Premessa del Rettore del Santuario della Ss. Pietà
Nell’ottobre 1987, il Vicario Generale della Diocesi di Novara, il futuro vescovo di Casale
Monferrato monsignor Germano Zaccheo, cannobiese “D.O.C.”, volendo rivitalizzare l’ammuffito
ambiente cannobino di Santuario e “ospizio del pellegrino”, vi fa emigrare dal Sacro Monte di
Varallo Sesia il rettore, l’Oblato padre Francesco Carnago, personalità eccezionale per le sue doti di
intelligente organizzatore.
E padre Francesco, lì giunto e scoperta l’esistenza di un voluminoso archivio, aggancia
immediatamente il suo Professore degli ultimi anni di Seminario, don Mario Crenna, il quale,
incuriosito dal quantitativo di carte antiche (dal 1522 in poi) presenti, si immerge in quella paziente
e minuziosa ricerca grazie alla quale anni dopo pubblicherà la storia del santuario nel volumetto Il
Miracolo di Cannobio (1977) e nell’articolo del Bollettino storico per la Provincia di Novara
“Come e perché si è edificato un santuario. Dall’archivio della Ss.ma Pietà di Cannobio ” (2006).
Ma padre Francesco – che veniva via via informato oralmente da don Mario Crenna delle
importanti notizie ricavate da quell’archivio in cui pochi altri avevano già messo mano (con tanta
buona volontà, ma competenza storica e paleografica molto scarsa) – fremeva dal desiderio di far
sapere alla gente di Cannobio in itinere quanto stava venendo alla luce e così riuscì a convincere “il
Don” a scrivere nel frattempo “qualcosa” anche per il Bollettino della Ss. Pietà.
Ne è nata così una corrispondenza con cadenza pressoché mensile, in cui “il Don” con molta
semplicità raccontava le sue “scoperte” con uno stile scorrevole e “leggero”, che non è certo quello
classico che troviamo nei suoi altri studi e articoli da “Professore”, ma sempre con la stessa, solita,
lucidità e la sua nota precisione.
Ora, proprio per sottolineare l’opera benemerita di padre Francesco (perché in fin dei conti è a
lui che si deve l’aver spinto don Mario Crenna in queste ricerche) si è pensato di pubblicare sul web
anche queste note di storia del Santuario, così come all’epoca sono state fornite ai lettori del
Bollettino per conservarne la freschezza e l’immediatezza.
don Bruno Medina
Nota redazionale
Grazie a don Bruno Medina, che a sua volta è stato allievo di don Mario Crenna (come il
sottoscritto, del resto), riporto gli articoli di don Mario Crenna pubblicati a puntate sulla rivista “La
Ss. Pietà” del Santuario di Cannobio tra il 1992 e il 1996: la corposa serie “Per una storia del
Santuario” (che continua con “Per chi vuol saperne di più…”), la serie “La più bella storia del
borgo di Cannobio” in tre puntate e altri monotematici.
Le foto riportate sono soltanto quelle che “il Don” aveva inviato a padre Francesco con la
raccomandazione di pubblicarle. Per ciascuna puntata ho riportato la numerazione che a essi è stata
assegnata nell’archivio di Don Mario Crenna insieme con numero e data di pubblicazione del
relativo esemplare della rivista, per privilegiare la compattezza e la coerenza delle due serie di
scritti a puntate rispetto alla cronologia con cui sono questi stati consegnati alla tipografia.
Sono state tante le ricerche fatte da don Mario Crenna sul miracolo di Cannobio del gennaio
1522 e sulla costruzione del Santuario. Ha studiato e analizzato uno per uno i documenti e i libri
contabili conservati in archivio, con una passione che cresceva sempre di più mano a mano che lui,
piuttosto scettico sui miracoli medioevali, si accorgeva che qualcosa era successo davvero, per la
dovizia dei particolari trovati in fonti diverse. Il lavoro era tanto appassionante che decise di
pubblicare ciò che riteneva utile per i Cannobiesi in tempo reale, a puntate, sul bollettino del loro
Santuario, per poi raccoglierle rielaborandone un estratto infine pubblicato sul Bollettino Storico
per la Provincia di Novara di cui era Direttore Responsabile.
1
Padre Francesco Carnago era al corrente anche della gran mole di lavoro che don Mario Crenna
già svolgeva in quel di Novara e ne apprezzava quest’ulteriore impegno che lo portava ad andare
spesso a Cannobio percorrendo quell’unica strada di accesso che non è certo breve né facile, ma
trovava questi scritti talmente stuzzicanti e appetitosi da volerli sempre, o quasi, introdurre con un
suo “cappello”, che ho evidenziato in grassetto e altre foto per necessità didattiche e tipografiche.
Nelle pagine che seguono tutto ciò è evidente.
C’era un archivio presso il Santuario della Ss. Pietà in Cannobio e c’era e c’è anche l’archivio
presso la Parrocchia di San Vittore in Cannobio. Ci sono anche altri “fondi archivistici” in varie
sedi, perfino prestigiose e rispettabilissime, che si riferiscono a Cannobio. Qualcuno aveva già
gettato qualche fuggevole occhiata qua e là in quella sterminata “miniera” di documenti che don
Mario Crenna aveva accettato con vero entusiasmo di esaminare.
Ci voleva però un ricercatore storico competente e appassionato come lui per scavare a fondo,
interpretare, leggere e confrontare, insomma, studiare con acribia scientifica il materiale depositato
nei secoli dentro uno di questi archivi, quello della Ss.ma Pietà di Cannobio, lasciando a padre
Francesco tutto il tempo per occuparsi seriamente della ristrutturazione e della rinascita dell’ospizio
del pellegrino. Un’opera lungimirante e benemerita che continuerà a svilupparsi con il successore
don Bruno Medina, che ha generato il grazioso hotel a tre stelle “Il Portico” con l’omonimo
ristorante, entrambi all’altezza del pubblico internazionale che nella bella cittadina del Lago
Maggiore è sempre numeroso e trova un’accoglienza ad hoc.
Ecco perché, come ha scritto monsignor Germano Zaccheo nella prefazione alla riedizione nel
quaderno di studio “Santuario Ss. Pietà di Cannobio” fascicolo 7 – 2007, “al prof. Crenna va la
riconoscenza di quanti, tra noi Cannobiesi, siamo orgogliosi eredi di questa storia”.
Mario Crosta
RACCOLTA DEGLI SCRITTI DI DON MARIO CRENNA
in
LA SS. PIETÀ
Rivista associata all’Unione Redazionale Mariana
Direttore Responsabile: † padre Francesco Carnago
Con approvazione Ecclesiastica – Autorizzazione Tribunale Verbania n. 186 del 29-2-1988
2
Ricerche d’archivio
Per una storia del Santuario
1 (fascicolo N. 2 – marzo 1992)
«Non domandare un piacere a chi ha poco lavoro, non si scomoderà – chiedilo piuttosto a chi è oberato di lavoro,
perché farà tutto il possibile per soddisfare la tua richiesta». Così sentenzia un proverbio.
Seguendo questa antica sapienza – che condivido –, ho pregato il prof. don Mario Crenna di “entusiasmarsi”
della Santa Pietà. Ed egli ha accettato volentieri di rovistare in archivi – compreso il nostro – per approfondire la
conoscenza del Miracolo, con una rilettura delle testimonianze; evidenziare i momenti e gli interventi d’inizio
nella costruzione del Santuario; per raccogliere e lumeggiare quanto di religiosità popolare è fiorito e maturato –
canti, gesti, invocazioni, ex voto... – lungo i secoli.
Ciò che ora viene pubblicato è un “modestissimo assaggio” per il quale – e, più ancora, per la disponibilità –
vada un sentito ringraziamento al caro Professore.
Sul foglio di guardia sta la dicitura Libro dell’anno 1575 sino al 1615. Si contiene la spesa e
cavata fatte da Signori Priore e Tesorieri della Veneranda Scola di Santa Pietà, con il rendimento
de loro conti, con diverse notationi di molte altre cose pertinenti alla Fabrica della Chiesa sudetta
di Santa Pietà.
Per 252 fogli in ottavo grande, raccolti in uno spesso volume rilegato in cuoio scuro pressato
con eleganti disegni e bordure, i tesorieri Gio Battista Mazirone, Gio Antonio Ponzio, Bartolameo
Reschigna, Bernardo Luato, Bartolameo Cironio, Gio Andrea Galarino, Giosef Reineri, Gio Battista
Romerio, bei nomi cannobiesi, si sono succeduti nella buona e nella cattiva sorte di introiti e di
spese, impegnando la personale dirittura morale e il buon nome del loro casato nella minuziosa
registrazione di cassa.
«Nel nome del Signor Idio, adì 15 magio 1575» inizia l’interminabile catena di “partita doppia”
significata nelle obbliganti dizioni «Il Depositario de’ dare – De contra de’ havere».
Il “dare” si materializza mese per mese, anno per anno, nelle registrazioni dei più disparati
rivoli di danaro introitato, con annotazioni talmente meticolose da scoraggiare (diremmo noi oggi)
qualsivoglia pignoleria fiscale. Trasparenze d’altri tempi. Trasparenza anche di acque, del lago e del
Cannobino, non ancora ecologicamente discutibili: accanto al modesto introito dei «4 soldi di ova
cinqui havuti in elemosina» – tanto simili all’evangelico obolo della vedova – figurano offerte di
«trute, vaironi, anguille, arborelle fresche e seche, un luccio» e tutta la merceologia della valle con
castagne, vino, rista, foglie secche per materassi; e poi bigiotteria, tante maniche mutando le quali
era come essersi cambiati d’abito, gli accresciuti legati post-tridentini, i lasciti di madonna Maria
Catelina Mentasca, moglie dell’altolocato Bernardino Luato, i “capitali censi” gemellati ai lasciti di
Francesco Homarino, Agostino Carmine, Francesco Romerio e – botto finale – di Gio Pietro
Tassano con case e terreni.
Per quanto prolisso possa apparire, è questo un modestissimo assaggio, un “tuffar le mani”
entro un costante e corale concorso popolare di sovvenzioni, perché proprio in quegli anni si stava
ampliando l’oratorio, o «Santa Devozione», concesso inizialmente ai Cannobiesi nel 1526, con la
monumentale ristrutturazione disegnata con limpide linee architettoniche dalla genialità del Tibaldi,
come aveva voluto san Carlo Borromeo.
Al «De’ dare» si contrappone il «De’ havere». Questa seconda partita si popola di maestri da
muro, manovali, facchinaggio di donne, scalpellini, intagliatori, capomastri, carpentieri,
trasportatori, fabbri: tutti nomi passati di memoria, anonimamente perduranti nell’opera che il loro
mestiere ci ha lasciata dinnanzi, ma riscattati, o riscattabili, nella loro individualità di lavoratori a
paga giornaliera, grazie alle scolorite registrazioni, per l’appunto, del «De’ havere».
Semmai volesse un ipotetico revisore dei conti esaminare la contabilità di quegli anni, dal 1575
al 1615, troverebbe che per due innocui errori materiali di trascrizione esiste uno sbilancio tra le due
partite di ben due soldi!
3
È auspicabile che in tal caso non faccia raffronti con la realtà di altri tempi: ne sarebbe
sconfortato, soprattutto considerando che i bravi tesorieri in definitiva amministravano denaro
pubblico. Piuttosto si diletti del colorito d’ambiente che le tante annotazioni, rivitalizzate, sanno
restituirci.
Valga un esempio acconcio per il tempo di Quaresima.
Leggiamo nel nostro libro a foglio 21, in data «10 gienaro 1579»: «E più contati [spesi] a
messer Desiderio per le rosete lire 4 imperiali». Istintiva ci sovviene un’immagine floreale,
suggerita dalla mite riviera tra Cannero e Cannobio, ubertosa nei tempi andati per vigneti ed ulivi.
Ma lascia perplessi quell’essere di gennaio, quando le ventilazioni del Ceneri e del Valmaggino
prendono il lago d’infilata...
Più in là, a foglio 28, sotto la data del 23 marzo 1581, cala il dubbio e cresce il sospetto,
leggendo che lire 4 e soldi 10 sono date a messer Desiderio «per tante rosete de argento per le
batiture». Con ostinata riluttanza mentale ci si appiglia all’immagine di borchiette argentee, anche
se mal si comprende perché mai, allo stesso giorno, vengano pagate lire 1 e soldi 10 a messer
Melchion Tirainanzi «per conzar le batiture».
Quale aggiustatura è mai questa, se a foglio 81, nel gennaio del ‘90 si spendono lire 3 e soldi 3
«per oncie 1 e 3/4 di seda per comodar le batiture»?
E quando finalmente, a foglio 85, il mese di marzo 1592 leggiamo di quella «1 lira, costo de
once 6 polvera et quinternetto carta per il Giobia Santo», il dato appare con tutta chiarezza: con
teatralità secentesca, cruda e devota, una teoria di flagellanti per le vie del Borgo ripropone
l’arcaico gesto penitenziale, che, ispirato all’ascesi di san Carlo, attinge alla venerazione per
l’Imago Christi del santuario che con passione di popolo si sta erigendo.
Informazioni successive rifiniscono il dato acquisito con aggiunte raccapriccianti o commoventi
nella loro semplicità: a foglio 174, l’8 marzo 1603, lire 4 e soldi 2 sono pagati «a domino Gio Luato
speciaro per tanta polvere costretiva [cicatrizzante] et carta grossa [assorbente per le lacerazioni]»;
a foglio 177, in data 2 novembre dello stesso anno, il tesoriere dichiara che «de’ haver lire 10, sono
lamontar de stelete de argento n° 200 comprate per le batiture»; a foglio 180, l’11 aprile 1604,
vengono pagate lire 5 e soldi 10 «per far ordenar 26 batiture», poi confezionate «dal Magoneto con
cordelle, manighi et ciodi».
Il giorno successivo, mentre la liturgia, spogliati gli altari, invita a sostare in adorazione di
Cristo deposto nel sepolcro, il sagrestano Gio Pietro Marcion si sta guadagnando una lira e mezza
«per haver lavato [dal sangue] le veste et batiture».
2 (fascicolo N. 3 – aprile 1992)
«Le vie del Signore... infinite e i più modesti percorsi degli uomini» quando si incontrano – e in piena sintonia
proseguono, – operano, realizzano cose meravigliose – che, purtroppo, rimangono sconosciute o quasi; bisogna
scoprirle. Vale anche per il nostro Santuario, monumento nazionale!
Don Crenna con notizie “stuzzicanti” ci introduce alla conoscenza di “segrete cose”. Ecco un brano oltremodo
interessante. Che avrà un seguito.
Per definizione, il “monumento” è quell’opera di scultura o di architettura posta in luogo pubblico
in memoria di una persona o di un avvenimento. Così si può apprendere da ogni dizionario.
Se poi vogliamo scomodare la filologia, questa ci avverte che il vocabolo è radicato nel latino
monere, ricordare. Perciò, propriamente: la cosa che serve come ricordo, come memoria.
E tale, con buona ragione, può essere il Santuario della Pietà: nel suo insieme è l’artistico
reliquiario di un’Immagine miracolosa, ma ancor più, come monumento, costituisce la
testimonianza di singolari vicende. Si era nel maggio del 1575.
Con un piano previsionale assai più fiducioso nel buon Dio che non nelle disponibilità
finanziarie, si diede inizio all’impresa. Lo scopo era di ampliare la Devozione, il modesto oratorio
ricavato nelle due stanze superiori dell’ex osteria degli Zacchei: lo intendeva Carlo Borromeo, lo
progettava il Tibaldi, vi consentivano i Delegati del Borgo.
4
Una robusta sostruzione sul davanti della Devozione ne avrebbe sorretto il prolungamento
terrazzato verso il lago, senza per altro ostruire la strada costiera, da trasformare anzi in un andito
porticato.
A più riprese, con intervalli tecnici e con forzate pause di depressione finanziaria, si rizzarono
muri irrobustiti da cantonali in pietra viva, si adornò l’interno con colonne di mischio d’Arzo e con
marmi di Candoglia, si completarono le coperture in beole cannobine, si eressero tiburio e lanterna
impreziositi da lastre di piombo, e nel 1614 il Santuario era praticamente ultimato.
Quello stesso edificio che, prescindendo da qualche ritocco posteriore, ancor oggi ci sta
staticamente dinnanzi: artisticamente pregevole, ma ancor più prova tangibile di una “ostinata” ed
ammirevole devozione.
Ce lo dimostrano le minuziose registrazioni di cassa redatte dai confratelli della Ss. Pietà per gli
anni 1575-1614, gli anni di “fabbrica”.
Ne traspare un giro panoramico da Sesto Calende ad Ascona, da Ponte Tresa a Falmenta, entro
cui si mobilitano maestri da muro e da scalpello, cavatori e intagliatori di marmi, fornaciai e
cementieri, barcaioli traghettatori di “medoni”, di calcina, di “prede” grezze e lavorate; ma ancor
più, e certo non ultimi, i tanti oblatori di quell’insostituibile “collante” che, a ripetizione e per anni,
consentì, legando pietra a pietra, di erigere il monumento testimone della loro generosità.
Le vie del Signore possono permettersi d’essere infinite; ma anche i più modesti percorsi degli
uomini sanno talora ottenere assai originali confluenze.
Ne portiamo un esempio.
La parola e il concetto stesso di elemosina non destano di per sé immagini di esaltante
altruismo, bensì di marginali disponibilità nel campo del superfluo.
Ma proviamoci a compilare le diverse voci che sono entrate nel computo delle offerte, o
elemosine, per la “fabbrica” del Santuario. E scopriamo che per la costruzione dell’edificio fu
impiegata, ovviamente con diverso trattamento, forse tant’acqua quanto vino: l’una per “bagnar la
calcina”, e l’altro per sostenerne le spese.
Ben 900 brente di vino furono offerte, raccolte con la “cerca” e messe all’incanto per il periodo
suddetto dal 1575 al 1614. Con una continuità pressoché paragonabile agli adduttori del Verbano: il
torrente Cannobino dell’omonima valle, il Margorabbia di Val Travaglia o il Giona di Val Veddasca.
Un rivolo incessante di vini bianchi e rossi da Brissago, Pino, Cannero, Donego, Casino,
Colmegna, Tronzano, Piazzo, Trarego, Cheggio, Viggiona, Carmine, Luino, Campagnano, Lignago
e, beninteso, Cannobio: insospettabili aree vitivinicole d’altri tempi.
Un defluire contrassegnato da autentiche “büzze” negli anni stagionalmente più fruttuosi, del
1575 con 73 brente poste all’incanto, dell’86 con 116 brente, del ’93 con 52 brente, del ’604 con 83
brente; in perfetto sincronismo col tenimento delle “caneve” dei particolari, nei mesi autunnali
quando occorre stivare il prodotto di nuova vinificazione, e nei mesi primaverili quando, in
prossimità della fioritura della vite, si muovono i depositi fecciosi ed i vini vanno trasmutati...
Sono i bei periodi quando i vari Barletino, Rosso, Mainetto, Magoneto e Rizetto remigano con
ben altro “spirito”, che non quando fanno rotta su Luino, Maccagno, Porto, per “caricar calcina e
prede cotte” alle fornaci del Zapo o del Cesare Gallo.
E potremmo continuare...
3 (fascicolo N. 4 – maggio 1992)
Le scontate mie due righe d’inizio avrei voluto collocarle questa volta in chiusura, con un “grazie” e tre punti
esclamativi, Non l’ho fatto.
Vorrei che siano i lettori – appassionati – a porre qualche esclamativo dopo la lettura delle interessanti notizie
che ci fornisce il prof. don Crenna. Il quale, avvezzo alla polvere degli archivi – ovviamente, polverosi – promette
altre notizie... appetitose.
Tutti uguali, questi ricercatori: noi, curiosi frettolosi; loro, incalliti speziali, ti centellinano dosando ben bene le
notizie. Tutto sommato, è meglio così. Si rileggono con calma e si gustano meglio.
5
Il Bagatello, per chi non lo sapesse o non se ne ricordasse più, faceva l’oste a Cannobio nel
1595. E la sera del 2 luglio di quell’anno, nel suo locale servì una cena memorabile.
Ne aveva fornito l’occasione un avvenimento che, nella migliore tradizione dei capomastri e dei
muratori, ancor oggi si usa festeggiare: era stata finalmente completata la volta grande del santuario
della Pietà, e l’edificio cominciava davvero a prendere forma. Mancava, è vero, il tiburio, però era
ormai possibile, al chiuso e sufficientemente al coperto, fare con comodo le proprie devozioni.
Onorava la mensa il fior fiore delle maestranze locali: il capomastro, o ingegnero, Pietro Bareta
(o Beretta) di Brissago; i maestri di scalpello Stefano Bareta, Antonio Baretino e Ambrogio, tutti di
Brissago; due altri scalpellini, Giovanni e Gottardo, di Lugano; i maestri da muro Angelo, e Battista
del Ronco con Eusebio di Carmine; Domenico e Paolo di Cenzago, figli del maestro scultore Gio
Angelo d’Arzo; e poi garzoni e manovali.
In una parola, gli artefici che hanno fatto del santuario un mirabile compendio geologico tra
mischio d’Arzo, marmo di Candoglia, granito del Montorfano e pietra porfirica di Brissago, il tutto
da loro trasformato nel lustro insieme di colonne, capitelli, paraste, modanature: splendida
decorazione policroma della Ss. Pietà.
A forza di braccia e di elemosine si era dunque giunti al tetto, e all’interno della chiesa gli altari
ormai funzionanti erano due: quello modestissimo della parete a Nord (come lo è tuttora) dedicato
alla Madonna; una devozione questa, radicata tra la gente del Borgo, tant’è che già nel primo
oratorio ricavato dalla stanza del Miracolo nel 1522 si volle ci fosse l’altarino della Vergine
Assunta.
E poi il cosiddetto altare maggiore, collocato dalla parte donde oggi si entra in chiesa, ma non
ancora elegante e ricco quanto l’attuale, per la semplice ragione che il progetto del Tibaldi lo voleva
trasferito sul lato opposto, come in effetti lo fu, con gran rispetto e silenzio, nella notte tra l’8 e il 9
maggio del 1602.
L’altare della Madonna, come si è detto, era invece già definitivamente posizionato. E non
appena l’impresa della riedificazione mobilitò un po’ tutti e il fervore edilizio toccò un suo
massimo nel 1593, quasi ne fossero a loro volta stimolati, s’accesero ancor più anche i pii
sentimenti legati a detto altare. E se, via lago, da Luino e da Sesto si traghettavano i barocchi «ogi
di marmore negro» per le prese di luce laterali, pagati un occhio della testa allo scultore comasco
Benedetto Erba, un bel giorno di settembre tra sbarchi di mattoni, sassi e calcina approdò a
Cannobio un domenicano fatto venire apposta da Milano. Anche per lui non si badò alle spese:
tanto si ritenne indispensabile che padre Daniele di Vigevano, col carisma della sua predicazione
e con la competenza che gli era connaturata, organizzasse l’istituzione della Confraternita del
Santissimo Rosario.
Come mise piede in chiesa, il frate dovette convincersi, semmai ancora ne abbisognasse, che le
intenzioni dei fedeli cannobiesi erano quanto mai serie: un gran baldacchino, messo insieme da
Simonino Luato, foderato di «pomelada de oro e argento», custodiva la statua lignea della
Madonna rivestita di «tocadoro ornato de oro e de argento», affiancata da due figure angeliche in
legno scolpito, pregevole fattura di messer Santo nonché di elevatissimo costo (ben 162 lire);
l’altare, recintato da «rastelli» e fornito di «tavolette» e di «preda secrata» proveniente da Carmine,
nonché provvisto di cassetta di noce per le elemosine.
Tanto per cominciare, erano state acquistate appositamente da messer Pietro Francesco Boviso,
al santuario della Madonna del Monte, tre dozzine di rosari in ebano. Non bastavano, e ne furono
aggiunte altre diciassette più andanti, ne seguirono altre sedici, e si concluse con ancora sette
dozzine. Una dimostrazione palmare di quanto ampiamente la devota iniziativa fosse attecchita.
Ne dovette certo lodare Iddio in cuor suo il buon padre domenicano, mentre ridiscendeva per
lago verso Sesto Calende, gratificato com’era dal tanto entusiasmo riscosso e dalla regalìa di 48 lire
e 8 soldi, ricevuti in offerta per il suo convento.
Però occorreva ancora garantirsi, al cospetto degli uomini, che la fruizione di indulgenze e
d’ogni altro beneficio spirituale fosse lecita perché legittima. E qui intervenne l’autorevolezza delle
bolle di conferma: una prima fu “levata” per via del tutto informale e per poche lire nell’ottobre
dello stesso 1593.
6
A questa seguirono per canali ufficiali, a ripetizione (non ne comprendiamo il motivo), le due
del 30 maggio e del 21 luglio 1595. Costarono qualcosa di più, tre scudi ciascuna (18 lire e 4 soldi)
oltre alle 6 lire e 6 soldi versati alla moglie di Domenico Ghislo che a Roma s’era recata a
prelevarle al convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva. Però, in compenso, si presentano
tutt’oggi assai eleganti nella grafia umanistica e nell’ornato multicolore, con tondi miniati pregevoli
per disegno e rifinitura cromatica, anche se purtroppo gli ori si sono pressoché totalmente dileguati.
Per il tempo successivo, la confraternita si mantenne sicuramente assai viva; e non torni qui
sgradito se facciamo ricorso ad un caratteristico elemento che, senza ombra di dubbio, è in grado di
darcene conferma.
Se infatti scorriamo le superstiti registrazioni dei quattrini che si andavano recuperando dalle
“bussole”, le quotazioni della cassetta per le elemosine posta all’altare della Madonna appaiono
sostenute, con un rapporto costante di due a tre sul totale delle raccolte. E questo si può constatare
fino all’anno 1598, quando con ogni probabilità fu necessario, da quell’anno, adottare una strategia
finanziaria globale onde tener testa alle spese edilizie rese pesantemente gravose dalla costruzione
della parte absidale del santuario, del suo tiburio, con annessa costosissima copertura in piombo.
Qualora detto sistema d’accertamento sembrasse troppo prosaico, sempre al fine di illustrare la
vitalità dei confratelli del Rosario, potremmo appigliarci al registro delle spese di culto che, in
quanto tali, potranno apparire meno “interessate”. Scopriremmo allora che nel 1594 il priore Gio
Battista Omacino dovette saldare il salato conto per la confezione del gonfalone della Madonna, più
in là rifinito con sfrangiature d’argento. E perché facesse ancor più bell’effetto, si vestirono a nuovo
con appropriati abiti di tela sangallo i due confratelli che avrebbero dovuto reggerlo
processionalmente. Allora fu anche sostituita la mensa lignea dell’altare con una tavola in pietra
lavorata dal mastro Francesco de Bassi di Falmenta. Non si trascuri che nel frattempo continuava
l’operazione di acquisto rosari.
Nel 1595 mutò d’abito anche il simulacro di Maria, che fu rivestito con «tocadoro e pizzetti», e
a cui fu posta in capo una corona d’argento del valore di 34 lire...
4 (fascicolo N. 5 – giugno 1992)
Un invito sincero, da amico.
Chi ha gustato con interesse e con intelligenza le tre passate puntate non tralasci questa, che porta a conclusione
la precedente – con preziose novità – e presenta la pergamena del 1595.
Può sembrare scontata, ma non lo è; anzi l’attestazione è quanto mai appropriata: la pergamena si legge d’un fiato;
grazie alla traduzione del prof. don Crenna e al contenuto, forse per la prima volta fatto conoscere nella sua
interezza.
Non anticipo nulla. Rinnovo l’invito.
Concludiamo qui in bellezza segnalando un’ultima spesa, dato l’interesse che può suscitare nei
cultori d’arte: nell’ottobre del 1603 Gio Batta Marco venne pagato per certi assi che furono mandati
a Milano «per fabricar li Misteri del Rosario». Per 12 lire il maestro pittore Alfonso Tetono dipinse
le tavole lignee che, con ogni probabilità, sono quelle stesse che ancor oggi incorniciano l’edicola
della Madonna nell’omonima cappella.
E questo fu fatto in ottemperanza a tassative prescrizioni, come è possibile constatare scorrendo
il testo, qui sotto riportato in traduzione, identico nelle due bolle sopra citate. Entrambe recano la
firma autografa del frate Ippolito Maria, datata al settimo anno del suo incarico generalizio.
Risultano protocollate rispettivamente ai fogli 293 e 294 di un registro di cui non abbiamo memoria,
e controfirmate da fr. Vincenzo da Gubbio predicatore e da fr. Paolo Castruccio Maestro provinciale
e socius Terrae Sanctae. Vi sta anche dichiarato che scrittura e decorazioni sono opera di Giacomo
Squillio da Firenze, cittadino romano, che, su mandato del Maestro generale, le confezionò in uno
scrittorio affacciato sulla piccola corte dei Sabelli, alle spalle della chiesa di Santa Maria sopra
Minerva. Il costo era di soli tre scudi, mentre la spedizione era gratuita, «come tutti dovevano
sapere, sempre e dovunque».
7
Nel nome della santissima e individua Trinità del Padre del Figlio e dello Spirito Santo e a lode e
gloria della beatissima e sempre Vergine Madre di Dio Maria nostra Signora ed alla devota
venerazione del santo nostro padre Domenico autore e promotore del santo Rosario noi Ippolito Maria
Beccaria di Monte Regale professore di sacra teologia umile maestro generale e servo di tutto l’ordine
dei Predicatori a tutti i destinatari delle presenti lettere auguro eterna salvezza nel Signore. Così come
crediamo che l’essenza della perfezione cristiana consiste nell’unione intima tra i Cristiani e con Cristo
a guisa di membra unite al capo fonte d’ogni perfezione, altrettanto ci riteniamo edotti da ragione e da
esperienza che il mezzo più valido per aspirare a tale perfezione sia la preghiera. Ora quel metodo per
pregare Iddio secondo il quale viene venerata la Santissima Vergine Maria Madre di Dio con
centocinquanta salutazioni angeliche e con quindici preghiere dominicali a guisa di salterio davidico, e
che passa sotto il nome di Rosario, dapprima concepito dal nostro santo padre Domenico e poi
ammesso dai Sommi Pontefici romani su rispettosa istanza dei padri del nostro Ordine, ed arricchito di
grandissimi privilegi ed innumerevoli indulgenze e di altri favori apostolici, tale metodo, tra i molteplici
ammessi dalla Chiesa al fine di raggiungere la perfezione, se non andiamo errati, risulta quanto mai
salutare. Perché oltre al fatto che tanto ripetutamente viene invocata la Beatissima Madre di Dio, la cui
intercessione può impetrarci detta perfezione, tale modo di pregare di per sé, se fatto rettamente,
oltremodo facilmente e compendiosamente la consegue in quanto ci fa ripercorrere, meditando, tutta la
vita del nostro Salvatore riassunta nei quindici Misteri. In devota considerazione di tutto ciò voi,
amatissimi in Cristo e piissimi fedeli di Cristo del Borgo di Cannobio Diocesi di Milano, e al fine di
ottenere, accrescere e mantenere codesto metodo di preghiera, avete eretto la Confraternita del
Salterio, ovvero del rosario, sotto l’invocazione della Beata Vergine Maria nella chiesa di Santa Maria
della Pietà di detto Borgo dall’anno 1593, coll’aiuto della predicazione del R. P. Frate Daniele di
Vigevano predicatore dell’Ordine e avete istituito e ordinato il suo altare e avete fondato ed eretto la
cappella; desiderando poi che tale erezione ordinamento e costituzione fossero da noi accettati
approvati e confermati con nostre lettere patenti, con insistenza avete fatto domanda per l’interposta
persona del signor Gerolamo Poli Zaccheo di detto Borgo affinché, accogliendo codesta vostra
Confraternita, ci degnassimo di ammetterla approvarla e confermarla con adeguate grazie e favori.
Pertanto sensibili ai vostri desideri e alle vostre devote richieste per autorità apostolica a noi concessa
in codesta regione, a tenore delle presenti lettere accogliamo codesta Confraternita istituita così come è
stato detto, la approviamo e confermiamo e le aggiungiamo il vigore di una perpetua durata, e qualora
occorresse, nuovamente la erigiamo in forza delle presenti lettere, purché non sia stata eretta secondo
le norme un’altra simile società in detto Borgo o nelle sue vicinanze entro un raggio di due miglia.
Ed accettiamo ed ammettiamo a godere delle grazie, privilegi ed indulgenze delle quali godono le
altre consimili confraternite erette nelle chiese del nostro Ordine sia in vita che in morte la vostra
Confraternita e tutti i fedeli di entrambi i sessi ivi iscritti o da iscriversi, richiamandovi che la festa di
detto Santissimo Rosario deve essere celebrata ogni anno alla prima domenica del mese d’ottobre
nella medesima cappella secondo il decreto e l’istituzione di Papa Gregorio XIII di felice memoria in
rendimento di grazie per la passata memorabile vittoria contro i Turchi impetrata ed ottenuta grazie
alla preghiere effuse in quel giorno (come piamente si ritiene) dai confratelli della Società e
impetrata e ottenuta con l’aiuto e l’intervento della Santissima Vergine Nostra Signora.
Di codesta vostra Società e Cappella deputiamo per cappellano l’attuale rettore pro tempore
della vostra chiesa, il quale voglia iscrivere accettare ed aggregare con nome e cognome tutti i fedeli
che chiedono di essere accettati ed aggregati, in un apposito registro. Benedica i Salteri ossia le
corone, commenti con rispetto e come si conviene i sacri Misteri del Rosario ed operi tutto ciò che i
nostri fratelli a ciò designati nelle nostre chiese possono fare e in base alle norme furono sempre
soliti fare.
Imputiamo alla sua coscienza per il Giorno del Giudizio se per siffatta accettazione,
aggregazione, scritto e benedizione esigerà qualcosa che in qualsivoglia modo sia di puro lucro
temporale; ma piuttosto ogni sua prestazione sia gratuita come vogliono le prescrizioni e le sanzioni
della pia Società, così come anche noi per il culto di Dio e per la gloria della Sua Santissima Madre
Nostra Signora e per la salute e la crescita interiore dei fedeli gratuitamente prendiamo e
gratuitamente offriamo e concediamo.
8
È nostra precisa volontà ed assoluto comando che sull’effigie sacra della Cappella vengano dipinti
i quindici Sacri Misteri della nostra redenzione e che per adeguato riconoscimento della concessione
fattavi sulla medesima icone compaia dipinta la venerabile immagine del nostro santo padre Domenico
autore del Sacro Rosario, mentre inginocchiato riceve dalle mani della Vergine Madre di Dio le corone
del Rosario. Qualora si operasse diversamente o si trascurasse di fare quanto indicato in queste nostre
lettere, esse non potranno più essere utilizzate né da voi né da chi venga dopo di voi e non abbiano più
alcun significato né valore.
Infine abbiamo creduto bene e dichiariamo che qualora occorresse ai nostri fratelli l’assegnazione
di una chiesa entro il Borgo o nel suo circondario per un raggio di due miglia, per ciò stesso
immediatamente, e questo valga già da ora, senza ulteriori dichiarazioni ma solo in forza di queste
lettere a detta cappella siano tolti la confraternita, le indulgenze e i privilegi a lei concessi e
assolutamente e totalmente siano trasferiti a detta nostra chiesa con tutti i beni temporali acquisiti in
qualsivoglia modo da detta Società e queste clausole siano tenuti ad accettare e sottoscrivere di propria
mano i parroci e gli addetti sia alla citata chiesa sia alla confraternita.
E tutto ciò deve essere rogato ed esplicato chiaramente per mano di un notaio con pubblico
istrumento.
Nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo amen.
A chiunque operi contrariamente, nonostante. E in fede di ciò con queste lettere patenti munite con
sigillo del nostro ufficio abbiamo sottoscritto di nostro pugno gratuitamente ovunque e sempre.
Date a Roma nel nostro convento di Santa Maria sopra Minerva il giorno 21 del mese di luglio
nell’anno del Signore 1595.
5 (fascicolo N. 6 – luglio 1992)
Non saprei dire quante, ma parecchie sono le volte che ho sentito affermare, anche senza punta di malizia: «Ha le
lacrime in tasca». Come a dire: è una persona facile alla commozione.
