*- EdhiZgIG:CI>CD &#'%%, Essere Minoranza nel nuovo Mondo di Fausta Slanzi pportunità di nuovo sviluppo: è questo l’obiettivo che ogni comunità – piccola o grande – cerca di raggiungere ogni volta che pianifica interventi e attività in campo sociale, culturale ed economico. Questo vale ancor più per i gruppi di minoranze linguistiche che debbono interagire con una comunità più ampia salvaguardando e promuovendo la propria identità culturale e sociale. Due fattori contribuiscono a trasformare i cambiamenti repentini di una società in occasioni di crescita, l’intraprendenza intellettuale e lo spirito di coesione. E’, infatti, la dinamicità e una forte condivisione dei valori a connotare il grado di vitalità di una comunità. Valori condivisi significa anche capacità dei singoli di riconoscersi in una comune O identità. Il 1° Forum nazionale delle minoranze linguistiche che si è svolto a Rovereto, Trento e Moena dal 5 al 7 ottobre 2006, è partito anche da qui per riflettere sull’identità e sull’immagine che di questa viene trasmessa. Come ha sottolineato il presidente della Provincia autonoma di Trento, Lorenzo Dellai, introducendo i lavori, “c’è la necessità di proiettare la memoria nel futuro per produrre valore sociale”. Ed è proprio su questo che il sociologo Nadio Delai, coordinatore del Forum organizzato dal Servizio Minoranze della Provincia autonoma, ha puntato l’attenzione per far riflettere i presenti sulla necessità di interpretare i bisogni della collettività. Una piccola comunità, per essere forza motrice nella conservazione e nello sviluppo del suo patrimonio culturale, deve considera- EdhiZgIG:CI>CD *. &#'%%, re certamente i diritti di tutela del gruppo di minoranza linguistica, ma non può dimenticare quelli di promozione. Una comunità per evolvere e farsi riconoscere come entità capace di sviluppare un’identità comune, consolidata da valori condivisi deve, prima di tutto, interrogarsi su che cosa riesce a comunicare all’esterno e su come è percepita dalla maggioranza delle persone. Un’indagine commissionata dalla Provincia autonoma allo studioso Salvatore Abbruzzese per verificare come le comunità di minoranza presenti sul territorio trentino sono percepite dal resto della comunità, presenta un panorama piuttosto complesso con il significativo dato che solo 2 trentini su 10 hanno un’idea corretta di quali siano le minoranze linguistiche nel nostro territorio. Le riflessioni, le risposte, i punti di vista che gli esperti della comunicazione, dell’ambito sociologico, filosofico, letterario hanno proposto nelle giornate del convegno compongono un mosaico composito e multicolore con diverse possibilità di “lettura”. Certamente il Forum è servito per il confronto, per la ricerca di strategie comuni, ma è stato molto utile anche per tentare di procedere col medesimo passo e riuscire ad essere, con la forza della condivisione, opportunità di crescita preziosa in un mondo globalizzato che rischia di livellare tutto usando un criterio indefinito. Accanto ai ladini, mocheni e cimbri, c’erano sloveni, baschi, asturiani, gallesi, occitani, albanesi, direttori di mezzi di comunicazione e studiosi delle minoranze linguistiche. C’erano scrittori come Carmine Abate italia- +% EdhiZgIG:CI>CD &#'%%, no della comunità arbëresh di Carfizzi (Calabria) che vive in Trentino e ha sposato una donna tedesca. C’era Moni Ovadia, l’artista italiano naturalizzato milanese, ebreo sefardita, nato in Bulgaria che si definisce europeo e parla, oltre all’italiano, l’inglese, il francese, lo spagnolo, il greco moderno e “mastica” un po’ di tedesco. Certo l’identità, in un mondo con ritmi di trasformazione sempre più veloci, non è una questione di poco conto. Se, per esempio, qualche decennio fa si poteva dare un volto all’identità italiana, ora la “faccenda” è molto più complessa. I sociologi presenti al convegno, primo fra tutti il segretario generale del Censis Giuseppe De Rita, hanno posto l’attenzione sulla connessione fra identità terri- toriale e grandi trasformazioni di una società. Il sociologo romano, già presidente del CNEL, ha proposto spunti molto interessanti, ripresi da relatori e pubblico del convegno in più occasioni. L’identità è un progetto, la capacità di elaborare un piano e, secondo l’editore Cesare De Michelis (Marsilio), “è questo a connotare una minoranza linguistica; le lingue si inventano con l’unico strumento che può essere trasmesso facilmente, parole e suoni”. È stato citato, a questo prosposito, il grande progetto della lingua italiana che dopo Dante attraverso l’editore Manunzio di Venezia, Erasmo da Rotterdam e Bembo, è stato un programma meraviglioso che ha affermato l’identità italiana per oltre cinque secoli. L’identità è consapevolezza dell’ego. In una collettività, quando esiste un problema di identità, chi fa la parte dell’ego? È una delle domande poste al convegno. La comunicazione nella coscienza “egoica” di una comunità ha un ruolo importante; le analisi esposte durante i due giorni del Forum, hanno prospettato un panorama complesso. I media riescono come in passato ad essere coscienza “egoica” della collettività? Oppure comunicano e basta? In ogni caso, con l’una o l’altra risposta, si crea un’identità collettiva. Ma quale? Una società deve interrogarsi su questo, altrimenti è difficile avere un’identità da trasmettere. Il “volo d’uccello” proposto dai sociologi e filosofi sulla comunità italiana è riferibile anche ai gruppi più piccoli e le minoranze linguistiche presenti al convegno hanno – infatti – dialogato molto con gli esperti. Contributi preziosi che servono a definire le situazioni e a trovare di concerto modalità e EdhiZgIG:CI>CD +& &#'%%, percorsi innovativi di soluzione. Gli esperti della comunicazione e fra questi alcuni direttori di media dei gruppi di minoranza linguistica, hanno illustrato il variegato panorama dei mezzi di comunicazione europei. Oltre alla “Euskal Telebista”, rete radiofonica e televisiva basca con due canali televisivi (uno trasmette in basco e l’altro in spagnolo), 5 radio (di cui due con programmazione in lingua basca) e un canale satellitare, illustrata da Bingen Zupiria, particolarmente interessante è l’organo d’informazione sloveno in Italia, il quotidiano “Primorski” che il suo direttore Bojan Brezigar ha presentato con dovizia di particolari. Mentre la rete radiofonica-televisiva basca Etb nata nel 1982, si propone ad una comunità di persone di 700.000 unità (questi i “parlanti” basco), il quotidiano sloveno stampato a Trieste, nato nel 1876, ora organo di informazione pluralista con una fogliazione di 24-32 pagine, è dedicato ad una comunità slovena che conta circa 100.000 persone. Lo share del 23% della televisione basca proietta l’emittente basca al II° posto in Spagna dopo Tele5 e trasmette 24 ore su 24 con una programmazione dedicata all’informazione, all’ambito sportivo, culturale, di intrattenimento per bambini e adulti. Il quotidiano sloveno è l’unico organo d’informazione per la comunità slovena che vive in Italia ed è distribuito (una copia) in forma gratuita nelle scuole di Trieste e