LA COSTRUZIONE DELLA
STORIA E LETTERATURA
TESTIMONIANZA
FRA
Daniela Padoan
«Una necessità forte come la gravità condanna l'uomo al male,
gli vieta ogni bene se non strettamente limitato, difficilmente
ottenuto, tutto intriso e imbrattato di male» scrive Simone Weil nel
1942; ed è la letteratura – quando non è finzione, ovvero quando non
è immorale – a fargli provare «la gravità come la si prova guardando
un precipizio, essendo al sicuro e non soggetti a vertigini»;
permettendogli di distinguere «l'unità e la diversità delle sue forme in
quell'architettura dell'abisso».1 Per Weil, solo il genio nella sua piena
maturità può declinare morale e letteratura; tutto il resto è fittizio.
Nella scrittura delle testimonianze, i testi che nel tempo sono
divenuti classici non poggiano sul genio individuale ma sulla
posizione abissale del narratore, capace di restituirci, proprio in
quanto testimone, un racconto irripetibile di ciò che ha visto. Una
posizione non sostituibile da altri, che nel farsi scrittura – dunque nel
rendersi leggibile, comunicabile – ci conduce a sporgerci su ciò che
per definizione possiamo chiamare architettura dell'abisso. «Non
vorrei mai sentire qualcuno parlare del Lager senza esserci stato» dice
Giuliana Tedeschi, «sarebbe un disastro. Ci vogliono gli scritti, le
testimonianze di quelli che ci sono stati, di chi sa di che cosa parla,
quando dice Auschwitz. Il Lager ha una sua parola inconfondibile
[…]. È impossibile trovare le parole, o anche i silenzi, che rispondano
in modo perfetto a quella realtà, senza averla vissuta».2
Ma se la scrittura del Lager è scrittura morale (a differenza
della narrativa sul Lager, che rischia sempre di oltrepassare il limite
«oltre il quale l'esercizio di un'arte, qualunque essa sia, diventa un
insulto o una disgrazia», come ha lapidariamente scritto Maurice
Blanchot),3 perché questa scrittura si faccia esperienza e memoria
collettiva, deve essere resa, secondo le regole che le sono proprie, da
chi «sa di cosa parla quando dice Auschwitz».
Tuttavia la maggior parte dei testimoni non ha scritto, pur
avendone spesso un acuto desiderio; per mancanza di fiducia nelle
proprie capacità, o per la sensazione che tutto fosse già stato detto da
altri. «Ci ho pensato mille volte» ammette Liliana Segre, «ma il foglio
bianco mi terrorizza. Qualche volta mi mandano le testimonianze
sbobinate, ma la scrittura è un’altra cosa. Poi hanno scritto in tanti, e
alcuni hanno scritto così bene che non potrei mai fare altrettanto».4
E così le esperienze che non si sono date nella forma della
scrittura – spesso rese canone nella testimonianza orale e nelle
registrazioni – sono patrimoni destinati a una permanenza circoscritta
agli archivi, a meno che non si spezzi l'interdetto e che una seconda
1
Simone Weil, Morale e letteratura (in «Cahiers du Sud», n. 263, gennaio 1944, pp. 40-45, firmato Emile Novis), tr. it.
di N. Maroger, ETS, Pisa 1990, pp. 23, 25.
2
Giuliana Tedeschi, in D. Padoan, Come una rana d'inverno, Bompiani, Milano 2004, p. 174.
3
Maurice Blanchot, La scrittura del disastro, tr. it. di F. Sossi, SE, Milano 1990, p. 49.
4
Liliana Segre, in D. Padoan, op. cit., p. 47.
1
persona intervenga a prestare al testimone il lavoro della scrittura; una
scrittura fondata sull'ascolto, possibile solo attraverso l'articolarsi di
una relazione basata su una reciproca autorizzazione, imprendibile
nelle griglie di un “metodo”.
Non si può testimoniare in astratto, sostiene Giuliana
Tedeschi, «ma solo davanti a un interlocutore profondamente
disposto all’ascolto».5 Si tratta di un discorso intimamente connesso
all'argomento di questo convegno che, proponendosi una riflessione
sul guadagno ottenuto dalla storiografia nell'allargare lo sguardo alla
deportazione femminile, non può fare a meno di interrogarsi sulla
richiesta di relazionalità espressa dalle testimoni.
Certo, è molto diverso considerare il testimone come fonte o
come protagonista di una narrazione: nel primo caso è l'oggetto sul
quale lo storico lavora per la raccolta e la conservazione del reperto;
nel secondo caso è il soggetto della propria storia e sta con essa in
rapporto di autorialità, indipendentemente dal fatto che sia o meno
egli stesso a scriverla. Dove il testimone è fonte, dove si fa
riferimento a una trascrizione esatta del parlato, non si dà racconto,
perché il racconto è costruzione e artificio; tuttavia capita che proprio
quella costruzione e quell'artificio abbiano la prerogativa di giungere
non solo a una dicibilità e a una trasmissibilità dell'esperienza, ma
anche, paradossalmente, a una maggiore approssimazione alla verità
dell'esperienza.