Comunque non mi risulta – anche ai giorni nostri – che «avere le lacrime in tasca» sia un difetto o una colpa da
recriminare.
Tuttavia, se vi dico che, giunto alle ultime righe di questa quinta puntata, ho provato nel profondo dell’anima una
grande commozione, almeno per una volta, dovete astenervi dalla sbrigativa affermazione di sapore proverbiale.
Leggo: «Mediante il lavoro di donne (50 giornate) a portar terra e sassi...» nella costruzione del santuario!
Ancora: «Nel santuario si “materiava” il convincimento corale della sconvolgente autenticità di quei fatti –
umanamente incomprensibili, eppure lì accaduti – dai quali aveva tratto origine la pietà popolare. Forse ancora
oggi – da quanto è stato testimoniato – si potrebbe trarre giovamento per temperare in certa misura qualche
nostra perplessità».
Il garbo non fa difetto. E sono parole di uno storico, quale don Crenna. Vanno sottolineate col lapis rosso-blu.
In origine per i Cannobiesi fu «la Santa Devozione»; poi venne detta «Santa Maria della Ss.
Pietà»; è ancor oggi comune l’abbreviazione di «Ss. Pietà».
Si potrebbe supporre che si tratti di una innocente sostituzione di vocaboli, ma una serie di dati
pare suggerire altra spiegazione.
In quei giorni del febbraio 1522 i fatti accaduti nella casa degli Zacchei a Cannobio, per la loro
fattispecie, a dir poco, rasentarono l’assurdo.
A prescindere dalle deposizioni testimoniali a noi pervenute, e non volendo apparire ingenui o
semplicioni, ci dovremmo domandare perplessi se l’impatto emotivo causato dal “miracolo” non
rientrasse tra le isterie collettive. Tanto più che della “brava gente” del Borgo e dei suoi “ottimati”
d’allora poco si sa.
Però ci è noto che, malauguratamente, le loro case stavano su un lembo di litorale lacustre
divenuto, in quegli anni, una specie di corridoio naturale, percorso e ripercorso nei due sensi da
soldataglie – mercenari cristiani o predoni – d’ogni estrazione, talora accomunate solo dalle
pestilenze: tempi grami per tutti, tali da fiaccare anche la fiducia nella Provvidenza; tempi
purtroppo adatti per gli isterismi di massa, euforici o depressivi, tanto rapidi nell’attecchire quanto
nel dissolversi al primo sereno.
9
Ma come Dio volle, e si riprese fiato, anziché affievolito, l’attaccamento al quadruccio della
Pietà si rivelò ben radicato e consistente, con un crescendo così curiosamente spontaneo, che
l’oggetto venerato finì per identificarsi con lo stesso sentimento di venerazione, divenendone il
simbolo: e per tutti, Cannobiesi e gente rivierasca del Lago Maggiore, il primitivo piccolo oratorio
in cui esso era conservato divenne, per antonomasia, «la Santa Devozione».
Semplicissimo tale vocabolo, ma certamente tipica la sua significazione, invalsa per anni fino a
quando, raggranellando con ostinazione lira su lira, si diede forma alla successiva costruzione della
«Santa Maria della Pietà».
Avvezzi come siamo all’ingrediente della sponsorizzazione (dalla quale, provvidenzialmente,
non va esente neppure il Colosseo), ci vien fatto di pensare all’intervento dei Borromei, per
quell’epoca – passi la parola – veri boss del Lago Maggiore: è risaputo l’intenso fervore di san
Carlo per la Pietà di Cannobio, né inferiore fu l’attenzione dimostrata dal cardinal Federico.
L’apporto finanziario derivato dal sullodato casato sta registrato nei libri contabili della
Confraternita della Ss. Pietà, che costituiscono la più dettagliata fonte documentaria d’ogni pur
minimo contributo a pro dell’erigendo santuario, dall’inizio delle opere di fondazione nel 1575 fino
alla copertura in piombo del tiburio, nel 1614.
In data 10 agosto 1599, troviamo annotata un’entrata di «lire 34 e soldi 6 per tante ha pagato
D. Gio Batta Galerino di ordine del Illustrissimo Signor Conte Renato Borromeo». E ancora costui,
nel giugno del 1601, non più d’ogni modesto Cannobiese, dà l’elemosina di 2 lire – come era solito
farsi – per il palio usato al funerale della contessa Margherita sua madre.
A gennaio del 1602 leggiamo: «lire 32 e soldi 16 per tante ha date il Tesorere di Mons. Ill.mo
Cardinale Federico Borromeo di suo ordine». Ne sappiamo il motivo: potendosi ormai, dato
l’avanzamento dei lavori della chiesa, trasferire l’altar maggiore da un capo all’altro della navata
per la sua definitiva collocazione nella parte absidale ad oriente, il cardinale fu dapprima raggiunto
da una delegazione di Cannobiesi recatisi in barca ad Arona alla residenza dei Borromei sulla rocca.
Successivamente, il barcaiolo Rizzetto, «con homeni otto» accompagnatori, andò a prelevare dal
palazzo dell’Isola Bella il cardinale, perché di presenza verificasse le modalità del trasferimento.
Fu l’oste, signor Giuseppe Mazirono ad allestire degnamente la mensa per il porporato; il che,
tradotto in lire, significò una provvista di «salvatici, caponi et trute» da parte del suo congiunto Gio
Batta e di Sebastiano Pianta per 44 lire di spesa, a cui s’aggiunsero altre 100 lire di servizio.
Più che plausibile dunque, in percentuale, l’elemosina del cardinale.
Null’altro pervenne ufficialmente da parte dei Borromei. Va però aggiunto che, per concessione
di san Carlo, fu gratuito il materiale edile recuperato «dalle case derupate di Santo Laurenzio»
mediante il lavoro (50 giornate) di donne, pagate dalla Confraternita 10 soldi al giorno «a portar
terra et sassi».
Fu perfino regolarmente liquidato il conto delle 8 lire richieste dal «signor Pelegrino (il
Tibaldi) per li disegni de la fabrica de la Devocione quali sono presso Mons. Ill.mo», il vero
committente.
La vicenda del santuario è stata dunque scritta altrove, da coloro che non ebbero mai
altisonanza di nomi o di gesta da consegnare alla storia.
Dire quanti furono sarebbe come pretendere di numerare «le prede, i medoni, le piode ed i
marmori», messi assieme grazie all’affluire delle più disparate loro elemosine.
Di alcuni sarà possibile individuare l’identità; di tutti però già sappiamo che, praticamente soli
con la propria industriosità e le proprie risorse, per quasi un secolo, segnato da crisi e da pestilenze,
mai vollero rinunciare al massimo risultato che fosse loro consentito: il santuario lo sta a dimostrare
in ogni sua struttura.
Per tutti, esso fu «la Santa Devozione»: perché in esso si “materiava” il convincimento corale
della sconvolgente autenticità di quei fatti – umanamente incomprensibili, eppure lì accaduti – dai
quali aveva tratto origine la pietà popolare.
Forse ancor oggi da questo dato testimoniale si potrebbe trarre giovamento per temperare in
certa misura qualche nostra perplessità.
10
6 (fascicolo N. 7 – agosto-settembre 1992)
Fuori, sulla piazzetta del santuario, in pieno sole paiono sbiancati i graniti della facciata.
Dall’ingresso, quasi improvvisamente iscurita, ci si schiude dinnanzi la navata, ove il chiarore che
piove smorzato dalle vetrate disegna appena la doratura degli stucchi.
Ci pervade la penombra del luogo sacro che sa di misticismo e di orazione. Ma gli occhi
scorrono perplessi dagli illeggibili teleri lungo le pareti alle spente policromie degli affreschi sulle
volte, agli indecifrabili ornati di quel luogo d’arte.
Vien fatto di pensare al fastidioso dilemma, alla lamentevole divaricazione tra il sentire devoto e
l’assaporare estetico. È una diatriba che non intendiamo affatto qui affrontare, bensì possibilmente
aggirare.
E dunque ci domandiamo, affidandoci ai documenti, cosa mai si era prefissa di tramandarci la
gente di Cannobio che volle, con tutta l’anima, codesto suo santuario, e che per un interminabile
giro d’anni attinse caparbiamente alle proprie risorse in quel remoto angolo di lago. Per anni fu
questo l’unico modo appagante con cui i Cannobiesi – quanti? – segnarono della loro presenza
un’opera che poi i figli dei figli avrebbero condotto a compimento: purché si concretasse l’intento
comune di erigere una monumentale – e perciò più umanamente convincente – attestazione che il
loro Borgo era stato privilegiato da un evento straordinario.
In ogni sua componente il santuario della Ss. Pietà è testimonianza di tali presenze: chi entra
per pregarvi non può non sentirsene avvolto e confortato nella propria devozione. Lo stesso
appesantimento decorativo operato sulla linearità architettonica pensata dal Tibaldi dà al cultore
d’arte la misura cronologica della tenacia con cui, per generazioni, l’impresa fu perseguita.
E lo fu nei modi più estemporanei, geniali, fragranti per generosità semplice e spontanea.
Per quanto succintamente redatte dai tesorieri della Confraternita della Ss. Pietà, le motivazioni
delle offerte, registrate nel loro libro mastro dal 1575 al 1615, compongono l’immagine di un borgo
colto nella vivacità del suo vivere quotidiano.
Protagonismo di giovani: con baldanza di età e goliardia di intento, mettono alle strette i
«novàdeghi», perché, prossimi agli sponsali, è giusto che paghino lo scotto di un ideale pedaggio
verso il nuovo corso coniugale. E il depositario Josef Reynieri annota le 115 lire e 2 soldi «havute
dalli gioveni che hanno scosso per li novadeghi».
Né si sottrae a così gioviale intraprendenza, per una certa assonanza concettuale, la categoria
dei «vedovi remaridati», e fra mani del «signor Gio Andrea Gallarino et compagni» l’oblazione
risulta corposa, con ben 144 lire.
E chi lo penserebbe? dal versante opposto si muovono i vedovi che solidarizzano tra loro per
una equivalenza di 325 lire! Ne è plausibile motivazione l’urgenza della costosissima copertura in
piombo del tiburio.
A conferma di quel mobilitarsi cordiale e strapaesano, il «signor Benedetto Herba», uomo di
rango, si fa oblatore di 46 lire e 8 soldi, soddisfatto di aver accasato la figlia; e così si piazza
come capofila dei tanti che, avendo preso moglie non proprio “dei paesi suoi”, a Bellinzona, ad
Ascona, o anche a Intra, si sono cautelati con la protezione della Ss. Pietà. Quella stessa che,
effigiata nel «palio nuovo» e nel «palio vecchio» (ove la differenza consiste solo nella pia offerta,
da pochi soldi a tre lire) fa da mesto corredo funerario ad ogni Cannobiese nel suo ultimo tragitto
terreno.
Chi ha bastante età per rimembrare quel “date oro alla Patria” ricorderà certo quante fedi nuziali
finirono nei crogiuoli di Stato. Fu certamente un sacrificio, tant’è che il regime d’allora pensò bene
di reclamizzarlo regalando anelli sostitutivi d’acciaio.
In tutt’altro contesto, ed è lecito supporre con spontaneità meno spuria, a siffatto sacrificio
affettivo ricorsero in anteprima i Cannobiesi: stupisce infatti la frequenza con cui anelli d’oro e
d’argento furono generosamente posti all’incanto al fine di realizzare tutto il.possibile denaro fresco
di cui abbisognava la Fabbrica del santuario.
11
E quando i Gio Batta Mazirono, i Pietro Martire Omacino, i Gio Giacomo Poscolonna ed altri
ancora, i meglio accreditati finanziariamente (e tra essi si inserì la signora «podestaressa», moglie
di Ottavio Torto podestà del luogo, che nel febbraio 1613, come s’addiceva ad una first–lady, si
aggiudicò «uno zoiello d’oro» per 14 lire e «66 perle picole» per altre 14 lire), quando – dicevamo
– i notabili facoltosi danno segni di cedimento nell’onorare convenientemente le aste, senza
perplessità alcuna ci si rivolge alla piazza di Milano, come dichiaratamente si rileva in data ottobre
1589: «Lire 71.11.6 receputi per certi dinari anelli et scufioti in filo d’oro venduti a Milano per più
avantagio».
A Milano i tesorieri della Confraternita si direbbe siano di casa, e precisamente quali
frequentatori del “maestro della zecca”, o in alternativa del cambiavalori Teodoro del Bianco.
Se oggi i corsi monetari si scoprono inquinati da soldi di malaffare, sporchi o riciclati che dir si
voglia, a quei tempi, mutatis mutandis, circolavano con variopinta nomenclatura «danari calanti o
bassi, monete balzane, quatrini forestieri e falsi». I governi normavano i corsi legali sulla volubilità
delle loro emergenze politiche e per i contravventori riservavano il sequestro delle «crumene» e
d’ogni altro tipo di bisaccia. Mandavano però esenti da tale provvidenza correzionale le bussole e le
casse dei luoghi pii.
Trionfava dunque la buona causa della Fabbrica, e al chiudersi dell’annuale esercizio
finanziario e dell’anno liturgico gli scarti e i rottami di cera, unitamente ai «quatrini et monete
false» rinvenuti nelle cassette, partivano da Cannobio per Milano: destinatario il signor Gio Batta
Marco che, in due distinte partite, pagava ai Confratelli il corrispettivo per la cera ed una
equivalenza in valuta legale da lui «barattata col maestro della cecha» per il restante collettame
numismatico.
Va notata codesta eterogeneità monetaria perché costituisce per noi una preziosa spia di come
convergessero sulla Santa Devozione pellegrini provenienti anche da paesi esterni alle regioni
rivierasche.
Il Lago Maggiore, da tempi immemorabili, è stato una via d’acqua economicamente sfruttata in
direzione delle regioni interne, assai più sistematicamente di quanto non lo fosse militarmente in
direzione opposta. Come si provvide ad ostacolare eventuali affluenze ostili da nord riducendo al
minimo le carreggiate, così ripetutamente si dovette depurare il transito di mercanti di mercerie, di
vini e di derrate frumentarie dagli “sfrosatori”, con avvistamenti e sfuriate di remi.
Per gli anni dei quali discorriamo la vigilanza era gestita dal “Capitano del Lago”. Ed è curioso
come costui si sia ripetutamente mostrato benefattore della Fabbrica dirottando nelle casse della
Confraternita le multe irrogate ai contrabbandieri, italiani o svizzeri che fossero. Ignoriamo come
poi rimediasse la contabilità con la competente autorità superiore; desumiamo comunque che fosse
individuo assai concreto e sbrigativo da una soluzione compromissoria da lui adottata: 12 messe in
suffragio dell’anima della sua suocera in cambio di una veste di lei donata «per suplire al carico di
lire 6» dovute al celebrante.
D’altro canto già i Reggitori di Cannobio più volte avevano devoluto alla Fabbrica le somme
percepite a seguito di sanzioni pecuniarie imposte dalla Magistratura: un modo autorevole e
politicamente vistoso con cui si affiancavano all’impegno universalmente dimostrato dalla
popolazione. O forse anche per una specie di simbolico risarcimento offerto alla Comunità, ritenuta
ingiustamente lesa dal malaffare di qualche suo membro.
Se così fosse ... gente, che tempi!
7 (fascicolo N. 8 – ottobre 1992)
Oblatori o benignità sovrana? Don Crenna non risolve l’interrogativo. Certo alla serenissima Regina Margherita
di Spagna non venne omaggiato il libretto del miracolo di Cannobio semplicemente per accondiscendere ad una
curiosità regale.
E, comunque, resta il fatto che l’ebbe! «Un’autentica chicca...».
Ad ogni puntata sulle vicende del Santuario don Crenna offre una notizia impensata, interessante. A lettura
avvenuta, con attesa e curiosità ci si domanda: quale sarà la prossima?
12
«Lire 8 e soldi 14 spesi in fare acomodare uno libreto del miracolo dela Santa Pietà, che fu
donato alla serenissima Regina margarita nostra signora in Milano».
Alla 147ª pagina del libro «ove si contiene la spesa fatta e la cavata de’ signori Priore e
Tesoreri della venerabile schola di S. Pietà» per gli anni 1575–1615 si legge codesta annotazione,
vergata dal «depositario» Bartolameo Cironio, in data 10 gennaio 1599.
Mimetizzata fra la minuteria delle spese correnti, essa è un’autentica chicca per chi voglia
documentarsi sulla convinta devozione di cui, in Cannobio, s’è materiato il santuario della Pietà.
Poco importa sapere se in quella circostanza sia stato attivato in Milano Alessandro Pinotino,
abituale procuratore presso l’autorità governativa ed arcivescovile, oppure si sia costituita una
qualificata rappresentanza di Cannobiesi, o comunque di personalità auliche disposte ad assumersi
tale incombenza.
Un dato è inequivocabile: fu contattata la Corte di Spagna al suo più alto livello.
Ed anche supponendo che il nostro immaginario disponga soltanto delle movie-fictions
propinate di recente e rievocanti l’impatto tra Cristoforo Colombo (che pronosticava la via delle
Indie) e i sovrani aragonesi, possiamo ben avvertire la stranezza dell’approccio, cent’anni dopo, tra
un manipolo di sudditi – si badi – latori di un «libretto del miracolo» e la Signora di una Spagna
ormai giunta all’apogeo di potenza europea.
Si trattò di una inaudita supponenza di oblatori o di una inimmaginabile benignità sovrana? ma,
in ogni caso, quali poterono esserne le motivazioni?
Si tengano presenti le regole inflessibili escogitate a tutela della sacralità – inavvicinabile ai più –
dei Reali: perfino la loro mensa era presidiata da assaggiatori e degu–statori, naturalmente dignitari di
Corte. Si aggiunga che Margherita d’Habsburg, nata a Graz nel 1584 dall’arciduca di Stiria, Carinzia,
Carniola ecc., Carlo, fratello di Massimiliano re di Boemia e di Ungheria e poi imperatore nel 1564-76,
fu dal 1589, per imperativi dinastici, assegnata maritalmente a Filippo III degli Asburgo di Spagna,
ed effettualmente confermata nell’altissimo rango a Valencia nel 1598, primo anno di regno del
consorte. A codesta «Serenissima Regina» di Spagna, sorella di Ferdinando II, a sua volta re di
Boemia e di Ungheria e successivamente imperatore nel 1619-37, viene omaggiato il «libretto del
miracolo» di Cannobio!
Le 8 lire spese per accomodarne la veste esteriore non ci ragguagliano granché sulla dignità di
tale operazione. Ma un’indiscrezione sulla modestia della stesura, quale sortì dalla penna del suo
autore, detto il Cigolino, ci viene fornita dal Sasso Carmine che ebbe fra mani e lesse il «libretto
intorno ai Miracoli composto in forma men bella da un sacerdote appellato per nome Tomaso
Pizzallo», alias il Cigolino. Costui con ogni probabilità poté attingere a testimoni diretti ancora
superstiti ai suoi tempi.
Di lui, canonico di S. Vittore, sappiamo che fu designato nel 1574 da Carlo Borromeo a
coadiuvare il prevosto Ponzio; il Sasso Carmine ne elogia la «gran virtù e religiosa vita, molto amato
e pregiato in Cannobio, il quale lasciò questa misera spoglia l’anno 1600 incirca».
La sua operetta fu data alle stampe una prima volta nell’aprile del 1589, con una tiratura di 200
copie che costò 24 lire e 8 soldi, e poi ancora nel marzo del 1604 in una ristampa di 500 copie, per un
costo complessivo di lire 33 e soldi 15 «comprese L. 8.15 per cusirle, a ragione de soldi 35 il cento».
Alla Sovrana fu dunque offerto un esemplare edito dieci anni prima, di supponibile pochezza
tipografica a cui si dovette porre rimedio, ma il cui prevalente valore contenutistico fugò negli
offerenti ogni dubbio che non fosse dono degno della Regina di Spagna: affidata a quelle pagine
stava infatti, a loro giudizio, la più schietta e conturbante attestazione di quello che occhi e menti di
uomini avevano visto e saputo intendere ad iniziare «dall’ora prima di notte, nell’ottavo giorno del
gennaio 1522».
Un’osservazione curiosa e forse di poco conto: le due edizioni del «libretto del miracolo»
coincisero con le fasi più roventi dei lavori di fabbrica e delle più sofferte congiunture finanziarie.
Tale attività editoriale ci appare quasi un contrappunto che, in quanto tale, si richiama
all’assunto principale e gli dà sostenutezza: «questo Santuario dovrà essere compiuto perché
costituisca il contrassegno umano solenne e persuasivo che, proprio qui, nel nostro Borgo, si è
manifestata la Pietà del Signore».
13
E richiamandoci a quanto fu rinvenuto, nell’ultima ricognizione, dentro la custodia lignea ove
sta riposto il quadruccio della Pietà, ci domandiamo in quale misura il volumetto ivi conservato
Relatione dei miracoli avvenuti nel borgo di Cannobio sopra il Lago Maggiore l’anno 1522,
stampato a Milano dal Gariboldi nel 1655, si rifaccia al «libretto del miracolo» qui ricordato. Fa
notare lo Zammaretti (Il miracolo di Cannobio e le sue reliquie, 1987, 2.a ediz.) che in una pagina
di fondo sta la dicitura Jo. Franciscus Saxus Carmenus S.(?) U. D., ed ha pure riscontrato la
sostanziale e formale conformità con la descrizione contenuta nella Informazione storica del Borgo
di Cannobio, ove però – sempre secondo lo Zammaretti – al cap. XVII, dallo storico non sono stati
ripresi stranamente alcuni rilevanti dettagli riportati invece dalla Relatione.
Sarebbe quanto mai auspicabile che la buona sorte concedesse a qualche ricercatore di
rinvenire, in un fondo dismesso d’archivio, l’aureo libretto menzionato, fortunatamente, dal
Bartolameo Cironio.
8 (fascicolo N. 9 – novembre 1992)
Chissà che qualche bravo organista, magari nella «giornata del Perdono», incuriosito, s’accosti al vecchio
organo, con vecchie canne, con vecchi registri e ci faccia gustare dolci melodie. Si tenga certo l’appassionato
maestro d’organo che, se fosse privo di «barca», una vettura potrà «condurlo e recondurlo» a casa di meriggio o
di sera, dopo aver aspirato volute d’incenso e ammirato «candelette di cera rossa»...
Proprio così. Credevo di sapere tanto e m’accorgo che ancor molto mi resta da conoscere – e forse non solo a me.
Grazie dunque al prof. don Crenna per le notizie, in attesa di nuove... scoperte.
L’attività del cantiere edile si protrasse dal 1575 fino al 1614. Però la originaria angusta
Devozione di Cannobio poté dilatarsi fino a raggiungere la volumetria dell’attuale Santuario della
Ss. Pietà. E ciò ad opera della genialità del Tibaldi, della devota tenacia dei Cannobiesi e di
improvvisazioni finanziarie a non finire.
Alla prova dei fatti, l’unica entrata veramente affidabile era costituita dalle offerte che si
raccoglievano ogni anno il 9 di gennaio, «giornata del Perdono». In tale occasione, nel 1585 fu
raggiunto il record di 645 lire e 16 soldi; nel 1598 si racimolarono soltanto 313 lire e 5 soldi, e si
toccò il minimo di 165 lire e 10 soldi nell’anno 1610. Un introito cioè estremamente variabile; ma
non per questo lo si può contestare senza offesa al pudore, essendo l’elemosina un provento sui
generis sottratto ad ogni immaginabile contrattazione, semmai privatamente pattuito tra l’offerente
e – se ci sta – il buon Dio.
A scanso di idiote considerazioni preferiamo osservare come il diagramma della buona riuscita
o della decrescenza delle bussole si è modellato sulle ricorrenti epidemie di peste di quei tempi.
È scontato che la pestilenza abbia avuto le stesse percorrenze degli uomini; infatti a più riprese
essa marchiò i transiti di Valmaggia e Leventina, Mesolcina e Centovalli, cioè quelle direttrici
commerciali che si irradiavano dalla nostra area subalpina verso l’Oberland bernese e i paesi dei
Grigioni. Per l’appunto, dall’inizio del 1596 e per un paio d’anni, la peste indugiò a Faido, Preonzo,
Tavernelle, Torricella; e proprio allora al Santuario si registrò l’affievolimento delle offerte. Nel
1610 poi, come è noto, tornò ad imperversare nelle terre lombarde, e al Santuario si toccò il fondo.
D’altronde, che fare? Ci si rintanava pressati dalle gride di sanità e dal pericolo del contagio e, ad
ogni suo allentarsi, ci si affollava nei luoghi più acconci ove implorare da Dio con più forza una
tregua misericordiosa.
Così dovette accadere in quel 9 gennaio 1585, giorno del Perdono: dal forte introito di
elemosine veniamo informati che dalle valli tutt’attorno a Cannobio, liberate dall’incubo della
peste, tanta altra gente s’aggiunse ai residenti ed ai rivieraschi.
Anche in tal modo il pio convincimento radicato tra i Cannobiesi trasse appropriata
motivazione dagli eventi infausti di quel tempo per diffondersi devozionalmente su un più vasto
circondario.
14
Ce lo fa arguire persino il rinnovarsi dei festosi inviti alla festa del Perdono: una ripetuta
messinscena che di anno in anno cresceva in risonanza, forse enfatica ed effimera, ma certo
attraente e suggestiva, all’insegna di pio entusiasmo e di propositi mai dismessi.
Aumentarono gli onorari agli officianti; le umili guarniture di bosso sempreverde andarono
arricchendosi di «palper tinto e orpel»; sempre più numerose le candelette di cera rossa per la
luminaria, e non ultima folclorica aggiunta, «la polvera d’archabugio per onorarvi il Santo Perdono».
Preci devote e querimonie penitenti trovavano un percorso, dalla terra al cielo, ingentilito da
volute «d’incenso, garofalo, canella, storazo e belzovino calamita». Tanto ci voleva per conferire
quel minimo di chiesastico ad un ambiente nominalmente sacro, ma tuttora grezzo e affatto spoglio
d’ogni connotazione che lo facesse apparire tale; se fuori il lago s’increspava livido sotto
«l’inverna», all’interno il rigore sembrava stemperarsi in quella mistica velatura di fumi odorosi.
Non ci giureremmo che fosse intervenuto il locale «medico Gallo» a stabilire il dosaggio
opportuno perché tale suffumigio riuscisse pure medicamentoso. Infatti, all’epoca, un ricettario di
farmacopea suggeriva un pregevole miscuglio d’incenso (Solibanum electum), bacche di ginepro,
belzoino, zucchero, fiore di lavanda, petali di rose odorifere e radice di cascarilla, da usarsi pro
suffitu, cioè pro fumo per i casi di artrite, pur senza garantirne l’efficacia; era invece sicuramente
valido quale correttivo dei cattivi odori!
Nessun dubbio invece sulle virtù fluidificanti dello storace: una lacrimazione balsamica
rossastra dall’incisione sullo Styrax officinale; le gocce resinose, rassodate e friabili, mescolate con
segatura di legno, passavano sotto il nome di storace calamita, e, poste su un braciere, emanavano
un soave profumo; si era cioè evitato di usare per la Devozione lo storace comune, una specie di
segatura (utile per cataplasmi con farina di linosa), meno pregiata e assai meno odorosa.
E che dire del belzoino, o Styrax benzoin? Codesta fragile resina proveniente dalle Indie
orientali, di colore giallino, di odore balsamico e gradevole, era anche assai ricercata per la tintura
alcolica che se ne estraeva per confezionare il detergente latte verginale.
Una nuance complementare era data dall’effumazione di «cannella e garofoli», o forse meglio
cannella garofolata, Myrthus caryophillata: pure questo un prodotto delle Indie Orientali dal
delicatissimo profumo di garofani (e per nulla di cannella).
Dunque un elaborato e costoso mélange di aromi, i cui apporti olfattivi e inalatori ben si
integravano col sentore ieratico diffuso tutt’attorno dalle vocalità del ben temperato organo.
La voce di questo strumento non venne mai meno nonostante fosse messo a rischio dai
rifacimenti edilizi e dai conseguenti trasferimenti da un canto all’altro. Lo si accudì ripetutamente
con «vachette e corami per li mantesi», con «sonza di porco e sego per ongerli, cera rossa per le
canne», e soprattutto facendo intervenire l’organaro accordatore di Pallanza, ogni volta
profumatamente pagato, oltre alla spesa della «barca a condurlo e recondurlo». Che l’organo sia
stato tenuto costantemente in efficienza è provato dal regolare stipendio trimestrale di sei lire
versato all’organista: dapprima lo stesso cappellano Cristoforo Porolo, dal 1587 con onorario
triplicato il signor Desiderio Carmino. Ma al riguardo non si badava a spese, ancor meno nel giorno
del Perdono: per l’occasione ci si assicurava della presenza di un maestro di cappella con relativi
coristi, ingaggiati da Pallanza e, nel 1612, addirittura da Locarno.
Così andarono le cose fino al 29 settembre 1609. In tale data leggiamo nel libro delle spese: «L.
178.5 sono pagate per el costo de uno Regale, comprato dal rev. Padre di santo Francesco con
participazione de li reverendi signor prevosto Stefano Broco et Teologo di ciò esperti”. Perché non
ci sfugga l’entità dell’operazione – a prescindere dal suo costo – basti ricordare che due anni
innanzi il Monteverdi usava il regale per il suo Orfeo e che, ancora nel 1666 il Cesti lo impiegò nel
suo Pomo d’oro. Codesto strumento, già noto nel XII secolo, era dotato di registri ad ancia, con
l’aggiunta, nel XVI secolo, di registri labiali, e con una estensione sino a quattro ottave. Bastava,
aggiunto al tastierista, una seconda persona che ne azionasse i mantici.
Pregio non indifferente: lo strumento era trasportabile. Va da sé che il regale fosse visto dai
confratelli della Devozione come investimento fruttifero. Da quell’anno infatti le chiese del
circondario di Cannobio furono toccate dalla tournée di codesto regale. Passi il calembour: ne
beneficiò la pietà dei fedeli, ma ancor più ne beneficiò la Ss. Pietà di Cannobio
15
Per una storia del Santuario
Per chi vuol saperne di più…
9 (fascicolo N. 1 – gennaio 1993)
Il professore don Mario Crenna, sabato 16 gennaio, nella sala Convegni de “Il Portico” ha tenuto una conferenza
sul tema: “Storia del Santuario: architettura ed economia”.
Al termine ho raccolto tra i numerosi intervenuti qualche impressione. «Sono di Cannobio, ma queste notizie mi
sono assolutamente nuove» – «Sarei rimasto fino a sera ad ascoltarlo» – «Mi auguro che torni ancor: è stato
molto interessante»...
Bene, il fuoco è acceso... e divampi!
Ma don Crenna è sempre presente, anche quando è assente. Sì, perché ogni mese sul Bollettino ci offre il frutto
delle sue ricerche.
Leggete questa “puntata n. 9” voi che eravate presenti – e, con un pizzico di rammarico, anche voi che eravate
assenti –, rivivrete il clima dell’incontro.
Professore, grazie e buon lavoro; a presto.
Anche un’elica aiutava a spingerli: a bordo era forse questa l’unica innovazione moderna. La
grande vela rettangolare, gonfia di “inverna” se si andava verso Brissago, e, tornando, resa panciuta
dal Valmaggino o dalla Tramontana, i lunghi remi, la lunga barra del timone e il fasciame
pesantemente calafatato dentro e fuori, per chi se li ricorda ancora, erano i contrassegni dei barconi
del Lago Maggiore. Tozzi e senza pretese di rotta o di orari, affidabili – si diceva – ma sempre con
la linea di galleggiamento messa in forse dal sovraccarico di sabbia, pietrisco e d’ogni altra cosa che
risultasse troppo ingombrante per essere inoltrata lungo la strada litoranea dei tempi passati.
Sono pressoché scomparsi perché decrepiti ed anacronistici. Eppure alla loro epoca migliore,
stando ai documenti, essi erano “le navi”, governate da professionals, quali i cannobiesi Bernardo
Barletino col socio Garlanda, Battista Rizetto e Laurenzio Bilino, con i rispettivi figli Defendente,
Battista e Giovanni, naturali rincalzi per diritto di sangue marinaro.
E dal 1575 fino al 1611 troviamo registrate nei libri contabili della confraternita della Ss. Pietà
le rotte battute da codesti carrettoni d’acqua, a fondo piatto, che salpavano dal porto di Cannobio
verso gli approdi di Sesto Calende, Arona, Meina, Pieggio, Intra, Luino, Germignaga, Porto
Valtravaglia, Maccagno, Ascona, Ronco, Brissago, Ponte, Piaggio Valmara.
Attingendo alla loro stiva, furono trasbordate alla fabbrica del Santuario tonnellate di materiale
edile. Le puntuali registrazioni di bilancio, redatte dai tesorieri della confraternita, ci consentono di
ricuperare visivamente quel gran movimento cantieristico: la provvista di calce viva presso le
fornaci del Zapo, di Porto e di Maccagno, raggiunse i 25 quintali. Toccò poi alle donne di
Cannobio, di volta in volta improvvisate portatrici d’acqua a otto soldi al giorno, “spegnere”
codesta massa di calcare calcinato.
Dai «pioderi» della Valmara, di Varenzago, di Cannero e di Cheggio, con un interminabile
«spezzar sassi» si stivarono pietre fino a 246 «navate», con l’aggiunta di altre 23 di “scaioni”
utilizzati per compattare le volte. Da Cerro, Luino, Besozzo e Porto furono traghettati
complessivamente 38.100 mattoni o “prede cotte”.
Oltre ai duemila coppi, occorsero 314 «barche» di piode, per lo più cavate a Brissago.
Fu impresa di sua natura impegnativa e costosa la squadratura delle pietre angolari nelle cave di
Ascona, Brissago, Fontanella e Oggebbio, ed il loro trasporto con traino di buoi sino agli approdi.
Furono 94 le navate di materiale che, scaricato sulla riva antistante la fabbrica del Santuario,
veniva poi rifinito dai maestri scalpellini di Brissago e di Ascona. Dapprima si provvide al traino in
cantiere con la doppia pariglia di buoi di Defendente Reschigna. Un’operazione che in seguito, a
conti fatti, risultò più economica procurandosi un proprio “sistema di locomozione”, come risulta in
data 10 agosto 1586, con l’acquisto di due buoi pagati 96 lire.
16
Nei libri contabili non v’è però traccia successiva di un ricavo da rivendita dei due bovini: forse
un capitale fruttifero estintosi per assimilazione?
Imprecisato è il numero dei trasporti di materiale più a rischio: fusti di colonne e balaustre di
mischio d’Arzo, abachi e basamenti di marmi di Candoglia, cornici e lesene di pietra d’Angera e di
Valmara, occhi di marmo nero da Como, pezzi di marmo segati a Meina da Francesco Paranchino e
tirati poi a lucido con piombo e pomice dagli esperti maestri marmorini di Ascona e di Brissago.
Verrebbe spontaneo, con una punta di malizia, dubitare se mai i Cannobiesi abbiano avuto
chiara previsione di ciò che stavano per accollarsi in quei momenti nient’affatto favorevoli, per vari
versi, ad un’impresa del genere, a causa dei ricorrenti chiaroscuri politici e delle conseguenti
emergenze economiche, oltre alle ben risapute tribolazioni sanitarie di quel secolo.
E francamente stupisce quel loro accanimento nel portare innanzi, praticamente da soli, ottimati
e popolani locali, un impegno tutt’altro che dappoco, tanto più quando sopraggiunse, voluto da san
Carlo, il progetto di Pellegrino Pellegrini detto il Tibaldi.
E va tenuto presente che a metterci mano fu un artigianato imprenditore di tutto rispetto: da
Cristoforo Casanova di Brissago ai Beretta Pietro e Stefano, padre e figlio, da Francesco De Bassi
di Gurro ai fratelli Andrea e Giacomo Piotti detti i Franchiti.
Operò un complesso di 42 maestri da muro guidati, in successione, da quattro capomastri o
“maestri ingegneri”: il sopracitato Casanova, Pietro Beretta coadiuvato e poi rimpiazzato dal figlio
Stefano, Andrea Pozino e Giovanni Faiti; undici i maestri di scalpello ben individuati.