dintorni, “perché – come dice orgogliosamente il direttore Brezigar – i ragazzi sono i nostri lettori di domani”. Stampato a colori in 11.000 copie viene diffuso nelle edicole e inviato a quasi 5.000 abbonati. Dal 2004, quando la Slovenia è entrata nell’Unione Europea, il quotidiano fa molta più informazione anche sul Paese sloveno. Il convegno è stato un’occasione significativa per trovare strategie di comunicazione volte a promuovere il prezioso patrimonio di ciascuna piccola comunità di minoranza linguistica perché, come ha detto il presidente Dellai, “comunicarlo, trasferirlo ad altri, significa introdurre dinamismo nei rapporti, evitando la staticità che mai produce sviluppo”. +' EdhiZgIG:CI>CD &#'%%, L’indagine curata da Salvatore Abbruzzese Cimbri, Ladini e Mòcheni: cosa ne sanno i Trentini? e culture di minoranza trentine, ad eccezione di quella ladina, restano ancora scarsamente conosciute. La stessa presenza di minoranze linguistiche in Trentino non è ancora un dato di fatto per la totalità degli intervistati. La distanza che separa i Ladini dai Mòcheni e dai Cimbri è estremamente rilevante. In questo senso è possibile dire che esiste realmente un chiaro problema nella conoscenza della minoranza mòchena e, in particolare, della minoranza cimbra. In un tale contesto solo i Ladini hanno effettivamente conquistato uno spazio di visibilità tale da poter contare su elementi di conoscenza diffusa circa la propria collettività e le proprie espressioni culturali. Non così è per le altre due minoranze per le quali non si va molto al di là di una semplice presa d’atto della loro esistenza. Nella misura in cui la larga maggioranza del campione di Trentini intervistati sostiene che bisognerebbe valorizzare le minoranze come occasione di rispetto delle diversità di cultura, di lingua, di tradizioni”, occorre convenire come nessuna diversità di cultura, lingua e tradizioni può essere rispettata in modo non meramente formale fino a quando non è resa accessibile alla comprensione. Nessuna cultura nazionale di maggioranza può sopravvivere ai momenti di dialogo culturale se non è circondata oltre che da sostenitori anche da estimatori. Per la cultura della minoranza ciò vuol dire consegnare e rendere possibili gli strumenti per la propria comprensione. Questa è innanzitutto lingui- L stica, ma è anche storica, economica e culturale. È una comprensione storica perché è proprio nella storia della singola minoranza che risiedono le radici della propria esistenza e le ragioni per il proprio riconoscimento. È una comprensione economica, perché tra i meriti di ogni cultura c’è anche quello delle attività produttive che la caratterizzano. Ed è infine una comprensione culturale, in quanto sia nell’elaborare i fatti storici che la riguardano, sia nell’approntare strumenti e sistemi che le hanno consentito di sopravvivere essa si è messa alla prova nella capacità di spiegare le scelte compiute. La storia, in qualche modo, consente di comprendere il territorio, ne individua i segni del tempo e permette di comprendere i diversi strati che si sono sommati. Le minoranze non si presentano solo come custodi di tratti culturali ed espressivi conservati nella lingua e nel calendario, ma sono protagoniste di eventi che ne determinano la fisionomia e ne danno le ragioni, cioè le cause che ne spiegano e rendono comprensibile lo stato di fatto attuale. Grazie alla ricostruzione del passato il presente può essere compreso in una forma adeguata. Ma la storia è anche il ponte che collega le minoranze alla maggioranza. Nella misura in cui certi appuntamenti della storia sono stati subiti da tutti (dai conflitti bellici alle vicissitudini politiche, dai processi economici alle emergenze sociali) il modo specifico nel quale le minoranze vi sono state esposte aiuta a comprenderle nel profilo specifico che è loro proprio. La storia delle minoranze, traducendo una “biografia collettiva” specifica, si rivela anche essere un tassello insopprimibile della storia complessiva. Accettare le minoranze significa allora non solo compiere un doveroso atto di omaggio alla diversità, ma permette anche di coglierne il ruolo nel processo collettivo, rendendole in qualche modo più vicine e meno estranee senza potere confondere nello stesso tempo minoranza con omologazione, anzi garantendosi proprio il contrario. La cultura della minoranza, nelle diverse forme nelle quali si concretizza, può allora sfuggire alla sua semplice rappresentazione – della quale non si può che prendere atto – per aspirare ad una possibilità di comprensio- EdhiZgIG:CI>CD +( &#'%%, ne che costituisce il livello essenziale affinché ogni cultura possa aspirare non solo ad essere accettata ma anche a comunicarsi e farsi comprendere da chi non la conosce. Ora un tale percorso è essenziale non solo per ragioni di pura convivenza civile in virtù della quale le culture non si giustappongono l’una a fianco dell’altra, ma in realtà convivono e, entro certi aspetti, sono in relazione implicita tra loro. Il semplice riflesso identitario non è di per sé sufficiente, esso può spiegare un’appartenenza che si sente minacciata, ma non può bastare a reggere la concorrenza di altre culture una volta che si pone sul piano del confronto e la minaccia non ha più ragione di esistere. La singola minoranza può accontentarsi di essere solo descritta, accettando di beneficiare del riconoscimento che le deriva in virtù dei principi del pluralismo culturale. Per tutti i soggetti che le sono esterni (siano essi membri della cultura di maggioranza o delle altre culture di minoranza) essa esiste perché la sua esistenza viene attestata senza sosta dai membri della minoranza stessa. Ne scaturisce una percezione che è semplicemente passiva e la accoglie in quanto cultura altra. Una tale percezione +) EdhiZgIG:CI>CD &#'%%, determina la tolleranza, ma consente il mantenimento degli stereotipi. La conoscenza delle minoranza può restare ad un livello puramente di superficie. La seconda opportunità per la minoranza consiste invece nella scelta di essere compresa. Le è allora necessario fornire tutte le piste d’accesso che consentano a quanti la vogliono conoscere di essere leggibile e non solo osservabile. L’obiettivo non è solo la semplice tolleranza, ma la valorizzazione. Per tutti i soggetti che le sono esterni la cultura della minoranza esiste per le sue capacità di veicolare non solo una lingua, ma anche una memoria, una costruzione sociale dello spazio e del tempo, una produzione culturale. Una tale percezione comporta la fine degli stereotipi e l’accesso ad una conoscenza della cultura della minoranza che consente una relazione e produce un arricchimento. È abbastanza evidente come una cultura non sussista perché i suoi portatori ne dichiarano l’esistenza, né ciò le è sufficiente. Essa si fonda non solo su delle evidenze linguistiche, espressive o pragmatiche. Ma soprattutto rinvia ad una “biografia collettiva” e ad una produzione culturale ad un tempo oggettive e comprensibili. La situazione attuale in Trentino resta ancora ancorata ad una fase di descrizione, più