Comitato tecnico-scientifico Centro Studi Ubaldiani “Padre Emidio Selvaggi” Quaderni Ubaldiani 7 SOMMARIO p. 3 UBALDO, il santo della mitezza. la premessa Angelo M. Fanucci p. 6 sant’ubaldo era un baldassini? Patrizia Biscarini p. 11 l’antichissima chiesa di s. felicissimo Filippo Paciotti p. 14 come fu salvata l’antica arca di sant’ubaldo Francesco Mariucci p. 15 il priore ubaldo non voleva fare il vescovo Adolfo Barbi p. 17 la lettera di benedetto xii nella storia di thann Paolo Salciarini p. 19 la ricostruzione del volto di sant’ubaldo Ubaldo E. Scavizzi p. 21 iconografia ubaldiana Ettore A. Sannipoli p. 24 la rinascita del ‘santuario di sant’ubaldo’ La Redazione S. Ubaldo, il Santo della mitezza (1) LA PREMESSA Presentazione Angelo M. Fanucci Il numero dei Quaderni Ubaldiani che hai appena preso in mano, amico lettore, sembra impostato in chiave prevalentemente dubitativa: si dubita sulla correttezza dell’attribuzione a S. Ubaldo della qualifica di ‘Santo della riconciliazione’, come elemento specifico della sua santità, si dubita dell’attribuzione a S. Ubaldo del ‘cognome’ Baldassini, si dubita circa la ricostruzione della mancata elezione del Priore di S. Mariano a Vescovo da me fatta nell’ultimo quaderno. Se davvero, come dice l’antico réfrain, il dubbio è il principio della conoscenza, è ben fondata la nostra speranza di contribuire, con la pubblicazione di due quaderni all’anno, ad una più puntuale conoscenza dell’amatissimo Patrono. Ma accanto a questa linea di ricerca critica, altre, di altra caratura, ne affiorano nelle pagine che seguono: i contributi di Ettore Sannipoli, che col rigore dell’uomo di cultura e con l’affetto silenzioso e fecondo del vero eugubino, continua il suo viaggio nell’iconografia ubaldiana, e quello di Filippo Paciotti su quella Chiesa di S. Felicissimo, che gli Eugubini tutti hanno avuto modo di avvicinare in un contesto di mestizia, quando hanno accompagnato un loro caro all’ultima dimora; fino agli anno 80 del secolo scorso quello che è il più antico edificio di culto della nostra diocesi rischiava di crollare da un momento all’altro, tanto era mal ridotto; ma nel 1982 l’Azienda di Turismo presieduta da Ubaldo Palmi e la Sovrintendenza dell’Umbria per il tramite dell’architetto Venturini affidarono alla consumata abilità tutta artigianale di Carlino Pierotti la ricostruzione del tetto, la ricucitura dei muri portanti, attraversati in senso longitudinale da ‘sbreghi’ paurosi, e il consolidamento delle volte; successivi interventi hanno reso possibili quegli studi che Filippo sta portando avanti egregiamente. Altrettanto interessanti mi sembrano il commento di Paolo Salciarini alla lettera di Benedetto XII alla Chiesa di Saint Thiébaut in Thann e la nota storica di Francesco Mariucci circa il percorso che ha portato l’antica arca di S. Ubaldo a trovare finalmente il suo posto tra i reperti della Raccolta delle Memorie Ubaldiane. Un augurio sincero al risorto Santuario di S. Ubaldo. Valuterei invece alla stregua di una bomba a orologeria l’ipotesi abbozzata da Ubaldo E. Scavizzi circa la possibile, ‘plausibile’ ricostruzione del volto di S. Ubaldo tramite la moderna tecnologia della facial reconstruction: mi attendo una ridda di consensi entusiasti e (soprattutto) di opposizioni feroci: ben venga tutto quello che deve venire, purché porti ad un ulteriore incremento della paterna presenza accanto a noi di Colui al quale la Provvidenza affidò il compito di reggere la Chiesa Eugubina per i secoli. Buona lettura. don Angelo M. Fanucci 1. Una vita esemplare Ubaldo Baldassini è rimasto nella storia e nella memoria degli Eugubini innanzitutto come un santo: sull’onda della crescente devozione popolare nei suoi confronti, a 32 anni dalla sua morte la Chiesa lo canonizzò: troppo evidentemente la sua vita andava additata a tutto il Popolo di Dio come esemplare, quella vita era stata un ininterrotto atto d’amore verso Dio e verso il prossimo. Ma nella nostra storia e nella nostra memoria S. Ubaldo, al di là del piano religioso, rimane importante anche sul piano politico, intendendo per ‘piano politico’ l’insieme delle azioni e delle reazioni che garantiscono il bene comune di una dis. R. Antonioli, inc. A. Magni - 1850 ca. certa società in una Sant’’Ubaldo. certa epoca. Su questo piano S. Ubaldo per Gubbio è stato qualcosa di più, è stato quasi l’eroe eponimo1 di questa nostra città, il personaggio che le ‘ha dato il nome’, in senso biblico, l’ha fondata in quanto ha contribuito in maniera determinante a fissarne i tratti caratteristici, ecclesiali e civili, s’è indissolubilmente legato alle sue origini non solo come vescovo, ma anche come cittadino. E lo ha fatto esercitando ai massimi livelli, di purezza ed efficacia, la più a-politica di tutte le virtù, la MITEZZA. È ormai invalsa tra noi Eugubini l’abitudine di qualificare il nostro Patrono come il ‘Santo della riconciliazione’; mi pare che questa espressione risalga ad un carteggio intercorso fra il Vescovo Antonelli e Papa Giovanni Paolo II in occasione del presunto anniversario, il nono, della sua nascita, nel 1985: presunto perché non abbiamo nessun documento di questa data di nascita, ma diversi indizi ci portano a pensare che si sia verificata intorno a quell’anno. ‘S. Ubaldo, il Santo della riconciliazione’: mi sembra di non poter essere d’accordo. Mi pare che ci siamo lasciati suggestionare da quanto avvenne entro il primo anno dalla sua santa morte. 1 Eponimo: ‘personaggio mitico o divino (e talora anche storico), da cui, nell’antica Grecia, traeva il proprio nome una città, un demo, una famiglia (in segno di privilegio, di protezione, di destino)’, in Grande Dizionario della Lingua Italiana, Vol. V, Torino 1972, p. 208. splendido saggio che Norberto Bobbio ha pubblicato nel 1994, al culmine di un lungo e fecondissimo impegno che ne ha fatto uno dei punti di riferimento più fecondi della filosofia giuridica e politica italiana. Norberto Bobbio ha eretto la mitezza a regina delle virtù civili, quelle virtù che fanno crescere la civiltà, perché trasformano in civis quell’homo naturalis che, secondo Hobbes, lasciato a se stesso, diventa inesorabilmente lupus per i suoi simili. Mitezza o mansuetudine? Le due virtù a prima vista sembrano intercambiabili; ma ad uno sguardo più attento non lo sono. Lo studioso se ne è fatta una convinzione per due motivi: in primo luogo perché nel testo latino del Cap. V del Vangelo di Matteo vengono chiamati mites coloro che riescono a ‘possedere la terra’, cioè ad acquisire autorevolezza senza furbizie o violenze di sorta (mentre poche sono le traduzioni italiane che hanno beati i mansueti invece che miti); in secondo luogo perché ‘mansueti’, almeno originariamente, è detto di animali e non di persone, animali che non sono nati mansueti ma lo sono diventati perché ammansiti, addomesticati. Quanto ai contenuti, la mitezza va più in profondità, la mansuetudine sta più alla superficie. La mitezza è attiva, la mansuetudine passiva. La mansuetudine è più una virtù individuale, la mitezza più una virtù sociale. Il mansueto è l’uomo calmo, tranquillo, che non si adonta per un nonnulla, che vive e lascia vivere e della violenza gratuita nemmeno prende atto, per consapevole accettazione del male quotidiano. Sul fronte opposto la mitezza è una disposizione d’animo che rifulge solo alla presenza dell’altro: il mite è l’uomo di cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé 2. 