Codesta maestranza proveniva da Brissago, Ascona, Lugano, Scaiano, Ronco, Giazzo, Novaso,
Formine, Falmenta o Gurro, Oggebbio, Sant’Agata e Carmine. Lavorò in cantiere per un totale di
14.303 giornate, ivi comprese le 1.327 giornate di donne, 5.035 di manovali e 1.207 di garzoni.
Un altro dato, di per sé sconfortante per la tenacia dei Cannobiesi, sarebbe dovuto essere anche
il processo inflattivo in corso dalla metà del secolo, che fece lievitare il costo della vita quasi
raddoppiandolo: inevitabile fu il riflesso nelle retribuzioni alla manodopera e nel costo dei materiali.
Per il periodo preso in esame dal 1577 al 1611, il prezzo del mattone passò da 4 ad oltre 7 denari,
la calce viva dai 15 soldi al «centenaro» (circa 76 kg) raggiunse alla fine del secolo i 25 soldi.
Se passiamo alle retribuzioni giornaliere, troviamo che dai 32 soldi dati al primo direttore del
cantiere, il maestro Cristoforo Casanova, progressivamente ci si portò a 40 soldi per il Beretta e a
35 per il figlio suo aiutante. I muratori che dapprima percepivano 26 soldi (24 se locali), ebbero un
incremento di busta paga fino a 35 soldi (30 se locali). L’aumento raggiunse anche le retribuzioni
per i manovali (dai 15-18 soldi ai 20-22) e per i garzoni (da 10 a 15 soldi). Persino le donne videro
crescere il loro salario da 8 a 11-12 soldi.
Non per questo ci fu un arresto nell’attività di fabbrica: dal massimo di 1.688 giornate
lavorative del 1595 alle 1.133 del 1598, alle 948 del 1601, alle oltre seicento del 1607 e 1611.
Si tenne testa all’aumento dei prezzi escogitando i più svariati modi onde usufruire d’ogni
risorsa locale pur di sopperire alla spesa crescente: dal 1580 fino al chiudersi del secolo ogni
resoconto finanziario di fine anno segnò un attivo, sia pure sovente ridotto a poche lire.
Finché nel 1611 si ebbe il botto finale: terminata l’ultima parte muraria, cioè la sopraelevazione
del tiburio, si volle provvedere alla sua copertura con lastre di piombo...
10 (fascicolo N. 2 – marzo 1993)
S’è sfilacciata la corda della “seconda”, la campana dedicata a S. Lorenzo. Occorreva sostituirla.
Staccai con riconoscenza la corda – vecchina; era l’ultima carezza. Anche lei aveva avuto le sue gioie: su e giù, su
e giù nei giorni feriali; più a lungo nelle domeniche e nelle solennità.
Stimolato dalla dovizia di informazioni segnalate da don Crenna in questo articolo, dalla torre campanaria ho
voluto osservare il tiburio con le colonnine, gli archetti, le mensole...
E chissà se prima di collocare la croce sul «balone de arame» per qualche tempo hanno fatto sventolare la
bandiera? E che tipo di bandiera?
Una cosa è certa: al di là del Miracolo, la costruzione del Santuario costituì un avvenimento singolare non solo
sotto il profilo religioso ma anche civile.
Grazie a don Crenna per queste e per le prossime notizie.
17
Ispirandoci all’operazione nazional-patriottica di “mani pulite”, ci siamo proposti di inquisire i
confratelli della Ss. Pietà in rapporto al loro esercizio finanziario 1575–1615: sia pace alle loro
anime, con l’acrimonioso sospetto che entro quel gran reticolo concorrenziale di fornaci, cave,
commesse, aziende fornitrici, trasportatori, progettisti, maestranze e manovalanze, almeno per
assonanza ai nostri tempi, anche allora gli intrallazzi ci siano stati. A dire il vero, l’inchiesta su
codesta presunta Tangentopoli, targata secolo XVII, si è rivelata più noiosa che difficile: è bastato
ricorrere alla sommatoria aritmetica degli addendi lungo le meticolose registrazioni in partita doppia
portate innanzi dai confratelli ostinatamente per mesi ed anni, ed il risultato finale era lì, sotto gli
occhi: disarmante in tutta quella sua innocente nudità di totale di spesa.
Il santuario della Pietà, così come fu progettato dal Tibaldi, riattando ed amplificando il
primitivo ambiente della cosiddetta «Devozione», venne a costare – chiavi in mano – non più di un
miliardo e ottocentocinquanta milioni odierni.
Questo dato vien fatto emergere, ora, per la prima volta: è sicuramente attendibile, perché
corredato da documentazione storica. Eppure ha dell’inverosimile: basti riandare alle terrificanti
lievitazioni in miliardi, connotazioni ormai consuete per le opere pubbliche dei nostri giorni.
Ma ancor più sbalorditivo è quel contenimento di spesa, allora verificatosi a Cannobio, se
consideriamo che, per ragioni di spazio, le strutture portanti del santuario, forzatamente, vennero
piazzate pressoché nella battigia del lago; che l’attività nel cantiere subì rallentamenti e pause,
perché talora si dovette trovare scampo alle esplosioni epidemiche di fine secolo, o ripetutamente
rimediare a debilitazioni finanziarie.
Ci è possibile stabilire – grosso modo – che ci furono tre fasi lavorative: e questo, grazie alle
caratteristiche “onoranze”, tradizionali tra le maestranze edili. Sappiamo infatti che, nel giugno del
1595, all’osteria di Bartolomeo Bagatello, mastro Pietro Beretta, capo cantiere e direttore dei lavori,
con i suoi muratori e manovali commemorò «la seratura della volta grande»: quella, cioè,
sostitutiva delle quattro soffittature a vela, originarie della Devozione.
La scena si ripeté – ma stando ai soldi spesi, non si andò al di là di qualche boccale – nel
settembre del 1600: la volta ultimata era la copertura di quel prolungamento della Devozione,
mediante il quale era stato raggiunto lo sviluppo perimetrale definitivo del santuario.
Ora occorreva coprire l’area del presbiterio, innestando sull’apposita imposta poligonale la
calotta del tiburio, con relativa torretta o lucerna.
E qui non è chiaro in base a quali perplessità architettoniche, insorte a margine del progetto del
Pellegrini, sia stata allora escogitata l’imbracatura del tamburo, con colonnine e archetti marmorei,
a guisa di tribunetta circolare, leggiadra e poco tibaldesca.
Esplorando tra le registrazioni di cassa per gli anni dal 1606 in poi, il bandolo della faccenda è
forse da rinvenire in una serie di spese così descritte:
– «24 ottobre 1606. Lire 36 sono pagate a domino (signore) Bernardo Paranchino per diverse
fatiche, visite fatte et disegni intorno alla fabrica, a firmato di monsignor Mazenta».
– «31 novembre 1606. Lire 1.15 spesi in mandare a tore il Parenchino per divisare il negotio
del tiburio, et poi condurlo a Luino».
– «15 gennaio 1607. Soldi 12 per diversi cartoni per fare desegni per la fabrica».
Nel frattempo il Beretta si dava un gran da fare, quale mastro «ingeniere», sfidando i rigori
invernali, per individuare i materiali più acconci; tant’è che in data 15 gennaio 1607 troviamo
annotata la spesa di «lire 2 e soldi 15 pagate a Cosmo barcarolo per viaggi tre, fatti a condurre
maestro Petro a servicio della fabrica». Dove? Leggiamo: «Lire 2, pagate (al suddetto) per sua
faticha condota alle montagne a visitare pietre».
Intervenne anche «il figliolo di mastro Francesco de Bassi (di Gurro), conduto a insegnare ove
si trovavano molte prede nascoste, per la fabrica» tra le montagne del Vergante, «nella valle di
Ogiabia e nel fiume di Cannero». Ma l’area più battuta fu quella a ridosso di Brissago, da dove,
ancora nell’agosto del 1610 (quando ormai si lavorava alla lanterna) giunse l’informazione, così
tradotta nel linguaggio di spesa: «Lire 16 sono pagate a mastro Jacomo Ciapino di Cadagno,
jurisditione de Brissago, per pagamento di uno grande sasso di marmore cavato ne’ soi lochi di
Cadagno, che ancora resta parte di cavare».
18
E da Brissago gli elementi architettonici provenivano già pronti per la posa in opera, perché
rifiniti sul luogo dai maestri di scalpello Andrea e Giacomo Piotti: i fratelli Franchiti. Veniva, cioè,
evitato di appesantire il costo dei lunghi tempi di lavorazione con le spese aggiuntive, sia di
trasferta e d’alloggio in Cannobio per i maestri, sia anche per eccedenze di materiale grezzo o
semilavorato inutilmente trasportato al cantiere.
Infatti, al 6 maggio 1607, troviamo annotati i 15 soldi pagati «a un barcarolo che andò a
Brissago a domandar li Franchiti»; e al 3 giugno successivo, che la pattuizione fosse avvenuta
troviamo conferma nelle 196 lire pagate «a bono conto delle prede hanno essi di lavorare per il
tiburio conforme l’accordo» (esclusa la posa in opera). Il compenso venne fissato in 400 scudi, al
cambio di sei lire per scudo: quindi un totale di L. 2400 (= 84 milioni odierni) da versare in quattro
rate semestrali ad iniziare dall’agosto dell’anno corrente.
Impegno finanziario non eccessivo trattandosi di una componente architettonica vistosamente
scenografica, quale poteva essere il tiburio. Comunque, fu un esborso di poco inferiore a quanto
successivamente si spese al fine di tutelare la turrita prominenza ottagonale con una copertura di
sicura tenuta alle raffiche ventose che calano dal Ceneri e ai rovesci di pioggia che dal budello della
valle Cannobina si scaraventano giù verso il lago.
Non v’era altra scelta, se non il ricorso al piombo: d’altronde era in gioco un ambizioso
coronamento, un traguardo insperatamente raggiunto. E ci si buttò.
Nell’aprile del 1611, mentre i due fratelli Piotti ( o Franchiti) verificavano le strutture murarie e
ornamentali del tiburio, al suo fastigio venivano istallati i 22 grossi assi di larice del telaio che
avrebbe dovuto supportare la copertura metallica. Nel frattempo a Milano Gio Francesco Mazirono
contrattava con mastro Antonio Zavata, comasco, per il piombo, che alla «resiga del Barbé» venne
poi approntato in lastra.
Un primo carico di 16 lastre, che, pesate alla stadera di Milano, risultarono di 6557 libbre (poco
meno di 50 quintali), per un costo di 1639 lire, venne trasferito da Porta Nuova a Porta Ticinese, e
da qui per via d’acqua inoltrato a Cannobio: una condotta costata 24 lire (vale a dire 840.000 lire
d’oggi). Seguì un secondo carico di 10 lastre, di 4526 libbre (pari a q.li 34,5), pure condotto per
barca fino a Cannobio, per 700.000 lire nostre.
La posa in opera fu effettuata da tre maestri specializzati, prelevati a Germignaga, dove erano
giunti da Milano cavalcando. Lavorarono per quindici giorni effettivi, con una paga giornaliera di 4
lire ciascuno (L. 140.000 d’oggi). Naturalmente spesati di tutto.
Fu prelevato ad Angera, il 25 agosto, un verificatore dei lavori ultimati, messer Josef «ditto de
Varese»: un sopralluogo alla lanterna, il suo, costato 14 lire (L. 490.000 d’oggi).
E sulla lanterna, svettante, era stata collocata la croce, e «un balone de arame posto al calce
della croce, entrambi indorati» a Milano.
Complessivamente, l’operazione della copertura in piombo raggiunse così le 3136 lire di spesa,
equivalente cioè a quasi 110 milioni attuali.
Ogni scorta finanziaria fu polverizzata. Ma fece il suo ingresso in campo la “graziosa”
beneficenza di alcuni magnati locali: essa merita un capitolo a sé.
11 (fascicolo N. 3 – aprile 1993)
Notizie che non finiscono di stupire.
Sì, perché vien ricordato che anche i defunti... diedero una mano per finanziare la costruzione del Santuario!
Anche allora le cifre color rubino non erano gradite, potevano riservare brutte sorprese; bisognava intervenire
al più presto, perché tra creditori e conto in rosso – già a quei tempi –non correva buon sangue.
Insomma, quando don Crenna raccoglierà e ordinerà i suoi appunti, ci offrirà la Storia del nostro Santuario
interessante e attraente come un romanzo. E romanzo non è, ma storia vera.
Professore, buon lavoro. A presto.
Concedeteci la metafora: fu davvero una gran “tegola” la copertura in piombo del tiburio, nel 1611.
19
Già nel gennaio di quell’anno il depositario, o tesoriere della confraternita della Ss. Pietà, Gio
Battista Romerio, aprendo la contabilità del libro mastro si era trovato “in rosso”: un passivo di
cassa di 533 lire, che, momentaneamente ridottosi a 103 in coincidenza con la festa del Perdono, a
settembre aveva celermente raggiunto e superato le 573 lire. Cioè, per meglio capirci, dagli attuali 3
milioni e mezzo, in meno di sette mesi, il deficit era volato oltre i 20 milioni.
D’altronde che fare? I muratori impegnati alle strutture del tiburio e, più di loro, i maestri di
scalpello andavano pagati: una retribuzione giornaliera, questa, oscillante tra le centomila
giornaliere dell’«ingeniere» Giovanni Faiti, alle 70-80 mila degli altri, cioè di Andrea Pozino e
Gottardo di Brissago, Francesco del Giazzo, Antonio Capeleto da Genzago, Giacomo e Andrea
Piotti-Franchiti e Francesco Besa; costui mastro carpentiere. Senza tener conto dei quattro o cinque
garzoni ausiliari.
Non bastava più l’apporto finanziario di quei mesi, frutto di donativi, elemosine, legati, né il
concorso popolare degli incanti, per quanto tuttora sostenuto nelle forme più disparate:
«formagielle, ova, vino, castagne, polastri, varoni», persino un vitello ed un castrato; capi di
vestiario, «dalle gorgiere ai giuponi, alle calze del fu signor Girolamo Mantello», vendute –
sissignori – agli “Oh bei, oh bei” di Milano. Né mancarono i preziosi: «uno scufioto d’oro, il
gioiello pagato da madonna Vittoria Carmena».
Diedero una mano – si fa per dire – anche i defunti, grazie alle elemosine per il palio della Ss.
Pietà che, da buoni Cannobiesi fino all’ultima ora, avevano voluto s’accompagnasse al proprio
funerale. E quell’anno furono tanti: per due volte nella casa di Bernardino Zacagno, poi la figliola di
Bartolomeo Mantello e la seconda moglie del signor Gerolamo Mantello, la Catelina Rasenata, la
moglie di Gio Paolo Olginate, Rocco da Carmeno suocero di Gio Antonio Petrolino, la madre di
Gio Batta Omacino, la povera Capona, il figlio di Gio Marcion...
Ma è al foglio 230 del libro mastro che il tesoriere Romerio ci fa intendere – e lo mette
graficamente in risalto – quanto scioccante, anche se previsto, sia stato per tutti i confratelli il
«conto del piombo posto a coprire la volta del tiburio delle 8 parti le 7 che va in conto a mastro
Antonio Zanata» (e non Zavata, come erroneamente è stato scritto). Il contraccolpo sta lì evidente a
fondo pagina nella vertiginosa impennata del totale di spesa: lire 3737.10, vale a dire 130 milioni e
795 mila lire. Un foglio più in là, sotto l’intestazione «al nome di Dio a dì 31 gennaio 1612», il
passivo ha già raggiunto lire 4185.16, cioè i 546 milioni e mezzo.
Ancora nel nome di Dio, nell’agosto di quello stesso anno, il Romerio chiuse la sua personale
partita «passando di questa a miglior vita». Non per ciò abbiamo motivo di supporre che si sia
trattato di uno sconcertante e compassionevole decesso provocato da motivi traversi. Però al
riguardo vale la pena di rifarci ad un episodio particolarmente illuminante circa i modi con i quali a
quei tempi si concepiva la gestione del denaro altrui: nel nostro caso, il denaro della confraternita.
Accadde proprio a Gio Battista Romerio, quando, qualche anno prima, il 16 ottobre 1605, quel
grand’Uomo del cardinal Federico Borromeo andò in visita pastorale a Cannobio. Come di norma,
fu revisionato anche il libro contabile della confraternita, girato dal suo ragioniere Gio Francesco
Mazirono al convisitatore Cesare Pezzano, «canonico della insigne collegiata di S. Ambrogio
Maggiore». A pag. 188 troviamo infatti una postilla autografa di detto canonico, ove si precisava
che, alla data citata, il tesoriere Romerio aveva a disposizione 1064 lire, 1 soldo e 3 denari a pro
della fabbrica del Santuario. Qualche tempo dopo, arrivò l’ordinanza del cardinal arcivescovo: il
Romerio era perentoriamente invitato a depositare presso un nuovo tesoriere, entro un mese, la
somma di denaro indicata dal canonico Pezzano, salvo errore di calcolo, e se non erano intervenuti
defalchi per spese effettuate nel frattempo. Altrimenti si sarebbe proceduto contro di lui
sequestrando tutto e comminando in aggiunta la scomunica... ad evitandam omnem fraudis
suspicionem, cioè per quelle ragioni di trasparenza, che oggi ben conosciamo.
Ma qui va aggiunto un dettaglio, o meglio, una variante: il Romerio subentrò a se stesso
nell’incarico di tesoriere, e vi durò fino all’agosto 1612, quando per l’appunto cessò di vivere.
La storia ci insegna dunque che agli avvisi di garanzia non è detto debba sempre seguire
l’incriminazione di attività truffaldina.
20
Morto dunque il Romerio, si fece il consuntivo, «il restreto di quanto sta in debito la fabrica»,
e verso chi.
Il creditore più ostico era il citato mastro Antonio Zanata, comasco trapiantato in parrocchia di
S. Bartolomeo intus, a Milano. Il conto per la prima fornitura di lastre di piombo, di 6557 libbre,
risultava già pagato dal signor Bartolomeo Pianta con lire 739, denaro di chiesa, e saldato con altre
900 lire prestate dal signor Sebastiano Pianta. Ancora scoperta era invece la seconda provvista di
lastre, per libbre 4526 (essendo risultata insufficiente la prima fornitura): altre 1131 lire da pagare,
oltre alle 56 per stagno, rame e pece. E per di più lo Zanata con pubblico strumento rogato dal
notaio Gio Pietro Omacino il 14 ottobre 1611, controbattendo alla difficoltà di onorare il debito
espressagli dal priore della confraternita Giuseppe Raynerio e dai sindaci Gio Francesco Mazirono,
Gio Battista Romerio (al tempo ancora vivente), Gio Battista Zaccheo e Sebastiano Pianta, aveva
chiaramente fatto intendere che non ammetteva dilazione alcuna, dovendo a sua volta liquidare il
proprio fornitore. Aveva perciò fissato un termine di otto giorni a partire dal primo del mese,
scaduto il quale, egli senz’altro indugio avrebbe prelevato la somma dovutagli ad cambia et
recambia in civitate Mediolani a quibuscumque bancheriis et campsoribus, expensis et denariis
dictae scholae seu dictae ecclesiae: avrebbe dunque acceso un prestito oneroso e rateato presso
qualsivoglia finanziere milanese che si fosse dichiarato a ciò disponibile, mediante ipoteca sui beni
della confraternita o della chiesa. Con un’unica deroga: consentiva di scalare di volta in volta quel
denaro pronta–valuta, scuta certa, che gli venisse eventualmente sborsato dai confratelli.
Ancora una volta intervenne Sebastiano Pianta, che, subentrando al creditore Zanata, chiuse la
partita con detto comasco in due soluzioni di danaro: 550 lire il 26 marzo 1613 e 581 lire l’anno
successivo.
Da un altro versante giunse la benemerenza postuma del ex depositario Romerio, che chiuse
ogni falla con un legato d’ultima volontà di 900 lire.
Alla luce di quanto si è qui detto, si spiega perché mai il nuovo tesoriere Giosef Raynerio
potesse riprendere, sempre «al nome di Dio a dì primo settembre 1612», la contabilità del “dare e
avere”, con un azzeramento del deficit, anzi, con un attivo di cassa di ben 28 lire!
Da quel momento il tiburio della Ss. Pietà, sotto un cielo rasserenato, sta ad insegnare a tutti quanto
strane siano le vie del Signore e impensabili i rigiri degli uomini.
12 (fascicolo N. 4 – maggio 1993)
Se don Crenna continua con questo ritmo a sfornare notizie, sarà opportuno pensare ad una pubblicazione che le
raccolga. Risulterà certamente interessante – e non solo per gli iscritti alla Università della Terza Età.
Però, caro Professore, i tre puntini in chiusura m’han fatto l’effetto di tre piccole lische in gola.
Leggo: – La casa di messer Tomaso de Zachei fu comprata «per pretio de lire...».
E quanto hanno sborsato? Alla prossima puntata, d’accordo. Resto in attesa.
Grazie, comunque per tutto il resto.
Si era nel 1611, quando l’aerea struttura del tiburio, quale estetica gemmazione, dava al
santuario della Ss. Pietà il coronamento conclusivo. Un traguardo architettonico era finalmente
raggiunto, e un voto – tacitamente pattuito per quasi cent’anni in seno alla comunità – trovava
anch’esso compimento.
Ci soffermiamo su quest’ultimo aspetto, a motivo della sua singolarità.
Anno 1526: tempi durissimi a causa della nefasta accoppiata di guerra e pestilenza, propter
bellorum et pestis impedimentum que totum fere ducale Dominium perturbarunt et presertim dictum
Burgum Cannobij; un’esistenza quotidiana ridotta talmente allo stremo, entro un contesto di
disordine e di soprusi, che i Cannobiesi stentavano a procacciarsi l’indispensabile per sopravvivere,
durantibus semper bellorum perturbationibus et angarijs extremis, quibus tantum gravantur ipsi
homines ut vix suppetant facultates ad vite necessaria.
Sono le pesanti considerazioni con le quali s’apre il rogito che il notaio Bartolomeo Albertini
sta vergando in San Vittore, il sabato 21 aprile di quell’anno.
21
Attorno a lui i roganti: i canonici del Capitolo, prete Bernardino de Carmeno preposito, prete
Giovanni Antonio de Macironibus, prete Francesco Concini, prete Francesco de Mantellis, prete
Francesco de Tremedio e prete Andrea de Formeno. E poi, ancora, il magnifico signor Pietro de
Mantellis podestà e reggitore del Comune, il signor Bartolomeo de Mantellis, il signor Giacomo de
Poscolonia, il signor Francesco Zanotelli a nome anche del signor Antonio Giorgio de Columnis,
Bernardino figlio di Stefanino Cereti, Giuseppe de Zacheis e Giovanni de Mantellis quali deputati
del Consiglio generale del Comune, oltre al maestro Pietro Zanlete procuratore generale della
Comunità in qualità di suo rappresentante. Assistono alla stesura dell’atto il notaio Giovanni
Francesco figlio del rogante e il protonotaio Giovanni Luigi figlio del citato magnifico signor Pietro
de Mantellis. Quali testimoni: il signor prete Matteo de Poscolonia figlio del fu signor Damiano e
preposito della chiesa di San Lorenzo in Cannobio; Domenico de Furno figlio del fu signor Nicola
abitante alla porta orientale della parrocchia di San Pietro a Milano; Giacomo figlio del fu
Francesco Todeschino e Giovanni figlio del fu Giacomo Todeschino abitanti a Crevoladossola;
Matteo figlio del fu maestro Giovanni di Quarna e Giacomo figlio del fu Giulio Ulcelino di
Vigezzo, entrambi abitanti di Cannobio.
Tanta ufficialità trova spiegazione nella presenza di monsignor Francesco Ladino, vescovo
titolare di Laodicea e suffraganeo dell’arcivescovo di Milano Ippolito d’Este, quale delegato
dell’arcidiacono bobbiense Giovanni Maria Tonso, dottore in utroque iure e vicario generale della
diocesi milanese.
Si attende dal prelato una risposta alle ripetute istanze che la Comunità cannobiese ha mosso fin
dall’anno in cui accaddero fatti straordinari nell’abitazione di Tommaso de Zachei: l’autorità
ecclesiastica conceda facoltà di trasformare in “devozione” la stanza del miracolo, al piano
superiore di detta casa, beninteso prescrivendo clausole e modi di esecuzione.
Per brevità omettiamo di riferire le condizioni imposte dal vescovo Ladino, anche perché già
compiutamente esposte dal compianto prof. Aquilino Zammaretti nel suo Il Miracolo di Cannobio e
le sue reliquie, ristampa del 1987 a cura della Società storica novarese. Vorremmo piuttosto
cogliere il significato più profondo di due passi contenuti nel rogito di quel 21 aprile.
Vi si dice: «“Essendo piaciuto a Dio nell’anno 1522, all’8 di gennaio, svelare il suo potere
miracoloso, che, sia pure sempre e ovunque palese, lo fu allora in particolar modo nel borgo di
Cannobio. Cum de anno MDXXIJ et die octavo ianuarij ipsius anni placuerit Deo (sicut pie
creditur) ostendere miracula sue potentie que semper et ubique resplendentis precipue tamen eo
anno et die in burgo Canobij...»
Pare si debba ravvisare in questo enunciato un’emozione assai più riflessa di quanto non sia la
stupefazione esaltante – e alla lunga talora effimera – suscitata di norma dai fatti ritenuti
straordinari. Qui è chiaro il convincimento di essere stati privilegiati: una formulazione, cioè,
derivante soltanto da una pacata operazione mentale, che, come tale, al di là d’ogni stadio
emozionale si radica su costatazioni dirette, positivamente accettabili e persuasive.
Ben si comprende allora la determinazione che, ad ogni livello e subito, la comunità cannobiese
dimostra con l’assumere e perseguire un progetto inteso come doverosa contropartita con Dio: quel
“sacello” che – a somiglianza dell’evangelico granello di senape – si è poi visto crescere, ampliarsi
e completarsi, come si è detto, nel 1611.
E infatti ha il senso di una risposta data a Dio, squisitamente umana anche per l’impostazione
totalizzante, ciò che segue più oltre nel rogito. «I tempi funesti hanno fin qui impedito di mandare
ad esecuzione ciò che era in animo a tutti di fare; tuttora si vive fra estreme strettezze.
Ciononostante, riteniamo sia per noi più urgente e giovevole rendere a Dio l’onore dovutogli,
impegnandoci nella cura delle immagini a Lui sacre; e questo, sia per la salute delle nostre anime,
sia per la provvida salvaguardia dei nostri averi e della nostra incolumità personale. Attendentes
nichilominus quantum eis prodesse possit, non solum ad salutem animarum, sed etiam ad comodum
et utilitatem bonorum, et tranquilitatem et securitatem personarum, si rebus divinis animum
intenderint et divinum cultum augere curaverint, et sanctorum imaginibus, in quibus Deus
honoratur, debitum honorem impenderint».
22
Se è vero il detto che “il tono fa la canzone”, ebbene qui non si avverte la consueta
implorazione di favori divini, bensì la puntigliosa determinazione di onorare un certo debito di cui
creditore è Dio stesso, per l’indubbia preferenza da Lui accordata alla gente del Borgo, avendola
gratificata di tanto miracolo.
E la comunità si organizza con fattivo unanimismo: non v’è traccia di isteria collettiva. Da parte
sua, Dio può ben disporre di onnipotenza a Suo piacimento, anzi è l’Onnipotente; ma i borghigiani
cannobiesi, pur defraudati da angustianti guerre e pestilenze, sanno fare quanto è in loro potere. Ed
è commovente la dicitura apposta al loro primo libro-inventario datato (si noti) al 2 maggio 1526:
«Jesus. A nome de Dio omnipotente Patre fiolo et spirito santo. Questo si è il libro nel quale
partitamente se descriveno tuti li beni et denari, et tuto quello è offerto et donato, et che ne lo
advenire se offerirà et donarà a la Devotione de la sanctissima Pietà al Imagine del redemtore nostro
messer Jesu Cristo; et tuti li crediti, et quanto altro intrarà al beneficio et utile de la dicta Devotione;
e più li dinari che a la giornata occorerano pertenere a la dicta Devotione cavati da tute le casse, zoè
a la Devotione de la Pietà et in sancto Victore a la Costa. Et etiam tuto quello è speso et consumato et
ne lo advenire se spenderà et consumarà al beneficio de la predetta Devotione».
Segue la lunga serie degli oggetti inventariati, i più disparati, di uso comune o di pregio: essi
costituiscono la documentazione più ravvicinata ai fatti straordinari e la prova più diretta della
reazione popolare e dell’incredibile coinvolgimento generale che ne seguì in ordine alla
realizzazione del primo embrionale oratorio devozionale. Varrebbe la pena di riportare il tutto per
esteso, cioè con la dignità che ogni documento veramente storico si merita. Lo spazio non lo
consente; potrebbe forse anche risultare una lettura affaticante.
Tuttavia apriamo almeno uno spiraglio, e subito ci si imbatte in una prima sequenza di cose
attinenti alla moda d’allora: le maniche. Paia di maniche strette o larghe, «de veluto verde, de
brochado doro, de damascho cremexile, de drappo d’argento, de terzanello nigro».
Seguono «scufiotti de tocha gialdo con li bindelli morelli, de veluto nigro et tila doro».
Ci s’imbatte nei corsaletti: «corezino uno texuto doro con la fibia de mazaglie de argento
indorato et spranghe (pendagli) undeci d’argento».
Nutrito il reparto di bigiotteria e preziosi: «corona una de coralli con una croxeta d’argento et
uno dinar dentro», una modesta «corona una picinina de coralli picinini... de coralli con le crosete
d’argento, corona una longheta de coralli mezzana con botoni vintiduij picinini de argento,
braceleto uno de coralli con botoni dui doro».
Il reparto di teleria è fornitissimo di «sugacapi cinquantacinqui tra larghi e stretti sorenghino,
tovalie vinti strette lavorate a negro, scossale uno de sorenghino, tovaioli tri (perché mai?) a la
Palavicina».
Dobbiamo chiudere. Ed ecco la cosa più importante, a fine elenco: «la caxa ne la quale
occorseno li miraculi de ditta devotione et ne le quale se fabrica la giesa sua. La quale caxa era de
messer Thomaso di Zachei et fu poij comprata per li agenti de ditta devotione et dal ditto messer
Thomasio per pretio de lire...».
13 (fascicolo N. 5 – giugno 1993)
Leggendo – e gustando – questa 13a puntata, don Crenna mi richiama lo scriba saggio, di cui parla il Vangelo, il
quale dal suo “deposito” trae fuori cose vecchie sempre nuove.
Questo è certo: i Cannobiesi escogitarono iniziativa su iniziativa per esaltare il Santo Miracolo e conservarne
degnamente la memoria.
E ben venga anche la benedizione implorata da mons. Ladino... e l’indulgenza di 40 giorni per ogni oblazione.
Non è affatto una novità che per ogni iniziativa degna di rispetto le coordinate siano il
patrocinio e la sponsorizzazione. Col primo ci si tutela da eventuali impiccioni, col secondo si ha
modo di constatare che c’est l’argent qui fait la guerre. E quelli di Cannobio, intenzionati
com’erano di farsi una loro particolare “Devozione”, dovettero ovviamente fare i conti con l’alto
patrocinio di Ludovico Borromeo, uomo di rango e signore del Borgo.
23
Va subito ribadito che si tratta di due fattori ben distinti tra loro: un patrocinio mai si banalizza
in una somministrazione di danaro; gli basta essere nobile e gratificante accondiscendenza. Al
confronto, la sponsorizzazione risulta goffamente prosastica e pragmatica.
Era dunque ovvio che monsignor Ladino, delegato dell’arcivescovo milanese Ippolito d’Este,
tenesse grandi parlari col conte Borromeo sul da farsi a Cannobio, super huiusmodi negotio pluries
sermonem habuit. E questo dovette bastare, non essendosi rinvenute impronte d’altro genere nei
registri finanziari della confraternita della Ss. Pietà.
Altrettanto serrato confronto di pareri ci fu sul fronte dei presumibili paganti, cioè cum
agentibus pro Commune et hominibus dicti Burgi... et multa hinc inde fuerunt dicta et proposita.
Ci si interpella stando coi piedi per terra: sul dove e sul come allestire quell’oratorio che
tornasse gradito a Dio, alla B. V. e ai Santi, sperantes se facturos rem gratam Deo Beate Marie
Virgini eius matri et sanctis suis; a quale “perito architetto” affidare la progettazione e l’esecuzione;
occorrerà poi provvedere l’oratorio di suppellettili sacre, paramentis, calicibus, libris, luminariis ac
aliis necessariis ad divinum cultum , perché vi si possano celebrare le officiature consuete; si dovrà
designare un cappellano con congruo stipendio, un amministratore delle offerte che verranno date
dai fedeli e che già sono state raccolte, oblationes et elemosinas ac obventiones que ibi fuerint et
sint erogate et porrecte.
Sarebbe intollerabile che la Devozione, una volta iniziata, restasse incompiuta, o anche soltanto
disadorna e trascurata, inornata et destituta, a causa forse anche di inopportune divergenze che
potrebbero sortire dalla conduzione dell’impresa.
Una prospettazione questa, impietosa e debilitante, che andrebbe forse intesa come prova di
risolutezza dei Cannobiesi nell’affrontare un rischio calcolato; o forse anche come perplessità ad
oltranza dell’autorità ecclesiastica, impersonata da monsignor Ladino, nell’impegnare il proprio
prestigio – si noti – a due passi dalla “eresia protestantica”, avallando un progetto che, in buona
sostanza, è affidato ad una sponsorizzazione praticamente di solo lodevoli intenti.
Non ci deve stupire se anche per gli uomini di Chiesa riesce ostico inglobare i parametri della
Provvidenza negli algoritmi della contabilità...
Mettendoci un pizzico di fantasia, ce lo possiamo immaginare il monsignore, che trae dal
profondo un “Che Dio ve la mandi buona!”; anche se, più seriosamente, nel rogito di Bartolomeo
Albertini leggiamo: Tandem omnibus diligenter intellectis et consideratis, attendens prefatus
reverendus dominus episcopus et suffraganeus propensum et religiosum animum et accensum
affectum dictorum hominum ad dictum sacellum erigendum in loco predicto in quo dicta miracula
effluxerunt... Con traduzione disinvolta: “Impossibile schiodare i Cannobiesi da quel loro
intestardirsi nel volere un oratorio là dove per loro il miracolo c’era stato, eccome!”.
Era comunque indispensabile costituire un referente locale, che in certo senso salvasse
ufficialmente la faccia a tutti, a cominciare dagli organici ecclesiastici milanesi, ove – come è noto
– spesseggiavano uomini cresciuti nell’arte giuridica e nelle attitudini amministrative dei casati
nobiliari.
E fu così che, con universale consenso, fu eretta la schola laycorum utriusque sexus, ossia la
confraternita della Ss. Pietà. Da questa, come anche dalla comunità, dovevano estrapolarsi sei
personalità con prerogative di soprintendenza e di amministrazione, sex homines gubernatores et
administratores probi et discreti qui sint prefecti et deputati ad constructionem et conservationem
dicte ecclesie et sacelli et omnium reddituum... et ad omnes expensas faciendas.
Ampi accenni sulle caratteristiche competenze di codesta confraternita aperta a uomini e donne,
ricavati dal medesimo rogito dell’Albertini qui utilizzato, si leggono presso A. Zammaretti, Il
miracolo di Cannobio e le sue reliquie.
In luogo di inutili ripetizioni, valga un accostamento tra i sistemi oggi escogitati per far
convergere l’attenzione e il soccorso dell’opinione pubblica verso zone attualmente doloranti e
disastrate, e l’apparato suggestivo approntato consensualmente in quell’anno 1526.
Indovinatissima, diremmo, quella cinquina di Pater e Ave imposta alla recitazione quotidiana
dei confratelli, in onore delle cinque piaghe dalle quali scaturì il sangue di nostra redenzione (e con
realistica presa diretta) que contemplantur ex inspectione dicte imaginis Pietatis.
24
Alla seconda domenica d’ogni mese il coinvolgimento comunitario: riaffermato
processionalmente con croce, vessillo, canti, muovendo dalla parrocchiale di S. Vittore al luogo
destinato per la fabbrica dell’oratorio. È questo il momento ufficiale della raccolta di fondi tra i
confratelli, a seconda delle loro disponibilità; ma uguale per tutti è l’indulgenza di 40 giorni per
ogni oblazione.