o meno compiuta e conosciuta nella misura in cui le singole minoranze si rendono non solo visibili ma anche conoscibili. UNA PERCEZIONE MODULATA Alla domanda se ci sono “minoranze in Trentino” otto intervistati su dieci rispondono di sì: la risposta positiva è correlata con il genere e con il titolo di studio. È abbastanza rilevante osservare la correlazione con l’età: la conoscenza dell’esistenza delle minoranze linguistiche cresce con l’età, ma rifluisce al 75,1% tra quanti hanno oltre 54 anni di età. Ciò si spiega in gran parte, anche se non essenzialmente, con la centralità esercitata dal titolo di studio: sono infatti le fasce generazionali meno caratterizzate dal possesso di titoli di studio di livello medio e alto a percepire poco l’esistenza delle minoranze. (Tab.1) Tra quanti hanno risposto positivamente alla domanda 1 (l’80,9%) è stato chiesto di ricordarne il nome di qualcuna. Ma 11,4% di questi non ne sanno indicare nemmeno una, mentre si sale al 38,9% se vi si sommano quanti non arrivano a menzionarne due ed al 59,5% quando ci si attende che le menzionino tutte e tre. La percentuale di quanti hanno asserito che in Trentino non esistono minoranze (8,1%) sommata a quella di quanti hanno dichiarato di non sapere se in Trentino esistano o meno delle minoranze (11,0%) ed a quella di quanti, pur asserendo di conoscerle, non ne hanno saputa citare nemmeno una (11,4%) porta ad una percentuale di disconoscenza reale delle minoranze che è del 30,5%. Se poi si prendono in considerazione anche quanti hanno risposto positivamente, EdhiZgIG:CI>CD +* &#'%%, ma non hanno saputo indicare tutte e tre le minoranze linguistiche locali, si raggiunge una percentuale abbastanza elevata: (78,6%). In definitiva solo due Trentini su dieci hanno un’idea corretta di quali siano le minoranze linguistiche presenti sul territorio provinciale. La conoscenza delle minoranze da parte della popolazione trentina è quindi sostanzialmente contraddittoria. In buona sostanza essa si situa in una vera e propria zona grigia della quale sembrano essere validi indicatori: – la sostanziale imprecisione di fondo: le minoranze linguistiche esiTab.1 stono solo per poco più di tre Trentini su quattro, ma si scende a meno di uno su quattro se si vogliono considerare quanti conoscono il nome di tutte e tre le minoranze: sono solo 19,2% del totale degli intervistati; – la non riducibilità del problema ad una semplice disinformazione dalla quale sarebbero esclusi i Trentini con titolo di studio alto o medio alto: in realtà solo poco più di tre laureati su dieci arrivano a ricordare tutte e tre le minoranze ed il dato scende a poco più di due su dieci se vengono considerati i diplomati; – il peso della prossimità territoriale nella conoscenza delle minoranze (ad esclusione della minoranza ladina); una dimensione questa che lascia ben intendere come non siano stati affatto attivati altri canali di conoscenza e di comunicazione. Il Trentino finisce per ripartirsi in tre aree: quella che si riconosce volentieri nella definizione delle minoranze linguistiche come risorse – si tratta di un’area che oscilla dal 33 al 43% della popolazione – è influenzata dalle dimensioni quantitative delle minoranze e, nel caso dei Mòcheni e dei Cimbri, dalla loro prossimità geografica. Quest’area è particolarmente sensibile al livello di studio degli intervistati. Una seconda area è quella di quanti vedono nelle minoranze La percezione dell’esistenza di minoranze linguistiche locali in Trentino, a seconda del titolo di studio degli intervistati (valori percentuali) Medie inferiori Medie superiori Laurea Totale Si 71,2 85,7 92,0 80,9 No 11,0 6,5 5,5 8,1 Non so, non risponde 17,8 7,8 2,5 11,0 100,0 100,0 100,0 100,0 Totale ++ EdhiZgIG:CI>CD &#'%%, un gruppo che richiede di essere assistito: quest’area oscilla tra il 21 ed il 23%. L’escursione abbastanza bassa rivela la sua impermeabilità alle variabili quantitative: non fa cioè molta differenza, ad esempio, tra i Ladini ed i Cimbri. Una terza area è invece costituita da quanti non si esprimono, oscilla tra il 32 ed il 45%, è sensibile alla dimensione quantitativa della singola minoranza ed al titolo di studio degli intervistati. Può essere rilevante osservare come la larga maggioranza degli intervistati, po- Tab. 2 sta dinanzi ad una domanda di tipo dicotomico, abbia risposto in termini apertamente positivi (vedi tab. 5). Sull’item “Le minoranze, se adeguatamente valutate, contribuiscono a differenziare il panorama culturale del Trentino, arricchendone le potenzialità”, si ritrovano ad essere molto o “abbastanza d’accordo” l’82% del totale degli intervistati. In pratica, una maggioranza praticamente analoga a quanti hanno riconosciuto l’esistenza di minoranze linguistiche in Trentino La percezione delle minoranze linguistiche come risorsa o come realtà da assistere (intervistati laureati) (valori percentuali) Definizione Ladini Mòcheni Cimbri Una risorsa per il Trentino 67,9 48,8 46,9 Un gruppo che ha bisogno di essere assistito 6,8 20,3 16,7 25,3 30,9 36,4 100,0 100,0 100,0 Non saprei dare una valutazione Totale Tab. 3 Influenza delle minoranze linguistiche trentine sulle potenzialità del territorio (valori percentuali) Affermazione Molto Abbastanza Poco Per nulla Non d’accordo d’accordo d’accordo d’accordo saprei Totale Se adeguatamente valutate, contribuiscono a differenziare il panorama culturale del Trentino, arricchendone le potenzialità 49,8 32,4 6,8 4,1 6,9 100,0 Rischiamo di costituire un elemento di frammentazione della società trentina 5,1 11,8 15,6 60,6 6,9 100,0 Nè l’uno, nè l’altro: non hanno nessuna influenza 5,2 9,9 20,8 43,2 20,9 100,0 Sintesi del forum a cura del Servizio promozione Minoranze linguistiche locali EdhiZgIG:CI>CD +, &#'%%, Comunicare l’identità l coordinatore del Forum, Nadio Delai, aprendo i lavori nella sede del MART di Rovereto, ha ragionato attorno a una tematica importante non solo per la realtà locale, ma per tutte le realtà che hanno minoranze linguistiche, tematica che ruota attorno a come produrre valore sociale con le minoranze e non solo per le minoranze. Delai ha sottolineato che esiste già una fortissima attenzione alla tutela della lingua, al riconoscimento dei diritti fondamentali, allo sviluppo di un pluralismo di presenza culturale che esprime un modello necessario di consolidamento, si potrebbe dire di “fase 1”. Ma viene data ancora relativamente poca attenzione alla produzione di valori sociali in maniera allargata, non solo riferita alla tutela, alla garanzia della storia, alla garanzia delle tradizioni, della cultura, ma aperta verso lo sviluppo futuro. Le minoranze linguistiche si trovano oggi a dover coniugare per la prima volta in maniera più sofisticata, identità e sviluppo economico, sociale e culturale, guardando avanti, guardando al futuro e non solo guardando indietro. Non bisogna però dimenticare, ha detto ancora Delai, che quello che conta è produrre valore sociale con le minoranze e non solo per le minoranze. Tutto questo per tutelarle, per proteggere il loro passato e le loro radici, la loro lingua, ma