2. Lotte politiche dopo la sua morte Io credo che, a parte casi commoventi ma sporadici di riconciliazione fra persone e non fra avversari politici, le fazioni politiche dopo la sua morte non solo non si riconciliarono, ma si polarizzarono intorno a due termini che, com’è noto, hanno un valore assai oscillante e di città in città e di decennio in decennio: guelfi e ghibellini; bisogna andarci cauti con l’attribuzione di una di queste due qualifiche: basta ricordare la cantonata presa dal Foscolo, quando chiamò Dante il ghibellin fuggiasco, mentre il nostro sommo poeta (visto che a Firenze s’era creata una sottodivisione... colorata) era in realtà un guelfo bianco. Anche a Gubbio, dopo la morte di S. Ubaldo, i due termini guelfo e ghibellino presero a significare qualcosa, ma la riconciliazione fra le fazioni in lotta per il potere non si verificò mai. Basta leggersi quanto, a proposito dei decenni che seguirono il 1160, ha attinto dai nostri archivi il compianto dr. Piero Luigi Menichetti, nel primo volume della sua Storia di Gubbio, pubblicato da Petruzzi (Città di Castello) nel 1994. Menichetti, con l’imparzialità del semplice ricercatore, che ha scelto come suo compito specifico quello di comunicare l’esistenza di un certo documento e i dati essenziali che esso ci fornisce, senza addentrarsi nella sua interpretazione, elenca una serie di fatti dietro i quali non si possono non intravvedere dure contrapposizioni e a volte lotte furibonde. Per diversi decenni Gubbio può essere chiamata ghibellina, e questo spiega, in politica estera, i ripetuti morsi che alla nostra città riservò da sud-ovest Perugia guelfa o filopapale, che convinsero Gubbio ghibellina o filoimperiale a dispiegare la sua voglia di espansione territoriale a nord-est, azzannando a sua volta Cagli. In politica interna le punture di spillo fra le due fazioni continuarono giorno dopo gior- Norberto Bobbio no, e non poteva non essere così, perché era questo il prezzo da pagare per la democrazia che cresceva, e sarebbe cresciuto finché non fosse prevalsa, dopo un secolo e mezzo, la prepotenza e la perfidia dei Gabrielli. Ma quelle punture di spillo furono dolorosissime quando nel 1191 i filoimperiali, asserragliati sulle rocche del monte Ingino, vennero fatti a pezzi dai filopapali. Se questa è riconciliazione... ! In realtà il conflitto non era una scelta, il conflitto era nella cose: il potere andava gestito, o come volevano i suoi antichi titolari o come voleva la classe emergente. 4. Virtù forti e deboli Per cogliere intero il valore della mitezza, occorre collocarla con precisione maggiore nel contesto completo della fenomenologia delle virtù. In proposito la distinzione più illuminante non è quella tra virtù individuali e virtù sociali, e nemmeno quella fra virtù etiche e virtù dianoetiche3, e nemmeno la distinzione introdotta dall’etica cristiana, quella tra virtù teologali e virtù cardinali, per cogliere il cuore della mitezza occorre distinguere (Bobbio ignora se questa distinzione sia stata fatta da altri prima di me) fra virtù forti e virtù deboli. Una distinzione non assiologica, ma analitica: Bobbio non vuole esprimere nessun giudizio di valore su questi due aggettivi, quasi che debole equivalesse a negativa, e forte a positiva. Il riferimento che differenzia i due gruppi di virtù è a coloro che ne fanno uso: le virtù forti sono 3. Riflessioni di un filosofo contemporaneo Io penso che Sant’Ubaldo meriti di essere chiamato IL SANTO DELLA MITEZZA. Me ne sono convinto leggendo Elogio della mitezza, lo 2 Norberto Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano 1994, pp. 209. Virtù dianoetiche, secondo Aristotele, ‘sono quelle proprio della parte intellettuale dell’anima (distinte dalle virtù etiche e morali)’, in Grande Dizionario della Lingua Italiana, vol. IV, UTET, Torino 1971, ad vocem dianoetico. 