I QUADERNI DELL’AIST
Associazione Italiana per lo Studio
del Dolore e dell’Ipnosi Clinica
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Quaderno N° 2
DOLORE E SOFFERENZA NELLE
VARIE COMUNITA’ UMANE
30 Marzo 2005
a cura di
Prof. Angelico Brugnoli Medico Chirurgo
Ipnoterapeuta
Esperto in Stati di Coscienza Modificati Neurofisiologici.
Esperto del Biometeolab Università di Milano
Presidente AIST
Associazione Italiana per lo Studio del Dolore
e dell’Ipnosi Clinica
e
Dott. Maria Paola Brugnoli - Medico Chirurgo
Specialista in Anestesia e Rianimazione
Perfezionamento in Agopuntura
Direttore Scientifico AIST
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Statua lignea policroma del XVI secolo raffigurante un "oppiato"
«Il dolore è in effetti il processo di purificazione che solo
permette, nella maggior parte dei casi, di santificare l'uomo, di
distoglierlo cioè dalla volontà di vita.
Perciò nei libri di edificazione cristiana viene così spesso
nominata la virtù salvatrice della croce e del dolore, e molto
propriamente la croce, strumento di sofferenza e non di azione,
è il simbolo della religione cristiana.»
Arthur Schopenhauer
Il ricordo della felicità non è più felicità, il ricordo del dolore è
ancora dolore.
Albert Einstein
•È sincero il dolore di chi piange in segreto.
Marziale
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•I dolori leggeri concedono di parlare:
i grandi dolori rendono muti.
Seneca
•Il dolore è ancor più dolore se tace.
Giovanni Pascoli
La più bella e profonda emozione che possiamo provare è il
senso del mistero; sta qui il seme di ogni arte, di ogni vera scienza.
Albert Einstein
Non aspettare il momento opportuno: crealo!
George Bernard Shaw
Il dolore è la sapienza del cuore,
perché ti fa domandare a ogni istante.
(Don Giussani - Tracce ott. 2007. p.17)
PERCHE’
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LE RELIGIONI DI FRONTE AL DOLORE
Il forte flusso migratorio registrato in Italia negli ultimi anni ha prodotti
mutamenti profondi nella società.
Non cambiano soltanto il volto delle persone, ma anche le sensibilità di
fronte ai problemi.
Cambia tutto anche per i medici, che devono tornare a confrontarsi con
problematiche desuete, oltre che con i nodi della comunicazione e della
comprensione.
Di questo tema si è parlato a Milano in un recente congresso della Società
Italiana di Cure Palliative: i rappresentanti delle religioni cattolica, ebraica,
musulmana, protestante e buddista hanno presentato la loro visione etica della
malattia e della morte, facendo quindi il punto sulle cure palliative, l’assistenza
ai malati inguaribili, l’accanimento terapeutico e l’eutanasia, alla luce degli
insegnamenti delle rispettive confessioni religiose.
Cattolici
A parere del teologo, il credente cattolico dovrebbe ricordare che la vita è
un dono e che la morte si presenta contemporaneamente come un evento
indisponibile (il morire non dipende dall’uomo) e insieme come decisione libera
(dipende dall’uomo come morire). Accettare la caducità della condizione umana
è la premessa per scegliere di “morire bene”. Per la religione cattolica è
dunque questione etica decisiva elaborare le forme della “buona morte”,
superando i concetti di eutanasia e di accanimento terapeutico, due
atteggiamenti rifiutati dal magistero ecclesiatico, perché pretendono di
dominare tecnicamente la morte.
Ø LA MEDICINA PALLIATIVA È UNA RISPOSTA CONCRETA AI BISOGNI DEL
MALATO INGUARIBILE E LO AIUTA A SUPERARE L’ALTERNATIVA TRA
ACCANIMENTO TERAPEUTICO ED EUTANASIA;
protegge il morente dal dolore; lo cura ma sa rinunciare a interventi
sproporzionati ed eccessivi, riconoscendo l’ineluttabilità della morte; gli offre
un accompagnamento e una prossimità che, nella prospettiva cristiana,
testimoniano la speranza di un futuro oltre la morte. La religione cattolica
consente di comunicare ai malati inguaribili la vera prognosi, anche se
infausta.
Ebrei
I principi base dell’etica medica ebraica sono: l’obbligo religioso di
proteggere la vita e la salute; la sacralità riconosciuta alla vita, dalla nascita
alla morte; la fiducia nel medico competente; la dignità riconosciuta alla
persona, sia in vita sia in morte; il concetto che la vita non appartiene
completamente all’individuo.
Il problema dell’eutanasia si pone quando la vita si presenta come
invivibile. La risposta dell’ebraismo è che non è consentito indurre la morte in
persone sofferenti. Vanno comunque distinte due forme di eutanasia.
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NON È CONSENTITA L’EUTANASIA DIRETTA, che consiste nello staccare la
spina o erogare del veleno.
E’ CONSENTITA L’EUTANASIA INDIRETTA, che consiste nel non supportare
il malato con apparecchiature.
Ø IN OGNI CASO SOMMINISTRARE SEDATIVI O ANALGESICI AI MALATI
INGUARIBILI, COME AVVIENE NELLA MEDICINA PALLIATIVA, NON È
EUTANASIA (NEPPURE SE LA TERAPIA POTENZIALMENTE PUÒ ACCELERARE LA
MORTE), A CONDIZIONE CHE MANCHI L’INTENZIONE DI DAR TERMINE ALLA
VITA.
L’ebraismo non ha invece regole univoche sul problema se rivelare (o
meno) la vera prognosi all’inguaribile; certo è consentito mentire “per amore”,
ma l’atteggiamento da tenere dipende dalla persona malata e dalla sua volontà
e capacità di affrontare la verità, che vanno valutate dal medico.
Musulmani
L’atteggiamento musulmano verso la malattia e la medicina è attivo e
positivo. La Sharia insegna come va trattato il corpo e comprende anche
consigli per un’alimentazione corretta e per la prevenzione delle malattie.
Ø GLI INSEGNAMENTI DEL PROFETA INVITANO A CERCARE E USARE LE
CURE PER TUTTE LE MALATTIE E NELL’ISLAM LA NEGLIGENZA DI UN UOMO
NEL CURARSI È CONSIDERATO UN GRAVE PECCATO VERSO DIO.
Ø LA POSIZIONE DELL’ISLAM SULL’EUTANASIA È NETTA: È SEMPRE
PROIBITA PERCHÉ NON È CONSENTITO MUTILARE O UCCIDERE IL PROPRIO
CORPO, CHE NON APPARTIENE A NOI MA A DIO.
Nella legge islamica l’eutanasia è considerata un omicidio. I musulmani
sono preparati alla morte e l’Islam ritiene che al malato inguaribile vada detta
la verità sul suo stato di salute, a meno che non sia in condizioni di spirito
particolari. Ma una volta che il malato è informato, bisogna cambiare tono,
introducendo nella conversazione messaggi di speranza e ricordando che Dio
può guarire tutto.
Valdesi
Per i valdesi la malattia non va vista, come qualcosa che giunge dall’alto
ma come il risultato di un degrado da ricondurre agli esseri umani e alla loro
vita individuale e collettiva. La medicina, con il suo sviluppo scientifico, è un
dono di Dio e risponde alla necessità di umanizzare la vita e la morte.
Ø LE CURE PALLIATIVE SONO UNA RISORSA PER RENDERE DIGNITOSA LA
VITA E IL MORIRE DI UN MALATO TERMINALE. I CRISTIANI EVANGELICI SONO
FAVOREVOLI ALLE CURE PALLIATIVE E CONTRARI ALL’ACCANIMENTO
TERAPEUTICO.
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Ø PER I VALDESI IL TEMA DELL’EUTANASIA, ATTIVA E PASSIVA, È UN
CAMPO APERTO: QUANDO LA MALATTIA INFLUISCE SULLA DIGNITÀ DELLA
PERSONA, NON È ACCETTABILE CHE UNA LEGGE POSSA COSTRINGERE AD
ALLUNGARE LA VITA.
In questo campo si gioca il destino di laicità di uno stato: non c’è nessuna
norma che possa andare bene per tutti. Lo stato laico, che non può essere il
risultato di un’ideologia dominante, crea spazi di diritto condivisibili, garantisce
la vita e il degno morire secondo la coscienza della persona. Bisognerebbe
prevedere degli spazi per decisioni individuali. In merito alla diagnosi,
generalmente il protestante preferisce sapere la verità, seppur con dolcezza.
Buddisti
Le preghiere e le pratiche devozionali tibetane liberano dal dolore psichico
ma non dal dolore fisico. Per questo occorrono le cure mediche, che devono
essere praticate in modo adeguato, anche il trapianto di organi. Non è
ammesso invece l’accanimento terapeutico. I principali suggerimenti del
buddismo ai sanitari che curano un malato terminale sono quelli di creare
equilibrio e di rispettare le sue credenze, senza cercare di modificarle negli
ultimi istanti della sua vita.
Ø IL BUDDISMO È FAVOREVOLE ALLE CURE PALLIATIVE PER I MALATI
INGUARIBILI, TUTTAVIA FA UNA ECCEZIONE: BISOGNEREBBE INTERROMPERE
LA SOMMINISTRAZIONE DI SEDATIVI AL MORIBONDO NELL’IMMINENZA DEL
TRAPASSO PERCHÉ QUESTI FARMACI POTREBBERO IMPEDIRGLI LA LUCIDITÀ
NECESSARIA PER PRATICARE IL TRASFERIMENTO DI COSCIENZA.
Sul tema della verità al malato inguaribile, il Buddismo considera giusto
informare il morituro delle sue condizioni, perché così si può preparare alla
morte.
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BENTHAM
Le quattro fonti del dolore e del piacere
§ 1. Si è mostrato che la felicità degli individui di cui una comunità è
composta, vale a dire i loro piaceri e la loro sicurezza, è il fine, e l’unico fine, a
cui il legislatore deve mirare, l’unico criterio in conformità al quale, per quello
che dipende dal legislatore, si dovrebbe far sì che ogni individuo modelli il suo
comportamento.
Ma che sia questa o un’altra la cosa che va fatta, non c’è niente per mezzo
del quale si possa in ultima analisi far sì che un uomo la faccia se non il dolore
o il piacere. Avendo considerato in generale questi due grandi oggetti (cioè il
piacere e quel che equivale alla stessa cosa, cioè l’immunità dal dolore) come
cause finali, sarà necessario considerare il piacere e il dolore stessi come cause
efficienti o mezzi.
§ 2. Si possono distinguere quattro fonti da cui il piacere e il dolore
derivano: considerate separatamente, possono essere definite fisica, politica,
morale e religiosa, e dal momento che i piaceri e i dolori propri di ciascuna di
esse sono in grado di fornire una forza vincolante a qualsiasi legge o regola di
condotta, possono tutte essere definite sanzioni.
§ 3. Se il piacere o il dolore ha luogo o viene atteso in questa vita, e dal
normale corso della natura, non modificato di proposito dall’intervento della
volontà di qualche essere umano o dall’intervento straordinario di qualche
essere superiore invisibile, allora si può dire che quel piacere o quel dolore
proviene dalla o appartiene alla sanzione fisica.
§ 4. Se è nelle mani di una particolare persona o gruppo di persone nella
comunità, che, sotto nomi che corrispondono a quello di giudice, vengono scelti
col particolare proposito di dispensarlo, secondo la volontà del sovrano o del
supremo potere dominante dello stato, si può dire che esso proviene dalla
sanzione politica.
§ 5. Se è nelle mani di persone a caso nella comunità, persone con cui può
capitare che la parte in questione abbia a che fare nel corso della sua vita,
secondo la disposizione spontanea di ciascun uomo, e non secondo qualche
regola stabilita o convenuta, si può dire che proviene dalla sanzione morale o
popolare.
§ 6. Se deriva direttamente dalle mani di un essere superiore invisibile,
nella vita presente o in una vita futura, si può dire che proviene dalla sanzione
religiosa.
§ 7. I piaceri o i dolori che possiamo aspettarci che provengano dalle
sanzioni fisica, politica o morale ci si deve attendere di sperimentarli tutti, se
mai, nella vita presente; quelli che possiamo aspettarci che provengano dalla
sanzione religiosa ci si deve attendere di sperimentarli sia nella vita presente
che, in una vita futura.
§ 8. I piaceri e i dolori di cui si può avere esperienza nella vita presente
naturalmente non possono essere altro che quelli di cui è suscettibile la natura
umana nel corso della vita presente; e tutti i piaceri o i dolori di cui la natura
umana è suscettibile nel corso della vita presente possono derivare da ciascuna
delle fonti suddette.
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Riguardo a questi dolori o piaceri, quindi (gli unici di cui ci occupiamo in
questo luogo), quelli propri di una qualunque delle quattro sanzioni in ultima
analisi non si differenziano nel genere da quelli propri di una qualunque delle
altre tre: l’unica loro differenza sta nelle circostanze che accompagnano la loro
produzione.
Ad esempio, una sofferenza che colpisce un uomo nel naturale e spontaneo
corso delle cose sarà denominata calamità. In questo caso, se si suppone che
questa sofferenza lo colpisca a causa di qualche imprudenza da parte sua,
potrà essere denominata come punizione derivante dalla sanzione fisica.
Ora, la medesima sofferenza, se inflitta dalla legge, sarà quella che viene
comunemente chiamata pena. Se la sofferenza sorge dalla mancanza di
amichevole assistenza, negata a causa della cattiva condotta, o supposta tale,
della vittima, si dirà che è una pena derivante dalla sanzione morale. Se è
inflitta dall’immediato intervento di una particolare provvidenza, una pena
derivante dalla sanzione religiosa.
§ 9. Supponiamo che i beni di un uomo, o lui stesso, siano distrutti dal
fuoco. Se questo succede per quello che viene detto un incidente, si tratta di
una calamità.
Se avviene a causa della sua stessa imprudenza (per esempio, perché ha
dimenticato di spegnere il lume) si può descrivere come pena della sanzione
fisica.
Se avviene a causa della sentenza di un magistrato politico, pena della
sanzione politica, cioè quella che si chiama comunemente pena.
Se avviene per mancanza di aiuto da parte del suo prossimo, a cui non
piace il suo carattere morale, pena della sanzione morale.
Se avviene per un’immediata manifestazione del dispiacere di Dio, a causa
di qualche peccato da lui compiuto, o perché la mente è sconvolta dal terrore
di poter provocare tale dispiacere, pena della sanzione religiosa .
§ 10. Per quel che riguarda i piaceri e i dolori propri della sanzione
religiosa, dal momento che riguardano una vita futura, non possiamo sapere di
che genere siano.
Sono fuori dalla portata della nostra osservazione. Nel corso della vita
presente costituiscono solo materia d’aspettativa, e sia che questa attesa derivi
da una religione naturale o rivelata, se il genere particolare di piacere o di
dolore è diverso da tutti quelli che sono alla portata della nostra osservazione,
è qualcosa di cui non possiamo avere un’idea.
Le migliori idee che riusciamo ad ottenere di tali dolori e piaceri non sono
affatto qualitativamente chiare. In un altro luogo considereremo sotto quali
altri rispetti le idee che di essi abbiamo possono esser chiarificate.
§ 11. Di queste quattro sanzioni, possiamo osservare che quella fisica è
sempre a fondamento di quella politica e di quella morale, e anche di quella
religiosa, nei casi in cui quest’ultima riguarda la vita presente. La sanzione
fisica è inclusa in ognuna delle altre tre.
Essa (vale a dire ciascuno dei piaceri o lei dolori suoi propri) può operare in
ogni caso indipendentemente dalle altre tre, ma le altre tre possono operare
solo per mezzo suo. In una parola, i poteri della natura possono operare da
soli, ma né il magistrato, né gli uomini in generale, possono operare, né si
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suppone che nel caso in questione Dio lo possa, se non attraverso i poteri della
natura.
§ 12. È sembrato utile trovare un nome comune per questi quattro oggetti
che nella loro natura hanno così tanto in comune. È sembrato utile, in primo
luogo, per la convenienza di dare un nome a certi piaceri e dolori per i quali
altrimenti sarebbe stato difficile trovarne uno altrettanto caratterizzante. In
secondo luogo, allo scopo di sostenere l’efficacia di certe forze morali, la cui
influenza tende a non essere sufficientemente osservata. La sanzione politica
esercita un’influenza sulla condotta degli uomini?
Anche la sanzione morale e quella religiosa lo fanno. Ad ogni passo della
sua carriera l’operato del magistrato politico è soggetto ad essere aiutato o
impedito da questi due poteri estranei che, l’uno o l’altro o entrambi, sono
sicuramente suoi rivali o suoi alleati.
Gli capita di non calcolarli?
Sicuramente si accorgerà di aver sbagliato risultato. Troveremo abbondanti
prove di ciò nel seguito di questo lavoro.
È doveroso per lui, quindi, tenerli continuamente davanti agli occhi,
chiamandoli con un nome che mostri la relazione che essi hanno con i suoi
propositi e progetti.
(J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione,
cap.III)
Jeremy Bentham
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Fu un politico radicale e un teorico influente nella filosofia del diritto angloamericana. È conosciuto come uno dei primi proponenti dell'utilitarismo e dei
diritti degli animali che influenzò lo sviluppo del liberalismo.
Bentham fu uno dei più importanti utilitaristi, in parte tramite le sue opere,
ma in particolare tramite i suoi studenti sparsi per il mondo.
Tra questi figurano il suo segretario e collaboratore James Mill e suo figlio
John Stuart Mill, oltre a vari politici (e Robert Owen, che divenne poi uno dei
fondatori del socialismo).
Argomentò a favore della libertà personale ed economica, la separazione di
stato e chiesa, la libertà di parola, parità di diritti per le donne, i diritti degli
animali, la fine della schiavitù, l'abolizione di punizioni fisiche, il diritto al
divorzio, il libero commercio, la difesa dall'usura, e la depenalizzazione della
sodomia.
Fu a favore delle tasse di successione, restrizioni sul monopolio, pensioni e
assicurazioni sulla salute. Ideò e promosse un nuovo tipo di prigione, che
Bentham chiamò Panopticon.
Morendo nel 1832 non lasciò solo il retaggio della sua dottrina morale e
politica, ma anche quello di un'istituzione nuova in Inghilterra, l'Università di
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Londra, distinta dalle tradizionali università inglesi di Oxford e Cambridge per il
suo carattere rigorosamente laico e subito tacciata dagli avversari come
«l'Università senza Dio».
Indice
1 Pensiero filosofico
2 Vita
3 Note
4 Altri progetti
Pensiero filosofico
La consapevolezza degli squilibri socio-economici, causati dallo sviluppo
industriale dell'Inghilterra della seconda metà del settecento, trovò espressione
in Bentham come in altri nella dottrina dell'utilitarismo. Bentham è considerato
l'iniziatore di questa corrente di pensiero proprio per le sue riforme alla
legislazione britannica.
Nel 1789 pubblica la sua opera principale Introduzione ai princìpi della
morale e della legislazione.
Bentham riformula il principio della «massima felicità per il massimo
numaero di persone» degli illuministi (Cesare Beccaria, Helveétius,
Hutcheson).
Se la morale vuole diventare una scienza deve basarsi sui fatti (come nel
positivismo) e non su astratti valori, infatti la felicità, di cui sopra, non è altro
che il piacere.
Piacere e dolore sono fatti quantificabili così da poter essere assunti come
criterio dell'agire.
Bentham formula un'algebra morale cioè un calcolo quantitativo che ci
permetta di conoscere le conseguenze dell'agire quantificando la felicità
prodotta indirizzandoci verso azioni che massimizzino il piacere e minimizzino il
dolore.
Le buone azioni saranno quindi le azioni che promuovono la felicità non
solo per il singolo ma anche per la collettività, viceversa le cattive azioni
ostacolano la felicità. Se quindi la ricerca del piacere, del singolo, è ben
indirizzata promuoverà la felicità di tutti, per cui egoismo e altruismo tendono
a confondersi.
Forte di questa teoria, Bentham, non ritiene valida l'ipotesi contrattualistica
del giusnaturalismo, alla base dello Stato non vi è alcun contratto sociale ma
una necessità utilitaria di promuovere collettivamente la felicità, il piacere di
tutti. Le leggi avranno così il compito di incoraggiare le azioni buone (cioè che
promuovono l'utile) e di impedire e sanzionare quelle che ostacolano il bene
comune.
Vita
Bentham nacque a Spitalfields, Londra, in una ricca famiglia Tory. Era un
bambino prodigio e, bambino, fu trovato seduto alla scrivania del padre,
intento a leggere una storia dell'Inghilterra in più volumi.
Cominciò lo studio del Latino a soli tre anni.[1]
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Frequentò la Westminster School e nel 1760 fu mandato dal padre al
Queen's College di Oxford, dove raggiunse il grado di Bachelor nel 1763 e di
Master nel 1766.
Ricevette una formazione da avvocato e (anche se non praticò mai) fu
ammesso all'attività forense nel 1769.
Rimase profondamente frustrato per la complessità del corpus giuridico
inglese, che soprannominò "the Demon of Chicane".
Tra le sue tante proposte per riforme legali e sociali: un progetto per la
costruzione di una prigione, che egli chiamò Panopticon.
Benché non abbia avuto realizzazione pratica, l'idea influenzò
significativamente le successive generazioni di pensatori.
Il filosofo francese del ventesimo secolo Michel Foucault attribuiva al
Panopticon il ruolo di paradigma di riferimento per tutta una serie istituzioni
penitenziarie del diciannovesimo secolo.
Bentham intratteneva corrispondenze con molte persone influenti. Adam
Smith, per esempio, fu contrario a porre un limite legale ai tassi di interesse,
prima che le argomentazioni di Bentham lo convincessero del contrario.
In seguito alla corrispondenza con Mirabeau e altri capi della Rivoluzione
Francese, gli venne conferita la cittadinanza onoraria francese, benché
Bentham sia stato un critico feroce del principio rivoluzionario dei diritti
naturali e della violenza che dilagò dopo la presa del potere da parte dei
Giacobini (1792).
Nel 1823, insieme a John Stuart Mill, fondò la Westminster Review, il
periodico del movimento "Radicale"; attraverso questa pubblicazione, insieme
ad un gruppo di giovani discepoli, esercitò una notevole influenza nella vita
pubblica inglese.[2].
Frequentemente, Bentham è associato alla fondazione dell'Università di
Londra, specificatamente dell'UCL (University College London), malgrado
avesse già 78 anni all'apertura dell'UCL, nel 1826, e lui non avesse partecipato
attivamente alla sua costituzione.
Comunque, è probabile che, senza la sua ispirazione, l'UCL non sarebbe
stata fondata in quel periodo.
Bentham credeva fortemente che l'educazione dovesse essere fruibile il più
largamente possibile, e in particolare anche a chi non apparteneva alle classi
sociali superiori o alla Chiesa, criteri che erano invece indispensabili per gli
studenti di Oxford e Cambridge.
Dal momento che l'UCL fu la prima Università inglese ad ammettere tutti,
senza distinzione di razza e credo politico o religioso, essa fu decisamente
coerente con la visione di Bentham, il quale inoltre patrocinò la nomina di uno
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dei suoi allievi, John Austin, come primo Professore di Giurisprudenza nel
1829.
Come richiesto nel suo testamento, il suo corpo fu preservato e conservato
in una cassa di legno, chiamata la sua "Auto-Icona", all'University College
London.
L'Auto-Icona è conservata alla fine del chiostro sud della parte principale
del College e può essere visitata.
Ciò ha portato alla nota, ma falsa, storia secondo cui l'Auto-Icona verrebbe
occasionalmente portata alle riunioni del College Council, in cui Bentham
risulterebbe "presente ma non votante".
L'Auto-Icona ha sempre avuto una testa di cera, dal momento che il capo
di Bentham fu gravemente danneggiato nel processo di preservazione.
Jeremy Bentham’s auto-icon sits at University College London.
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Notizie in... Controluce
Mensile di cultura e attualità dei Castelli Romani e dintorni
Versione digitale del mensile dell'Associazione Photo Club Controluce in
12.000 copie cartacee gratuite
DOLORE ED ETICA
Remore, difficoltà e possibilità nel trattamento con oppiacei dei malati
terminali.
Il presente articolo si sviluppa in note successive che prenderanno in
esame:
1) Alcune premesse al tema; 2) Pericoli reali e pericoli esagerati dell’uso
medico degli analgesici oppiacei; 3) La situazione legale: il caso dell’Olanda; 4)
La situazione legale: il caso degli USA; 5) La situazione legale in Italia; 6) Il
problema religioso; 7) Conclusioni..
L’autore, Giovanni Ceccarelli, quasi settantenne, è medico pediatra
specializzato in bioetica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore in Roma.
Per trent’anni si è occupato dello studio dei farmaci sia a livello dell’Università ha insegnato Farmacologia Clinica preso le Scuole di specializzazione in
Farmacologia e Medicina Interna della Sapienza - sia nell’Industria - è stato
direttore Medico per l’Italia di Pfizer e di società dl gruppo Schering.
NOTA 6: I PROBLEMI DAL PUNTO DI VISTA RELIGIOSO.
Resta un ultimo punto, ma non certo di minore importanza: le remore
poste ad una adeguata terapia farmacologica del dolore grave nel malato
terminale da concezioni e credi religiosi. Il tema non è facile - e lo affronto
ancora una volta solo sulla base delle mie personali opinioni di credente che
tiene conto dei pareri offerti alla meditazione delle coscienze da diversi
magisteri.
Come si esprime un autorevole anche se discusso teologo morale cattolico
- Bernard Haring: “L’insegnamento del Magistero cattolico su argomenti
concernenti la professione medica… richiede una cooperazione continua tra le
autorità ecclesiastiche, la comunità dei teologi moralisti e degli studiosi di etica
e gli appartenenti al mondo sanitario; non si tratta né deve trattarsi di una via
a senso unico”. Questa posizione, tra l’altro, ha - a mio parere - il merito di
evitare quella contrapposizione tra “sacralità della vita” e “dignità della vita”
che troppo spesso tinge di mera ideologia un tema squisitamente umano come
quello del morire.
Non posso - non ne ho adeguata preparazione - e non voglio entrare nelle
concezioni del dolore e della sofferenza umana che sono proprie di molte
religioni, dall’ Ebraismo all’Islam al Buddismo all’Induismo alle credenze
religiose dell’Africa e del Giappone: per una breve ma efficace rassegna di tali
posizioni rimando al bel libretto di Flavia Caretta e Massimo Petrini pubblicato
nel 1999 da Città Nuova.
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Nella Bibbia Giobbe, di cui è nota e proverbiale la fede in Dio, invoca la
morte: “Preferirei essere soffocato: la morte piuttosto che questi dolori!”. Il
tema dell’eutanasia, se non altro, non nasce certo oggi.
Ma il problema che qui vuole essere trattato ed è stato trattato, ormai
dovrebbe essere chiaro, non è quello di indurre la morte o agevolarla (vale per
noi sempre la frase di un bioetico del calibro di Edmund Pellegrino: “Intending
the death of the patient would never be licit” che riecheggia la voce antica di
Ippocrate), bensì quello di aiutare il sofferente, il malato con grave dolore in
vicinanza della morte.
A mio avviso, il punto di riferimento può meglio essere trovato nel vangelo
di Matteo al versetto 34° del capitolo 27: Gesù è condotto al Golgota per
essere crocifisso e, dice Matteo, “gli diedero da bere vino mescolato con fiele”.
Si tratta (e poco importa che in altre versioni il “fiele” diventi “mirra” o il vino
“aceto”) di una “bevanda inebriante che le donne giudee compassionevoli
avevano la consuetudine di offrire ai condannati per attenuarne le sofferenze”
(il commento, al contrario della sottolineatura, non è mio: è quello della Bibbia
di Gerusalemme).
Davanti al dolore del condannato, i compassionevoli astanti sentono il
dovere, l’obbligo, di lenire le sue sofferenze: questo è il dovere, l’obbligo - a
mio avviso - che il medico, come chi assiste compassionevole alle dilanianti
sofferenze del malato, deve sentire.
Poco importa da questo punto di vista, poi, che, sempre seguendo il
racconto di Matteo, “Gesù, assaggiatolo, non ne volle bere” (Mt 27, 34b): la
libertà del sofferente, la libertà del malato va sempre conservata e seguita oggi diremmo va seguito il suo diritto alla autodeterminazione, secondo il
principio di autonomia, intesa come espressione di una libertà responsabile,
consapevole e matura: e chi più responsabile consapevole e maturo del Cristo?
- ma rimane il gesto della volontà di coloro che assistono al dolore di lenire le
sofferenze.
D’altra parte, il nostro specifico tema venne affrontato dal punto di vista
cattolico - e a mio avviso risolto - con la famosa risposta data dal pontefice Pio
XII al quesito posto nel 1957 dai partecipanti al IX Congresso della Società
Italiana di Anestesiologia: “Voi ci domandate: la soppressione del dolore e
della coscienza mediante narcotici, quando ciò è richiesto da una indicazione
medica, è consentita dalla religione e dalla morale al medico e al paziente,
anche quando si avvicina la morte e si prevede che l’uso dei narcotici accorcerà
la vita?
Bisognerà rispondere:” (è sempre il Papa che parla) “se non ci sono mezzi
e se, nelle circostanze concrete, ciò non impedisce l’adempimento di altri
doveri morali e religiosi, sì”; la risposta, molto chiara, a mio avviso, si
completa e si precisa poco dopo quando si esige, ovviamente, per il
comportamento su indicato che il malato dia o abbia dato il suo consenso. Gli
interventi su questo tema dei pontefici successivi e delle Autorità ecclesiastiche
non hanno modificato tale impostazione
(Cito: “Spetta al medico essere sempre al servizio della vita ed assisterla
fino alla fine, senza mai rinunciare a quel dovere squisitamente umano di
aiutarla a compiere con dignità il suo percorso terrestre”; “Il dovere del medico
consiste nell’ultima fase di una malattia incurabile nell’adoperarsi per calmare
16
la sofferenza”; “L’uso di analgesici per alleviare la sofferenza del moribondo
anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni può essere moralmente conforme
alla dignità umana se la morte non è voluta né come fine né come mezzo ma è
soltanto prevista e tollerata come inevitabile.
Le cure palliative costituiscono una forma privilegiata della carità
disinteressata e a questo titolo devono essere incoraggiate”; “Non sarebbe
tuttavia prudente imporre come norma generale un comportamento eroico; al
contrario, la prudenza umana e cristiana suggerisce per la maggior parte degli
malati l’uso dei medicinali che siano atti a lenire o a sopprimere il dolore,
anche se ne possono derivare come effetti secondari torpore o minore
lucidità.”).
La Sacra Congregazione arriva addirittura a esprimersi così: “Quanto a
coloro che non sono in grado di esprimersi, si potrà ragionevolmente
presumere che desiderino prendere tali calmanti e somministrarli loro secondo
i consigli del medico” (si tratta qui, come si vede, di una posizione del tutto
analoga a quella accettata e propugnata da bioetici “laici” come Jonas - che
afferma: “Here the oath “not to harm” can come into conflict with the duty to
relieve, when harmful doses became necessary to cope with the torture of
intractable constant pain. Which duty should prevail ?” - e Engelhardt jr.).
In seguito, richiamando la ricordata risposta di Pio XII, la Congregazione
spiega che nel caso cui il Papa fa riferimento “la morte non è voluta né
ricercata benché se ne corra il rischio per una ragionevole causa: lenire il
dolore in maniera efficace, usando a questo scopo gli analgesici di cui la
medicina dispone” (è singolare, a mio avviso, la posizione, che appare analoga
a quella della recente sentenza della Suprema Corte degli USA, già ricordata in
una mia nota precedente, ma in cui la Chiesa viene a vantare una priorità di
venti e forse di quaranta anni rispetto alla pronuncia della Corte) anche se nel
caso di analgesici che producano perdita di coscienza va sempre ricordato che
“non è lecito privare il moribondo della coscienza di sé senza grave motivo” (la
sottolineatura e il corsivo sono miei: ne consegue che con il “grave motivo” la
cosa è lecita).
La eventuale perdita di coscienza indotta viene tollerata (dal punto di vista
etico) ma non intesa o voluta: diverso ovviamente sarebbe il caso “se con l’uso
di dosi massicce di analgesici oppiacei si praticasse scientemente anche se in
maniera occulta una eutanasia vera e propria” (la sottolineatura è mia).
17
L'Essenza della religione ed il suo scopo
Voglio qui rispondere a tre domande:
1) Qual è l'essenza della religione?
2) Lo scopo della religione viene raggiunto in questo mondo o proprio al
mondo a venire?
3) Lo scopo della religione è per il bene del Borè o per il bene degli esseri
viventi?
Ed a prima vista si sorprenderà chiunque prenda visione delle mie parole e
non capirà le tre domande che mi sono posto come tema di questo articolo.
Poiché tutti lo studiano già dall’infanzia, e chi non saprebbe cos’è una
religione? E tanto più la ricompensa e la punizione riguardo ad essa, che è
sperata e prevista soprattutto al mondo a venire. E senza parlare della terza
domanda, poiché tutti sanno che essa avvantaggia gli esseri viventi per
guidarli al benessere ed alla felicità. E che altro c'è d'aggiungere a questo?
Ed in verità non ho da aggiungere niente, però dal fatto che tutti sanno
queste tre conoscenze, ed è così abituale nelle loro bocche dalla loro infanzia
alla perfezione, fino a che non hanno nessuna aggiunta e nessuna
chiarificazione di cose per tutta la loro vita, ecco questo indica una mancanza
di conoscenza in queste cose sublimi, essendo esse necessariamente tutti i
fondamenti della base sulla quale si appoggia ed è costruito tutto il carico
dell'edificio religioso.
Ed allora ditemi, come può essere che un ragazzino di dodici o quattordici
anni (ndr. Prima e dopo la cerimonia di Bar-Mitzvà, all’età di 13 anni), sia già
pronto nel suo intelletto a comprendere in perfezione ed a capire queste tre
conoscenze da indagare sottilmente? E tanto più in modo talmente sufficiente
che lui non debba (da non dover) aggiungervi altra conoscenza ed intelletto in
tutti i giorni della sua vita?
In effetti qui è sepolta la cosa! Dato che questa supposizione frettolosa ha
apportato a tutta la sventatezza ed alle conclusioni selvagge che hanno
riempito l'aria del nostro mondo in questa generazione! E ci portò ad una
situazione nella quale la seconda generazione si è quasi tutta persa dalle
nostre mani.