Vien fatto di pensare alla querela luterana contro la seminagione di indulgenze tra gli oblatori
della fabbrica di S. Pietro a Roma. Ma è pura assonanza: a Cannobio non si fa incetta né svendita di
“perdonanze”; se date, sono gradite. Ciò che conta è serrare i ranghi: quasi un consorzio tra
reggitori della comunità, prevosto e canonici, confratelli e capifamiglia (gli homines). Si vuole tener
fede ad un impegno senza doversi mai smentire.
Una nostra esagerata visione di cose? Valga questa particolarissima clausola conclusiva,
contenuta nel citato rogito (e passata inosservata allo Zammaretti). Riassuntivamente: mons.
Ladino, preso atto che nel Borgo redditi e proventi di vari oratori sono amministrati da privati
cittadini, ottiene il consenso che da quel momento in poi ogni frutto, già percepito o futuro, passi
direttamente sotto controllo e amministrazione dei sei delegati preposti alla fabbrica della
Devozione.
Viene suggellata ulteriormente l’intesa tra le componenti sociali del Borgo, dirimendo una
annosa vertenza tra prevosto e canonici da una parte, e gli agenti del Comune dall’altra, in questi
termini: la comunità a proprie spese provvederà al totale fabbisogno della sacrestia di S. Vittore e
alle riparazioni e manutenzione della chiesa stessa. Si accollerà dunque, secondo consuetudine e
giusta l’entità richiesta, la cura omnium paramentorum, ornamentorum, paliorum, librorum et
aliorum necessariorum ad cultum.
Sarà invece devoluto alla comunità (nel senso che transeat in dictam sacristiam seu laycos)
tutto ciò che proviene ex sepolturis, paliis, crucibus, angelis, pianetis, tonesellis, campanis et aliis
apparatibus eventualmente richiesti dai fedeli in particolari circostanze religiose. Vi saranno
aggiunte le rendite primi anni canonicorum receptorum vel de novo recipiendorum , nonché le
offerte que pro tempore fient in dicta ecclesia, ad eccezione di quelle che si raccoglieranno alla
Messa solenne di Natale e di Pasqua.
Una gran bonaccia: tant’è vero che prevosto e canonici si dichiarano pronti a non desistere a
celebratione divinorum offitiorum et divino cultu iuxta eorum laudabilem consuetudinem. Che anzi,
si impegneranno in melius procedere iuxta eorum devotionem et discretionem.
14 (fascicolo N. 6 – luglio 1993)
Recita un proverbio: “Dove riposi bene la mente, ritorna di frequente”.
Così ho fatto.
Avendo incontrato don Crenna in cattedra, quand’ero io nel banco, son ritornato più volte – con soddisfazione,
sempre! – ad attingere alle sue “conoscenze” e continuerò...
Un auspicio: per avere – fra un anno o due... – il testo critico delle deposizioni del 1522, rogate dai notai, “con
aderente traduzione italiana”.
Professore, grazie in anticipo, a nome di tutti.
Padre Francesco – bontà sua – ha voluto insignire questa rubrichetta mensile col titolo “Per una
storia del Santuario”. Il che, a ben vedere, potrebbe essere inteso almeno in tre modi: o si vogliono
trattare le “vicende architettoniche” dell’edificio sacro in quanto tale (peraltro già brevemente
compendiate, nel 1982, dal compianto prof. A. Zammaretti); ovvero ci si propone di precisare con
quale collocazione e “polarità” il santuario si sia piazzato entro i cicli devozionali; oppure si
potrebbe tentare di riesumare quel substrato popolare e comunitario che, a Cannobio, diede storica
fondatezza ad una serie di eventi umanamente assurdi, e corposità materiale alla Ss. Pietà, perché
rimanesse una testimonianza monumentale di siffatte vicende “miracolose”.
25
A nostro giudizio questo terzo aspetto è il più consono al caso: perché non ci si ridurrebbe a
mirabolanti e spesso sterili rimembranze, non si scade a raffazzonato ed effimero raccontino di
circostanza, né si impalcano pirotecnie spiritualistiche o stilistiche.
Pur ammettendo che anche la storia del santuario possa assumere sembianza di racconto
(possibilmente gradevole al lettore), nel caso della Ss. Pietà e nella prospettiva detta, essa è in grado
di proiettarci entro una concatenazione di situazioni e di comportamenti che oseremmo dire non
solo inusitati, ma di valenza tale da provocare, più che appagante curiosità sui fatti di altri tempi,
perplessità di giudizio sulla loro motivazione.
Si tratterebbe di un esperimento di tracciato storico, fino ad oggi forse non ancora tentato. A
nostro giudizio, esso è preferibile ad ogni apriorismo apologetico sulla Operatività Divina, nel senso
che ci consente una realistica comparazione sull’utilizzo dei criteri discrezionali nostri e dei
Cannobiesi del XVI secolo.
Un assunto questo che ci ha indotti ad una prima constatazione de visu: all’epoca del
“miracolo” operavano a Cannobio e nel suo plebanato, con tanto di matricola, i notai Bartolomeo
Carmine, Bartolomeo Albertini, Giovanni Mantelli, Gio Francesco Mantelli, Defendente Mazironi,
Gio Giacomo Besia, e Giacomo Poscolonna. Già dalla consistenza voluminosa dei loro minutari si
arguisce da quale vivacità di vita fosse quotidianamente segnato il Borgo. Un semplice scandaglio
entro così vasta documentazione ci consente di misurare la caratura di tale dinamismo: fittissimo
intreccio di operazioni patrimoniali, costituzioni mercantilistiche di gruppi societari, consistenti
lasciti testamentari, assetto urbanistico evidenziato dalle residenze dei Luati, Tassani, Mantelli,
Omacini, Zacchei, la confetteria di via dell’Amore, immancabili querimonie beneficiali ad ogni
vacanza capitolare... e poi le imperversanti forniture logistiche alle soldatesche transitanti, fossero
queste di Francesco I o del De Leyva.
Non vien fatto di pensare, scorrendo contratti matrimoniali, atti di emancipazione o di adozione,
querele e compromessi e quietanze, ad una popolazione borghigiana culturalmente opaca, con
tardanze credulone o impennate emotive. Tutto si è svolto con regolarità ai banchi notarili anche nei
giorni “roventi” del gennaio e febbraio 1522.
Le stesse dichiarazioni rilasciate a caldo dai testimoni oculari e rogate da Bartolomeo Albertini
– e che andrebbero rilette con aderente traduzione italiana – sono segnate non da debordanti isterie,
ma da ben comprensibile sbigottimento.
La determinazione di intendere rebus divinis, di dare cioè una risposta adeguata a quanto fu
ritenuto convintamente operato divino, poté concretarsi solo quattro anni dopo, nel 1526, nei
termini concordati il 21 aprile alla presenza di monsignor Ladino (come già detto nella puntata
precedente).
Fu un inciampo provocato dalle folate di pestilenza e dalle scorribande dei convogli militari. Al
delegato arcivescovile furono denunciate le “estreme angherie” di quegli anni, e ci è possibile
valutarne la pesantezza solo citando quella consegna forzata di vettovaglie da parte della
popolazione del Borgo ai soldati francesi nel 1524: centocinquanta vitelli, duecento tra capre e
pecore, oltre a granaglie, vino e danaro.
Non si trattò comunque di una tardanza, come lasciano intendere questa serie di date:
all’incontro del 21 aprile con monsignor Ladino seguì, al 1° maggio, la convocazione del Consiglio
generale del Comune, ove venne ratificato quanto era stato concordato tra le parti. Presiedeva il
reggitore e podestà di Cannobio, il magnifico e generoso signor Pietro de Mantellis, presenti il
procuratore della Comunità Pietro Zanlete e ventuno dei ventiquattro consiglieri che costituivano la
Credenza. Seduta stante, ci si accordò sulla scelta di otto notabili deputati a mandare ad esecuzione
quanto per lunghi anni si era escogitato di fare nella casa di Tommaso Zaccheo. Li coordinava lo
stesso signor Pietro Mantelli, loro priore.
E già il giorno successivo, 2 maggio, veniva redatto il primo registro confraternale, nel nome di
Gesù.
Varrà la pena di soffermarci su questo primo documento perché estremamente significativo per
il modo in cui si presentano le sue prime pagine, autenticate dal notaio Bartolomeo de Albertinis.
26
15 (fascicolo N. 7 – agosto-settembre 1993)
Verissima l’iniziale constatazione. Di fronte ad un “segno” così singolare come la Santa Pietà non ci si “inquieta”
e riteniamo di “sdebitarci con un Pater, Ave ed una candela”.
Ma aldilà del fatto religioso devozionale, pure importante, il discorso di don Crenna va oltre. Mi sembra che
abbia intravisto l’evolversi della struttura del Santuario – peraltro ancor poco nota – e accostando vari
frammenti (date, spese, parentele, lasciti rilevati dai rogiti notarili e dal registro della Confraternita) ne sta
componendo con pazienza il grande disegno; dove, tra l’altro, risulta sommamente interessante il coinvolgimento
dei responsabili religiosi con la comunità del Borgo, nient’affatto semplice spettatrice. Anzi!
E voglio evidenziare l’interrogativo “mozzafiato” posto da don Crenna: la casa di Tommaso de’ Zachei era poi
un’osteria?
Un quesito: in definitiva, cosa sappiamo veramente sul “miracolo” della Pietà?
Si noti che virgolettiamo il vocabolo sia perché – a rigore – non si tratta di oggetto di fede
neppure per un credente; sia soprattutto perché la memoria dei fatti, col tempo, si è talmente
rinsecchita che nel migliore dei casi si riduce ad uno stereotipo di racconto, più o meno toccante o
convincente, per nulla inquietante. Lo ascoltiamo con dovuta compunzione per poi sdebitarci con
un “Pater, Ave” ed una candela, come fossimo indifferentemente nella basilica del Santo di Padova
o in san Vittore di Cannobio.
Lontano anni luce da noi ed ovviamente irrepetibile è quel subitaneo sbigottimento dei primi
testimoni diretti che, la sera del mercoledì 8 gennaio 1522, coeperunt cum planctu clamare
“misericordia!”, perché dinnanzi ai loro occhi capitavano strani fatti, di significato oscuro ed ancor
più conturbanti a quei loro giorni così saturi di cattiverie e di pestilenze.
27
Fermo restando che oggi riuscirebbe insoffribile per chiunque l’invito ad una surriscaldo
affettivo, sia pure a titolo commemorativo, però un’indagine che, aderente ai documenti, ci sappia
trasferire in medias res riuscirebbe più accettabile e forse più intellettivamente efficace. Se non
altro, apparirebbe più legittimata anche una nostra ripulsa ad ammettere la veridicità di accadimenti
tanto estranei alla comune esperienza; ci risparmieremmo comunque atteggiamenti interiori
inconsistenti.
Entrando nel merito: un dato è da anteporre, perché significativo benché sia stato lasciato finora
in ombra. Lo ricaviamo dal primo libro mastro redatto dalla confraternita della Pietà a datare dal 2
maggio 1526. Ne abbiamo fatto cenno nella “puntata” di luglio. Vi sta scritto a chiare lettere che la
gestione (per così dire) del miracolo con annessi e connessi fu marcatamente di matrice laica, cioè
quella presunta operazione divina fu lasciata alla mercé della Comunità di Cannobio.
Ora, non avendo motivo accreditato per figurarci un Borgo particolarmente “codino”, si
dovrebbe escludere che esso non si sia lasciato indurre a sobbarcarsi ad una messinscena di quella
fatta; come, per altro verso, viene ad essere notevolmente accantonato il sospetto di manipolazioni
pseudo-clericali.
È ben vero che dal 1422 i Cannobiesi si trovarono infeudati ai Borromei. Ma facciamo un po’ di
luce: codesti finanzieri oriundi di Toscana, approdati alla Milano dei Visconti, dall’inizio furono
sagaci manovrieri politici come poi ancora con gli Sforza; strateghi in accumulazioni patrimoniali
in ogni campo – beneficiale compreso – seppero presentarsi sotto lusinghiera copertura di
munificenza umanitaria, blasonata nel “simbolo parlante” dell’Humilitas coronata, a testimoniare
nulla più che distribuzioni di pane e vino ai più meschini.
Si dovrà però attendere l’epoca di san Carlo e del cardinal Federigo perché la cifra borromaica
divenga simbolo promozionale di adeguamento religioso e di conformismo devozionale. Illuminanti
sarebbero cognizioni meno generiche sulla conformazione e sui ritmi sociali della Comunità
cannobiese: sappiamo della preminenza di una consistente categoria di ottimati, consapevole di sé e
solidale anche a motivo degli allacciamenti parentali; parecchi i notabili possidenti o commercianti di
pannilani e di pelletterie di produzione locale, benestanti esercenti in olio e vino.
Gli amministratori locali appaiono tutt’altro che illetterati e bastantemente scafati – fossero essi
dei Mantelli o dei Luvati – a fronte dei gabellieri camerali di Arona o degli agenti borromaici in
occasione di quitanze per biade e sale elargite alla gente del Borgo.
Dei tanti oscuri borghigiani o vicini, alcuni emergono dall’anonimato grazie alle loro volontà
testamentarie che piamente aprono col tradizionale e ricorrente lascito di pochi soldi alla fabbrica
dell’erigendo duomo di Milano, immancabilmente raddoppiato per il loro San Vittore; segue
l’obolo all’ospedale di santa Giustina, alla chiesa di sant’Ambrogio, a quella di san Lorenzo degli
Umiliati... E, iniziando già dal 1523, compaiono anche i primi lasciti domui Pietatis seu agentibus
pro ea: di un Lorenzo figlio del fu Zanni Bertolatii, che vuole assegnati 10 soldi al Duomo ed
altrettanti alla “casa della Pietà”; mentre invece un Antonio del fu Giovanni Reschigna raddoppia;
un certo Bartolomeo, detto Bartola, lascia disposizione nel 1525 perché nel sacello della Pietà siano
affrescati, dinnanzi a lui genuflesso, i santi Cosma e Damiano...
Riportiamo questi pochi dati esemplificativi a riprova di come i fatti, che indussero gli astanti
sbigottiti a gridare piangendo “misericordia!”, non lasciarono incertezza alcuna e stravolsero
l’abitabilità della casa (e perché mai “osteria”?) del signor Tommaso de’ Zachei (non abbiamo
ancora appurato a quale dei due rami egli appartenesse: se dei “Cerini” o dei “Peazi”).
Costui dovette, o volle, ben presto sgomberare, di modo che il piano superiore della sua
abitazione fosse trasformato in “casa della Pietà”.
Le citazioni, qui sopra riportate, dei lasciti e degli “agenti per la Devozione” già operanti nel
1523 non lasciano dubbi in merito. Lo comprova peraltro una voce inclusa nell’inventario
dell’«Avere», redatto il 2 maggio 1526 ed incluso nel primo libro confraternale, di cui si è detto
sopra: «item la caxa ne la quale occorseno li miraculi de dicta devotione e ne la quale se fabrica la
giesia sua. La qual caxa era de messer Thomaso de Zachei. Et fu poi comprata per li agenti de ditta
devotione. Et de dinari de essa dal ditto messer Thomasio per pretio de lire ..... como ne appare
instromento rogato per .....».
28
Questa annotazione va integrata con quanto si legge, alla stessa data del 2 maggio 1526, poco
più oltre nella partita dei «Debitori»: « item se retrova Zoan Antonio fiolo del quondam messer
Thomaxio Zaché debitor de la predetta devotione de lire ..... soldi ..... dinari ..... como ne appare
instromento rogato per .....».
Sembra dunque potersi intendere che il Tommaso, non solo abbia ceduto la propria abitazione
perché vi si attrezzasse un primo ambiente devozionale, ma abbia pure elargito agli “agenti per la
Devozione” anche la somma di denaro pattuita per la cessione dello stabile.
I dati mancanti relativi alla somma e al notaio rogante indurrebbero a supporre che le due
operazioni (l’atto formale di vendita e il trasferimento di denaro) non fossero ancora perfezionate al
2 maggio 1526 (quantunque già avviata a quella data «la fabrica della giesia») a motivo del
sopravvenuto decesso del Tommaso; di lui si dice infatti nunc quondam: testé defunto.
Questo particolare è sfuggito all’esimio prof. Aquilino Zammaretti, che va dunque riveduto a
questo riguardo.
Abbiamo però esaurito lo spazio disponibile: per l’assunto principale ci risentiremo prossimamente.
16 (fascicolo N. 8 – ottobre 1993)
Seguendo in filigrana le annotazioni che don Crenna ci offre, pure io richiamo quanto egli stesso sottolinea; non
a caso, ma con consapevole importanza. «Veramente spiacevole sarebbe se si dileguasse presso i Cannobiesi
d’oggi la memoria di come i loro antenati vollero esprimere e tramandare una propria certezza attraverso il
Santuario, e quanto fecero perché il loro disegno si realizzasse».
E dunque, la ricerca è rendere vivo, attuale il “segno” – noi diciamo: il miracolo – per cui gli “antenati” tanto si
adoperarono per la costruzione del Santuario.
Grazie, e avanti... caro Professore!.
Manca di parecchi fogli. Eppure è un buon documento il registro-contabile attivato dai
confratelli della Pietà il giorno stesso in cui si costituirono tali, il 2 maggio 1526. A quella data –
più che altro – fu data veste ufficiale ad un esercizio finanziario, che aveva preso avvio quattro anni
innanzi sotto la pressione di una sequenza sconcertante di episodi, a dir poco, inverosimili, e che si
sarebbe protratto, tra forzate interruzioni e caparbie riprese, fino al 1611, a fabbrica del Santuario
ultimata. E che si fosse puramente trattato di formalizzare un allestimento contabile, sta
esplicitamente enunciato alla prima pagina del registro (integralmente riprodotta nel numero di
luglio del Bollettino).
Vi si legge che verranno trascritti «partitamente»:
a) «tuti li beni et denari et tuto quello è offerto et donato, et che ne lo advenire se offerirà et
donarà; et tuti li crediti et quanto altro intrarà al beneficio et utile de la Devotione de la sanctissima
Pietà» (la partita dell’«avere»);
b) «tuto quello è speso et consumato, et ne lo advenire se spenderà et consumarà al beneficio de
la predetta Devotione» (la partita del «dare»);
c) così pure «se descriveranno li ordini et li cunti saldi de dicta Devotione et sua fabricatione;
et como più amplamente in el presente libro se vederà».
In effetti qualcosa almeno è rimasto delle enunciate registrazioni: a foglio 68 leggiamo
l’«inventario de tuti li denari rittrovati a la Devotione dal dì soprascritto [2 maggio 1526] indretto».
In detto giorno Pietro Mantello, magnifico priore neoeletto, i confratelli a ciò designati signori
Bartolomeo Albertino, Giacomo Poscolognia, Francesco Zanotello e Bernardino Cerreto, assistente
il prevosto di san Vittore e – si noti – «a la presentia de quelli hanno regulato la dicta Devotione dal
dì soprascritto indreto», conteggiarono lire 455 e soldi 6 imperiali, «le quale sono cavate da tute le
casse, zoè a la Devotione de la Pietà, et in sancto Vittore a la Costa», oltre a lire 90 e soldi 14
«cavati da un’altra parte».
All’incirca un totale di 25-30 milioni d’oggi: una somma certamente non entusiasmante entro un
contesto di normalità economica; ma è davvero sorprendente che tanto denaro sia potuto sgorgare da
un assetto sociale – quale si ebbe tra il 1522 e il 1526 – disastrato da requisizioni belliche, con circuiti
mercantili e finanziari messi a soqquadro, tra diffusa carestia e ricorrente pestilenza.
29
Non per nulla ci s’interroga quali ineludibili motivazioni possono aver spinto a tanta oblazione,
su quale spessore di convinzioni si sia sorretta tanta persistenza; ovvero – con ottica inversa – la
ragione di tutto fu un diffuso presagio di oscuri castighi incombenti? e perché mai?
Interrogativi, questi, che – se ci raggiungono – perdono ogni sapore accademico, e ricusano
risposte artefatte. Per un motivo essenziale: protagonista fu la “comunità” di Cannobio; non un
gruppo di invasati o il fanatico di turno, ma tutto un insieme di gente, accomunata da un medesimo
intento, partecipato ed esplicitato dai suoi reggitori – personaggi di rango – e materialmente definito
da quelle quattro mura della “saletta” di casa Zacchei.
“Toccata” dal terrificante passaggio di Dio, a Lui doveva d’ora in poi essere sacra, luogo
sacrificale e d’impetrazione. Questi furono il motivo, la convinzione, il “timore di Dio” di tutti a
Cannobio, a datare da quel mercoledì 8 gennaio 1522.
Proviamoci infatti a penetrare il senso di quelle poche parole annotate a margine delle
succitate 455 lire e 6 soldi: «le quale furono poi prestate alla Comunità di Cannobio, et da lei anco
restituite».
Perché non affidarle all’ufficialità ecclesiastica del prevosto e del Capitolo di san Vittore?
Perché la Comunità, subentrando, supplisce anche gli “agenti” della Pietà, i più ovvii custodi delle
offerte devote?
Più oltre leggiamo:
«a dì 26 de zugno [1526] cavato da la casseta de la Pietà» (nella ex casa degli Zacchei) 61 lire
più gli spiccioli di 1 soldo e 3 denari;
«a dì 21 luglio [successivo] tolto fora de la casseta [c.s.] lire 6 soldi 2 denari 9»;
«e a dì 17 novembre 1526 tolti da la casseta in Sancto Vittore posta per la oblatione alla Costa
de la Pietà lire 5 soldi 10, e a dì dicto tolte dalla casseta de la Pietà [nella ex casa degli Zacchei] lire
83 soldi 4».
Un esplicito orientamento devozionale ed un inequivocabile pronunciamento che si ripete:
«a dì 12 magio 1527 tolti fora da la cassa a la Pietà lire 55; e a dì detto tolti da la cassa in
Sancto Vittore lire 10».
Veramente spiacevole sarebbe se si dileguasse presso i Cannobiesi d’oggi la memoria di come i
loro antenati vollero esprimere e tramandare una propria certezza attraverso il Santuario, e quanto
fecero perché il loro disegno si realizzasse.
Un’ulteriore prova che diremmo “visiva”, tant’è intrisa di colore d’epoca, ci viene fornita al
foglio 60 del medesimo registro: «Inventario de tuti li beni mobili et immobili et crediti rittrovati a
la Devotione predicta, dal dì soprascritto [2 maggio 1526] indretto».
È quanto di meglio potessimo rinvenire onde capacitarci e documentarci su come fosse radicato
ed esteso tra la gente del Borgo il fenomeno di quel loro singolarissimo unanimismo.
«Rittrovate ne la cassa de dicta Devotione quale è missa a loco de l’altar», per una iniziativa
evidentemente invalsa da tempo e da tutti condivisa, stanno elencate le cose donate in
surrogazione delle offerte in denaro, rese allora problematiche anche dalla scarsità di moneta
circolante. Poste all’incanto, esse avrebbero potuto comunque fruttare alla Devozione una loro
equivalenza di liquido.
Descritti nell’inventario sono i più disparati capi di vestiario: maniche (parti di abbigliamento
allora intercambiabili) per abiti femminili e maschili, corsaletti, gorgiere, cuffie, copricapi, veli,
ricami, passamanerie, pezze di tela, tovaglie e tovaglioli, fazzoletti (addirittura 487!), sottovesti. Il
tutto in vario tessuto: velluto, zendado, damasco e broccato, drappo serico e tocca intessuta di filo
d’oro e d’argento... fino alla più umile terzanella.
E poi tanti oggetti d’oreficeria: anelli d’oro e d’argento con incastonatura d’ambra e di granati,
collane di corallo, di perle e di perline legate in metallo prezioso, braccialetti, pendagli ed
orecchini... Agnus Dei in argento.
Un campionario di costume e di stili, dai «corenzini [corpetti] dui di seda del tempo vechio» ai
«sugacapo tre a la Palavicina».
Il tutto poi, per ogni garanzia, «reponuto nel cassono de le tre ciave», in attesa che fra’
Bartolomeo lo vendesse all’incanto.
30
Un piccolo esempio: «1527 a dì 12 de mazo [maggio]. Nota como de le robe soprascritte sono
vendute le robe infrascritte, zoè sugacio 6, fodreta 1, tovaglie 4, paneti 11 et bareta 1 de homo. Tute
vendute per pretio in tuta soma de lire 14 soldi 1». Il che significa oltre 500.000 delle nostre lire.
Stupefacente!
Meritano però ogni nostra attenzione i primi quattro fogli del registro, fittamente scritti e siglati
col segno notarile di Bartolomeo Albertini. Leggendone il contenuto, ben si comprende quanto
intenzionalmente siano stati lì collocati perché facessero da apertura alla vicenda della fabbrica
della Pietà...
17 (fascicolo N. 9 – novembre-dicembre 1993)
Don Crenna ha ripreso in mano la trivella e approfondisce la ricerca.
Sì, perché il “Fatto” inizialmente produsse sconcerto, poi entusiasmo tale che non si sopì nel volger di poco
tempo, anzi sorse tosto la preoccupazione su chi doveva provvedere alla “saletta del miracolo” per trasformarla
in luogo di orazione: il Prevosto con il Capitolo o gli “Uomini” del Borgo?
La Curia intervenne, inviando mons. Ladino. E là dove è avvenuto il miracolo, presso piazza Baciocchi, si stabilì
che dovesse sorgere il Santuario, proprio dove stava la casa dei notabili Zacchei (notabili, altro che semplice
locanda di un umile oste!).
E la trivella con ritmo costante continua a penetrare.
Poniamo che sia accaduto qualcosa di grosso: chi ha visto di persona sa tutto; ma i tanti altri,
che non erano presenti, smaniano di sapere come è andata. Si ricorre dunque alla cronaca: più è
dettagliata e circostanziata, meglio ci si persuade che il fatto riportato è veridico. Non molto dopo,
la cosa finisce per essere risaputa e vien data per scontata: per ciò stesso circostanze e dettagli
appaiono superflui; ciò che ormai conta è il nocciolo.
E qui cominciano i guai, perché ci si ritrova a raccontare un fatto “storico”, di sua natura
emotivamente svuotato, e quindi bisognoso di essere rivitalizzato con infiorescenze ed
“invenzioni”. Nel senso cioè che crediamo doveroso ricorre a “trovate”, atte a ridestare almeno
momentaneamente la curiosità.
Concludendo: all’originaria smania di certezza è subentrata la fabulazione, che sicuramente è la
più indicata per generici sentimentalismi...
Come se quei Cannobiesi di cinquecent’anni fa si fossero prodigati per oltre un secolo a mettere
su un santuario al solo scopo di favoleggiare con i loro pronipoti!
Proprio per il dovuto rispetto alla loro memoria, riportiamoci agli inizi e studiamo con
attenzione le loro mosse: possibilmente una cronaca documentata, non un pio racconto.
Dicevamo, nell’ultima “puntata” di questa ministoria del Santuario apparsa nel bollettino
dell’ottobre scorso, che il primo registro contabile (ufficialmente iniziato il 2 maggio 1526 dalla
neo-confraternita della Ss. Pietà) si apre con due rogiti, muniti di autentica tabellionale del notaio
Bartolomeo de Albertinis, datati rispettivamente al 21 aprile ed al 1° maggio di quell’anno.
Tale inserimento documentario ci risulta tutt’altro che casuale: è una palese impostazione di
princípi, che due parti contrapposte (prevosto con Capitolo di San Vittore e Deputati a rappresentare
la Comunità) hanno concordato in due tempi distinti (un’assemblea in San Vittore e una convocazione
del Consiglio Generale del Borgo nella casa della Comunità). E proprio i verbali di questi due incontri
sono stati ritrascritti, integralmente ed autenticati, sulle prime pagine del registro contabile.
Il compianto prof. Aquilino Zammaretti ne ha dato la traduzione in lingua italiana, non
completa ma sufficiente, nel suo Il miracolo di Cannobio e le sue reliquie (1967), ristampato con
aggiunte dell’A. a cura della Società storica novarese nel 1987.
La divergenza tra dette parti era di per sé inevitabile, perché già contrapposte in terminis erano
l’ottica clericale e quella del laicato cannobiese. Si ritenevano legittimati – prevosto e Capitolo – di
monopolizzare da allora in poi, in ogni suo aspetto, una vicenda originata nientedimeno che da un
miracolo del Signore; in ciò opponendosi i notabili di Cannobio, anche perché autorevolmente
responsabili di un Borgo direttamente visitato dall’Onnipotente entro le mura di casa di uno di loro.
31
Volessimo inacidire un tantino la faccenda, dovremmo dire che su un versante stava la
previsione di una non indifferente quanto inattesa integrazione beneficiale a base di lasciti, di
elemosine a vario titolo, da non mollare; sia pure con tutto l’ossequio dovuto ai reconditi disegni
della Provvidenza; dall’altro versante – noblesse oblige – vi replicava contro, con uno spunto di
demagogica intraprendenza, il ceto locale più accreditato, messo in allarme e smanioso di
aggiustare i conti col buon Dio dopo gli indecifrabili messaggi da Lui inviati dalla casa del signor
Tommaso Zaccheo.
Ma veniamo ai fatti, enunciandoli nella loro naturale sequenza.
Dalla sera dell’8 gennaio 1522 presero inizio a Cannobio quelle strane cose ormai note a tutti
per tradizione. A sbigottimento, commozione, curiosità, seguirono le prime risoluzioni: un comitato,
una raccolta di fondi per trasformare la “saletta del miracolo” in un luogo di orazione. Lì era
rimasto il quadruccio della Pietà. Tutto il resto stava altrove, depositato in San Vittore: una
bilocazione estemporanea, però inopportuna e fastidiosa. Infatti nella Vicinía, in riva al lago, si
stava formando un polo devozionale, decentrato e concorrente, inviso ai rappresentanti locali della
Chiesa ufficiale, sebbene fosse sempre più gradito alla gente del Borgo; a tal punto che si andava
progettando, non appena fossero cessate pestilenze guerre e carestia, la fabbricazione di un sacello a
regola d’arte, ove ricollocare ciò che per emergenza era stato riposto in San Vittore. Ma a tale
riguardo gli inghippi da frapporre stavano sottomano ed erano tutti legali: qualora si realizzasse il
detto oratorio, chi provvederà alla decenza del luogo sacro? alle suppellettili indispensabili per i riti
liturgici? alla retribuzione degli officianti? alla manutenzione delle cassette per le elemosine? alla
registrazione dei lasciti?
La casistica canonica poteva nel merito divenire, volendo, debitamente inesauribile.
Innanzi che i cavilli ostruissero il passo – sta scritto nel primo dei due rogiti – una delegazione
Communis et hominum dicti Burgi et plebis (dunque ufficialmente laica) raggiunse Milano, onde
conferire col reverendo signor Ruffino de Belingerijs vicario generale di Ippolito d’Este
arcivescovo di Milano (che, sia detto per inciso, eletto alla sede ambrosiana mai vi mise piede, dato
che a quei tempi i grandi ecclesiastici usavano anche comportarsi così).
Venne cioè contattata quella stessa personalità che aveva fatto rogare dal notaio Bartolomeo de
Albertinis il 25 di gennaio e dal 3 al 5 di febbraio (all’indomani dei fatti miracolosi) le prime
testimonianze oculari, e che aveva poi formalmente emesso un giudizio positivo sulla loro
veridicità: dicta miracula et signa esse vera, e perciò meritevole di summa veneratione l’immagine
della Pietà.
Ma la lugubre insopportabile trilogia dell’epoca – guerre peste e carestia – s’interpose fiaccando
progetti ed iniziative per alcuni anni, durante i quali ci si ritenne fortunati di sopravvivere, dato che
vix suppetant facultates ad vitae necessaria.
A tal punto che la Giustizia celeste apparve pesare assai, a giudizio di tutti: fu determinazione
comune nel Borgo che quel progettato sacello in casa Zacchei andava fatto, onde riconciliare un Dio
tanto corrucciato; e questo per il bene comune, e di anima e di corpo. Ovvero, detto in un latino facile
facile: non solum ad salutem animarum, sed etiam ad commodum et utilitatem bonorum et
tranquilitatem et securitatem personarum.
Ma stavolta non si fece più anticamera nel vescovado di Milano: che invece fosse il nuovo
vicario generale, il dottor d’entrambe leggi Giovanni Maria Tonso, ad intervenire di persona, perché
con prevosto e Capitolo mettesse una buona volta in chiaro dove mai si volesse collocare quel
sacello, da tutti gli altri voluto nel luogo del miracolo, e quant’altro annesso e connesso fosse da
stabilirsi ancora: et etiam circa quaecumque alia dependentia, connexa et emergentia.
E la Curia milanese si mosse. Non il vicario generale, pluribus impeditus negotiis, ma, da lui
delegato il 2 marzo 1526 con poteri discrezionali, monsignor Francesco de Ladinis, vescovo titolare
di Laodicea e “suffraganeo” della sede milanese.
Costui, procedendo con piedi di piombo, s’abboccò un po’ con tutte le parti in causa: dal
feudatario conte Ludovico Borromeo al prevosto coi suoi canonici, ai più in vista “uomini” del
Borgo. Et multa hinc inde fuerunt dicta et proposita: il che significa che ci fu un gran parlare in cui
tutti dissero la loro.
32
Ma, tirate le somme (e questo va tenuto ben presente al momento di trarre noi valutazioni
conclusive) l’elemento – l’unico – che fece presa e indusse monsignor Ladino a sentenziare fu quel
propensum et religiosum animum et accensum affectum dictorum hominum ad dictum sacellum
erigendum in loco predicto in quo dicta miracula effluxerunt. Alla faccia di chicchessia! Licenza
e facoltà ai rappresentanti della Comunità ed alla gente del Borgo, di farsi – che se lo meritano! –
il Santuario, là sulla riva del lago, presso piazza Baciocchi, dove sta la casa dei notabili Zacchei,
perché là è avvenuto il miracolo, ed è giusto che in tale luogo siano rese grazie a Dio ed alla
Beata Vergine. (continua)
18 (fascicolo N. 1 – gennaio-febbraio 1994)
Ho letto e riletto l’articolo provando in corpo una certa goduria mentre gli occhi strabuzzati erano fissi sulle
pagine; ma, allora, tutto da rifare?
Tutto proprio no. E subito mi sono aggrappato alla parola ultima: continua!
Per sapere che altro ci riservano le vecchie scartoffie – si fa per dire – di don Crenna.
Zaccheo oste suocero di messer Antonio Omacino?
L’osteria sta diventando un salotto di persone aristocratiche, di quelle che contano!
Coraggio, Professore; continui, continui...
Remore ed obliquità furono messe fuori causa dalla risoluzione autorevole del delegato
arcivescovile monsignor Francesco Ladino.
Su di lui avevano fatto presa essenzialmente le ferme determinazioni degli uomini del Borgo, ai
quali dunque in quel 26 aprile 1526 veniva ufficialmente consentito di trasformare la residenza
degli Zacchei in sacello e chiesa, a tutti gli effetti purché in debita forma.
Era quanto essi si attendevano da almeno tre anni. Lo attesta esplicitamente la dizione di domus
Pietatis, “casa della Pietà” o “Devozione”, impiegata già dal 1523 nei rogiti notarili dei primissimi
lasciti, per indicare la casa di Tommaso Zaccheo.
Per lui infatti il “miracolo” equivalse praticamente ad un esproprio; né poteva essere altrimenti,
conoscendo l’ubicazione della saletta degli eventi miracolosi.
A questo locale, adiacente alla camera da letto dei padroni di casa, si poteva accedere mediante
un “corridore”, entrando dall’attuale piazzetta del Santuario, cioè dal lato posteriore dell’edificio.
Oppure, venendo dalla parte del lago, si entrava nella cucina del piano terra, e lì una scala interna,
comunicante con i piani superiori, dava accesso direttamente alla saletta soprastante, per l’appunto
supra caminatam.
Caminata stava ad indicare il locale fornito di camino, detto anche “stanza da fuoco” o coquina.
Lo Zammaretti, per l’assonanza con “camminare”, erroneamente tradusse con “corridoio”.
Era praticamente impossibile – data la sua collocazione – isolare quella saletta dal contesto
abitativo; e divenne insostenibile, già dal primo giorno del “miracolo”, un normale ménage
famigliare, spiazzato com’era dal viavai di oranti, curiosi e pellegrini.