3 quelle che usa chi detiene il potere, chi governa, chi dirige, comanda, guida, e ha la responsabilità di fondare e mantenere gli stati, e per assolvere questi compiti egli deve avere coraggio, fermezza, ardimento, audacia, lungimiranza, generosità, liberalità , clemenza, anche e soprattutto quando la vita politica sfocia in quella che alcuni chiamano la sua sublimazione, altri la sua perversione: la guerra. E invece l’umiltà, la modestia, la moderazione, la verecondia, la pudicizia, la castità, la continenza, la sobrietà, la temperanza, la decenza, l’innocenza, l’ingenuità, la semplicità, la mansuetudine, la dolcezza, la mitezza sono proprie dell’uomo privato, che non le cerca, ma se lo relegano sul gradino più basso della scala sociale non ne fa una tragedia; che se gli affidano del potere lo esercita ma quando glielo tolgono non fa una piega; che non dispone compiutamente nemmeno di se stesso; che vive semplicemente affrontando i problemi così come gli si presentano, e non ha pretese di rimanere nella storia, e accetta che nessuno si accorga di lui e non gli passa per la testa la possibilità di lasciare una qualche traccia negli archivi in cui il popolo al quale appartiene conserva solo le memorie dei personaggi e dei fatti memorabili. Tra queste virtù deboli rifulge la mitezza. Rifulge soprattutto nel momento in cui la mettiamo in controluce sui vizi ad essa opposti. In controluce sull’arroganza, che è la opinione esagerata dei propri meriti, spinta fino alla sopraffazione; in controluce sulla protervia, che è l’arroganza ostentata, quel mostrare in maniera sfacciata le proprie pretese virtù, che ipso facto le tramuta in vizi: chi ostenta la propria carità, manca di carità, chi ostenta la propria intelligenza è uno stupido; in controluce rispetto alla prepotenza, che è qualcosa di peggio rispetto alla protervia, è l’abuso di potenza non solo ostentata, ma messa in atto concretamente: il protervo sottolinea la sua prepotenza, il potere che ha di schiacciarti anche soltanto con un dito come si schiaccia una mosca; il prepotente questa potenza la mette in atto, attraverso ogni sorta di abusi e soprusi, di atti di dominio arbitrario e, quando sia necessario, crudele. Il mite è invece colui che ‘lascia essere l’altro quello che è’, anche se l’altro è arrogante, protervo, prepotente. Il mite non entra nel rapporto con gli altri con il proposito di gareggiare, di confliggere, e alla fine di vincere. È completamente al di fuori dello spirito della gara, della concorrenza, della rivalità, e quindi anche della vittoria; accetta in tutta tranquillità di essere l’eterno sconfitto nella lotta per la vita. co mondo e dell’unica storia in cui vorrebbe vivere, è quella di un mondo e di una storia in cui non ci sono né vincitori né vinti; perché non ci sono gare per il primato, né lotte per il potere, né competizioni per la ricchezza, mancano insomma le condizioni stesse che consentano di dividere gli uomini in vincitori e vinti. Il mite non ha una grande opinione di sé, ma questo non vuole dire che si disistima, ma che si sente un uomo come tutti gli altri, e non ostenta nulla, neanche la propria mitezza. Ma attenti a non confondere la mitezza con la remissività! Il remissivo è colui che rinuncia alla lotta per debolezza, per paura o per rassegnazione. Il mite, no: quello che il mite rifiuta del tutto è la distruttiva gara della vita; e lo fa per un senso di fastidio, per la vanità dei fini cui tende questa gara, per un senso profondo di distacco dai beni che accendono la cupidigia dei più, per mancanza di quella passione che, secondo Hobbes, era una delle ragioni della guerra di tutti contro tutti, la vanità o la vanagloria, che spinge gli uomini a voler primeggiare. E tra i motivi del suo rifiuto dobbiamo infine mettere