Mi è stato chiesto più volte se le conversazioni che ho
raccolto possano essere considerate fonti, o se il lavoro di
manipolazione del testo le renda problematiche. Quale necessità è
sottesa a questa domanda? a quale concetto di verità, di autenticità, fa
riferimento? Quasi che l'imprendibilità dell'esperienza, e più in
generale l'inafferrabilità delle esistenze umane, si potesse racchiudere
nei perimetri di una disciplina o di un metodo, anziché tentare di
giungere a un accostamento di frammenti che solo nella pluralità del
loro disporsi formano un disegno, mai identico ma sempre in
movimento.
«La critica storica» dice Paul Veyne, «ha per unica funzione
quella di rispondere al seguente quesito, postole dallo storico: io
giudico che questo documento mi apprende la tale cosa; posso sotto questo riguardo
dargli fiducia?»6 Fiducia rispetto al suo essere vero, perché, se la storia è
aneddotica – dice ancora Veyne – e interessa raccontando,
similmente al romanzo, essa è racconto di avvenimenti veri. Che la
fiducia sulla verità della testimonianza possa darsi solo a condizione
di poggiare sul lavoro della storiografia, capace di delimitare un
territorio che non ci faccia precipitare nella menzogna o, peggio
ancora, nella perdita del concetto che «questo è stato», è evidente; ma
il lavoro della storiografia diviene a sua volta impensabile senza le
testimonianze, ovvero senza l'offrirsi di un racconto che appare
perlomeno impervio voler piegare a una misura di scientificità. Sono
più affidabili – tenendoci dunque al concetto di fiducia – le pure
sbobinature e trascrizioni di interviste? Sono convinta di no, perché
per giungere alla scrittura di una testimonianza è essenziale
l'instaurarsi di un patto di fiducia tra colui che narra e colui che
5
6
Giuliana Tedeschi, in D. Padoan, op. cit., p. 171.
Paul Veyne, Come si scrive la storia, tr. it. di G. Ferrara, Laterza, Bari 1973, p. 24.
2
ascolta al fine di giungere assieme al lavoro della scrittura (e per
scrittura intendo, in certo modo, anche la necessaria costruzione
visiva di un documentario, fatto di testo e paratesto).
È sufficiente che, nel caso di autori come Primo Levi, Jean
Améry o Charlotte Delbo, per fare un esempio, le figure di testimone
e scrittore coincidano, per considerare le loro opere attendibili dal
punto di vista scientifico? Qualcuno avrebbe chiesto loro una
rassicurazione sul proprio essere fonti? È proprio Levi a dire, a
proposito dei Sommersi e i salvati: «questo stesso libro è intriso di
memoria: per di più, di una memoria lontana. Attinge dunque a una
fonte sospetta, e deve essere difeso contro se stesso».7
Un paradosso, o un'iperbole. Ma anche questa, come tutte le
figure per eccesso, potrebbe rivelarsi utile a riflettere sul caso più
spiccio, per quanto non privo di aspetti problematici, in cui una
figura esterna si presti al lavoro della scrittura, pur lasciando
l'autorialità al testimone, e con esso proceda a un affinamento e
messa a punto di contenuto e di stile. Parlo di stile perché quella che
possiamo chiamare un'accettabile approssimazione alla verità si dà
anche tramite scelte estetiche (il che non vuol dire scegliere le parole
più “belle”, ma scegliere le parole più somiglianti al loro
pronunziatore) fino al momento in cui al testimone sia possibile dire:
questo è il mio testo, questa è la mia esperienza, detta con queste parole e non con
altre. Perché è proprio del lavoro della scrittura – benché possa essere
riscritta mille volte – di farsi sedimento e traccia non cancellabile,
sempre più ancorata a quelle specifiche parole man mano che si dà
nello spazio pubblico della lettura.