I proprietari di casa dovettero risolversi ben presto a sgomberare; se vogliamo, era anche
raccapricciante abitare là ove, sotto gli occhi di tutti, un riquadro di membrana animale, una
pergamena dipinta con l’effigie di Cristo in Pietà tra la Madonna e S. Giovanni ripetutamente si era
messa a grondare sangue ed acqua, e poi a buttar fuori nientedimeno che una costola in miniatura.
Per buona sorte –si fa per dire – il gruppo famigliare degli Zacchei non finì sul lastrico, sfrattato
dal Padreterno, né il capofamiglia si trovò equiparato ai cassintegrati a zero ore a causa della cessata
attività di quell’osteria che una fasulla tradizione gli ha affibbiato.
Da tre rappezzi imbastiti alla buona n’è sortita infatti questa arlecchinata: 1) mercoledì sera 8
gennaio Tommaso Zaccheo ha ospiti in casa; 2) il giorno successivo è mercato a Locarno; 3) uno
degli ospiti testimonia d’essersi recato il giovedì 9 a detto mercato. Dunque: lo Zaccheo è un oste
con tanto di osteria alloggio e stallazzo, comoda sosta per il pernottamento di chi il giorno dopo
intenda recarsi al consueto mercato del giovedì a Locarno.
33
Così fu combinata un’autentica insolenza storica ai danni d’un casato di rango, dotato di larghe
disponibilità, e di parentado e di sostanze, sicuramente schifiltoso come tutti gli altolocati del
tempo, ma addirittura schifato alla sola supposizione degradante di rendere servigio ad avventori di
bettola con annessi e connessi.
Può darsi che, rovistando tra le carte dei notai cannobiesi, ci si imbatta, prima o poi, nel nome
di Tommaso Zaccheo, onde appurare se costui sia stato un aristocratico bordato di redditi
patrimoniali o piuttosto un facoltoso borghese affermato nel settore della mercatura o della finanza.
Ma un dato è fin d’ora incontestabile: né lui, né la moglie – la domina signora Elisabetta – né la
loro casa, ebbero mai a che vedere con osti ostesse e osterie.
Per prima cosa, in aderenza con le deposizioni testimoniali d’allora, riportiamo alla loro precisa
identità gli “ospiti” di quel mercoledì 8 gennaio 1522.
Raccolto nel tepore della caminata di casa indugia il gruppo dei famigliari, sebbene il signor
Tommaso (da qualche tempo ormai è suonata l’Avemaria) si sia già accomiatato ritirandosi in
camera, al piano superiore: si trattengono invece la signora Elisabetta con le due figlie minori, la
tredicenne Antognina e la piccola Bernardina; l’Antognina già nutrice delle bambine; il genero Gio
Antonio de Carmeno figlio del dominus signor Pietro, con il cognato Stefano Ferrario figlio di
Tommasino de Portu di Traffiume, suo sororio perché marito della sorella; un conoscente senza
particolari qualifiche, certo Dumnino di Cavaglio, che non verrà poi neppure citato come testimone
dall’inquirente arcivescovile.
È evidente che costoro non hanno un ruolo di generici avventori.
Poi d’un tratto le grida della figlia Antognina, lo scompiglio in casa e per tutta notte, col
ripetersi dei fatti sconcertanti, il trambusto della gente che accorre dalle case vicine.
Qui occorre mettere a fuoco il comportamento di due personaggi: il suocero e il genero.
Il giovane Gio Antonio fa le ore piccole (fino “alla quinta ora di notte” ed oltre) nel verificare
cum lampade accensa il rosseggiare di ferite stillanti umori sanguigni dal quadruccio della Pietà.
Una nottataccia, anche per lui – a dir poco – stressante, trovandosi d’improvviso trasferito in una
dimensione surreale, ove l’aggressione emotiva è pari allo sconcerto razionale.
Però se ne distoglie, muovendosi di buon’ora per raggiungere il mercato di Locarno. E ciò
sorprende, non tanto per il tragitto in barca (consentendolo gli sbuffi di Tramontana o le folate del
Valmaggino) o sulla ghiacciata strada costiera: suppergiù sono 18 chilometri di percorso, sia
remigando sia cavalcando, non piacevoli ai primi di gennaio.
Ciò che veramente colpisce è l’incongruente suo trasferimento dal miracolo alle bancarelle.
L’ibrido accostamento tra questi due ordini di cose tanto sproporzionate tra loro riesce plausibile
soltanto ad una condizione: che fossero in gioco interessi consistenti ed indilazionabili. Trova allora
spiegazione anche quel conciliabolo famigliare della sera innanzi, e così pure il comportamento del
capofamiglia, che a tutta prima appare assai strano.
È già coricato quando le invocazioni della figlia lo fanno trasalire; accorre nella saletta e
constata trasecolando ciò che sta accadendo, per più di un’ora, noncurante di farsi trovare in
camisia al sopraggiungere dei vicini di casa.
Finché, rabbrividendo dalla testa ai piedi, si ributta sotto le coperte. Ma per poco tempo,
aliquantulum: un grido «Videte la Vergine Maria che alza la mane, et santo Giovanne buta aqua
dalli ogi» lo fa balzar fuori nuovamente. I presenti si accalcano sotto il quadretto miracoloso perché
nessuno di loro vuol perdere di vista per un solo istante ciò che sta accadendo. E lui, il padrone di
casa, è alle spalle di tutti, non può osservare come vorrebbe, et tunc reversus fuit in lectum. Proprio
così: se ne torna a letto!
È forse un comportamento strano? Lo si può escludere se si pensa che il signor Tommaso, oltre
a sentirsi scosso e frastornato per ciò che capitava in casa sua, tentò, almeno prima che albeggiasse,
di prendersi quel minimo di riposo indispensabile per poter sbrigare con sufficiente lucidità i suoi
affari al mercato di Locarno.
Surrexit in mane diei Jovis, si rimise in piedi al levar del sole per porsi in viaggio col genero...
Non ce la fece? Fu sconsigliato dai famigliari perché non s’assentasse? proprio mentre entrava in
casa anche la gente del Borgo, sia dalla via di Santa Giustina, sia dal lungolago.
34
A Locarno andò il genero; all’imbrunire era già di ritorno, proprio mentre altri “segni” ancor
più impressionanti stavano per comparire.
Chi era dunque Tommaso Zaccheo? Un signore in grado di assegnare all’ultima sua figlia
Bernardina, sopra citata, una ragguardevole dote nuziale di 550 lire imperiali (arrotondando, 30
milioni attuali) che, stando ai parametri della legittima solita riservarsi alle ragazze nubili, era pari
ad un ottavo o ad un sesto del reddito annuo del patrimonio di casa.
La “nobile madonna Bernardina Zachea” andava sposa (correggiamo qui un errore del prof.
Zammaretti) al “magnifico messer Antonio Omacino”, con cui generò il figlio Giacomo, poi “dottor
di leggi e uno dei Regi Vicari Generali del Stato di Milano”.
Non è la fiaba di Cenerentola: più prosaicamente, un dato storico in più per rimettere in auge il
denigrato Tommaso Zaccheo & C.
(continua con la puntata 23 nel fascicolo N.1 – gennaio-febbraio 1995)
23 (fascicolo N. 1 – gennaio-febbraio 1995)
Per una storia del Santuario
Per chi vuol saperne di più…
Don Crenna non si rassegna. Avendo posto mano alla Storia del Santuario, con puntiglio lavora un po’ con la
trivella e un po’ con lo scandaglio.
Il lavoro è ancora lungo, a meno che gli arrida un colpo di fortuna. Per lui e per noi.
Grazie; buon lavoro, Professore.
Il 1922, anno centenario del Miracolo della Ss. Pietà, non è poi così confinato nel passato;
d’altronde a Cannobio si respira aria buona, il che senza dubbio deve aver contribuito a far durare in
vita chissà quanti di coloro che hanno memoria di come sia stata allora celebrata la ricorrenza dell’8
gennaio 1522.
Il numero unico celebrativo del quarto centenario, allora stampato con l’approvazione
dell’autorità ecclesiastica dalla tipografia Alganon di Arona, trasuda l’enfasi di un proclama: «Il
Borgo di Cannobio riprende il suo ritmo di gloria... sulla scia luminosa delle orme degli avi... del
suo sangue romano... della sapienza dei suoi statuti, del valore delle armi... È un’improvvisa aurora
che tinge il suo cielo deserto, tra mille e mille voci che giungono da ogni lembo d’Italia. Che sono
queste fiumane di popolo che dalle navi pavesate a festa sbarcano su questo lido? Uno solo è il
grido, uno l’osanna e il fremito: al tempio, al tempio del Sangue di Cristo!».
Con l’irruenza provocatoria di un’aperta sfida fa seguito un interrogativo: «Chi osa corrugar la
superba fronte e atteggiar il viso ad un cenno di incredulità? Chi sperduto nei sofismi di una
filosofia che pesca per lo ver e non ha l’arte potrebbe rinnegare l’opera di Dio?».
Ma siccome esiste un proverbio che dice “scherza coi fanti e lascia stare i santi” riteniamo
lecito, senza pervicacia alcuna, fare i guastafeste proprio al riguardo delle affermazioni pedestri
(trattandosi di “fanti” ) di chi, scrivendo allora con eccesso di entusiasmo e di zelo, non ha “pescato
per lo ver”, bensì ha fatto una gran confusione.
È pure questo un modo, forse incolpevole ma certamente colposo, di “rinnegare l’opera di Dio”.
Leggiamo infatti nel sopracitato foglio commemorativo: «O umile casetta di Tomaso de
Zacchei, imporporata del sangue miracoloso di Gesù!... Nella casetta facevasi osteria, ed essa
apparteneva a certo Tommaso, la cui famiglia era formata dalla moglie Elisabetta e da due figlie, di
cui la maggiore, Bernardina, era sposata a Gio Antonio de Carmine, e la minore, per nome
Antonietta, era ancora una fanciulla sui tredici anni».
35
E lì, quella sera dell’ 8 gennaio 1522, «stavano riscaldandosi al caminetto alcuni avventori e
discorrevano [oibò! non riusciamo a ravvisarvi l’osteria, bensì un’agenzia ANSA] della miseria dei
tempi, della pestilenza che s’annunciava in diverse parti d’Italia, della nomina del nuovo Papa
Adriano VI, successo a Leone X, e della guerra che si svolgeva nel Milanese, ove stavano di fronte
Lautrec capo delle truppe franco-svizzere e il Marchese di Pescara e Prospero Colonna, capi
dell’esercito imperiale».
L’audacia fantasiosa del cantastorie raggiunge addirittura livelli da capogiro poco più oltre,
quasi non gli bastasse, per spiazzare la sana ragione, il racconto di ciò che sarebbe successo di lì a
poco (imputabile, questo sì, al buon Dio!): eccoti infatti la «beata fanciulla Antonietta, che prima
vedesti il grande prodigio e lo gridasti ai parenti», alle prese con acciarino, stoppino di candela e
maligni spifferi, per tre volte (non due e non quattro!) affaccendata su e giù per le scale, dal piano
terra alla saletta superiore, ogni volta col cero acceso che poi le si spegne, inspiegabilmente, dato
che le finestre di casa sono tutte chiuse. Stenta a capire la poverina... perché ha soltanto tredici anni!
Ma poiché deve forzatamente raccapezzarsi che sta per accadere il miracolo, una forza
misteriosa taglia corto e «l’afferra per i capelli e la costringe a guardare alla parete di fronte, dove,
in alto, sta appesa una tavoletta».
E quella grida finalmente, non per i capelli strappati, come vorrebbe la logica, ma per ciò che
vede, eccetera eccetera.
Una barocca e ripugnante ingegnosità miracolistica non suffragata da alcuna autentica
testimonianza d’epoca, che non regge l’animo di ricondurre al concetto di Dio.
È piuttosto l’introversione di un devozionismo scaduto a populismo.
Inoltre, occorre purtroppo mettere in chiaro anche gli svarioni causati da indubbia faciloneria
nel leggere criticamente i documenti.
Ne riportiamo qui alcuni contenuti nei brani riportati dal citato fascicolo celebrativo del 1922:
– Tutt’altro furono sia la “povera casetta”, sia
quel “certo Tommaso”, e tanto meno si trattò di
osteria con dentro lui in qualità di bettoliere.
– Il Gio Antonio da Carmine fu tutt’altro che un
Pinco Pallino di quella terra, e tanto meno si coniugò
a Bernardina Zacchea.
– Gli avventori di quella sera non erano abituali
briscolanti, sebbene siano stati fabulosamente
accreditati di alati discorsi sul vivere del gran mondo.
– La ressa di curiosi accorsi nella saletta di casa
Zaccheo alla sera dell’8 gennaio e poi ancora nei
giorni successivi non fu un indiscriminato andirivieni
di gente.
Quanto basta per concludere che le incrostazioni
fabulatorie e le sedimentazioni sentimentali,
quantunque siano di pronto effetto, vanno rimosse:
sono fuori luogo, semplicemente perché prive di
fondatezza storica.
E per rispetto al buon Dio, o quantomeno alla
nostra intelligenza, la veridicità va ricercata nei
documenti, a cominciare da quella prima
verbalizzazione ufficiale delle testimonianze rese il
sabato 25, cioè ancor prima che finisse quel fatidico
mese di gennaio, diremmo “a botta calda”.
Prima pagina dell’Istrumento
dei miracoli 25 Gennaio 1522
36
24 (fascicolo N. 3 – aprile 1995)
Ha fatto bene don Crenna a riproporci la testimonianza di Tommaso de Zacheis (e mi pare che voglia continuare
con altre). L’esposizione è fatta con semplicità, senza forzature e infingimenti. Leggiamola con attenzione, senza
pregiudizi. Ci aiuterà a conoscere l’evento della Santa Pietà in modo più personale, più vero; e non per sentito dire.
Rifacciamoci al recente caso della “Madonnina di Civitavecchia” lacrimante sangue. Alla pari
di ogni fatto imprevisto, ci ha stupito; non rientrando esso nella norma, chi ha potuto è accorso sul
luogo per meglio constatare, e – per la curiosità di tutti gli altri – si sono moltiplicati interviste,
servizi fotografici, reportages giornalistici e informazioni televisive. Si è giunti pure alle
inchieste da parte della magistratura e agli accertamenti sulla base di analisi del DNA. Il tutto tra
immancabili riverberi di devozione, credulità, dubbio e scetticismo, a seconda delle qualifiche
interiori di ciascuno.
Proviamoci dunque a supporre come si vedrebbero i fatti “miracolosi” di Cannobio, se, anziché
nel 1522, accadessero ai nostri giorni: intendiamo riferirci a quelle ripetute lacrimazioni, nonché
alla fuoruscita di una costola miniaturizzata e sanguinolenta, dalla sottilissima pellicola di colore
che servì a dipingere, su quel riquadro di pergamena, le figure di Cristo “in pietà”, della Vergine e
di S. Giovanni.
Roba da scoraggiare anche il più ostinato
bigotto! Tranne che (cosa talmente assurda da
risultare insostenibile per le nostre facoltà mentali)
non ci riuscisse di equivocare su quanto avviene
proprio sotto i nostri occhi... può anche darsi che ci
rifiuteremmo di guardare in tale direzione.
Dobbiamo ammettere che assai poco
scomodante e praticamente innocuo è invece il
“racconto” del miracolo della Pietà, distante com’è
di secoli e imbastito con personaggi stinti su un
fondale illanguidito.
Si tratta comunque di uno svilimento
inammissibile per la storia, che, come tale, rivendica
quanto meno la veridica ricostruzione di ogni
accadimento attraverso la validità delle testimonianze
documentarie.
La storia si avvale di un dato inoppugnabile:
l’efficienza della mente umana si dimostra costante
lungo tutti i tempi cosiddetti storici. In termini più
coinvolgenti: i borghigiani di Cannobio nel ’500 non
erano di certo o più ritardati o meno scaltriti di
quanto non lo siano i cittadini d’oggi.
Ultima pagina dell’Istrumento dei Miracoli
Se ci provassimo dunque a riprendere in considerazione direttamente le dichiarazioni di quei
trapassati testimoni, così come attualmente leggiamo le interviste di Civitavecchia e dintorni?
Valutando cioè la presumibile veridicità di chi le rilascia e l’autorevolezza di chi le rileva.
Ovviamente la precedenza va data a coloro che a Cannobio sono stati testimoni oculari, a
cominciare dal padrone di casa, quel signor Tommaso de Zacheis, notabile facoltoso, coniugato con
la signora Elisabetta del casato dei Luati, altrettanto notabili e danarosi imprenditori nel settore
della lavorazione del cuoio (si tenga presente che ancora a quell’epoca si trattava di una materia
prima, addirittura strategica in ambito militare).
37
Attenendoci strettamente all’originaria stesura latina, traduciamo qui in linguaggio a tutti
intelligibile la deposizione del primo testimone, che fu convocato nel
«giorno di sabato 25 del mese di gennaio 1522, in presenza del reverendo signor prete Gabriele
de Tremedio prevosto della chiesa di S. Vittore di Cannobio, del magnifico dottore in leggi signor
Simone Enrigheto podestà di detto borgo di Cannobio e Pieve, entrambi ivi deputati dal reverendo
signor Rufino Bilingerio vicario della curia arcivescovile di Milano mediante lettere del corrente 15
gennaio nei termini ivi ampiamente descritti. Il signor Tommaso de Zacheis figlio del fu signor
Filippo, abitante del borgo di Cannobio, presentatosi come testimone, invitato da detti signori
deputati a rispondere in modo veritiero alle interrogazioni che gli saranno rivolte, ha giurato di farlo
nelle mani di me notaio Giovanni Antonio de Albertinis.
E in primo luogo richiesto di esporre con verità ciò che sa e ha visto circa i miracoli riscontrati
ed accaduti nei giorni precedenti nella sua casa di abitazione, nella piccola tavola, su cui è dipinta
l’immagine della B. V. Maria sulla destra, l’immagine di N. S. G. C. in pietà (nel mezzo dello
stesso quadretto) e (sulla sinistra) l’immagine di S. Giovanni Evangelista, ha testificato sotto suo
giuramento, ha risposto e detto che mercoledì 8 del corrente mese di gennaio, verso le ore venti
(circa horam secundam noctis), mentre stava a letto nella stanza di detta sua casa di abitazione
posta in riva al lago, di sua esclusiva proprietà, udì Antognina, figlia sua, di circa tredici anni, che
chiamava la signora Elisabetta, sua madre e moglie del testimone, dicendo queste o simili parole “O
Matre, corete che la nostra Donna et messer Jesu Cristo et sancto Joanne piangeno sangue”. Udito
tale grido, il teste si alzò dal letto e venne nella saletta in cui stava detta figlia e detto quadretto. E
similmente vi erano detta signora Elisabetta sua moglie, Giovanni Antonio de Carmeno suo genero,
un tale detto “el feraro de Transflumine” (parente di Giovanni Antonio) ed un altro uomo, di
Cavaglio, Pieve di Cannobio, ed anche Antognina, già nutrice dei figli del teste, tutte persone che in
quel momento si trovavano nella sua casa.
E immediatamente il teste vide che dette immagini stillavano sangue soprattutto dagli occhi.
Volendo osservare meglio, montò sulla cassapanca che stava sotto il quadro, facendo luce con una
candela accesa, e vide l’immagine della B. V. Maria che aveva l’occhio destro arrossato da sangue
vivo; e anche dall’occhio sinistro stava per sgorgare una grossa goccia, pure di sangue vivo.
Anche l’immagine di N. S. G. C. stava emettendo sangue vivo dagli occhi e dalle ferite del
costato e delle mani. Ed anche l’immagine di S. Giovanni Evangelista aveva gli occhi pieni di
sangue, non così rosso, ma apparentemente misto ad acqua. Osservando tutto ciò, gli astanti sopra
citati, compreso il teste, si misero a gridare piangendo “Misericordia!”.
Attratti dalle loro grida, accorsero parecchie altre persone del vicinato, tra le quali Cesare de
Baciochis, Battista Perolini, Innocenzo Monaci e mastro Petrino de Tassanis, il reverendo signor
Raffaele de Castiliono, un figlio del signor Minale de Tattis, il signor prete Giovanni Antonio de
Mazironibus, il signor prete Matteo de Poscolonia, oltre a parecchi altri, dei quali il teste al presente
non ricorda i nomi. E mentre stavano lì, per un’ora circa, egli vide che dall’occhio destro
dell’immagine della B. V. una goccia di sangue era scesa lungo la guancia, come pure quella goccia di
sangue, che egli aveva notato sporgere dall’occhio sinistro, era scesa giù lungo le guance. E parimenti
vide l’immagine di Gesù Cristo di nuovo rosseggiare di sangue vivo dagli occhi e dalle ferite.
Il teste, dopo aver osservato questi fatti, poiché indossava la sola camicia e sentiva freddo,
ritornò a letto, ma dopo breve tempo udì quelli che si trovavano nella saletta gridare di nuovo
“Misericordia!”, per cui si levò nuovamente, tornò di là e sentì dire dagli astanti e soprattutto da
coloro che più erano prossimi al quadretto “Videte la Vergine Maria che alza la mane et santo
Giovanne buta aqua dalli ogi”. Al che il teste cercò di avvicinarsi al quadretto per vedere anche lui,
ma non vi riuscì a causa della ressa delle persone lì accorse. Allora tornò a letto e vi rimase fin
verso l’aurora del giovedì. A quell’ora (tra le 5 e le 6) rientrato nella saletta, notò che quelle antiche
figurazioni apparivano nitide come fossero appena ridipinte, mentre sua moglie e gli altri che erano
rimasti lì tutta la notte gli dicevano che verso la mezzanotte (circa horam quintam vel sextam
noctis) la figura di Gesù Cristo era apparsa in rilievo a guisa di corpo vivo, con occhi ferite e segni
della flagellazione pieni di sangue vivo.
38
Questo è quanto lui sa dei fatti straordinari di quella prima notte.
Parimenti il teste ha detto e attestato che in quello stesso giovedì, verso le sei di sera (circa
horam primam noctis), mentre stava nella cucina (in caminata) della sua casa, posta al pianterreno
sotto la saletta, udì gridare “Misericordia!” da coloro che là si trovavano. Egli corse sopra e vide la
tovaglia, che stava stesa sulla cassapanca sotto al quadretto, macchiata da parecchie gocce di
sangue, ed era macchiato anche un fazzoletto lì posto. Inoltre proprio sulla tovaglia vide una piccola
costola sanguinante che gli parve trattenesse residui di carne viva e sanguinolenta.
E notò sulle vesti di alcuni degli astanti parecchie gocce di sangue. Allora il teste mandò uno dei
presenti a chiamare i signori preti del borgo. Vennero immediatamente il signor prete Bernardino de
Carmeno e i sopracitati prete Matteo e prete Giovanni Antonio, i quali, appena giunti, si misero a
pregare; dopo di che, prete Bernardino, tolta la piccola costola dalla tovaglia, la pose in un calice,
asportando anche la tovaglia, il fazzoletto e quei panni di lana, lino o canapa segnati dalle gocce di
sangue, e il tutto fu da loro processionalmente portato alla chiesa di S. Vittore del borgo.
Inoltre il teste ha detto che nella stessa notte di giovedì vide per due volte, ad ore diverse,
l’immagine di Cristo emettere ancora sangue vivo dagli occhi e dalla ferita della mano sinistra, e
l’immagine della Madonna stillare sangue vivo dagli occhi.
Inoltre il teste ha dichiarato che il venerdì successivo, verso la ventiquattresima ora, vide le
immagini di Gesù Cristo e della B. V. di nuovo emettere sangue vivo dagli occhi, davanti ad un gran
numero di persone, tra le quali vi erano Giovanni Antonio de Carmeno, prete Bernardino de Carmeno,
il signor Francesco de Poscolonia, Matteo servitore del conte Lodovico Borromeo, e gli sembra che
siano stati presenti al fatto anche l’illustre conte Federico Borromeo, ed anche i due fratelli Borromei,
reverendo signor Carlo e magnifico signor Camillo, che in quei giorni si erano essi pure mossi.
E questo è tutto ciò che il teste sa dire circa i fatti straordinari.
Richiesto sul come sappia queste cose, il teste ha risposto che le sa perché fu presente, vide, ed
apprese, così come ha deposto.
Richiesto su chi fosse presente, in qual luogo e in qual tempo, il teste ha risposto che presenti
furono lui stesso, i sopracitati e parecchi altri dei quali non ricorda i nomi, nel luogo e nel tempo
sopracitati.
Sulle richieste generali ha dato risposte esaurienti; la sua età è all’incirca di 55 anni».
Nello stesso giorno viene chiamato a deporre Giovanni Antonio de Carmeno, figlio del signor
Pietro abitante a Carmeno, Pieve di Cannobio.
25 (fascicolo N. 4 – maggio 1995)
Lentamente, con somma attenzione leggo queste testimonianze che mi attraggono, mi appassionano, e trovo parole,
incisi, sempre nuovi.
Mi sembra di inoltrarmi per una tortuosa valle dove ogni curva ti rivela un paesaggio, una baita, una vetta
innevata... che ti obbliga a sostare e a contemplare.
Grazie, don Crenna. Attendo altro, e presto.
Delle deposizioni rese a Cannobio il 25 gennaio 1522 e rogate dal notaio Bartolomeo de Albertinis
esiste la trascrizione fatta dal figlio – anch’egli notaio – Giovanni Antonio, a ciò autorizzato l’anno 1550
«dai magnifici signori abati del venerabile collegio dei signori notai di Milano».
Ad una prima testimonianza, rilasciata dal signor Tommaso Zaccheo circa i fatti accaduti
proprio a casa sua (v. puntata precedente), fa seguito la deposizione del suo genero Giovanni
Antonio de Carmeno. I de Saxo de Carmino, poi «cognominati solamente de Carmino, ovvero
Carmini» (come riferisce l’Informazione istorica del Borgo di Cannobio di Gio Francesco del Sasso
Carmino), erano un casato «assai ricco e possente in Cannobio e molto numeroso, sempre stato dato
più alle armi che alle lettere, né vi ha in quel Borgo famiglia alcuna ch’abbia insino ad ora prodotto
maggior numero di soldati e persone armigere di questa, sebbene non siano mancati uomini di
valore anche nelle lettere ed altre virtù».
39
Insignito di cittadinanza milanese dai Visconti, tale casato «per arme usa la biscia de’ signori
Visconti di Milano, senza però il fanciullo in bocca e senza la corona in testa, in mezzo a due gran
sassi ovvero scogli, con l’acqua ossia lago sotto, in campo bianco».
E, come è tradizione dei grandi casati, vi venivano tramandati i patronimici Pietro, Antonio,
Francesco, Agostino, e l’esercizio della mercatura sulle rotte «di Piemonte, di Lione, di Vallese, ora
in Alamagna ed ora a Vinetia e ad altre città e luoghi d’Italia».
Non sappiamo per ora specificare quale fosse il genere di «mercanzia» gestita dalla famiglia, a
meno che si voglia trarre indizio da quell’apparentarsi di inizio ’500 tra un Sasso Carmine e una
nobile milanese, Caterina, figlia di Gio Antonio Biancardi «che fu il principale armarolo, non solo
in Milano, ma anco della nostra Italia et fu inventore di molti belli secreti in quella professione».
Il genero del signor Tommaso Zaccheo – si noti – risulta imparentato per parte di sorella con il
ferraro di Traffiume, ed è pur egli un mercante con giro d’affari che non ammette deroghe, neppure
in presenza di fatti mirabolanti, come si ricava dalla sua deposizione.
«Sotto giuramento il teste risponde e dice che in verità il mercoledì, giorno 8 del corrente mese
di gennaio, all’incirca verso le 9 di sera (circa horam tertiam noctis), mentre egli si trovava nel
borgo di Cannobio, nella casa d’abitazione del suocero signor Tommaso de Zacheis situata presso la
riva del lago, udì la figlia di detto Tommaso, Antognina, che da una saletta al primo piano di casa
gridava “O Matre, corete che la nostra Donna e messer Jesu Cristo et santo Zovanne piangeno
sangue”, o parole simili. Precipitosamente egli, Elisabetta moglie del signor Tommaso, il proprio
parente per parte di sorella Stefano ferrario di Traffiume, Dumino di Cavaglio, e l’altra figlia del
signor Tommaso, Bernardina, accorsero in detta saletta, lì subito raggiunti da detto signor
Tommaso, che si era coricato nella contigua sua camera da letto.
Non appena giunto sul luogo, il teste vide che l’immagine della B. V. Maria dipinta sulla
tavoletta aveva gli occhi pieni di sangue vivo, e subito s’accorse che dall’occhio sinistro di detta
immagine stava fuoruscendo una grossa lacrima di quel sangue. E vide che anche la figura “in
pietà” del N. S. Gesù Cristo dipinta su detta tavoletta aveva gli occhi e le ferite del costato e delle
mani pieni di sangue vivo, e parimenti vide che l’immagine di S. Giovanni Evangelista, dipinta
sulla stessa tavoletta aveva gli occhi pieni di sangue chiaro e vivo.
A tal vista il teste ed i sunnominati tutti si misero a gridare ad alta voce “Misericordia!”.
Richiamati da tale clamore, presero ad accorrere alcuni vicini di casa, tra i quali egli ravvisò
Francesco Cigolini di Cannobio e Orsina moglie di Bernardino Stefanini, pure di Cannobio, la quale
disse al teste che doveva andare a prendere in casa di lei una certa lampada per accenderla davanti a
dette immagini. Ed egli subito vi si recò e, tornato nella saletta con la lampada già accesa, la appese
dinnanzi alla tavoletta montando sulla cassapanca collocata lì sotto; per meglio osservare il
miracolo, preso in mano un cero acceso, si avvicinò ancor più alla tavoletta.
Fu allora che vide come l’immagine della B. V. Maria avesse alquanto sollevato la mano destra
e l’avesse avvicinata più di quanto non lo fosse prima al fianco o costato di N. S. Gesù Cristo, e
vide pure che la figura dipinta della Pietà di N. S. G. C. prendeva rilievo come fosse di carne viva,
con i segni dei flagelli rosseggianti di sangue vivo stillante da dette ferite.
E questo accadde verso la mezzanotte (circa horam quintam ipsius noctis).
E di lì a poco vide che l’immagine della B. V. emetteva detto sangue dagli occhi lungo le guance,
come pure l’immagine di N. S. G. C. nuovamente stillava sangue vivo dagli occhi e dalle cicatrici.
E vide allora che pure la figura di S. Giovanni Evangelista emetteva lacrime chiare dagli occhi,
e in particolare osservò una grossa lacrima chiara che dall’occhio destro discendeva fin sulle mani
di detta immagine di S. Giovanni.
Questo è quanto egli è in grado di dire relativamente ai miracoli.
Alla domanda se il teste poté osservare altri miracoli compiuti da dette immagini il giorno di
giovedì ed alla sera del successivo venerdì, risponde che al giovedì non vide nulla, poiché si era
recato al mercato di Locarno; ma al suo ritorno in quello stesso giorno verso la prima ora di notte
(circa le sette pomeridiane), apprese che dall’immagine della Pietà erano fuoruscite una costola ed
una notevole quantità di gocce di sangue che si erano sparse sulla tovaglia stesa sulla cassapanca e
sugli astanti più vicini e sui loro capi di vestiario.
40
Ed egli stesso vide alcuni di tali panni e tale tovaglia con le macchie di sangue, ed anche detta
costola sanguinolenta tra le mani dei signori preti della chiesa di S. Vittore di Cannobio, che avevano
trasportato il tutto in S. Vittore in gran processione, a cui il teste partecipò, la sera stessa di giovedì.
Rispondendo ad interrogazione, dice pure che il giorno di venerdì successivo, circa all’Ave
Maria (ante primam horam noctis), vide ancora le immagini della B. V. e di N. S. G. C. lacrimare
sangue vivo dagli occhi, e dall’occhio sinistro della B. V. scendere una goccia di sangue lungo le
guance. E non vide altro.
Interrogato quale sia la fondatezza di ciò che asserisce, quali siano altri testimoni oculari, quali le
circostanze di tempo e di luogo, risponde che conosce tali fatti perché vi fu presente, vide e udì ciò
che ha deposto. Presenti oltre a lui testimone i detti signor Tommaso de Zacheis, la signora Elisabetta
sua moglie, Stefano ferario, Dumino di Cavaglio, e le dette figlie del signor Tommaso, Francesco
Cigolini, Cesare de Bachiochis, Innocenzo Monaci, i signori preti Gio Antonio de Mazironibus e
Matteo de Poscolonia, nonché parecchi altri, sia del borgo di Cannobio, sia di Castiglione e di
Pallanza e de Serono, dei quali non ricorda i nomi; e ciò nel luogo e nei tempi suddetti.
Dichiara di avere all’incirca 32 anni».
26 (fascicolo N. 5 – giugno 1995)
Siamo alla 26a puntata. Don Crenna merita un encomio per la fedeltà, la disponibilità, la puntualità nel collaborare
al Bollettino, soprattutto per la competenza.
Agli abbonati – se ce ne fosse bisogno – rivolgo un caldo invito per una lettura attenta di queste puntate: sono le
deposizioni sull’evento della Santa Pietà raccolte dalla viva voce dei testimoni.
Credetemi! Le ho lette e rilette con interesse – e un pizzico di curiosità. Non sono rimasto deluso. Anzi.
Quello stesso mercoledì 25 gennaio 1522 fu convocato il terzo testimone, Francesco figlio di
Pietro Cigolini, abitante nel Borgo di Cannobio.
Il prevosto di S. Vittore ed il podestà, in base alla delega avuta dal rev. Ruffino Bilingeri,
vicario della Curia arcivescovile milanese, richiesero al teste di deporre sotto giuramento.
«Alla domanda “che cosa egli sappia dire circa i miracoli avvenuti in casa del signor Tommaso
de Zacheis sulla tavoletta che gli è stata specificata”, attesta e giura esser vero che il mercoledì 8 del
corrente gennaio mentre, circa le ore 8 di sera (circa horam secundam noctis), si trovava in casa di
Stefano Sebastiano de Mantellis – in prossimità della casa di detto signor Tommaso – in compagnia
del pescatore Ambrogio da Pallanza, sentì dire da certe donne che nell’abitazione del signor
Tommaso “vi era una tavoletta che faceva miracoli”
E allora, subito, corse col detto suo compagno di Pallanza alla casa dello Zaccheo e, salite le
scale ed entrato in una certa saletta situata al di sopra della cucina, vide – appesa ad una delle pareti
– la tavoletta su cui stavano dipinte le figure della Beatissima Vergine Maria, del Signor Nostro
Gesù Cristo in sembiante di Pietà, e di S. Giovanni Evangelista. Ed allora egli si avvicinò alla
tavoletta e salì sulla cassapanca lì sotto collocata, tenendo un lume acceso in mano.
E vide che l’immagine della B. V. stillava sangue vivo dagli occhi, e similmente l’immagine
della Pietà dagli occhi e dalle cicatrici del costato e della mani.
E vide anche che l’immagine di Giovanni aveva gli occhi pieni di sangue misto ad acqua.
E quella stessa notte vide che la detta immagine della Pietà si era fatta come viva, con gli occhi
e le ferite e le piaghe della flagellazione rosseggianti di sangue vivo.
E non vide altro in quella notte, perché non rimase lì costantemente, ma a più riprese andò a
chiamare altri suoi amici onde venissero a vedere siffatti miracoli.
Interrogato se avesse assistito ad altri miracoli fatti da quelle immagini nei giorni successivi di
giovedì e venerdì, risponde che, mentre egli si trovava in detta saletta nel giorno di giovedì,
all’incirca al suono dell’Avemaria, aveva constatato che parecchie persone lì presenti si erano
trovate cosparse di numerose gocce di sangue. Fu allora che egli si mosse da lì per andare a
chiamare il signor prevosto della chiesa di S. Vittore di Cannobio ed il signor prete Gio Antonio de
Mazironibus, canonico di detta chiesa.
41
E come ritornò nella saletta, sentì dire che dalla figura della Pietà una costola era caduta sulla
tovaglia stesa sopra la cassapanca, e che anche la tovaglia era rimasta macchiata di quel sangue.