una totale assenza della puntigliosità o dell’impuntatura che perpetua le liti anche per un nonnulla, in una successione di ripicche e ritorsioni, del ‘tu l’hai fatta a me, io la faccio a te’, dello spirito di faida o di vendetta che conduce inevitabilmente, alla fine, o alla morte di tutti e due o al trionfo dell’uno sull’altro. Il mite non è né remissivo né cedevole, perché la cedevolezza è la disposizione di colui che ha accettato la logica della gara, la regola di un gioco in cui alla fine c`è uno che vince e uno che perde: un gioco a somma zero, come si dice nella teoria dei giochi. ll mite non serba rancore, non è vendicativo, non ha astio contro chicchessia. Non continua a rimuginare sulle offese ricevute, a rinfocolare gli odi, a riaprire le ferite. Per essere in pace con se stesso deve essere prima di tutto in pace con gli altri. Non apre mai, lui, il fuoco; e quando lo aprono gli altri, non si lascia bruciare, anche quando non riesce a spegnerlo. Attraversa il fuoco senza bruciarsi, le tempeste dei sentimenti senza alterarsi, mantenendo la propria misura, la propria compostezza, la propria disponibilità 4. La mitezza ha come virtù complementari la semplicità, il rifuggire intellettualmente dalle astruserie inutili, la misericordia o la compassione, il cum-pati, il sentire come proprio il pathos che il prossimo si porta dentro. La seconda parte di questo studio verificherà puntualmente sui testi delle due Vitae (quella scritta da Giordano e quella scritta da Tebaldo) il primato della MITEZZA nella vita di S. Ubaldo. (continua) 5. La concezione del mondo dell’uomo mite L’immagine che egli ha del mondo e della storia, dell’uni- 4 N. Bobbio, Elogio della mitezza..., op. cit., p. 26. Il manoscritto delle Memorie della famiglia Baldassini nel Fondo Armanni: il prodotto grossolano di un’operazione maldestra in difesa di un’illustre ascendenza familiare SANT’UBALDO ERA UN BALDASSINI? Patrizia Biscarini Lo scopo di questo scritto è quello di illustrare le caratteristiche formali e di contenuto della principale fonte documentaria, conservata presso la Sezione dell’Archivio di Stato, che avrebbe dovuto dimostrare, secondo le intenzioni degli estensori, che Ubaldo, il patrono di Gubbio, apparteneva alla famiglia Baldassini. Questa fonte è un manoscritto, modesto nella fattura e nelle dimensioni (mm 220x160), che contiene 109 carte, tra cui alcune vuote. Quelle scritte sono state redatte quasi tutte nel ‘600, tranne un paio (cc. 9r-10r) che, come è affermato nello stesso, dovrebbero risalire al 6 Luglio 1401. Questo documento, e soprattutto il suo contenuto, è stato citato dalla maggior parte degli esperti ubaldiani e delle vicende storiche di Gubbio, non solo locali, che si sono susseguiti dal XVII secolo ad oggi, come la fonte fondamentale, la cosiddetta prova provata, che Ubaldo sia stato un Baldassini. Le carte scritte contenute all’interno del manoscritto non hanno tutte le stesse dimensioni. Un foglio cartaceo singolo è stato inserito, in senso verticale, mentre tutti gli altri, sempre cartacei, sono stati raggruppati in fascicoletti, rilegati insieme e avvolti da una semplice copertina di carta pecora, chiusa agli angoli esterni, superiore e inferiore, da due nastri di color celeste. Il contenuto di questo manoscritto è alquanto sorprendente perché non menziona, non fa riferimenti o fornisce alcun atto originale o una copia di esso o uno contenuto in fonti pubbliche e ufficiali. Presenta invece memorie e dichiarazioni private, anche autenticate, ripetute più volte, nella lingua volgare e in latino, scritte da Luca di Pace Baldassini nel 1401 (almeno così si sostiene); da Francesco di Luca Baldassini nel 1608; da Baldassino Baldassini nel 1670; testimonianze di oltre un centinaio di eugubini in