Se leggiamo le trascrizioni degli interrogatori in tribunale, così
come le sbobinature delle interviste, vediamo che la lingua risulta
viziata e innaturale, priva di una fluidità che la renda utilizzabile
narrativamente fuori da un ambito di ricerca giudiziaria, sociologica,
antropologica, storica o di qualsivoglia altro sapere, e questo anche
nei casi di chi ha maggior capacità di eloquio, per il semplice motivo
che il parlato ha bisogno di una traduzione per diventare scritto. Il
passaggio perché ciò avvenga – perché, dunque, il testo si dia come
leggibile – non sta solo nell'applicazione delle regole grammaticali e
della sintassi, ma nell'interpretazione di un voler dire, lontanissimo
dalle retoriche del “dar voce” in cui, anche con le migliori intenzioni,
già nella formulazione è implicita una disparità. Una scrittura messa al
servizio dell'altro, dove non sono i tuoi aggettivi, i tuoi concetti, a
forzare il voler dire che ti è stato consegnato, ma dove il risultato sta
nello sporgersi verso l'altro per giungere a una restituzione. Un
atteggiamento in cui la persona che raccoglie la testimonianza mira a
tenersi in disparte ma non ad annullarsi, consapevole di non poter
ipostatizzare una neutralità per il fatto (quasi una tautologia) che gli
scambi tra umani si danno nell'umanità, e che dunque la traccia o il
sedimento della relazione non solo non contamina la purezza della
fonte, ma la rende attingibile ad altri.
Proprio perché il darsi della fonte allude a qualcosa di sorgivo,
attinto per la prima volta (è la stessa struttura simbolica implicata
nella scelta del termine a condurre a concetti che stanno
nell'opposizione purezza/contaminazione, visto che neppure la
7
Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, p. 23.
3
lingua è neutra) quando leggiamo sbobinature smozzicate, piene di
ripetizioni, balbettii, esitazioni e inciampi ci ritroviamo in una postura
di padronanza che origina dalla supremazia che lo scritto ha sull'orale,
quando la prospettiva sia quella della lettura. Ben diverso sarebbe se
la prospettiva fosse quella dell'ascolto, dove l'ordine del testo scritto
suonerebbe ampolloso e innaturale (dunque falso), proprio perché
«ciascun medium considera un valore ciò che l'altro considera una
minaccia».8 Ogni discorso, registrato e sbobinato fedelmente (è
interessante qui notare, a dispetto della comunanza etimologica, la
profonda differenza che intercorre tra i concetti di fedeltà e fiducia) fa il
medesimo effetto di assenza di filo logico, di smarrimento di
subordinate, di incisi aperti e dimenticati, di sovrapposizioni e
ripetizioni, perché lo scambio che si dà tra due persone segue delle
regole sue proprie, diverse da quelle del discorso in pubblico e
soprattutto da quelle del testo scritto: non può essere aurorale né
sorgivo, deve attraversare il processo del “fatto ad arte” (da cui deriva
il concetto di artificio) per suonare vero, e dunque per farsi veicolo
del vero.
La registrazione delle fonti orali è imprescindibile, e non solo
perché ci mette in grado di ascoltare le precise parole dette da un
particolare testimone, ma perché può farcene “fare conoscenza”
grazie a un supporto su cui sono miracolosamente rimasti impigliati
un tono di voce, un'esitazione o un'improvvisa alterazione; nel caso
di una registrazione visiva, uno sguardo, un fugace sorriso. È il
prodigio che si dà quando abbiamo l'occasione, per esempio, di
trovarci “faccia a faccia” con Primo Levi, di percepirne la timidezza,
il riserbo, l'implacabilità; di coglierne tutto ciò che non si dà nella
scrittura, ma che con la scrittura sta in dialogo. Tuttavia, ciò che
davvero resta, fuori dagli archivi accessibili agli specialisti, è ancora
una volta il testo, e a quello facciamo riferimento quando parliamo di
trasmissibilità della memoria. Un testo che non è trascrizione, ma
letteratura.
Le testimonianze di Elie Wiesel, Primo Levi, Jorge Semprun,
Robert Antelme o Ruth Klüger permangono perché si sono date
come letteratura: solo così hanno potuto parlare a tutti. E non perché
per parlare a tutti occorra un linguaggio semplice, levigato, privo di
asperità e inciampi, ma perché la scrittura ci chiama in causa, ci
spinge all'identificazione, mentre la trascrizione, pur avendo una
maggiore pretesa di verità, ci mette di fronte a un organismo immerso
nella formalina, e lo sguardo che lo fissa è quello dell'entomologo;
uno sguardo in cui alberga un collocarsi altrove, nella protezione di
un sapere. La relazionalità della testimonianza trova espressione nella
letteratura perché, non facendosi schermo di saperi, di metodi, di
discipline, ed essendo perciò spiazzante, porta in sé la necessità
primaria di immaginare, accogliendo ciò che è illuminato e ciò che
non lo è come elementi egualmente costitutivi della narrazione,
lasciando al lettore la cucitura tra luce e ombra.
«Per ricordare, occorre immaginare» dice il filosofo e storico
dell'arte Georges Didi-Huberman, che si è a lungo interrogato sullo
statuto della fotografia nella memoria della Shoah, prendendo le
mosse dallo scarso interesse mostrato dalla storiografia per le
8
Alessandro Portelli, Storie orali, Donzelli, Roma 2007, p. 104.