Tuttavia egli non poté constatare tutto ciò direttamente, a causa della ressa di persone nel frattempo
lì convenute. Però, dato che il tutto fu dai signori preti trasportato processionalmente la sera stessa
nella chiesa di S. Vittore, egli poté là vedere la costola, e la tovaglia ed un fazzoletto e certi panni
segnati dalle gocce di sangue.
Ed altro non vide, benché sentì dire che, dopo, ancora due volte le dette immagini avevano fatto
miracoli.
Interrogato quali siano i motivi della sua consapevolezza chi altro fosse presente, e quali le
circostanze di tempo e di luogo, risponde che è consapevole di ciò che ha deposto perché è stato
testimone oculare ed ha raccolto testimonianze dirette nel luogo e nel tempo suddetti, presenti il
signor Tommaso, la moglie di lui donna Elisabetta, le sue due figlie ed anche il genero Gio Antonio
de Carmino, il ferraro di Traffiume, Dumino de Cavalio, Gio Antonio Homacini, Antonio de Gurono,
Giacobino Ferratini, il signor prete Gio Antonio de Mazironibus, maestro Petrino de Tassanis, Cesare
de Baciochis, Innocenzo Monaci, e parecchi altri dei quali al momento non ricorda i nomi.
Dichiara di avere più di quarant’anni d’età».
Dunque, una relazione di fatti, la sua, che non si discosta dalle deposizioni già rese dal padrone
di casa, il signor Tommaso, e dal suo genero Gio Antonio de Carmino (v. nn. 24-25).
Ne possiamo però ricavare alcuni elementi utilizzabili per impostare una specie di sopralluogo
o di ricostruzione scenica. E questi sono: l’affidabile età del nostro personaggio; la sua presenza,
quella sera, nella più che rispettabile casa Mantelli e la contiguità di questa con casa Zaccheo; quel
suo affannarsi per far accorrere altri testimoni: ad vocandum de amicis suis ut irent ad videndum
talia miracula. E ne cita alcuni: Omacino, Gurono, Ferratino, Tassano, Baciocco, Monaco.
È una sequenza di nomi che ci riporta a «quelle case del Borgo inferiore che ora si vedono lungo la
riva e fanno sì bella vista agli occhi dei riguardanti», come ebbe a scrivere nel ’600 il Sasso Carmino.
Quelle case oggi hanno numero civico e designazione catastale, ma la loro individuazione – nei
tempi andati – veniva stabilita mediante le “coerenze”, cioè in base a quello che stava a mane (est),
a meridie (sud), a sero (ovest), a monte (nord) di ciascuna di esse.
La combinazione di tali dati, ricavabili dai rogiti notarili di successioni, spartizioni, permute,
vendite, acquisti e pignoramenti di stabili, rende possibile configurare – quasi in un abbozzo di
mappa topografica – l’insediamento abitativo del Borgo inferiore, ricostruendo la concatenazione
delle singole proprietà edili: dalle «confetture», o laboratori, di cuoi e di pellami dislocate lungo la
via Castello, alle residenze allineate da piazza Baciocchi (oggi piazza Indipendenza) fino alla
«plateola de la Motta» (all’attacco di via Marconi).
Una ricostruzione che, peraltro, in certo modo è facilitata dal poter individuare quelle case con
a mane ripa lacus (ad est la riva del lago) e coniugarne poi le rispettive altre coerenze fino ad
ottenere la sequenza degli edifici affacciati sul lungolago.
È l’itinerario lungo il quale l’affannato e trasecolato Francesco Cigolini, in quella notte dei
miracoli, bussò alle porte di mercanti di lane e pelli, di banchieri, di notai, di uomini di lettere e
d’affari, di borghigiani politicamente in quota: nell’ordine di casa lungo piazza Baciocchi, i
Romerio, i Tassani, i Baciocchi, i Mantelli, i Gerroneti, i Gallarini, i Cigolini.
Al di là dello «scurone» e della «contrada della Motta» fino a subtus lobiam dell’omonima
piazzetta l’hospitium (l’Hotel Cannobio del tempo) gestito da «el padre da Torno» e il «canepale de
ripa», l’osteria accanto alle case illorum Cerini de Zacheis (si noti: in tutt’altro sito e di tutt’altro
casato che non quello del signor Tommaso), e poi ancora: i Luvati, i Sasso Carmino, gli Scarlioni, i
Peazo-Zacchei.
Codesti individui – gente ben ancorata al pragmatismo degli affari e al prestigio della propria
nomea – vengono dunque allertati dal Cigolino, il quale dice loro... che in casa del signor
Tommaso, una pergamena lacrima... trasuda sangue, eccetera eccetera.
E quelli, incredibilmente, si smuovono e accorrono!
Ma per vedere che cosa? Ce lo dicano!
42
27 (fascicolo N. 6 – luglio-agosto 1995)
Non sa di offesa al buon Dio se i fatti relativi alla Pietà di Cannobio appaiono incredibili o
addirittura assurdi, tanto esulano dall’ordine naturale delle cose e stanno in così netta
contrapposizione ai parametri della sana ragione.
Che fare dunque? Non dar loro peso, o cozzarvi contro, o metabolizzarli?
In quest’ultimo caso basta raggirare la ripugnanza mentale barando col sentimentalismo di
bassa lega o sconfinando nel magico, vale a dire immettendosi su traiettorie opposte ai percorsi
dell’onesta fede.
Nelle altre due suaccennate ipotesi può riuscire salutare la massima di quel sant’Uomo che fu
Agostino d’Ippona: credo quia absurdum. Il che praticamente equivale al tentare di capacitarsi
sull’entità di un fatto, di per sé abnorme, collegandosi per quanto possibile in presa diretta... e poi
stare a vedere cosa succede dentro di noi.
Tale procedimento dovrebbe risultare agevole in special modo ai Cannobiesi di oggi, che hanno
a disposizione le testimonianze rese da alcuni loro antenati a botta calda, non più di venti giorni
dopo i fatti successi in casa di Tommaso Zaccheo, ufficialmente rogate dal notaio Bartolomeo
Albertini del loro Borgo. Per un minimo di attaccamento a costoro, scorrendone le deposizioni,
dovrebbero quantomeno restare perplessi se considerarli o no pazzi integrali.
Si tratta di un rogito: per sua natura deve prevalere su qualsiasi altra tardiva rielaborazione, più
o meno fantasiosa, dettata da fuorvianti devozionismi. Non per nulla tale documento fece testo nel
1550, ripreso – su concessione del Collegio notarile milanese – da Giovanni Antonio Albertini,
figlio del succitato Bartolomeo.
E integralmente fu dato alle stampe dai Confratelli della Ss. Pietà nel 1586, mentre fervevano i
lavori di costruzione dell’attuale santuario. Assai più tardi si cominciò a fantasticare!
Non per nulla ve lo riproponiamo (a puntate) nella sua stesura integrale. Poi ognuno si farà la
propria opinione.
1522, 3 febbraio, lunedì. – L’escussione dei testimoni oculari, sospesa per una settimana,
riprende con la convocazione di Stefano figlio di Tommasino de Portu, abitante a Traffiume e lì
esercitante l’arte del fabbro. Sotto il rituale vincolo del giuramento, interrogato egli depone: « che il
mercoledì 8 dello scorso gennaio egli si trovava nella casa di abitazione del signor Tommaso de
Zacheis, situata nel Borgo di Cannobio presso la riva del lago, circa la seconda ora di notte (circa le
venti) in compagnia di Gio Antonio de Carmeno e di Dumino di Cavaglio,volendo essi recarsi al
mercato di Locarno; quando udì Antognina, la figlia di detto signor Tommaso che si era portata al
piano superiore della casa, gridare e dire queste o simili parole “O matre correte, che la Vergine
Maria et messer Giesù Christo piangeno sangue”. Ciò udendo,egli insieme a donna Elisabetta,
moglie del signor Tommaso, e con Gio Antonio de Carmeno, Dumino e Bernardina, figlia di detto
signor Tommaso, accorsero nella saletta soprastante alla cucina della casa, salendo per le scale
interne, e come raggiunse la saletta scorse una tavoletta su cui erano dipinte le immagini di N. S.
Gesù Cristo in sembianza di Pietà e di S. Giovanni Evangelista e della Beatissima Vergine Maria,
appesa ad una delle pareti di detta saletta. E fattosi più vicino a quella tavoletta,osservò che la detta
immagine della Beatissima Vergine versava lacrime di sangue, e poco dopo le vide scorrere lungo
le guance; vide che anche la detta immagine della Pietà emetteva e stillava sangue dagli occhi e
dalle ferite del costato e delle mani; e osservò che anche la detta immagine di S. Giovanni
Evangelista aveva gli occhi pieni di sangue ed acqua, e che poco dopo lacrimò acqua chiara dagli
occhi, lacrime che discendevano giù per il volto. Ancora quella stessa notte, circa l’ora quinta
(verso mezzanotte), vide tutto il corpo di detta Pietà in rilievo come fosse vivo, con gli occhi e le
ferite e le striature dei flagelli su tutto il corpo pieni di sangue vivo.
Questo è quanto egli sa dire al riguardo dei citati miracoli, poiché dopo egli si congedò; ma a
lui sembra proprio che la detta immagine della B. V. Maria in quella notte abbia sollevato la mano
destra avvicinandola al fianco dell’immagine della Pietà, quantunque egli non abbia colto il
muoversi della mano.
43
Alla domanda «quale fondamento abbia ciò che dice di sapere, quali ne siano i testimoni e quali
le circostanze di luogo», risponde che egli sa perché vide con i propri occhi i fatti esposti, ne fu
presente con gli altri sopracitati nel tempo e nel luogo suddetto coerenziato da ogni lato dalla
proprietà del signor Tommaso.
Dichiara di avere all’incirca 45 anni».
4 febbraio, mercoledì. – Viene convocato Innocenzo del fu Stefano Monaci, pure lui abitante
del Borgo. Premesse le formalità processuali, rilascia questa deposizione giurata: «risponde e dice
di sapere circa i miracoli questi soli fatti, cioè esser vero che il mercoledì 8 dello scorso gennaio,
alla sera di quello stesso giorno circa la seconda ora di notte (v. s.), mentre egli transitava per strada,
all’altezza della casa d’abitazione del signor Tommaso de Zacheis, situata in detto Borgo di
Cannobio presso la riva del lago, udì un gran clamore provenire da detta casa, e distinse una voce
che diceva che la gloriosissima Vergine Maria e N. S. Gesù Cristo lì facevano miracoli. Udito ciò,
subito egli entrò in detta casa, salì per scale interne raggiungendo una certa saletta ove s’imbatté in
detto signor Tommaso de Zacheis, donna Elisa betta sua moglie, due figlie del signor Tommaso, e
anche Gio Antonio de Carmeno genero dello stesso signor Tommaso, un tale noto come el ferraro
di Traffiume, un altro di Cavaglio detto Dumino, Bernardo Stefanini di Cannobio, e certe altre
donne. E vide quella tavoletta, piccola, sulla quale stanno dipinte le immagini della Beatissima
Vergine Maria, di N. S. Gesù Cristo in sembiante di Pietà e di S. Giovanni Evangelista, appesa ad
uno dei muri della saletta, abbastanza in alto dal pavimento. E nell’accostarsi alla stessa, vide dagli
occhi della beatissima Vergine Maria uscire sangue vivo e scendere dagli occhi giù per le guance;
vide anche dagli occhi di detta immagine di N. S. Gesù Cristo, dalle ferite delle mani e del costato
uscire sangue vivo, e quel sangue che stillava dagli occhi e dalle ferite delle mani scendeva sia
lungo le guance sia sopra le mani. E ancora vide che l’immagine di S. Giovanni Evangelista aveva
gli occhi pieni di sangue e di acqua, e che in breve tempo lacrimò dall’occhio sinistro una goccia
d’acqua grossa e chiara che scese giù fin sopra la mano della stessa immagine di S. Giovanni. Alla
vista di ciò i presenti esclamavano ad alta voce “misericordia”. E verso l’ora quinta di notte (v. s.)
osservò la detta immagine di N. S. Gesù Cristo così pronunciata da sembrare di carne viva, ed aveva
gli occhi e le ferite e le lacerazioni dei flagelli pieni di sangue vivo.
E dice di non aver visto altro in quella notte, dato che tornò alla propria casa per coricarsi; ma il
giorno dopo, giovedì, di sera circa l’ora dell’Ave Maria, mentre egli stava in quella stessa saletta, sentì
dire dalla signora Susanna, moglie del signor Vittore de Luvatis «portate qui uno lume, che me sento
cascar aqua à dosso». E accostato questo lume, egli vide che la detta signora Susanna e molte altre
donne presentavano numerose gocce di sangue vivo sugli abiti, ed alcune tra loro sulle mani, altre sul
collo; e parimenti vide la tovaglia che stava stesa al di sotto di detta tavoletta cosparsa di parecchie
gocce di sangue vivo, come pure un tovagliolo lì steso al di sopra di detta tovaglia. E fu allora che
notò sopra la tovaglia costiolinam sanguinolentam, una costicina insanguinata di dimensione
proporzionata alla detta Pietà; e osservò che il costato della stessa Pietà era tutt’attorno pieno di
sangue vivo. A tale vista egli, che stava appresso alla succitata cassapanca e alla tavoletta, e i parecchi
lì attorno si misero a gridare “misericordia”. E all’istante mandarono a chiamare i signori preti. E di lì
a poco giunsero il signor prete Matteo de Poscolonia, il signor prete Bernardino de Carmeno, ed altri
preti, che prelevarono la detta costola, la tovaglia, il tovagliolo, e i panni macchiati di detto sangue, e
tutto trasportarono in gran processione, la sera stessa, alla chiesa di S. Vittore di Cannobio.
Richiesto se egli vide l’immagine della B. V. alzare la mano destra e portarla al fianco di N. S.
G. C. la notte prima del mercoledì, risponde che non vide, ma sentì ben dire allora da una certa
donna «guardate che la Vergine Maria alza la mane».
Interrogato se in seguito vide compiersi altri miracoli, risponde che il martedì precedente, 28
dello scorso gennaio, verso la prima ora di notte, mentre egli stava nella stessa saletta, osservò tutte
tre le immagini cosparse di gocce d’acqua, e vide dalle mammelle di detta immagine della Pietà
affiorare grosse gocce d’acqua viva che si asciugarono poi nello spazio di un quarto d’ora;
eccettuata una grossa goccia che rimase al di sotto della gola dell’immagine della Vergine per
un’ora circa. Altro non vide né sa.
44
Interpellato sulla fondatezza delle sue asserzioni, e chi potesse attestarne la veridicità, e dove e
quando, risponde che egli conosce i fatti da lui attestati in quanto presente unitamente a parecchi
altri, che all’istante non ricorda, nelle circostanze di tempo suddette e nel luogo sopra citato e da lui
ben definito.
Ha 32 anni circa».
28 (fascicolo N. 7 – settembre 1995)
Dalle testimonianze fin qui pubblicate (nn. 25, 26, 27) sappiamo con precisione chi furono i
primi ad accorrere, e in quale successione, alla casa del signor Zaccheo, circa dalle otto di sera in
poi, quel mercoledì 8 gennaio 1522.
I fatti là accaduti risultano talmente assurdi che si avverte la necessità - per nostra igiene
mentale - di circoscriverli entro la rigorosa ricostruzione delle circostanze, senza indulgere ad
inopportune facilonerie scenografiche, sia pure dettate da urgenze devozionistiche affatto
inconcludenti. Il gruppo famigliare raccolto in casa, e precisamente nella caminata, o stanza da
fuoco, o cucina che dir si voglia, è composto da: il signor Tommaso, la moglie donna Elisabetta, le
due giovani figlie Antognina e Bernardina, il genero Giovanni Antonio de Carmeno, il ferraro di
Traffiume suo parente, il conoscente Dumino di Cavaglio, e l’altra Antognina, l’ex nutrice di casa.
In tutto otto persone.
Dalla saletta superiore giunge lo strillo della figlia Antognina, sgomenta per ciò che sta
vedendo. Tutti quelli di casa la raggiungono.
Allarmata dal trambusto improvviso accorre anche una prima vicina di casa: Orsina moglie di
Bernardino Stefanino (come si rileva dalla deposizione del genero del signor Zaccheo). Proprio
allora, da piazza Baciocchi (oggi piazza Indipendenza), lungo la strada costiera, Innocenzo del fu
Stefano Monaci sta per rientrare nella sua abitazione, appena al di là di casa Zaccheo; ma qui
transitando, rimane sorpreso dalle voci concitate che ne provengono. Entra, sale le scale, e vede.
Accorre allarmata anche la figlia dell’altro Monaci, Giovanni: vede e concitata corre subito dai
Mantelli che hanno la casa coerente a quella degli Zacchei dal lato di piazza.
Occasionalmente là presente, con il pescatore Ambrogio da Pallanza, è Francesco figlio di
Pietro Cigolino, che senza frapporre indugio si porta sul luogo del miracolo, da dove a più riprese
va a chiamare altri suoi amici.
Nella saletta stanno raccolte ormai sicuramente almeno dieci persone quando vi salgono i due
Tassani, il chirurgo Petrino figlio del signor Giovanni e Astolfo figlio del signor Vittore.
Dall’entrata di casa che dà sulla via di S. Giustina sopravvengono il medico Aloisio Mantelli
figlio del dottor Maffeo con due suoi ospiti, il rev. signor Raffaele de Castiliono e il signor
Francesco de Tattis di Varese, e qualcun altro. La saletta contiene a stento tutti costoro: da qui
l’impressione che Maffeo Mantelli ha di una gran ressa.
Il tutto si svolge in meno di un’ora. E ognuno dei sopravvenuti ha potuto constatare
direttamente ciò che sta accadendo, tra sorpresa e, ovviamente, sconcerto.
Ora si noti che questi soli, qui sopra singolarmente ricordati (escluse le donne, come di regola),
vengono richiesti di deporre pressoché immediatamente da parte del delegato arcivescovile, rogante
il notaio Bartolomeo Albertini.
Si tratta con evidenza di testimonianze selezionate, ognuna delle quali indubbiamente
accreditata nell’estimazione pubblica, ma – ciò che più importa – nessuna può dirsi inficiata da
possibili suggestioni o travisamenti da psicosi collettiva. Un modo di procedere obbligato se si
vuole che una serie di accadimenti innaturali e conturbanti tale rimanga, evitando di renderla
mirabolante e perciò ridicola.
Nell’ordine risultano infatti essere stati convocati alla presenza dell’inquirente ecclesiastico e
del podestà del Borgo, il 25 gennaio il signor Tommaso, il suo genero e Francesco Cigolino; il 3
febbraio Stefano il ferraio e Innocenzo Monaci; si prosegue col maestro chirurgo Petrino de
Tassanis del fu signor Giovanni, abitante del Borgo di Cannobio.
45
Richiesto ed esaminato, costui rilascia questa deposizione giurata: «E’ verità che lo scorso
mercoledì 8 gennaio verso la seconda ora di notte (circa le 8 di sera) mentre il testimone se ne stava
nella propria casa situata nel Borgo di Cannobio, adiacente a quella del signor Tommaso de Zacheis,
avendogli detto una certa ragazza figlia di Giovanni Monachi che nell’abitazione di detto signor
Tommaso erano apparsi alcuni miracoli, subito di lì si mosse e andò a detta casa di detto signor
Tommaso; e come raggiunse una saletta situata al di sopra della caminata di detta casa, vide lì
raccolto un gran numero di persone che osservavano la tavoletta che stava lì appesa sul muro della
stessa saletta, dipinta con le immagini della Beatissima Vergine Maria, del Signor Nostro Gesù Cristo
in sembiante di Pietà, e di S. Giovanni Evangelista.
Non appena si appressò a detta tavoletta, vide che l’immagine della gloriosa Vergine aveva gli
occhi pieni di sangue vivo e che una goccia di sangue era fuoruscita dall’occhio sinistro; vide che
anche dall’occhio destro della suddetta gloriosa Vergine usciva una goccia di sangue e scorreva
alquanto lungo la sua faccia, come ancora adesso si può constatare. Vide anche gli occhi di detta
Pietà e le impronte delle ferite del costato e delle mani piene di sangue vivo. E nel mentre lì si
tratteneva alquanto, osservò che il detto costato della Pietà si era fatto tumido, pieno di sangue vivo,
per poi tornare subito com’era, rimanendovi però il sangue vivo.
Vide anche in quella stessa notte verso la quinta ora (circa le 11) che detta immagine della Pietà
sembrava fosse viva, con gli occhi, le cicatrici e le impronte della flagellazione pieni di sangue
vivo. Nel contempo vide anche che la detta immagine di S. Giovanni lacrimava acqua dagli occhi.
Disse ancora il testimone che il giovedì seguente, verso la prima ora di notte (tra le 6 e 7 di
sera), mentre si trovava in detta saletta dove sta la tavoletta, vide che parecchie donne avevano sui
loro abiti, ed alcune sul collo ed altre sulle mani, numerose gocce di sangue vivo, come pure
macchiata di sangue appariva la tovaglia, con sopra un fazzoletto, stesa sulla cassa posta al di sotto
della tavoletta. E scorse sopra la stessa tovaglia, in corrispondenza della tavoletta, una piccola costa
sanguinolenta, di proporzioni rispondenti a detta Pietà, fuoruscita, come crede, dal costato destro di
detta Pietà; poiché così gli parve, e tuttora gli pare, ed è fermamente convinto, senza dubbio alcuno,
che la cicatrice del costato in quell’ora si sia fatta più estesa di come adesso si vede, e più di quanto
non lo fosse alla sera del mercoledì precedente.
La costola con la detta tovaglia e fazzoletto e con i panni segnati di sangue, come si è detto, la
sera stessa di giovedì, verso la seconda o terza ora di notte (tra le 7 e le 8) fu da lì rimossa e portata
alla chiesa parrocchiale di S. Vittore in grande processione dai signori preti di Cannobio.
Vide ancora, il venerdì successivo verso le ore ventiquattro, che dagli occhi della suddetta
gloriosa Vergine e della Pietà sgorgava sangue vivo e scorreva lungo le guance.
Così pure disse lo stesso testimone che il martedì 28 dello scorso gennaio, verso la seconda ora
di notte, mentre egli stava in detta saletta, osservò che l’immagine della gloriosa Vergine presentava
all’altezza della gola una grossa goccia d’acqua che si fermò lì alquanto e poi si asciugò.
Dice pure il testimone che oggi, circa l’ora di pranzo, ha visto le suddette tre immagini e
pressoché tutta la tavoletta cosparse di sudore acqueo e che ripetutamente sgorgavano gocce
d’acqua da dette immagini, s’ingrossavano rimanendovi per la durata di un’ora o circa per poi
asciugarsi da sole.
Non sa altro.
Richiesto che chiarisca da dove ricavi questa sua conoscenza da lui fatta, in presenza di chi, in
qual luogo e tempo, risponde che la sua conoscenza è fondata essenzialmente sul fatto della sua
presenza e della sua osservazione diretta, come ha deposto; inoltre alla presenza, per la prima notte,
di Giovanni Antonio de Carmeno, di un tale chiamato il ferrario di Traffiume, di detto signor
Tommaso con la sua moglie e le figlie e parecchie altre persone che ora non ricorda
dettagliatamente; per la sera poi di giovedì, dice che ricorda che erano presenti il rev. don Raffaele
de Castiliono, lo spettabile dottore in arti mediche il signor maestro Aloisio de Mantellis, il signor
GioPietro de Zacheis, Astolfo de Tassanis, ed altri della casa di detto signor Tommaso, oltre ai
parecchi dei quali non ricorda i nomi; per il suddetto giorno di venerdì ricorda di aver visto gli
illustri signori conti Federico, Carlo e Camillo Borromei con parecchi loro domestici, ed inoltre il
signor podestà del Borgo di Cannobio e molti altri.
46
Il martedì successivo, benché vi fosse una gran ressa di gente, dice di non ricordarsi se non dei
famigliari di detto signor Tommaso e di Innocenzo Monaci.
Tra coloro poi che oggi furono presenti per vedere i detti miracoli dice di aver scorto il signor
Giofredo de Locarno, il signor Cristoforo de Rotiis de Ranzio, e certi altri forestieri di Castiglione e
di Varese, il predetto signor maestro Aloisio, quasi tutti i signori preti di Cannobio e parecchi altri
che sarebbe troppo lungo elencare.
I tempi e il luogo sono quelli da lui sopra precisati.
Dichiara di avere circa trent’anni di età».
29 (fascicolo N. 8 – ottobre 1995)
I fatti accaduti a Cannobio in quei giorni di gennaio e febbraio 1522 apparivano talmente
abnormi che il passo fu breve e si gridò al miracolo. Orripilante era poi quel trasudare sangue vivo e
lacrime sanguigne dall’insignificante tavoletta appesa al muro. E si gridò “Misericordia!”.
A noi che oggi, curiosi o devoti, scrutiamo quello stesso rettangolo di pergamena, “miracolosa”
circa cinquecent’anni fa, le arcaiche figure lì dipinte appaiono del tutto statiche ed innocue; né forse
conviene pretendere altrimenti.
Comunque, potrebbe riuscire più appagante il nostro impatto con codesta “tavoletta” di casa
Zaccheo se volessimo prestare la dovuta attenzione alle deposizioni giudizialmente rilasciate dai
primi diretti testimoni, alcune delle quali addirittura in contemporanea con i surreali accadimenti di
quei giorni.
Ne riportiamo qui altre tre, con una annotazione a margine opportuna per suffragare,
all’occorrenza, la competenza del secondo testimone. Infatti va tenuto presente che già dal secolo XIII
arti e scienze mediche si erano evolute pragmaticamente nel campo dell’indagine e
dell’identificazione dei processi biologici naturali La rielaborazione dei testi arabi e greci di anatomia,
di medicina pratica e di veterinaria fu attiva e feconda a Bologna, ove la pratica della dissezione e lo
studio sistematico dell’anatomia ebbero particolare rilevanza. I trattati specifici, che ne derivarono,
contribuirono – nelle scuole di Montpellier, di Padova, di Torino – al notevole progresso dei metodi
chirurgici più razionali La divulgazione di compendi o inventari nosologico-terapeutici nel Piemonte
sabaudo e nello Stato di Milano attestano quanto, all’inizio del ‘500 (e quindi all’epoca dei fatti di
Cannobio), arti e scienza medica avessero raggiunto affermazione e prestigio; dai quali non v’è
motivo per esentare il magnifico artium et medicinae doctor dominus magister Aloisius de Mantellis.
«4 febbraio – Astolfo de Tassanis, figlio del signor Vittore, abitante del detto Borgo di
Cannobio, presentatosi e richiesto di deporre il vero sotto giuramento, risponde alle domande
dell’inquirente attestando che realmente l’8 gennaio scorso, circa le 8 di sera, in una saletta situata
al di sopra della caminata della casa d’abitazione del signor Tommaso nel Borgo di Cannobio
presso la riva del lago, egli vide quella tavoletta affissa alla parete e su cui stanno dipinte le
immagini della gloriosa Vergine Maria, della Pietà di Nostro Signor Gesù Cristo e di S. Giovanni
Evangelista, e vide che dagli occhi di dette figure ed anche dalle cicatrici del costato e delle mani di
detta Pietà usciva sangue vivo; però il sangue che usciva dagli occhi di S. Giovanni Evangelista
sembrava mescolato ad acqua. Non vide altro in quella sera perché era febbricitante e lasciò la casa.
Ma quando vi tornò il giovedì seguente verso le sette di sera, mentre ginocchioni stava sulla cassa
collocata al di sotto della detta tavoletta, con in mano un cero acceso, gli sembrò di notare dei
riflessi sulla parte destra del costato della Pietà e d’improvviso sentì che parecchie donne lì accosto
dicevano “fateme un poco lume che me casca aqua adosso” o parole simili. Egli allora fece per
scendere dalla cassa e in quel mentre s’accorse che la tovaglia e un fazzoletto posto lì sopra erano
schizzati da parecchie gocce di sangue fresco, e che sulla tovaglia, in corrispondenza a detta
tavoletta, stava una piccola costa sanguinolenta. Additò ciò che scorgeva ai presenti, che tutti a tale
vista, e per di più constatando che parecchi tra loro erano spruzzati di sangue fresco, si misero a
gridare “misericordia”. E all’istante mandarono a chiamare i signori preti che, come giunsero,
asportarono tali cose processionalmente da lì alla chiesa parrocchiale di S. Vittore di Cannobio.
47
Parimenti il testimone dice che lo scorso martedì verso le sette di sera, e pure oggi verso l’ora di
pranzo, ha visto che le dette figure dipinte su detta tavoletta stillavano numerose gocce d’acqua,
restando così con tali gocce per alquanto tempo per poi asciugarsi da sole.
E non sa altro.
Richiesto di specificare quale sia la fondatezza di questa sua conoscenza, se fatta in presenza
d’altri, in qual luogo e tempo, risponde che di presenza egli ha visto quanto ha deposto, unitamente
a detto signor Tommaso e famiglia e a parecchi altri che sarebbe lungo enumerare, nei tempi e nel
luogo precisati.
Dice di avere circa diciannove anni di età».
«Convocato, in quello stesso giorno si presenta il magnifico dottore in scienza medica signor
maestro Luigi de Mantellis, del fu magnifico dottore in medicina signor maestro Maffeo. Attesta con
giuramento che lo scorso mercoledì 8 gennaio verso le otto di sera mentre se ne stava nella propria
casa di abitazione situata nel Borgo di Cannobio, fu chiamato perché andasse a vedere i miracoli che
accadevano nella casa d’abitazione del signor Tommaso de Zacheis.
Udito ciò, all’istante si mosse e, accompagnandosi al reverendo signor Raffaele de Castiliono,
al signor Francesco de Tatis di Varese e a certi altri, andò alla casa d’abitazione del signor
Tommaso posta in detto Borgo presso la riva del lago, entrando dalla porta posteriore di detta casa
[da via S. Giustina]. Come si trovò nella saletta ubicata al di sopra della caminata di detta casa, vide
lì raccolta tanta gente che osservava la tavoletta appesa alla parete di detta saletta e su cui stanno
dipinte le immagini della gloriosa Vergine, della Pietà di Nostro Signor Gesù Cristo e di S.
Giovanni Evangelista.
E come egli, appressatosi a detta tavoletta, si mise ad osservarla con attenzione, vide gli occhi
di dette figure pieni di sangue vivo, come pure le cicatrici delle mani di detta Pietà piene di sangue.
Però il sangue presente negli occhi di S. Giovanni era chiaro ed appariva mescolato con acqua.
E mentre lì si tratteneva per un certo tempo, vide dagli occhi della Beata Vergine e della Pietà
fuoruscire gocce di sangue e scorrere lungo le guance delle due figure.
Altro sangue vide uscire dalle ferite delle mani e scendere alquanto lungo le mani stesse. In
quella sera non vide altro perché se ne venne via.
Ma il giovedì seguente, verso le sette di sera, trovandosi nella medesima saletta, vide che
parecchie donne inginocchiate dinnanzi alle dette immagini presentavano sui loro abiti, ed alcune
sul collo ed altre sulle mani e in viso, parecchie gocce di sangue fresco; e pure la tovaglia che
copriva la cassa collocata al di sotto della tavoletta, con quel fazzoletto che in quel momento le
stava steso sopra, risultava schizzata di sangue fresco.
E vide inoltre che su detta tovaglia, in corrispondenza alla soprastante tavoletta, ma
leggermente spostata sulla parte destra della tavoletta, vi stava una piccola costa proporzionata alla
figurazione di detta Pietà, sanguinolenta per sangue fresco e vivo. E detta costa egli ritiene senza
alcun dubbio sia fuoruscita dal lato destro di detta Pietà. E nell’esaminarla accuratamente riscontrò
che essa aderiva alla tovaglia e che aveva lasciato un’impronta curva di sangue sulla tovaglia, pari
alla configurazione della costa.
Alla vista di tali cose fu convenuto dagli astanti che era bene richiedere l’intervento dei preti di
detta Terra di Cannobio. E così si fece.
E di lì a poco giunsero detti signori preti che prelevarono la costola, la tovaglia e il fazzoletto e
con grande processione trasferirono tutto alla chiesa di S. Vittore di Cannobio.
Da quel momento non vide altro; tranne che oggi, verso l’ora di pranzo, avendo sentito che
accadevano di nuovo fatti miracolosi in detta casa, subito vi si recò e vide le immagini e pressoché
tutta la tavoletta stillare lacrime di acqua chiara, in due riprese: lacrime che vi rimanevano per la
durata di un’ora circa e che poi vide asciugarsi da sole.
Non sa altro, quantunque abbia sentito dire che le medesime immagini nel mese scorso hanno
fatto altri miracoli, ai quali però egli non ha assistito.
48
Richiesto che chiarisca da dove ricavi questa sua conoscenza, se da lui fatta in presenza d’altri,
in qual luogo poi, risponde che la sua conoscenza si basa sul fatto d’essere stato personalmente
presente e di aver osservato direttamente ciò che ha deposto presenti pure le persone da lui citate e
parecchi altri, soprattutto detto signor Tommaso e famiglia, nei tempi e nel luogo precisati.
Ha trentatrè anni circa di età».
«Lo stesso giorno si presenta il signor Cristoforo de Rotiis de Rantio, del fu signor Gio Alberto,
abitante in detto luogo di Ranzo, pieve di Cuvio, ducato di Milano, al presente soggiornante nel
Borgo di Cannobio. Richiesto di deporre sotto giuramento, risponde alle domande dell’inquirente
attestando che al riguardo dei predetti miracoli sa soltanto dire questo, e cioè: proprio oggi, avendo
sentito che fatti miracolosi si verificavano nella casa d’abitazione del signor Tommaso de Zacheis,
essendosi recato precisamente in quella casa stessa, in una certa saletta situata sopra la caminata di
quella casa, aveva visto le immagini della Beata Vergine Maria, della Pietà di Nostro Signor Gesù
Cristo e di S. Giovanni Evangelista dipinte sopra una piccola tavoletta stillare lacrime di acqua viva,
e poi rinnovarle; ed una lacrima più grande si era fermata sul petto di detta Pietà; stettero così per la
durata circa di un’ora, e poi le vide asciugarsi da sole e non rimanerne più traccia. Non sa altro,
sebbene abbia sentito dire che nei giorni scorsi quelle immagini fecero parecchi miracoli,
soprattutto emettendo quel sangue che tuttora si può notare disseccato sia all’altezza degli occhi di
dette immagini, sia accosto alle ferite della Pietà.
Richiesto come può accreditare la conoscenza dei fatti da lui esposti, se altri siano stati presenti,
in che luogo e in che tempo, risponde che egli è a conoscenza dei fatti perché vi fu presente, e gli
furono riportati e li apprese nei termini suddetti; presenti con lui il signor maestro Luigi de
Mantellis fisico, il signor Pietro de Zacheis, il signor Giovanni Antonio Homacini, molti altri di
Castiglione [d’Olona] e di Varese, e moltissima gente locale che egli non conosce, nei tempi e nel
luogo precisati.
Ha trenta anni circa di età».
30 (fascicolo N. 2 – marzo 1996)
È questa l’ultima tra le deposizioni raccolte a Cannobio dal Vicario della Curia arcivescovile
Ruffino Bilingeri. È del mercoledì 5 febbraio 1522, e, come le precedenti, è rogata dal notaio
cannobiese Bartolomeo de Albertinis. Il verbale delle sedute inquisitoriali, come già si è detto, ci è
giunto in copia redatta dal figlio di Bartolomeo, Gio Antonio, egli pure notaio.
La trascrizione dal latino notarile, già di per sé disadorno, è qui resa stilisticamente povera nel
preciso intento di non discostarci dalla scarna relazione dei fatti, come fu rilasciata dal testimone.