età avanzata raccolte soprattutto tra aprile e maggio 1606 ed esibite, nel 1627, davanti al notaio Pinoli; asserzioni e testimonianze rese nel 1670 davanti al notaio Hippolitus Ronconus (Ippolito Ronconi), cancelliere della Comunità di Gubbio. Il documento dichiarato quattrocentesco dovrebbe essere, dunque, il pezzo più prezioso dell’intero volume manoscritto. Ancora più sorprendente, inoltre, risulta il fatto che all’interno di tale manoscritto, di fondamentale importanza per le vicissitudini dei Baldassini che riporta, vi siano mescolate delle ricette di prodotti di spezieria10. è anche vero, tuttavia, che queste ultime carte, trovandosi tra quelle di Vincenzo Sezione di Archivio di Stato di Gubbio (d’ora in poi SASG), Fondo Armanni, n. 299 [già III A 16], Baldassini. Memorie originali spettanti a questa famiglia. Le carte riportano in buona parte una doppia numerazione. La più antica in inchiostro è indicata su molte, ma non su tutte, sul recto e sul verso; la più recente in matita è riferita solo sul recto di tutte le carte. In questo articolo è stata citata la più recente. Le carte prive di scrittura sono le seguenti: SASG, Fondo Armanni, n. 299 [già III A 16], cc. 4r-6v, 14v, 53v-54v, 61v-62r, 72r-82v; 96v-109v. Studiosi come Oderigi Lucarelli e Pio Cenci, ad esempio, nel riferire le vicende del santo e dei Baldassini si appoggiano completamente al contenuto di questo manoscritto, cfr.: O. Lucarelli, Memorie e Guida storica di Gubbio, Città di Castello 1888, pp. 223-224; P. Cenci, Vita di S. Ubaldo Vescovo di Gubbio, Scuola Tipografica “Oderisi”, Gubbio 1924, pp. 10-11. Uno studio poco conosciuto, ma importante e utile, anche per la puntuale ricognizione degli studi compiuti nel corso del tempo sulla biografia del patrono di Gubbio, dagli esperti non solo locali, è quello di L. Mencarelli, Ricostruzione del manoscritto “In (Festo) Sancti Ubaldi Episcopi et Confessoris” del Vescovo eugubino Teobaldo (1160-1179 ca.) dopo le aggiunte e le manipolazioni subite nei secoli a noi precedenti, Tesi di Laurea, relatore prof. Pier Lorenzo Meloni, Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Magistero, Corso di Laurea in Materie Letterarie, a.a. 1969-1970. Nel capitolo III di questa tesi, dal titolo “I genitori di S. Ubaldo”, sono illustrati e commentati praticamente tutti gli scrittori che riferiscono nelle loro opere sulla famiglia di Ubaldo, tranne Giordano. Di lui sono citati pochi frammenti perché quando la studiosa scrive (tra il 1969 e il 1970) F. Dolbeau non aveva ancora pubblicato la Vita prima che si riteneva perduta. Nel capitolo III la Mencarelli sostiene che gli autori che propendono per la parentela con i Baldassini non siano molto convincenti e anzi lascino molti dubbi sul fatto che in effetti questa famiglia possa essere collegata con il vescovo Ubaldo. La studiosa, poi, pur facendo un’analisi puntuale della bibliografia esistente, non fa però riferimenti diretti al cosiddetto manoscritto Baldassini, conservato nel Fondo Armanni della SASG, perché, come informa lei stessa, non lo ha rintracciato e potuto consultare. Riporta solo una citazione di esso, relativa alle numerose testimonianze di anziani notabili eugubini, viventi nel 1606, che dichiarano di aver sempre avuto notizia che Ubaldo appartenesse alla famiglia Baldassini, perché riferita in L. Giampaoli, S. Ubaldo Canonico Regolare Lateranense Vescovo, Patrono, Cittadino di Gubbio. Memoria storica con documenti inediti, Stabilimento Tipografico Cappelli, Rocca S. Casciano 1885, vol. I, pp. 274-279; la studiosa, però, non ha ritrovato la fonte diretta (anche perché non segnalata dal Giampaoli), che appunto è il manoscritto di cui si parla qui. Naturalmente la Mencarelli, e il suo parere è del tutto condivisibile, non mette