anche per produrre valore sociale insieme, tra minoranze e comunità più am- I pie, dove le minoranze sono inserite, per far crescere, per investire il patrimonio che esiste e per produrre valore sociale per tutti. Il presidente della Provincia di Trento, Lorenzo Dellai, ha evidenziato la necessità di mediazione fra identità e cambiamento, fra radicamento e proiezione su scenari sempre più globali, con ciò evitando il rischio dell’omologazione, ma anche della chiusura e del localismo autoreferenziale. Ha poi sottolineato quanto la comunicazione sia importante prima di tutto per le stesse minoranze, perché il rischio dell’omologazione è direttamente connesso con la scarsa conoscenza di sé, con la scarsa opinione e valutazione della propria diversità. Come pure è importante per rendere partecipe la comunità più ampia di questo valore, evitando un altro rischio: quello dello scetticismo e della sottovalutazione, che potrebbero far ritenere le misure a favore delle minoranze linguistiche come degli indebiti privilegi. Dopo l’intervento del sottosegretario all’Interno Ettore Rosato, che ha ribadito a sua volta l’importanza della comunicazione e i rischi dell’omologazione e della chiusura, hanno parlato di identità studiosi quali il sociologo Giuseppe De Rita, lo scrittore Carmine Abate, il filosofo Gianluca Bocchi, l’editore Cesare De Michelis, l’artista Moni Ovadia. Un’identità, come è emerso dagli interventi, che non è immutabile, costituita una volta per tutte, ma, attraverso lo scam- +- EdhiZgIG:CI>CD &#'%%, bio e il dialogo, si arricchisce e si trasforma. Si tratta infatti di conciliare due opposte realtà: quella della tutela, della promozione, dell’affermazione di specificità da una parte, e quella del pluralismo, del dialogo, delle differenze culturali dall’altra. Giuseppe De Rita ha sviluppato uno stimolante ragionamento attraverso alcuni punti fondamentali: – l’identità sta nell’origine (è un percorso a ritroso che porta alle radici); – l’identità sta nel fondamento (il fondamento culturale come codice globale); – l’identità sta nella storia che si fa insieme (soltanto un popolo che si fa storia ha una sua identità, non può rifugiarsi solo nella difesa della storia precedente); – l’identità diventa sempre più virtuale e sempre meno reale (reale è quella data dalla lingua, dalla collocazione, dalla professione, ecc.; virtuale è quella data dai mass media, dalla televisione alla stampa che invadono i processi identitari in maniera sottile e pericolosa). Per sfuggire all’identità di una virtualità vuota, allo spossessamento di se stessi, la vera cosa che non cambia è il territorio che dà identità attraverso il paesaggio, attraverso la lingua, attraverso lo stesso assetto urbanistico. Dunque, prosegue De Rita, si va verso una “cultura del borgo”, si ricerca l’identità nel territorio, senza rinserramenti e senza dimenticare che un flusso di processi sociali e reali modifica quotidianamente l’identità. L’identità oggi è quindi il giusto rapporto fra una logica sociale che va verso il territorio e una logica culturale generale che ci sfrangia tutti i giorni. Tutto questo, conclude De Rita, enfatizza l’importanza del rapporto fra identità e comunicazione, fra identità collettiva e coscienza egoica. Comunicando, si può creare coscienza egoica: un giornale, una televisione, un editore che abbiano consapevolezza della comunità a cui appartengono, o a cui pensano, aspirano a dare identità. Attraverso lo strumento comunicativo si può creare identità. Gianluca Bocchi, attraverso un lungo percorso storico, ha dimostrato come le minoranze siano le radici della storia europea, un paesaggio mosso e variegato, in cui la diversità è feconda e costruisce cultura. E ancora le minoranze ci fanno capire che è possibile recuperare il territorio europeo come sovrapposizione di culture, che interagiscono fra loro, si ibridano, qualche volta creano anche dei conflitti, ma hanno tante relazioni. Le comunità linguistiche possono davvero sentirsi un soggetto promotore nel “far fare storia” all’Europa. E poiché secondo Bocchi un luogo importante dove si fa storia in Europa sono le grandi città, la sua proposta è EdhiZgIG:CI>CD +. &#'%%, di creare un’alleanza fra le minoranze linguistiche e le grandi città. Carmine Abate, appartenente alla minoranza arbëresh della Calabria, parlando da scrittore sensibile e attento, dichiara di sentire molto forte l’esigenza di narrare il tema della ricerca dell’identità, che ha provato in prima persona, vivendo da arbëresh in Calabria e poi da italiano in Germania. Un’identità dinamica, a mosaico, composta da radici, memoria, lingua: tutti elementi da dividere e da moltiplicare in tanti frammenti che si ricompongono lungo una traccia, “un percorso che non sai mai dove ti conduce”. L’importanza della lingua è stato il punto focale del suo intervento: strumento di comunicazione, certo, ma anche codice per organizzare la propria realtà, attraverso cui passano i valori della comunità di appartenenza. La “lingua del cuore”, la madrelingua innanzitutto, l’arbëresh per lui, ma anche la “lingua del pane”, quella che dà il lavoro, per lui l’ita- liano, nella quale scrive i suoi romanzi. Pensare per addizione e non per sottrazione, dunque: “curare e rivendicare le proprie radici originarie è fondamentale, ma è altrettanto importante curare anche le nuove radici che ti crescono sotto i piedi”. Appartenere a una minoranza, prosegue Abate, consente di vivere più consapevolmente l’Europa che sta diventando sempre più multiculturale. È come “avere un occhio e un orecchio in più, capaci di vedere, di ascoltare e di capire il mondo complesso in cui viviamo. E consente di capire che l’identità, la tua diversità, è soprattutto negli occhi, nello sguardo degli altri.” In conclusione, per non subire la proiezione esterna di un’identità virtuale e distorta, infarcita di pregiudizi, luoghi comuni, folclorismo da riserva indiana, è necessario saper fare comunicazione appropriata, saperla gestire in modo che sia vicino il più possibile a una entità vitale e in mutamento, non statica o rivolta solo al passato. La vera resistenza, inconsapevole, all’omologazione, alla museizzazione, al folklore, la fa in definitiva la gente comune continuando, semplicemente, a parlare la “lingua del cuore”. Secondo Cesare De Michelis, l’identità ha due facce: affermazione di sé, da una parte, e apertura di sé agli altri, dall’altra. E c’è un’identità che percepiamo noi e un’identità che di noi percepiscono gli altri. Questa dualità è energia e il confine fra le due realtà può essere un muro che rende impossibile il dialogo, o può essere un ponte che porta da un parte all’altra. Ma l’identità è soprattutto progetto che si proietta sul futuro e nasce ,% EdhiZgIG:CI>CD &#'%%, dalla forza con cui una comunità è in grado di affermare la propria immagine. Ciascuno di noi è protagonista e responsabile anche delle ambivalenze e delle leggerezze nella percezione degli altri. E provocatoriamente De Michelis dice “le minoranze si tutelino da sole, imparino a combattere e a comunicare: gli altri non ci