Il «Bene Assoluto»
E per non affaticare chi studia con cose lunghe, mi sono appoggiato a tutto
ciò che fu scritto e spiegato negli articoli precedenti e soprattutto su quello che
è stato commentato nell'articolo «Il Dono della Toràh», i quali sono tutti come
una prefazione al tema sublime che è davanti a noi. E qui parlerò concisamente
e più semplicemente possibile, affinché sia comprensibile ad ogni Nefesh (ndr.
Lett. Ad ognuno).
18
E per prima cosa bisogna comprendere il Boré, il quale è il «Bene
Assoluto». Vale a dire che in nessun caso al mondo è possibile che Egli
provochi del dolore a qualcuno, cosa che è da noi compresa come prima
assioma. Poiché il buon senso ci fa vedere chiaramente che la base di tutti
coloro che provocano del male è definita esclusivamente come "desiderio di
ricevere".
Questo vuol dire, che per il fatto di essere avido di ricevere dei benefici per
completare se stesso, proprio per questo va a far del male al prossimo, per il
"desiderio di ricevere" il proprio completamento.
Così che se la creatura non avesse trovato nessuna soddisfazione per se
stessa, non ci sarebbe stata nessuna creatura al mondo la quale faccia del
male all'altra.
E se ogni tanto noi troviamo qualche creatura la quale danneggia l'altra
senza nessun desiderio di ricevere piacere per se stessa, essa non lo fa altro
che per un'abitudine precedente che all'inizio le giunse dal desiderio di
ricevere, quando l'abitudine la libera ora di qualunque causa nuova, come è
risaputo.
E dato che è da noi compreso che il Borè è Completo di per Sè, e non ha
bisogno di qualcuno che Lo aiuti per il Suo completamento, essendo Lui stesso
Precedente ad ogni cosa, quindi è chiaro che Lui non ha nessun “desiderio di
ricevere”. E dato che non ha nessuna distinzione di desiderio di ricevere,
comunque non ha nessuna base di far male a qualcuno, e questo è una
semplicità assoluta.
E non solo, ma è accettato ed è consono al nostro cuore con assoluta
semplicità l'assioma che Lui ha desiderio di Dare in assoluto, bene al prossimo,
vale a dire le Sue creature, cosa che ci viene dimostrata da tutta l'immensa
Creazione che ha creato ed ha disposto davanti a noi. Perchè necessariamente
ci sono qui in questo mondo creature che percepiscono o una sensazione
buona o una cattiva sensazione.
E, qualunque sia la sensazione che percepiscono, essa è necessariamente
loro provocata dal Borè. E dato che si sa con assoluta certezza che non esiste
nella legge del Borè il far del male, come è stato chiarificato, se è così che
necessariamente tutte le creature ricevono da Lui solo benefici, ecco che creò
le creature solamente per beneficiarle.
Abbiamo appreso che Lui ha solamente desiderio di dare in assoluto
solamente il Bene, ed in nessun modo non sarà tracciato nella Sua legge
nemmeno un grammo di danno e di sofferenza che provenga da Lui. Quindi Lo
abbiamo definito con il nome «Il Bene Assoluto».
E, dopo aver saputo tutto questo, andiamo ad osservare come Lui Dà in
assoluto solamente Bene a loro nella concreta realtà che viene diretta e
governata da Lui.
19
«La Sua Provvidenza è diretta alla meta»
È da noi compreso da di tutti i sistemi della natura che sono esposti ai
nostri occhi, che in ogni singola creatura dei quattro tipi: Inanimato, Vegetale,
Animale e Parlante, sia in genere che in particolare, noi troviamo in essi la
provvidenza "mirata”, vale a dire uno sviluppo lento e graduale nel modo di
sviluppo secondo "causa ed effetto”. Come il frutto sull'albero, il quale è
supervisionato a buon fine, affinché alla sua fine sia un dolce e bel frutto.
E vai e chiedi al botanico, quante situazioni passano su questo frutto dal
momento che è visibile ai nostri occhi fino a quando giunge al suo scopo, il che
è il termine della sua maturazione. Quanto a tutte le situazioni che precedono
il suo termine, esse non soltanto non ci fanno vedere nessun esempio che sia
in conformità al suo fine bello e dolce, ma in più, come per irritarci, ci fanno
vedere l'opposto della forma finale.
Vale a dire che quanto più il frutto è dolce al suo termine, è più amaro e
più spregevole nelle precedenti situazioni nella sequenza del suo sviluppo. Ed è
così per la specie animale e per quella "parlante", poiché l'animale il cui
intelletto è scarso alla fine del suo sviluppo non è così deficiente durante il suo
sviluppo. Al contrario dell'uomo, il cui intelletto è vasto al termine del suo
sviluppo, è molto carente nella strada del suo sviluppo. Poiché «il vitello di un
giorno viene considerato toro», vale a dire che ha la forza di stare in piedi sulle
sue zampe e muoversi ed ha l'intendimento per riguardarsi da rischi che si
trovano nella sua strada.
Mentre invece il neonato di un giorno è disteso come se fosse privato dei
sensi. E se ci raffigurassimo chi non è abituato alle esperienze di questo
mondo, esso, osservando questi due nati, avrebbe certo detto per quanto
riguarda il neonato dell'uomo, che esso anche alla fine (ndr. del suo sviluppo)
non riuscirà in niente. E per quanto riguarda l'animale nato avrebbe detto che
qui è nato un grande eroe. Vale a dire se avesse giudicato secondo la misura
della saggezza del vitello in confronto al neonato umano stupido e privo di tutti
i sensi.
Ecco è evidente che la Divina Provvidenza sulla realtà che ha creato non è
altro che una Provvidenza "diretta alla meta", senza prendere per niente in
considerazione la sequenza delle fasi di sviluppo. Dato che all'incontrario la loro
maniera è quella di ingannarci e di distoglierci dal comprendere il loro fine
essendo sempre nella situazione opposta al termine della loro opera.
E riguardo a cose così, noi diciamo «Non esiste un saggio come chi
possiede esperienza», dato che solamente chi ha l'esperienza, avendo
l'opportunità di vedere la creatura in tutte le situazioni del suo sviluppo fino al
suo giungere alla sua completezza, può tranquillizzare tutto questo
turbamento, affinché non si abbia per niente paura per tutte quelle immagini
guaste, nelle quali la creatura si appiglia durante le fasi di sviluppo, avendo
solamente fede nel termine della sua maturazione bella e limpida.
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Ed ecco sono state chiarite in modo esauriente le vie della Sua Divina
Provvidenza nel nostro mondo, la quale è solamente la distinzione di
Provvidenza diretta verso la meta, nella quale la misura del bene non è per
niente riconoscibile prima che la creatura giunga al suo punto terminale, al
termine della sua forma e della sua maturazione. Ed all'incontrario, la sua via è
quella di svilupparsi sempre in un involucro di guasti rispetto a chi osserva.
Ecco è davanti ai tuoi occhi che il Creatore dà in assoluto alle Sue creature
solamente Bene, ma che questo Bene viene da Esso provvisto per mezzo della
Provvidenza diretta alla meta.
Le due vie: la via della sofferenza e la via della Toràh
Ci è stato dunque spiegato che il Creatore è il Bene Assoluto. Ed Esso ci
provvede con completa Benevolenza senza nessun miscuglio di male.
Indubbiamente nella distinzione di provvidenza diretta ad una meta. Il che vuol
dire che la Sua Provvidenza ci obbliga a ricevere un ordine di situazioni diverse
nel modo di causa ed effetto, vale a dire ciò che precede e che ne risulta, fino
a che si diventa qualificati a ricevere il Bene anelato.
Ed allora giungeremo al nostro fine, come il bel frutto alla fine della sua
maturazione. E con questo è compreso che questo fine è di certo assicurato a
noi tutti, perchè altrimenti tu apponi un difetto sulla Sua Provvidenza, dicendo
che non sia sufficiente per la Sua meta.
Ed è quello che dissero i nostri Saggi: «La Shkhinà negli inferiori è un
bisogno supremo». Vale a dire che, dato che la Sua Provvidenza è diretta alla
meta, la quale è portarci alla fine alla Sua adesione, affinché Essa risieda in
noi, ecco che questo viene considerato come una necessità suprema. Vale a
dire che se noi non arriveremo a questo troveremo imperfezione nella Sua
Provvidenza.
E la cosa assomiglia ad un grande re che, ormai vecchio, ebbe un figlio e
gli volle molto bene. E quindi, dal momento nel quale lui nacque, pensò a
benefici per lui, e fece la raccolta dei libri più preziosi, ed i dotti ed eccellenti
dello Stato e preparò per lui una scuola di Saggezza ed andò a chiamare i più
famosi costruttori e costruì per lui palazzi di delizia e riunì tutti i musicisti e
cantori e gli preparò case di canto e chiamò i cuochi migliori che gli forniscano i
cibi più prelibati del mondo.
Ed il bimbo crebbe e diventò grande. E lui è ignorante e non ha interesse
per gli studi, è cieco, non vede e non percepisce la bellezza dei palazzi, ed è
sordo e non sente la voce dei cantori e degli strumenti musicali ed è malato e
non gli è permesso mangiare altro che una fetta di pane grezzo, che sdegno e
rabbia!
Però un fatto simile può succedere ad un re in carne ed ossa, cosa che non
è possibile dire nei confronti del Creatore, che sia benedetto, dato che non
esiste in Esso alcun inganno. Di conseguenza ci ha preparato due vie di
sviluppo:
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L'una è la Via della Sofferenza, la quale è la sequenza di sviluppo inerente
alla Creazione di per sè, la quale è obbligata per sua natura a continuare a
ricevere, nella via di causa ed effetto, situazioni diverse una dopo l'altra, per
mezzo delle quali noi ci sviluppiamo piano piano, fino a giungere alla
consapevolezza di scegliere il bene e ripugnare il male, e giungere alla
qualificazione che ha lo scopo da Lui desiderato. E questa via è in effetti assai
lunga e colma di sofferenze e dolori. Quindi Egli ci ha preparato in confronto a
questo una strada piacevole e benefica, la quale è la via della Toràh e dei
precetti, la quale ci può rendere idonei alla nostra meta in breve tempo e
senza sofferenze.
Esce da tutto ciò che la nostra meta finale è la nostra qualificazione alla
Sua adesione che sia benedetto, affinché Egli risieda in noi. E questa meta è
una cosa sicura senza nessuna possibilità di deviare da essa. Dato che la
Divina Provvidenza è imposta su di noi con i due modi della Sua Provvidenza,
che sono la via delle sofferenze e la via della Toràh, come è stato spiegato.
Però per quanto riguarda la realtà pratica, noi troviamo che la Sua
Provvidenza giunge con le due vie assieme, ed esse vengono chiamate nei
detti dei nostri saggi: «Derech Erez- Via della Terra» e «Via della Toràh».
L'essenza della religione è sviluppare in noi stessi il senso della
conoscenza del male
E queste sono le parole dei nostri Saggi: «E perchè cosa importa al
Creatore a chi macella (l'animale) al collo o alla nuca? Ecco che non furono dati
i precetti se non per purificare con esse le creature». Ed il fatto di questa
purificazione è stato chiarificato in modo esauriente nell'articolo «Il Dono della
Toràh». Però qui chiarificherò cosa è l'essenza di questo sviluppo che è
ottenuto per mezzo dell’occupazione della Toràh e dei precetti.
E sappi che è il riconoscimento del male che è in noi stessi. Dato che
l'occuparsi dei precetti è capace di purificare chi si occupa di essi con una
purificazione graduale e lenta, quando il criterio dei gradi della purificazione è
proporzionata alla misura della riconoscenza del male che è in noi.
Poiché l'uomo è già pronto, per sua natura, a respingere ed estirpare ogni
cosa maligna dal suo intimo. E questo è nella stessa misura in ogni singola
creatura.
Però tutta la differenza fra una creatura e l'altra consiste solamente nel
riconoscimento del male, quando una creatura più sviluppata riconosce in se
stessa una misura più grande di male ed in ogni caso discerne e respinge il
male da se stessa in una misura più grande.
E la creatura non sviluppata si trova a percepire in se stessa una piccola
misura di male e quindi respingerà da se stessa solamente una piccola misura
di male e di conseguenza rimane in essa tutta la lordura, dato che non la
riconoscerà per niente come sporcizia.
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E per non stancare chi studia, chiarificheremo il bene ed il male in
generale, come è stato chiarito nell'articolo «Il Dono della Toràh», quando il
male, in generale, non è altro che amore per se stessi, che viene chiamato
«egoismo», essendo in opposizione di forma al Creatore, il Quale non ha per
niente il desiderio di ricevere per Se Stesso, ma solamente quello di dare in
assoluto.
E come è stato chiarito nell'articolo «Il Dono della Toràh», il piacere e la
delizia sono del tutto e per tutto nella misura dell'equivalenza di forma al suo
Artefice. E perciò l'egoismo ci è disgustoso e ci apporta del tutto dolore, non
essendo in equivalenza di forma con l'Artefice.
Però questa repulsione non è uguale in ogni anima ma si divide fra di noi in
misure diverse. Dato che l'uomo selvaggio che non è per niente sviluppato,
non riconosce l'egoismo come una cattiva qualità. E quindi ne fa uso in modo
esplicito senza vergogna e limiti, egli deruba e ammazza alla luce del giorno,
per quanto gli sarà possibile.
E chi è un po' sviluppato già percepirà una certa misura del suo egoismo
nella distinzione di male (o come malefica) e per lo meno si vergogna di
prenderne uso in pubblico, di derubare ed ammazzare le Nefashòt in un posto
evidente ed in riserbo commette il suo crimine.
E colui che è più sviluppato, si trova a percepire l'egoismo come una cosa
del tutto disgustosa, fino a non poterlo sopportare in se stesso e lo respinge e
lo espelle del tutto, secondo il valore della sua conoscenza di esso, fino a che
non vuole e non può godere del lavoro altrui. Ed allora iniziano a risvegliarsi in
se stesso scintille di amore per il prossimo, che viene chiamato «altruismo», il
quale è l'attributo del Bene in generale.
E anche ciò si accende in lui in una sequenza di sviluppo graduale. Vale a
dire che all'inizio si sviluppa in lui il senso di amore e di Ashpaà nei confronti di
coloro che gli sono vicini e della sua famiglia, secondo lo scritto «Ashpaà a tutti
coloro che sono nel suo ambiente, che sono i cittadini della sua città o della
sua nazione. E così continua fino a che si sviluppa in lui la distinzione
dell'amore per il prossimo, per tutta l'intera l'umanità.
Sviluppo consapevole e sviluppo inconsapevole
E sappi che due forze sono a nostro servizio e ci spingono a salire ed a
scalare i gradini della scala menzionata, fino a che giungeremo alla sua cima
nel Cielo, la quale è il punto di meta dell’equivalenza di forma con l’Artefice,
che sia benedetto.
E la differenza fra quelle due forze è che l’una ci sprona dal di dietro. Ed è
quella che abbiamo definito col nome «Via della Sofferenza» o «Via della
Terra». E da essa ci è giunta la filosofia della morale, chiamata Etica, la quale è
basata sulla conoscenza empirica, vale a dire dalla critica della intelligenza
pratica, l’essenza della quale non è altro che il sommario dei danni nati davanti
ai nostri occhi a mezzo dei semi dell’egoismo.
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Ed ecco queste prove sono giunte a noi per caso, vale a dire
inconsapevolmente e senza nostra scelta. Ciononostante esse apportano
indubbiamente alla loro meta, dato che l’immagine del male continua a
chiarirsi nei nostri sensi. E nella misura nella quale noi riconosciamo i suoi
danni, nella stessa misura noi ci allontaniamo da esso. Ed allora noi giungiamo
ad un gradino più elevato nella scala.
E la seconda forza ci spinge "consapevolmente", vale a dire con la forza
della nostra stessa scelta. E questa forza ci attira dal davanti. Ed è quella che
abbiamo definito con il nome «La via della Toràh e dei precetti». Perchè
dedicandoci alle Mizvot ed al Lavoro (Spirituale) per compiacere il nostro
Artefice, si sviluppa in noi con eccezionale velocità il senso della conoscenza
del male, come è stato spiegato nell'articolo «Il Dono della Toràh». E noi
guadagniamo due volte:
1) per prima cosa per il fatto di non dovere aspettare le prove della vita
affinché esse ci incalzino dal di dietro, quando l'intera misura della loro spinta
che è in esse viene misurata solo secondo la misura dei dolori e della
distruzione che vengono provocate dalla esistenza del male in noi stessi.
Però nella via del Lavoro (Spirituale) per il Creatore, si sviluppa in noi la
stessa consapevolezza senza l'anticipo delle sofferenze e della distruzione ed al
contrario dalla sensazione di piacevolezza e del diletto che noi percepiamo nel
puro servizio per il Creatore, per compiacerLo, si sviluppa in noi un
atteggiamento relativo di consapevolezza della bassezza di quelle scintille di
amore per noi stessi, dato che esse ci interferiscono nella nostra strada per
ricevere questo squisito gusto di Ashpaà al Creatore.
In tal modo il senso graduale della consapevolezza del male continua a
svilupparsi in noi nei momenti di delizia e grande tranquillità, vale a dire
ricevendo il Bene lavorando per il Creatore, dalla sensazione di soavità e diletto
che giunge a noi allora per l'equivalenza di forma con il suo Artefice.
2) Risparmiamo tempo, dato che Lui opera "a nostra consapevolezza" ed è
nelle nostre mani incrementare il nostro lavoro Spirituale ed affrettare i tempi
secondo il nostro desiderio.
La religione non è per beneficio delle creature ma del lavoratore.
Molti sbagliano e comparano la nostra santa Toràh alla filosofia dell'Etica.
Però questo giunse a loro perchè non hanno mai gustato il gusto della
Religione ed io proclamo riguardo a loro lo scritto: «Gustate e vedete che il
Creatore è buono».
In effetti è vero che tutte e due, l'etica e la Religione, mirano ad un'unica
cosa, la quale consiste nell'innalzare l'uomo dalla lordura del gretto amore per
se stesso e portarlo all'apice della vetta dell'amore per il prossimo,
ciononostante esse sono lontane l'una dall'altra come è lontano il Pensiero del
Creatore dal pensiero delle creature. Poiché la Religione è protratta dai pensieri
del Creatore e l'etica proviene da pensieri degli uomini e dalle loro esperienze
di vita.
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Di conseguenza è evidente e pronunciata la differenza fra esse sia in tutti i
punti che sono nelle distinzioni pratiche, che nella meta finale. Dato che la
conoscenza del male e del bene che si sviluppa in noi per mezzo dell'etica,
accumulando esperienza, ha una connessione relativa al successo della società,
come è ben saputo.
Non è così riguardo la Religione, quando la conoscenza del bene e del male
che si sviluppa in noi, praticandola, ha una connessione relativa solo all'Unico
Creatore, vale a dire dall’opposizione di forma dall'Artefice, fino all'equivalenza
di forma a Lui, che viene chiamata «Adesione», come ti è stato chiarito
nell'articolo «Il Dono della Toràh».
Ed esse sono del tutto lontane una dall'altra per quanto riguarda la meta.
Dato che la meta dell'etica è il benessere della società secondo la critica
dell'intelligenza pratica, che proviene dalle evenienze della vita, quando alla fin
fine la meta non assicura a chi vi si occupa nessuna elevazione al di sopra dei
confini della natura, e quindi questa meta non è ancora scaturita dalla critica
dell'intelligenza pratica, come è risaputo, perchè chi potrà provare al singolo la
misura del suo bene in modo così estremo che sarà obbligato a diminuire il
proprio essere in qualche quantità, per la felicità della società.
Mentre invece la Meta Religiosa assicura la felicità dell'uomo stesso che si
occupa in essa. Perchè abbiamo già dimostrato che nell'apportare l'uomo
all'amore per il prossimo, esso si trova direttamente nella distinzione di
Adesione, la quale è l'equivalenza di forma col Suo Artefice, assieme alla quale
l'uomo passa dal suo mondo ristretto colmo di dolori ed ostacoli ad un mondo
eterno ampio di Ashpaà al Creatore ed Ashpaà alle creature.
Troverai anche una significativa e pronunciata differenza per quanto
riguarda il sostegno, perchè l'occupazione secondo l'etica viene sostenuta dalla
base di piacere alle creature.
E questa cosa è simile all'affitto che conviene alla fine dei conti, e quando
la persona si abitua ad un lavoro simile, ecco che non potrà innalzarsi
nemmeno nei gradini della morale, perchè è già abituato a questo lavoro che è
retribuito molto bene da parte della società che lo paga per le sue buone
azioni.
Mentre invece nell'occuparsi della Toràh e dei precetti per provocare
piacere al proprio Artefice senza ricevere premio, ecco che lui continua a
scalare i livelli della morale proprio secondo la misura della attività, dato che
non riceve nessun pagamento per la sua strada, e spicciolo dopo spicciolo, si
riunisce in un grande conto, fino a che acquisisce una seconda natura la quale
è Ashpaà al prossimo, senza nessun risveglio del ricevere per se stesso escluso
solo il necessario per la sua esistenza.
E si è trovato che veramente si è liberato da tutte le coercizioni della
Creazione, perchè quando l'uomo abomina il ricevere per se stesso e la sua
anima aborrisce le cose superflue di piccoli piaceri corporali ed onore e cosi via,
si è trovato che lui passeggia libero nel mondo del Creatore, e gli è assicurato
che qui non gli verrà apportato nessun danno e nessun incidente, dato che tutti
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i danni sono percepiti e giungono all'uomo solo da parte del ricevere per se
stesso che è impresso in lui.
Ed ecco è stato chiarito in modo appropriato che la meta della Religione è
solamente per l'individuo che opera in essa e vi si occupa, e non è per niente
per l'uso ed il beneficio delle persone comuni, nonostante tutte le sue
(dell'individuo) azioni sono imperniate al bene delle creature e sono misurate
da atti tali. Ma questo non è altro che una distinzione di passaggio verso la
meta sublime, la quale è l'equivalenza alla forma dell'Artefice e con questo
viene anche compreso che la meta della Religione viene riscossa vivendo in
questo mondo.
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IL DOLORE NELLE TRE RELIGIONI MONOTEISTE
L'approccio della fede cristiana, ebraica e muslmana nella testimonianza di
un sacerdote cattolico, una diaconessa valdese, un rabbino e un esponente
della comunità islamica
Quando il dolore e la sofferenza fisica diventano esperienza di vita l’uomo si
interroga, cerca spiegazioni, aiuto, risposte capaci di donargli serenità interiore
e forza per affrontare la malattia. Alcuni riscoprono così la fede, o rafforzano il
proprio rapporto con Dio; altri se ne allontanano o non riescono più a conciliare
la propria concezione del divino con quanto devono affrontare e soffrono quindi
anche nello spirito.
Quali differenze e quali gli elementi comuni tra cristiani, ebrei, musulmani
di fronte al dolore e alla morte?
Quali risposte al problema della sofferenza dalle 3 grandi religioni
monoteiste?
Un confronto fra i diversi approcci (messo a fuoco dal Centro Peirone di
Torino con un Convegno nel capoluogo piemontese, a fine 2002), permette di
cogliere come, pur essendovi nelle diverse fedi differenti sensibilità e
spiegazioni, vi sia comune necessità di rivolgersi a Dio per trovare un aiuto e si
condivida l’impegno alla vicinanza e alla solidarietà nei confronti di chi è
provato dal dolore. «Per comprendere il significato della sofferenza nella
propria esistenza – spiega don Paolo Mirabella, docente di Morale alla Facoltà
teologica di Torino – il cristiano deve liberarsi da 2 equivoci: che il dolore sia
un valore in sé e che in quanto tale sia desiderabile e vada ricercato.
Quanto al primo equivoco, esso si radica su un ambiguo presupposto, cioè
che Dio voglia il dolore dell’uomo, anzi che sia lui stesso a procurarglielo al fine
di castigarlo per la sua disobbedienza.
La morte in croce di Gesù è invece contemporaneamente l’espressione
massima della sua condivisione con noi: in questo modo il Crocifisso rivela da
una parte l’amore misericordioso di Dio, che è all’origine della stessa iniziativa
di salvezza che vuole l’uomo elevato alla vita divina, e dall’altra la giustizia di
Dio che esalta l’uomo al punto da volerlo coinvolto e protagonista
nell’attuazione della redenzione, per cui lo invita nella libertà alla
collaborazione.
Di qui una prima considerazione: il Dio di Gesù Cristo non è né invidioso né
vendicativo, Egli vuole il vero bene dell’uomo». Se il dolore per il cristiano non
è voluto da Dio, non è neanche da ricercare, quanto da affrontare e da
accettare come parte dell’esistenza, nonostante la società attuale cerchi di
negarlo.
«Compito del nostro tempo rispetto al tema del dolore – prosegue Mirabella
– sarà pertanto quello di ritrovare gli affetti e le parole per dire questa
esperienza: solo a questa condizione sarà possibile affrontarla senza doverla
forzatamente emarginare oltre i confini dell’umano.
Oggi il dolore viene infatti trasformato e ridotto a tabù su cui si erge il
divieto di parlarne, di sopportarlo, di avvicinarlo nelle persone che soffrono».
Un tabù che non fa che aggravare la situazione di chi sta vivendo l’esperienza
della malattia e quindi sta sperimentando il contrasto tra la dipendenza dagli
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altri e la sensazione di estraneità nei confronti di chi è sano e sta provando il
senso di abbandono dalla salute, dalla vita e dagli affetti. Nel dolore si tocca la
radicalità del proprio limite, l’attaccamento alle uniche cose che possono
restare come fondamentali «e che – conclude Mirabella – devono essere
garantite, sia attraversol’attestazione che non tutto è perduto, sia con una
presenza che non è saccente, che non giudica, non sottovaluta, non minimizza
superficialmente».
La presenza accanto al malato può anche aiutare spiritualmente il
sofferente nel conciliare la sua situazione con la fede. «Al credente – spiega la
diaconessa Gabriella Casanova della Chiesa evangelica valdese di Torino – è
chiesto non di negare l’assurdo della sofferenza, né di proclamare chiaro ciò
che è oscuro, ma di vivere anche l’assurdo al cospetto di Dio. Gesù ci
testimonia che Dio è vicino anche quando la situazione si fa desolata, assurda,
disperata.
Vissuta nella fede, la sofferenza, da minaccia per la vita, può diventare
occasione di crescita, di comprensione, di forza, di riflessione, di fiducia».
Anche dai testi biblici emerge per il cristiano l’invito alla vicinanza al malato e
alla preghiera. «Il testo della lettera di Giacomo – prosegue la diaconessa – mi
ha particolarmente colpita perché affronta il problema della sofferenza fisica e
psicologica non protestando, né interrogando, né cercando spiegazioni. Bensì
pretendendone il superamento.
La sofferenza psicologica e la gioia sono vissute in un rapporto diretto e
personale con Dio, nei confronti della malattia fisica, invece, si è invitati a
chiamare ‘gli anziani della chiesa’, e a pregare per il malato ‘ungendolo con olio
nel nome del Signore’. Giacomo punta dunque all’empatia verso chi sta
soffrendo, al tocco dell’amore (unzione con olio), alla preghiera. Oggi non
esiste quasi più la pratica dell’unzione (ad eccezione dell’estrema unzione
praticata dallaChiesa cattolica), ma il contatto
fisico come tenere la mano, accarezzare la fronte, ravvivare i capelli, sono
azioni fondamentali per trasmettere il calore della vita. Dio non si colloca come
alternativa alla nostra sofferenza, ma all’interno di essa.
La croce di Cristo, espressione della sofferenza umana, diventa anche
sofferenza di Dio. La croce che egli porta è la nostra. Dio in Cristo non è
estraneo al dolore e alla sofferenza, li assume per dare consolazione e sollievo.
Spesso nelle nostre preghiere chiediamo a Dio di cambiare o modificare le
situazioni che ci arrecano tormento sia fisico che morale, ma Dio vuole
innanzitutto cambiare noi stessi. Il vero miracolo non è il cambiamento delle
situazioni esterne, ma quello della nostra realtà interna che ci dà la capacità di
vedere e riconsiderare in modo nuovo e diverso le condizioni in cui ci
troviamo».
La sofferenza si può dunque trasformare in un’ottica cristiana in occasione
di crescita, di riflessione sulla vita. Nella concezione ebraica invece il dolore,
pur essendo inteso come prova alla quale viene sottoposto il giusto, è
considerato una minaccia non solo per la vita fisica, ma anche per quella
spirituale e quindi deve essere il più possibile rifuggito e alleviato: la preghiera
diventa fondamentalmente una richiesta a Dio di abbreviare le sofferenze.
La solidarietà della comunità ebraica nei confronti del malato rappresenta
comunque una priorità, da attuare con impegno e attenzione nei confronti delle
28
necessità materiali e spirituali della persona. «Un’assistenza – ha ricordato il
rabbino Giuseppe Momigliano della comunità ebraica di Genova – che richiede
la disponibilità a pregare, a cogliere il dolore, la sofferenza, la preoccupazione:
gli stati d’animo espliciti e quelli a volte taciuti dal malato o dai suoi
famigliari».
Anche il musulmano trova nella comunità un sostegno prezioso nel
momento della malattia, unincoraggiamento alla perseveranza, anche se
spiega Hasan Amghar El-Boujarfaoui della comunità islamica di Grenoble : «i
testi fondanti dell’Islam, il Corano et la Sunna utilizzano assai poco la parole
‘sofferenza’, il termine ‘dolore’ non esiste: si trovano soprattutto dei termini
come ‘male’ o ‘prova’.
Nel giardino Adamo et Eva, gli uomini, erano protetti dalle sofferenze di
questo mondo. Quando si sono ritrovati sulla terra erano sottoposti alle leggi
della natura senza protezione: è questo che il Corano chiama “prova”, ma non
è una condanna. Dio chiama l’uomo ad assumersi le sue responsabilità, ma
può intervenire in ogni momento per alleggerire la sua sofferenza ». Se la
sofferenza rappresenta una prova, l’Islam rifiuta il «Mektoub», cioè la fatalità,
mentre invoca un altro termine citato nel Corano: l’«As-sabr», che viene
tradotto come «pazienza» o come «costanza ».
La valorizzazione della pazienza e della costanza virtuosa, mostra come
l’Islam esorti il musulmano a battersi per uscire dalla sofferenza, convinto che
il domani sarà migliore. Anche l’Islam infine invita ad uno slancio di solidarietà
verso coloro che soffrono, «un appello – conclude Hasan Amghar – rafforzato
dal fatto che Dio nel giorno del giudizio verrà in aiuto a chiunque abbia aiutato
un credente».
Federica Bello
29
IL SENSO DEL DOLORE NELL'ISLAM
Come si pone la cultura musulmana rispetto ai temi della sofferenza e della
morte? Quale atteggiamento propone di fronte alla malattia?
Quali regole fisse per la sepoltura dei defunti?
Sono le questioni messe a fuoco nelle prossime pagine, con l’intervento di
studiosi e testimoni
L’atteggiamento dell’islam nei confronti del mistero della sofferenza è a
tratti simile, a tratti differente rispetto alla rivelazione ebraico-cristiana.
Il cristianesimo si fonda su un Dio crocifisso e risorto. La dimensione della
croce è dunque costitutiva della fede cristiana, qualunque sia il modo concreto
in cui venga intesa.
L’islam nega la morte in croce di Gesù: benché sottomesso lui stesso alla
prova, non è pensabile che un autentico profeta musulmano sia lasciato morire
dal Dio che lo invia. Al contrario, l’obiettivo che informa la proposta
musulmana è il successo, constatabile già sulla terra.
La religione musulmana non conosce la dimensione della storia della
salvezza e della redenzione.
Conosce invece un Dio che crea, che mantiene in vita la creazione e che
attende gli uomini per il giudizio finale. L’islam si caratterizza per l’assoluta
sottomissione ad Allah e alla sua volontà, sempre disponibile e accessibile a
ognuno che crede attraverso il duplice «segno» del Corano e delle vicende
dell’esistenza.
È Allah che domina e dirige il cammino, la vita e la morte dei suoi fedeli.
Nulla sfugge al suo Decreto.
L’atteggiamento fondamentale raccomandato ai musulmani, dunque, è
quello della pazienza nelle avversità, nel dolore, nella malattia e nella morte.
Così dice il Corano:
“Il vostro Dio è un Dio unico, sottomettetevi dunque a lui! E tu dà buone
notizie a quelli che si umiliano, a quelli che trepidano in cuor loro sentendo
ricordare il nome di Dio, a quelli che pazientano nei mali che li affliggono, a
quelli che sono fedeli alla preghiera ed elargiscono una parte dei beni che
abbiamo loro accordato. (Cor 22,34-35). O voi che credete! Cercate aiuto nella
pazienza e nella preghiera, perché Dio è con i pazienti (…)
Vi metteremo alla prova con la paura e la fame, con la perdita dei beni,
della vita e dei frutti della terra; tu però dà il lieto annuncio della felicità eterna
ai pazienti i quali, quando sono colpiti da una sventura, dicono: «In verità, a
Dio apparteniamo e a Dio ritorniamo». (Cor 2,153.155- 156)” 1.
La sottomissione e la pazienza di cui parla il Corano non vanno intese come
«fatalismo». L’islam non propone la sottomissione al fato impersonale e cieco
ma alla volontà positiva di Allah, che non dimentica mai i suoi fedeli e si
interessa del loro bene.
Cercheremmo invano nel Corano e nella Sunna gli interrogativi e le
proteste di Giobbe di fronte al male che domina il mondo, alla sofferenza
innocente, alla morte prematura e «ingiusta». Vi sono invece molte espressioni
che echeggiano l’atteggiamento di Giobbe nei primi due capitoli del libro
omonimo, benché le premesse siano differenti.
30
Ciò che il Corano ripete in alcuni versetti è illustrato ampiamente, variato,
amplificato e talora arricchito di sfumature diverse nella tradizione normativa o
Sunna.
Alcuni hadîth 2 illustrano la modalità di rapportarsi ad Allah nella disgrazia
e nella malattia. Ne riportiamo in particolare due che riguardano la famiglia di
Muhammad 3 e che pertanto diventano estremamente significativi e «didattici»
per la comunità dei credenti musulmani:
La figlia del Profeta gli mandò a dire: «Mio figlio è in punto di morte: vieni
ad assisterci». Egli mandò il suo augurio di pace, e a dire: «Appartiene a Dio
ciò che Egli prende, ed è Suo ciò che Egli dona: ogni cosa è annoverata presso
di Lui secondo un termine fisso: sii paziente e rimettiti alla ricompensa di Dio».
