna nella letteratura italiana dell’Ottocento, Bari, Laterza, 1983, pp. 277–305.
EUGENIO RAGNI
46
termole, la quale il 2 dicembre 1896 era stata colpita a morte da un
giovane amante di bassa estrazione, alla stregua di una “malafemmina” uccisa dal “magnaccia”, come con poco rispetto per la morta donna Matilde scrisse nel necrologio del «Mattino».
Cronista di mondanità, anche se due bei palmi al disotto dell’amico
d’Annunzio, oltre ai vicoli di Napoli la Serao frequenta inoltre anche i
salotti romani e partenopei, dove ha agio di raccogliere storie e pettegolezzi su accoppiamenti più o meno giudiziosi: prezioso materiale,
che spesso riverserà nei racconti e nei romanzi, senza però che le sue
storie, pur ispirate alla realtà, si discostino dalla media romanzeria
dell’epoca: e ho in mente, per tutte, le due raccolte gemelle Gli amanti
e Le amanti del ’94; o il romanzo L’indifferente, di due anni posteriore, nel quale un marito non uccide la moglie adultera, ma approfitta
del fallo di lei per continuare a tradirla.
Triangolo più insolito, a parti rovesciate, è quello raccontato in Gelosia da Alfredo Oriani (1894): un più che mediocre giovane carrierista seduce la frivola moglie dell’anziano avvocato presso il cui studio
lavora; ne nasce anche una bambina, ma la relazione s’intorbida ben
presto a causa della gelosia che l’amante prova nei confronti del marito della donna; la quale ha così modo di accorgersi della superiorità
morale e professionale del marito e, quando questi sarà eletto deputato, partirà con lui per Roma abbandonando l’amante.
E parlando di Oriani, non posso esimermi di citare tre altri suoi
scritti ― un romanzo, un saggio e un racconto lungo ― che mi sembra eludano, come Gelosia, gli standard delle tantissime trame coeve
rubricabili sotto l’intestazione “famiglia e coppia”. In Al di là, il cui titolo iniziale era Uomo o donna?, lo scrittore faentino delinea la figura
di una sorta di superdonna, Elisa di Monero, convinta dell’incapacità
degli uomini a comprendere le esigenze dell’animo femminile. Della
sua forte personalità s’infatuano la moglie dell’avvocato Carlo, Mimy,
che ha una relazione con il cugino, e lo stesso Carlo. A questo punto,
persuase dell’innata inferiorità sentimentale del cosiddetto sesso forte,
egoisticamente incapace di vero amore, le due donne fuggono insieme, proclamando la superiorità della donna sull’uomo36.
36
Il racconto però presentava non pochi addentellati (sicuramente intenzionali da parte
dell’allora giovane autore) per far pensare a una relazione lesbica, sulla cui risonanza scanda-
Matrimonio e famiglia nella letteratura italiana
47
Con il corposo saggio Matrimonio37 Oriani intese opporsi alle tesi
divorzistiche esposte da Dumas figlio in La question du divorce
(1893), sostenendo con argomentazioni psicologiche, storico–sociali e
morali, quasi tutte di riporto, la indissolubilità del legame, in quanto
esso rappresenta una speciale forma di monogamia, che è a sua volta
la forma perfetta di famiglia. È la sottomissione di due vite alla vita
sociale, è vero: ma solo così l’amore di due esseri umani può uscire
dal libero ambito della natura per entrare in quello della storia. Nella
conclusione del complesso lavoro, lo scrittore passa in rassegna le
possibili motivazioni di un divorzio, respingendole drasticamente e
cavillosamente tutte38.
Il racconto lungo, Contrabbasso, è senza dubbio il più riuscito della
raccolta Quartetto (1883) e forse uno dei migliori dello scrittore faentino. Protagonista, una vera e propria “coppia di fatto”, formata dal
cinquantenne Bartolomeo, contrabbassista al Brunetti (oggi Duse) di
Bologna, e da Adelaide, una vedova «benissimo conservata» che arrotonda la scarsa pensione prestandosi occasionalmente come corista e
sarta nello stesso teatro.