riconosceranno diritti che noi non rivendichiamo”. Introducendo la relazione conclusiva di Moni Ovadia, Nadio Delai ha riassunto i punti salienti toccati nella mattinata da ciascuno dei relatori e ha messo l’accento in particolare sulla necessità di trattare di identità con un approccio che ricordi la leggerezza di Italo Calvino: solo sfiorando questo oggetto delicato che è l’identità, senza chiusure troppo “dure” o aperture troppo “improbabili”, è possibile mantenere viva l’energia che si sprigiona da una sorta di arco voltaico che sta alla base di un’identità non troppo egoica, da un lato, e un’iden- tità troppo liquefatta nell’indistinto del mondo, dall’altro. Anche Moni Ovadia, ha portato la sua esperienza personale di identità molteplici: ebreo sefardita, cittadino italiano nato in Bulgaria, che si riconosce milanese doc, sempre in bilico, come tutti, fra identità specifica e identità universale. E partendo dall’identità ebraica, ha osservato che ogni cammino identitario può confrontarsi col cammino identitario altrui e misurarsi col problema della minoranza e della maggioranza. Infatti, a suo parere, il vero problema delle maggioranze è che non hanno in sé lo spirito della minoranza. Gli ebrei stessi, dove sono stati minoranza hanno dinamizzato, fertilizzato, collocando un’identità specifica dentro l’universale. Quindi, quando sono stati minoranza hanno svolto un ruolo centrale, cruciale, hanno attivato meticciati straordinari, tipo quello della Spagna andalusa, quello della cultura ebraica tedesca o quello della cultura ebraica statunitense. E hanno creato lingue straordinarie, come lo yiddish. Una lingua è, secondo Ovadia, non solo un formidabile mezzo di comunicazione, ma una condizione dello spirito. Le lingue minoritarie, dunque, devono potersi esprimere secondo il loro genio, il loro talento, la loro capacità e determinazione egoica. Proprio perché il senso profondo di una lingua è nell’incontro tra significato e suono, Moni Ovadia, in chiusura del suo intervento, ha fatto la sua proposta per coltivare l’identità: con la lingua, appunto, attraverso il teatro, attraverso la scrittura, attraverso la cultura, attraverso le invenzioni, per dare all’identità opportunità di crescita e di rigenerazione. EdhiZgIG:CI>CD ,& &#'%%, Hanno detto Lorenzo Dellai Comunicare questa identità, questo patrimonio, significa non solo, ovviamente, farlo conoscere, ma significa anche, in qualche maniera, metterlo in relazione con ciò che sta cambiando. Per comunicare bisogna, infatti, approfondire e significa anche introdurre dinamismo e non staticità. Comunicare è importante prima di tutto per le minoranze linguistiche, perché tutti abbiamo potuto notare negli ultimi tempi che i processi di omologazione sono fortissimi anche dentro i territori nei quali vivono le nostre minoranze linguistiche ed il rischio dell’omologazione è direttamente connesso con la scarsa conoscenza di sé, con la scarsa opinione e valutazione della propria diversità. In altre parole, comunicare serve prima di tutto alle minoranze linguistiche. In secondo luogo, ovviamente, comunicare significa fare partecipe la comunità – la “maggioranza”, “ fra virgolette – del valore delle minoranze linguistiche, evitando così un altro rischio, che è quello dello scetticismo, della sottovalutazione o del ritenere magari le misure a favore delle minoranze linguistiche come degli indebiti privilegi attraverso i quali una piccola comunità di persone riesce ad avere una grande quantità di attenzioni da parte dei pubbli- ,' EdhiZgIG:CI>CD &#'%%, ci poteri. Il rischio dell’omologazione ed il rischio della valutazione cinica della maggioranza verso le minoranze possono essere superati attraverso il “metodo della comunicazione”, come sforzo per attualizzare questi valori, questi principi, per dare senso di futuro e valore sociale, come diceva prima Nadio Delai, a questo grande patrimonio che è dentro le nostre comunità. Di questo patrimonio abbiamo grande bisogno e quindi, come tutti i patrimoni, come tutti i talenti, non va né sciupato né sotterrato, ma al contrario, va valorizzato, capitalizzato, conosciuto, comunicato.” dice apicale, un qualcosa che fosse sopra ai nostri vincoli di ordinamenti, nel diritto di famiglia, nell’obbedienza che ci devono i figli o nell’organizzazione di una classe scolastica. Ogni cosa ha una sua articolazione. Diceva sempre Nino Andreatta: “La modernità è distinzione, è articolazione, lì dove c’è accorpamento, addirittura apicale, c’è l’indistinzione, solo la distinzione fa la modernità”. L’identità è storia, soltanto un popolo che si fa storia ha una sua identità. Valeva per gli Ebrei nel deserto, è valso per gli Italiani dal ’50 in Giuseppe De Rita Dove sono oggi i grandi problemi dell’identità, e come arrivano a ciascuno di voi che fa parte di una singola realtà comunitaria minoritaria? Il primo (e lo dico per primo perché è una cosa che oggi sta nei libri ma non sta ancora nella concezione) è che l’identità è il continuo ritorno all’origine. È la grande lezione ebraica, è la grande lezione giudaica, la grane lezione talmudica, se volete, è anche la grande intuizione dell’anello del ritorno di Nietzsche. L’identità non è altro che svolgere il percorso di ritorno all’origine. Soltanto andare a ritroso ti dà identità, perché ti porta all’origine. L’identità sta nella fedeltà ai fondamenti. Se vogliamo avere identità, dobbiamo attaccarci ai nostri fondamenti. Il fondamento culturale come codice globale, come legge. Pensate alla Sharja, che supera, che è più importante di tutte le leggi nazionali. La nostra vita, invece, è stata sempre molto più “articolata”: non abbiamo mai avuto una cultura apicale, un co- “ poi, che hanno fatto la loro storia, il loro modello di sviluppo, il localismo, la piccola impresa, il policentrismo politico. Non è sufficiente difendere la storia passata (“mentre tutti gli altri fanno storia, io mi difendo la mia storia”), chi non fa storia non fa identità. La storia risorgimentale da chi è stata fatta? Da una piccola minoranza, perché era minoranza, che però ha creato una specie di mito risorgimentale su cui poi si è fatta la storia italiana, su cui si è fatta l’identità italia- EdhiZgIG:CI>CD ,( &#'%%, na. Ci sono state poi la scuola italiana, le ferrovie italiane, la cassetta rossa delle poste in tutti i Paesi, le guerre di indipendenza, che hanno maturato l’identità italiana: ma l’identità italiana era stata fatta da un gruppo di padri risorgimentali che ha imposto, si potrebbe dire, un’identità, non l’ha fatta esprimere, l’ha imposta. Giulio Bollati, in un suo straordinario libretto in italiano, ricorda che uno dei grandi padri risorgimentali diceva: “In Italia ci sono due popoli, un primo popolo che sfanga la vita nel lavoro quotidiano e un secondo popolo che pensa il sentimento del primo e quindi ne è il legittimo sovrano”. L’Italia è stata fatta dal secondo popolo, cioè da un piccolo gruppo di persone che ha pensato il sentimento del primo e l’ha indirizzato. Ne è stato “il legittimo sovrano” non perché l’ha comandato, ma perché l’ha indirizzato, l’ha guidato