E lei mandò a scongiurarlo che si recasse da lei; egli si alzò per andare. (…) Il
bambino fu sollevato fino all’Inviato di Dio, che se lo fece sedere in grembo; il
suo animo trasalì, e gli si inumidirono gli occhi. Sa’d gli chiese: «Inviato di Dio,
che cosa c’è?»; ed egli rispose: «Questa è compassione, che Iddio ha posto nel
cuore dei suoi servi». (I, n. 29a, p. 20)
L’Inviato di Dio entrò da suo figlio Ibrahim che già stava affrontando la
morte; e gli occhi dell’inviato di Dio presero a versare lacrime; ‘Abd al-Rahman
ben ‘Awf intervenne: «Anche tu, Inviato di Dio?!»; «Figlio di ‘Awf, questa è
compassione». Riprese a piangere un’altra volta e disse: «L’occhio versa
lacrime, e il cuore è afflitto, ma non diciamo che ciò che soddisfa il nostro
Signore. E noi, Ibrahim, siamo afflitti per la tua separazione» (VII, n. 34, p.
279).
Le due tradizioni, la prima delle quali echeggia quasi letteralmente la prima
risposta di Giobbe nella sua disgrazia (cf Gb 1,20-22), operano una distinzione
netta tra la compassione (rahma) di fronte alla sofferenza umana per la
malattia mortale del nipote e del figlio del Profeta e la sottomissione piena alla
volontà di Dio, unico Signore che dispone della vita e della morte. La
sottomissione al volere di Dio non vanifica e non toglie valore alla compassione
e al pianto, anche se li relativizza, come suggerisce un hadîth piuttosto duro:
Il Profeta passò accanto a una donna che piangeva nei pressi di una tomba
(secondo un’altra versione: piangeva su un suo bambino), e disse: «Temi Iddio
e sii paziente». Lei replicò: «Vattene via da me; non sei stato colto tu dalla
sventura che mi è capitata – e non la conosci!». Le dissero: «Quello è il
Profeta!». Allora lei andò alla porta del Profeta, non vi trovò portieri, e disse:
«Non ti avevo riconosciuto». Egli disse: «La pazienza si esercita al primo
arrivare del colpo». (I, n. 31a, p. 22)
Considerando la situazione dal punto di vista cristiano, non sfuggirà la
grande differenza tra l’atteggiamento di Muhammad e l’atteggiamento di Gesù
nei Vangeli: la compassione di quest’ultimo si traduce normalmente in un
intervento di guarigione o addirittura di risurrezione; la compassione del primo
si limita alla considerazione della volontà divina, che ha posto un termine fisso
per la vita di ciascuno.
Tale termine fisso è stabilito, secondo un altro hadîth, prima ancora della
nascita di ogni persona:
31
L’Inviato di Dio, la cui sincerità è confermata, ci parlava così: «È sotto
forma di una goccia di sperma che la creazione di ciascuno di voi è radunata
nel ventre di sua madre per quaranta giorni. Poi sotto forma di aderenza per
uno stesso periodo; poi sotto forma di una massa molle, ancora per il
medesimo periodo di tempo.
Poi gli è inviato l’angelo che viene a insufflargli lo spirito e riceve l’ordine di
proferire quattro parole: quella che fissa ciò di cui sarà composta la sua
sussistenza, il termine della sua vita e le opere che egli compirà, e infine quella
che fissa se egli sarà felice o sfortunato». 4
La vita, la malattia, la disgrazia, la morte sono dunque inserite nel piano
provvidenziale di Allah, che il credente è chiamato ad accettare integralmente,
pur non comprendendone il perché. Il mistero dell’esistenza rimane oscuro, ma
non è cieco.
La vita è dono divino di cui ringraziare il Creatore nonostante le prove e le
sofferenze:
L’Inviato di Dio disse: «Nessuno di voi si auguri la morte a causa di un
male che gli sia capitato; se non ne può fare a meno, dica: “Mio Dio,
conservami in vita per quanto la vita sia la cosa migliore per me, e chiamami a
Te qualora la morte sia la cosa migliore per me”». (I, n. 40, pp. 23-24)
Non si tratta, ancora una volta, di rassegnazione nel senso passivo del
termine, ma di accettazione attiva di tutto ciò che Allah ha progettato per il
bene del suo fedele.
Per inciso, questo hadîth mostra la proibizione del suicidio e dell’eutanasia.
L’islam propone un’etica positiva della vita, che va accettata e valorizzata fino
al suo limite naturale.
L’accettazione attiva del decreto di Dio non impedisce di aver paura della
morte.
Alcune curiose tradizioni riferiscono che due grandi «profeti» dell’islam,
Mosè e Abramo, non accolsero di buon grado il momento della separazione da
questa vita:
Abu Hurayra narrò: L’angelo della morte fu mandato da Mosè, il quale non
gli aprì la porta. Tornò dal Signore e gli disse: «Mi hai mandato da un tuo
servo che rifiuta la morte». Rispose il Signore: «Torna da lui e digli: “Metti una
mano sulla schiena di un bue; otterrai un anno di vita per ogni pelo in cui hai
affondato il dito”». «Signore, e poi?» domandò Mosè. «Poi morirai». Venuto il
momento, Mosè chiese a Dio di essere avvicinato alla Terra Santa, alla
distanza del tiro di un sasso 5.
L’esempio di un grande «profeta» è assai significativo.
La preghiera da una parte e la benevolenza divina dall’altra possono
modificare il decreto segnato per ciascuno ancora prima della nascita.
È una prova ulteriore che l’islam non crede in un destino cieco, ma nella
libera volontà di Dio, che dispone a piacimento della vita e della morte dei suoi
servi.
Per quanto riguarda Abramo, «l’amico di Dio» per eccellenza, un altro
stupendo hadîth afferma:
32
Abramo disse all’angelo della morte che era venuto per prendere il suo
spirito: «Hai mai veduto un amico far morire il suo amico?»
Allora Dio gli rivelò: «Hai mai veduto un amante rifiutare l’incontro con
colui che ama?». Abramo allora rispose: «Angelo della morte, prendimi
subito!» 6.
Per coloro che nella vita presente sono stati fedeli la morte apre dunque la
strada all’incontro eterno con Dio nella vita futura 7.
La ferma fiducia nel governo divino della vita umana impregna
profondamente anche oggi la vita dei pii musulmani. In molti si riscontra come
sappiano accettare con costanza e serenità le prove dell’esistenza confidando
fermamente in Dio.
Ancora oggi il musulmano sincero non domanda conto a Dio di ciò che fa o
di ciò che permette.
Questo atteggiamento raggiunge tutta la sua profondità di fronte alla
morte, sia per il moribondo che confessa Dio un’ultima volta sia per chi gli è
vicino. L’esempio del Profeta diventa regola di vita per i credenti in Allah.
Purificazione
La sofferenza appare talora come provvidenziale, in quanto purifica dalle
colpe in questa vita e prepara alla ricompensa nella vita futura. In questo
senso vanno alcuni hadîth, che ancora riecheggiano affermazioni dell’Antico e
del Nuovo Testamento:
Dio purifica con la sofferenza coloro che egli più specialmente ama”. “Colui
per il quale Iddio voglia un bene, sarà colpito a causa di esso. (I, n. 39, p. 23)
Attraverso questi detti fa capolino anche nell’islam l’enigma della
sofferenza innocente. E tuttavia non ne viene chiesto conto ad Allah. Piuttosto
viene invertito il senso del dolore: non più come punizione, ma come segno di
amore.
Il credente è immediatamente spinto a porre la sua fiducia nel Dio
provvidente, «misericordioso e compassionevole», di cui parla in continuazione
il Corano. Il primo dei due hadîth richiama in particolare Ben Sira (cf Sir 2,1-7)
e la lettera di Giacomo (cf Gc 1,2-4) 8, mentre il secondo introduce il concetto
della sofferenza come «prezzo» da pagare in risposta ai doni divini, che in ogni
caso hanno un valore immensamente superiore al loro «costo» in sofferenza.
In questo contesto emerge anche il tema della sofferenza come «prova»
della fedeltà, che qui indica la volontà di sottomettersi liberamente e
totalmente, senza ribellarsi alla volontà divina:
L’Inviato di Dio disse: «Il credente e la credente non cessano mai
dall’essere messi alla prova, in se stessi, nei loro figli e nei loro beni, finché
incontreranno Iddio Altissimo, non avendo un peccato a loro carico». (I, n. 49,
p. 27)
L’Inviato di Dio entrò da Umm as-Sa’ib e chiese: «Che cosa succede che
rabbrividisci?»; rispose: «È la febbre, non la benedica Iddio!»; «Non inveire
contro la febbre – avvertì – perché essa toglie i peccati dei figli di Adamo come
il mantice toglie le scorie del ferro». (XVIII, n. 221, pp. 470-471)
33
Il dolore è dunque il segno umanamente sperimentabile della «pedagogia»
purificatrice divina nei confronti dei suoi fedeli: non più oggetto di maledizione,
ma di benedizione, motivo di ringraziamento. Il rovesciamento di senso della
sofferenza riposa senza dubbio su motivazioni razionalizzanti di un mistero che
rimane inaccessibile, ma si fonda anche e soprattutto sulla fiducia cieca in
Allah, che non desidera il male degli uomini e che quando usa il bastone lo fa
solo in vista di un bene maggiore.
Il dolore assume allora funzione di espiazione già in questa vita dei peccati
commessi:
Dal Profeta, che disse: «Non coglierà il Musulmano sofferenza, o malattia,
o afflizione, o dolore, o danno, o tristezza, o financo la puntura di una spina
che abbia a subire, senza che per questo cancelli Iddio qualcuno dei suoi
peccati». (I, n. 37, p.23)
L’Inviato di Dio disse: «Quando Iddio vuole il bene del Suo servo, gli
commina in anticipo la pena in questo mondo; e quando Iddio vuole il male del
Suo servo, si astiene dal punirlo per il suo peccato, finché non arriva per lui il
giorno della risurrezione».
Il Profeta disse inoltre: «La ricompensa più elevata è proporzionata alla
grandezza della prova; e certo, quando Iddio Altissimo ama un popolo, lo
mette alla prova, e chi si accontenta, si spande su di lui il favore divino; e chi
nutre risentimento, si spande su di lui lo sdegno divino». (I. n. 43, pp. 24-25)
Si noti che nei due detti non viene considerato l’uomo in generale, ma
direttamente il fedele, qualificato nel primo caso come «musulmano» (muslim)
e nel secondo come «servo (adoratore)» (‘abd). Evidentemente si tratta di una
«catechesi» interna, tesa a rispondere a quesiti posti dalla comunità dei pii.
Non manca certo nell’islam il rapporto tra condotta e retribuzione.
Ma nei due hadîth riportati questa relazione non è affatto evidente. Tutto
dipende dalla volontà suprema dell’Uno, che sovranamente distribuisce gioie e
dolori in vista di quanto ha decretato per i suoi servi. Vi emerge in primo piano
la dottrina del «Decreto divino» (uno dei pilastri della fede) 9. Come abbiamo
visto precedentemente, l’islam non è la religione del fato impersonale e cieco
ma del Dio Uno e Unico.
Il paradiso e l’inferno dopo la morte non sono frutto dei «meriti» umani ma
della decisione divina, che spinge i fedeli e gli infedeli ad assumere
atteggiamenti morali coerenti con quanto è stato decretato per la loro fine
eterna.
È dunque possibile che il male e il bene operati dall’uomo non abbiano
conseguenze visibili in questa vita.
Eliminando il rapporto tra condotta e retribuzione su questa terra viene
lasciata aperta fino al momento del giudizio finale la soluzione degli enigmi
della vita, gli stessi che tormentavano l’uomo biblico tanto da farlo dubitare
della giustizia divina (cf Gr 12,1; Sal 73; Giobbe, Qohelet, ecc.). Solo in quel
contesto infatti potrà apparire nel suo vero splendore il Decreto divino e si
comprenderà l’apparente ingiustizia della prosperità dell’empio durante
l’esistenza terrena e il senso delle sventure che accadono all’umanità:
34
‘A’isha interrogò l’Inviato di Dio sulla pestilenza, ed egli la ragguagliò
dicendo: «È un castigo che Iddio Altissimo manda a chi vuole, e allo stesso
tempo Iddio Altissimo l’ha posta a misericordia per i credenti: non vi è servo
che incappi nella pestilenza, e rimanga nel suo paese, pazientemente e
mettendola nel conto del suo stato, sapendo che non gli capiterà altro che
quello che Iddio gli ha ascritto, senza che per lui vi sia una ricompensa pari a
quella del martire» (I, n. 33, p. 22)
La sofferenza in quanto purificazione e prova della fedeltà, cioè della
sottomissione di fede ad Allâh, ha segnato in maniera significativa la vita del
Profeta dell’islam, decretandone però alla fine il successo davanti a Dio e agli
uomini.
Per questo egli viene presentato come il «bel modello» (Cor 33,21) per
tutti coloro che hanno creduto al messaggio affidatogli dal Signore. I
musulmani sono invitati ad avere fiducia nel loro Dio e a esercitare la pazienza
attendendo la fine di tutte le cose.
Un altro hadîth racconta:
L’Inviato di Dio disse: «Quando muore il figlio di un servo, Iddio Altissimo
dice ai suoi Angeli: “Avete ghermito il figlio del Mio servo?”; ed essi
rispondono: “Sì”; “Avete ghermito il frutto delle sue viscere?”; “Sì”,
rispondono; ed Egli chiede: “E che cosa ha detto il Mio servo?”; “Pronuncia le
Tue lodi e la formula del ritorno a Te”, rispondono. E allora Iddio Altissimo
dice: “Edificate al Mio servo una casa in Paradiso, e chiamatela ‘la Casa della
Lode’”». (VII, n. 29, p. 278).
Valentino Cottini
Note
1 Le citazioni coraniche sono tratte da C. M. Guzzetti, Il Corano, LDC,
Leumann (TO) 1993.
2 Letteralmente «hadîth» significa «detto». Il termine viene adoperato per
qualificare detti e fatti del Profeta raccolti nella Sunna, la serie delle collezioni
normative apparse nel secoli IX e X della nostra era. Seconda «fonte»
dell’islam dopo il Corano, la Sunna è talora più importante del Libro sacro nella
vita pratica, in quanto prende in considerazione le più diverse circostanze
dell’esistenza normale, non trattate direttamente nel Corano.
La Sunna in particolare ha dato un contributo decisivo alla formazione delle
scuole giuridiche dell’islam e alla cultura religiosa popolare. I detti (o
tradizioni) riportati in seguito solo con l’indicazione del libro, del numero e della
pagina sono tratti da un’opera preziosa e molto diffusa tra i musulmani: Il
Giardino dei Devoti di al-Nawawî (1233-1278) (trad. italiana a cura di A.
Scarabel, Società Italiana Testi Islamici, Trieste 1990), la quale funziona come
una specie di summa della vita musulmana ortodossa.
3 Tutti i figli maschi di Muhammad morirono in tenerissima età.
4 Questo hadîth assai importante si trova nelle raccolte «autentiche» di alBukhârî (bad’ al-khalq [inizio della creazione], 6) e di Muslim (qadr [destino],
1).
5 La tradizione interpretativa successiva amplierà il racconto: Mosè
risponde a Dio che ha paura della morte e del suo amaro sapore; quando
35
arriva l’angelo della morte, rifiuta di lasciarsi «sfilare» l’anima dalle varie parti
del corpo, in quanto sempre a servizio di Dio. Ma alla fine, piuttosto di
dilazionare la morte, che in ogni caso sarebbe arrivata anche dopo la
procrastinazione degli anni contati secondo i peli del bue, Mosè preferì morire
subito, seguendo il decreto già stabilito da Dio (cf R. Tottoli, Viat di Mosè
secondo le tradizioni islamiche, Palermo 1992, pp. 94-96).
6 Questo bellissimo hadîth non è riportato nelle raccolte classiche della
Sunna ma nell’opera principale di al-Ghazâlî, la personalità più rappresentativa
della tradizione musulmana (morto nel 1111) (cf Etudes Arabes. Dossier 90
[1996/1], P.I.S.A.I., Roma, p. 161).
7 Un altro hadîth racconta: «Dal profeta, che disse: “Colui che ama
incontrare Dio, Dio amerà incontrarlo. Colui che detesta incontrare Dio, Dio
detesterà incontrarlo”. ‘A’isha, o qualcun’altra delle sue mogli, esclamò: “Ma io
ho paura della morte!”. Rispose: “Non si tratta di questo! Poiché, quando la
morte si presenta al credente, gli vengono annunciati il beneplacito e la
generosità di Dio e niente è più amabile per lui di quanto gli verrà posto
innanzi.
È per questo che egli ama incontrare Dio e che Dio ama incontrarlo. Quanto
al pagano, venuto il momento, gli vengono annunciati il castigo e la punizione
di Dio e niente è più odioso per lui di quanto gli verrà posto innanzi. È per
questo che egli detesta incontrare Dio e Dio detesta incontrarlo”» (Da Bukhârî,
riqâq, 9, cf Etudes Arabes. Dossier 90 [1996/1] 148).
8 Ricordiamo tuttavia che a identità o somiglianza di contenuto e di
espressione non corrisponde un identico orizzonte ermeneutico. Spesso
formulazioni simili hanno valore molto differente.
9 I pilastri della fede (arkân al-îmân) non vanno confusi con i più noti
cinque pilastri dell’islam (arkân al-islâm). A livello coranico non esiste una
classificazione completa dei primi.
Il versetto che più vi si avvicina è 2,177: «La pietà non consiste nel volgere
la faccia a oriente o ad occidente.
È pio invece chi crede in Dio e nell’ultimo giorno, negli angeli, nel Libro e
nei profeti e, per amor di Dio, dà una parte dei suoi beni ai parenti, agli orfani,
ai poveri, ai viandanti e ai mendicanti e per riscattare i prigionieri.
È pio chi compie la preghiera e paga la decima, chi mantiene gli impegni
presi, chi è paziente nella tribolazione, nell’avversità e nei giorni dell’angoscia.
Questi sono i sinceri, i timorati di Dio». La formulazione completa si trova,
con varianti, nella Sunna: «Il Messaggero di Dio disse: “La fede è che tu creda
in Dio, nei Suoi angeli, nei Suoi libri, nei suoi Messaggeri e nell’Ultimo Giorno,
e che tu creda nel Decreto divino, sia nel bene che nel male”» (cf P. Branca,
Introduzione all’islam, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995, 174).
Il decreto divino corrisponde alla predestinazione. Il Corano si limita a
ribadire il concetto che tutto dipende dal volere positivo di Allâh, mentre
sottolinea, in altri luoghi, la responsabilità dell’uomo. L’argomento sarà
dibattuto a lungo nel kalâm, cioè nella riflessione musulmana posteriore.
36
UN DOVERE: VISITARE CHI SOFFRE
L’islam raccomanda di visitare i fratelli nella fede, specialmente se sono
ammalati e si trovano nel bisogno.
La visita è motivata da puro amore in Dio nei confronti del fratello
Sul tema della visita ai sofferenti, alcuni hadîth suonano piuttosto familiari
all’orecchio di un cristiano, tanto da poterne quasi scambiare la provenienza:
Il Profeta raccontò: «Un uomo si recò a far visita ad un suo fratello che
viveva in un altro villaggio, e Iddio Altissimo dispose un Angelo sul suo
cammino; e quando gli fu di fronte, chiese: “Dove intendi andare?”; “Intendo
andare da un mio fratello che vive in questo villaggio”, rispose; “Forse possiedi
qualche bene di cui è incaricato, e intendi controllare l’amministrazione?”,
chiese; “No, rispose, non vi è altra ragione che il mio affetto per lui in Dio
Altissimo”. Disse: “Io sono l’inviato di Dio presso di te; Egli ti ama come tu l’hai
amato in lui”». (I, n. 365, p. 129)
L’Inviato di Dio disse: «Il giorno della risurrezione, Iddio Potente e Glorioso
dirà: “Figlio di Adamo, ero ammalato e non sei venuto a trovarmi”; “Signore!,
e come potrei venire a trovare Te, che sei il Signore dei mondi?!”: “Forse non
sapevi che il Mio servo Tal dei Tali era ammalato, e non sei andato a trovarlo?!
Non sapevi forse che andando a trovare lui avresti trovato Me con lui?! Figlio di
Adamo, ti ho chiesto di darmi da mangiare, e non me ne hai dato!”; “Signore!,
e come potrei dar da mangiare a Te, che sei il Signore dei mondi?i”; “Non
sapevi forse che il Mio servo Tal dei Tali ti aveva chiesto da mangiare, e tu non
gliene hai dato?! Non sapevi forse che se tu gli avessi dato da mangiare
qualcosa, l’avresti ritrovato presso di Me?! Figlio di Adamo, ti ho chiesto di
darmi da bere e non me ne hai dato!”; “Signore!, e come avrei potuto dar da
bere a Te, che sei il Signore dei mondi?!”; “Ti ha chiesto da bere il Mio servo
Tal dei Tali e tu non gliene hai dato; non sapevi forse che se tu gli avessi dato
da bere qualcosa, l’avresti ritrovato presso di Me?!”». (VII, n. 3, p. 272)
Questi due hadîth hanno come presupposto la vicinanza di Allah ai suoi
fedeli e il suo amore per loro. Mostrano che l’islam non è una religione che non
conosce l’amore di Dio per gli uomini, come si sente spesso affermare. L’islam
sunnita ortodosso infatti nega che il tipo di amore che Dio ha per l’uomo sia
uguale all’amore che un uomo ha per un altro uomo. Il musulmano crede
fermamente che Allah è misericordioso e colmo di amore ma non si sbilancia
ad affermarne la natura, timoroso com’è di deturpare in qualsiasi modo la
trascendenza divina mediante il riferimento a ciò che è immanente e corporeo.
Nella prima delle due tradizioni andrebbe interpretato dal punto di vista
musulmano il come finale, che non è qualitativo ma quantitativo. Se mettiamo
a confronto questo detto con quello del Vangelo di Luca a proposito della
misericordia («Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro», Lc
6,36) abbiamo esattamente il contrario: qui infatti la comparazione è di ordine
qualitativo, non quantitativo.
Più chiara è la seconda tradizione, che ripete quasi alla lettera Mt 25 e che
si interessa in particolare della vicinanza di Allah ai credenti che si trovano in
necessità. Si noteranno le differenze più vistose: l’accentuazione dell’assoluta
37
autosufficienza di Allah e la vicinanza, non l’identificazione con la persona che
si trova nel bisogno. L’autosufficienza divina dipende dalla concezione generale
di Dio nell’islam, per il quale l’incarnazione è inconcepibile. Uno dei
novantanove «bei nomi» (cioè attributi) di Dio è infatti al-ghanî, letteralmente
«il ricco», nel senso dell’assoluta autosufficienza, incomparabile con la povertà
umana. E questa concezione spiega anche perché Egli non possa identificarsi
con un uomo, tanto meno con un uomo in difficoltà. Ma il suo amore e la sua
misericordia sono «vicini» al povero e all’indigente per calcolare e testimoniare
la preziosità dell’opera di colui che visita l’ammalato, come attesta un altro
hadîth:
L’Inviato di Dio disse: «A chi va a trovare un malato, o fa visita a un suo
fratello in Dio, un annunciatore proclama: “Sei stato buono, ed è buono quello
che è stato preparato per te, e verrai ad abitare una dimora nel Paradiso”». (I,
n. 366, p. 129)
La visita agli ammalati è talmente importante che diventa un vero e proprio
ordine dato dal Profeta ai suoi seguaci:
L’Inviato di Dio disse: «Andate a trovare l’ammalato, date da mangiare
all’affamato, e rimettete in libertà il prigioniero». (VII, n. 4, p. 272)
La cura del corpo è funzionale alla cura dello spirito, per cui la fede nel Dio
dell’islam è preferibile alla guarigione fisica (per la sensibilità cristiana attuale
questo hadîth risulterebbe piuttosto duro). Questo spiega la sollecitudine del
Profeta di fronte a un ammalato non musulmano:
Un ragazzo ebreo che era al servizio del Profeta s’ammalò, e il Profeta andò
a trovarlo: sedette all’altezza del suo capo, e lo esortò: «Fatti musulmano»; il
ragazzo guardò verso suo padre, che gli stava vicino; questi disse: «Obbedisci
ad Abû l-Qâsim [cioè: a Muhammad]»; ed egli si fece musulmano. E il Profeta
uscì dicendo: «Sia lode a Dio che lo ha strappato al Fuoco [cioè: all’inferno]».
(VII, n. 7, p. 273)
Per l’islam quindi la cura dell’ammalato è assai importante: assicura la
ricompensa eterna quando è fatta con e per amore e conduce vicino ad Allah, il
quale è particolarmente presente accanto alla persona che soffre ed è nel
bisogno.
Ma anche il modo in cui curare l’ammalato va considerato. Ad esempio, il
pudore femminile, soprattutto nell’islam arabo, è assai rilevante. Da parte degli
operatori sanitari sarà necessaria una particolare attenzione a questo dato
culturale. Un hadîth racconta:
Ibn ‘Abbâs chiese al Profeta: «Vuoi che ti faccia vedere una donna che fa
parte della gente del Paradiso?»; «Certamente!», risposi; disse: «Questa
donna negra si recò dal Profeta e disse: “Ho degli attacchi di epilessia, e poi mi
ritrovo scoperta: prega Iddio Altissimo per me”. Egli disse: “Se vuoi, sii
paziente, e per te ci sarà il Paradiso; oppure, se vuoi, pregherò Iddio Altissimo
perché ti risani”. E lei decise: “Che io sia paziente”; poi aggiunse: “Io però mi
ritrovo scoperta: prega Iddio che non mi ritrovi scoperta”. Ed egli pregò per
lei». (I, n. 35, p.23)
V.C.
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«Caro Martini, solo Dio può darci la morte»
di Andrea Tornielli
[Da «il Giornale», 24 gennaio 2007]
Parlare di eutanasia, del caso Welby e del dibattito suscitato dall’ultima
uscita del cardinale Martini, con lui significa fare sul serio. Alessandro
Maggiolini, 76 anni, vescovo uscente di Como - domenica prossima è previsto
l’ingresso del suo successore, Diego Coletti - è una delle maggiori personalità
dell’episcopato del nostro Paese, unico italiano nella commissione
internazionale che ha redatto il nuovo Catechismo della Chiesa cattolica sotto
la guida dell’allora cardinale Jospeh Ratzinger. Da qualche anno ormai,
Maggiolini non è più soltanto il prelato «controcorrente», poco amante del
felpato e autoreferenziale linguaggio «ecclesialese», il vescovo che con largo
anticipo su tutti ha denunciato i rischi di un’immigrazione selvaggia,
l’ecclesiastico schietto e mai banale che ha scritto un libro per annunciare la
fine della cristianità così come l’abbiamo concepita e vissuta fino a oggi. Da
qualche anno, a causa di un cancro al polmone e poi del morbo di Parkinson
che l’ha praticamente immobilizzato in carrozzella, Maggiolini è un credente
che fa quotidianamente i conti con la sofferenza. Un paziente di riguardo, che
non nasconde la sua paura della morte e che trascorre ogni santo giorno
quattro ore in confessionale, a incontrare i fedeli. «Tra persone che soffrono,
basta un’occhiata per intendersi», sussurra con un filo di voce vescovo
inchiodato alla carrozzina dallo stesso morbo che ha colpito Giovanni Paolo II e
che affligge lo stesso cardinale Martini.
Che cosa pensa dell’articolo del cardinale sul caso Welby?
«Penso, in tutta sincerità, che un cardinale dovrebbe tacere oppure, se ha
qualcosa da dire o da dissentire su certi argomenti, debba scrivere
direttamente al Papa in modo riservato e personale, senza esporsi in una
maniera pubblica. In fondo, il cardinalato non è un cavalierato, un titolo
onorifico, ma il segno di una obbedienza particolarissima al Santo padre, fino al
martirio. Ora, nessuno chiede di effondere il sangue, ma di tenerlo da conto
sì».
Che cosa obietta, nel merito, a Martini?
«Premetto di aver detto, a suo tempo, che io i funerali religiosi a Welby li
avrei celebrati. Ho letto sui giornali che quest’uomo, negli ultimi istanti di vita,
ha pregato. Se ciò è avvenuto, se davvero alla fine si è affidato a Dio, bisogna
tener conto del fatto che basta un sospiro di richiesta di misericordia per
riscattare una vita intera. Il cardinale Martini, però, non tocca questo
argomento, non parla di questa revisione morale della vita, ma entra nel
merito della sospensione dei trattamenti che il malato non sopporta più o che
provocano dolore... ».
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Il dolore e il suo riverbero psicologico non sono elementi secondari.
«Il problema del dolore, attualmente, nella quasi totalità dei casi, è risolto
grazie all’uso di potenti analgesici e anestetici che lo eliminano pur provocando
spesso la perdita della coscienza del malato. Il problema, semmai, è proprio
quello della persistenza della coscienza. Tanto che la Chiesa consiglia il
paziente che sta per essere sottoposto a queste cure palliative, di mettere a
posto prima le ultime volontà».
La sofferenza non più accettata non può essere un motivo per rifiutare le
cure?
«La sofferenza, quando c’è, non è un motivo per smettere le cure. Semmai
è un motivo per spingere ad aumentare le cure per far soffrire il meno
possibile. Non riesco a capire che cosa significhi sospendere le cure e così
permettere che uno muoia».
Martini ha parlato di eutanasia come di «un gesto che intende abbreviare la
vita, causando positivamente la morte». E ha aperto alla sospensione delle
cure, come prevede la legge francese.
«La differenza tra eutanasia cosiddetta “attiva” e quella “passiva” esiste già
da almeno ottant’anni, non è una notizia da prima pagina. Si è sempre detto
che un conto è ammazzare e un conto e lasciare che uno muoia. Dunque non
mi sembra poi una gran scoperta. Il problema è che su questi argomenti così
delicati, che ci toccano così da vicino e così nell’intimo, non si può discutere
sulla base di formule teologiche astratte ma è necessario un confronto tra il
teologo moralista - non il biblista - e il medico, cioè colui che sa che cosa sta
capitando davvero nell’organismo di una persona».
Eppure la Chiesa, come dice no all’eutanasia, è altrettanto contraria
all’accanimento terapeutico. Come lo definirebbe, lei, questo «accanimento»?
«L’accanimento inizia quando cure straordinarie e sproporzionate non
garantiscono più speranza di miglioramento e la morte è comunque sicura.
Vorrei però aggiungere che una cosa è sospendere la somministrazione di
medicinali atti a contrastare il male, un’altra togliere al paziente le risorse per
vivere. Per esempio, essendo l’aria è necessaria per vivere, non credo sia lecito
toglierla staccando il respiratore. Il cibo così come l’idratazione non possono
essere considerate “cure”».
Martini invoca un maggior coinvolgimento e un maggior protagonismo del
malato.
«Non ci si deve però dimenticare che il responsabile è il medico. Il malato
non è l’ultima istanza, deve confrontarsi con il medico che lo cura, sennò
rischia di scambiare una fitta passeggera con un tumore. Il medico, insomma,
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non può essere deresponsabilizzato. Altrimenti si arriva a concedere il
permesso di ammazzarsi nelle corsie degli ospedali».
Posso chiederle come sta vivendo la sua malattia?
«Sono lontanissimo dalle sviolinature circa l’importanza del dolore e della
sofferenza. Conosco la teologia, ma devo dire che non credo necessario
esaltare il soffrire. Secondo me il problema è di mantenersi nell’atteggiamento
di dipendenza dal Signore. Se lui vuole che io abbia il Parkinson, è la sua
volontà, anche se a me dà fastidio. Così non è stato piacevole il taglio di un
lobo di un polmone, ma se serve a mantenermi ancora in vita, l’accetto! C’è un
aspetto umano, cioè il riconoscersi limitati e dopo aver cercato di allontanare il
più possibile gli elementi negativi, accettare la malattia che il destino ti
assegna. Ma c’è anche la voce del soprannaturale che ti sussurra che quella è
la volontà del Signore».
Questo abbandono, questo atteggiamento di dipendenza, aiuta a vivere la
sofferenza?
«Il primo risultato pratico è che ti costringe a non fare il gradasso, e non
sgomitare per esibirti. Ti costringe a essere malato, il che vuol dire accettare
un certo nascondimento e la compassione degli altri, che non è mica sempre
bella. Poi ti aiuta a capire la redenzione di Cristo, che ha scelto
volontariamente di salire sulla croce. La malattia accettata senza entusiasmi
artificiosi ma con la pacatezza di chi accoglie la volontà di Dio, rende più buoni
e aiuta a capire la sofferenza degli altri. Da quando sono malato, in
confessionale colgo una corrente di simpatia, perché tra persone che soffrono
basta guardarsi negli occhi per capirsi».
© il Giornale
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La croce, il Parkinson e il giudizio dei medici
di Vittorio Messori
[Dal "Corriere della sera", 17 Maggio 2002]
Sospira, un po’ imbarazzato, l’autorevole geriatra cui leggo i testi
d’agenzia. Mi dice: «Sono cattolico ma anche medico. Sono uno specialista che
ha a che fare ogni giorno con anziani affetti da morbo di Parkinson. E’ dunque
con disagio che mi permetto di dire che sembra esserci qualche incongruenza
nelle dichiarazioni di quei due cardinali». Come si sa, Oscar Rodriguez
Maradiaga, salesiano honduregno e arcivescovo di Tegucigalpa, ha risposto
così, ieri, alla domanda di un giornalista: «Se Giovanni Paolo II dovesse
rendersi conto di non potere continuare a svolgere il suo ministero, avrebbe il
coraggio di dimettersi». A richiesta di un altro cronista, il cardinal Joseph
Ratzinger ha replicato: «Se il Papa vedrà che non ce la fa proprio, sicuramente
rinuncerà». Commenta il mio interlocutore: «Spiace dirlo, ma i due porporati
presuppongono che un malato di Parkinson, giunto a una fase avanzata,
conservi intatte le facoltà di critica e di giudizio e, dunque, possa stabilire che è
il momento del definitivo ritiro. Ma sono proprio quelle facoltà che, purtroppo,
vengono tolte dal morbo. Le statistiche rilevano che il 65 per cento dei
parkinsoniani che hanno superato gli ottant’anni presentano sintomi gravi di
deficit cognitivo. Nelle fasi successive, si giunge molto spesso a una quasi
totale insufficienza mentale che è indicata con il termine crudele, ma tecnico,
di "demenza"».