Adelaide conquistò Bartolomeo in pochi giorni. La prima domenica pranzarono insieme in cucina, la stessa sera Adelaide rimase nella sua camera. […]
Fu un incanto, giammai due coniugi avevano vissuto più armonicamente.
listica Oriani puntava per fare chiasso intorno al libro; che venne letto più che altro come storia osé: Renato Serra ricorda infatti «di avere incontrato, non senza meraviglia, la sua ombra
nel retrobottega di alcune biblioteche circolanti. […] Bisogna aver visto uno di quegli esemplari frusti, lungamente brancicati e gualciti, coi pezzi delle pagine riappiccicati con la colla e
le striscioline di carta velina, col lezzo di tante dita e di tanti fiati, e le unghiate e i segnacci
sul margine e fra le righe le chiose di tante letture. Sembra che dalle pagine emani non so che
comunione di volgarità fra autore e lettori, un sentor di pruriti meschini e di scandalo e di bassezza, che vale ancor oggi come ragione di uno degli elementi più singolari del cosiddetto fenomeno Oriani: l’antipatia, quella risonanza urtante, sfacciata e ingrata, che ha accompagnato
da sempre il suo nome, che ha scemato stima e autorità alle sue parole più serie, che ha allontanato da lui pubblico e successo e giustizia»: R. Serra, Romanzi di Oriani. Juvenilia [1913
ca.], ora in Id., Scritti letterari morali e politici, a c. di M. Isnenghi, Torino, Einaudi, 1974,
pp. 319–36 (la citaz. è alle pp. 326–27).
37
Pubblicato nel 1896, la gestazione del libro durò più di due anni.
38
La situazione familiare di Oriani era quella di una più che precaria “coppia di fatto”: intrecciata una relazione con la giovane “badante” del padre, nel 1891 ne ha un figlio, Ugo, che
riconoscerà solo sei anni dopo, nutrendo però sempre il dubbio di una paternità putativa; tanto
che nel 1899, dopo una serie di riemergenti sospetti, di accuse e di liti, caccia di casa la ragazza e il figlio.
EUGENIO RAGNI
48
Bartolomeo ringiovaniva, sebbene si accorgesse di non essere innamorato.
Sedotto da quel benessere sensuale cui l’ordine e l’economia davano quasi
un’apparenza di virtù, e soddisfatto nell’egoismo del vecchio celibe che vorrebbe la famiglia senza i suoi impicci, si abbandonava morbidamente in quella nuova vita di focolare39.
Ben presto però Bartolomeo si accorge che Adelaide «lo dominava.
A poco a poco gli invadeva tutta la vita a forza di rendergliela comoda
e di risparmiargliene le brighe»40, arrivando al punto da diventare gelosa del famoso soprano Adelina Patti, che l’uomo ammira come straordinaria cantante e lei odia perché non l’ha voluta come cameriera in
camerino. Le due soirées operistiche del 10 e del 13 aprile 1878 (Traviata e Barbiere di Siviglia, avvenute nella realtà) restano memorabili
trionfi della Patti; e quando Bartolomeo torna a casa in ritardo perché
si è trattenuto a discutere con gli amici le due entusiasmanti performances della diva41, la donna lo aggredisce e, di fronte alla difesa che
timidamente lui fa della cantante, si serra in camera da letto. Per
l’uomo è un colpo inaspettato:
Una malinconia improvvisa gli venne da tutti gli angoli della cucina nella
quale aveva sorriso a tanti pranzetti, e che in quel momento era tornata fredda
come prima quando, vivendo solo, non vi accendeva mai il fuoco42.
Per parecchi giorni i due vivono come separati in casa, scambiandosi poche parole e dandosi del voi. Bartolomeo deve tornare al vitto
della trattoria, perché la partner non gli prepara più neppure il caffè
mattutino. I sonni del contrabbassista costretto a tornare alla sua scialba vita di scapolo cominciano ad essere turbati dal fantasma di una
Patti abbastanza disinibita; per questo e per la scarsa appetibilità di
quel che offre la trattoria, nei pochi momenti in cui s’incrocia con l’ex
convivente l’uomo tenta senza successo una riconciliazione. Ma un
39
A. Oriani, Contrabbasso, in Id., I racconti, a c. di E. Ragni, I, Roma, Salerno Editrice,
1977, p. 525.
40
Contrabbasso, cit., p. 526.
41
Il racconto è i gran parte occupato da una vera e propria recensione dei due spettacoli,
cui evidentemente Oriani assistette, raccontati con nettezza di particolari, acute e spesso spiritose osservazioni sulla messinscena, sugli altri cantanti, sul libretto, sugli altri spettatori, sulla
musica verdiana, e via dicendo.