verso un’identità nuova, che non c’era. Ma dove si coagula un’identità che diventa sempre più virtuale e sempre meno reale? L’identità reale è quella che è data dalla lingua, dalla professione, dalla collocazione, è data dai soldi che si hanno, se volete. L’identità virtuale è quella data dalla comunicazione, l’identità che dà la televisione. Ma quale identità dà il comunicato stampa della Presidenza del Consiglio che presenta la finanziaria? Che identità del Paese dà? Dà un’identità virtuale. Nell’ultimo libro di Baudrillard l’autore sostiene che il vero male che sta arrivando nel mondo è il pericolo dell’identità virtuale, l’identità di un’icona televisiva o giornalistica, così vuota, così incapace di creare identità, o addirittura capace di creare identità diverse”. Il vero pun- to cruciale in questo momento è il rapporto fra comunicazione e identità. Se l’identità di ciascuno di noi vuole sfuggire all’identità di una virtualità vuota, dell’icona vuota, che è uno spossessamento di sé stesso, rimane solo il territorio. La cosa che non cambia, rispetto all’Islam, rispetto alla storia d’Italia, la vera cosa che non cambia, banalmente, è il territorio. Tutto questo perché il territorio ti dà delle forme di identità che tutto sommato sono più rassicuranti, anche se sono in qualche modo lontane dai flussi della storia, ti dà il senso del paesaggio, etc. Nel territorio, oltre la lingua e il paesaggio, c’è l’assetto urbanistico, nell’assetto urbanistico non c’è solo la storia (la Chiesa in mezzo, il Municipio davanti), c’è il fatto che quell’assetto urbanistico è stato fatto per viverci insieme. Cosa che, per esempio, noi abitanti delle città non abbiamo più, mentre le comunità minoritarie vivono in realtà dove l’assetto urbani- ,) EdhiZgIG:CI>CD &#'%%, stico parla di qualcosa, parla non solo della storia o del pittore che ha fatto gli affreschi nella chiesa. E se oggi molti italiani vanno a vivere in borghi piccoli, ci vanno per questo bisogno profondo di un’identità che non sia né televisiva, né fondamentalista, né soltanto religiosa, né filosofica, ci vanno per vivere un’identità forse banale, però reale. Per vivere quel paesaggio, per vivere quell’assetto urbanistico, per vivere quella socializzazione comunitaria, per vivere quel modo di parlare (che magari non si acquisirà mai, però ti piace sentir parlare in una certa maniera), anche una lingua ti può dare l’idea di una realtà tutto sommato accettabile. Su questo tipo di dimensione, a mio avviso oggi si gioca: da una parte il ritorno degli Italiani verso il borgo è in qualche modo il sintomo che l’identità sta nel territorio, o la ricerca di identità sta nel territorio; è una ricerca identitaria, magari una presa a prestito di identità che soltanto il territorio può dare. Dall’altra parte è il segno di un rinserramento, di un ripiegamento, non si partecipa più alla storia dei prossimi anni: cosa mi importa della globalizzazione, cosa mi importa di che cosa c’è in televisione. Io spengo la televisione alle 9, vado a letto, perché poi la mattina mi piace andare in giro per i campi. E il rinserramento nel borgo è stato attribuito come colpa a coloro che hanno creato negli ultimi cinque anni questo fenomeno. È però il segno che la battaglia identitaria oggi si svolge fra i grandi processi culturali della storia e il grande bisogno di territorio. Ma non si può cantare il borgo come grande momento identitario e al tempo stesso non dare peso a quello che passa in televisione, a quello che passa nelle omelie dei nostri Parroci o nelle riflessioni del Pontefice. Non possiamo farlo, perché tutto questo ce lo ritroviamo in casa. Si può ben dire che una volta i Turchi arrivavano alla marina, mentre adesso arrivano attraverso i proclami o attraverso sollecitazioni culturali molto più sofisticate. Tutto sommato, questo è il vero problema oggi dell’identità: il rapporto fra una logica sociale che va verso il territorio e una logica culturale generale che ci sfrangia tutti i giorni. Carmine Abate Radici, memoria, lingua: tutte parole che, se appartieni a una minoranza, devi sempre moltiplicare, a volte anche dividere, come minimo per due, e alla fine, alla fine ti ritrovi con la tua bella identità che chiamerei plurale o frammentaria, dipende dai punti vista, o meglio ancora, una identità a mosaico. È difficile rimettere assieme tutti questi frammenti, tutte queste identità e forse, quando pensi che hai messa a fuoco la tua identità e l’hai ricomposta, l’identità si trasforma, diventa un’altra cosa. Essendo dinamica per natura, quando è statica è pericolosa; per me è come un percorso in divenire, una traccia, che però, e qui sta il fascino, non sai mai dove ti conduce, sai solo che la devi seguire e sai solo che la devi reinventare continuamente. Ho subìto la scolarizzazione in italiano, però, a casa, nei vicoli, con gli amici, ho continuato a parlare l’arbëresh, che noi chiamiamo con un’espressione bellissima “la lingua del cuore”. Poi tutti abbiamo imparato “la lingua del pane”, quella che “ EdhiZgIG:CI>CD ,* &#'%%, ci ha dato il lavoro, che per me è stato l’italiano; per mio padre, emigrato in Germania, è stato il tedesco, per mio nonno, emigrato prima ancora in America, è stato l’inglese. La lingua del pane è sicuramente importante. Per me è importantissima, perché scrivo in questa lingua, in italiano, ma non è radicata dentro come la lingua del cuore, come l’arbëresh. Usare l’italiano per me non è sem- plice, liscio, lineare, come può essere per uno scrittore italiano. Una lingua, non è solo un mezzo, uno strumento di comunicazione, ma è anche un modo, un codice per organizzare la tua realtà, attraverso la lingua passano i valori della tua comunità. Questa mia situazione linguistica si è andata ancora complicando, quando sono arrivato in Germania, dove viveva mio padre, come emigrante. Lì mi sono imbattuto in una nuova lingua e in una nuova cultura, che non è, come si può pensare immediatamente, quella tedesca. È stata quella degli emigranti, quella lingua che io chiamo germanese. La lingua germanese è parlata dai Germanesi, queste figure ibride, che dopo 20/30 anni di Germania non sono ancora Tedeschi, non lo diventeranno mai. Imaginate me che divento Tedesco. Però non sono più Calabresi o Arbëresh puri, non lo possono essere, perché vivono da tanto tempo in Germania. A chi mi diceva: “Gli emigranti Ger- ,+ EdhiZgIG:CI>CD &#'%%, manesi sono senza radici”, io capovolgevo il discorso: “No, al contrario, sono delle persone, siamo delle persone che hanno più radici”. A chi mi diceva: “Vivendo fuori, si perde la propria lingua”, io dicevo: “No, la mia madrelingua non l’ho persa, io ho imparato altre lingue, io non vivo più in un mondo solo, io vivo tra due mondi, vivo in due mondi, vivo in più culture”. Insomma, ho cominciato, se posso usare questa formula, a pensare per addizione e non per sottrazione. E il clic che ho sentito in testa un giorno mi ha forse cambiato la vita. È stato un momento: io vivevo in Germania e mi accorgevo per i Tedeschi ero semplicemente uno straniero, per gli altri stranieri che vivevano