in dubbio la buona fede dei notabili eugubini secenteschi, ma ribadisce il fatto che non siano mai state offerte prove chiare, documentate e inoppugnabili a quanto essi testimoniavano di aver saputo. Un gruppo di carte (cc. 22r-46r) ha le dimensioni di mm. 200x140. La maggior parte delle carte ha le dimensioni di mm 220x160. Si tratta della c. 21r, che riporta: “Ricordo del lolo quando gli scrisse Giovanne da Seneghiaglia che si mettesse nel Albero Camillo suo figliolo e Giovanni figliolo di Camillo ma l’Albero si è perso e non si altrova”. L’età dei testimoni (oltre un centinaio), tra cui gli esponenti di note famiglie eugubine come i Biscaccianti, Ondedei, Abati, Marioni, Galeotti, Fabiani, Gioia, Carbonana, Beccoli, Billi, Tondi, Nuti, Pinoli, Mengacci… per citarne solo alcuni, va dai sessanta ai novanta (vi sono anche diversi ultranonagenari). L’elenco di 97 di essi è contenuto in L. Giampaoli, S. Ubaldo Canonico Regolare Lateranense…, cit., I, pp. 274-279. Dopo l’ultima testimonianza del 21 Maggio 1606 è scritto: “Die 27 Julii [o Juni?] 1627. Exhibiti Pinolus Notarius”. 10 SASG, Fondo Armanni, n. 299 [già III A 16], cc. 22r-46r. Tra le numerose ricette si menzionano una Aqua per amazare il mal del verme o formica, a base di arsenico (c. 45v) e un Unguento a base di sego “de becho”, trementina, “cera gialla nova” e “zucaro candido” (c. 46r). Questo ricettario era stato segnalato e mostrato dalla scrivente al compianto prof. Giuseppe Maria Nardelli, esperto di Storia della Farmacia, che a prima vista aveva giudicato le ricette in esso contenute come note, ordinarie e comuni in epoca secentesca. Armanni, potrebbero essere state rilegate insieme per errore e anche in epoca più tarda. Per comprendere meglio il contenuto di tale eterogeneo documento, se ne trascrive di seguito l’Indice11: [c.1r] Racconto che servirà per Indice delle cose contenute in questo Libro. Luca di Pace Baldasini dà diversi ricordi a Pace, et ad altri suoi figlioli l’Anno 1401 scritti di propria mano in carta grossa antica, di carattere pure antico, e d’inchiostro anche antico, come d’antico, e rozo stile all’uso di quei tempi (pag. 1., e 13.) riconosciuto e messo in forma probante da Hippolito Ronconi Pubblico Notaro e Cancelliere della Comunità di Gubbio alla presenza di più Testimoni Nobili della Città; cioè del Sig. Canonico Horazio Marioni, del Sig. Canonico Horazio Raffaelli, del Sig. Conte Francesco Maria Gabrielli, e del Sig. Conte Anton Rinaldo della Branca, il dì 30 d’Ottobre 1670 (pag. 8., e 21.). [c.1v] Di questa scrittura fa menzione in alcuni Ricordi pur a figliuoli Francesco di Luca Baldasini l’Anno 1608 i quali Ricordi sono originali come gli altri Sopradetti del soprannominato Luca, e Scritti di suo pugno (pag. 19., e 84.), riconosciuti, et autenticati dal sudetto Cancelliere alla presenza de’ medesimi Testimoni, il detto mese, et Anno 1670 (pag. 86.) Copia de’ sopradetti Ricordi di Luca di Pace estratti dal suo originale per D. Francesco Tomasoni Sacerdote d’ordine del Canonico Baldasino Baldasini, malato in letto di Podagra, e Chiragra. Il qual Canonico attesta con suo giuramento innanzi a Dio, et in honore di S. Ubaldo d’haver trovata detta scrittura in una cassa fra le altre scritture vecchie della sua Casa custodite [c.2r] con gran gelosia così da lui come dal Patre per scritture veridiche, e che sono loro, e de’ loro Antenati .s. e ch’erano in un libretto di Carta grossa con le coperte .s. dichiarando egli in oltre che di essa scrittura restata di quel libretto faceva presentemente libero dono al Sig. Vincenzo Armanni con altre scritture pur toccanti alla famiglia Baldasina, sperando nella di lui bontà, e diligenza, che fosse per conservarle, acciò che non vadano in sinistro (pag. 17.) Baldasino si trova in detta scrittura, e Ricordi di Luca di Pace capo della famiglia Baldasina, e da gli Anni del figliuolo si raccoglie, che poteva vivere l’anno 950 dell’humana salute (pag. 1,. e 4.) e … [c.2v] Pace figliuolo d’esso Baldasino ivi si dice che fosse marito di Pudenza nata d’Armanno Armanni Conte d’Agello per rogito di Leone Fornari Notaro e Giudice Imperiale l’Anno 1002 (pag. 3., e 15.). Che gli antichi Armanni fossero Conti, e Signori d’Agello, e d’altri Castelli, e luoghi apparisce da instrumenti e memorie alle pag.