Prosegue lo specialista:«Certamente, i colleghi che hanno in cura il Papa gli
somministrano un farmaco, la levodopa, che diminuisce la rigidità delle
membra e aiuta a ritrovare una certa capacità di movimento. Ma questa
sostanza ha effetti collaterali neurologici, portando talvolta ad allucinazioni. In
ogni caso, rischia di aggravare il quadro psicologico, appannando ulteriormente
la lucidità. Sul mero piano medico, dunque, sembra illogico attendere che sia il
paziente a decidere sullo stato reale delle sue condizioni. Una simile decisione
dovrà, semmai, essere delegata ai sanitari che seguono il decorso del male. A
quei medici va la mia solidarietà: potrebbero essere chiamati a decidere
quando sia giunto il momento davvero storico delle dimissioni di un Papa, per
giunta straordinario come Giovanni Paolo II». Se questa è la voce della
medicina, quella della cronaca sembra parlare un linguaggio diverso. Tutti
hanno visto come, durante il suo ultimo viaggio, a Ischia, Karol Wojtyla non
solo abbia fatto fronte all’impegno, ma si sia addirittura concesso qualche
battuta. La sua agenda non ha subito amputazioni, come sempre è fitta di
impegni faticosi. Chi gli è vicino assicura che anche il lavoro quotidiano di
gestione della Chiesa non ha registrato rallentamenti. La sola differenza,
rilevata da Ratzinger, è il rarefarsi della parola: sintomo tipico, secondo lo
specialista, dell’avanzare del morbo che, alla fine, rinchiude il malato in un
totale mutismo. Ma è lo stesso Prefetto della Fede che aggiunge che il Papa,
pur parlando poco, ascolta con attenzione, rivolgendo poi brevi ma lucidissime
domande che confermano come la sua percezione dei problemi sia intatta.
Come intatta è la volontà di continuare a portare la sua croce.
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Sempre Ratzinger ha detto: «Se si tratterà solo di soffrire, sopporterà, così
come da sempre è abituato a fare». Ma di quale tipo sono le sue sofferenze ?
Stando ai medici - e stando a chi gli è vicino - non sono di carattere fisico ma,
soprattutto, psicologico. E’ il dolore, prima di ogni altro, della perdita
dell’autosufficienza. «In un caso come il suo» dice il medico «già da tempo non
avrei avuto alcuna esitazione ad autorizzare la concessione dell’assegno di
accompagnamento: il contributo pubblico, cioè, per avere accanto di continuo
qualcuno che assista nelle funzioni quotidiane - dal cibarsi al vestirsi - che non
si è più in grado di svolgere da soli». Per l’atletico cinquantottenne divenuto,
nel ’78, il primo Papa slavo della storia, questa perdita di autonomia personale
è certamente una sofferenza crudele. Eppure, nella sua prospettiva di fede,
deve sembrargli anche un misterioso privilegio, assimilandolo ancor più alla
sorte di quel Pietro di cui è successore. Nell’ultimo capitolo dell’ultimo Vangelo,
quello di Giovanni, Gesù predice a colui che dovrà pascere il gregge dei fedeli:
«In verità, in verità ti dico : quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo e
andavi dove volevi. Ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani e un altro ti
cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi». Drammatica - e insieme
straordinaria - anticipazione di un calvario che sembra rinnovarsi, duemila anni
dopo, nei palazzi fastosi sul colle Vaticano. Non occorre, comunque, essere
profeti per prevedere che, un giorno, la Congregazione per le cause dei santi
sarà chiamata a giudicare un dossier intestato come «Karol Wojtyla, Sommo
Pontefice con il nome di Giovanni Paolo II». Ed è altrettanto facile prevedere
che proprio gli anni del tramonto - quelli del «quando sarai vecchio, un altro ti
cingerà la veste» - saranno valutati con emozione particolare da quei giudici
severi che, proprio in questa sofferenza così accettata , avvertiranno un
sentore inconfondibile di evangelo.
© Corriere della sera
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Il Grillo (4/2/1998)
Salvatore Natoli
Il senso del dolore
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-------------------------------------------------------------------------------Natoli: Sono Salvatore Natoli. Insegno Filosofia all'Università di Bari. Mi
sono interessato delle questioni teoriche della filosofia, dei rapporti tra ragione
e passione, quindi anche di teoria degli affetti, e, in particolare, del dolore. Ho
scritto un libro: L'esperienza del dolore, che è poi il tema di oggi. Quindi
passiamo a vedere la scheda di presentazione dell'argomento.
Il dolore, si dice, è universale. Ma è proprio vero che sia così? Nel dolore
universale è di certo il danno - esempio: una malattia, un handicap -, non il
modo in cui il danno è vissuto. Ma il danno, quand'anche è universale, è
variamente interpretato. Un induista soffre in modo diverso da un cristiano,
questi, diversamente, da chi non crede. Se così è, l'esperienza effettiva del
soffrire è data dalla circolarità tra danno-senso, più esattamente dalla tensione
tra il senso, a cui sempre e in ogni caso si appartiene, e il non senso che il
dolore produce. Il dolore infatti lacera la ragione, costringe l'uomo a
interrogarsi su di sé. Perché a me? Cosa ho fatto per meritare questo? Ma
ancor più sul senso del mondo. Le cose si inabissano e l'enigma del male
irrompe in tutta la sua atrocità. Eppure mai, come nella sofferenza, si cercano
parole per dare senso all'insensato. E, bene o male, le si trova. Abbiamo preso
a soffrire nel momento stesso in cui abbiamo cominciato a vivere. Gli uomini
nascono in scenari di senso che li precedono e che danno loro il linguaggio e i
termini per divenire interpreti, più o meno abili, del loro soffrire. Abili, e non da
soli, gli uomini infatti riescono a condividere la comune sofferenza, a farsene
reciprocamente carico. Ed è anche giusto dire che lo devono. Tuttavia nessuno
è mai sostituibile nel suo dolore. Ognuno è chiamato a giocare la sua parte.
Riuscire, nonostante il dolore, a portare a compimento una vita. Ma di questo
poco si può dire. Infatti nulla più del dolore svela la fragilità dei singoli, la loro
irrepetibile unicità. Manifesta insieme la comune esposizione all'imponderabile.
STUDENTESSA: Buongiorno, professore. Come abbiamo visto nel filmato,
nel passato si aveva una concezione diversa del dolore da quella odierna.
Come può il tempo modificare questo?
Natoli: Ecco, la sua domanda già ci porta nel cuore della esperienza del
dolore. Lei introduce passato, introduce tempo. Ecco, l'esperienza del dolore,
diciamo, ha due facce. C'è una parte oggettiva del dolore, che è il danno, che
può essere rompersi un braccio, avere una grave malattia. E l'altro è il senso,
cioè quale significato si attribuisce a questo atteggiamento. Allora, per capirci,
brevemente, lei immagini un induista, immagini un cristiano, immagini un non
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credente. La stessa sofferenza è diversamente interpretata. Ci sono delle
culture in cui la sofferenza è interpretata come la dimensione dell'apparenza.
Ci sono delle culture in cui la sofferenza è vissuta in modo profondo: il dolore
vivo. Ci sono delle esperienze, per esempio quella cristiana, dove c'è il dolore
vivo, ma è visto nella dimensione della redenzione. Ecco lo stesso danno è
vissuto in diverso modo. L'esperienza del dolore sta nella circolarità tra danno
e senso. Ecco perché, pur essendo universale, il dolore è diverso.
STUDENTESSA: Professore, Le volevo chiedere: la tecnica moderna tende
ad annullare il dolore in maniera diversa da come si faceva nel passato. Prima
lo strumento fondamentale era l'uso della parola. Secondo Lei oggi è superato?
E' superata la parola?
Ecco, qui bisogna fare una considerazione preliminare. Non annullare, la
tecnica cerca di fronteggiare - magari riuscisse ad annullare il dolore -, cerca di
fronteggiare il dolore. E' chiaro che in epoche diverse, quando la tecnica non
aveva ancora raggiunto il livello di qualità e di efficacia di oggi, c'erano altre
modalità per affrontare il dolore, modalità, per molte volte, per molti casi, esse
stesse tecniche. Cioè la tecnica è molto antica, non sofisticata come oggi. Ma
già con Ippocrate in fondo il dolore cerca di essere dominato attraverso il gesto
tecnico. C'è una bella formula di Ippocrate, in cui si dice: "Il medico e il malato
devono, insieme, combattere contro la sofferenza". Ecco, allora bisogna
distinguere nella sofferenza tra la parola "efficace" e la parola "non efficace".
Qui c'è un punto importante da considerare: il dolore, come esperienza
estrema, è sempre al di sotto e al di sopra della parola. E' al di sotto della
parola perché sono poche le parole efficaci. Chi soffre cade nel mutismo. Non a
caso si parla di pietrificazione. Il dolore pietrifica, che dire. Dall'altro lato il
dolore è eccesso di parola, c'è la farneticazione. Nel dolore costantemente ci si
domanda: "Perché io soffro, perché a me?". Ricorderete tutti in Manzoni di
Tonio, scimunito dalla peste: "A chi la tocca, la tocca. A chi la tocca, la tocca",
fino al grido, la parola inarticolata. Ecco quindi, in quanto lacera il dolore,
eccede il linguaggio. Ed è' sempre di troppo e troppo poco. Allora si cerca la
parola "efficace". Per esempio nella credenza religiosa la parola "efficace" era
la preghiera, perché magari il dolore non cessava, ma c'era una speranza, un
"tu", una confidenza, un'attesa del miracolo. Questo non cancellava, non
cancellava il dolore, ma lo rendeva in un certo modo sostenibile, vivibile. E poi
con la parola "efficace", che è quella della tecnica, oggi l'uomo, quando soffre,
a chi si rivolge in primo luogo, a cosa pensa, dove trova la parola "efficace"? La
trova nella tecnica. Ecco allora il passaggio di civiltà, i modi diversi in cui quella
circolarità tra danno e senso di cui parliamo prima, di volta in volta si attiva.
STUDENTESSA: Poiché attraverso la lacerazione dei sensi, l'animo di colui
che soffre riesce a raggiungere dei livelli, potremmo dire di conoscenza
superiore, è possibile quindi concludere che il dolore, che poi in realtà è
sinonimo di male, in realtà è anche bene?
Ecco, qui, già c'è una considerazione preliminare da fare: coscienza
superiore. Che vuol dire? Ecco, il dolore abbrutisce, il dolore strazia, il dolore
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indebolisce la mente, quindi non sempre nella condizione di dolore il soggetto
accede a un punto di vista superiore. Nei dolori si sviene. Quindi non bisogna
dimenticare la dimensione impoverente del dolore. Però c'è anche un'altra
dimensione: il dolore non è sempre vivo. Anche nel sofferente ci sono momenti
alterni. E che cosa produce il dolore? Il dolore produce una forte interrogazione
su di sé. Che senso ha la vita, se io soffro? Se la vita è lo spazio in cui l'uomo
deve realizzare le proprie possibilità, ecco, nel dolore che cosa si sperimenta?
Si sperimenta non solo il dolore vivo, ma la interruzione delle proprie
possibilità. E allora ci si interroga: perché, che senso ha vivere? Allora nel
dolore l'uomo diventa una questione centrale. Il pensiero a sé diventa il
pensiero di sé nel mondo e quindi il senso del mondo. Ecco perché, a partire
dall'esperienza del dolore, l'uomo si interroga sul male e quindi sulla realtà, la
verità dell'esistere. Da questo punto di vista il dolore pone una condizione di
interrogazione e di domanda su di sé e quindi in un rapporto tra sé e il
significato del mondo molto alto. Allora da questo punto di vista, per quanto
abbrutisca, pone anche delle condizioni di interrogazioni radicali e profonde.
Per cui, se il dolore non abbatte - e molte a volte abbatte e cancella - diventa
una occasione per crescere.
STUDENTESSA: E quindi, se non abbatte, contrariamente invece si può
anche rafforzare?
Può essere un modo attraverso cui l'uomo scopre risorse che altrimenti non
avrebbe scoperte. E quindi può ricostruire una dimensione di sé, una immagine
di sé altra, nuova, per molti versi, appunto, se non è sconfitto, vittoriosa.
Quindi il dolore non è mai in assoluto un qualcosa di negativo. Può diventare
un passaggio di crescita, senza dimenticare però che può essere anche una
ragione profonda di sconfitta.
STUDENTE: La scienza, la tecnica, la conoscenza possono alleviare il dolore
dell'uomo col passare del tempo, come sembrerebbe da un'interpretazione del
mito di Prometeo, oppure esso è parte integrante, essenziale, dell'esistenza
umana?
Ecco, che il dolore sia intimo alla vita, su questo, diciamo, che la storia del
mondo ne è testimone. Anzi addirittura i Greci vedevano nel dolore l'altra
faccia della felicità, cioè l'esistenza è insieme generativa e crudele. La stessa
potenza che genera, la natura, distrugge. E quindi dolore e felicità stanno
insieme. Ecco, ma non è di questo che voglio parlare, ma voglio venire alla sua
domanda. La tecnica allevia il dolore. Beh, certo, direi che lo ha alleviato. Il
dolore vivo è diminuito. Molte malattie sono gestibili, controllabili. Si può
ottenere per venire alla guarigione. Quindi sarebbe chiudere gli occhi se non si
ammettesse che la scienza ha ottimizzato la vita e quindi, nel contrasto col
dolore, è stata appunto, come dicevo prima, parola potente. Però è chiaro che
non lo ha sconfitto. Allora, a fronte di questa grande crescita e sviluppo della
tecnica si sono create come sempre delle controfinalità. Per cui, se per un lato
la tecnica ha riscattato un uomo da molti dolori, lo ha esposto a forme nuove di
sofferenza. Per capirci, un esempio. C'è una bella formula di Epicuro, che dice:
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"Se la malattia è grave, è breve. Se è lunga si può apprendere a convivere con
essa". Oggi la tecnica ha creato un quadro nuovo di esperienza. Ci possono
essere malattie gravi che possono diventare lunghe, cioè la tecnica può
mettere l'uomo nelle condizioni di essere sotto una ipoteca di morte per lungo
tempo. Che si fa in questo tempo? Ecco, allora, come la tecnica, pur avendo
risolto tanto dolore, crea condizioni diverse di problematicità, perché un uomo,
che non ha futuro, come riempie questo spazio di tempo? Può la tecnica
risolvere questo? Non sempre. Per cui, grazie ai successi della tecnica, noi
abbiamo ridotto il dolore vivo, ma la sofferenza si è riformulata secondo
un'altra qualità. E allora, per affrontare questo, ci vuole un altro linguaggio, a
cui la tecnica non è sufficiente.
STUDENTESSA: Il dolore fisico ha anche un'attività pratica, in quanto serve
ad allontanarci dal pericolo. Possiamo dire la stessa cosa del dolore morale? E
se sì, in che senso?
Dunque il dolore fisico lo si è detto sempre, è un segnale, uno stimolo che
preserva, che allerta. Tant'è vero che nella medicina classica il dolore era
considerato un sintomo della malattia. Non era esso malattia. Poc'anzi si
parlava di tecnica. Oggi, con lo sviluppo della tecnica, noi siamo arrivati al
punto che il dolore ha cessato di essere solo sintomo. E' diventato esso stesso
malattia. Perché? Perché, mentre prima, bisognava curare la malattia per
togliere il dolore, oggi con malattie, anche gravi e incurabili, si può controllare
il dolore senza con ciò estinguere la malattia. Allora da questo punto di vista il
dolore oggi non è più solo un sintomo, un allarme, ma esso stesso un male. E
quindi si possono evitare morti atroci, nel momento in cui la tecnica può
trattare quello che un tempo era un sintomo, come un male. Il dolore morale
esigerebbe una riflessione per suo conto, ma per stare alla sua domanda voglio
risponderle in modo molto breve. Non bisogna separare il dolore morale, io
preferirei chiamarlo il dolore mentale, dal dolore fisico, perché ogni dolore
fisico mette a disagio la mente. E quindi esiste una somato-psicosi, cioè il
disagio del corpo mette in crisi la mente, allo stesso modo in cui il disagio della
mente o di rappresentazione mette in crisi il corpo. Quindi si tratta di definire il
grado di questa circolarità. Ma ogni dolore fisico è anche mentale, ogni dolore
mentale è anche fisico. Non possiamo mai scindere nell'uomo la
rappresentazione di sè dalla sua condizione effettiva, corporea.
STUDENTE: Visto che si dice che il dolore affina le conoscenze, di
conseguenza, secondo Lei, il piacere ottunde gli animi. Eppure Leopardi,
affinato da una vita di dolore, desiderò con tutto se stesso il piacere!
Ecco, ho già detto prima, che non sempre il dolore affina. Il dolore anche
abbrutisce, riduce l'intelligenza. Pensate quando avete un dolore atroce, anche
di quelli passeggeri, insomma. Ma, quando c'è un momento acuto di dolore,
beh, tutto il corpo è tratto in questa esperienza, non pensa più che il dolore fa
male. Quindi affina. Affina nel senso che poi, essendo in questa situazione,
trovandosi in questa situazione, per un lungo periodo si alternano i momenti
estremi con momenti di maggiore vivibilità. Talora la sofferenza entra
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nell'intero della sofferenza, dell'esperienza, e allora, come dicevo prima, l'uomo
scopre, latente, dimensioni di sé, modi di rapportarsi con gli altri, che gli
permettono forme diverse di realizzazione. Questo è un tema che bisognerebbe
trattare, nel senso che una delle caratteristiche del dolore è quella di produrre
la separazione dagli altri. E allora come ci si incontra con gli altri? Ci si incontra
in un altro modo. Anche qui si aprono dimensioni di pietà, di sensibilità diverse.
Allora tutti questi sono modi in cui pur nella sofferenza si può crescere. Ora,
detto questo, non si può sostenere che il piacere invece faccia male o ottunda.
Ecco, una caratteristica del piacere è che, nel momento del piacere, non si
pensa al dolore. Nel momento del piacere, la caratteristica del piacere è che il
dolore viene messo tra parentesi, però il piacere esso stesso affina la
sensibilità. Il piacere del suono affina la sensibilità. Si può sentire il canto delle
cicale, il rombo, il rullare dei tamburi, il vento, la musica. Il senso stimolato dal
piacere si specializza, si arricchisce. Quindi lo sviluppo della sensibilità o del
piacere, di per sé, non è un elemento di riduzione d'intelligenza, ma di grande
accrescimento dell'intelligenza. Certo che ci sono dei tipi di piacere, in cui
l'elemento eccessivo, lungi dal perfezionare il senso, lo deturpa. Un suono
troppo forte non perfeziona l'udito, lo fa perdere. In altre situazioni ho detto:
"lasciamo stare la qualità estetica delle musiche da discoteca". Non voglio
entrare nel merito estetico, ma se fanno perdere l'udito, se indeboliscono
l'organo, sono negative. Allora ci possono essere delle dimensioni di piacere
eccessivo ottundente, ci può essere un gioco variato del piacere, che invece è
un accrescimento della sensibilità, il gusto del silenzio. Il silenzio è un qualcosa
che si ascolta paradossalmente. Quindi, se nel dolore si può crescere, non per
questo si deve dire che il piacere ottunde. Ottunde quando diventa
monomaniaco, eccessivo, quando, anziché sviluppare la sensibilità, la fossilizza
in un punto di eccessiva stimolazione. E l'eccessivo stimolo distrugge l'organo.
STUDENTE: Scusi, professore, si potrebbe parlare di una gradualità del
dolore?
Certo, si può parlare di una gradualità del dolore in un senso elementare,
nel senso che una piccola contusione non è un grande trauma. Un grande
trauma non è una grave malattia. Ma allora qui ci sono due distinzioni da fare.
Ci possono essere dimensioni di dolore vivo, molto forte, ma anche molto
breve. Allora, quando si ha un dolore vivo molto forte, ma se ne conosce la
natura, questo dolore viene meglio sopportato, di un dolore accennato, di cui
non si conosce l'origine, perché quello può essere grave, perfino mortale.
Allora cosa vuol dire grado del dolore? E' il dolore vivo oppure ciò che il dolore
significa. Un dolore vivo, di cui si ha però la persuasione che svanirà, che è
curabile, diventa meglio sopportabile, soprattutto con l'aiuto dei farmaci che
oggi abbiamo a disposizione, di quanto non lo sia un dolore ambiguo. Quindi
già si capisce bene come l'interpretazione del dolore definisca il grado del
dolore o quello che comunemente si dice la "soglia" del dolore. Quindi la
"soglia" non è mai oggettiva. Visto che abbiamo introdotto questo tema, allora
torniamo di nuovo al discorso che si faceva all'inizio, la circolarità tra danno e
senso. Anche questo gradua il dolore, perché è in una situazione in cui a un
dolore anche grave si riesce ad attribuire un significato, questo dolore lo si
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sente meno. Pensiamo, in una certa tradizione cristiana, il dolore offerto in
espiazione, per esempio, offerto in espiazione del male, che intenzionalmente
gli uomini fanno, allora questa dimensione dell'offerta non annullava il dolore,
ma in un certo senso lo finalizzava e allora diventava più sostenibile. E allora il
modo di interpretare il dolore, soggettivo, cioè per quanto riguarda l'individuo,
e culturale, ne definisce il diverso grado.
STUDENTESSA: L'esperienza del dolore può trasformare il rapporto con il
proprio corpo? E l'immortalità dell'anima può derivare da questo?
Ecco, certamente l'esperienza del dolore trasforma il rapporto col proprio
corpo. Mi capita spesso di portare un esempio elementare. Lei immagini di fare
una gita in montagna in una giornata d'estate. Allora ad un certo momento ha
camminato, è sudata, trova una fonte, c'è questa acqua fresca, lei si bagna, la
beve, l'arsura è placata, sente un grande ristoro. Che cosa sente? Sente la
freschezza dell'acqua, sente l'acqua, sente il mondo, sente gli odori. Immagini
di avere una lesione al labbro, quando lei accosta le labbra all'acqua, sente
immediatamente il bruciore alla bocca. Non sente l'acqua, sente il corpo. Ecco
allora che cosa cambia: nel dolore il corpo è vissuto come ostacolo nei
confronti del mondo. Nella sanità il corpo è sentito come apertura verso il
mondo. Il corpo sano sente il mondo, il corpo malato sente il corpo. E quindi il
corpo diventa una barriera tra il proprio desiderio, l'universo delle possibilità, e
la realizzabilità delle medesime possibilità. Cosa vuol dire "venire al mondo", la
parola "venire al mondo"? Che il mondo è lo spazio delle nostre possibilità. Il
bambino viene al mondo, comincia a camminare nel mondo, i primi passi,
tocca, raggiunge le cose. Il corpo colpito ha dinanzi a sé un mondo
irraggiungibile. Ecco allora perché si cambia la dimensione dell'esperienza del
proprio corpo. Si cambia anche soprattutto la dimensione dell'esperienza di sé
nei confronti degli altri. Ecco perché il dolore separa. Si dice: il dolore inchioda.
E' inchiodato a quella sedia. Gli altri vanno per il mondo. Potranno avere
compassione, pietà? Lasciamo stare gli atteggiamenti, ma intanto loro vanno,
perché la vita li chiama. Hanno anche dei doveri, e intanto tu sei inchiodato lì.
Ecco allora, la dimensione di immutato rapporto col proprio corpo significa
anche il mutato rapporto con gli altri. L'esperienza del dolore è anche
esperienza della separazione. Immortalità dell'anima. Forse una delle ragioni
per cui gli uomini hanno pensato all'immortalità dell'anima è dovuta dal fatto, è
dovuta al fatto che questo mondo della rappresentazione, che, pur nel dolore,
sussiste, si è formulato come mondo separato. Quello che io penso non
coincide con lo stato di cose che realizzo, però continuo a pensarlo. Forse c'è
una dimensione di me, allora, che può trovare pienezza al di fuori dei limiti del
corpo, visto che il corpo si presenta come limite. Questa è una credenza, è un
modo per spiegare questo tipo di credenza. Non solo, ma storicamente è
diventata, questa, una forma di consolazione, di compensazione. In una
umanità che credeva l'immortalità dell'anima, era persuasa di questo, ecco
pensava il mondo a venire come un bilanciamento del male di questo. E' chiaro
che non tutto il Cristianesimo si risolve in questa credenza. Per molti versi il
Cristianesimo è altra cosa. Ma certamente nei secoli cristiani gli uomini hanno
pensato all'altro mondo come quel mondo in cui l'uomo sarebbe stato
49
riscattato dal dolore del presente. Questo era un modo attraverso cui la stessa
sofferenza diventava assennata, pur nella lacerazione. L'immortalità era un
modo per dare senso al dolore del mondo. Fine destino e Dio che consola, che
protegge, che redime soprattutto.
STUDENTESSA: Lei prima ha detto che il dolore mentale è una
conseguenza del dolore fisico e viceversa. Ma in realtà si possono considerare
come due forme differenti di dolore?
Io più che usare la parola "conseguenza", che è troppo impegnativa, anche
perché definire i nessi di causa ed effetto non è mai molto semplice, ho usato
quella di "circolarità". Cioè un male fisico prende la mente e un male mentale
prende il corpo. Ecco, certo l'origine non è coincidente. Ci possono essere delle
forme di dolore, che prendono il corpo, che nascono dal disagio della mente.
Allora, da questo punto di vista, noi ci rappresentiamo sempre in un mondo.
L'uomo esiste in quanto è relazione. L'uomo non è una realtà atomica, non è
una pietra. L'uomo è rappresentazione. Quindi, lo stesso nostro corpo è in uno
spazio, e noi ci vediamo in uno spazio, in uno spazio fisico, la possibilità di
raggiungere le cose, in una relazione con gli altri, con le altre persone, che
interloquiscono, che ci corrispondono o ci rifiutano. Allora il modo di
rappresentarsi il mondo ce lo porta vicino o lontano. Allora è chiaro che le
forme di rappresentazione della realtà, il modo in cui noi viviamo le cose, il
modo in cui stiamo nell'esistenza, può essere agiato o disagiato. Ed è chiaro
che, se il nostro modo di rapportarci agli altri o al mondo-ambiente, è
disagiato, bisogna andare a trovare le ragioni, questo immediatamente
produce disagi del corpo. Però il disagio del corpo - una grande malattia che
nessuno ha deciso e che ci prende - mette a disagio la mente. Allora lì bisogna
ricostruire il contatto, ristabilire, se è possibile - non sempre è possibile - la
relazione. Ecco, allora qui siamo dinanzi a una rete di nessi, molto complicata.
Le voglio dire una sola cosa però, che, mentre nel disagio del corpo, fisico, per
esempio una malattia, la mente è messa in questione, però l'uomo è, in certo
senso, presente a se stesso, nel disagio della mente è la mente stessa che è
portata fuori di sé e quindi è più difficile metterla in rapporto, di coerenza con
se stessa. In questo senso il disagio mentale è enigmatico, meno chiaro del
dolore del corpo.
STUDENTESSA: Secondo Lei, uomini o donne hanno un modo diverso di
porsi di fronte al dolore? E se ciò è vero dipende da un fattore fisico o
culturale?
Qui il problema più che riguardare il dolore riguarda alla cosiddetta
"differenza". Certamente gli uomini e le donne sono diversi. Sono diversi dal
punto di vista fisico, sono diversi dal punto di vista culturale. Quindi se è vero
quello che io ho detto fino adesso, che c'è una circolarità tra danno e senso,
probabilmente anche nell'esperienza della sofferenza l'elemento del sentirsi
uomo e del sentirsi donna la caratterizza con delle variabili di diversità. Ecco
allora è chiaro che poi bisognerebbe andare a vedere, entrando nei mondi
storici, come le donne hanno sofferto differentemente dagli uomini. Credo che
50
questo è un lavoro che si potrebbe anche fare, cioè probabilmente delle
condotte diverse ci sono state.
STUDENTESSA: Ma è vero che comunque per la donna è più facile
affrontare l'esperienza dolorosa che per un uomo?
Io qui non vorrei essere arbitrario, perché bisognerebbe appunto vedere
questi modi storici, queste abitudini culturali. Certamente, così, a prima vista,
si può dire che la donna è stata maggiormente legata alla figura della pietà. La
dimensione pietosa della donna come ausilio, come accoglimento, questa
figura materna, in fondo quando si soffre si diventa sempre un po' bambini, si
ricade in questa gracilità originaria. Allora questa figura pietosa, materna, è
stata associata al femminile. Ma questo è un discorso abbastanza generale,
direi generico, per affrontare queste differenze bisognerebbe fare un'analisi
antropologica molto dettagliata e rigorosa, altrimenti si rischia di dire cose
senza fondamento.
STUDENTE: Professore, buongiorno. Vorrei sapere come Lei si pone di
fronte al problema sull'eutanasia.
Ecco, questo è un problema che meriterebbe una riflessione, preso da solo,
per sé solo. Ecco il ragionamento che io faccio circa l'eutanasia è questo.
Dinanzi a situazioni finali, in cui il dolore è forte e non c'è nessuna possibilità di
risanamento, il dolore comincia a diventare inutile. E perché allora far
sopportare agli uomini un dolore inutile, una inutile crudeltà? Allora lei sa bene
che si parla di accanimento terapeutico. In alcuni casi, in certe malattie si
continuano a produrre cure che non hanno nessun risultato, tengono in vita
una entità - che non possiamo più neanche chiamare persona - solo per farla
soffrire. In taluni casi addirittura non c'è più neanche la sofferenza, perché
siamo a un livello di insensibilità, di assenza di coscienza, dove l'accanimento,
non solo tiene in vita ciò che non vive, ma è anche uno spreco di risorse
rispetto a persone, che invece potrebbero essere aiutate. Allora in questo
quadro oggi sono tutti d'accordo, anche su posizioni diverse, che l'accanimento
terapeutico bisogna evitarlo e quindi bisogna lasciar morire, che non è in senso
proprio l'eutanasia, perché l'eutanasia suppone che un soggetto decida lui che
non può vivere più e dove la questione non è soltanto non sopportare un
dolore inutile, ma è anche mantenere la propria dignità, perché effettivamente
il dolore mortifica anche; c'è un problema di rispetto di sé. Allora in questi casi
l'uomo deve diventare titolare della sua fine. E qui la situazione è difficile.
Anche se in astratto si può condividere l'idea che, quando non si può più
vivere, anziché entrare in un tunnel oscuro, è più giusto andarsene, - che era il
modo in cui gli antichi pensavano l'eutanasia, la grande uscita dalla vita. La
pensavano. Poi anche nel mondo antico non è che l'eutanasia fosse così
facilmente praticata -, ma se in linea di principio si può accettare questo, ci
sono dei problemi di fatto. Chi decide, quando decide, come e perché? Basta
avere a che fare con dei malati, che ci si accorge molto spesso che passano da
fasi di depressione a fasi di euforia. Quando sono depressi vorrebbero morire,
quando sono euforici vorrebbero vivere. E poi dipende anche dal tipo di
51
rapporto che c'è tra il sofferente e gli altri. Io ho visto dei sofferenti che sino
alla fine della propria vita ritenevano di dovere portare a compimento
un'azione. Si sentivano responsabili di un compito e quindi non volevano
morire. Allora chi decide? Quando, come, perché? Può essere una decisione
solo medica? Allora entriamo in delle situazioni di fatto, in cui, anche
ammettendo, in linea di principio, la legittimità dell'eutanasia, è molto difficile
trovare una oculata giustificazione per praticarla in certi contesti. Tant'è vero
che il problema si formula sempre di più in termini di diritto. Come, quando,
qual'è la legittimità? Ecco, questo è il tipo di problema.
STUDENTE: Sì, però consideriamo il fatto che Dio ha creato la vita. Ha
diritto un uomo di levare la vita ad un altro individuo?
Dal punto di vista di chi è credente, è chiaro che la eutanasia è esclusa. E
qui torniamo ancora di nuovo al problema che la sofferenza non è mai un dato
puramente oggettivo. Intanto il credente stesso non entra in una logica di
eutanasia, perché interpreta il suo dolore in modo diverso. E' vero che la
sofferenza può far vacillare anche le fedi, però il credente non è in una logica
di eutanasia. E il credente si rapporta anche con credenti. Quindi trova modi di
conforto, modi di portare a termine la sua vita nell'ambito della credenza
stessa. Diverso è il discorso per il non credente. Infatti, anche se si
ammettesse giuridicamente l'eutanasia, non vuol dire per ciò stesso che tutti la
praticano. Ci sarebbero delle persone che vivono il dolore in un modo diverso,
correlato a un senso di riscatto, che non accederebbero all'eutanasia. Quindi
anche qui il problema della decisione dipende dal modo in cui si vive il dolore,
a secondo della interpretazione. Ecco perché direi che l'eutanasia è una
questione più sulle condizioni di possibilità che sulla effettività. Quando si parla
di eutanasia, si parla delle condizioni di possibilità perché questo atto divenga
legittimo, ma la decisione dipende sempre dal soggetto e soprattutto dal modo
in cui il soggetto si relaziona agli altri. Perché su questo è delicato. Cioè, è vero
che c'è un dolore inutile, che è assurdo sopportare, ma molte volte, soprattutto
nel nostro mondo, l'eutanasia è voluta, non tanto da chi soffre, ma da coloro
che gli stanno attorno, che non sono loro capaci di pietà, che non sono loro
capaci di farsi carico del dolore dell'altro. E allora dicono che il suo dolore è
insopportabile perché non lo sopportano loro. E in una società spietata come la
nostra un modo per liquidare il dolore lo sai qual è? Togliere di mezzo il
sofferente. Se si toglie di mezzo il sofferente il dolore non c'è più. E siamo noi
una società spietata.
STUDENTESSA: Scusi, professore, volevo chiedere se la vita di un uomo
non fosse intervallata da momenti di dolore, potrebbe allora esistere la felicità?