42
Contrabbasso, cit., p. 531.
Matrimonio e famiglia nella letteratura italiana
49
bel giorno Adelaide, che a un certo punto aveva anche lasciato la casa,
gli piomba in casa con un giornale in cui si racconta che, avendola
sorpresa in intimi conversari con il re di Spagna, il marito della Patti,
il tenore Niccolini, aveva bastonato la diva di santa ragione. Dunque,
conclude l’Adelaide, oltre ad essere «secca come un’acciuga» e «piatta come un uscio», la Patti era una poco di buono, come lei gli aveva
detto. La riconciliazione, sancita da un bel piatto di vermicelli all’acciugata, sfocia qualche tempo dopo nel matrimonio. Un amico incontra il musicista:
― È proprio vero che hai sposato la grossa Adelaide?
Bartolomeo chinò la testa.
Bodoni si arrestò, poi dardeggiandogli una occhiata in faccia:
― Ti piace la trippa?
― No ― rispose ingenuamente Bartolomeo.
― Avrai una vecchiaia infelice43,
La difesa del matrimonio come istituzione non meraviglia in un
conservatore come Oriani; mentre stupiscono invece posizioni più o
meno nettamente antifemministe di donne dalla notorietà pubblicistica
più che affermata: è il caso della Serao, di cui già si è detto, ma anche
della quasi totalità delle numerose scrittrici attive nei decenni postunitari.
La condizione della donna appare per esempio sostanzialmente
immutata anche nelle pagine di quella che è considerata ― Benedetto
Croce adiuvante ― la più dotata narratrice di quel folto gruppo, la milanese Neera, al secolo Anna Radius Zuccari. Dotata di istintiva sensibilità e di un’acuto spirito d’osservazione per le “piccole cose” del
quotidiano, ha descritto le variegate realtà della condizione femminile,
soprattutto in rapporto con aspirazioni d’affrancamento dal frustrante
status di casalinga, soffermandosi spesso, in particolare, su sofferte vite in famiglia o su storie matrimoniali di depressione o di turbamento,
nelle quali però la figura ideale della donna resta sostanzialmente ancorata alla concezione tradizionalista di angelo del focolare, di madre,
di sposa: sicché anche per lei l’adulterio e qualunque trasgressione
della donna che svilisca un rapporto a due costituisce una défaillance
43
Ibid., p. 562.
EUGENIO RAGNI
50
della coerenza morale, cui dev’essere invece improntata la condotta
femminile44. E non solo.
Teresa, la protagonista dell’omonimo romanzo (1886), è una ragazza di provincia che incarna l’abnegazione femminile nell’àmbito della
famiglia, formata da un padre autoritario, da una madre ― manco a
dirlo ― debole e succube, e da altri fratelli e sorelle che riescono a
condurre una vita molto meno sacrificata, grazie anche alla dedizione
di Teresa; la quale conosce e s’innamora, ricambiata, di Egidio, un
giovane ancora senza impiego, intenzionato a sposarla. Ma il padre gli
oppone un ricco possidente, che la giovane rifiuta, preferendo piuttosto rinunciare al matrimonio. Restata in casa, Teresa spende anni e
anni della propria vita nei lavori di casa, poi nell’assistere il padre
ammalato, mentre via via, morti i genitori, i fratelli si accasano senza
nemmeno apprezzare il suo lungo, pesante e generoso sacrificio.
Quando Egidio cadrà gravemente malato, sarà Teresa ad accorrere e
curarlo, paga soltanto di dargli finalmente l’amore custodito intatto
lungo tutti gli anni trascorsi.
In L’indomani (1889) Marta è sentimentalmente una delusa del matrimonio, cui si era avvicinata con l’entusiasmo e le aspettative di felicità consuete in una giovane romantica, immaginando un idillio ininterrotto. Pur amandola, il marito è caratterialmente poco espansivo,
sicché Marta si convince che l’amore assoluto che immaginava esiste
solo nelle fantasie adolescenziali o comunque può essere considerato
una passeggera febbre sensuale. È una convinzione, la sua, che trova
ampia conferma nel campionario di matrimoni di alcuni amici: uno di
loro litiga continuamente con la donna che ha sposato contro la volontà dei genitori; un altro ingravida la moglie a scadenza annuale, spassandosela con cameriere e donnette varie; un recente vedovo si risposa
per puro interesse. Nonostante questo desolante quadro, Marta non
vuole rassegnarsi a non credere in qualche modo nel grande amore, e
lo riconosce alla fine nel mistero del concepimento di un figlio.