4
immagini (in particolare quelle scattate di nascosto dall'anonimo
membro del Sonderkommando di Auschwitz nell'agosto 1944,
raffiguranti la cremazione di corpi in fosse aperte e un gruppo di
donne spinte verso la camera a gas del crematorio V), e il cui discorso
può essere utilmente sovrapposto a quello sulla testimonianza. «Nelle
foto il fumo nasconde la struttura delle fosse, il movimento del
fotografo rende sfuocato e incomprensibile quanto avviene nel bosco
di betulle. Ora, è proprio questo – questo doppio regime di ogni
immagine – che disturba spesso lo storico e lo “distoglie” da un
materiale simile».9 Un doppio regime tra verità e oscurità che,
sostiene Didi-Huberman, ci porta a domandare troppo, o troppo
poco, all'immagine. Se le domandiamo troppo, cioè «tutta la verità»,
saremo ben presto delusi: le immagini non sono che lembi strappati,
pezzi di pellicola; sono inadeguate e addirittura, in qualche modo,
inesatte. Se le domandiamo troppo poco, però, relegheremo
l'immagine nella sfera del simulacro, estromettendola così dal campo
storico, oppure la relegheremo nella sfera del documento, cancellandone
la fenomenologia, la specificità, la sostanza.10 Parimenti, chiedere
troppo poco alle testimonianze porta a considerarle simulacro;
chiedere troppo porta a considerarle inadeguate, induce alla
diffidenza suscitata negli storici dal loro essere per definizione
soggettive e condannate all'inesattezza.
Annette Wieviorka cita il caso di un ex deportato che, invitato
a un convegno, si è indignato nel sentire alcuni storici parlare dei
testimoni come di documenti viventi,11 per poi commentare che
questa vicenda pone «il problema della tensione tra il testimone e lo
storico; una tensione, o meglio, una rivalità, e perché no, una lotta per
il potere, che sta al centro degli attuali dibattiti sulla storia del nostro
tempo».12 Questa la posizione paradossale dei testimoni: documenti,
o fonti, sui quali si procede a costruire un edificio a loro non più
abitabile, dal quale però non possono uscire, pena l'accusa di
tracimazione. Posto che di lotta per il potere si tratti, da parte dei
testimoni, non può sfuggire la disparità tra i contendenti. «Non
vedono l'ora che ci togliamo di mezzo» mi ha detto un giorno Goti
Bauer, parlando dell'incomprensibile dissidio alimentato da alcuni
storici nella necessità di definire in quale discorso, testimoniale o
scientifico, collocare la viva presenza di chi, avendo vissuto e patito la
Shoah, continua a portarne una narrazione. «Quando noi saremo
morti – e non ci manca molto, perché siamo sempre meno, sempre
più deboli – non dovranno più protestare perché lo spazio che
ritengono spettare alla storiografia è invaso dai testimoni. Ma senza le
nostre parole, senza il racconto di noi che abbiamo visto e che ne
portiamo ancora i segni, non so davvero come faranno. Alle nostre
parole dovranno sempre riferirsi, dare un significato».
Le parole, i segni di cui i testimoni sono portatori,
costituiscono il lascito che ci viene consegnato perché ci sia possibile
continuare a sforzarci, attraverso l'immedesimazione e la
germinazione di un ri-sentimento, di capire quello che sta a noi
9
Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, tr. it. di D. Tarizzo, Raffaello Cortina, Milano 2005, p. 52.
Cfr. Ivi, p. 53.
11
Cfr. Annette Wieviorka, L'era del testimone, tr. it. di F. Sossi, Raffaello Cortina, Milano 1999, p.140.
12
Ivi, p. 141.
10
5
capire, sapendo che, come dice Elie Wiesel, «voi che non eravate
sotto il cielo di sangue, non saprete mai che cos’era. Anche se
leggete tutte le opere, anche se ascoltate tutte le testimonianze,
resterete dall’altra parte del muro».13 La letteratura è precisamente
ciò che, per metafore e paragoni, ci conduce a guardare oltre quel
muro che non possiamo in alcun modo oltrepassare. «La riflessione
sulle condizioni umane è mai qualcosa di diverso dal risalire da ciò
che si conosce a ciò che si può riconoscere come affine?» chiede
Ruth Klüger. «Senza paragoni non si arriva da nessuna parte.
Altrimenti non si può far altro che mettere la cosa agli atti, un trauma
che si sottrae all’immedesimazione».14
Nel corso di un'intervista, ho citato a Ruth Klüger un
passaggio dello scrittore israeliano Aaron Appelfeld, anch'egli
sopravvissuto alla deportazione, secondo il quale la letteratura è la
sola a dire al testimone: «guardiamo questa particolare persona.