«Convocato si presenta il signor prete Battista de Buziis del fu signor Antonio, rettore della chiesa
di S. Pancrazio di Vedano della pieve di Castelseprio ducato di Milano. Richiesto di deporre, egli
giura ponendo le mani sul petto, come è norma per gli ecclesiastici. Ed attesta che in verità, mentre
egli sostava sotto i portici di riva del Borgo di Cannobio, vedendo un gran numero di persone correre
verso la casa d’abitazione del signor Tommaso de Zacheis ed avendo appreso che detta gente là
correva per vedere fatti miracolosi che in quel momento vi accadevano, anch’egli subito si recò in
quella stessa casa, e lì salite le scale ed entrato in una saletta, vi scorse appesa ad una delle pareti una
tavoletta su cui stanno dipinte le immagini della Beata Vergine, della Pietà di Nostro Signor Gesù
Cristo e di S. Giovanni Evangelista. Ed essendosi avvicinato alquanto a detta tavoletta, vide che non
solo le figure ma anche la croce lì dipinta e pressoché tutta la tavoletta trasudavano grosse lacrime di
acqua chiara che in parte scorrevano lungo la tavoletta ed anche più sotto, su una cassa di legno di
sandalo. E quelle lacrime vide rifarsi due volte su detta tavoletta e restarvi per lo spazio di circa
un’ora e poi asciugarsi da sole. Altro non vide né sa, all’infuori delle informazioni avute: che cioè le
stesse immagini nei giorni scorsi fecero parecchi altri miracoli, soprattutto stillando sangue dagli
occhi ed anche dalle cicatrici di detta Pietà, come ancora al presente tale sangue può essere osservato,
e appunto lo si nota disseccato agli occhi e alle cicatrici. Altro non sa.
49
Richiesto che chiarisca da dove egli ricavi questa conoscenza da lui fatta, in presenza di chi, in
qual luogo e tempo, risponde che conosce le cose da lui dette perché è stato presente, le ha viste, ne
fu informato nei termini suddetti, presenti oltre a sé, il signor Giovanni Pietro de Buziis, suo
fratello, lo spettabile signor maestro Luigi de Mantellis fisico, il signor Giovanni Antonio
Homacini, il signor prete Giovanni Antonio de Macironibus, il reverendo signor Raffaele de
Castiliono, il signor Francesco de Castiliono e parecchi altri, forestieri e abitanti di detto Borgo,
quanti la saletta poteva contenerne, nei tempi detti e nel luogo precisato.
Ha trent’anni circa».
Sottoscritto con segno tabellionale: «Io, Giovanni Antonio de Albertinis del fu spettabile signor
Bartolomeo, abitante nel Borgo di Cannobio diocesi di Milano, notaio pubblico milanese per
imperiale autorizzazione ed avendo l’autorità di trascrivere strumenti e scritture rogate e redatte
dallo stesso mio defunto genitore, già notaio pubblico milanese, e ciò in base all’autorizzazione
concessami lo scorso anno 1550 dai magnifici signori, alla data, Abati del venerabile Collegio dei
signori notai di Milano, ho fatto estrarre fedelmente dall’originale, esistente presso di me, parola per
parola le soprascritte testimonianze giurate rilasciate dai suddetti testimoni interrogati dal mio
signor genitore, e dopo aver confrontato questa copia con l’originale, mi sono qui sottoscritto
apponendo la mia solita cifra, tralasciando tuttavia la deposizione del signor Gio Pietro de Buziis,
undicesimo testimonio in quanto imperfetta».
È datata al 27 febbraio di quello stesso anno 1522 una dichiarazione perentoria, rogata dall’altro
notaio cannobiese Giacomo de Poscolonia a nome di un gruppo eccellente di visitatori. Sono
costoro: frate Francesco de Ugenio dell’Ordine dei Frati Minori e guardiano del monastero di Santa
Maria delle Grazie del borgo di Bellinzona, frate Benedetto de Leuco di Milano, entrambi in quei
giorni “predicatori della parola di Dio” nel borgo di Cannobio; frate Benedetto de Padono e frate
Agostino di Varese, pur essi di detto Ordine, al momento residenti a Cannobio; il signor prete
Bernardino de Meno, arciprete della chiesa di San Vittore di Calcio, cappellano del conte Federico
Borromeo; il signor Bonaventura de Ascona, milanese; gli aronesi signor Giacomo Cotta e Stefano
Chirono; Ambrogio del fu Giovanni Arlino di Pallanza, Bernardino Abondis di Bellinzona, Tonino
figlio di Protasio de Cannobio, abitante a Locarno; Bernardino di Crana di Vigezzo; Ludovico
Suardo di Milano, Giovanni fu Bondelli di Stresa e Pagano fu Romanolo di Orgnana di
Gambarogno, e parecchi altri, borghigiani e forestieri.
Con molta enfasi (e siamo soltanto al 27 febbraio 1522), perché la verità sempre emerga e
rifulga agli occhi di tutti, a vantaggio di coloro che avvertono quanto siano importanti le cose da
loro dichiarate, unanimemente e singolarmente dichiarano recisamente quanto segue.
Mentre nel borgo di Cannobio essi sostavano nella casa di Tommaso Zaccheo posta alla riva del
lago, e precisamente in una certa camera o locale superiore alla caminata, ove sta appesa una tavoletta
con dipinte le figure del sacro Corpo di Cristo in sembiante di Pietà eretto sul sepolcro, e di Sua
madre la Vergine Maria, e del beato Giovanni Evangelista, con i contrassegni della Passione, in quel
momento, a notte fonda, in detta camera fortemente illuminata cum maximo lumine, hanno osservato
con piena evidenza expresse et manifeste su dette immagini la presenza di un certo liquido nonnullum
liquorem quasi fosse sangue vivo in modum sanguinis viventis soprattutto sul corpo di Cristo, che
sembrava fosse stato di recente flagellato. E questo durò e fu notato per quasi due ore
Il documento risulta redatto nella camera stessa suindicata, alla presenza del dottore Luigi fu
maestro Maffeo de Mantellis, del signor Luigi fu Donato de Zacheis, del signor Francesco fu
Gabriele de Postcolonia e di Bernardino fu Stefano Monaco de Pizaliis.
Nel 1696 viene edita a Milano la Relatione de’ miracoli avvenuti nel borgo di Canobio.
Lì si giunge alla terza fase: se allo smarrimento tremebondo dei più immediati testimoni era
subentrato il compiaciuto cristiano orgoglio di poter attestare le opere di Dio (vedi sopra), ora la
parabola discendente devozionale si completa con un racconto propinato aggiungendovi il deleterio
ingrediente del mirabolante.
50
Ed anche in seguito, chi più ne ebbe più ne mise. Ne diamo un assaggio, ricavandolo da quanto
fu scritto in occasione del quarto centenario del Miracolo di Cannobio.
«Nella casetta... facevasi osteria... La sera dell’8 gennaio 1522 stavano riscaldandosi al
caminetto alcuni avventori che discorrevano (ohibò!) della miseria dei tempi... della nomina del
papa Adriano VI... della guerra nel Milanese... del marchese di Pescara e di Prospero Colonna...
Elisabetta ordina alla figlia Antonietta di andare al piano superiore... e questa obbediente accende
un cero e ascende le scale; ma giunta alla porta della saletta, il lume arcanamente si spegne (e si
spegnerà tre volte, ma quella, capite?, testardamente per tre volte lo riaccende! Entra nella saletta, e
qui...) una forza misteriosa la afferra per i capelli e la costringe a guardare alla parete di fronte
(dove stava appesa la tavoletta. E la bambina grida spaventata). Al rimbombo di cotal grido...
accorrono i famigliari... e in un baleno la saletta è ripiena di gente accorsa a vedere l’annunciato
prodigio... La luce era tenue e il raccoglimento dominava l’assemblea adoratrice. All’improvviso
tutti gli astanti sentonsi bagnare di liquido umore il viso, il collo, le mani, le vesti, come se la
pioggia stillasse dal cielo aperto!».
Ma qui ci manca la forza d’animo per proseguire.
51
1
(fascicolo n. 6 – luglio-agosto 1996)
La gente di Cannobio volle il suo Santuario, e nei più disparati modi, riassumibili in oblazioni di
centinaia di migliaia di uova, di altrettante migliaia di anguille trote e cavedani... e poi... cosce di
agnello, archibugi e spade... il tutto... per mesi ed anni, ininterrottamente per oltre due secoli.
Praticamente i santuari si differenziano da ogni altro luogo di culto per il credito vero o
presunto di cui godono: di funzionare come canali preferenziali per il sollecito disbrigo di pratiche
personali con la Provvidenza. Come tali, ovviamente, stanno inseriti in una graduatoria di merito
fissata in base alla loro maggiore o minore affidabilità, alla caratura più o meno gratificante del
presunto intervento soprannaturale che ne ha segnato l’origine. È consuetudine che vi si acceda
pellegrinando; è di prammatica che il ceto ecclesiastico vi svolga fruttuosa intraprendenza
promozionale; che lì convergano le copiose elargizioni di personalità non immemori del proprio
aldilà; non ci si stupisce se la decrescenza devozionale li sfoltisce qua e là, purché permangano a
conforto delle nostre infermità quelli di Lourdes o di Compostella.
È quanto genericamente si può dire dei santuari; ma spiacerebbe assai se i Cannobiesi, anche i
più D.O.C., avessero perso memoria della tipicità del proprio santuario della Ss. Pietà. Al riguardo
occorre fare tutt’altro discorso: si tratta infatti di una vicenda minuziosamente documentata, eppure
ancora tutta da raccontare, perché la si è lasciata insabbiare, surclassare da certa artificiosa oratoria
chiesastica venuta in voga tra Seicento e Settecento (e purtroppo importata anche a Cannobio), di
pronto effetto e di cialtrona qualità. Le si può imputare di aver inquinato l’attendibilità delle scarne
testimonianze dirette, di aver stravolto le ambientazioni e declassato i connotati dei protagonisti, e
con barocche manipolazioni d’aver immiserito episodi di per sé altamente drammatici riducendoli a
ballons d’essai.
Schematicamente: la storia del santuario della Ss. Pietà presenta aspetti del tutto originali, non
riscontrabili altrove, e talmente provati da rendere superfluo ogni velleitario sciovinismo.
È arcinoto che il quadretto della Pietà trasudò acqua e sangue tra gennaio e febbraio del 1522,
là ove poi fu eretto l’attuale santuario. Ma non si è posta attenzione alcuna alle dichiarazioni
ufficialmente rese in quei giorni: che nel borgo, già atterrito dalle scorribande militari di quei tempi,
ciò che stava accadendo sotto gli occhi di tutti, laggiù in riva al lago, in una delle case borghesi e
precisamente nell’abitazione dei signori Zacchei, fu visto come ancor più oscuro e allarmante
presagio di collera divina e di castighi incombenti. Non per nulla si gridò atterriti «Misericordia», e
non esultanti «Al miracolo».
Rimase nell’ombra il Capitolo di San Vittore, estraneo l’Arcivescovado milanese, marginale il
Casato dei Borromei. La pronta mobilitazione fu dei Borghigiani, laicamente guidata dai loro
Notabili. E con incessante quotidiana oblazione di denaro e di qualsiasi cosa avesse un pur minimo
valore venale fu sovvenzionata la ristrutturazione delle stanze al primo piano della casa, ben presto
ceduta alla comunità dal signor Tommaso per farne un luogo sacro.
E questo fu chiamato non a caso “la Devozione”: infatti non intendevano i Cannobiesi saldare
un debito di riconoscenza al buon Dio per il miracolo glorificante a loro elargito, bensì scongiurare
ulteriori sventure riservandoGli a mò di caparra, quale omaggio ligio, ossia di devota fedeltà, per il
momento un luogo a Lui consacrato, e ripromettendosi – non appena le avversità congiunturali lo
avessero consentito – di dedicarGli un edificio il più possibile sontuoso e degno di Lui.
Tutto questo ce lo hanno lasciato scritto a chiare lettere.
52
La Devozione veniva dunque a collocarsi al di fuori della tradizione dei santuari-dispensa di
grazie personalizzate, come peraltro se ne ha conferma dall’assenza, a lungo protratta, di quegli
abituali attestati o ex-voto che servono bellamente ad accreditare il prestigio di un santuario.
A Cannobio il richiamo fu ben altro, ben più forte e diretto, e si mantenne immutato fino a che
fu raggiunta la totale esecuzione di quanto era stato inizialmente progettato: un’operazione che si
sviluppò lungo un arco di tempo di quasi tre secoli. Ed è possibile ricostruirla in ogni suo dettaglio
perché registrata pressoché quotidianamente nelle pagine dei tre grossi volumi di contabilità di
cassa dai tesorieri della Confraternita della Ss. Pietà. Un resoconto con migliaia di voci di entrata e
di uscita – il dare e l’avere di quei tempi: vi si possono ricavare ambite informazioni sui tempi di
lavorazione, sulla composizione delle maestranze, sull’apporto dato all’erigendo santuario da
architetti, scultori, decoratori, pittori, orefici.
Ma soprattutto vi sta evidenziato un dato che obbliga a riconsiderare con estrema attenzione ciò
che accadde nella saletta di casa Zaccheo in quei primi giorni del 1522.
Perché altrimenti rimane inspiegabile come la gente di Cannobio abbia potuto ostinatamente
volere codesto suo santuario: essa sola (a prescindere dalle poche lire elargite in due soluzioni dal
cardinale Federico e dal conte Giberto) e nei più disparati modi, riassumibili in oblazioni di
centinaia di migliaia di uova, di altrettante migliaia di anguille trote e cavedani... e poi “gipponi”,
anelli, cosce di agnello, archibugi e spade, pani di burro e scarpe dismesse o guardaroba dei propri
defunti; il tutto messo all’incanto per coprire le spese della costruzione, per mesi ed anni,
ininterrottamente per oltre due secoli.
Queste cose i Cannobiesi d’oggi forse le ignorano, ma varrebbe la pena che ne recuperassero la
memoria.
È la più bella storia del loro Borgo.
2
(fascicolo n. 7 – settembre 1996)
Trascriviamo qui dal foglio 137 del libro mastro della Schola o Confraternita della Ss. Pietà di
Cannobio per gli anni 1615-1645 la registrazione fatta dal tesoriere Francesco Rossetti: Si sono
cavatte lire 548 soldi 12 denari 6 d’elemosina à effetto per far comprare una lampeda dargento per
la nostra cappella, li quali dinari si sono racolti per la cercha fatta per il nostro borgho sin adì 13
magio 1635, compresi ducati n° 12 havuti dal signor Gio Antonio Homacino per la fracia del
signor Marcho Baddi suo gienere.
Chiariamo subito che fracia era detto lo scotto in danaro estorto con gioviale e tradizionale
ribalderia dei giovani borghigiani da chi passando a nozze “tradiva” il celibato o la vedovanza
Al successivo foglio 141 lo stesso tesoriere annotava tra le spese: si è pagato lire 1501 soldi 12
al signor Gio Ambrogio Schagno horefice in Milano al segno del Melone per saldo de lire 2114
soldi 10, l’ammontare della lampeda dargento havuta dal suddetto sì come per sua lista e confesso
(quietanza). Della lampada si è persa memoria e lugubremente ci chiediamo quale ne fosse il valore:
artistico, monetario, testimoniale.
Valore artistico: ebbene, si tenga presente che dello Scagno esiste una pregevole opera persino
alla Certosa di Pavia.
Valore monetario: potremmo tradurre il prezzo della lampada nella valuta d’oggi. Ma è più
efficace commisurarlo sulla disponibilità finanziaria dei borghigiani, dato che essi, come risulta,
furono i principali committenti. Allo scopo disponiamo di alcuni riferimenti approssimativi,
sapendo che le retribuzioni giornaliere dei più comuni mestieri oscillavano dai 18 soldi per gli
apprendisti ai 35 per l’operaio finito, ai 45 per il qualificato.
Anche l’eterogenea serie delle cose che i Cannobiesi mettevano all’incanto – e che
rappresentarono il più consistente cespite per finanziare la fabbrica del Santuario – ci consente un
abbozzo di paniere casalingo: il costo di un uovo s’aggirava su un soldo; per una libbra di burro (8
etti circa) si pagavano 10 soldi, per un pane 6 soldi, per una libbra di pesce 18 soldi (11 gli agoni,
17 le anguille); una formaggella valeva all’incirca 20 soldi, un pollo dai 10 ai 15 soldi; per un
boccale di vino (un litro circa) occorrevano tre soldi e mezzo.
53
Tenendo ora presente che 12 denari facevano un soldo, e 20 soldi facevano una lira, ne
ricaviamo che le 2114 lire e 10 soldi della lampada d’argento significavano 2460 giornate lavorative
di un garzone o 984 di un operaio qualificato; oppure equivalevano al costo di 3530 polli, di 3524
dozzine d’uova, di 12082 boccali di vino, eccetera eccetera.
Messa in questi termini, veridici e solo apparentemente banali, la riaccensione emotiva per la
lampada d’argento, che si verificò nel borgo in quel 1635 (si badi, a distanza di 113 anni dal fatidico
1522, l’anno del “miracolo”, o presunto tale per chi si reputa smaliziato), e che coinvolse una
discendenza di Cannobiesi ormai giunti alla quarta o quinta generazione, mal si presta a
configurarsi come un collettivo revival ante litteram, se non altro perché a differenza di quelli oggi
in voga era finanziariamente autolesivo, e doveva risultare quanto mai indisponente per la
comunità del borgo, e indecoroso per la Confraternita della Ss. Pietà.
Basti ricordare che la gente del borgo si cimentava da oltre quarant’anni con la fabbrica del
santuario: un’impresa tecnicamente impegnativa ed oltremodo costosa per la prossimità alla riva
del lago.
Per far fronte al disavanzo di cassa, si erano escogitati i più originali espedienti: oltre alla
pressoché quotidiana somministrazione d’ogni cosa che messa all’incanto facesse denaro, erano
state disseminate cassette d’elemosina dentro e fuori San Vittore, le si erano piazzate sulle barche
dei traghettatori di mestiere, all’ingresso della guardina comunale, tra i banchi del mercato,
all’esattoria, negli uffici del dazio e persino in quello dei giudici di pace.
Si andavano racimolando i più disparati contributi: basti dire che i maestri di scuola avevano
tramutato le sanzioni disciplinari in ammende pecuniarie, e la gioventù “brava” del borgo appostava
ormai chiunque, indigeno o brinzaghese o asconese o intrese che fosse e capitasse a Cannobio per
prendervi moglie, onde estorcere goliardicamente la “fracia” a pro della fabbrica della Pietà.
E questa, finalmente, nel 1612 trovava compimento nella copertura del tiburio mediante lastre
di piombo: 3029 lire di solo materiale e un pesante disavanzo di cassa, solo in parte rimediato grazie
a prestiti, concessi a tasso zero dai borghigiani meglio attrezzati. Due anni dopo restavano ancora da
pagare i barcaioli che avevano traghettato i quintali di piombo da Porta Ticinese lungo il Naviglio, e
poi per lago sino a Cannobio.
Ma già nel 1617 veniva stilato un nuovo contratto con lo stuccatore Taddeo Querini di Lugano
perché decorasse con statue e fregi in rilievo il coro della Pietà: per la sua prestazione artistica fu
concordato un compenso di 1200 lire, a cui si aggiunsero le spese per i materiali impiegati,
“vergelle di ferro, marmore masnato, calce sabbia e quadrelli, pignatini e cadini di legno”, nonché
60 lire per i 280 boccali e 1/2 di vino a sostegno dell’estro degli stuccatori, oltre alle spese per il
loro alloggio.
Tre anni dopo, nel 1620, fu la volta dell’orefice milanese Defendente Besa, che su ordinazione
confezionò la cassa d’argento in cui venne riposta la Sacra Costa. La fattura del reliquiario
comportò un esborso di altre 462 lire.
Seguì a ruota, nel 1621, il fonditore Luca Borella di Lugano, a cui venne commissionata una
campana di oltre due quintali: occorsero 4 moggia di carbone e 435 lire di manodopera.
È dell’ottobre 1628 il deposito di una caparra di 20 ducati, effettuato presso il fondegaro di
Varese Gaspare Masnago, con cui si impegnavano i maestri scultori Ludovico e Nicola de’ Rossi di
Arzo ad allestire la balaustrata in marmi dell’altare della Pietà. E questo sarà architettonicamente
rinnovato a partire dal 1636 (quindi non appena acquistata la lampada d’argento di cui s’è detto) ad
opera degli scultori Pietro Giacomo Verda e Francesco Rusca Castello, e con la supervisione degli
ingegneri Crivelli, Maraviglia ed Herlichino.
Di conseguenza vennero rifatte le decorazioni del coro dallo stuccatore Pisoni, mentre la
ricollocazione dell’ancona gaudenziana abbisognò dell’intervento del pittore De Giorgi, che curò
anche il restauro dei quadri laterali all’altare e degli affreschi della volta sovrastante e del cupolino.
E lui ebbe pure la committenza dei quattro quadroni con le Storie del Miracolo, poi debitamente
incorniciati dal maestro di legname Gian Angelo Bruni, con dorature di Giuseppe Antonio Rostino,
entro i contorni marmorei eseguiti da Giovanni Pellegatta marmoraro di Viggiù.
54
Seguirono nel tempo l’allestimento della cappella di san Lorenzo e l’affrescatura della navata
centrale ad opera di Cristoforo Giussani d’Angera, la fornitura di altre due campane, gli interventi
di Bartolomeo Tiberino d’Arona per il “depositorio” in San Vittore, e nel Santuario per “l’antina”
del quadretto della Pietà.
Ci si chiedeva, in apertura, quale fosse il valore testimoniale di una lampada d’argento,
comprata per 2114 lire e 10 soldi nel 1635: nulla più che una domanda artificiosa, come ben si
arguisce dalla serie di segnalazioni qui a bella posta condensate, e che non mancheranno certo di
mettere sul chi vive i cultori d’arte.
Diciamo meglio, la questione va riproposta in questi disadorni ed inquietanti termini: «Ma chi
e che cosa gliel’ha fatto fare ai Cannobiesi?».
3
(fascicolo n. 9 – novembre-dicembre 1996)
Non mi ritengo un sognatore.
Ma quando leggo ciò che don Crenna ci offre, sogno quel giorno... in cui si scoprirà il progetto del Santuario
commissionato da S. Carlo all’architetto Pellegrino Tibaldi; in cui si troverà la spiegazione della nicchia
all’interno del campanile; in cui sarà chiara la ragione per cui fin oltre la metà del ‘600 non ci sono ex voto...
Intanto, mentre si lavora su “le sudate carte”, un sogno si sta realizzando, presto verrà dato alle stampe.
A pag. 20 del volumetto di G. Zaccheo e C. Bernardi, I lüminéri, la festa della Pietà di
Cannobio, leggiamo: «Sulle modificazioni e traversie della festa della Pietà nell’Ottocento non
abbiamo ragguagli precisi e puntuali».
Va detto che al riguardo disponiamo di notizie sicure, a cominciare dal 1575, da quando nella
confraternita della Pietà prese inizio la registrazione bilanciata di entrate (il dare debitorio del
tesoriere) e di uscite (l’avere creditizio dello stesso): erano in quell’anno iniziati i lavori di
ristrutturazione e di ampliamento dell’oratorio originario, la cosiddetta “Devozione”.
Si tratta di una serie ininterrotta di dati che si estende fino al 1778, relativi dapprima ai soli
«officij fatti alla Santa Giesa, il giorno della solennità di detta Devocione» l’8 gennaio e, ad iniziare
sicuramente dal 1585, alla loro reiterazione voluta da san Carlo al lunedì di Pentecoste o seconda
festa di Pentecoste: «come fu ordinato dalla Gloriosa Memoria di San Carlo» perché in periodo
meno inclemente tanti altri potessero essere ammessi «al Sagro Baccio della Sagratissima Costa».
Disponiamo dunque di un tracciato sui generis, eppure suggestivamente descrittivo della
crescente intensità del pio richiamo esercitato dalle due ricorrenze, sostenuto dalle invenzioni di
connotazioni esteriori atte a propagarne l’ascolto: dapprima una contenutissima spesa di addobbi
con fronde di nasso comprate in val Cannobina entro coinvolgenti odori d’incenso e di storace, per
poco più di 25 lire, tutto compreso, anche l’obolo per l’officiante; poi, con l’accrescersi delle
strutture portanti e con la gettata della volta grande del nuovo santuario, al finanziamento ostinato
dei soli borghigiani s’aggiunse il contributo esterno dei pellegrini, e l’apparato devozionale assunse
toni fastosi.
E comparvero i musici di Pallanza, poi il gruppo aronese di trombetti e timpani, poi i
complessi musicanti ancor più forestieri corredati di regale, sino ai cantanti di grido provenienti
da Milano.
Alle fronde di nasso si aggiunsero le tappezzerie; alle voci melodiche gli scoppi dei mortaretti
caricati con crusca e il crepitio degli archibugi, con sempre più abbondanti provvigioni e scorte di
polvere nera comprata ad Ascona. E non mancarono i falò.
Prese piede la tiratura dei libretti contenenti la “relatione del Miracolo”, con frequenti
riedizioni, “aggiornate” con qualche fantasia di troppo; non si fecero mancare i due-tremila inviti
annui distribuiti su larga scala.
Lievitò anche la spesa che raggiunse le 200/400 lire al colpo; però nel contempo si riuscì a
piazzare il tiburio con copertura in pesanti lastre di piombo, si completò la struttura della cappella
grande, si passò alle decorazioni, ai marmi, agli stucchi, ai quadri.
55
Un impegno costante, una dedizione ammirevole compensata da successo, tant’è che nel 1726
maturò l’«Ordinazione dei Confratelli di far esponere ogni anno nel giorno 9 gennaio nella chiesa
collegiata di S. Vittore la Sagra Costa ad un hora di notte in circa, con una previa processione di
tutte le Scuole [confraternite], che s’incomincia nella chiesa di S.ta Pietà; e questo in memoria del
giorno ed hora in cui è uscita miracolosamente dal sagro quadretto; et in questa occasione si fa un
discorso nella suddetta chiesa di S.to Vittore, rammentativo del benefizio».
In una successiva disposizione del 16 gennaio 1729 leggiamo: «Convocati e congregati li
signori priore e deputati della veneranda Scola del Ss.mo Miracolo, abbiamo risolto di concludere,
per maggiore gloria di Dio, di proseguire l’incominciata fonzione nella chiesa di S.ta Pietà, cioè il
giorno 9 di gennajo, dopo l’antecedente festa in cui successe il grande miracolo, unite le Scole nella
suddetta chiesa, coll’intervento del venerando Capitolo e reverendi Padri Capuccini; e portandosi
dalla suddetta chiesa di S.ta Pietà alla Collegiata di S.to Vittore alle hore 23 circha per ivi colà
adorare quel Sacro Pegno che Iddio ci ha donato per suo amore, dove si vede con grande concorso
di tutto il popolo quello adorato, e con panagiricho di facondo horatore per maggiormente animare
il popolo a sì santa divozione. Similmente si propone il proseguire anche la di già incominciata
fonzione nelli anni scorsi, cioè nella terza festa di Pentecoste, e questo a fine di dare il comodo al
popolo di Canobio per il bacio.
Vedendosi che ogn’anno cresce sempre più il numero de’ Popoli forastieri, quali concorrono
all’adorazione della Sacratissima Costa, et riflettendo anche non esser possibile nella seconda festa
di Pentecoste, come fu ordinato dalla Gloriosa Memoria di San Carlo, admetter tutti i concorrenti al
Sagro Baccio di quella, con quella riverenza et divozione che si richiede, congregati noi deputati et
officiali della veneranda Scola di S.ta Pietà, a cui aspetta provedere a questa fontione sì santa,
ordiniamo che si debba far cantar messa et vesperi solenni la terza festa di Pentecoste nella
Collegiata di San Vittore, et che si esponga la detta Sagratissima Reliquia in quella giornata, a fine
di poter ammetter al Sagro Baccio di quella il Popolo di Cannobio, che avrà datto luogo a’ forastieri
il giorno antecedente; pur che sia concessa la facoltà dall’eminentissimo signor Cardinale
Arcivescovo, dal quale si spera ogni grazia a favore e beneficio delle Anime nostre».
Fu certamente un saggio smistamento onde evitare ressa ed incrementare il concorso dei
pellegrini. Ma affinché tali accorgimenti non degenerassero in virtuosismo devozionale troppo
finalizzato ad incrementare i proventi di bussola, il 20 agosto 1758 i confratelli della Pietà ridussero
le disponibilità di spesa assegnate al priore «nella forma come siegue, cioè: che la Scuola suddetta
non debba d’oggi in avanti passare a cadauno priore che sole lire 326, cioè lire 126 per la festa di
genaro e lire 200 per la festa di Pentecoste, proibendo espressamente alli signori priori d’oggi in
avanti il fare fonzioni di musica e sinfonia ed altre superflue spese come per lo passato, e ciò per
anni sei a venire, incaricando però a detti priori il fare dette fonzioni con decente apparato e sbarro
de mortaletti»; beninteso, purché anche in questo non si degenerasse, come si deduce dalla denuncia
di una santabarbara collocata in modo alquanto improvvido: «1761, 21 maggio. Ordiniamo che
nell’oratorio sotterraneo [del santuario] o in altro sito non si permetta mettervi polvere da schioppo
od altro e, nel caso che vi si trovi indebitamente, si rimuova sotto pene a noi arbitrarie rispetto al
sagrista che darà il ricovero. Carlo Cassirago, cancelliere della visita».
Ma di certo qualche priore, forse anche per eccesso di zelo devozionale, dovette scalpitare
contro codeste limitazioni finanziarie, tant’è che in data 8 agosto 1763 troviamo rinnovata per altri
sei anni la suddetta ordinanza, «perché così si stima per il maggior vantaggio della chiesa, come
anche per facilitare ad intervenire li soggetti ad accettare la carica di priore»
Tale prescrizione doveva dunque, a giudizio della confraternita, durare fino all’agosto del 1770;
ma il priore tesoriere signor Giovannino Zoppi la pensò decaduta allo scadere del sesto anno, cioè
nell’agosto 1769.
Perciò, nel giugno 1770, «per le feste di Pentecoste in occasione della fonzione, per intiero, con
musica e sinfonia» si ritenne legittimato a spendere ben 279 lire e 15 soldi.
Ne sorse questione.
56
Per troncarla «ed operare con prudenza fu conchiuso di portarsi ambe le parti dal signor dottor
Muggietti, presentaneo giudice di Cannobio, e comunicargli le rispettive ragioni per stare a quanto si
sarebbe da lui verbalmente deciso. Il giudice dichiarò che l’ordinazione del 1763 doveva intendersi
terminata nel 1769, onde la congregazione fu necessitata accordare al detto signor priore quanto di
elemosine si era da lui appropriato con notabile danno della chiesa, perché tale funzione fu fatta con
musica e sinfonia come si praticava prima delle citate prammatiche [con spese che toccavano le 500
lire]. Donde nel bilancio dei conti fatti si era riconosciuto che la spesa aveva assorbito l’ordinario
cavato, peraltro scarso a motivo del pochissimo raccolto. Di conseguenza l’8 settembre 1770 la
congregazione ha determinato di dare le seguenti prammatiche provvidenze: 1°. Li priori che saranno
pro tempore per la fonzione di genaro li sarà sovvenuto dalla chiesa, solamente e non altro, lire
centoventinove, e per la fonzione di maggio cioè di Pentecoste lire duecento, raffermando quanto era
stato ordinato nelle prammatiche 20 agosto 1758 e 8 agosto 1763, con che però li priori che
succederanno debbano fare la fonzione decentemente con sbarro de mortaletti e qualche contorno di
cendali [festoni] semplicemente al cornisone della chiesa ed alle fenestre della capella maggiore,
secondo si è introdotto e praticato in questi ultimi anni dopo d’esser stata ristaurata delli stucchi e
fregiata con li novi quattro quadroni; proibendo però ulteriore apparato ancorché li priori soddetti
volessero spendere del proprio. Che se poi qualche priore volesse far dette fonzioni con musica e
sinfonia, fochi arteficiati ed altra spesa, riservato quanto sopra, si dichiara che sarà detta ulteriore
spesa di musica sinfonia e fochi a carico di quel priore e la chiesa non dovrà essere aggravata per
niente di più a quanto sopra resta espresso, avertendo però che tutte le elemosine che si ricaveranno, sì
in chiesa che fuori, dovranno sempre essere ad utilità e beneficio e di ragione della detta chiesa, come
pure le lire dodeci che passa il Borgo per la terza festa di Pentecoste».
Un richiamo qui non dovrebbe guastare: ripartiamo dal 1575. Allora, e negli anni successivi, l’8
gennaio e il lunedì di Pentecoste erano per i Cannobiesi «i Giorni del Perdono», perché tutti – e i
giovani che avevano sentito raccontare, e i vecchi che avevano visto – provavano ancora un brivido
se richiamavano alla mente ciò che era accaduto in casa Zaccheo tra le grida di “Misericordia!”.
Poi, tra musiche, mortaretti e devozioni prevalse “la festa dei lüminéri”.
Seguono gli articoli monotematici pubblicati sulla rivista
57
(dal fascicolo N. 2 – marzo 1994)
Per una storia del Santuario
19
Per chi vuol saperne di più…
Ho letto con attenzione questo brano di don Crenna a proposito delle “tre chiavi”.
Quando il Signore decise di compiere il Miracolo a Cannobio non chiese parere a nessuno, ce l’ha regalato quale
dono prezioso.
Quando si è dovuto “gestirlo”: onorarlo, farlo conoscere... si son presi per i capelli.
Don Crenna mi perdonerà questo richiamo biblico fuori luogo, ma non troppo. La storia si ripete.
Gesù – narra il Vangelo – entrò in Gerico e l’attraversò, circondato da molta folla. Parlò, compì miracoli... poi
– raccontavo ai ragazzi – si fece avanti il Sindaco, responsabile civile della città, e lo invitò a casa. Con inchini
e gesti il Capo della Sinagoga, responsabile religioso della città, fece intendere di essere onorato di ospitarlo
nella propria casa.
Lui tirò diritto; giunto sotto l’albero dov’era salito Zaccheo, che voleva vedere Gesù ma era piccolo di statura,
guardò all’insù e disse: «Scendi giù! Nella tua casa oggi voglio fermarmi».
«Grazie», esclamò Zaccheo. «Signore, desidero destinare la metà dei miei beni per aiutare i poveri».
Intanto il Sindaco e il Capo Sinagoga, per l’occasione perduta, discutevano sull’opportunità che Gesù avesse
chiesto ospitalità in casa di un esattore di tasse considerato pubblico peccatore.
La gente – i devoti pellegrini – continua a seguire Gesù con una chiave sola, quella che apre il cuore.
Si tratta di un usciolo in noce scuro, ad una imposta,
tutto scolpito con figure in gran rilievo.
Sta in San Vittore, infisso sulla parete di sinistra,
alquanto in alto, proprio a lato dell’altar maggiore dalla
parte del Vangelo.
Sul lato del battente due toppe stanno ad indicare una
doppia possibilità di chiusura.
E di una terza serratura è fornito un cancelletto di
ferro retrostante, pur esso posto a custodia di un vano
ricavato entro lo spessore del muro: oggi inutilizzato, ma
in tempi meno recenti lì erano riposte le insigni reliquie
della Ss. Pietà.
Infatti, eccettuando il quadro del “miracolo”, sempre
rimasto là dov’era, in casa Zaccheo, nella saletta subito
trasformata in luogo di devozione, tutti gli altri oggetti
“toccati” dal miracolo, ivi compreso il calice con la “sacra
costa”, vennero raccolti e custoditi al gran completo in San
Vittore.
Fu una risoluzione estemporanea e d’emergenza, che diede avvio a situazioni tutt’altro che
pacifiche; anzi, ben presto fu maretta tra le due componenti del Borgo, laica ed ecclesiastica, e si evitò
che finisse in burrasca quando si pose di mezzo il vescovo ausiliare Francesco Ladino, appositamente
a ciò delegato dal vicario generale della diocesi milanese Giovanni Maria Tonso.
Insistenti erano state le richieste di un intervento dall’alto avanzate dagli ottimati del Borgo.
Non ci risulta che si fossero altrettanto mossi il prevosto e i canonici: da parte loro nessuna
sconfessione dei fatti accaduti, ma anche nessun compiacimento per quel “decentramento
devozionale” che, a seguito del miracolo, andava prendendo piede, caldeggiato com’era dai notabili,
e sempre più diffusamente dai borghigiani.
Il clero locale non se la sentiva di attribuire interesse alcuno al progetto d’un sacello – e
addirittura di una chiesa – se non fosse stato di sua esclusiva competenza; anzi, nutriva forti dubbi
che mai tale progetto si sarebbe concretato in una futura rendita beneficiale di qualche consistenza.