Beh questo, questo tipo di ragionamento, diciamo che si discosta
dall'esperienza che noi abbiamo della vita, perché la vita, come dicevo prima,
come i Greci pensavano, è insieme crudeltà e felicità. Ci sono mondi, credenze,
che accennano ad un mondo, in cui non ci sarà più il dolore e la morte. C'è un
versetto di Isaia, che dice appunto che "ci sarà un giorno in cui Dio asciugherà
le lacrime su ogni volto". Ma questo può essere solo creduto. Appartiene a
52
quelle dimensioni di senso attraverso cui il dolore è interpretato. Però
l'esperienza della lacerazione, in cui anche le stesse credenze sono messe a
rischio, è quotidiana. Ecco allora direi che il dolore fa parte della vita, però non
la nega, non la estingue. Può essere vissuto. Nonostante tutto, la sofferenza è
un momento della vita. C'è sofferenza fino a che c'è vita. Quando si perde la
coscienza del soffrire non si soffre neanche più. E allora se c'è sofferenza
perché c'è vita, al fondo di ogni sofferenza bisogna promuovere fino a che è
possibile la vita. E questo è importante nella relazione con gli altri, con la
persona che soffre. Quando noi ci rapportiamo alla persona che soffre, l'unico
modo per potere dare un senso non è compatirla, ma liberare in lei la vita. Il
modo profondo, vero di compatire, nel significato originario della parola, sunpatere, vivere con, qual è? Non è essere pietosi del soffrire dell'altro, ma nel
soffrire dell'altro capire che l'altro è importante per noi. Se l'altro si sente
importante per qualcuno, anche se soffre, ha motivi di vivere. Se non si sente
importante per nessuno, può chiudere la sua partita. In questo senso, anche
nel silenzio, noi possiamo aiutare a vivere l'altro, se l'altro percepisce in noi,
che è importante per noi. E quindi deve vivere per gli altri. In questo senso la
pietas grande alimenta la vita, anche nel più profondo della sofferenza.
53
Il dolore
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Ogni dolore è facile a disprezzare; quello che comporta sofferenza intensa
dura poco tempo, e quello che perdura molto tempo nella carne comporta
sofferenza temperata. (Epicuro)
A cura di Cristiano Turbil
Il termine dolore (Pain), assume diversi significati, rispetto al sistema etico
e al contesto storico-culturale in cui è inserito. In questo saggio breve, si ha
l’intenzione di definire il dolore, all’interno di due sistemi etici che ne hanno
una considerazione opposta.
Il primo, quello cristiano cattolico, all’interno del quale il dolore viene
considerato nella sua veste forse più positiva, assume non più il ruolo di ente
negativo che affligge l’uomo ma diventa il mezzo usato dall’umanità per
raggiungere e completare, all’interno del viaggio che è la vita, le sofferenze del
Cristo, per riscattarsi dal mondo del peccato e raggiungere a pieno titolo la
salvezza eterna .
Nella seconda parte, invece, il dolore non viene più analizzato rispetto alla
sua valenza negativa o positiva sull’uomo, ma viene studiato all’interno di un
contesto logico atto a determinare la sua reale posizione in rapporto con il suo
diretto corrispettivo opposto “ Piacere” (Pleasure), muovendo una critica
logico-psicologica al valore e al ruolo che hanno questi due termini all’interno
delle dottrine etiche di carattere Edonistico quantitativo (ovvero i sistemi etici
in cui si agisce con il fine di massimizzare la quantità di piacere senza
preoccuparsi della sua qualità) e utilitaristico.
Il dolore nelle etica cristiana:
§1
54
La tematica del dolore all’interno dell’uomo, nell’orizzonte etico cristiano,
viene espresso esaurientemente all’interno della lettera enciclica Salvifici
Doloris, qui il Pontefice cerca di spiegare come il dolore e la sofferenza siano
inseriti necessariamente all’interno della vita dell’uomo.
La lettera si apre con una frase di Paolo tratta dalla prima lettera ai
Colossesi “Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, in
favore del suo corpo che è la chiesa”[1], questo piccolo estratto che sarà poi il
filo conduttore di tutta la discussione, mette subito in rilievo come la
sofferenza nell’uomo e per l’uomo, sia mezzo per raggiungere la salvezza
divina.
Va inoltre precisato che il tema della sofferenza, è profondamente inserito
nell’anno liturgico della redenzione come giubileo straordinario (Anno 1984).
Qui la sofferenza viene considerata come caratteristica propriamente umana, in
quanto oltre a rappresentare il dolore fisico che l’uomo condivide con gli
animali, assume un senso più alto, sembra infatti appartenere alla
trascendenza dell’uomo e addirittura ad uno di quei punti a cui l’uomo è
destinato.
§2
La prima grande questione affrontata è la definizione dell’idea del dolore, e
tutti i temi ad essa correlati, soprattutto il rapporto tra dolore Fisico e Morale.
Il settore più conosciuto della sofferenza nella società moderna è quello
medico che alla luce della scienza dà una più precisa ed esauriente descrizione
del dolore e ne determina i diversi metodi del reagire (cioè della terapia).
Tuttavia questo è solo un settore, il campo della sofferenza umana è molto più
ampio.
55
Infatti l’uomo soffre in diversi modi, non sempre contemplati dalla
medicina, neanche nelle più avanzate specializzazioni. Tutto ciò si può capire
nella differenza che intercorre tra dolore fisico e morale:
·
corpo.
·
La sofferenza fisica si manifesta quando duole in qualsiasi modo il
La sofferenza morale si ha quando duole l’anima.
La vastità della sofferenza è quella che fornisce il superamento della
medicina come conoscenza della terapia del dolore fisico. Il dolore fisico è solo
la parte inferiore del concetto di sofferenza, la vera sofferenza è quella
dell’anima.
Infatti della sofferenza morale si trovano moltissimi esempi nelle scritture e
in particolare all’interno dell’Antico Testamento, in cui troviamo molti esempi di
situazioni che recano i segni della sofferenza:
·
Il pericolo di morte
·
La morte del figlio primogenito
·
La mancanza di prole
·
La nostalgia della patria
Tutti questi esempi e molti altri portano a considerare l’uomo come un
insieme psicofisico che fa un tutt’uno con la sofferenza, dove la sofferenza
viene intesa nel significato più ampio di “esperienza del male”.
Nell’ etica cristiana la nozione del male non esiste propriamente, in quanto
tutto ciò che esiste è bene, perché proclama la somma e assoluta bontà del
56
Creatore per le sue creature. L’uomo quindi soffre a causa del male, che è una
mancanza, una distorsione del Sommo Bene.
La sofferenza umana costituisce quindi un mondo che esiste insieme
all’uomo e possiede una valenza sia soggettiva che collettiva ed ha in sè una
propria precisa compattezza.
§3
Il dolore fisico è ampiamente diffuso nel mondo degli animali, però
solamente l’uomo soffrendo sa di soffrire e se ne chiede il perché. Questa
domanda l’uomo non la pone al mondo che sembra essere causa delle sue
sofferenza, ma la pone invece a Dio.
La risposta a questo interrogativo la si trova all’interno del libro di Giobbe,
uno dei grandi libri dell’Antico Testamento, dove si narra la storia di Giobbe un
uomo giusto che non conosce il peccato che viene colpito da innumerevoli
disgrazie. Qui viene mostrato come il male non sia soltanto inteso come pena
(espiazione di una colpa), ovvero data da Dio all’uomo nel momento del
peccato e dell’errore, quindi intesa come mezzo redentivo per ristabilire la
giustizia. Ma si evince anche, e soprattutto nel caso specifico di Giobbe,
ovvero di un uomo senza alcun peccato e che quindi non merita alcun dolore,
che la sofferenza data da Dio deve essere intesa come un mistero che l’uomo
non è in grado di penetrare fino in fondo con la sua intelligenza.
E’ vero quindi che la sofferenza sia legata alla colpa, ma non è altresì vero
che essa sia legata unicamente alla colpa. E un importante prova di questo la
troviamo appunto nel caso di Giobbe.
Il libro di Giobbe, pone il perché della sofferenza ma non ne dà la risposta;
fa solo capire che la sofferenza è l’utile per l’uomo, in quanto serve alla
conversione, cioè alla ricostruzione del bene del soggetto che riconosce la
misericordia divina nella penitenza.
§4
La soluzione della sofferenza, la troviamo però nella figura di Cristo:
“Dio infatti ha tanto amato il mondo che ha dato il suo figlio unigenito
perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna”[2]
57
Questa frase che può essere considerata uno dei pilastri portanti del nuovo
testamento mira ad esprimere la vittoria dell’amore sulla sofferenza; infatti Dio
dà il suo unico figlio al mondo, per liberare l’uomo dal male, che porta in sè la
definitiva e assoluta prospettiva della sofferenza.
Qui si può facilmente notare come ci si è spostati dalla dimensione della
sofferenza come giustizia o mistero (Libro di Giobbe), alla nuova dimensione
della redenzione, in cui la sofferenza assume il suo ruolo definitivo, ovvero il
mezzo per raggiungere la vita eterna.
Il peccato diventa quindi il contrario della salvezza, la perdita della vita
eterna; la vera missione del figlio di Dio assume il ruolo di vincere il peccato e
la morte e con la resurrezione ottenere il perdono e la vita eterna. Grazie a
questo, anche se la vittoria di Cristo non abolisce le sofferenze temporali della
vita umana, né libera la totale dimensione dell’esistenza, tuttavia getta su ogni
sofferenza una luce nuova, che è la luce della salvezza.
Questa nuova verità, cambia l’intero quadro delle sofferenze umane nelle
sue fondamenta, nonostante il fatto che il peccato originale si sia radicato
come “Peccato del mondo” e come somma dei peccati personali.
Dio ha mandato il Cristo, affinché tocchi le radici più profonde del male con
la sua innocente sofferenza e salvi l’uomo con la sua morte e resurrezione.
§5
Nel simbolo della croce di Cristo, non solo si è compiuta la redenzione
mediante la sofferenza, ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta.
Cristo si è addossato il male totale del peccato. L’esperienza di questo male su
Cristo, diventa il prezzo della redenzione e cosi il mondo della sofferenza viene
aperto agli uomini in un modo del tutto nuovo, che permette di considerare il
dolore in una nuova prospettiva finalizzata alla salvezza
La croce di Cristo diventa qui il simbolo di tutto ciò: essa getta in modo
tanto penetrante la luce salvifica sulla vita dell’uomo perché mediante la fede
lo raggiunga con la risurrezione.
La sofferenza diventa quindi una prova per l’uomo, una prova dove tramite
la sua debolezza manifesta la sua potenza, la sua grandezza morale la sua
maturità spirituale.
E in conclusione tutti coloro che partecipano della sofferenza di Cristo,
comprendono il mistero della croce e della resurrezione, nel quale Cristo
58
scende nella debolezza e muore ma allo stesso tempo compie la sua
elevazione.
§6
Alla luce di tutto questo, il vangelo assume quindi il ruolo di vangelo della
sofferenza, in cui Cristo è la chiave di volta di tutto il sistema, che vince la
morte con la sofferenza e ottiene la salvezza con la resurrezione.
La stessa cosa dovranno fare tutti gli uomini, come dice Paolo “Tutti quelli
che vogliono vivere pienamente in cristo Gesù saranno perseguitati[3]”.
Questo è in conclusione il vero messaggio della sofferenza, che perde
nell’etica cristiana quasi tutta la sua valenza negativa e assume un significato
oltremodo positivo, diventando il mezzo anzi sarebbe meglio dire il percorso
che permette all’uomo di raggiungere la promessa di vita eterna, completando
nel suo corpo. tramite il dolore. i patimenti del Cristo che grazie alla sua morte
ci ha salvati dal mondo del peccato.
Il Dolore e il Piacere nell’analisi di Gilbert Ryle
La tematica del Piacere e del Dolore viene analizzata all’ interno del saggio
Dilemmas[4].
Nel capitolo quarto di questa piccola raccolta di dilemmi, Ryle analizza le
nozioni di Dolore e Piacere rispetto ad una critica motivata del ruolo che
assumono all’interno delle classiche dottrine etiche edonistico-psicologiche.
§1
Nella prima parte della breve dissertazione, l’autore fornisce una veloce ma
precisa analisi del ruolo del piacere e del suo corrispettivo all’interno
dell’edonismo, descrivendo i vari assiomi che solitamente venivano attribuiti ai
comportamenti umani, i quali assumevano proposizioni abbastanza plausibili
ma talvolta e nella fattispecie non plausibili.
59
Si considerava infatti l’uomo come mosso e determinato nei suoi
comportamenti rispetto ad alcuni desideri, che venivano considerati tutti come
desideri del piacere: di conseguenza ogni azione intenzionale compiuta
dall’uomo era motivata solo ed esclusivamente da un incremento quantitativo
del piacere provato dall’individuo agente e da una netta diminuzione del dolore
dello stesso.
In un sistema cosi strutturato, i piaceri differivano tra di loro, solo ed
esclusivamente, non su un rapporto di qualità ma semplicemente su un
rapporto di quantità, ovvero un piacere ά era migliore di un altro piacere β solo
se esso era rispettivamente più intenso o prolungato o tutte due le cose
insieme rispetto all’altro.
Perciò in base a questi assiomi sembrò logico considerare l’altruista come
colui che incrementa il piacere altrui e l’egoista come colui che incrementa il
proprio piacere.
I termini piacere e dolore venivano quindi ad assumere il ruolo di effetti di
atti, il cui movente degli atti stessi veniva ad essere il desiderio di quei piaceri.
I piaceri venivano quindi ad essere considerati come delle sensazioni,
prodotte da azioni o altri eventi, come ci dice Ryle “ il desiderio di provare
queste sensazioni era interpretato come quel che ci spinge a compiere o a
garantirci quelle cose che le producono”[5], di conseguenza si assumeva che il
dolore stesse al piacere, come il dolce all’amaro, il buio alla luce, cioè essi
venivano considerati come l’uno l’antitesi dell’altro o più facilmente come i due
poli opposti di una stessa scala graduata, dove il calcolo e la misurazione del
piacere doveva essere l’esatto opposto del calcolo della quantità di dolore,
quindi dove aumentava uno, diminuiva l’altro.
§2
Anche se queste teorie ci dicono che il concetto piacere è l’esatto opposto
del concetto di dolore, in quanto ambedue sono sensazioni, tuttavia ci sono
obiezioni invalicabili che non permettono di considerarli come opposti diretti.
60
Noi uomini siamo abituati a dire che alcune cose ci provocano piacere
mentre altre dolore, però non abbiamo la capacità e la possibilità di
determinare, ad esempio, il momento in cui abbiamo provato piacere e la sua
durata precisa nel tempo. Noi, infatti, possiamo dire al medico dove e quando
proviamo dolore ma non possiamo descrivere perché non ne saremmo mai
capaci, dove e in che modo proviamo un piacere e come dice lo stesso Ryle “In
una parola, il piacere non è affatto una sensazione, e tanto meno una
sensazione sulla stessa scala con malesseri e dolori fisici”[6].
Infatti, come ci spiega poi in seguito l’autore, alcune sensazioni sono
piacevoli, mentre altre sono spiacevoli, però le une possono cambiare e
produrre risultati opposti se cambia il contesto in cui sono inserite, come ad
esempio un calore può essere spiacevole, mentre se lo stesso calore prodotto
da un the caldo può risultare piacevole.
“Se fosse giusto classificare come sensazione il piacere, dovremmo
aspettarci che fosse anche possibile descrivere quindi alcune di queste
sensazioni come piacevoli, altre come neutre, ed altre come sgradevoli ma
questo è impossibili”[7], ma tutto ciò come spiega Ryle è impossibile, perché
se le sensazioni fossero neutre e spiacevoli ci troveremmo di fronte ad una
contraddizione, mentre se esse fossero piacevoli risulterebbe una ridondanza.
Anzi, noi abbiamo addirittura la possibilità di ignorare una sensazione, se
siamo impegnati a fare altro, per esempio se proviamo male ad un dito ma
siamo impegnati in un gioco che occupa tutta nostra attenzione, la sensazione
di dolore non viene considerata.
§3
Mentre, scrive Ryle, per quel che compete alle nozioni di Piacere e
Disgusto, esse sono connesse alla consapevolezza in un modo del tutto
differente dalle sensazioni. Infatti non è possibile né logicamente, né
psicologicamente che una persona goda di una musica senza prestarne
attenzione, vi è quindi una contraddizione di fondo nel descrivere qualcuno
come mentalmente assente da qualcosa che sta gustando o detestando.
Infatti “il piacere e il disgusto non richiedono diagnosi, mentre possono
benissimo richiederne le sensazioni”[8].
Le sensazioni e i sentimenti hanno una precisa collocazione nel tempo, esse
possono essere un antecedente, un concomitante oppure un susseguente di
altri avvenimenti, mentre per il piacere questo non é possibile.
61
Noi possiamo benissimo determinare il momento esatto in cui proviamo un
dolore ma non possiamo altresì cosi facilmente determinare l’esatto istante in
cui proviamo piacere per aver visto un bel film, o per aver mangiato qualche
cosa di gustoso, in quanto il piacere non essendo una sensazione, non ha una
collocazione precisa nel tempo.
§4
Per tornare al discorso iniziale, l’assimilazione del godimento e del disgusto
all’ interno delle sensazioni, era solo una piccola parte del programma etico
teso alla realizzazione della condotta umana.
In questa teoria i desideri e i piaceri, dovevano essere i corrispettivi
mentali della pressione, dell’urto e di tutte le cose proprie della teoria
meccanica. Mentre i moti psichici sarebbero diventati calcolabili e misurabili
quanto l’intensità dei piaceri e dei desideri. Un piacere sarebbe stato quindi
determinato di una precisa grandezza, almeno per ciò che compete alla sua
durata e intensità.
Mentre, seguendo le obiezioni di Ryle sopra riportate, si nota precisamente
che il piacere non essendo una sensazione, non può essere un processo. I
processi, infatti, sono caratterizzati da una precisa durata, mentre l’uomo non
può provare un piacere in modo veloce o lento.
Quindi, il ruolo che le nozioni di piacere e disgusto assumono nella teoria
etica dinamica non possono di certo avere la valenza di processo.
I dolori, alla luce di quanto detto, vengono ad essere considerarti come
“l’effetto di cose come la pressione di una scarpa su un dito del piede, e la
causa di cose come gesti agitati di insofferenza”[9].
Dopo aver espresso tutto questo, l’autore muove un ultima critica alle
teorie etiche edonistiche ed utilitaristiche; avendo dimostrato l’inefficacia di
tutti i sistemi che considerano il piacere come un processo, fa notare come
tutti noi abbiamo avuto nella nostra vita i nostri momenti edonistici e
utilitaristici e ne siamo rimasti insoddisfatti. In essi non abbiamo trovato,
soprattutto nell’analisi profonda delle nozioni di disgusto e godimento,delle
certezze le quali hanno subito delle sottili e sospette trasformazioni, allorché
sono state presentate come le forze di base che determinano le nostre scelte
ed intenzioni.
§5
62
Nell’ultima parte della dissertazione, Ryle si impegna a definire il concetto
di piacere nella descrizione della vita e della condotta umana, scusandosi però
di trattarlo da un punto di vista che può ,per il lettore, suonare come arcano o
prescientifico.
L’autore definisce infatti come passioni tutti gli stati d’animo agenti
sull’uomo potenzialmente sovversivi, come il terrore, la collera, l’allegria, l’odio
ecc, e determina che godere o detestare un qualche cosa non vuol dire essere
vittime di una passione.
Infatti , se una persona è perfettamente padrona di sé nelle sue azioni, non
può essere descritta come agitata, in collera o in preda al panico, nozioni tutte
appartenenti in modo intrinseco alle passioni.
Ma nessuna di queste connotazioni si addice al piacere, infatti come ci dice
l’autore “se godere di qualcosa con una certa intensità equivalesse ad essere
fuori di sé in pari misura, si dovrebbe essere dissennati per tutto il tempo
dedicato alle proprie occupazioni preferite”[10].
Una persona in uno stato di perfetta calma può quindi provare anche un
grande piacere, la nozione di godimento rifiuta perciò di passare attraverso lo
stesso cerchio logico in cui passano le passioni. Il godimento non è qualcosa
che noi proviamo a reprimere, che soffochiamo o non riusciamo a soffocare, è
una nozione totalmente scollegata al dominio delle passioni.
§6
In conclusione e per riprendere il filo del discorso precedente,Ryle fa notare
che i concetti di godimento e disgusto sono stati erroneamente collocati come
appartenenti alla categoria delle sensazioni e dolori fisici, alla categoria di
accadimenti come causa di altri accadimenti e al dominio più generale delle
passioni.
Ma queste nozioni, come fa ben notare l’autore, opporranno sempre
resistenza a ogni tentativo di avvicinarle ai concetti di queste altre famiglie.
Per concludere come sostiene Ryle nelle ultime frasi di questo capitolo “I
dilemmi derivano dall’attribuzione erronea di analogie di ragionamento”[11],
ovvero come detto appena sopra ad ogni uso non proprio dei concetti di
Piacere e Disgusto.
63
-------------------------------------------------------------------------------[1] Lettere ai Colossesi 1,24
[2] Vangelo di Giovanni 3,16
[3] Seconda lettera a Timoteo 3,12
[4] Gilbert Ryle, Dilemmas 1966 Cambidge University Press, London
Utilizzata nella traduzione italiana a cura Enrico Mistretta 1968 Ubaldini
Editore, s.r.l. Roma.
[5] Dilemmas, p. 61
[6] Idem p. 62
[7] Idem p. 62
[8] Idem p. 63
[9] Idem p. 64
[10] Idem p. 69
[11] Idem p. 70
64
Il buddhismo è una religione?
del venerabile Ajahn Sumedho
© Ass. Santacittarama, 2008. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Dal libro "La mente e la via"
Traduzione di Elizabetta Valdrè
Estratto del libro "La mente e la via", su gentile concessione dell'Editore
Ubaldini.
Ci piace pensare che comprendiamo la religione perché è profondamente
radicata nella nostra prospettiva culturale. Nondimeno, ci è utile contemplare e
riflettere sui veri scopi, propositi o intenti della religione.
A volte, le persone ritengono che religione significhi credere in un Dio o
negli dèi, e la identificano con la posizione teistica di una particolare forma o
convenzione religiosa. Spesso, le confessioni teistiche considerano il
buddhismo una religione atea, oppure non lo ritengono affatto una religione. Lo
considerano una filosofia o una psicologia, perchè il buddhismo non parte da
una posizione teistica. Non trae le proprie radici da una posizione metafisica o
dottrinale, ma dall'esperienza comune a tutta l'umanità: l'esperienza della
sofferenza. Il buddhismo presuppone che riflettendo, contemplando e
comprendendo quella comune esperienza umana, si possano trascendere tutte
le illusioni mentali che la creano.
Il termine "religione" deriva dalla parola latina religio, che significa legame.
Si riferisce a un vincolo col divino che avvolge interamente l'essere. Religiosità
vera significa legame col divino, o realtà suprema, e impegno di tutto il proprio
essere in quel legame, fino al raggiungimento della realizzazione suprema.
Tutte le religioni hanno parole come "liberazione" e "salvezza". Termini di tale
natura comunicano libertà dall'illusione, libertà completa e assoluta, e
comprensione totale della realtà suprema. Nel buddhismo, la chiamiamo
illuminazione.
65
Comprendere la natura della sofferenza
L'approccio buddhista consiste nel riflettere sull'esperienza della sofferenza,
perché è ciò che tutti gli esseri umani condividono. Sofferenza non vuol dire
necessariamente una grande tragedia o una terribile disgrazia. Allude
semplicemente a quel genere di scontentezza, infelicità e delusione che tutti gli
esseri umani provano in vari momenti della loro vita. La sofferenza è comune
agli uomini e alle donne, ai ricchi e ai poveri. Qualunque sia la nostra razza o
nazionalità, la sofferenza è il legame comune.
Perciò, nel buddhismo, la sofferenza è considerata una nobile verità. Non è
una verità suprema. Quando il Buddha insegnò che la sofferenza è una nobile
verità, non era sua intenzione legarci alla sofferenza e farci credere ciecamente
in essa come se fosse una verità suprema. Al contrario, ci insegnò a usare la
sofferenza come nobile verità su cui riflettere. Contempliamo: che cos'è la
sofferenza, qual è la sua natura, perché soffro, qual è l'oggetto della
sofferenza?
La comprensione della natura della sofferenza è un'intuizione importante.
Ora, contemplatela nell'esperienza della vostra vita. Quanta parte
dell'esistenza investite nel tentativo di evitare o di sfuggire quelle stesse
situazioni spiacevoli o non volute? Possiamo avere la felicità immediata,
l'assorbimento immediato, le realtà che chiamiamo non-sofferenza, quali
l'eccitazione, una storia d'amore, l'avventura, i piaceri dei sensi, il buon cibo,
l'ascolto della musica o qualunque altra cosa. Ma non sono altro che tentativi di
sfuggire alle paure, alle insoddisfazioni, all'ansia e alla preoccupazione: stati
mentali che tormentano la mente umana non illuminata. L'umanità sarà
sempre tormentata e spaventata dalla vita fintanto che rimane ignorante e non
coltiva lo sforzo di guardare e capire la natura della sofferenza.
Capire la sofferenza significa accettarla e non semplicemente
sbarazzarsene o negarla, o incolparne qualcun altro. Possiamo accorgerci che
la sofferenza è provocata, che dipende da certe condizioni, le condizioni
mentali che abbiamo creato, o che la cultura e la famiglia hanno instillato in
noi. La nostra esperienza della vita e il processo di condizionamento iniziano il
giorno in cui nasciamo. La famiglia, l'ambiente in cui viviamo, la scuola
instillano nella nostra mente prevenzioni, opinioni, pregiudizi, alcuni buoni,
alcuni no.
Ora, se non facciamo veramente attenzione a queste condizioni mentali e
non le esaminiamo per quello che sono effettivamente, esse ci faranno
interpretare l'esperienza della vita secondo certi pregiudizi. Ma se scaviamo a
fondo nella natura stessa della sofferenza, iniziamo a esaminare stati mentali
quali la paura e il desiderio e scopriamo che la nostra vera natura non è il
desiderio, non è la paura. La nostra vera natura non è condizionata da
alcunché.
66
Il condizionamento, l'incondizionamento e la coscienza
Le religioni mettono sempre in luce il rapporto del mortale, o del
condizionato, coll'incondizionato. O meglio, se di ogni religione ne mettete a
nudo l'essenza, scoprirete che tutto ruota intorno al punto in cui il mortale, ciò
che è condizionato e legato al tempo, cessa. In quella cessazione sta la
realizzazione e la comprensione dell'incondizionato. Nella terminologia
buddhista si afferma che: "c'è l'incondizionato; se non ci fosse l'incondizionato,
non potrebbe esserci il condizionato". Dunque, il condizionato sorge e svanisce
nell'incondizionato; ciò che deve attirare la nostra attenzione è, quindi, il
rapporto tra condizionato e incondizionato. Siccome siamo nati in un corpo
umano, dobbiamo vivere un'intera vita con le limitazioni e le condizioni del
mondo sensoriale. La nascita implica l'emergere dall'incondizionato e il
manifestarsi in una forma separata, condizionata. Tale forma umana implica la
coscienza.
La coscienza definisce sempre un rapporto tra il soggetto e l'oggetto, e nel
buddhismo la coscienza è considerata una funzione discriminatrice della mente.
Contemplatela in questo stesso momento. Siete seduti e state prestando
attenzione a ciò che dico. Questa è l'esperienza della coscienza. Sentite il
calore della stanza, vedete l'ambiente che vi circonda, udite i suoni. Tutto ciò
significa che siete nati in un corpo umano, e per tutto il resto della vita, finché
il corpo vive, proverete sensazioni e si manifesterà la coscienza. La coscienza
crea sempre l'impressione dell'esistenza di un soggetto e di un oggetto, perciò
quando non investighiamo, quando non indaghiamo la vera natura delle cose,
ci vincoliamo alla visione dualistica: "Io sono il mio corpo, io sono le mie
sensazioni, io sono la mia coscienza".
L'atteggiamento dualistico nasce dalla coscienza. Con la capacità di
immaginare, ricordare e percepire con la mente, costruiamo una personalità. A
volte ci piace, in altri momenti ci procura paure irrazionali, opinioni sbagliate,
ansie.
L'aspirazione della mente umana
Attualmente, gran parte dell'angoscia e della disperazione presenti in
qualsiasi società di questo mondo materialistico deriva dal fatta che, di solito, i
nostri punti di riferimento non sono nulla di più elevato del pianeta in cui
viviamo e del nostro corpo. L'aspirazione della mente umana alla realizzazione
suprema, all'illuminazione, non è concretamente promossa né incoraggiata
nella società moderna. Di fatto, sembra che spesso venga impedita.
67
Senza un rapporto con la verità suprema, la vita è priva di significato. Se
non possiamo riferirci a nulla che trascenda le esperienze di un corpo umano
su un pianeta che ruota in un universo misterioso, tutta la vita si riduce a
occupare il tempo tra la nascita e la morte. Ma allora, che scopo ha, che cosa
significa? Perché ce ne preoccupiamo? Che bisogno abbiamo di uno scopo?
Perché mai la vita dovrebbe avere un significato? Perché vogliamo che
significhi qualcosa? Perché abbiamo parole, concetti e religioni? Perché nella
nostra mente c'è quel desiderio intenso, quell'aspirazione, se tutto ciò che c'è
mai stato, o che può esserci, è l'esperienza che deriva dall'ideal del sé? È
possibile che questo corpo umano, con i suoi processi condizionanti, ci capiti
addosso accidentalmente, in un sistema universale che sfugge al nostro
controllo?
Viviamo in un universo che è incomprensibile. Possiamo solo fare
congetture a riguardo. Possiamo intuire e scrutare l'universo, ma non
incapsularlo. Non possiamo farlo diventare qualcosa nella nostra mente. Le
tendenze materialistiche che coltiviamo nella mente ci spingono a non porci
neppure domande simili. Al contrario, ci fanno interpretare le esperienze
esistenziali con la logica e la razionalità, basandoci sui valori del materialismo e
della scienza empirica.
L'esperienza del risveglio
Il buddhismo si rivolge a quell'esperienza universale, comune a tutti gli
esseri senzienti che è la sofferenza. Propone anche come uscirne. La sofferenza
è l'esperienza del risveglio. Quando soffriamo, cominciamo a porci domande.
Tendiamo a guardare, investigare, fare congetture, cercare di scoprire.
La storia del principe Siddharta (il nome del Buddha prima
dell'illuminazione) ci racconta che egli visse in un ambiente colmo di piacere,
bellezza, comodità, vantaggi sociali: tutto il meglio che la vita potesse offrire.
Poi, racconta la leggenda, all'età di ventinove anni, Siddharta lasciò il palazzo
per scoprire il mondo esterno, dove conobbe i messaggeri della vecchiaia, della
malattia e della morte.
Potremmo obiettare che all'età di ventinove anni avrebbe già dovuto
conoscere la vecchiaia, la malattia e la morte. Nel nostro sistema di pensiero,
ci è del tutto chiaro sin dalla primissima infanzia che tutti invecchiano, si
ammalano e muoiono. Nonostante ciò, il principe fu tenuto al riparo da queste
esperienze, e nella sua mente non si risvegliò alcuna coscienza della loro
presenza finché non le sperimentò direttamente.
Anche noi possiamo vivere un'intera vita nella convinzione che tutto vada
per il meglio. Persino l'infelicità e le delusioni che fanno normalmente parte
della nostra esperienza non sono necessariamente occasione di risveglio.
Magari per un po’ ci poniamo qualche domanda a riguardo, ma ci sono tante
68
opportunità per non tenerne conto, per non accorgersene. È facile incolpare gli
altri della nostra infelicità, non è così? Possiamo dare la colpa al governo, a
nostra madre e a nostra padre, agli amici e ai nemici, alle forze esterne. La
mente si risveglia alla vecchiaia, alla malattia e alla morte quando si rende
conto che anche noi vivremo quelle esperienze. Cose del genere non si
comprendono in astratto, ma con una sensazione che ci prende alle viscere,
quando intuiamo che questa è la sorte di tutti gli esseri umani. Ciò che nasce,
invecchia, degenera e muore.
Il quarto messaggero che si presentò al Buddha era un samana. Un
samana è un monaco, un cercatore spirituale, un uomo che si è dedicato
unicamente alla ricerca della realtà suprema, la verità. Il samana, così come lo
ritrae la leggenda, era un monaco dal capo rasato con indosso una tunica.
Nel simbolismo buddhista i quattro messaggeri sono: la vecchiaia, la
malattia, la morte e il samana. Significano il risveglio della mente umana a una
meta religiosa, a quell'aspirazione del cuore umano alla comprensione della
realtà suprema che è libertà da tutta l'illusione e la sofferenza.
La pratica buddhista
Oggi si tende di frequente a ritrarre la meditazione buddhista come un
abbandono del mondo, come lo sviluppo di uno stato mentale di estrema
concentrazione, che dipende da alcune condizioni attentamente controllate.
Perciò, negli Stati Uniti e negli altri paesi in cui la meditazione buddhista sta
diventando sempre più popolare, molti credono che sia uno stato mentale
concentrato in cui la tecnica e il controllo sono molto importanti.
Le tecniche di questo tipo vanno benissimo, ma anche se iniziate a
sviluppare le capacità riflessive della mente, non è sempre necessario, e
nemmeno opportuno, che passiate il tempo a cercare di perfezionare la mente
e portarla al livello in cui tutto ciò che è grossolano e spiacevole viene
annullato. È meglio aprire la mente alla pienezza delle sue potenzialità, a una
sensibilità piena, per venire a conoscenza che le condizioni di cui siete
consapevoli al momento, ciò che sentite, vedete, udite, fiutate, gustate,
toccate, pensate, sono impermanenti.
L'impermanenza è una caratteristica comune a tutti i fenomeni, che si tratti
della fede in Dio o di un ricordo del passato; che sia un pensiero di rabbia o un
pensiero d'amore; che sia qualcosa di alto, basso, grezzo, raffinato, buono,
cattivo, piacevole o doloroso. Qualunque sia la sua qualità, osservatelo come
oggetto. Tutto ciò che sorge, scompare. È impermanente. Ora, l'apertura della
mente di cui parlavo, vi permette, come pratica e riflessione di vita, di avere
una visione d'insieme delle emozioni e delle idee, della natura del vostro corpo
e degli oggetti dei sensi.
69
Tornare alla coscienza in quanto tale: la scienza moderna, la scienza
empirica, ritiene che il mondo della materia che vediamo, udiamo e sentiamo,
sia il mondo reale, l'oggetto dei sensi. Il mondo oggettivo è chiamato realtà.
Vediamo il mondo della materia, conveniamo sulla sua esistenza, lo udiamo, lo
gustiamo, lo tocchiamo, o addirittura concordiamo su una percezione o sul
nome da attribuirle. Ma anche quella percezione è un oggetto, non è così? Dato
che la coscienza crea l'impressione che esistano un soggetto e un oggetto,
crediamo di star osservando qualcosa che è separato da noi.
Il Buddha, tramite i suoi insegnamenti, portò alle ultime conseguenze il
rapporto soggetto-oggetto. Insegnò che tutte le percezioni, tutte le condizioni
che ci attraversano la mente, tutte le emozioni, le sensazioni, gli oggetti del
mondo materiale che vediamo e udiamo, sono impermanenti. Disse: "Ciò che
sorge, svanisce". E questa, lo ripete in tutti i suoi insegnamenti, è la visione
profonda che ci libera da ogni forma di illusione. Ciò che sorge, svanisce.