in Germania. Ero un Italiano. Per gli Italiani, c’erano anche tanti Trentini in Germania, ero un meridionale, per i meridionali ero un Calabrese, per i Calabresi ero un Arbëresh, e quando ar- rivavo a casa mia, tra gli Arbëresh, ero un Germanese. Io, per me, ero invece Carmine Abate, cioè ero una persona che, aveva, appunto, più radici, e che si sentiva proprio come un albero che ha le radici più profonde nella propria terra. Mi è piaciuto molto il discorso sull’identità come territorio: nella terra in cui sono nato le radici più profonde, ma accanto a queste radici, o intrecciate a queste radici originarie, ho visto, anno dopo anno, esperienza dopo esperienza, crescere sotto di me tante, tante altre radici, le radici germanesi, tedesche, le radici trentine, perché ormai vivo in Trentino da tanti anni. Bisogna, a mio avviso, non solo curare o rivendicare semplicemente le proprie radici originarie, bisogna curare anche le nuove radici che ti crescono sotto i piedi. Insomma, io sto cercando di dire che appartenere a una minoranza è un vantaggio. Quando ero bambino non potevamo parlare in arbëresh, altrimenti ci davano le bacchettate. Per anni e anni i miei insegnanti, che erano Arbëresh e non Litir, mi hanno detto che bisognava dimenticare l’arbëresh. Bisognava parlare in italiano, quasi vergognarsi della propria appartenenza. Ed invece io mi accorgo che l’appartenenza a una minoranza ci consente di vivere più consapevolmente questa Europa che sta diventando sempre più multiculturale, è come avere un occhio e un orecchio in più, capace di vedere, di ascoltare e di capire il mondo complesso in cui viviamo. Ci permette di capire soprattutto che in fondo l’identità, la tua diversità, è soprattutto negli occhi, nello sguardo degli altri: l’esempio è quello dei Tedeschi che mi ve- EdhiZgIG:CI>CD ,, &#'%%, devano come straniero. Quel giro di identità che cambia a seconda di chi ti guarda, ti fissa negli occhi. Chi appartiene a una minoranza deve combattere su più fronti, purtroppo. Non dico combattere chi esplicitamente ti dice in faccia che “non ha senso spendere tutti questi soldi per poche persone” o “che senso ha in un mondo globalizzato che ci siano ancora le minoranze”. Mi sento di dover reagire nei confronti di chi ti vede – e questo mi dà molto fastidio – come un fenomeno folcloristico (prima si parlava di museo polveroso) o di chi ti vede quasi come una riserva indiana. La nostra identità, le nostre minoranze, vengono purtroppo spesso comunicate da chi non appartiene alle minoranze, in questo modo, pieno di pregiudizi e di luoghi comuni, in maniera folcloristica. Ma il problema di fondo che sollevava il professor De Rita, in cui mi dibatto anch’io come Arbëresh, è questo: quando l’identità diventa collettiva, chi fa, all’interno di questo percorso, la parte dell’ego? Chi è la coscienza egoica degli Arbëresh? Anch’io, all’interno della nostra minoranza, vedo al momento una grande confusione, però so benissimo che un’identità va sempre e comunque reinventata, e anche io, come scrittore, sento il dovere di reinventare continuamente questa identità. Moni Ovadia Io sono un teatrante e di tutto ciò che faccio sono amateur. Le mie riflessioni sono rapsodiche e libere. Vengo dal mondo ebraico, e lì il problema identitario è il problema centrale, tuttora irrisolto, e questa è proprio la grandez- “ za dell’ebraismo, che definisce l’identità come ricerca di identità. Essere Ebreo significa domandarsi cosa significhi essere Ebreo e non chiudere la definizione identitaria. L’ebraismo ha una virtù fondamentale: quello di permettere a un’identità specifica di minoranza di diventare propulsione delle maggioranze. L’ebraismo esce dall’ombelico di una banda di tribù, di dementi, di sbandati. Chi è Abramo? È un traditore dell’idolatria, che va dietro a una voce, ma il problema è che sapientemente il cammino ebraico, che costruirà un’identità intorno a un libro, la Torah, a un ethos, a una legge, ha una identità che precede la Torah, perché la Torah stessa, prima di parlare di Ebrei, parla di esseri umani. La prima identità è Adamo: lo statuto identitario di Adamo è quello di essere referente unico di qualsiasi uomo, paradigma identitario e paradigma esistenziale. I maestri del Talmud dicono, forse nel più bel libro del Talmud, ed il più commovente, che tutti discendiamo solo da un uomo perché nessuno possa dire: “Il mio progenitore era meglio del tuo”. ,- EdhiZgIG:CI>CD &#'%%, In tal modo si sconfigge già a monte qualsiasi tentazione di un’identità aggressiva. Che poi gli Ebrei se lo siano dimenticato e siano diventati aggressivi, è un fatto. Gli Ebrei sono uomini, nient’altro che questo, e non si differenziano dagli altri. Il grande linguista Noam Chomsky dice che c’è una sola grammatica; allora, forse, era quella di Babele, prima della dispersione, però, quell’unica grammatica credo sarebbe stata mortalmente noiosa. Forse quella di Babele era una chance per gli esseri umani di esprimersi in modo variegato e diverso, anche per stabilire relazioni. Ed allora ecco che in questa chiave ogni cammino identitario può misurarsi col cammino identitario altrui. Io sostengo, e faccio un piccolo paradosso, che il vero grande problema delle maggioranze è che non hanno in sé lo spirito di minoranze. Faccio un esempio di maggioranze che sono minoranze altrove. Da noi i Cattolici sono maggioranza, hanno notevoli problemi, sia di comunicazione sia di identità propria, soprattutto in questa società molto dinamizzata, piena di tentazioni. Laddove i Cattolici sono minoranza, la loro condizione è completamente diversa. Lo stesso vale per gli Ebrei: dove sono stati minoranza hanno dinamizzato, proprio sfruttando il veicolo universale, dentro l’universale hanno collocato un’identitià specifica, che è stata molto fertilizzante, malgrado tutti i tentativi di annientarla. Quindi, solo quando sono stati minoranza hanno svolto un ruolo centrale, cruciale, hanno attivato meticciati straordinari, tipo quello della cultura ebraica tedesca, della cultura ebraica statunitense, ma ancora prima, la Spagna Andalusa. Insomma, c’è stata una fertilizzazione reciproca di minoranza e maggioranza. In Israele hanno fatto l’operazione un po’ “all’italiana”. Un pugno (l’aspetto egoico) di sionisti ha deciso per tutti. Perché è nata da un pugno di persone, non è nata da un movimento di un popolo, di una gente. Quando sembrava non ci fosse più speranza, un gruppo di persone si riunisce per dire: “Basta, bisogna fare un’identità nella terra, definita, un’identità forte”. Lo stesso David Ben-Gurion, che parlava uno jiddish di sconvolgente bellezza, veramente, forse, uno di tutto il gruppo dei dirigenti che parlavano lo jiddish migliore, fece una campagna per cercare in tutti i modi di smontare questa lingua, quasi fosse responsabile di quello che era successo. Questo succede quando si comincia a diventare maggioranza. Il problema è che non si sarebbe dovuta fare una difesa marxista, leninista dello jiddish, ma semplicemente dargli una chance. Io non credo alla decisione verticista di un’autorità. Ma creare condizioni