Pare proprio che anche alle soglie del Novecento la donna non trovi
risorse meno conservatrici (e maschiliste) per realizzarsi.
44
Anche in Neera rimorsi e disgrazie puniscono la donna: come nello sconcertante racconto della monaca morente in Monastero (1903; ripubblicato in Monastero e altri racconti, a
c. di A. Arslan e A. Folli, Milano, Libri Scheiwiller, 1987, pp. 153–62).
Matrimonio e famiglia nella letteratura italiana
51
Di tutt’altro tenore è un libro che senza cadere in teoriche recriminazioni femministe o in un protagonismo autocommiserante affronta
finalmente ― siamo nel 1906 ― il problema del ruolo della donna
nella società con la sofferta ma sincera obbiettività che può scaturire
solo da laceranti ferite personali.
Una donna di Sibilla Aleramo è senza alcun dubbio il romanzo più
significativo e importante nell’ambito del tema cui s’intitola questo
convegno: in esso si possono infatti ritrovare tutti i tòpoi del passato,
quasi tutte le situazioni cui ho via via accennato: la violenza maschile
e il matrimonio pressoché forzato, il contrasto di mentalità diverse con
le trite convenzioni e la vecchia ma sempre vigente mentalità provinciale; il presunto adulterio e la cacciata (della moglie, sempre) dal tetto coniugale; la gelosia ingiustificata ma violentissima del marito.
Questi ed altri, insomma, i momenti rilevanti del racconto che, come
si vede, sono tutti materiali già largamente presenti nella narrativa italiana e straniera del tempo: da soli non varrebbero certo a fare di questo romanzo, anche formalmente modernissimo, quello che è: vale a
dire un chiaro – non immediatamente né adeguatamente apprezzato –
segno dei nuovi tempi.
Si tratta infatti di problemi scottanti – alcuni non risolti a tutt’oggi
– che Una donna anticipa lucidamente: il matrimonio riparatore, le
differenze di censo fra le famiglie contraenti, i rapporti fra coniugi, la
maternità, nonché l’enunciazione delle ormai pressanti e ineludibili esigenze reclamate, anche sul piano politico, dall’universo femminile,
che mira ormai a una nuova e riconosciuta posizione di rilievo
nell’ambito della famiglia e nel mondo del lavoro.
Ma la vera novità sta nella ribellione della protagonista, che si configura non già come reazione gridata o come opposizione teoretica, ma
come concreta, progressiva, consapevole conquista di una facoltà decisionale autonoma, unica forza dirompente che possa sgretolare le
convenzioni ataviche e le mentalità retrive che gravano da sempre sulla vita della donna.
Protagonista del racconto–diario ― ma molti fatti raccontati affondano radici nella biografia dell’autrice ― è una giovane che il padre
ha già inserito nella fabbrica di cui è direttore. A quindici anni, precocemente fiorita nel fisico e spontaneamente estroversa, la ragazza non
accetta, pur senza ribellarsi apertamente, la durezza con la quale il pa-
EUGENIO RAGNI
52
dre tratta gli operai e la moglie: fuori di casa e sul lavoro lei si comporta con giovanile spontaneità, il che naturalmente genera chiacchiere e invidie nel piccolo ambiente di un paese del Sud. Il padre ha
un’amante e, quando lo scopre, la moglie tenta il suicidio gettandosi
da una finestra. L’atmosfera familiare appesantita fa allontanare sempre di più il padre, la madre si ammala di mente e la ragazza, che intanto ha accettato le timide attenzioni di un impiegato che le dimostra
affetto, non sa con chi confidarsi; e così, un giorno in cui la sua resistenza alle avances del giovane è particolarmente debole, si lascia
possedere. Ma l’atto, che per lei ancora troppo giovane e pochissimo
preparata ha l’impatto di uno stupro, la segnerà per tutta la vita, causandole una sostanziale frigidità45. Il matrimonio riparatore ― che per
l’uomo risulta soprattutto un mezzo per far carriera ― diviene per lei
un calvario, soprattutto perché non può sottrarsi ai cosiddetti “doveri
coniugali”. Licenziata dalla fabbrica dal padre, alcuni suoi scritti rie45
Particolarmente significativo sull’argomento l’analogo racconto della propria prima
notte di nozze ― largamente per non dire totalmente autobiografico ― in Mantea, Espatriata.