Si può definire la coscienza anche come capacità di conoscere, esperienza
del conoscere. Il soggetto che conosce l'oggetto. Quando guardiamo gli oggetti
e gli diamo un nome, pensiamo di conoscerli. Pensiamo di conoscere questa o
quella persona perché sappiamo il suo nome o ci ricordiamo di lei. Pensiamo di
conoscere cose di tutti i tipi perché ce ne ricordiamo. La capacità di conoscere,
a volte, è condizionata: sapere che, piuttosto che conoscere direttamente
qualcosa.
La pratica buddhista consiste nel rimanere in quella pura attenzione in cui
si trova ciò che chiamiamo conoscenza intuitiva, o conoscenza diretta. È una
conoscenza non fondata sulla percezione, su un'idea, su una posizione, o una
dottrina, ed è possibile solo tramite l'attenzione. Ciò che intendiamo per
attenzione è la capacità di non attaccarci ad alcun oggetto, che appartenga al
regno materiale o al regno mentale. Quando non c'è l'attaccamento, la mente
è in uno stato di pura consapevolezza, intelligenza e chiarezza. Questa è
l'attenzione. La mente è pura e ricettiva, sensibile alle condizioni esistenti. Non
è più una mente condizionata che si limita a reagire al piacere e al dolore, alla
lode o al biasimo, alla felicità e alla sofferenza.
Se adesso, per esempio, vi arrabbiate, potete seguire la rabbia. Potete
crederle e continuare a riprodurre quell'emozione, oppure potete soffocare la
rabbia e cercare di interromperla per paura o per avversione. Tuttavia, invece
di comportarvi in uno dei due modi, potete pensare alla rabbia come a
qualcosa che può essere osservato. Ora, se la rabbia fosse il nostro vero sé,
non la potremmo osservare; ecco ciò che intendo per "riflessione". Che cos'è
che può osservare e riflettere sulla sensazione della rabbia? Che cos'è che può
esaminare e investigare la sensazione, il calore del corpo, o lo stato mentale?
Quella che osserva e investiga, è ciò che chiamiamo mente riflessiva. La mente
umana è una mente riflessiva.
70
La rivelazione della verità comune a tutte le religioni
Possiamo porci domande quali: chi sono io? perché sono nato? che cos'è la
vita? cosa succede quando muoio? la vita ha un significato o uno scopo? Poiché
pensiamo che altri conoscano ciò che noi non conosciamo, gli chiediamo delle
risposte, invece di aprire la mente e aspettare pazienti e vigili che sia la verità
a rivelarsi. La rivelazione è possibile, tramite l'attenzione e la vera
consapevolezza. La rivelazione della verità, o della realtà suprema, è l'essenza
dell'esperienza religiosa. Quando ci leghiamo al divino, e in quel vincolo
impegniamo la totalità del nostro essere, facciamo sì che la rivelazione della
verità che chiamiamo visione profonda, una visione profonda che sia vera e
intensa, penetri nella natura delle cose. Anche la rivelazione è ineffabile. Le
parole non sono assolutamente in grado di esprimerla. Ecco perché le
rivelazioni possono essere molto diverse. Il modo in cui vengono esposte o si
concretano nelle parole può variare all'infinito.
Perciò le rivelazioni di un buddhista hanno un'aria molto buddhista e le
rivelazioni di un cristiano danno un'impressione molto cristiana, il che è
abbastanza giusto. Non c'è niente di sbagliato in questo. È necessario però
riconoscere i limiti della convenzione del linguaggio. Dobbiamo carpire che il
linguaggio non è vero né reale in senso assoluto; è un tentativo di comunicare
ad altri la realtà ineffabile.
È interessante vedere quanta gente oggi cerchi una meta religiosa. Un
paese come l'Inghilterra, prevalentemente cristiano, ha ora molte religioni. Ci
sono tanti incontri interconfessionali e in questo paese si fanno molti tentativi
per capire l'uno la religione dell'altro. Possiamo rimanere a un livello
elementare e sapere semplicemente che i musulmani credono in Allah, che i
cristiani credono in Cristo e i buddhisti in Buddha. Ma quello che mi interessa è
andare al di là delle convenzioni e arrivare a una vera comprensione, alla
comprensione profonda della verità. Questo è un modo di parlare buddhista.
Oggi abbiamo l'opportunità di lavorare in direzione di una verità comune a
tutte le religioni; possiamo iniziare ad aiutarci l'un l'altro. Di questi tempi,
convertire la gente, o competere gli uni con gli altri, non sembra avere alcuna
utilità o valore. Invece di cercare di convertire, la religione può farci risvegliare
alla nostra vera natura, alla vera libertà, all'amore e alla compassione. È un
modo di vivere in piena sensibilità, completamente ricettivi, così da godere del
mistero e delle meraviglie dell'universo per il resto della vita, e aprirci ad esse.
***
Domanda: Il buddhismo è una religione/filosofia che volge il suo sguardo
prima di tutto all'interno?
Risposta: È quello che sembra, inizialmente, perché nella meditazione
buddhista ci si siede, si chiudono gli occhi e ci si volge all'interno. Ma in realtà,
la meditazione fa comprendere la natura delle cose, la natura del tutto.
71
In quanto esseri umani, avete una forma assai sensibile. Il corpo è molto
vulnerabile ed esiste in un sistema universale immenso e impossibile da capire.
È facile lasciarsi intrappolare da una prospettiva in cui il mondo è un oggetto
esterno. Secondo tale visione, che si esprime in termini di interno ed esterno,
rivolgersi all'interiorità sembra meno importante. Ciò in cui state penetrando
sembra poca cosa in confronto alla vastità del sistema universale esterno.
Se però lasciate andare le percezioni, lo stato condizionato della mente,
iniziate a percepire l'universo in un altro modo. Non si presenta più come una
separazione tra soggetto e oggetto. non abbiamo le parole adatte a descrivere
quella sensazione, possiamo solo dire che "la realizzate". L'analogia più
calzante che mi viene in mente è con un apparecchio radio. Il nostro corpo è
una forma sensibile, come la radio o la televisione. Le cose lo attraversano e
tendono a manifestarsi a seconda degli atteggiamenti, delle paure e dei
desideri. Quando liberiamo la mente dalle limitazioni degli stati condizionati,
iniziamo a percepire che queste forme umane sono recettori di saggezza e
compassione.
D.: Allora in che cosa credono i buddhisti, ammesso che credano in
qualcosa?
R.: È una domanda comune a cui non è facile rispondere. Se dichiariamo di
non avere alcun credo, la gente dice: "Allora non credete in nulla". Noi
replichiamo: "No, non è così. Non crediamo neppure che non ci sia nulla". E
ribattono: "Allora, credete che ci sia qualcosa; credete in Dio?". Rispondiamo
che non riteniamo necessario credere in Dio. E loro: "Allora credete che non ci
sia nessun Dio?". E possiamo continuare a girare intorno al problema in questa
maniera, perché la gente pensa che religione equivalga a un credo specifico:
credere in determinate dottrine e posizioni teistiche, oppure avere una
posizione atea. Sono i due estremi della mente: credere nell'eterno e credere
nell'estinzione o nell'annullamento.
Ma quando parlate del buddhismo, non potete servirvi di tutte le idee che
vi siete fatti sulle altre religioni, perché non vanno bene. L'approccio buddhista
parte da un'angolazione diversa. Non siamo disposti a credere alle dottrine,
agli insegnamenti, ad alcunché ci provenga dall'esterno. Vogliamo scoprire la
verità per conto nostro.
La verità insita nelle cose deve essere a nostra disposizione. Altrimenti,
siamo solo essere impotenti, perduti in un universo misterioso, senza alcuna
possibilità di capire cosa ci accade e perché le cose sono come sono. Siamo
una sorta di incidente cosmico, o qualcosa di più? Gli esseri umani avvertono
che c'è qualcosa al di là dell'apparenza del mondo sensoriale. Il sentimento
religioso, la sensazione di star procedendo verso qualcosa, di innalzarsi verso
qualcosa, lo troviamo sia nelle società primitive sia in quelle moderne. Siamo
tutti coinvolti in un grandioso mistero, e vogliamo sapere come confrontarci
con esso.
72
Cosa possiamo fare nello stato in cui ci troviamo, incarcerati come siamo in
un corpo umano per sessanta, settanta, ottanta, novant'anni? Se c'è una
verità, dobbiamo essere in grado di aprirci ad essa e conoscerla. Altrimenti
saremo continuamente catturati dall'illusione, vivremo un'esistenza senza
speranza né scopo. Senza la verità, la vita non significa nulla, e non importa
quel che fate; la vita non ha valore di sorta. Ma anche se sceglieste di
accettare la visione nichilista secondo cui la vita è priva di significato, non ne
sareste comunque certi, non è così? Magari preferite credere che non ci sia
alcun significato, piuttosto che credere che ci sia, ma ancora non lo sapete.
Quello che sapete adesso è di non sapere, e le cose, per ora, stanno così.
C'è l'atto del conoscere, non è vero? C'è l'intelligenza. C'è l'inclinazione al
buono e al bello. C'è il desiderio di sfuggire al dolorose e al brutto. Gli esseri
umani hanno sempre avuto aspirazioni. Ci odiamo quando viviamo una vita
meschina, autoindulgente, brutta. Proviamo vergogna quando compiamo azioni
malvage o grette: speriamo che nessuno ne venga a conoscenza. Se la vita
fosse totalmente priva di significato, non ci sarebbe alcun bisogno di
vergognarsi: potremmo fare le solite cose e non avrebbe alcuna importanza.
Ma poiché abbiamo la sensazione che alcune delle nostre azioni non sono né
meritevoli né sagge, aspiriamo a elevarci al di sopra degli istinti del corpo e
della mente.
Abbiamo l'intelligenza umana; formuliamo concetti elevati; concepiamo
mentalmente le cose migliori. La democrazia, il socialismo, il comunismo
derivano da pensieri di natura elevata in merito alla forma di governo più
giusta e più equa. Ciò non significa che i nostri governi ottengano
effettivamente gran che, ma ci provano. C'è il valore che attribuiamo a ciò che
è esteticamente raffinato: la bellezza nella musica, nell'arte e nell'uso del
linguaggio. Tutto ciò è indicativo dell'aspirazione umana verso il bello e il
buono. Aspiriamo a una visione del mondo più ampia e universale: un solo
pianeta, un unico sistema ecologico, una sola famiglia umana. Questo genere
di percezione è sempre più diffuso. L'umanità è ora una famiglia globale, sotto
molti aspetti: ciò che accade in Mongolia o in Argentina riguarda tutti.
Possiamo espandere la capacità percettiva, spostarci dalla prospettiva
individuale in cui ci occupiamo solo di noi stessi, a una prospettiva globale in
cui della nostra famiglia fanno parte tutti gli esseri umani e non solo la famiglia
attuale o quella nazionale. Quando espandiamo la coscienza, diamo vita a
percezioni e concetti molto più amorevoli e compassionevoli, che vanno al di là
del prenderci cura di noi stessi come individui. Si può andare ben oltre
l'attenzione alla famiglia, al gruppo, alla classe e alla razza. Si può espandere
la coscienza fino a comprendere tutti gli esseri umani, poi tutti gli esseri. La
coscienza diventa universale.
73
Il dolore inutile
di Franco Toscani.
Ciò che noi definiamo “dolore” è il prodotto di un meccanismo evolutivo che
permette, attraverso un sistema di premi/punizioni, il riconoscimento e la
valutazione delle esperienze essenziali alla vita animale, e di adattare i
comportamenti alle circostanze. È il dolore che ci avverte che stiamo facendo
qualcosa di sbagliato come afferrare un oggetto rovente; che un certo
movimento è oltre le nostre possibilità; che qualcosa di pericoloso sta
avvenendo nel nostro corpo per cui è meglio digiunare che abbuffarsi. Quei rari
sventurati che per motivi congeniti non percepiscono il dolore sono destinati a
malattie, incidenti e morte precoce.
Il dolore è anche uno degli elementi determinanti per fissare nella memoria
le cose che non si devono scordare. Lo schiaffo del genitore fa sì che il
bambino, anche dopo anni, ricordi la lezione. Il dolore era largamente usato
nell’alto Medioevo e nelle consuetudini giuridiche germaniche per garantire che
l’evento fosse ben saldo nella memoria degli interessati, ed era questa la
funzione del ceffone (la paumée) che il cavaliere riceveva durante la sua
investitura, perché non si scordasse il codice di comportamento del suo nuovo
stato. È stata per secoli la frustata del maestro a inculcare nozioni, regole e
valori al discepolo. Il significato del dolore, il suo “senso”, è stato per millenni
solo di ordine metafisico, ed è solo da poco che i suoi meccanismi biologici
sono stati cercati ed individuati.
Alcmeone di Crotone (V secolo a.C.) fu il primo a formularne una teoria
razionale, attribuendolo all’alterazione dell’isonomia, l’armonia tra gli organi.
Erofilo e Erasistrato di Chio (III secolo a.C.) dimostrarono l’esistenza di nervi
motori e sensoriali e il loro collegamento al cervello, permettendo a Galeno (II
secolo d.C.), di postulare l’origine neurologica del dolore. Ma è Cartesio che,
nonostante le sue fantasiose teorie anatomiche e ontologiche, lo interpretò
come risposta condizionata, un riflesso “meccanico” fondamentale per la
conservazione dell’integrità dell’organismo.
In effetti, il dolore è ben più di un messaggio nervoso. Esso è il risultato di
una complessa interazione tra percezione e psiche: cioè, una faccenda
assolutamente
soggettiva.
L’influenza
dell’esperienza,
del
carattere,
dell’umore, delle emozioni, delle aspettative, del valore a esso attribuito, delle
circostanze esterne e interne è sostanziale, e spiega come mai un identico
stimolo possa produrre, in soggetti diversi, dolori di intensità diversissime.
Oggi il concetto di “soglia del dolore” è uno dei fondamenti delle discipline che
se ne occupano.
Il dolore è elemento naturale e necessario. Tuttavia esistono situazioni
dove esso non funziona come dovrebbe. In alcuni casi non ci avverte in tempo
di malattie pericolose, né riesce a farci cambiare abitudini come avviene nel
caso del diabete o dell’ipercolesterolemia; e talvolta è presente senza una
causa, o permane a lungo anche quando ciò che l’ha causato si è
definitivamente allontanato. La minaccia senza allarme, e l’allarme senza
74
minaccia. In questi casi, a cosa serve il dolore? E a cosa serve il dolore
puramente o prevalentemente psichico, la “sofferenza”? In sostanza: qual è il
senso, il significato del dolore? Su questi interrogativi si apre una infinita serie
di porte metafisiche, antropologiche, epistemologiche. E teologiche.
Il dolore è usato come metafora di tutto ciò che nel mondo è spiacevole,
non solo fisicamente, ma anche moralmente. Il dolore rappresenta il male. Ma
come dare una giustificazione convincente alla presenza del male nel mondo,
soprattutto all’interno di una cultura pre-scientifica? È concepibile la coesistenza di Dio e quella del dolore? E se c’è Dio, perché c’è il dolore e il male?
Si potrebbe affermare che l’esistenza stessa delle religioni è spiegabile col
tentativo di dare risposta a queste domande. Ciò che è fondamentale per la
comprensione dell’atteggiamento della medicina nei confronti del dolore è
esaminare come le religioni giudaico-cristiane, sino a ieri la principale (o, forse,
la sola) chiave interpretativa dell’universo nel mondo occidentale, lo hanno
giustificato, dal momento che l’ethos religioso ha plasmato l’atteggiamento – e
quindi le azioni, le “cure” – che la società e l’individuo hanno nei suoi confronti.
Il dolore – afferma la Bibbia – è punizione divina per chi non rispetta la legge
di Dio. Anche se oggi si tende a mitigarne il significato attribuendo questa
posizione alla necessità politica di compattare il popolo di Abramo minacciato
dall’impero babilonese, l’idea che il dolore provenga da Dio (e che chi soffre, in
fondo, se lo meriti) ha permeato tutta la nostra cultura. È il peccato originario
di Adamo ed Eva che ha causato dolore e morte, per loro e per tutti i loro
discendenti.
E la punizione è tanto terribile da colpire non solo i malvagî, ma anche
coloro che ai comandamenti divini obbediscono: sul giusto per antonomasia,
Giobbe, fuori da ogni apparente logica giuridica per una scommessa tra Dio e il
Demonio. Colpisce anche gli innocenti, i neonati, che non sono ancora in grado
di peccare. Perfino sul Dio-uomo Cristo, che certo non può essere in alcun
modo considerato “peccatore”! E continuano a colpire l’umanità, nonostante il
sacrificio di Cristo, che quel peccato originale l’avrebbe definitivamente
mondato. La colpa è perdonata, ma la punizione resta. Se il dolore è giusta
punizione, allora è anche mezzo di catarsi, e chi soffre deve gioirne perché
attraverso la sofferenza sarà redento. Cosa sono poche ore d’agonia in
confronto alla beatitudine eterna?
Non solo: il dolore accomuna l’uomo a Dio, sperimentando le sofferenze di
Cristo, e quindi, il sofferente, imago Christi, concorre anche alla redenzione
altrui. Il dolore è segno della predilezione di Dio: e quindi lo si accetti, non lo si
combatta. E se stenta a venire per conto suo, perché non dargli una mano con
scapolari e cilicî? Il dolore è essenza dell’universo, è necessità fondante
dell’esistenza umana? Ma allora, se persino Dio si sottrae alla implorazione di
Sé stesso-suo figlio nell’orto dei Getzemani e tace; se persino Dio si manifesta
sofferente come un qualsiasi peccatore, esigendo la nostra compassione in
cambio della Sua, come possiamo, noi mortali, massa damnationis, rifiutarlo? E
quale dovere o giustificazione avrebbero mai i medici per combatterlo?
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Questa dottrina, conosciuta come “Dolorismo” ha permeato la cultura
occidentale. Oggi è forse un po’ passata di moda e, almeno nella
comunicazione di massa, di esortazioni al masochismo se ne fanno poche,
probabilmente più per il cambiamento della mentalità della gente che per la
timidissima revisione di Giovanni Paolo II. Ciononostante, venti secoli di
dolorismo hanno lasciato traccia, e il tentativo di rendere accettabile al (buon)
senso comune uno dei più complessi e insolubili rovelli teologici ha portato a
una serie di posizioni altrettanto indimostrabili quanto bizzarre.
Tra le più comuni sta la tesi che il dolore è necessario per comprendere la
serietà della vita che attraverso l’esperienza del dolore diventa più attraente e
interessante; e che il dolore è indispensabile per far sorgere una coscienza
morale. Sebbene sia ovvio che lo star male renda ancor più apprezzabile lo star
bene, si farebbe fatica a sostenere che per dar valore alla libertà si dovrebbe
tutti sperimentare il carcere, o che per capire che non è giusto rubare sarebbe
indispensabile essere stati derubati!
La medicina non è stata immune da questo modo di pensare, che
s’intravede da aforismi del tipo «Si deve soffrire se si vuole guarire», «Il
medico pietoso fa la piaga purulenta», oppure «Di dolore non si muore, ma
d’allegrezza sì». Sedare dolorem sarà anche stato sempre considerato opus
divinum: tuttavia ben poco la medicina si è sforzata di provvedervi. A parziale
sua discolpa sta il fatto che il dolore è un sintomo importante, uno degli
elementi cruciali per individuare e monitorare una malattia, tanto più quando
l’unico strumento diagnostico disponibile erano le mani e gli occhi del medico.
Oggi però abbiamo a disposizione mezzi di indagine molto precisi, e il sintomo
dolore è utile solo per un primo inquadramento diagnostico: ciononostante,
l’abitudine a sottostimarlo e a curarlo poco e male è ancora la regola. Eppure è
da molto tempo che si conoscono farmaci analgesici di grande efficacia.
Il succo essiccato del Papaver somniferus, pianta originaria dell’Asia
Minore, e chiamato “oppio” da Teofrasto, era conosciuto e usato dai Sumeri nel
terzo millennio a.C. ed è nominato nel papiro egizio di Ebers, della metà del
secondo millennio, e in alcune tavolette assire del VII secolo. Probabilmente
era conosciuto anche da Omero, che cita un phàrmakon usato da Elena per
lenire il dolore proprio e quello degli eroi che la circondavano. Ippocrate,
Democrito, Galeno e Plinio ne parlano nei loro scritti, e Andreas, medico di
Tolomeo Filopatore, lo prescriveva nella pratica oftalmica. Dioscoride, vissuto
nel I secolo d.C., conosce l’uso dell’oppio, della cannabis, del solanum e del
giusquiano, e ne fa uso per rendere il malato insensibile al dolore. L’hakim
Albucasi ne descrive minuziosamente l’estrazione dalla capsula del papavero.
Gli Arabi l’introdussero in tutta l’Asia e i crociati e i medici ebrei in Occidente,
dove era caduto nell’oblio durante i secoli bui. Raimond de’ Viviers, medico di
Clemente VII, ne consiglia l’uso regolare al pontefice. Nel ‘500, Paracelso,
grande prescrittore e consumatore in proprio di oppio (che definiva “chiave
dell’immortalità”) ne raccomandava l’uso per gli effetti sonniferi e analgesici. In
pieno ‘600, l’inglese Thomas Willis dimostrò che esso agisce sul sistema
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nervoso centrale, deprimendo le funzioni della corteccia. Sydenham, uno dei
padri della medicina moderna, inventore e degustatore del laudano (una
soluzione alcolica di oppio) scrisse nel 1680: «Tra i rimedi che la Misericordia
Divina ha donato all’uomo per lenirne le sofferenze, nessuno è così universale
ed efficace come l’oppio». Tra i suoi allievi, Dower, più noto come corsaro al
servizio della corona d’Inghilterra, inventò la polvere di Dower, somministrata
ai feriti della sua ciurma dopo la battaglia. “Spugne soporifere”, a base di oppio
erano usate da alcuni chirurghi fino al Seicento.
È noto che gli interventi chirurgici sono molto dolorosi: ciò malgrado, anche
l’anestesia ha stentato a essere accettata. L’etere fu scoperto da Raimondo
Lullo nel ‘200, ma non fu utilizzato fino al XIX secolo. Il Paré, uno dei più
grandi chirurghi del passato, respinse ogni forma d’anestesia. Nel XVII secolo il
barbiere-chirurgo Bailly de Troyes cercò di anestetizzare i suoi pazienti, ma le
corporazioni mediche insorsero e lo fecero condannare da un tribunale.
Nell’Ottocento viene scoperto e utilizzato il protossido d’azoto, l’etere e il
cloroformio e, grazie a loro, l’anestesia permise lo sviluppo della chirurgia
moderna, nonostante idroterapeuti, omeopati e suffragette vi si opponessero
giudicandola come pratica innaturale. Anche la religione entrò nella polemica:
quando nel 1847 James Young Simpson la introdusse nella pratica ostetrica, il
clero calvinista scozzese considerò il parto indolore un insulto alla Bibbia.
Young si difese sostenendo che persino il Padreterno addormentò Adamo
quando gli tolse la famosa costola, ma ci volle la Regina Vittoria, aiutata dal
cloroformio a partorire il suo ottavo figlio, a mettere a tacere la protesta.
Tutto ciò è cosa del passato? Assolutamente no: oggi si conosce tutto
sull’uso degli analgesici, sui loro meriti e sul modo di usarli. L’anestesia è un
cardine della moderna medicina e altre discipline, come l’algologia e la
medicina palliativa, hanno fornito conoscenza e regole per il controllo del
nemico atavico. Eppure in molti Paesi, tra i quali l’Italia, il dolore è
sottostimato, poco considerato e pochissimo curato, tanto che il Ministero della
Salute ha intrapreso azioni concrete per convincere i medici a trattarlo. Medici
cattivi? Crudeli? Ignoranti? Mala sanità? Assolutamente no: semplicemente figli
inconsapevoli di un modo d’essere e di pensare vecchio di secoli.
La causa di una tale chiusura è da ricercarsi nella tradizione medica che
attribuiva un valore religioso all’opera del medico. Essa si fondava sul
riconoscimento del carattere divino della physis, la natura universale, matrice
d’ogni cosa. Tutto ciò che è parte della natura, le sue regole e leggi, erano
ritenute intrinsecamente giuste e pertanto dotate di valenza etica. Il dolore è
tanto più necessitas naturae quanto più anatomia e fisiologia ne dimostrano la
“naturalezza”. Se è naturale, allora è anche buono. Questo atteggiamento non
può che essere stato potenziato dalla tradizione cristiana e dalla sua visione
salvifica del dolore.
Inoltre non va dimenticato che l’etica medica riteneva più importante il
dovere di guarire rispetto al dovere di sedare il dolore: infatti, la salute – il fine
dell’Arte – era definita dal buon funzionamento del corpo (come previsto,
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appunto, dalle leggi della natura), e solo in seconda battuta dal benessere
(cioè dall’assenza di sofferenza). Questo era pertanto eventuale conseguenza
della ritrovata salute, e non poteva essere perseguito indipendentemente, o
magari al posto di essa.
Oggi l’etica medica sta cambiando, ma il processo non si è ancora
completato. È il singolo individuo che deve decidere, secondo le proprie
convinzioni e le proprie antropologie, quanto dolore è disposto a sopportare,
che sia o meno provvisto di senso trascendente. Il senso lo diamo noi alle cose
del mondo, e questo può mutare da persona a persona e da epoca a epoca.
Non ci sono ontologie. Se qualcuno “sceglie” di credere che ci siano, esse
devono valere solo per lui. Edonismo? Forse, e perché no? Ciascuno decida per
sé, ne sia responsabile e consapevole. E orgoglioso delle proprie scelte e della
propria unicità. E forse il dolore cesserà di essere un tormentone fisico e
metafisico.
L’autore
Franco Toscani, medico palliativista, Direttore scientifico della Fondazione
“Lino Maestroni” (Istituto di ricerca in medicina palliativa); socio onorario di
“Libera Uscita” (Associazione nazionale e apolitica per la legalizzazione del
testamento biologico e la depenalizzazione dell’eutanasia).
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Il trattamento del dolore
Paola Sarno, N. 8/9 agosto/settembre 2004
A confrontarsi su questa tematica così delicata, ma tuttavia così importante
sono stati chiamati esperti di centri oncologici di tutta Italia, da Salvatore
Mercadante, direttore del Centro Oncologico “La Maddalena” di Palermo, a
Andrea Messeri dell’Ospedale pediatrico Meyer di Firenze a Franca Benini
dell’Università di Padova, insieme, ovviamente, agli esperti del Policlinico
Gemelli, Antonio Chiaretti, ricercatore presso la Clinica pediatrica
dell’Università Cattolica di Roma e coordinatore del Workshop, “un corso
destinato ad avere un valore educativo per medici, infermieri e familiari, un
appuntamento che verrà riproposto annualmente per sensibilizzare e
promuovere nei medici e negli infermieri di tutta Italia una cultura tesa sempre
più a combattere la malattia “dolore” e la malattia “sofferenza” nell’adulto
come nel bambino: un percorso già iniziato da tempo (con l’Ospedale senza
Dolore del Prof. Veronesi) che però deve ancora fare molta strada per giungere
a compimento”, l’oncologo Riccardo Riccardi e il neurochirurgo e direttore del
Dipartimento di Scienze pediatriche Medico chirurgiche e Neuroscienze,
Concezio Di Rocco.
Il dolore nei bambini
“Soprattutto nei bambini il dolore in generale, anche dopo un intervento
chirurgico, viene particolarmente sottostimato”, esordisce il professor Riccardi.
“Quindi non gli viene somministrata una terapia adeguata. Ciò avviene per
diversi motivi. Intanto il bambino può lamentarsi, ma non come l’adulto che sa
indicare con precisione l’esatta entità e la localizzazione del dolore. Esiste
quindi innanzitutto un problema di misurazione. Infatti, anche se esistono delle
scale è difficile applicarle all’universo infantile. Inoltre, in generale, nel nostro
Paese non si è ancora diffusa la cultura che il dolore vada combattuto (e di
fatto consumiamo un decimo della morfina che si consuma, in media, negli altri
Paesi europei). Quindi se esiste un atteggiamento di sottostima nell’adulto, la
sottostima aumenta ancora di più nell’età pediatrica, proprio per la difficoltà di
darne una valutazione oggettiva”.
Il dolore oncologico
“Per quanto riguarda esclusivamente il dolore oncologico, poi”, spiega
Riccardo Riccardi, “si possono identificare tre momenti in cui il dolore si fa
sentire con particolare insistenza: dopo un intervento chirurgico – soprattutto
quelli dell’area cerebrale o addominale - , durante l’ago aspirato del midollo
che è una procedura tipica che si effettua nei bambini affetti da leucemia, e
nelle punture lombari. Al Gemelli eseguiamo perciò queste procedure in
anestesia generale (anche se la sedazione dura poco), perché al di là
dell’animazione e dei clown il dolore oncologico è difficile da combattere con un
protocollo esclusivamente psicologico.
Se poi il dolore non dovesse più appartenere alla sfera della terapia, ma
riguardare quella fase finale della vita che richiede per essere vissuta in
maniera dignitosa e il più serena possibile, per il bambino e per i suoi genitori,
il ricorso alle cure palliative”, continua il professor Riccardi, “non bisogna
sottovalutare il ricorso alla morfina e ai suoi derivati sintetici, che hanno la
stessa efficacia e minori effetti collaterali”.
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La somministrazione della terapia analgesica
Ma, in che modo è possibile somministrare questo tipo di analgesici ai
piccoli pazienti oncologici?
“In particolare quello che noi facciamo al Gemelli per i bambini e per gli
adolescenti è la cosiddetta P.C.A., cioè la Personal Controlled Analgesya. Si
tratta”, specifica l’oncologo, “di una siringa molto grande, un vero e proprio
contenitore per il farmaco, che consente al ragazzo o addirittura al bambino
(da 4 anni in su) la possibilità di scegliere il momento e la quantità di farmaco
da dosare. Con questo sistema è stato dimostrato in tutto il mondo che la
quantità di farmaco autosomministrato è inferiore a quella che impiegheremmo
noi, medici o infermieri, mettendolo direttamente in flebo. Questo tipo di
intervento “autogestito” ha, inoltre, un forte beneficio non solo a livello fisico,
ma anche a livello psicologico, perché diminuisce senz’altro anche l’ansia
dell’accesso doloroso, proprio perché i soggetti sanno che è nelle loro mani la
gestione dell’antidolorifico.
Ma quando il bambino è piccolo, per non dire piccolissimo, a volte,
purtroppo addirittura neonato, come si può intervenire?
“Il dolore in questo caso si può avvertire solo osservandolo attentamente,
perché questi bambini presentano deformazioni in viso… Si tratta di un dolore
mai riconosciuto, ma sicuramente presente e disumano (e doverosamente
evitabile, ndr)”. Oltretutto tenendo il dolore sotto controllo si ottiene anche un
miglioramento dello stato di salute generale dell’organismo che migliora più
rapidamente e quindi va a incidere positivamente sul decorso della malattia.
Un’altra modalità di intervento, relativamente recente, è quindi, per
esempio, la via transdermica, cioè il “cerotto”, che rilascia nel tempo (un
periodo prolungato che raggiunge anche le 12 ore circa) la sostanza
antidolorifica prescelta (essenzialmente morfina) per il protocollo di cura.
“Tuttavia la cosa più importante è la terapia corretta del dolore”, precisa il
professor Riccardi. “Non bisogna fare cioè come ancora, purtroppo, fanno tanti
medici che somministrano l’antidolorifico solo in presenza della crisi di dolore,
ma la terapia deve essere organizzata per quel tipo di dolore. Invece di
aspettare che venga un “mal di testa”, insomma, bisogna prevenire con una
somministrazione classica di antidolorifico ogni sei ore, in modo da garantire
una copertura completa durante tutto l’arco della giornata”. Oltretutto la
somministrazione della terapia antalgica viene eseguita, senza particolari
problemi, anche dagli infermieri, essendo di semplicissima applicazione.
Esistono, infatti specifiche linee guida al riguardo che non possono davvero
mettere i difficoltà nessun camice bianco. Ciò che quindi ancora una volta
lascia stupefatti e sconcertati è come mai tanta gente e – in questo caso –
tanti bambini vengono lasciati morire senza quelle umane carezze che
prendono il nome, ormai noto, di “cure palliative” e come mai queste non
vengano correttamente applicate.
Timori infondati
“Ancora esistono resistenze e paure”, avverte Riccardo Riccardi, “che il
bambino, per esempio, possa andare incontro magari a un arresto
cardiocircolatorio. Non è vero. Se il protocollo antalgico è applicato
correttamente, la sicurezza del risultato è totale e un certo tipo di timore e
riluttanza nell’adesione alla terapia del dolore in età pediatrica non ha nessun
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fondamento scientifico. Inoltre”, insiste il professor Riccardi, “non si può
neanche parlare di sensibilità in questo senso, ma solo di capacità. Le cure
palliative non sono un optional e non c’è davvero più nessuno che muoia per
una terapia antidolorifica.
È dunque importante che si crei una coscienza comune in questa direzione,
anche nei genitori stessi, che sappiano che possono chiedere e che non si
mettano in una posizione di vassallaggio mentale nei confronto di medici
incapaci”.
Il dolore deve essere evitato
Ovviamente contrario a certe posizioni che non è più possibile giustificare,
se non con l’ignoranza, è anche il principale promotore del Workshop del
Gemelli, il professor Concezio di Rocco, anche lui convinto assertore della
terapia del dolore in età pediatrica, quando questa è codificata e ben fatta.
“Dobbiamo prendere l’abitudine a pensare che il dolore può essere evitato per
tutti, anche per il bambino. L’Italia, purtroppo, ha una cultura che non aiuta in
questo senso. Un altro degli pseudoproblemi che vengono addoti come scusa
da chi non esegue protocolli antidolorifici è quello dei costi: i cateteri costano,
gli apparecchi per la somministrazione degli analgesici costano e così via…
Perciò gli ospedali tendono a non fornire queste attrezzature, senza rendersi
conto che un bambino con dolore può avere una degenza più lunga di uno che
non ne ha. Infatti un bimbo così sofferente da non muoversi è facile che sia
soggetto al rischio di trombosi, o alle piaghe da decubito, mentre il bambino
che non soffre si muove prima, e anticipando la guarigione fa sì che il discorso
diventi conveniente per la struttura ospedaliera anche solo sotto il profilo
strettamente economico”.