Diamole un nome, un luogo. Offriamole una tazza di caffè. […] La
forza della letteratura risiede nella capacità di creare un'intimità. Quel
genere di intimità che ci tocca personalmente».15 Intendevo, con
questo, domandarle che cosa pensasse della contrapposizione che si è
venuta a creare fra testimoni e storici. «Appelfeld ha ragione» ha
risposto, «ma avrei qualcosa da aggiungere: la letteratura della Shoah è
una letteratura di sopravvissuti, di scampati, e questo dà la
confortevole sensazione che tutti ce l'abbiano fatta; tuttavia non
dobbiamo dimenticare che la maggior parte delle persone sono morte
nei campi. È solo questa evidenza a poter davvero parlare della
morte, e non delle sofferenze che i pochi sopravvissuti hanno patito
per pochi anni. Parliamo di circa sei milioni di persone che sono state
uccise, e questo è ciò che viene raccontato dai sociologi e dagli storici,
e non dalla letteratura. Così abbiamo bisogno di entrambe».16
Dando dunque per acquisito il rifiuto di ogni sterile
contrapposizione tra storico e testimone (di cui peraltro non si trova
traccia nei testi di grandi storici della Shoah, da Poliakov a Hilberg, da
Browning a Bauer, da Mommsen a Friedländer) se vogliamo parlare
della trasmissibilità della memoria e quindi del modo in cui le parole
dei testimoni possano continuare, pur nel loro farsi storia, a essere
vive e a parlare a un pubblico di lettori e non solo di specialisti,
dobbiamo attardarci a ragionare su quel «caffè» scambiato tra lettore
e testimone, e su quella «intimità che ci tocca personalmente», perché
proprio lì sta la possibilità della permanenza, ovvero la possibilità che
non si metta «la cosa agli atti». Eppure, prendendo le mosse dalle
parole di Appelfeld, Annette Wieviorka – che di questa
contrapposizione sembra essere divenuta un emblema, anche oltre le
tesi sostenute nei suoi testi – si disfa a buon mercato dell'invito
all'intimità della relazione testimoniale. «Tale concetto di intimità va
ben al di là della semplice testimonianza della Shoah» scrive. «Sta al
centro della nostra società e del funzionamento dei media […]. Nelle
13
Elie Wiesel, Parole di straniero, tr. it.di O. Miani, Spirali, Milano 1986, p. 11.
Ruth Klüger, Vivere ancora, tr. it. di A. Lavagetto, Einaudi, Torino 1995, p. 106.
15
Aaron Appelfeld, cit. in Nathan Beyrak, To rescue the individual out of the mass number: intimacy as a central
concept in oral history, in Ces visage qui nous parlent, a cura di M. Cling e Y. Thanassekos, Atti dell’incontro
audiovisivo internazionale sulla testimonianza dei sopravvissuti dei campi di concentramento e di sterminio nazisti.
Fondation Auschwitz e Fondation pour la Mémoire de la Déportation, Bruxelles-Paris 1995, p. 137.
16
Ruth Klüger, Senza un altrove, sospesi tra i vivi e i morti, intervista di D. Padoan, "Il Manifesto", 25 ottobre 2005.
14
6
trasmissioni dell'intimità, l'occhio della telecamera spia l'occhio del
testimone».17 Con questo passaggio, Wiewiorka limita all'ambito della
spettacolarizzazione un argomento – quello dell'intimità, appunto –
che linguisti e filosofi annettono al farsi stesso dell'opera, nella
relazione costitutiva tra autore e lettore; per poi ricavarne, a ben
vedere con un salto logico, che «il testimone si rivolge al cuore, e non
alla ragione. Suscita pietà, compassione, indignazione e talvolta
persino un senso di rivolta. Il testimone stipula un “patto di
compassione” con colui che lo ascolta».18
Così è divenuta purtroppo consueta, nei convegni dedicati alla
testimonianza, la figura del relatore che, mentre svolge con
professionalità il suo intervento, sfoglia una copia ormai consunta
dell'Era del testimone, infiorettata di post-it colorati a segnare i consueti
passaggi, punti non più eludibili di una liturgia sulla tracimazione dei
testimoni e sul loro «aver occupato la scena»; luoghi resi comuni,
concetti divenuti assiomatici. La comunità discorsiva, in un
determinato tempo e luogo, sempre trasceglie, all'interno di un'opera,
un filo di pensiero a scapito di un altro; e questo dice, più ancora che
dell'opera, della koinè dei parlanti. Credo non faccia giustizia all'autrice
– la cui brutale schiettezza nel porre la questione ha quanto meno il
merito di averla resa palese – il disprezzo con cui, poggiando su
questo libro, si continua da anni a parlare dell'attitudine dei testimoni
a «rivolgersi al cuore e non alla ragione», per finire col salmodiare
l'inevitabile domanda: «come costruire un discorso storico coerente
se ad esso si contrappone costantemente un'altra verità, quella delle
memorie individuali? Come fare appello alla riflessione, al pensiero, al
rigore, quando i sentimenti e le emozioni invadono la scena
pubblica?»19
Per uscire dal vicolo cieco della presunta inconciliabilità di
emozione e pensiero, che proprio le testimonianze della Shoah, nel
loro toccare l'estremo, ci indicano come inestricabili, è necessario uno
sforzo che porti ad accogliere il concetto della differenza (e non solo
quella di genere); una libertà che ci consenta di uscire dagli universali,
dalle maiuscole, dalle declinazioni dell'Uno.