Da Torino a Honolulu (1908; nuova ediz. a c. di O. Frau, Roma, Salerno Editrice, 2007, pp.
58–60): «Avevo letto forse più di quello che non facciano le giovanette del nostro mondo;
quadri e statue m’avevano mostrato vertià turbatrici del pensiero curioso, ma quello che veramente bisognerebbe sapere, quello che è inevitabile fra due sposi, io lo ignoravo con
un’ingenuità forse ridicola, perché William ne ha riso prima, se n’è irritato in seguito ed ha finito per dichiararla una affettazione. […] Avevo sentito dire sì, che gli uomini cambiano dopo
il matrimonio, ma tanto presto … via! Non lo credevo proprio. Non posso essere imbruttita in
così poco tempo; mi dice il contrario lo specchio, me lo dice la gente che passa per la via, ora
che esco sola e … mi fa piacere; è inutile lo nasconda: ciò mi consola della freddezza di mio
marito. Cioè dico male, freddezza; sarebbe più giusto chiamarla incostanza, in continuità di
sentimenti, perché egli passa dalla completa indifferenza, dalla più profonda astrazione da me
e dalle cose mie a vere frenesie di passione e, perché io qualche volta mi ribello a questi scatti
in cui non sento l’affetto, ma il capriccio, egli va in collera ed è giunto a dirmi che le italiane
non sanno amare, che avrebbe dovuto sposare un’hawaiana. Forse non ha torto, ma d’altronde
che colpa ho io se preferisco all’abbraccio la lieve carezza, se una parola affettuosa, una stretta di mano, mi commuovono più che lo scatto veemente, brutale di una voluttà che non si sveglia ancora nei miei sensi rimasti fanciulli? […] Pur troppo ho paura che alle isole Sandwich
non esista questa scuola di maliziosa delicatezza maschile […], ché, altrimenti, sarebbe stata
diversa quella prima notte là sul poetico lago di Como. […] Invece … Dio mio! Non oso pensarci senza ribrezzo e rossore, sì, rossore, perché io ho avuto allora la più orribile delle delusioni, prova questa che era immensa la mia aspettativa […] … ma l’ho detto: ho bisogno di
cancellare questo ricordo della mia memoria! ». La crisi che condurrà i due coniugi al divorzio sarà dovuta soprattutto ai disagi della donna nell’adattarsi a lingua, tradizioni, vita sociale
assolutamente diverse; nemmeno una figlia, che morirà quasi subito, potrà rinsaldare il legame: alla giovane signora non resterà che tornare in patria.
Matrimonio e famiglia nella letteratura italiana
53
scono a trovare ospitalità in una rivista di secondo piano, che costituisce comunque per lei un lavoro che la realizza, ma che il marito non
vede di buon occhio. La frequentazione poi di un “filosofo”, che apre
alla donna orizzonti nuovi di partecipazione e di interventi sociali a
favore della classi inferiori, accende di gelosia il coniuge, il quale, anche in presenza del figlioletto, si abbandona a scenate terribili, tanto
che la donna decide di accettare un lavoro editoriale fisso a Milano,
dove si trasferisce per qualche tempo col figlio. Ma, ritornata controvoglia per le insistenze del marito, a una nuova e più dura escandescenza di lui ― che in sua assenza ha fra l’altro contratto una malattia
venerea ― abbandona definitivamente la casa, costretta però a separarsi anche dal figlio, che l’uomo, appoggiato da valenti avvocati, le
nega: «Io restavo proprietà di quell’uomo, dovevo stimarmi fortunata
ch’egli non mi facesse ricondurre colla forza. Questa era la legge». La
lontananza del figlio sarà lancinante:
Forse domani può giungermi una nuova ragione di esistenza, posso conoscere
altri aspetti della vita, e provare l’impressione di una rinascita, d’un sorriso
nuovo su tutte le cose. Ma non attendo nulla. Domani potrò anche morire…E
l’ultimo spasimo di questa mia vita sarà stato quello di scrivere queste pagine.
Per lui. Mio figlio!Mio figlio! […]
Un giorno avrà vent’anni. Partirà, allora, alla ventura, a cercare sua madre?