58
Semmai, tirando le somme, una buona combinazione risultava essere l’acquisizione di tutti i
“prodotti” tangibili del miracolo: veli e panni segnati di sangue e, beninteso, la Sacra Costa. Segni
ostensibili, questi, devozionalmente conturbanti, e dunque da non mollare perché sarebbero serviti
da richiamo per i cultori della nascente devozione alla Ss. Pietà, facendoli così dirottare a tutti gli
effetti su San Vittore.
La divergenza, nel giro di qualche anno, si era fatta assai complessa. Infatti:
1) la trasformazione della saletta del miracolo in oratorio è significativamente voluta dai
notabili, ma non entusiasma, anzi riesce ostica al prevosto e ai canonici;
2) dovendo prendere una decisione, è giocoforza o appoggiare l’iniziativa della fabbrica, o
accantonarla; in entrambi i casi una delle parti “perderebbe la faccia”;
3) la conseguenza più grave si avrebbe se perdente fosse la parte laica: per i riflessi negativi
sulla già discussa consuetudine che «Comune e uomini» di Cannobio debbano provvedere ad ogni
necessità di culto in San Vittore (onus providendi rebus necessariis sacrastiae ecclesiae sancti
Victoris) e soprattutto farsi carico dell’ordinaria manutenzione ed ancor più delle riparazioni
straordinarie alla chiesa stessa (sed etiam reparationi seu provisioni dictae ecclesiae).
4) La sdoppiata presenza di reliquie, in San Vittore e nella saletta-oratorio della ex-casa
Zaccheo, comporta una duplicità di introiti di cassa; non potranno infatti mancare – sia qui che là –
le oblazioni ed elemosine provocate dalla pia mozione degli affetti: denari, ovviamente, da destinare
ad opere di religione. Ma qui sorge il dilemma, se affidare l’amministrazione dei proventi sacri ai
maggiorenti laici che bramano la fabbrica d’una chiesa sul luogo del miracolo, ovvero agli
ecclesiastici di San Vittore che sembrano marciare in tutt’altra direzione. In tal caso, però, occorre
tener conto che per norma consuetudinaria sono di esclusiva spettanza del Comune e degli Uomini
di Cannobio – perché possano far fronte alle necessità della loro chiesa – tutte le oblazioni solite
darsi in occasione di funerali, d’impiego di stendardi, croci, paramenti sacri, immagini ed
ornamenti, suono di campane ecc. (omnia emolumenta quae provenient ex sepulturis, paliis,
crucibus, angelis, planetis, tonesellis, campanis et aliis apparatibus), incluse anche le rendite
canonicali del primo anno di nomina.
5) Per ultimo: qualora si realizzasse la progettata nuova chiesa, chi ne dovrà garantire
l’esercizio del culto in tutti i suoi aspetti, liturgici ed amministrativi? Se poi tale chiesa dovrà
costituire il polo devozionale che testimoni il miracolo ad onore della Ss. Pietà, le reliquie
depositate in San Vittore, con annesso gettito di elemosine, a chi spetteranno di diritto?
Dunque un groviglio di istanze e di mugugni, di prerogative canoniche ecclesiastiche e di inveterate
consuetudini comunitarie.
Per buona sorte a dipanare la matassa bastò la qualificata destrezza giuridica di mons. Ladino, non
per nulla Decretorum doctor. Con accorto dosaggio delle rivaleggianti supponenze, riuscì con
autorevole mediazione a varare un concordato sottoscritto dalle parti – podestà e consiglieri, prevosto e
canonici – convenuti alla sua presenza in San Vittore, il 21 aprile 1526.
Restava stabilito che tornava a gloria di Dio e a lode della religiosità cannobiese la fabbrica di
una chiesa, quale decoroso attestato sul luogo stesso del miracolo.
Tutti i proventi, comunque e ovunque derivanti dall’immagine della Ss.Pietà e da ogni altra
reliquia ad essa pertinente, erano da utilizzarsi esclusivamente per detta fabbrica.
Erano competenti, in tutti i sensi, fino al compimento dell’opera e successivamente per la sua
conservazione e funzionalità, unicamente ed esclusivamente sei laici designati dalla comunità in
base alla loro rispettabilità, ed inquadrati ecclesiasticamente, perché assoldati nell’apposita
confraternita della Ss. Pietà, tempestivamente eretta.
A costoro era devoluta in toto l’amministrazione degli introiti di tutte le chiese del Borgo – ivi
compreso San Vittore – escludendo da allora in poi ogni ingerenza del clero locale.
A nome della comunità i sei delegati si assumevano però l’onere di provvedere a tutte le
occorrenze del culto e di mantenere la consueta elargizione annua di 12 lire imperiali al prevosto e
ai canonici, quale attestazione della loro preminenza ed onorabilità; agli stessi spettavano anche le
elemosine ottenute dall’amministrazione sacramentale e le offerte raccolte alla Messa solenne di
Natale e di Pasqua.
59
La trasparenza amministrativa veniva garantita da un inventario annuale di tutti i proventi e da
una doppia registrazione contabile, tenuta dal tesoriere designato e vistata a tempi debiti dai sei
delegati, con facoltà di verifica estesa al prevosto di San Vittore.
Altrettanto controllate erano le due cassette, in San Vittore e alla Devozione, corredate
entrambe da tre serrature, le cui chiavi erano affidate rispettivamente al podestà, al priore della
confraternita, al prevosto o ai loro delegati. Per aprirle fu stabilito che fossero consenzienti almeno
due dei tre depositari, nel qual caso quod tertius teneatur et ipse accedere cum sua clavi.
Vale a dire: dinnanzi all’usciolo di noce scolpito, di cui si è detto all’inizio, sta il «magnifico,
generoso ed onorando podestà e reggitore della comunità» il signor Pietro de Mantellis; a titolo
personale, non tamen tamquam potestas sed tamquam persona dicti Burgi, è anche priore della
neonata confraternita. È la prima chiave. Lì sta anche Francesco Zanotello tesoriere della confraternita, nonché consigliere comunale. È la seconda chiave.
Da quanto si è detto sopra non vi è dubbio che i due si trovino consenzienti nell’accedere al
vano delle reliquie: due toppe, due chiavi e il battente in noce viene schiuso.
Rimane ancora serrato il cancelletto di ferro retrostante, la cui chiave – la terza – è tenuta dal
prevosto Benardino de Carmeno, e questi è dissenziente.
Ma con la clausola avallata da mons. Ladino ogni animosità viene troncata sul nascere, con
buona pace di tutti, apparentemente senza vincitori e vinti: proprio quello che allora premeva di più,
come ce lo spiegano tuttora le figurazioni scolpite a gran rilievo su quell’usciolo in San Vittore.
(dal fascicolo N. 3 – aprile 1994)
Per una storia del Santuario
20
Per chi vuol saperne di più…
Le notizie che don Crenna di volta in volta fornisce sono sempre interessanti; queste – su piode, travi... –,
giungono anche a proposito, quindi doppiamente interessanti. Ancora: grazie, a don Crenna.
Occorre genialità perché una soffitta diventi mansarda. Se è lasciata allo stato grezzo, viene
classificata “spazzacà’”, giusta la dialettale definizione di strampalato deposito dei nostalgici ricordi
di famiglia.
Così più o meno si presentò il sottotetto del Santuario della Ss. Pietà: messo all’aria – nel vero
senso della parola – lo si è trovato ingombro di «someri e travi di lareso e di castagno», di «canteri e
codighe di peccia», di «assi di pobbia». Tutto legname ossificato, dopo quattro secoli, dagli spifferi
del Valmaggino filtrante tra le sconnessure delle beole, e reso sghembo dal gran carico di piode.
Un materiale che andava rimpiazzato, ma ricordi che fatalmente scompaiono: quanto alle travi,
sapranno gli antiquari come riciclarle; quanto ai ricordi, facciamone almeno un cenno.
Tre le fasi di allestimento del tetto: tre tappe nella lunga storia della fabbrica del Santuario.
La prima fu raggiunta nell’ottobre del 1575, quando, risistemate le quattro stanze della ex casa
Zaccheo per ricavarne l’unico ambiente della Devozione, entrarono in scena il Cimero e il Rizzetto,
che traghettarono da Maccagno tre grossi «someri» coll’aggiunta di assi di larice e di abete, e da
Giazzo, forniti da GioAngelo, quattro barconi di piode.
Il «resegatto» Gietto, dal canto suo, approntò 19 travi ed altre 9 furono comprate da Stefano
Pizzalo. Alla fine di dicembre il Capitularo terminava la copertura: una spesa complessiva tra 25 e
30 milioni.
Poi tutto fu rimesso in ballo per trasformare la modesta Devozione in elegante Santuario: lo
volevano quelli del Borgo, lo volle l’arcivescovo Carlo Borromeo, lo progettò il Tibaldi, e lo
consentirono le finanze. Per anni, dal 1577, ci fu un gran daffare con «prede, medoni e marmori».
60
E finalmente, nel giugno del 1595, all’osteria di Bartolomeo Bagatello in Cannobio, Pietro
Beretta, capocantiere e direttore dei lavori, poteva commemorare – giusta l’onoranza tradizionale
delle maestranze edili – con i suoi muratori e manovali, la «seratura della volta grande»:
praticamente quella che dal muro attuale di facciata si spinge all’altezza del presbiterio.
Ritornarono di scena le barche del Rizzetto e del Cimero per trasportare le 370 braccia di piode,
comprate a Brissago da Giacomo del Matto, e da un certo Giovanni a Piodina: una superficie
complessiva di 125 mq di beole. E si noti il particolare curioso: a L. 40.000 circa per beola, proprio
quant’è l’offerta oggi richiesta dal buon padre Francesco.
Da Maccagno e da Colmegna furono traghettate le «codeghe di pecia», da Cero 21 «canteri» di
larice e 24 di castagno e da Brissago una trentina di altri legni.
La “onoranza” per il lavoro compiuto si ripeté, in tono dimesso, nel settembre del 1600: si era
infatti ultimata la copertura del breve prolungamento che completava lo sviluppo perimetrale del
Santuario: molti i fondamenti nella ripa del lago, ma poco tetto.
(dal fascicolo N. 6 – luglio-agosto
Per una storia del Santuario
1994)
21
Per chi vuol saperne di più…
C’è chi del Santuario “ostenta” di sapere tutto. Io mi apparto e volentieri, con somma soddisfazione, leggo ciò
che il carnet di don Crenna mi offre.
Sapevate che originariamente la calce per il Santuario fu presa a Maccagno e a Porto Valtravaglia e le sabbie dal
Maggia e dal Cannobino?
Eppure conoscete quasi a memoria il trattato di Marco Vitruvio Pollione!
Leggete ciò che don Crenna scrive, per lo meno venite a sapere quanto oggi s’è fatto pe rendere “bello” il
santuario. A qualcuno può venire... la nostalgia di vedere presto la ripresa dei lavori.
Ho letto sul bollettino della Ss. Pietà del giugno scorso: «In una foto del 1932, sulla parete del
santuario rivolta al lago si legge la scritta, in grande, “Santuario della Ss. Pietà – Monumento
Nazionale”. Ora la scritta non c’è più. E se si rimettesse?
Poi, col naso all’insù, con tanti altri, ho ammirato quel gran bell’effetto ambientale che fa la
nuova copertura di beole grezze e la finitura “fratassata” in color bianco dorato che esalta ed
accentua le dimensioni della fiancata destra del santuario.
E all’ingresso con vero sollievo d’occhi, non ho più dovuto indovinare entro l’oscurità delle
volte le modanature a stucchi, o congetturare quali mai fossero i soggetti pittorici degli indecifrabili
teleri posti alle pareti: perché da insospettate e riapparse vetrate figurate a colori s’è messa a piover
giù una luminosità morbidamente diffusa, che mette, sì, in risalto le inevitabili rughe e crepe dei
quattrocent’anni mal calcolati, ma perlomeno evita al visitatore e al pellegrino il fastidioso
sconcerto di un ingresso al santuario pari a un salto nel buio d’una catacomba.
Indubbiamente c’è voluto più cuore a rimettere concretamente in sesto questo monumento dei
Cannobiesi, anziché segnalarne la qualifica mediante dicitura didascalica, assai gratuita e di cattivo
gusto: ma nel 1932 era purtroppo invalso l’uso di imbrattare le pareti esterne delle case degli italiani
con scritte enfatiche e cubitali.
Non è infrequente che il “far immagine” si risolva in una camuffatura suppletiva della
sostanzialità, e che quest’ultima di norma sia avversa all’esibizionismo. Di ciò è prova la piccola
epigrafe (cm 35x40) che ricorda Pietro Beretta, figlio di Giovanni, di Brissago, intagliatore di pietre
(vulgo: scalpelllino) e riconosciuto capomastro edile, per anni direttore della fabbrica del santuario
fin quasi alla sua completezza. La scritta latina lo ricorda infatti (sciogliendo le abbreviazioni
paleografiche) Petrus Bereta Johannis filius Brissagensis scalpendi et aedificandi faber celebris
hujusque templi architectus fecit – MDCI.
61
Ci auguriamo che l’epigrafe, rimossa durante i recenti lavori, venga ricollocata in situ, nel
rispetto delle buone ragioni che la vollero collocata nel corpo della fabbrica, più impegnativo, del
prolungamento absidale del santuario verso l’instabile ripa del lago. La data (1601) ricorda la
conclusione della volta grande e delle strutture portanti per il tiburio, che il Beretta –
prematuramente deceduto – non poté però vedere ultimato.
I nominativi di tutti gli altri operatori, scalpellini, muratori e “piodari”, carpentieri, intonacatori,
stuccatori e marmorini, generici manovali maschi e femmine, barcaioli e traghettatori, stanno riposti
nei registri contabili della confraternita della Ss. Pietà: tutti assoldati da un’unica impresa, e questa
fu il Borgo stesso di Cannobio.
Oggi si sono mosse le Soprintendenze, e in certa misura il “Beretta” odierno può dirsi il geom.
Fiorino De Sario, posto a dirigere una complessa operazione di rifacimenti conservativi, come si
conviene ad un monumento che è anche “nazionale”.
Limitandoci ai lavori di restauro della fiancata destra del santuario, sappiamo che si iniziò
“svestendola” totalmente dalle sovrapposizioni degli intonaci, compreso quello originario fatto di
calce presa a Maccagno e a Porto Valtravaglia e di sabbie del Maggia e del Cannobino.
Sulla murata messa a nudo sono riapparsi i connotati della parete di mezzodì della casa degli
Zacchei e quelli delle prosecuzioni murarie con le quali fu ampliata la capienza dell’originaria
piccola Devozione ricavata nelle quattro stanze al primo piano di detta casa.
Le aggiunte edilizie verso il lago si sono rivelate di «quella fattura antica definita incerta, che
dai sassi posti gli uni sopra gli altri e legati alla rinfusa, è resa, se non bella, certo assai più soda
della reticolata, perché il muro, infarcito di pietre piccolissime e saziato dall’abbondanza della
calce, trova maggior umido, non dissecca presto e resta meglio congiunto».
È questo un criterio, sicuramente arcinoto agli addetti ai lavori, che abbiamo voluto richiamare
utilizzando un passo ricavato dal trattato De Architectura di Marco Vitruvio Pollione, omaggiato a
Cesare Augusto nell’anno 27 a.C.
Non deve apparire una stranezza questo collegarci ad un classico della scienza e dell’arte
edilizia, la cui validità di ammaestramento a tutt’oggi sta concretamente dimostrata dalla solidità e
dall’imponenza di tanti ruderi d’epoca. E a Cannobio si è voluto operare con altrettanta serietà,
come possiamo dimostrare riascoltando gli insegnamenti di Vitruvio:
«Nelle fabbriche di cementi convien pria di tutto aver cura di trovare l’arena; cioè, che ella sia
buona per fare la calce e che non sia mescolata con terra. Le specie dell’arena fossile sono queste: la
nera, la bianca, la rossa ed il carbuncolo. Di tutte queste la migliore sarà quella che strofinata fra le
mani, scroscia, perché quella che contiene qualità terree non ha quest’asprezza... Quella poi di
fiume, a cagione della sua magrezza, battuta a guisa di smalto coi mazzapicchi, rende durissimo
l’intonaco... Déesi anco usar tutta la diligenza riguardo alla calcina, la quale dev’essere formata da
pietra bianca, o selce, cotta... Spenta che sarà, si farà l’impasto della medesima coll’arena, se sarà di
cava, ma con due parti se di fiume... essendo questa la giusta proporzione della mistura».
Ascoltiamo ora il responsabile dei lavori, geom. De Sario:
«Previo rattoppo di crepe con calce bianca e conci, si è operata una zoccolatura lungo tutta la
fiancata del santuario, mediante zaffatura di un composto di calce anti-sale per ovviare alle acque di
risalita: il tutto per un’altezza di due metri da terra.
Si è fatta seguire una prima mano d’intonaco dello spessore di circa cm 1,5 in funzione del
supporto. Una rete metallica zincata a maglia fine vi è stata sovrapposta nella parte di mezzo della
fiancata, la più antica, corrispondente al muro originario della casa degli Zacchei.
Per una seconda mano d’intonaco si è utilizzata malta di una speciale calce idraulica Laforge
con sabbia del Toce.
La rifinitura è stata condotta fratassando al color bianco dorato un selezionato composto
Medolago di calce e sabbia quarzifera.
Il tutto a garanzia di resistenza agli agenti esterni, e in modo da consentire la massima aderenza
del rivestimento alla muratura sottostante».
Un nostro suggerimento: non dimentichi il geom. De Sario di annotare, sia pure in forma
minuscola, il proprio nome all’opera compiuta.
62
(dal fascicolo N. 7 – settembre 1994)
Per una storia del Santuario
22
Per chi vuol saperne di più…
A ferragosto si parla di esodo: tempo di svago, di riposo di curiosità, non certo di silenzio.
Ebbene, a ferragosto alcune persone hanno “scoperto” il Santuario e anche il Bollettino. Strano. Forse neanche tanto.
Una volta ancora – per rispondere alla richiesta – ricordo che l’Autore di questa rubrica è don Mario Crenna,
direttore del Bollettino Storico per la Provincia di Novara – non aggiungo altro! A cui va la riconoscenza dei
lettori per la ricerca storica sul Santo Miracolo e sul Santuario e – va pure detto! – per la fedeltà e la puntualità
nell’inviarci i suoi scritti preziosi, sempre attesi.
L’operazione “fabbrica della chiesa della Ss. Pietà” ebbe avallo ufficiale il 21 aprile 1526, a
quattro anni dagli inspiegabili fatti accaduti in casa di messer Tommaso Zaccheo.
Da quel gennaio 1922 lo sconcerto – diciamolo “timor di Dio” – anziché affievolirsi, alimentato
com’era dalle afflizioni di peste ricorrente e dalle pressoché stagionali traversie belliche, aveva
pervaso il «Comune et Homini» di Cannobio. Gli ottimati, i borghigiani ed i vicini persistevano nel
voler la nuova chiesa, intendendo così cautelarsi – anima e corpo – a fronte di quell’enigmatico
messaggio che, depositato dal buon Dio in casa Zaccheo, date le circostanze, non lasciava presagire
niente di buono.
Nicchiavano invece i canonici ed il prevosto della collegiata di San Vittore. Ovviamente: in
buona sostanza, vedevano profilarsi un fastidioso contraltare devozionale, sia pure in nome della Ss.
Pietà, con inevitabile dislocazione di introiti; il che sarebbe stato incomodante ancor più della bega
provocata tempo addietro dall’erigendo oratorio di San Lorenzo: fu osteggiato dal Capitolo, ma
voluto dagli influenti Cannobiesi, monaci e laici, «fratelli Umiliati della casa di santa Giustina», alla
fine gratificati dall’arcivescovo Ottone Visconti.
Le reiterate istanze della gente avevano dunque smosso la Curia metropolitana. Non l’arcivescovo
Ippolito d’Este, pastoralmente in perenne latitanza, bensì i due ecclesiastici di rango: il vicario
generale Giovanni Maria Tonso, dottore in diritto civile e canonico nonché consanguineo di quel
Tonso Marco Antonio (niente di meno!) commissario generale per la «tassa dei cavalli», l’imposta
base delle entrate ducali che servì poi per indicizzare ogni altra esazione fiscale nello stato di Milano.
Non si mosse di persona, trattenuto da incombenze di ben altro livello. Inoltrò a Cannobio il suo
ausiliare, mons. Francesco Ladino, dottore in decretali e vescovo di Laodicea in partibus infidelium,
quale mediatore tra le parti e giudice inappellabile.
Si provvide a contattare preventivamente anche il conte Ludovico, rappresentante di quel casato
borromaico che, da quasi un secolo, manovrando a suon di ducati con i Visconti e poi con gli
Sforza, si era ormai accaparrato quasi tutte le terre attorno al Lago Maggiore; il che consentiva di
controllare la grande via d’acqua commerciale tra le regioni svizzere e, tramite Ticino e Naviglio
Grande, la metropoli lombarda.
Dai tempi di Vitaliano, dal 1442, Cannobio era passata in feudo ai Borromei, divenendo cioè
una tra le tante voci del loro bilancio. Ma il vero inserimento nel giro d’affari dei Borromei si ebbe
quando gli Umiliati di Cannobio affidarono loro i beni più vasti e pingui, quelli situati nella pieve
d’Angera, con un contratto livellario a scadenza novennale costantemente rinnovato dal 1458 al
1551 dai prepositi della Casa di S. Lorenzo. Fu un vero cordone ombelicale tra il Borgo e il casato
comitale, assai più vincolante di qualsivoglia aggregazione istituzionale.
E va tenuto presente che quasi tutti i prepositi provenivano dalle famiglie cannobiesi più in
vista e godevano localmente di ascendente finanziario e politico per il fatto stesso che, unitamente
all’ufficialità del Comune, gestivano pro indiviso i due mulini “di Fondo” e “di Mezzo”: cioè, data
l’epoca, la massima concentrazione industriale di apparati idraulici, mole e vagli per gli sfarinati,
«reseghe» e «peste per la follatura de panno» e per confezionare il cuoio.
63
Ben si comprende perché mai su una delle pareti interne del collegio delle Orsoline,
corrispondente al lato di ponente della ex casa degli Umiliati ed abitazione dei monaci, si sia
rinvenuto fortunatamente, affrescato su un lacerto di intonaco originario a mo’ di decorazione, uno
dei simboli araldici dei Borromei: il morso per cavalli (di grazia, non la graticola di S. Lorenzo!).
Era inevitabile che il connubio tra finanza e politica inducesse ad estendere l’alto patrocinio dei
conti sulla domus sancti Laurentii fratrum humiliatorum. Né sorprende che al ventinovenne
cardinale Carlo Borromeo, protettore dell’ordine degli Umiliati, all’indomani del breve del 2 marzo
1517 con cui Paolo V li sopprimeva, venisse conferita dallo stesso pontefice piena discrezionalità
circa i beni patrimoniali confiscati all’Ordine disciolto; e fu pacifico che il santo cardinale nel 1581
offrisse ai confratelli della Ss. Pietà il materiale edile ancora utilizzabile per la fabbrica del
santuario, raccolto dalle «case dirute di S. Lorenzo», oltre alla campana, per la quale, quell’anno
stesso fu eretto il primo campanile, al di sopra della volta grande del santuario appena terminata, dal
lato di mezzodì.
Era impensabile dunque che mons. Tonso, mons. Ladino e i rappresentanti della comunità, nonché
prevosto e canonici di S. Vittore tenessero all’oscuro il conte Ludovico in vista dell’incontro, come s’è
detto in apertura, tenuto in S. Vittore il 21 aprile 1526.
Nel Bollettino del marzo scorso sta scritto quali risoluzioni furono prese relativamente
all’erigenda chiesa della Ss. Pietà. Sinteticamente: ne fu stabilito il piano finanziario, fu affidata la
piena competenza ai confratelli della Ss. Pietà, e soprattutto fu ordinato di trasferire ogni reliquia
(eccetto il quadro miracoloso) in S. Vittore, entro un apposito vano ricavato sul lato del Vangelo
presso l’altar maggiore. Il tutto (Sacra Costa compresa) sarebbe stato riportato nel nuovo santuario a
discrezione dei confratelli.
Detto “sacrario” era difeso da una porticina in legno di noce, con figure scolpite ad altorilievo e
di ottima fattura: quella stessa tuttora visibile in S. Vittore al luogo indicato. Possiamo considerarla
un piccolo monumento a ricordanza dell’accordo stipulato in quel 21 aprile, che varava
ufficialmente il progetto di fabbrica della Ss. Pietà.
Vale la pena di decifrarne le figurazioni, in particolar modo quelle araldiche onde evitare
interpretazioni errate: come ogni altro linguaggio, anche quello araldico esige di essere inteso nel
suo giusto senso.
Il pannello è tripartito. Nella sua parte superiore stanno segnalate le personalità ecclesiastiche.
Si notano infatti: la tiara pontificia sormontata dalla tipica corona simboleggiante le famiglie
patrizie (papa Clemente VIII allora regnante era del casato fiorentino dei Medici); al di sotto –
precedute dal lato sinistro da una croce semplice astile diocesana o vescovile, e a destra da una
raggiera simbolo della fabbrica o del Capitolo della chiesa metropolitana milanese – stanno appaiate
due mitre vescovili sormontate dai galeri prelatizi (cappelli tondi a larga tesa) con due ordini di
fiocchetti pendenti (1+2+3=6).
Dietro al galero di sinistra spunta il pomo della mazza prepositurale, o capitolare, e più in basso
un bastone dottorale al di sotto del quale vi è un elmo grigliato, in posizione frontale e incoronato,
simboleggiante il conseguimento di dottorato in giurisprudenza e l’appartenenza a famiglia titolata.
Codesti simboli parlanti descrivono le qualifiche del vicario generale mons. Tonso.
Dal lato opposto, scorrendo dall’alto in basso, dopo il pastorale, il galero e la mitra, si ripetono
il bastone del dottorato e l’elmo grigliato, però coronato con serto d’alloro: i contrassegni araldici
del vescovo Ladino, decretorum doctor.
Detti simboli sono contenuti in un riquadro contornato sui due lati da una serie di dati
(diremmo) cronologici, relativi alla Passione di Cristo: dal lavarsi le mani di Pilato alla colonna
della flagellazione, al sudario della Veronica, all’insegna apposta alla croce; e poi ancora la tunica
inconsutile, la deposizione dalla croce, il vaso dei balsami.
Nella parte centrale del pannello campeggia la riproduzione del quadro miracoloso della Ss. Pietà.
La parte inferiore è riservata al casato dei Borromei, la cui presenza a Cannobio, come si è
detto, era evidenziata dal loro rapporto con la Casa di S. Lorenzo. Ciò spiega la raffigurazione del
martirio di S. Lorenzo, compresa tra i due simboli parlanti del casato borromaico: in alto
l’Humilitas coronata, in basso il freno, o morso da cavallo.
64
È complesso il significato di quest’ultima figura araldica; più chiaro è il riferimento dell’altra,
che iniziò a decorare lo scudo dei Borromei dall’epoca di Vitaliano, il quale intese evidenziare
strumentalmente il risvolto sociale delle proprie finanze sovvenzionando di pane e vino i più
miserandi (gli umili) di Milano. Che poi questo simbolo araldico sembri essere stato un’esclusiva di
san Carlo, visto l’impiego che ne fece e il ben diverso significato che gli attribuì, è tutt’altro
discorso: non altera affatto la cronologia che va assegnata al pannello di S. Vittore, da ricondurre
senza dubbio alcuno ai fatti sopra descritti.
Sui due lati di quest’ultimo riquadro, in sequenza stanno i simboli che richiamano l’efferatezza
e i generi di martirio inferti dal mondo romano (la corazza e l’elmo): carrucole, ruote dentate,
spade, gogna, tenaglie.
Un piccolo capolavoro di invenzione figurativa!
(dal fascicolo N. 9 – novembre-dicembre 1994)
Testamento del nobile cannobiese Giacomo Omacino
34
Non c‘era bisogno di parole che accompagnassero l’articolo giuntomi a mezzo fax. Era evidente la decisione di
don Mario Crenna di pubblicare il testamento di Giacomo Omacino. Così mi fu confermato poi.
Dunque questo non è che un “assaggio gustoso” di quanto verrà pubblicato prima sul Bollettino Storico per la
Provincia di Novara poi sul Fascicolo n. 4 edito dal Santuario.
Mi si consenta di richiamare l’attenzione su Bernardina Zaccheo; un inciso che non è di poco conto per la storia
del Santuario.
Altro non aggiungo, se non un grazie cordialissimo a don Crenna.
Casa Omacini sta allineata tra altre case antiche sul lungolago di Cannobio: attualmente a tre
piani, con quattro campate di portico in facciata, aperte su piazza Indipendenza. L'ingresso è
contrassegnato dal numero civico 31; ma più significativa connotazione gli viene data dalla scritta
apposta centralmente sul fronte del palazzo: «Giacomo Omacino giureconsulto uno dei magnifici
vicari generali dello Stato di Milano. 1574».
Indubbiamente un personaggio di spicco, che sappiamo coevo di Carlo Borromeo. È noto infatti
che la sera del 30 ottobre 1584 egli ospitò il santo arcivescovo, che da Ascona rientrava a Cannobio
prostrato da un reiterato accesso di febbre terzana e per di più stremato per il tragitto fatto in barca
«con vento gagliardo e tempo travaglioso» (morirà a Milano il 3 novembre successivo).
Lo avevano sbarcato poco discosto; gli restavano da superare i pochi metri di piazza Baciocchi
per raggiungere la casa di fronte. E lì pernottò, accolto, per l'appunto, del magnifico signore
Giacomo Omacino.
Qualche essenziale ragguaglio su costui e sul suo casato ci viene fornito da Gio Francesco Del
Sasso Carmino (Informazione istorica del borgo di Cannobio, 1633). Apprendiamo da lui che gli
Omacini rientravano nel novero delle famiglie cosiddette «vicine» perché, sapendosi «originarie e
naturali», si consociarono, costituendo in tal modo la prima struttura del borgo. Si avvalsero di questa
elementare demarcazione al fine di meglio identificarsi culturalmente e nel contempo salvaguardare
da elementi spuri la propria comunanza di orientamenti politici ed amministrativi.
Ne derivò, come corollario, che esse detenessero «negli antichi tempi mero e misto imperio
ed onnimoda giurisdizione, sì civile come criminale; ed erano padroni assoluti, o, come si dice,
signori a bacchetta».
Di categoria subalterna erano «i non vicini, ovvero adventizii, comunemente appellati
Appoggiati», ai quali peraltro non era precluso un avanzamento di rango purché il loro inserimento
si fosse dimostrato utile alla comunità, o risultasse accreditato da particolari loro prerogative: «per
prescritta consuetudine o per privilegio». Comunque, per tale promozione sociale occorreva
l’unanime consenso del Consiglio generale, risultante da scrutinio segreto.
65
Formalmente dunque un ordinamento interno ben sorretto da una forte motivazione di base, e
all’apparenza di indubbia stabilità, come ne dà riscontro la citata Informazione: «Viveva questo
borgo con la sua pieve in libertà e reggevasi e governavasi da sé stesso a guisa d’una piccola
repubblica e non riconoscendo altro superiore nelle cose temporali che l’Imperadore, sotto cui
eleggeva i suoi podestà e vicari ovver rettori, dando loro amplissima possanza ed autorità».
Quantomeno tale tributo d’ossequio all’istituto imperiale veniva ostentato dai casati dei
Vicini, che – quasi tutti – vollero apporre la simbolica aquila nera su campo giallo in capo alla
propria arme.
O forse, più banalmente, si trattò di un’aggiunta boriosa: infatti, leggendo sugli scudi patrizi
le elaborate figure parlanti di torrioni, castelli, scalpitanti puledri, leoni rampanti, e tori e camosci,
con tanto colore e rosso e bianco; osservando i portali e le strutture abitative, tenendo presente la
dislocazione stessa delle residenze entro il circuito del borgo, si ha netta la percezione, per così
dire stratigrafica, di una diffusa orgogliosa concorrenzialità nell’esibire possanza, ricchezza,
autorevolezza.
Le ostentazioni di forza erano fatalmente destinate a trascendere in manifestazioni di prepotenza:
l’emulazione stessa nel proporsi come paladini del buon governo degenerò ripetutamente in
avversione, rancore e violenza faziosa, sia dovendosi designare i membri del Consiglio generale, sia
occorrendo eleggere in seno a detto Consiglio un nuovo podestà o un nuovo vicario.
Fu dall’epoca della contesa tra Chiesa ed Impero che il borgo si trovò ammorbato dalla
faziosità, divenuta poi una specie di afflizione endemica, come si desume dalle reiterate “paci”
rogate dai notai cannobiesi.
Le faziosità trovavano una loro descrizione topografica nella suddivisione stessa del borgo in
Superiore ed Inferiore: il primo, dichiaratamente ghibellino, essendo il più popoloso fu il vincente,
all’insegna del ramo d’alloro; il secondo, costituito da quelle case «che ora si vedono lungo la
riva e hanno sì bella vista agli occhi dei riguardanti» – le case Omacini, Tassani, Zacchei, Cervetti
ed altre – fu guelfo e soccombente, all’insegna del ramo d’olivo.
Comunque dal novembre 1342 non fu più competenza del Consiglio generale l’elezione dei
rettori o vicari e, nel febbraio 1441, Cannobio e pieve furono dal duca Filippo Maria Visconti dati
in feudo a Vitaliano Borromeo «suo Cameriere, poi creato conte d’Arona, per sé, suoi figliuoli e
discendenti maschi legittimi nati e che nasceranno di legittimo matrimonio e di linea mascolina in
infinito».
Col consolidarsi delle signorie viscontea e sforzesca si aprirono per gli ottimati cannobiesi le
vie del nascente apparato burocratico milanese: tra costoro in prima linea gli Omacini Gio
Antonio e Giacomo.
Il dato storico più antico di cui ora disponiamo, risale ai due fratelli Omacini: il magnifico
signor prete Gio Maria ed il magnifico signor Antonio. Costui prese in moglie la nobile madonna
Bernardina Zaccheo, figlia di Tommaso (per la sbadata lettura dei documenti da parte di certuni che
ne scrissero, questa nobildonna, oltre a trovarsi il padre declassato ad oste, fu bellamente assegnata
in moglie ad un oscuro Gio Antonio da Carmine; superfluo deprecare il successivo passamano di
codeste errate asserzioni).
Da lei ebbe due figli, così ricordati dal Sasso Carmine: «Gio Antonio, dopo d’aver atteso lungo
tempo all’arte del notaro in Milano ed essere stato cancelliere del senator Giulio Claro, poi reggente
in Ispagna, tanto celebrato, fu poscia per opera d’esso Claro reggente sottosegretaro
dell’eccellentissimo senato di Milano [...] abbandonò questa mortal vita l’anno 1583 e di sua età 53
avendo lasciato solamente due figliuoli, cioè un maschio ed una femina. Fu sepolto nel tempio
vecchio di S. Celso in Milano».
L’altro, Giacomo, «è stato giureconsulto e de’ Vicari generali dello stato di Milano, il quale
passò a miglior vita gli anni passati [il Sasso Carmine scriveva nei primi decenni del 1600],
avendo lasciato di sua moglie, gentildonna milanese, quattro figliuoli maschi con due femine ora
maritate; e giace sepolto nella chiesa di Santa Giustina di Cannobio dove vivendo fece porre nel
coro di essa chiesa a man destra un bello e sontuoso deposito di marmo».
66
Si è già detto in quale emergenza costui impensatamente si trovò ad ospitare il febbricitante
cardinale Borromeo, rimanendo di certo esterrefatto quando il presule (come scrive il biografo
Giussani) «essendo preparato un letto, lo fece levare collocandosi nel fervore del male sopra il
pagliarizzo per mantenere l’uso della solita sua penitenza» e, lì steso, si mise a discorrere sulla vita
e virtù di san Francesco con i padri Cappuccini del vicino convento di santa Maria Maddalena
«trattenendoli in ragionamenti spirituali».
Fosse casualità o conseguenza, pochi giorni dopo, il 17 novembre, il magnifico signor Giacomo
Omacini depositava presso il notaio Gio Antonio Albertini il proprio testamento olografo sigillato
in cera rossa.
Un documento veramente illuminante e degno di considerazione
67
Scarica

La Ss. Pietà - sito aggiornato al 26 Marzo 2015