Liliana Segre ricorda spesso le parole di un noto storico
proferite nel corso di una celebrazione pubblica: «Devono parlare gli
storici. I testimoni sono i patetici burattini della memoria». Parole su
cui si è a lungo tormentata: «Ha detto proprio così, ho potuto
risentirle perché avevo la cassetta registrata. Quella frase mi ha fatto
molto pensare e devo dire che, sì, la testimonianza, al di là di un
giudizio così duro, effettivamente si presta a una manipolazione.
Quello di cui parlo è uno storico di gran valore, quindi di certo non
vede il testimone come un intralcio, come qualcosa che sarebbe
meglio non esistesse; ma questa è precisamente la posizione di
revisionisti e negazionisti, per i quali attaccarsi alla seppur minima
imprecisione, a un’imperfezione nel racconto, è una manna dal cielo.
E io non vorrei fare nessun favore a revisionisti e negazionisti.
Siccome gli anni che passano possono portare a una deformazione
della realtà nel ricordo, noi testimoni dobbiamo essere molto severi
17
Annette Wiewiorka, op. cit., p. 152.
Ivi, p. 153.
19
Ivi, p. 154.
18
7
con noi stessi, non dobbiamo indulgere mai a qualcosa che sia anche
minimamente diverso dalla realtà. Per quello che mi riguarda, faccio
sempre estrema attenzione a saltare un passaggio piuttosto che ad
aggiungere anche una sola parola di cui non sono assolutamente
certa. Mi dispiace molto se lo storico può aver ragione del testimone,
perché il testimone è un uomo, o una donna, con pregi e difetti, e
può cadere in una piccola contraddizione che però, nel caso della
Shoah, diventa gravissima, mentre non è vista con altrettanta gravità
in testimonianze di altro genere. Se, per esempio, uno è stato
testimone di un incidente d’auto in cui ci sono stati dieci morti e ne
ha visti nove, nessuno gli si scaglia addosso per questo; invece un
testimone della Shoah, se appena appena dimentica un dettaglio o lo
aggiunge, povero lui, si trova stuoli di storici a dire che la
testimonianza è addirittura negativa».20
Nel suo continuo arrovellarsi sui dettagli, nella tensione a una
puntigliosa quanto commovente precisione, Goti Bauer mi ha
raccontato di aver letto, nella documentazione conservata al Centro
di documentazione ebraica contemporanea di Milano, la
testimonianza di Frida Misul, sua compagna di prigionia nella baracca
27 di Birkenau. «Secondo lei, su quegli stracci che ci venivano dati
al posto delle casacche all'esaurirsi dei rifornimenti dalla
Germania, sarebbe stata dipinta una striscia rossa col sangue tolto a
noi prigionieri. Ma non è vero! Era vernice, vernice rossa, per
renderci riconoscibili e impedire ogni tentativo di evasione. Ma la
cosa peggiore è che nella sua testimonianza sta scritto che le SS
violentavano le ragazze davanti alle madri. Non è mai successo. A
Birkenau non c'era questo tipo di violenza. Lì hanno fatto cose molto
più spaventose; che bisogno c'è di inventare efferatezze? Come se
non bastasse che hanno gasato e bruciato la gente, che hanno
ucciso migliaia di bambini. Noi testimoni parliamo in tono minore,
non vogliamo contendere la scena a nessuno: vogliamo soltanto
essere creduti. Proprio per questo non possiamo consentire che
invenzioni di questa portata – fatte senz'altro in buona fede, frutto di
grande sofferenza – gettino discredito sulla nostra testimonianza,
minandone la credibilità».21
Goti Bauer scrisse una lettera, firmata anche dall'amica ed ex
compagna di Lager Hanna Kugler Weiss, in cui chiedeva che quella
testimonianza non venisse più resa accessibile al pubblico. Le fu
risposto che tutte le testimonianze, al pari della sua, hanno identico
valore. Una risposta che, come ovvio, la ferì profondamente. Qualche
tempo fa, ho fatto questo racconto a una studiosa della Shoah,
riflettendo su come la posizione dei testimoni sia, in fondo,
pienamente tragica. La sua risposta mi è rimasta impressa quasi parola
per parola: «È così, il loro ricordo è quanto di meno credibile, eppure
non possono accettare di non essere in grado di dire la verità su ciò
che hanno vissuto È del tutto evidente che le due testimonianze si
equivalgano. Nella Misul è interessante la creazione di un mondo
fantastico: non avendo strumenti interpretativi, metaforizza nella
fiaba, nel libretto d'opera. Ha avuto un'infanzia di grande povertà, il
padre faceva il cantante d'opera, e il Lager si è trasformato nel
20
21
Liliana Segre, in D. Padoan, op. cit., pp. 49-50.