Coinvolgimento dei familiari
Concezio Di Rocco insiste molto anche sull’importanza del coinvolgimento
dei familiari. “Bisogna far capire loro che i bambini non soffrono di meno solo
perché non sono capaci di dirlo. I bambini sotto i due anni di età, per esempio,
ancora non si esprimono verbalmente in modo comprensibile da tutti e, in
questo caso, è importantissimo il coinvolgimento dei familiari. Ma già a 4 anni
sono in grado di usare le scale. Certo ci sono dei casi di bambini con ritardo
mentale, che non ricevono un trattamento antidolorifico solo perché non sono
in grado di esprimere la loro sofferenza. E anche in questo caso esiste un
imperativo etico ad intervenire e ad interpretare il disagio. Oltretutto la
richiesta dei bambini è spesso inferiore a quella necessaria (v. box
psiconcologia). Certo il dolore non scomparirà del tutto, ma se siamo in grado
di spiegarlo al genitore in modo che possa a sua volta farlo capire al bambino,
questo non sarà più spaventato da quel dolore, ma sa che si tratta di un dolore
di guarigione, che può essere vissuto in maniera diversa rispetto a qualcosa di
spiacevole che non si conosce”.
“È dunque necessario affrontare il tema del dolore nei bambini in maniera
efficace ed adeguata”, conclude Antonio Chiaretti, coordinatore della prima
giornata di lavori al Gemelli. “È già da tempo che cerchiamo di cambiare il
modo di pensare dei medici al riguardo, per rispondere alle indicazioni del
Ministero della Salute e dell’Oms in merito a questa tematica che ha della
terapia del dolore uno degli obiettivi principali in campo sanitario”.
Gli aspetti relazionali del dolore
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Infine, Patrizia Paglia ha voluto soffermarsi sugli aspetti relazionali del
dolore: “A volte l’interpretazione del dolore è condizionata dai legami che si
creano tra le varie persone.
È cioè difficile stabilire quanto un bambino soffra realmente perché spesso
questo non viene manifestato palesemente per senso di colpa nei confronti del
genitore, per non ferirlo, per non procurargli un dispiacere.
Un bimbo molto preoccupato perché vede la mamma che piange non dirà
di avere un dolore per proteggere la madre oppure un ragazzo più grande può
sminuire un dolore per non dare un dispiacere al suo medico: questa dinamica
è stata ormai chiaramente verificata.
Se, da una parte, i sintomi si possono esasperare moltissimo perché non si
tollera di stare in ospedale, non si sopporta la gente che si ha intorno,
portando una persona ad accusare molto di più il dolore, così avviene anche il
contrario.
Questo tipo di valutazione”, conclude Patrizia Paglia, “è quindi
importantissimo perché ci aiuta
a decifrare la vera entità del dolore e della sofferenza patita e può
indirizzare meglio ogni tipo di strumento terapeutico”.
Il tumore pediatrico
I tumori sono un’evenienza rara, ma non troppo nell’età evolutiva.
Costituiscono, infatti, la prima causa di morte dopo i traumatismi nei soggetti
da 1 a 15 anni. Solo in Italia si contano 1.200 nuovi casi all’anno e
costituiscono un motivo di grande preoccupazione, visto che le altre malattie
infantili, sono state, più o meno, tutte debellate.
Soprattutto negli ultimi anni abbiamo assistito all’aumento dei tumori
cerebrali nei bambini, con 33 nuovi casi all’anno per milione di abitanti, pari
all’1% circa. Si tratta di una crescita reale, non legata semplicemente a una
migliorata capacità di diagnosi, e che si ritiene dovuta essenzialmente a fattori
ambientali. Viene riscontrata infatti in tutti i Paesi occidentali. Il tumore
cerebrale ha così superato la leucemia linfatica acuta, che comunque
costituisce oltre la metà dei tumori infantili.
Fortunatamente il 65% dei bambini guarisce, sempre che il tumore sia
diagnosticato in fase iniziale. Purtroppo, infatti, - avvertono gli esperti –
quando la neoplasia è già metastatica il tasso di guarigione si abbassa
drasticamente.
La giornata nazionale del sollievo
La III Giornata nazionale del sollievo, per la promozione delle cure
palliative e in particolare della terapia del dolore, in Italia è stata celebrata il
30 maggio scorso, sotto l’egida del Ministero della Salute, dalla Conferenza dei
Presidenti delle Regioni e delle Province Autonome e dalla Fondazione
nazionale Gigi Ghirotti.
La Giornata, come previsto dalla direttiva del Presidente del Consiglio dei
Ministri del 24 maggio 2001, si svolge ogni anno l’ultima domenica di maggio e
ha lo scopo di informare e sensibilizzare gli operatori sanitari e i cittadini
sull’importanza di promuovere la “cultura del sollievo” ed estendere la
consapevolezza che il sollievo non è solo desiderabile ma anche possibile.
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In questa giornata, infatti, si afferma la centralità della persona malata e
l’affrancamento dal dolore inutile e viene evidenziata l’importanza che
rivestono nell’alleviare la sofferenza non solo le terapie più avanzate ma anche
il sostegno psicologico e la capacità di rapportarsi umanamente a chi soffre
considerando il malato nella sua interezza e ponendo attenzione a tutti i suoi
bisogni, psichici, fisici, sociali e spirituali, in modo da creare la migliore qualità
di vita per il malato e per la sua famiglia.
Il supporto psicologico al malato e alla sua famiglia
All’interno del reparto di oncologia pediatrica del Policlinico Gemelli di Roma
operano anche alcuni psicologi, fra i quali la dottoressa Patrizia Paglia, alla
quale abbiamo chiesto di spiegarci qual è l’impostazione del lavoro condotto sui
piccoli pazienti e sulle loro famiglie. “Ci rivolgiamo essenzialmente all’intero
nucleo familiare, perché nel tempo abbiamo riscontrato come la malattia
oncologica colpisca il bambino nella sua componente fisica, ma la sofferenza si
estenda all’intera famiglia. Il nostro impegno di supporto psicologico va quindi
sì al bambino e a genitore che lo assiste, ma vogliamo dare anche
un'attenzione particolare agli altri componenti della famiglia, che fisicamente
possono non essere presenti sempre, ma che lo sono in fasi alterne”. Infatti la
malattia oncologica e la cura di un bambino affetto da tumore si protrae per un
periodo di tempo molto lungo, a volte anche per anni. “Dobbiamo dunque
tenere conto di un disagio che non è un disagio transitorio”, aggiunge la
dottoressa Paglia, “ma uno stato di sofferenza che si proietta nel tempo e che
implica spesso la separazione dei componenti di una stessa famiglia, magari di
un altro fratello che vive uno stato di abbandono forzato”.
L’importanza della normalità: la “scuola in ospedale”
Ma quali modalità di intervento si usano nel campo della psico-oncologia
pediatrica?
“Di vario genere: soprattutto si cerca di mantenere un legame con la vita
normale anche in una situazione che normale non è. Ciò significa per i più
piccoli poter continuare a giocare e ad andare a scuola”, spiega Patrizia Paglia.
“Per questo abbiamo pensato alla ‘scuola in ospedale’, dalla materna alle
superiori. Il bambino/adolescente che è ricoverato può frequentare la scuola in
ospedale e i risultati figurano nella sua scuola statale di appartenenza. In tal
modo non perde l’anno scolastico, perché può essere scrutinato qui, fare gli
esami qui. La ‘scuola dell’ospedale’ si mette in costante contatto con la sua
scuola.
E questo è solo uno degli strumenti che noi abbiamo a disposizione per
garantire ai pazienti una continuità nella vita esterna.
Poi, per i più piccoli si è pensato al gioco, sotto varie forme. Oltre alle due
sale giochi predisposte nel reparto, ci sono degli animatori, ragazzi volontari,
un gruppo strutturato e preparato con rigore e una ludoterapia di tipo più
professionale, con operatori con competenza specifica. Ad ogni bambino, a
seconda della sua età arrivano delle diverse proposte per far sì che possa
essere mantenuta una dimensione di normalità anche attraverso il gioco. Per i
ragazzi il discorso si fa più complicato, perché l’adolescente non vuole giocare,
piuttosto vuole gli amici, vuole uscire, stare su un campo di pallone, ecc.
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Allora ciò che abbiamo visto essere più funzionale allo scopo di mantenere
attivo un livello di “normalità” è proprio il rapporto con i ragazzi volontari che si
occupano dell’animazione, per lo più studenti universitari, che vengono vissuti
come un gruppo di pari, come gli amici. Con loro si parla, si ascolta musica, si
guarda lo sport, si vive, insomma una sostituzione rispetto al gruppo di amici
che loro hanno perso”.
E per i genitori?
“L’intervento ha un carattere decisamente più psicologico”, spiega ancora
la dottoressa Paglia, “con colloqui più o meno strutturati per raccogliere quelle
che sono le angosce, le ansie e le preoccupazioni relative alla malattia, ma
anche al resto della famiglia. Tutto ciò viene gestito non tanto in chiave
patologica, ma semplicemente come un accompagnamento durante l’iter della
malattia per i vari bisogni che si possono man mano presentare”
Inoltre, uno strumento recentemente introdotto al Policlinico Gemelli,
anche nella psiconcologia pediatrica, è quello della mediazione culturale.
“Abbiamo infatti molti piccoli pazienti stranieri ed è necessaria la figura di un
‘interprete’, un ponte fra due mondi, per poter dare un supporto psicologico a
una persona che non capisci”, afferma Patrizia Paglia. “La realtà del mediatore
culturale, poi, ci ha permesso di entrare in contatto con culture diverse, con
diverse modalità di affrontare anche il dolore e la sofferenza ed è stata
sicuramente una fonte di arricchimento, perché il senso del dolore e della
sofferenza in altri mondi e in altre religioni è molto diverso dal nostro e non
possiamo quindi prescindere da questa valutazione se vogliamo dare
un’assistenza che sia equilibrata”.
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Riflessioni e pensieri
Come il bambino vive la malattia: il caso clinico tra realtà aziendale e idea
di cura
Daniele l’ho visto nascere, anche sua sorella Serena, ero la pediatra in sala
parto. Della loro mamma Susanna conosco la vita, le debolezze e la forza, i
problemi gravi di dipendenza dall’alcool, che si è curata con successo.
Me lo ricordo piccolo, caschetto di capelli biondi sugli occhi, correre nudo e
scalzo nell’orto di casa sua, in campagna. Oggi è un adolescente lungo e secco
con i pantaloni enormi, i capelli turchini, come quelli della fata, un orecchino e
gli occhi furbi color nocciola.
A gennaio di quest’anno, con un’atroce certezza e una irresponsabile
speranza ho inviato il mio paziente Daniele da un collega di un’ ospedale
famoso, per gli esami clinici, un’ecografia ed un Rx torace. Il sospetto è
diventato certezza e in 24 ore Daniele è stato ricoverato per una biopsia ad un
linfonodo sopracleare sn. Dopo la biopsia (si trattava di un linfoma di Hodgkin)
il linfonodo è stato asportato e D. è tornato a casa. I punti li ho tolti poi io.
Sono passati quattro giorni e già l’equipe della oncoematologia dell’Ospedale lo
aspettava insieme alla famiglia per comunicare il referto e la diagnosi. Alla
riunione ha partecipato tutta la famiglia e D. ha saputo con le dovute cautele,
vista l’età, (ha compiuto 14 anni dopo la seconda seduta di chemioterapia) la
diagnosi, l’iter terapeutico le controindicazioni, gli effetti collaterali e tutto
quello che un ragazzino può voler sapere in queste circostanze. Ha anche
chiesto se poteva morire se non accettava di curarsi e Susanna non ha
mentito: Daniele ha accettato la cura.
Dopo 5 chemioterapie la massa di linfonodi mediastinici si è molto ridotta e
l’equipe è cautamente ottimista.
Susanna, dopo un momento di stupore incredulo ha accettato la diagnosi,
io non ci speravo, e si è dimostrata molto coraggiosa e responsabile. Ha
convenuto con un misto di sorpresa e soddisfazione, che nel privato ciò che ha
avuto gratuitamente dal SSN: accuratezza della diagnosi, velocità ,
partecipazione umana, competenza e professionalità, non solo le sarebbe
costato migliaia di euro, che lei spesso non ha, perché il suo lavoro non le
permette guadagni sicuri, ma non le avrebbe assicurato quell’iter terapeutico
così ben organizzato e soprattutto così sistematizzato con protocolli completi
che nulla lasciano al caso. Si è sentita protetta e rassicurata, è convinta che
Daniele ce la farà.
Questa storia è una fra tante, ma dimostra in modo inequivocabile che la
Sanità Pubblica quando serve veramente, quando il bisogno di cura è serio e
forte, quando la vita è in pericolo, funziona non sempre, ma spesso e
soprattutto nei casi gravi! Il Welfare che si vuole smantellare e delegare ai
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privati……, quella Sanità che dividerà i ricchi dai poveri, le Regioni del Nord
produttivo da quelle del Sud, sempre a rimorchio………
La realtà Aziendale è oggi, anche se in modo incompleto ed imperfetto un
dato oggettivo. Tra molte difficoltà di tipo concettuale (la professionalità
sanitaria mal si sposa con concetti di empowerment, management ecc..) e
gravissimi oneri economici, ogni USL si è trasformata in Azienda quasi in modo
obbligato, non era possibile fare altrimenti, e anche chi per mentalità o
formazione non voleva il cambiamento, si è dovuto adeguare.
I risultati ci sono, anche se imperfetti e suscettibili di miglioramento. Il
D.Lgs.502/92 e il 229/99 hanno trovato un substrato sempre meno
impreparato e sempre più “rassegnato” alla politica sanitaria dell’Azienda.
Tutto ciò ha permesso un notevole cambiamento anche dei “pazienti”, non
più o almeno non sempre persone semplicemente preoccupate per la propria
salute e ostaggio del scienza del medico o del professionista sanitario. Si è
lentamente sviluppata una diversa mentalità: i pazienti sono soggetti di diritti,
aiutati spesso in questo cambiamento dalla presenza sempre più attiva, ed
informata delle associazioni per i diritti dei malati. L’ultima ricerca del Censis ,
che indagava sulla domanda di salute del cittadino, ha evidenziato che la
coscienza dei propri diritti relativamente alla diagnosi, alla cura, al rispetto
della propria dignità di uomo malato e della privacy, fanno ormai parte delle
competenze che ogni cittadino ha.
E l’Azienda che fa? La salute pubblica è migliorata? I cittadini stanno
meglio? Difficile dirlo: è evidente che è cambiato lo scenario delle patologie,
l’epidemiologia ha evidenziato lo spostarsi della cura dall’Ospedale al Territorio,
la popolazione invecchia, la famiglia si evolve in un modello di tipo monoparentale che cambia
il quadro l’assistenza domiciliare e dell’assistenza
sociale, richiedendo un nuovo modello d’integrazione socio-sanitaria, le
patologie degenerative croniche aumentano, rendendo sempre maggiore il
divario tra coloro che “possono” e coloro che “chiedono”: l’Azienda ha invece
logiche di mercato che devono tenere conto del contenimento dei costi a
fronte di sempre più limitate risorse economiche. Un fatto è certo però:
quando si è veramente malati, quando si vuole veramente guarire, soprattutto
per alcune patologie che fanno riferimento a “trials clinici” internazionali, i
pazienti ricorrono alle strutture pubbliche, dove sanno che possono trovare non
solo le cure adeguate, anche se con molte difficoltà pratiche, ma la possibilità
di un confronto e di un dialogo, che nella autoreferenzialità di una struttura
privata, spesso manca.
Se verrà smantellato questo sistema perfezionabile, non perfetto , i
cittadini di serie B (prima o poi ci diventiamo tutti) saranno discriminati dalla
vita e dal Welfare.
Riflessioni sul vissuto del dolore fisico e psicologico
86
La gravidanza, una possibile realizzazione di rapporto tra un uomo e una
donna e una speranza……
Nove mesi,……. ecografie e amniocentesi hanno reso la curiosità se sarà
maschio o femmina un fatto già risolto da mesi.
Poi nasce il bambino.
SANO
perché la condizione insita nella realtà dell’ essere umano è la sanità e la
ricerca dello stare bene. La scienza medica è nata proprio per curare per la
guarigione e il ripristino di una situazione naturale di sanità.
Sanità, che ne sa un bambino della salute?
Ne sa nella misura in cui dopo quel viaggio incredibile e fisicamente
sconvolgente
che
porta il feto fuori dall’utero, subito dopo la nascita
l’organismo biologico viene investito dalla luce, dal freddo, dai
suoni,
sensazioni e irrompono i bisogni, diventa essere umano. La vitalità di essere
umano neonato lo fa sopravvivere, si forma quella prima immagine mentale
che fonde la realtà mentale con la realtà biologica.
Poi qualcuno lo copre, lo scalda, lo nutre, lo ama.
Sta bene…… è sano, vivo e vitale si dice, ed ha tutte le potenzialità di
rimanere tale, ma se questo non si realizza per cause intervenute durante la
gravidanza o nel periodo della nascita o subito dopo, crescerà con la
consapevolezza di essere malato e quanto la malattia potrà incidere sul suo
sviluppo?
E se invece si ammala quando è già più grande?
La vitalità e l’identità del bambino si sviluppano attraverso la relazione
primaria con la madre nel primo anno di vita, passano attraverso il rapporto
inconscio con la madre, il neonato sente la voce, i gesti e la passione della
madre e risponde attraverso i gorgheggi, i pianti, il movimento e le
espressioni.
Risposte, non solo, anche iniziative e richieste che fanno ricco il rapporto
umano di questi primi mesi.
E’ la dinamica trasformativa del rapporto interumano che permette di
rendere superabili o insuperabili vicende di malattia che la vita ci presenta.
La madre riconosce, se ne è capace, accetta con il suo modo di relazionarsi
la nascita del figlio, la vitalità del bambino cresce, il bambino va… incontro a
mondo nuovo tutto da scoprire.
Può succedere che ci siano piccoli episodi di malattia e sospensione di quel
benessere che ci fa sentire a nostro agio nella nostra pelle, ma tutto passa…….
e se non passa? C’è da fare i conti con la malattia e con il dolore e mi sembra
logico assimilarli, anzi sento che
è così: non c’è malattia anche piccola senza dolore perché il binomio mi
sembra inscindibile, c’è da fare i conti con la perdita della salute
(momentanea?) e con una possibile diminuzione della vitalità.
E c’è da fare i conti con il dolore che può essere quello brevissimo di una
puntura e quello infinito, gravoso e pesante della malformazione o del difetto
cromosomico o della malattia cronica. Volutamente non distinguo tra malattia
cronica e malformazione, se entrambe si manifestano alla nascita perché da
pediatri dobbiamo fare la diagnosi della malattia e curare, ma la cura deve
sempre tenere conto del bambino e della sua identità.
87
L’OMS, istituito dall’Onu nel 1948, definisce la salute è uno ”stato di
completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di
malattia”.
E’ un diritto di tutti gli esseri umani sancito dalla dichiarazione di Alma Ata
del 1978 e dalla 1 Conferenza Internazionale sulla Promozione della Salute del
1986 a Ottawa .
Il bambino nasce sano… e dovrebbe rimanere tale. Non sempre è così, non
sempre è stato così, non è così dovunque.
Per secoli i bambini non hanno avuto nessun tipo di diritto, soprattutto non
si riconosceva al bambino, prima che acquisisse il linguaggio, nessuna capacità
di pensiero e quindi nessuna identità.
Tra gli antichi romani era il pater familias che decretava la possibilità di
vivere di un neonato, se non lo riconosceva il bambino poteva essere
abbandonato o venduto come schiavo.
E’ solo nel ’700 che il Diritto Napoleonico introduce il concetto di docimasia
che distingue tra il feto e il bambino nato e ne sottolinea l’identità giuridica.
In molte culture il dolore e le sofferenze fisiche vengono considerate
indispensabili esperienze che permettono il passaggio dall’età infantile a quella
adulta: i riti d’iniziazione che contengono un cambiamento emotivo
fondamentale che è quello della separazione dalla madre e dalla famiglia.
In molte religioni il dolore e la sofferenza sono considerate strumenti per
avvicinarsi a Dio
(vedi l’uso del cilicio nel medioevo) e i riti di auto-flagellazione della
Settimana Santa in molte regioni del Mediterraneo.
In modo religioso per secoli il concetto di malattia è stato assimilato al
concetto di male: vedi le grandi epidemie di peste inviate agli uomini per
punirli, gli ammalati di epilessia che fino ai primi del ‘900 venivano considerati
indemoniati da esorcizzare e l’herpes zoster che in tempi non remoti veniva
chiamato “Fuoco di S. Antonio”.
Si dice siamo nati per soffrire…….
Nel XX secolo, solo da pochi anni, diciamo 30, si riconosce ai bambini e poi
anche al neonato e al prematuro la sensibilità al dolore.
Si riconosce finalmente che i bambini sono soggetti di diritto, soggetti con
un’identità che va rispettata. Si crea la carta dei diritti dei bambini in
ospedale…… si creano ospedali amici dei bambini ma ancora oggi il pronto
soccorso e il 118 sono dedicati indistintamente ad adulti e bambini, solo nelle
grandi città ci sono Ospedali Pediatrici. C’è ancora molta strada da fare e molto
da studiare…..
Intanto di recente si è scoperto che le vie nocicettive si formano a partire
dalla 26a settimana di gravidanza, ma solo dopo la nascita si completa lo
sviluppo delle vie sensitive, più tardi quello delle vie inibitorie e quindi i piccoli
sono più sensibili al dolore. E se il tempo di conduzione è più lungo, per una
certa immaturità delle vie sensitive, il percorso è sicuramente più breve.
Qualcuno si è preso l’impegno di misurare quante sono le manovre dolorose in
una terapia intensiva neonatale e con quale frequenza si ripetono, sono una
88
ogni 18 minuti! Quali ripercussioni avranno sul vissuto del neonato queste
esperienze?
Eppure negli anni ’50 si operano di adenoidi i bambini senza anestesia, io
sono tra quelli, negli anni ’70 i cardiochirurghi considerano inutile l’anestesia
per la legatura del dotto di Botallo, la circoncisione dei neonati nelle lussuose
cliniche private romane si fa negli anni ‘80 senza l’anestesia locale, tanto dura
poco; negli anni ‘90 la medicazione di gravi ustioni viene praticata senza
anestesia.
L’Italia è un paese strano, piena d’attenzioni per il feto, il grembo materno
e senza rispetto per i nati…. come dice sulla Stampa di Torino il 6 dicembre
Chiara Saraceni che in un articolo sull’aborto sottolinea quanto sia ipocrita il
pensiero che predilige proteggere lo zigote per poi lasciare in povertà e
analfabetismo migliaia di figli nati.
Negli ospedali pediatrici italiani l’uso di terapie antidolorifiche è agli stati
iniziali, c’è la paura del danno e della dipendenza mentre si somministrano
farmaci altrettanto “pericolosi” con disinvoltura. Negli ultimi tempi però le cose
stanno cambiando, ci sono stati moltissimi convegni sul dolore e si riesce a
prescrivere in terapia la morfina (se serve) quasi con la stessa facilità con cui si
somministrano gli antibiotici. Molti pregiudizi hanno impedito al nostro paese di
sviluppare un cultura del rispetto del dolore, pregiudizi e violenza che hanno a
che fare con le donne, i bambini e gli anziani, di coloro cioè che sono
considerati i fragili della società.
Perché ci si chiede….
Perchè raccontare la malattia e il suo dolore, verbalizzarlo, comunicarlo
non è facile per un adulto, figurarsi per un bambino.
E se non si è capaci di parlare, raccontare forse non si può neppure sentire,
soffrire e soprattutto pensare….
Eppure: mi ricordo di Emanuele, morto in clinica pediatrica a 12 anni per
leucemia: trovarono nell’armadietto il suo diario, lui trascriveva con diligenza
quotidiana i risultati delle sue analisi. Sapeva o intuiva l’importanza di quei dati
e nessuno se ne era accorto: che solitudine e che sofferenza vissuta nel
silenzio dei medici e dei suoi familiari.
E allora trovo molto interessante l’intuizione di un’infermiera americana che
sostiene drammaticamente la necessità dell’analgesia in pediatria. Questa
donna intuisce il nesso tra corpo e mente, che è stato ignorato per più di 2000
anni. Intuisce con una sensibilità naturale che tutti dovremmo avere, che il
neonato pur senza parole pensa e ogni sofferenza fisica può essere insieme
una sofferenza per la realtà mentale.
Non ha le basi teoriche che spiegano come nel bambino l’immagine
mentale che si forma con la nascita e precede il linguaggio verbale è una forma
di pensiero, ma ci arriva lo stesso. Forse ha avuto semplicemente quella
sensibilità indispensabile per occuparsi della malattia degli esseri umani.
Dopo queste scoperte il rispetto per il dolore nella malattia diventa
doveroso , pertanto si creano protocolli terapeutici e comportamentali per
ovviare ai possibili danni prodotti da anni di indifferenza da parte del personale
sanitario.
89
Il grosso problema è ora rendere oggettivabile e quindi comprensibile una
sensazione unica e riferibile solo alla persona che soffre, e in caso di bambini
molto piccoli impossibile da descrivere a parole. Ecco quindi le scale di
misurazione del dolore.
Ma il dolore ha un colore? Be’ il dolore ha il colore grigio dell’esclusione…..
Gli altri quando tu stai male si muovono su uno sfondo lontano da te,
magari luminoso e colorato e tu da solo in bianco e nero sei fuori , lontano
dagli altri…. la paura non sempre c’è ma c’è inevitabilmente il sentirsi esclusi e
incompresi, nessuno sa e capisce e anche questo è dolore.
Un bambino che si ammala vive questo evento in un contesto relazionale
che comprende i genitori e il nucleo familiare ma anche la realtà sociale che lo
circonda: la scuola e lo sport con i coetanei e gli altri adulti. E’ nel contesto di
queste relazioni che si sviluppa il modo di vivere la malattia e sopportarne le
conseguenze. Se la vitalità e l’immagine interna del bambino sono integre,
potrà elaborare la malattia e la sofferenza con relativa facilità. Ma se ha poca
vitalità potrà vivere l’esperienza come lutto e perdita irreversibile .
Ogni essere umano vive le proprie esperienze in modo completamente
personale e soggettivo e le risorse di ciascun bambino attingono al mondo
relazionale con i genitori in modo molto stretto .
E’ importante che gli adulti vivano la malattia come un momento
traumatico accidentale, togliendole quell’aura religioso-superstiziosa di
sfortuna, sciagura e colpa che connotano spesso il vissuto di malattia degli
adulti.
C’è da dire poi che i bambini hanno un preciso senso di realtà ed esigono
dagli adulti rispetto:
Si deve rispondere con sincerità alle domande su ciò che sta per succedere,
si deve permettere che il bambino manifesti la propria paura, con la sensazione
precisa di essere preso in considerazione. Si deve e si può spiegare a parole
semplici la patologia, il decorso, volta per volta e se possibile la durata; non
bisogna mai mentire su manovre e terapie e se possibile evitare strazi inutili
con un programma di analgesia che tenga conto anche della partecipazione del
bambino, con il rispetto della sua intimità e della sua privacy.
Il bambino che soffre ed è ammalato vive le sensazioni momento per
momento , sono i genitori che progettano e fanno calcoli sul domani e possono
sentirsi in qualche modo colpevoli : la patologia può essere vissuta come una
punizione , e a volte questo pensiero violento può essere trasferito sul bambino
che può pensare ”sono stato cattivo e vengo punito…..”
Altro motivo di sofferenza e per il bambino vedere il dolore e la
preoccupazione dei genitori, il suo stare male fa male alle persone che ama di
più. Perciò i genitori devono essere così sani da resistere all’urto emotivo di
una diagnosi in modo da sostenere il bambino, gli si può spiegare che i
genitori sono adulti, pertanto capaci di accompagnarlo con serenità nel suo iter
diagnostico e terapeutico, e l’operatore sanitario ha il compito di indirizzare i
comportamenti degli adulti affinché il bambino abbia intorno a sé delle figure di
sostegno e di aiuto.
E se è vero che nella assoluta unicità di ciascuno di noi il dolore come tutte
le esperienze emotive è squisitamente soggettivo, è vero che la sensazione
90
dolore ha dei riscontri oggettivi inequivocabili dei quali tenere conto per non
sottovalutarli. E l’operatore sanitario deve conoscerli per usarli al meglio.
Ecco quindi le scale di valutazione del dolore diversificate per età dai
lattanti ai bambini più grandi. Queste scale riferite alla sensazione dolore sono
importanti perché ci aiutano nella pratica quotidiana, ci permettono infatti di
non annullare il dolore dei pazienti, ci impediscono di renderci indifferenti per
difenderci dal dolore degli altri, ci obbligano a cercare la causa del dolore e
della malattia per eliminarla, ricordandoci che il nostro compito è “primum non
nocere”, poi diagnosticare, e curare per la guarigione.
91
IL SENSO DELLA SOFFERENZA
Mondo greco e cristiano a confronto.
L'uomo sperimenta quotidianamente una realtà segnata dal dolore, un
dolore che rende precaria la sua esistenza e lo impegna nel continuo, quando
mai inutile, tentativo di evitarlo. Per questa ragione, egli è stato spinto in ogni
tempo ad interrogarsi su questa dimensione oscura della vita, ed ha elaborato
uno spettro d'interpretazione della sofferenza tanto vasto da dimostrare come
ogni tentativo di definirla sia da considerarsi parziale .</problema>
<icristiani>Con l'avvento dell'era cristiana, la cultura occidentale ha
trovato nell'interpretazione teologica e spirituale della passione e morte di
Cristo una nuova originale lettura della condizione sofferente dell'uomo che,
soprattutto per opera di Paolo di Tarso, entrò in rapporto con importanti
acquisizioni del pensiero ellenistico, sviluppando quelle intuizioni filosofiche che
sentiva più conformi al messaggio evangelico. Soprattutto gli Atti dei Martiri e
le Passioni mostrano come l'agiografia cristiana abbia elaborato una serie di
prototipi dell'uomo sofferente che non ignorano, pur trasformandoli nel loro
significato, alcuni modelli tipici della cultura pagana(1) . Benché "sia rischioso
voler rintracciare necessariamente precisi influssi ellenistici nella letteratura
cristiana dei primi secoli, e nella stessa letteratura agiografica" (2), alcuni
contatti con tipologie dell'aretologia pagana sono chiaramente riscontrabili a
questo livello, sia implicitamente che esplicitamente . La fortezza di quei
pagani che avevano sopportato enormi sofferenze, o sacrificato la propria vita
per l'affermazione degli ideali in cui credevano, suscitò l'ammirazione di molti
cristiani e costituì per loro un modello di comportamento degno di essere
imitato, e un esempio a cui riferirsi. Gli stessi termini che gli agiografi usarono
per definire le virtù dei martiri vennero ripresi dal patrimonio culturale del
mondo pagano, e sebbene siano stati oggetto di modificazioni semantiche, il
loro uso sta ad indicare come l'originalità del messaggio evangelico si sia
sviluppata su un "humus" culturale preesistente. Clemente Alessandrino
(+215) - per esempio - non esitò a paragonare la pazienza cristiana nel
sopportare le sofferenze alla fortezza stoica dei famosi eroi del mondo antico
(3), e lo stesso Tertulliano (+220), che certo non spicca per la sua simpatia
verso il mondo pagano, cita lungamente modelli di virtù dei grandi del passato,
evidenziando la contraddittorietà del comportamento di tutti coloro che erano
disposti a tributare loro sommi onori, e non riconoscevano analogo valore
all'atteggiamento dei martiri cristiani </icristiani>
- <i-pagani>
<la-filosofia>Tali pretese, originate da chiari intenti apologetici, non
potevano, però, che risultare vane poichè, il Dio dei cristiani, così diverso da
"l'idea assoluta" di Platone, dal "motore immobile" di Aristotele, dal "principio
razionale" degli stoici, suscitava nei suoi fedeli comportamenti così originali che
non potevano non determinare perplessità e dubbi nei filosofi pagani . Chi era
abituato, infatti, alla ricerca e all'esercizio della "apatia" e considerava deleterie
tutte le passioni dell'animo, non poteva stimare o condividere atteggiamenti
come quelli dei martiri, che testimoniavano ardentemente la fede davanti ai
loro giudici e desideravano i tormenti di cui erano minacciati . Sebbene si
dimostrassero intrepidi nel sopportare il dolore erano agitati, infatti, da
92
sentimenti violenti, da speranze, da eccitazione per la gloria e il trionfo, che
spingevano Plinio il Giovane (+136) a definirli: "Adepti di una superstizione
sfrenata e pericolosa" (5), e suscitavano il biasimo di Marco Aurelio (+180),
che non vide mai nel loro comportamento qualcosa che potesse esser degno di
ammirazione .
Anzi, l'imperatore, certo che il modo con cui i martiri
affrontavano il dolore non solo non fosse degno di un filosofo, ma di
dimostrasse addirittura riprovevole per ogni uomo che ricercasse la virtù, non
trovò altro aggettivo per definirlo agli occhi dei suoi contemporanei, che quello
di tragedia, riconoscendo così implicitamente uno stretto rapporto tra il modo
cristiano d'intendere il patire e questa fondamentale esperienza del mondo
classico: "Oh, qual è l'anima pronta se necessario, a sciogliersi subitamente
dal corpo ossia ad estinguersi, o a dissolversi, o a sopravvivere! Ma
quest'attitudine derivi dal tuo proprio giudizio, non sia l'effetto di una mera
opposizione come quella dei cristiani; sia meditata e dignitosa e convincente
per gli altri, non tragica"(6). </la-filosofia>
<la-tragedia>Partendo da questa testimonianza aureliana, e poiché,
risulta ormai essere un dato universalmente riconosciuto che la filosofia antica,
più che interpretare la sofferenza, ha tentato di relegarla tra gli aspetti
irrazionali dell'esistenza, sembra opportuno rilevare come i più alti traguardi
nell'indagine di questa ineliminabile condizione della vita umana, siano stati
raggiunti dall'elaborazione religiosa del mito e della tragedia . Quest'ultima,
poi, per le caratteristiche che la determinano, rappresenta secondo Hans Urs
Von Balthasar l'espressione del mondo classico che più si avvicina al
cristianesimo: "la serietà assoluta della grande tragedia - scrive il teologo
tedesco -si riversa e si risolve nel dramma di Cristo, e interamente al punto
che, in epoca post-cristiana diventa irripetibile .La tragedia greca e non la
filosofia greca, con la quale i cristiani hanno soprattutto dialogato, rappresenta
la grande e valida cifra di Cristo evento dell'umanità in quanto assomma in sé,
e supera tutte le cifre anteriori"(7) . In essa la grandezza dell'eroe si
concretizza, come per Pindaro, nell'"agon" (8), nel combattimento tra la
dolorosa determinazione della natura cui la condizione umana è legata, e il
desiderio di vincerla, desiderio che non implica necessariamente l'eliminazione
della sofferenza, ma solo l'affermazione di un libertà morale che non costringa
a rinunciare ad una parte della propria esistenza solo perché, dolorosa . Così
la tragedia celebra colui che, realizzandosi in questo combattimento, "ha
imparato ad amare il crogiolo purificante del dolore"(9), dimostrando che
questo, non solo non è accidentale ma costituisce un fattore imprescindibile
per la comprensione della sua realtà, per cui è vero uomo solo colui che lotta,
che lottando soffre, che soffrendo esiste . "Qui il dolore non è negato continua Von Balthasar dichiarato illusorio e reso filosoficamente
trasparente, né, fuggito per amore di una inesistente "eudemonia", ma
attraverso di esso si scava in direttissima una strada dell'uomo verso Dio e
verso la rivelazione profonda dell'essere. Questo è il coraggio dell'inerme cuore
umano che la filosofia non avrà e che sta immediato davanti a Cristo"(10) .