affinché le identità di minoranza, le lingue di minoranza, all’interno dell’universale umano prima, all’interno della cittadinanza europea, possono esprimersi secondo il loro genio, il loro talento, la loro capacità e anche quella determinazione egoica: “Io mi ci voglio esprimere”. Ma non puoi obbligare nessuno a parlare una lingua se non ne ha più voglia. Noi sappiamo che ci sono lingue che muoiono, ogni quindici giorni ne sparisce una delle 6000. Però si può costruire ricchezza intorno alle molteplici identità linguistiche. Per esempio, faccio il caso della Spagna, che è una lin- EdhiZgIG:CI>CD ,. &#'%%, gua stupenda: lo spagnolo è una lingua di una bellezza sconfinata, però i Catalani non mollano, i Catalani vogliono parlare anche il loro catalano, e perché mai non dovrebbero farlo? Perché mai? È un’altra lingua molto bella. Io, per esempio, ho studiato alcune lingue, proprio per la passione che ho per la musicalità, per il suono. Sono un Europeo che parla l’italiano, l’inglese, il francese, lo spagnolo, mastico il tedesco, parlo il greco moderno, parlo il bulgaro, perché sono nato in Bulgaria, parlo il giudaico spagnolo, anche se non ho interlocutori, è molto raro trovare qualcuno con cui parlarlo. E continuo a studiare una nuova lingua anche così. Le parlo magari maldestramente, finché non ho l’occasione di andare nel Paese e rinsaldarlo. Se sto per 3 mesi in un posto, la mia lingua diventa, diciamo, credibile. Trovo che le lingue di minoranza siano un tesoro al quale poter attingere a seconda delle circostanze. Il suono comunica il vero senso profondo di una lingua. E nell’incontro di significato e suono si crea il senso profondo della lingua. Il teatro è il luogo ideale, da questo punto di vista, per lavorare su queste straordinarie esperienze. Il napoletano di Eduardo: il napoletano è, anche attraverso le canzoni, una lingua in qualche modo universale, che ha commosso platee in ogni spicchio del pianeta. Anche questo è un modo per coltivare l’identità. Come dice giustamente Amartya Sen, noi siamo poli identitari, tutti. Io sono nato in un Paese Slavo, discendo da Ebrei Sefarditi, che sono stati cacciati dalla Spagna, sono un uomo del Mediterraneo, perché dal Mediterraneo ci hanno cacciato, e nel Mediterraneo ci hanno accolto. Mio padre parlava un’eccellente turco, sono cresciuto nella periferia di Milano, e io mi riconosco nel mio milanese, guai a chi me lo tocca. Senza però cadere nella perversione di presunta difesa dei campanili localisti. Ecco, la mia proposta è: attraverso il teatro, attraverso la cultura, attraverso le invenzioni, attraverso la scrittura, attraverso mille cose possibili, dare chance a queste molteplici identità costruite dall’universale umano e sempre, naturalmente, contenute nell’universale umano. Perché la radice, la famosa radice, di che cosa si nutre? Di acqua, di minerali, bene, la radice è il particolare; l’acqua e i minerali sono l’universale, nessuna radice senza l’universale vive, si rinsecchisce, muore, e prima di morire combina disastri. -% EdhiZgIG:CI>CD &#'%%, DAL DIRE AL FARE Acquisito che oggi la materia identitaria è in cambiamento – per l’ampiezza del problema nel contesto della trasformazione multietnica generale, per la crisi della dimensione degli Stati a favore sia della globalità che della località, per la crescente importanza delle “reti” che abbattono barriere e facilitano la disintermediazione rispetto ai canali tradizionali di comunicazione (pur creando nuovi analfabetismi) – resta aperta la questione di gestire le identità che compongono la complessità territoriale. Gestirle in funzione dei rapporti sociali, dello sviluppo turistico ed economico, delle relazioni linguistiche e culturali, della capacità di incidere su regole e poteri. Il sistema della comunicazione è certamente uno dei terreni essenziali in cui la questione della rappresentazione del tema identitario trova opportunità. A condizione di capire le regole e le modalità di questo scenario, di disporre di risorse e creatività per intervenirvi in modo originale, di individuare con chiarezza i destinatari dei messaggi che si vogliono promuovere, di avere un progetto e una strategia per imporre i propri obiettivi. Questa la tematica e questo il punto di svolgimento della tavola rotonda coordinata da Stefano Rolando (professore di Teoria e tecniche della comunicazione pubblica e segretario generale della Fondazione Università IULM di Milano), a cui hanno contribuito studiosi e operatori professionali. In apertura, Walter Giuliano (assessore della Provincia di Torino) ha il- lustrato l’esperienza di inserimento nella comunicazione del grande recente evento delle Olimpiadi a Torino a favore di una presenza dell’immagine e della diversità linguistica delle minoranze territoriali piemontesi e valdostane. Salvatore Abbruzzese (professore di Sociologia all’Università di Trento) ha illustrato la ricerca promossa dal Servizio per le minoranze linguistiche della Provincia di Trento sulla conoscenza e la comprensione da parte della popolazione del Trentino delle minoranze del proprio territorio, pubblicata nel volume dal titolo “I SENTIERI DELL’IDENTITÀ. CIMBRI, LADINI E MÒCHENI VISTI DAI TRENTINI”, terzo della Collana Conoscere le minoranze linguistiche. Guido Venturini (direttore generale del Touring Club italiano) ha posto la questione della gestione del turismo di qualità, ovvero delle condi- EdhiZgIG:CI>CD -& &#'%%, zioni per valorizzare – accompagnando adeguatamente l’utenza – luoghi, modi, culture e prodotti che costituiscono il contenuto stesso dell’originalità identitaria frammentata nei nostri territori. Mauro Ussardi (vice-presidente dell’Agenzia internazionale di pubblicità J.Walter Thompson) ha mostrato il valore di una comunicazione efficace, semplificata e suggestiva che è oggi una risorsa base per orientare i flussi turistici. Domenico Nunnari (vice-direttore della Testata Giornalistica Regionale della Rai nazionale) ha affrontato il tema della rappresentazione differenziata dell’informazione giornalistica chiarendo che la possibilità di connettere di più i vari contesti, grazie anche alle tecnologie in evoluzione e attraverso prodotti di interpretazione più generale, è per la Rai “un cantiere aperto”. Remigio Ratti (professore universitario e direttore generale della Radiotelevisione della Svizzera italiana) ha contribuito alla riflessione sulla “italicità” intesa come rete di un rapporto globale con la dimensione della lingua italiana, che nelle dinamiche del federalismo svizzero “rappresenta una minoranza che oggi ottiene una rappresentazione circa quattro volte superiore alla sua dimensione demografica”. In conclusione, Alberto Abbruzzese (professore di Sociologia dei media all’Università IULM di Milano) e Robert Louvin (professore di Diritto pubblico comparato all’Università della Calabria) hanno fornito chiavi di sintesi alla discussione da un lato in ordine al rapporto tra nuovi saperi e strategie dei processi formativi e dall’altro lato in ordine al rapporto tra regole (nazionali e regionali) e regie di organizzazione dei poteri