Goti Bauer, Archivio D. Padoan 2007.
8
castello di Barbablù. L'invenzione, nel suo caso, diventa modalità
comunicativa».
Sono parole su cui si potrebbe discutere a lungo, ma per me
stanno come una pietra miliare a segnare un crocevia, un passaggio
pericoloso e infido. Per quanto necessaria, la tensione a catalogare le
fonti secondo qualità e affidabilità, a verificare la credibilità e le
incongruenze del racconto, a comprenderne e analizzarne le
metaforizzazioni, non può liberarsi da un atteggiamento di
condiscendenza verso il testimone: un atteggiamento che porta in sé
il frutto avvelenato della perdita di rispetto. Corre, tra gli specialisti,
un fastidio sulla ripetitività delle testimonianze, sulla loro costruzione
retorica, su certi passaggi che si danno sempre molto simili nella
scelta delle parole e nell'intonazione. Ma chi, quando ci presentiamo
in pubblico, ha il diritto di chiederci l'autenticità della nudità? Al
testimone invece si chiede di darsi nella nudità del trauma, quasi che
la verità della sua esperienza potesse manifestarsi solo ora, solo qui,
davanti a me che lo ascolto. È una domanda sulla cui impudicizia
occorre riflettere. Cosa ci dice su di noi e sul concetto di verità, di
autenticità cui, ancora una volta, continuiamo a fare riferimento?
Solo se ci soffermiamo davvero a immaginare cosa debbano
essere, nel corso di un'intera esistenza, gli assalti del ricordo e la
necessità di tenerli a bada – per il proprio istinto di sopravvivenza
psichica, per la salute dei propri figli e della propria ricostruita
intimità familiare – e la decisione, o la necessità, di rendere
testimonianza di qualcosa che continua a essere inaudito e
inesplicabile, possiamo interrogarci sulla ripetitività della
testimonianza senza dare giudizi in qualche modo osceni,
accostandoci a quelle sedimentazioni per comprendere non solo
l'ossificarsi del trauma ma per accogliere con rispetto la necessità di
trovare uno schermo a difesa dal dolore del proprio ricordo.
«Un giorno guardavo mia nuora con i suoi bambini» mi ha
detto Ruth Klüger, «i miei amati e meravigliosi nipoti, e ho pensato: e
se qualcuno venisse a prenderli, a strapparli da lei? E poi ho pensato,
no, è una cosa che non le potrà mai accadere, questa donna
californiana è qui al sicuro, non accadrà... E per me questo è un
regalo. Non gliel'ho detto, perché immagino che mi avrebbero preso
per pazza, ma in quel momento ero nel mio vecchio mondo, dove
potevano venire uomini in uniforme e prendere i bambini. Questo
non passa, questo è sempre qui. Possiamo perdere tutto. È un
sentimento di fondo molto forte in me: essenzialmente niente mi
appartiene, tutto mi può essere tolto, anche la vita dei miei più piccoli
familiari».22
Il presente va nel passato e il passato va nel presente. Ciò che
hanno vissuto sarà sistematizzato e seguirà, come sempre accade, il
metabolismo del tempo, ma loro hanno convissuto più di
sessant'anni con ciò che hanno patito e visto patire, e hanno
continuato a interrogare quella storia attraverso le molte persone che
si diventa con il trascorrere degli anni. «Ora che sono vecchia» mi ha
detto ancora Liliana Segre, «penso in modo diverso ai miei nonni.
Quando faccio fatica a salire su un treno, vedo i miei nonni spinti su
22
Ruth Klüger, intervista di D. Padoan, cit.
9
quel predellino, e soltanto ora capisco. Ora che sono come loro. Ora
che mio padre ha l'età di mio figlio».23
I testimoni – martyr, secondo l'etimo greco di «colui che ha
visto» – sanno qualcosa che noi non potremo mai sapere, su cui però
vogliamo insegnargli qualcosa. Nel loro essersi massimamente
avvicinati all'orrore, lasciati soli nel loro dire, costretti a temere che
«lo storico possa aver ragione» su di loro, non possono che affidarsi
all'ascolto empatico, cercando quelle che chiamano «candele della
memoria», perché ad accogliere chi è uscito dagli inferi non c'è il
mondo dell'antica Grecia, capace di assumere come valore fondativo
l'ethos del racconto, ma il mondo della postmodernità, basato sugli
specialismi.