Secondo la prospettiva tragica, dunque, la sofferenza è l'intima essenza e la
caratteristica tipica di ogni realtà e costituisce lo strumento principe attraverso
cui l'uomo matura, diviene adulto rappresentando la fonte e il culmine di tutta
la "paideia" . Non c'è modo di definire l'individuo, nei rapporti con i suoi simili
93
e con la divinità, se non in quest'ottica, poiché, nel soffrire, da cui non esiste
liberazione, sta la sua dignità, la sua dimensione esistenziale che "né gli dei,
né gli animali possono sperimentare" (11) . La concezione del dolore e della
morte che soggiace a questa grande esperienza del mondo classico e che
riassume in s, un immenso patrimonio culturale, da Omero ad Esiodo, dal mito
ai poeti lirici, rappresenta, dunque, la testimonianza più vera e meditata del
modo con cui i greci interpretavano la loro condizione esistenziale, nonché, una
chiara indicazione del concetto di virtù che stava alla base del loro agire .</latragedia>
</i-pagani>
<ipotesi>Dati questi presupposti, e volendo porsi domande sui rapporti
tra mondo greco e cristiano sulla concezione del dolore e della virtù che origina
dal modo di affrontarlo e sopportarlo, mi sembra imprescindibile confrontare le
testimonianze cristiane con quelle emergenti dai testi tragici . Non si tratta,
tramite la determinazione di parallelismi o l'individuazione di dipendenze, di
riproporre l'annosa questione sull'ellenizzazione del cristianesimo o sulla
cristianizzazione dell'ellenismo, anche perché, non è possibile rintracciare nella
letteratura cristiana antica riferimenti diretti alla tragedia, un genere di
spettacolo che, come i mimi e i giochi circensi veniva esplicitamente
condannato dai Padri della Chiesa(12) . E' comunque innegabile, però, come
abbiamo visto, che la profonda speculazione che il cristianesimo operò intorno
alla presenza e al valore da attribuire alla sofferenza, a partire da quella
redentrice sopportata da Cristo sulla croce, non ha avanti a s, antecedente più
rilevante di quello rappresentato dalla tragedia classica . Per questa ragione
non mi sembra fuor di luogo affermare che nell'attribuire un senso al patire
umano, i cristiani non poterono non aver presente, valutandoli alla luce della
rivelazione divina, tutta quella grande varietà di culti, di esperienze mistiche e
religiose che giunsero loro attraverso la cultura greca e di cui la tragedia dà
ampia testimonianza . In ambiente ellenistico, dunque, nell'incontro di diverse
civiltà, furono poste le basi delle concezioni fondamentali, delle ideologie
portanti e della storia del pensiero dell'occidente, una storia e un pensiero che
- come fa notare Salvatore Natoli - "è stato capace sempre d'inconcepibili
alchimie, di mescolanze a prima vista impossibili. Da tali mescolanze, per il
dolore è nata una nuova scena"(13)</ipotesi> .</ipotesi>
I . L'UOMO TRAGICO I .1.Eschilo: la virtù attraverso la sofferenza
L'importanza che la tragedia classica ha attribuito alla sofferenza e all'opera di
chi se ne fa carico a nome e a vantaggio di tutta la comunità, ha fatto sì che in
ogni epoca le venisse universalmente riconosciuto quel valore che l'ha resa uno
dei momenti più alti della civiltà occidentale . Tra i molti prototipi di umanità
sofferente da essa elaborati quello di Prometeo è certamente uno dei più densi
di significato poiché, tramite questo mito il mondo ellenico ha cercato di
affrontare ed interpretare i fondamentali problemi dell'esistenza umana . La
famosa vicenda del "Dio crocifisso", già trattata da Esiodo (14), fu riproposta
da Eschilo in una trilogia di cui ci è rimasta una sola tragedia, per altro del
tutto insufficiente per permetterci di dare un'esatta valutazione degli intenti
dell'autore . Le varie ipotesi avanzate dagli studiosi sull'ordine con cui si
sarebbero succeduti i tre drammi che costituiscono l'opera, lasciano adito a
diverse interpretazioni ma, la di là di queste, è evidente che l'atto di carpire il
94
fuoco, così come ce lo mostra il Desmotenes, caratterizza la persona che lo
compie come colui su cui grava una manchevolezza, e Prometeo con il suo
furto, si rivela ""l'alter ego" dell'umanità, l'eterna immagine della sua forma
d'esistenza fondamentalmente deficiente"(15). Per molti, la trilogia sarebbe
incominciata con il Pyrforos, il portatore di fuoco, narrando l'evento del dono
igneo fatto da Prometeo agli uomini, e ad essa sarebbero seguite il
Desmotenes, e il Lysomenos, secondo uno schema caro all'autore per cui
all'atto di "hybris" sarebbe seguita la dolorosa punizione che dopo aver
dimostrato la superiorità di Zeus, avrebbe portato alla liberazione del reo
punito (16) .
L'insanabile conflitto tragico emerge così in tutta la sua
evidenza . Senza il fuoco l'umanità sarebbe stata completamente distrutta e
questo pericolo spinge il Titano, deciso ormai a condividerne pienamente il
destino, a sovvenire alle necessità dei mortali tramite il dono del fuoco e di
tutte quelle arti che reputava necessarie alla loro sopravvivenza . Il suo
tentativo non riesce, però, a sanare la precarietà dell'esistenza umana e la
violazione delle norme stabilite da Zeus in cui incorre con il suo furto, ha come
unica conseguenza quella di renderlo compartecipe della sofferenza degli
uomini . L'eccessivo amore verso questi, spinge dunque Prometeo a voler
infrangere quell'ordine che racchiude in se stesso il motivo del loro soffrire e
proprio da questa solidarietà originano i suoi patimenti . Sia lui che gli uomini
nel cui interesse ordisce i suoi inganni, continuano, infatti, a rimanere esposti
al totale arbitrio della divinità e le nuove cognizioni ed abilità tecniche che
vengono acquisite, non mutano assolutamente quello stato di cui ora,
anch'egli, condivide le caratteristiche . Per questo rivolgendosi a lui il coro può
dirgli: "Benché, tu abbia dato agli uomini tante scoperte non sei capace di
liberare te stesso da tali sciagure".(17) In questo senso Prometeo è proprio
prototipo e rappresentante dell'umanità, e la possibilità di sottrarsi al dolore
non diviene, anche per lui, che una lontana speranza .
"O Prometeo,
preoccupati più di te che dei mortali. Speriamo che un giorno tu liberato dalle
catene abbia un potere simile a quello di Zeus".(18) Al suo dolore non c'è,
dunque, alcun conforto se non nella speranza di un nuova concezione di
giustizia di cui la sofferenza patita diviene quasi il momento iniziale di
attuazione . Nella trilogia prometeica, infatti, la conciliazione tra l'eroe troppo
favorevole agli umani e il duro ed inflessibile Zeus, passa attraverso l'eterno
dolore di una divinità che non può morire, ma senza il sacrificio della quale non
si sarebbe potuta svelare quella dimensione di provvidente e giusto reggitore
del mondo che caratterizzava Zeus così come ce lo presenta Eschilo nella
preghiera che Agamennone, ritornando vincitore da Troia alla casa degli Atridi
gli rivolge, celebrandolo come padre degli uomini e degli dei (19). Così la
somma divinità, dopo aver piegato con la sofferenza il Titano ribelle, diviene
più favorevole agli uomini e concede loro spontaneamente quei doni che gli
erano stati sottratti con l'inganno.(20) Questa conciliazione tra le due divinità,
avviene, dunque, in seguito alla totale sottomissione di Prometeo che,
attraverso la sofferenza assume una nuova visione del mondo, muta il suo
atteggiamento, impara che il retto comportamento è quello di colui che avendo
conosciuto quali siano i suoi limiti evita di oltrepassarli, astenendosi così da
ogni atto di "hybris". . E' a questo livello che si pone, dunque, nella tragedia, il
valore didattico-pedagogico del patire, e soltanto in questa prospettiva è
95
pienamente comprensibile il sacrificio di Prometeo .
Accettando
consapevolmente di andare incontro alla punizione e al dolore che deriva dalla
sua ribellione all'inflessibile volere di Zeus, egli non solo impara che occorre
rispettare l'ordine immutabile degli dei, ma diviene esempio per tutti gli
uomini, affinché, anch'essi imparino ed acquisiscano tale profonda conoscenza
della realtà senza incorrere nella sofferenza che da essa scaturisce: "Queste
cose io imparai guardando le tue luttuose vicende o Prometeo" .(21) Questa
idea secondo cui il dolore dell'esistenza umana si inscrive in un piano divino
dalle caratteristiche provvidenziali in quanto chiarifica l'uomo nel suo agire e lo
rende cosciente della sua essenza, è espressa esplicitamente da Eschilo
nell'Agamennone: " E' Zeus che ha avviato gli uomini alla saggezza stabilendo
come valida la legge: attraverso la sofferenza la saggezza . E invece del sonno
stilla davanti al cuore la sofferenza fatta di doloro si ricordi, e anche a chi non
vuole arriva la saggezza . C'è sicuramente una grazia da parte degli dei che
usano violenza occupando il venerando seggio del timoniere."(22) Il grande
tragico elabora, infatti, uno schema di connessioni secondo cui l'uomo,
inorgoglito
dall'eccessiva
abbondanza,
viene
spinto
ad
avere
un
comportamento tracotante contrario alla norma, macchiandosi di una colpa che
gli dei punivano con la sofferenza, affinché, egli imparasse come non fosse
bene andare oltre il limite stabilito per lui dalla natura . Tale processo viene
sintetizzato nel famoso apoftegma:"alla saggezza attraverso la sofferenza"
(23), che appunto esprime la convinzione che il dolore costituisca uno
strumento pedagogico di grande importanza educando l'uomo a non aspirare a
cose che non siano in accordo con la sua condizione sociale o esistenziale .
Letto in questa prospettiva il dolore prometeico non può non essere un chiaro
segno di un sacrificio di se stessi che il Titano compie non tanto per procurare
all'umanità determinate "tecnai" (24), quanto per stabilire un nuovo ordine
razionale dell'universo in cui la divinità che lo regge o governa, sia più
favorevole ai mortali . Questo valore espiatorio e conciliatorio del patire
emerge chiaramente anche nelle Eumenidi, dove Oreste, scisso secondo
l'antico mito, tra il dolore impostogli dagli dei di vendicare l'assassinio del
padre con l'uccisione della madre e l'affetto filiera che glielo vietava, nello
sconvolgimento della mente in cui cade dopo il matricidio, diviene con la sua
sofferenza il fulcro dinamico di tutta l'azione drammatica . Dalla tragedia
emerge chiaramente, infatti, la convinzione che una cerimonia esteriore, come
il rito della lavanda con sangue animale a cui viene sottoposto da Apollo nel
tentativo di espiare il suo delitto non potesse purificarlo dalla sua colpa né,
tantomeno estinguere la maledizione che si estendeva sulla casa degli Atridi e
secondo cui ogni omicidio ne implicava sempre un altro in una catena che
sembrava non dovesse aver mai fine. Infatti, soltanto l'atroce tribolazione che
lo investe quando viene assalito dalle Erinni, le oscure e terribili divinità
preposte a vendicare i delitti di sangue perpetrati contro i parenti, costituisce
l'elemento indispensabile attraverso cui queste incontenibili potenze dell'abisso
ostili agli uomini, vengono trasformate in benevole protettrici della città .
"L'ordine del mondo non è già dato fin dall'origine, né, raggiunto alla fine
sistematicamente da sintesi filosofiche: tutto è centrato sulla gloria dell'evento
divino, affidato alla divina rivelazione di cui non si possono anticipare i tempi e
i modi"(25), ma senza il sacrificio di qualcuno che fosse disponibile a soffrire
96
per la stirpe, la città, il popolo, la divinità non avrebbe potuto conciliare a sé, il
mondo e manifestare così la sua gloria . I .2 .Sofocle: il mistero del dolore La
successiva indagine condotta da Sofocle sulle radici del dolore, pur non
escludendo lo schema razionale colpa-punizione-sofferenza, elaborato da
Eschilo, mostra di sentirlo estremamente riduttivo e preferisce trascurarlo nella
convinzione che l'indagine di questa dimensione inquietante della realtà non
possa concludersi in modo così semplice . Lo stesso agire della divinità viene
deliberatamente privato di ogni valore didattico e la tragicità delle sue opere
s'incentra tutta sulla sofferenza che l'esistenza umana implica necessariamente
in ogni rapporto con gli altri . Il dolore dei personaggi sofoclei è una realtà
inspiegabile, ma capace di rivelare, mettendo alla prova la virtù, la grandezza
dell'uomo e di evidenziare la soggettività sofferente dell'individuo, nella
convinzione che il patire sia un mistero troppo grande per essere racchiuso in
un qualsiasi schema razionale . Paradigmatica diviene, in questa prospettiva,
la figura di Antigone, che, per non violare le "leggi non scritte degli dei"(26),
muore avendo disobbedito all'ordine di Creonte, re di Tebe, di non seppellire il
cadavere del fratello Polinice, il traditore che aveva osato portare le armi
contro la propria patria . L'eroina è pienamente consapevole dell'immenso
dolore che dovrà sopportare per aver tributato onoranze funebri al corpo del
caro congiunto, ma sa anche di non poter venir meno a quei doveri della pietà
religiosa che le impongono di dar sepoltura ad un morto. Per questo davanti
alla tracotanza del sovrano che la rimprovera e la minaccia, essa può
affermare: "Affrontare questa fine è quindi per me un dolore da nulla; dolore
avrei sofferto, invece, se avessi lasciato insepolto il corpo do un figlio di mia
madre; ma di questa mia sorte dolore non ho".(27)
Antigone concepisce
dunque la sua vita come inevitabilmente segnata dalla sofferenza, ma
riconosce anche nel sottomettersi ad essa liberamente, in obbedienza al volere
degli dei, la possibilità di conseguire meriti eterni e di attuare quegli ideali del
"kalòn" e del "klèos" proposti da tutto il pensiero greco come fine del
comportamento morale e piena realizzazione dell'individuo: "E' bello per me
morire in quest'impresa .Cara a lui che mi è caro giacerò, per un santo
crimine: perché, ben più a lungo dovrò esser cara ai morti che ai vivi. Laggiù in
fatti, riposerò per sempre; ma se credi, disonora ciò che tra gli dei ha onore".
(28) Eppure questi valori che sembravano determinanti per la sua azione e che
tanto la rendono simile alle grandi figure dei martiri cristiani, nell'istante
supremo della prova, vengono a cadere e sono quasi rinnegati in uno
struggente rimpianto per la vita che si abbandona: "Ho forse violato la
giustizia divina? Ma perché, un'infelice come me dovrebbe rivolgersi ancora
agli dei? E a chi do manderò aiuto, se per la mia pietà mi sono guadagnata il
nome di empia? Ebbene, se così par giusto agli dei, dopo aver sofferto
riconoscerò il mio errore; ma se i colpevoli sono loro, non abbiano a soffrire
pene maggiori di quelle che ingiustamente mi affliggono".(29) Certamente
Sofocle non intende, con queste parole pronunciate da Antigone nel momento
più cupo del suo dramma, gettare un ombra sulla giustizia degli dei, ma
soltanto negare ogni contatto tra questi e la protagonista, rigettando l'idea che
questi possano attraverso il dolore stabilire un qualche contatto con l'uomo,
poiché, la sofferenza che egli sperimenta non serve ad altro che a renderlo
consapevole della propria tragica condizione esistenziale e ad isolarlo da ogni
97
altra realtà circostante (30) . L'affermazione con cui si chiudono le Trachinie,
rappresenta un'altra chiara testimonianza di ciò . Illo davanti alle sciagure che
anno colpito il padre Ercole, e alla sua imminente morte afferma l'assoluta
estraneità della divinità ad ogni evento, soprattutto doloroso dell'esistenza
umana, pur riconoscendo, in ultima analisi che tutto origina e discende da
Zeus.(31) Recuperando antichi modelli omerici ed esiodei, l'unica conoscenza
che Sofocle mostra possibile per l'uomo, è quella che sperimenta Creonte nel
rendersi conto, dopo aver scoperto il suicidio del figlio e della moglie in seguito
alla morte di Antigone, che "quando la disgrazia sia accaduta anche lo stolto
capisce" (32) . La sofferenza chiarifica all'uomo il proprio destino, e si
manifesta come aspetto fondamentale della sua ontologia, per cui ogni
liberazione da essa diviene impossibile, e la virtù non si riduce ad altro che alla
rassegnata accettazione di questa tragica realtà . Anche quando all'eroe
schiacciato da un infinito dolore, come a Filottete nell'omonimo dramma, la
tragedia pone accanto la divinità, questa non resta mai coinvolta nelle sue tristi
vicende, e la sua epifania, sebbene testimoni che la gloria divina sta al vertice
dell'esperienza del patire umano, non dimostra affatto che questa rappresenti
una via di ascesa a Dio, poiché, gli dei, anche quando si compiacciono
dell'amore di un mortale, non possono certo condividere i suoi travagli e,
davanti a questa terribile esperienza, lo lasciano inesorabilmente solo . Così
anche Euripide, presentandoci questa situazione nell'Ippolito, evidenzia
chiaramente come l'eroe, giunto al termine della sua vita tra atroci tormenti,
non possa che essere abbandonato anche da Artemide che pur tanto lo aveva
amato: Ip. "A che son ridotto, vedi, Signora?" Ar."Vedo, ma versar pianto non
m'è per messo." [ ...]
"Addio! Perché, non mi è lecito vedere estinti, né, si
conta mini il mio viso con l'alito dei
moribondi".(33) E' chiaro, dunque,
come il dramma classico non rappresenti il tentativo di una teodicea, n, quello
di dare una spiegazione alla presenza del male nel mondo, quanto quello di
determinare un quadro organico in cui poter collocare la realtà della sofferenza
. "Di fronte all'evidenza del divenire e della crudeltà connessa con ogni nascita
e morte o, in senso fisico, ad ogni generazione e corruzione" - scrive ancora
Natoli - " il greco elabora la visione tragica del mondo. Il dolore non deve
essere giustificato più di quanto non lo esiga, o lo debba essere l'esistenza. Ma
l'esistenza è in primo luogo un fatto reale e non apparente".(34) Lo schema
peccato-colpa-punizione elaborato da Eschilo, nel tentativo d'includere questa
atroce esperienza della vita umana in una dimensione razionale, non riesce ad
informare di sé, la cultura classica, e l'eroe greco è chiamato, dalla tragedia,
soltanto a saper affrontare il suo destino di sofferenza e ad amarlo al di là di
ogni spiegazione, nella coscienza che l'unica alternativa ad esso sia la morte.
(35) L'uomo ha dunque davanti a sé, un'esperienza terrena bella e dolorosa, e
non può in nessun modo eliminare tale contraddizione se non decidendo di
amarla e di sceglierla come sua propria sorte . In questo modo il suo grido di
dolore diviene la sua autocomunicazione, il suo modo di esprimersi, il modo
per affermare la sua esistenza II.L'UOMO CRISTO
II .1 .Il sacrificio di
espiazione La grande novità del messaggio evangelico originava dalla fede
nell'amore divino che, per salvare il mondo, aveva inviato tra gli uomini il
Figlio, affinché, condivisa la loro condizione di miseria e sofferenza, potesse
redimerla sottoponendosi ad essa fino alla morte . Come fa notare Simone
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Weil, infatti, "Colui che ignora fino a che punto la volubile fortuna e la
necessità tengano ogni anima alla propria merce, non può considerare come
suoi simili n, amare come se stesso quelli che il caso ha separato da Lui con un
abisso" (36) . Il problema del dolore umano, del suo senso e del significato da
attribuire alla volontà di colui che decideva di sottomettervisi in vista di beni
maggiori, costituì uno dei principali motivi che mosse la speculazione cristiana
dei primi secoli e la spinse, nel tentativo d'interpretarlo alla luce dell'opera
redentrice di Cristo , ad avvalersi di tutte quelle realtà culturali e filosofiche che
sentiva a sé, vicine. In questa prospettiva, la condizione umana così come
l'aveva descritta la tragedia classica nel suo essere sottoposta alla forza della
necessità, nel suo saper resistere eroicamente ad essa in nome della virtù o
dell'acquisizione di un vantaggio comune, rappresenta uno dei grandi contributi
che la grecità ha fornito alla cultura occidentale e che, giunto alle soglie
dell'era cristiana, avrebbe informato di s, il messaggio evangelico, facendone,
addirittura, proprio per questo, - pensava Weil - l'estremo frutto della cultura
classica (37) . Il cristianesimo, infatti, come la tragedia, vedeva nel peccato la
causa del male e del patire umano (38), anche se non condivideva la
convinzione che il dolore originasse dalla trasgressione, più o meno volontaria,
di una qualche norma divina che si perdeva nel mito, ma lo attribuiva, invece,
alla libera volontà umana di rifiutare la legge di Dio . Concordava, inoltre, con
il mondo greco sull'idea che, data la condizione esistenziale dell'uomo, non
fosse possibile, così come invece era convinzione della mentalità giudeofarisaica, anche per chi lo volesse, un perfetto rapporto con Dio nell'osservanza
di ogni più piccola norma religiosa, e quindi concepiva l'esistenza umana come
costantemente segnata dalla colpa(39) . Ciò che Eschilo esemplificò nella
"maledizione della stirpe" (40), veniva indicato da Paolo di Tarso nella tensione
al peccato che era comune a tutta la discendenza di Adamo e alle cui
conseguenze nessuna poteva sottrarsi . La sofferenza che originava da questa
situazione, non doveva, però, essere considerata ontologica, connessa, cioè,
alla natura umana, ma accidentale, in quanto derivante dal peccato, ovvero
dalla libera scelta dell'uomo di opporsi a Dio . Se, dunque, nell'antichità il
dolore era considerato effetto di una trasgressione, l'opera redentrice di Cristo
inaugura senza dubbio, con un radicale mutamento di prospettive, una nuova
interpretazione della sofferenza, rifiutando non solo di considerarla castigo per
una colpa, ma rendendolo addirittura "segno di grazia" . Cristo, infatti, decide
di affrontare il peccato e subendolo soffre e muore; ma i patimenti e la morte
che derivano da questa determinazione vengono superati definitivamente dalla
resurrezione, segno della vittoria non tanto sul dolore, ma sul peccato che lo
implicava (41) . Per questo la croce, simbolo primigenio della sofferenza che
Cristo affronta, diviene per Paolo punto centrale della sua predicazione in
quanto segno di salvezza e di grazia che sta ad indicare come tramite il dolore
il peccato, con tutte le sue conseguenze, sia stato affrontato e sconfitto . La
sua presenza diviene quindi, manifestazione visibile della azione operante di
Dio che si muove per salvare il mondo . Ma per far questo, poiché, il peccato
aveva potere sulla carne e sul sangue,, cioè, sulla totalità dell'esistenza
umana, il Cristo doveva affrontarlo a questo livello, divenendo cioè, solidale
con tutta l'umanità(42) La figura del "Servo sofferente di Jahwe"(43),
elaborata dal profetismo ebraico, come colui i cui patimenti apportano salvezza
99
a tutto il popolo, viene riletta da Paolo in questa
prospettiva . &lt;&lt; La
redenzione&gt;&gt; - scrive ai Romani - &lt;&lt;è stata stabilita da Dio in Gesù
Cristo, quale propiziazione nel sangue di Lui&gt;&gt; (44) . "La parola che
comunemente è tradotta con propiziazione," - fa notare Charles Harold Dodd
-"non significa propiziazione; essa è più propriamente l'appagamento di una
persona irritata [ ... ] ma, mentre l'uso pagano rende spesso Dio oggetto di
quest'atto, quest'idea è suggerita solo tre volte nell'Antico Testamento, e mai
nel Nuovo [ ...]. Nel nostro testo, di Dio si dice che: "ha stabilito un mezzo di
espiazione", cioè un trattamento per il peccato. Questo mezzo è espresso nei
termini del sacrificio dalla menzione del sangue [ ... ]. Il sacrificio di Cristo, non
è concepito come un mezzo per placare la divinità irritata, ma come un atto di
Dio stesso che affronta il peccato devastatore della vita umana"(45). Questo
concetto, così ben evidenziato da Dodd, segna la linea di demarcazione tra il
mondo cristiano e quello greco, e costituisce l'originale interpretazione che la
nuova religione fornisce del modo con cui il pensiero ellenico aveva valutato il
dolore dell'esistenza umana . La totale dedizione di Gesù di Nazareth, non si
limita a sopportare la "necessità" a cui sono sottoposti i mortali, ma sceglie di
condividere la sorte dei miseri, il patibolo degli schiavi, cose alle quali avrebbe
potuto sottrarsi fino all'ultimo momento . Il dolore, dunque, nella prospettiva
cristiana, non viene accettato perché, necessario, ma come necessaria
conseguenza della condivisione del destino umano nella totale dedizione di sé.
Per questo Paolo, nella Lettera ai Galati evidenziando come Cristo abbia voluto
condividere con la natura dell'uomo anche gli effetti della sua colpa afferma:
"Egli ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, divenendo lui stesso
maledizione per noi, come sta scritto: maledetto chi pende dal legno"(48) .
II .2 .Il senso del dolore: mondo greco e cristiano a confronto La metafora
della maledizione è, dunque, una realtà comune al pensiero antico che porta
con s, profonde implicazioni . Maledetto era, secondo la tragedia, colui che
trasgrediva la "norma" offendendo gli dei e andando, come abbiamo visto,
contro l'ordine da loro stabilito; ma maledetto era anche l'eroe innocente che,
per amore verso i suoi simili decideva, combattendo, di farsi carico di una
situazione di sofferenza che gravava la famiglia, la stirpe o la città . E' facile
notare come le analogie riscontrabili a questo livello in un paragone tra
pensiero greco e cristiano non possano lasciarci indifferenti .
Entrambi
celebrano la generosità e le forza coraggiosa di chi volontariamente prende su
di s, gli effetti di una maledizione che pesa sulla società umana e decide di
subirne le conseguenze, così che possa considerarsi estinta(47) .
Quest'interessante confronto nella delineazione della figura di una divinità
decisa a sopportare per amore degli uomini, la sofferenza tipica della loro
condizione, merita di essere approfondito, e se certo non possiamo giudicare
l'opera prometeica alla luce del concetto di redenzione del cristianesimo,, né
individuare influssi dell'antico mito nell'agire e nella figura di Cristo, è
certamente degno di sottolineatura il fatto che - come afferma Charles Kerenyi
(48) - Il titano rappresenta il "mitogema" dell'esistenza umana, e si avvicina
molto, pur senza alcuna pretesa teologica, alla concezione paolina di Cristo
"nuovo Adamo"(49), archetipo di una nuova umanità . Senza dubbio le ragioni
per cui Prometeo e Cristo patiscono sono agli antipodi, in quanto il primo
sconta un atto di disubbidienza a Zeus, mentre il secondo soffre per obbedire
100
alla volontà del Padre, ma il fatto che entrambi siano spinti dalla
determinazione di far causa comune con l'umanità, facendo scaturire da questa
situazione il paradosso della loro condizione, determina un'analogia che non
può essere trascurata . Infatti, non si può certo negare che qui, come nelle
Eumenidi o in Antigone, sia il generoso patire di un animo innocente a spezzare
la catena dell'odio e del dolore e a rappacificare in sé, e tra loro, gli uomini e le
divinità, le quali, perduto il loro aspetto ostile e terrificante, arrivano a
costituirsi come benevole patrone dell'uomo e garanti del diritto e delle norme
religiose . Ma la mentalità greca non poteva spingersi oltre nel delineare un
tipo di rapporto umano con gli dei, e non si può certo attribuire ad essa tutto
ciò che rappresenta il frutto più alto della speculazione ebraica prima, e
cristiana poi . "Prometeo e l'ecce homo" - fa notare Josè Lasso De La Vega "sono simboli di un'umanità intesa in modo assai diverso e i dolori per i peccati
del mondo sono in Gesù Cristo qualcosa di radicalmente diverso dalla
sofferenza prometeica"(50), soprattutto perché, Cristo non è un ribelle che si
oppone alla divinità, n, soffre vittima della sua ira vendicatrice . Il Crocifisso
non minaccia come il Titano eschileo, ma dalla profondità del suo dolore si
abbandona a Lui, e inaugura così un nuovo fecondo modo di viverlo . Non si
tratta, dunque, d'interpretare la sua opera in funzione di una conciliazione
all'interno dell'ambito divino, o tra questo e quello umano, ma di considerare
come a causa della sofferenza di suo Figlio, Dio non sia più estraneo e
minaccioso nei confronti dell'umanità, ma sperimenti la sua condizione, e
quindi renda possibile un dialogo, invitando a fidarsi di chi si era sacrificato in
suo favore fino alla morte . Poiché,, dunque, l'uomo non è più solo, e il mondo
non è più separato da Dio, tutti quei princìpi etici che nascendo dall'eroismo
dell'autarchia umana, erano alla base delle virtù del mondo antico, non
possono trovar riscontro nell'ambito cristiano .
Il valore redentore e
conciliatorio della sofferenza accettata liberamente, rappresenta in Cristo
l'azione di un uomo che viene a coincidere con quella di Dio, e l'ordine che così
si delinea, non è quello di una nuova "polis", o di un nuovo Olimpo, ma quello
di una nuova creazione . La sofferenza, il sacrificio personale di Gesù di
Nazareth, hanno come conseguenza, infatti, la nascita e lo sviluppo di un atto
sovrastorico non ancora concluso, e la sua morte non ha posto fine alla sua
esistenza, ma nella sua resurrezione si è aperta ad una nuova indefinibile
prospettiva che comprende ogni realtà esistente . Se il dolore di Oreste e di
Antigone, il sacrificio di Prometeo, il sangue di Eteocle e Polinice, mischiato
insieme per reciproca uccisione, avevano riportato le loro famiglie e le loro
città allo stato di pacificazione anteriore alla colpa, il sangue e il dolore di
Cristo aprono l'esistenza ad una nuova dimensione ontologica . In essa pur
restando presente la sofferenza, si nutre la speranza nella certezza di una vita
senza morte e senza dolore che attuandosi nell'aldilà, tende a relativizzare la
condizione terrena . Il conflitto tragico del mondo greco non ha dunque più
ragione di essere . " La liquidazione del tragico ha fondamentalmente messo
fuori gioco la convinzione che la vita" -scrive ancora Natoli -" sia insieme
crudeltà e bellezza, attività e conflitto. [ . . . ] La tradizione ebraico-cristiana
ha enfatizzato la possibilità di una vita senza dolore, ha inoculato l'idea che il
dolore potesse essere separato dalla vita"(51) .
L'iniziale attingere al
patrimonio culturale greco ha avuto, dunque, per il cristianesimo un esito
101
totalmente diverso . Non a caso il discorso che Paolo rivolge agli ateniesi
sull'Areopago (52), se inizialmente era riuscito ad accattivarsi la simpatia degli
ascoltatori, fallisce miseramente sul cardine della dottrina cristiana: la
resurrezione . Per un greco, infatti, se la vita era necessariamente sofferenza,
non aveva senso rinnovarla, mentre se avesse potuto esistere senza dolore,
avrebbe perduto il suo spessore ontologico . CONCLUSIONE La civiltà greca
non riuscì, dunque, a dare un'interpretazione univoca della sofferenza umana,
e se con il progredire della speculazione filosofica seppe eliminare il problema
relegandolo tra gli aspetti irrazionali dell'esistenza, dal punto di vista religioso
questo restò drammaticamente irrisolto, lasciando all'uomo la grande domanda
del suo significato particolarmente in rapporto alla divinità . Soprattutto
Eschilo tra i tragici, incominciò a concepire la sofferenza come strettamente
connessa al mondo degli dei, i quali a causa di una non ben determinata colpa,
insegnavano all'uomo, con il dolore, a conseguire, come suprema virtù, la
determinazione a non voler aspirare a cose che andassero al di la della propria
condizione . Se però, come ha sottolineato Vincenzo Di Benedetto(53), la
tragedia classica ha fallito in questo suo tentativo di fondare una teodicea che
riuscisse a dare una spiegazione del patire umano, il concetto che gli dei
educassero l'uomo attraverso la sofferenza non rimase senza sviluppo, ma fu
recuperato dal cristianesimo . Questo, infatti, evidenziando l'esemplarità della
sofferenza del Redentore, mostrò come la sua passione avesse insegnato a
conseguire la virtù e le realtà eterne dell'esistenza, e quindi inserì il dolore in
un quadro didattico che originava come per i greci dalla divinità, ma che, fatto
questo originalissimo, coinvolgeva la divinità stessa . Cristo, uomo perfetto,
riassume in sé e nel suo comportamento ogni ideale di virtù, e la
determinazione ad essere uomo autentico, perseguita dalla grecità come grado
supremo dell'"areté,", diviene per il cristiano l'invito ad assimilarsi a Dio . In
questa prospettiva la tribolazione non ha più la funzione di condurre l'individuo
a prender coscienza della caducità del proprio essere, ma di costituirlo capace
di conoscere ed apprezzare i valori per cui soffre e attraverso i quali è
chiamato a partecipare alla natura divina .
</sofferenza>
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- Angelico Brugnoli