[…]
O io forse non sarò più… Non potrò più raccontargli la mia vita, la storia della mia anima… e dirgli che l’ho atteso per tanto tempo!
Ed è per questo che scrissi. Le mie parole lo raggiungeranno46.
Continuando ad amarlo, la donna troverà una nuova ragione di vita
nell’incondizionato amore per lui, e soprattutto «dopo aver sentito di
nuovo gli altri vivere e soffrire»47.
Nonostante il grande successo riscosso immediatamente e in seguito, fino ad oggi, a provocare più scandalo fu il finale del libro:
l’abbandono del figlio da parte della madre (per molti, ovviamente,
“snaturata”). L’opinione pubblica si è trovata dunque più pronta a
46
S. Aleramo, Una donna, nuova ediz., prefazione di A. Folli, Milano, Feltrinelli, 200347,
pp. 164–65.
47
Aleramo, op. cit., pp. 163 e 164.
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EUGENIO RAGNI
condannare la protagonista che a raccogliere le mozioni di protesta
che il libro veicolava con tanta drammaticità e verità. Tant’è che dovranno passare ancora molti anni prima che le istanze esplicite e implicite esposte in queste limpide pagine da Sibilla Aleramo trovino eco
adeguata, sollecitando finalmente, anche se moderatamente, l’attenzione e l’azione di politici e legislatori.
In Italia, alcune di quelle brucianti questioni ― divorzio, diritto di
famiglia ― sono stati affrontate e in qualche modo definite. Ma se si
guarda ai progressi compiuti in altri campi nel secolo trascorso da quel
1906, il cammino compiuto dalla questione femminile, dalla legislazione matrimoniale o dalla correzione in senso paritario nel rapporto
fra coniugi, non si è andati altrettanto avanti. Per esempio, come ho
detto in apertura, attendono a tutt’oggi un’adeguata legislazione i problemi legali inerenti alle coppie di fatto, cui sono da aggiungere quelli
delle adozioni, del controllo delle nascite, dell’aborto: temi scottanti,
sui quali sembra sempre più difficile dibattere, anche per il manicheo
irrigidimento delle due posizioni laica ed ecclesiastica.
Se è vero che la struttura familiare da tempo non è più quella tradizionale, altrettanto evidente risulta che essa è ancora un organismo in
progress che fatica tuttora a liberarsi di vecchie, pesantissime zavorre.
Ci vorranno soprattutto buona volontà, competenza, aperture individuali e politiche; il tutto supportato, perché no, anche da qualche
voce letteraria forte e spontanea. Che si spera non resti, come troppe
volte è accaduto, un richiamo clamans in deserto.
Lucio d’Ambra e Mario Mariani
Due opposte letture politiche del rapporto di coppia
ENRICO TIOZZO
Università di Göteborg
La scelta di Lucio d’Ambra e di Mario Mariani come scrittori particolarmente rappresentativi per un approfondimento dell’analisi del
rapporto di coppia nella narrativa italiana dell’età giolittiana1 e del
primo dopoguerra, non è casuale in un quadro davvero assai vasto
che ha visto quasi tutti gli scrittori italiani dell’epoca ― da d’Annunzio a Fogazzaro ― cimentarsi con un problema di relazione inestricabilmente connesso ai piú svariati tipi di approccio narrativo. In
questi due scrittori infatti (peraltro uniti da elementi di somiglianza
pur nella diversità dei loro atteggiamenti di fronte alla società di
quegli anni) si presenta in modo evidentissimo l’importanza, nel romanzo, di una lettura politica del rapporto di coppia e segnatamente
del matrimonio.
1
Cfr. Aldo A. Mola, Fare gli italiani, Torino 2005, p. 100: “L’età giolittiana durò dal
giugno 1900, quando il generale Luigi Pelloux, vinto alle elezioni nelle regioni più rappresentative della Nuova Italia, si dimise da presidente del Consiglio, al maggio 1915, quando Giolitti, benché sorretto da centinaia di parlamentari e dalla sua intima convinzione che l’ingresso
in guerra fosse un gravissimo errore a quel modo e in quel momento, rinunciò a formare un
governo alternativo a quello dell’interventista Salandra”.