Quando, ormai quattordici anni fa, Lidia Beccaria Rolfi, nel
primo convegno dedicato alla deportazione femminile, diceva: «Si sa,
la storia vera la fanno gli uomini, è destinata agli uomini. Donne e
bambini sono soltanto un incidente di percorso, non hanno volto e
non hanno nomi, vanno bene solo a completare i quadri dell'orrore
con le loro manine alzate, il numero sul braccio e gli occhi da animali
feriti»,24 certo non vedeva la necessità di un allargamento di categorie,
così da aggiungere le donne ai rom, ai sinti, agli omosessuali, ai
testimoni di Geova; chiedeva piuttosto un allargamento di pensiero,
di sguardo. Dire che «la storia vera la fanno gli uomini» non è privo di
implicazioni: significa che la storiografia usa lenti forgiate da una
cultura che porta i segni del mancato incontro con la differenza.
Eppure oggi il discorso sulle donne deportate nei Lager sta
prendendo la strada di un'ulteriore specializzazione, e storici, ma
soprattutto storiche donne, lo articolano secondo rischiosi stereotipi
– mestruazioni, ricette, solidarietà, veri o presunti abusi sessuali –
mettendo in fila frammenti di diverse testimonianze, non più discorso
complessivo ma dato quantitativo.
Ma può il corpo non essere sessuato, può la lingua essere
neutra, quando si parla della situazione specifica dell'essere donna nel
Lager? Proprio perché l'ideologia che ha sostenuto l'organizzazione
dello sterminio era permeata fino al parossismo dalle categorie e dalle
catalogazioni, dovremmo sempre interrogarle per sapere fino a che
punto ci sono utili, e trascenderle quando diventano gabbie che
limitano l'umano. Il guadagno, l'apertura data dall'aver visto la
necessità della differenza, dovrebbe stare nella possibilità di accettare
davvero un dialogo, di articolare un ascolto in cui si è disposti a farsi
spostare dall'altro, a farsene modificare, già nel linguaggio. Dovrebbe
servire nel senso che Georges Bensoussan indica alla filosofia:
accogliere l'umanità in ogni vittima dello sterminio.25 E anche ad
accogliere la pluralità dei linguaggi nell'approccio alla testimonianza.
Tra gli storici vi sono stati grandi scrittori – intellettuali che si
muovevano tra letteratura e filosofia, nell'alveo di quella cultura
umanistica non ancora ghermita dalle specializzazioni – capaci di
creare opere che pur nel loro rigore scientifico si sono date nella
forma della letteratura, rispettandone le leggi narrative. Tuttavia
quello che viene chiamato il postmoderno oggi ghermisce anche la
23
Liliana Segre, Archivio D. Padoan 2007.
Lidia Beccaria Rolfi, La deportazione femminile nei Lager nazisti. Convegno internazionale, Torino 20-21 ottobre
1994, Franco Angeli, Milano 1995.
25
Georges Bensoussan, L'eredità di Auschwitz, tr. it. di C. Testi, Einaudi, Torino 2002, p. 78.
24
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letteratura, che troppo spesso, anziché dare dicibilità al dolore, scrive
Claudio Magris, «agisce come un analgesico nei confronti della
lacerazione della vita e della storia; elude il negativo, lo isola dietro un
cordone sanitario o lo inserisce in un quadro generale che ne
neutralizza l'assolutezza dirompente. È un po' come inserire
l'irriducibile sofferenza di un individuo - o di molti - in una statistica,
sempre meno inquietante di un grido e perciò sempre inadeguata
rispetto a quel grido. È stata soprattutto la grande arte d'avanguardia
novecentesca a esprimere quel grido, assumendo la sua dissonanza
nelle sue stesse forme e facendo del negativo la sostanza della poesia.
Oggi il cosiddetto postmoderno tende a relegare il Novecento, e
specialmente la sua disperazione formale ed esistenziale, nel museo
del passato».26
È in quella disperazione formale ed esistenziale che dovrebbe
continuare a trovare posto il dolore, perché la memoria non divenga
una messa agli atti. Resta un compito della scrittura, anche della
scrittura degli storici, porsi il problema del negativo, e
dell'adeguatezza a un grido che non può farsi statistica né
specialismo.
26
Claudio Magris, La letteratura e il dolore indispensabile, "Corriere della Sera", 22 giugno 2008.
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La costruzione della testimonianza fra storia e