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ENRICO TIOZZO
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Ad accomunare oggi le figure di Lucio d’Ambra (1880–1939) e di
Mario Mariani (1883–1951) non contribuiscono infatti i soli dati anagrafico–bibliografici, che ci indicano il primo quarto del Novecento
come il periodo della loro fioritura letteraria, ma anche (e soprattutto)
l’oblio che ha colpito le loro figure e le loro opere, nel segno di un aggiustamento del canone critico–storiografico avvenuto, in Italia, a partire dal secondo dopoguerra, sulla base di elementi talora assai discutibili di faziosità politica. Se per Lucio d’Ambra, entrato nella fascistissima Accademia d’Italia2 il 12 aprile del 1937 ed amico personale
di Galeazzo Ciano, è valso il criterio di un’epurazione totale, che ha
volutamente ignorato il grande contributo dello scrittore romano al teatro, al cinema, al romanzo ed alla critica letteraria del Novecento3,
2
Cfr. Lucio d’Ambra, Gli anni della feluca, Diario 1934–1939, introduzione di Giovanni
Grazzini, Roma 1989, pp. 52–53: “1937. [...]. lunedì 12 aprile. Mi levo di buon’ora. Lavoro.
Scrivo una ‘Falsa e Vera’ per il Corriere. Alle 10 S.E. Formichini mi chiama dall’Accademia
per informarmi di quanto avviene. Su tre terne eravamo capolista io, Papini e Simoni. Nella
mia terna includono il Cardinale Mercati. Ma, tra mattina e pomeriggio, il Duce non vuole
una candidatura politica come quella del Cardinale. Così si lascerà un seggio vuoto e, tolto di
mezzo Sua Eminenza, i candidati prescelti, otto, sono divisi in due ‘quaterne’. I miei amici
sventano il tentativo di Ojetti che, per assicurare Simoni, vuol mettere me nella quaterna di
Papini. Ci troviamo così in lotta io e Simoni. Formichi mi parla dell’alto appoggio di Balbo
per Simoni. Ma mi assicura che Guglielmo Marconi ― che a mezzogiorno porterà la lista dei
candidati a Palazzo Venezia ― è completamente per me. A mezzogiorno ― tornato a casa ―
non reggo in casa. Esco. È l’ora dell’incontro del Duce e del Presidente dell’Accademia. Vado
al Popolo di Roma. Vi trovo l’on. De Cristofaro, Oreste Mosca e Tieri. Siamo negli antichi uffici dell’Epoca dove lavoravo con Diego. E lì Diego mi raggiunge. All’una e trenta mi chiamano al telefono. È la voce felice di mia nuora Ninì che squilla nella commozione: ‘Papà...
Papà... Eccellenza!’ Corro all’Hôtel de la Ville in vettura. Ha telefonato dando l’annuncio
S.E. Formichi. Il Duce mi ha scelto. Mi chiama l’Eiar al telefono: ‘Eccellenza, trasmetteremo
la notizia alle due...’. Adelina piange. Claudia attonita e felice è nelle mie braccia. Diego, assente–presente, è con noi. L’opera è Sua! ― Poco dopo è la ressa delle persone, l’appello continuo delle telefonate. Primi ad abbracciarmi sono Gherardo Gherardi e il mio vecchio Alberto
Donaudy che erano all’Eiar e hanno lì avuta la notizia dell’elezione. Anche Ciano telefona per
annunciare a sua volta. Dopo due ore una lettera: la sartoria Reanda per l’uniforme. Mercoledì
14 aprile. At home. Lavoro entusiasticamente. Giovedì 15 aprile. Da Ciano, a Palazzo Chigi,
per ringraziarlo, con Claudia che gli porta un gran mazzo di fiori. Con quale fraterno cuore
Ciano ci accoglie e ci trattiene. Vedo Claudia girare con Ciano l’appartamento del Ministro in
quel Palazzo dove il suo povero papà... Ma Diego è con noi, Diego è con noi... ― Pomeriggio, prima prova dell’uniforme da Accademico. Rivedo il mio Diego, che davanti a uno specchio come quello prova la sua uniforme da Console... Venerdì 16 aprile. Tutta l’Italia scrive,
telegrafa... un plebiscito d’entusiasmo. Commoventi i lettori senza indirizzo, che mandano un
saluto al romanziere che amano, senza ambizione di risposta...”.
3
Cfr. Enrico Tiozzo, “Dissidente in feluca. Lucio d’Ambra”, Belfagor, anno LXI, nr. 3,
31 maggio 2006, pp. 245–255. Ricordiamo brevemente che spetta al Lucio d’Ambra critico
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Le certezze svanite