[non indicata]. Pace dalla sua moglie Pudenza generò Roraldo, et Ubaldo ambedue di molta pietà (pag. 1. e 7. e 13.) e di Roraldo nacquero S. Ubaldo Vescovo di Gubbio, e Sperandia Donna piissima pag. [non indicata]. Di Ubaldo primo nacquero figliuoli de’ quali si diramarono molte schiatte pag. [non indicata]. Baldasino figliuolo di …[non indicato] si trovò a militare in servizio dell’Imperatore Federico [c.3r] Barbarossa l’Anno 1160 e piantò in Germania la sua posterità, che si dice esser in piedi tuttavia col cognome di Baldasini; e scrive il detto Luca che per li dispendi ch’esso Baldasino fece nelle guerre di Terra Santa mandasse in ruina la sua casa di Gubbio pag. [non indicata]. Giovanni l’Anno 1400 in circa si fece in Senigaglia capo della famiglia, che in quella Città ancor hoggi fiorisce col titolo di Conte, e con lo stesso cognome de’ Baldasini (pag. 3. e 15. e 25.) e… Ricordi lasciati a figliuoli da Francesco di Luca Baldasini l’Anno 1608 come si è detto sono scritti di propria mano, e riconosciuti, e messi in forma autentica dal sopradetto Ronconi Cancelliere presenti gli [c.3v] stessi sopradetti Testimoni pag. [non indicata]. [cc. 4r-6v sono vuote]. [c.7r] Si legga alla pagina…[non indicata] di questo Libro che il Sig.r Canonico Baldasini aggravato da infirmità fece dono al signor Vincenzo Armanni di varie scritture Antiche appartenenti alla famiglia Baldasina per mano del Signor Hippolito Ronconi Notaro e Cancelliere della Comunità presenti più testimoni. Il che fece perché dubitando d’havere a morire di quella infirmità pensò d’assicurar le dette scritture in questo modo, essendo che havesse precedentemente pregato il Signor Armanni a voler riporle nell’Archivio che aveva stabilito alla conservazione delle scritture proprie. Ma essendo il Signor Canonico guarito da quella ma= [c.7v] lattia il Sig.r Armanni ritenendo appresso di sé solo i Ricordi di Luca di Pace Baldasini del 1401, i Ricordi di Francesco di Luca Baldasini del 1606, cioè gli originali che si trovano in questo libro alla pagina 1 et alla pag. [non indicata] gli restituì tutte le altre scritture, particolarmente i Privilegi conceduti ai Baldasini dalla Comunità di Gubbio, e da’ nostri Duchi, et una fede di … [non indicata]. Testimoni Cittadini di questa Città, che deposero per provare essere i sudetti Baldasini della schiatta medesima di S. Ubaldo, et esso Signor Canonico ne fece la ricevuta sotto il dì [non indicato]. Si mette in consideratione che il nome di Pace nel sudetto Ricordo di Luca è scritto [c.8r] Pece che si pronuncia con e aperta all’uso di questo Paese, come Peolo per Paolo, amere per amare, greto per grato, e simili. Dee anche sapersi che di Leone Notaro rogito nell’Istrumento della dote di Pudenza del 1002 si trovano altri contratti in Cartapecora antichi di quei tempi negli Archivi di Gubbio. Seppiasi medesimamente che le scritture autenticate come sopra dal Ronconi, Cancelliere della Comunità, si sono da lui registrate nei libri delle Riforme con un Arbore della Famiglia Baldasina, così di Gubbio, come di Senigaglia alla pagina [non indicata]. Il detto Signor Armanni ha descritto l’Historia e Genealogia della casa Baldasina [c. 8v] nel secondo Volume delle sue lettere stampate in Macerata l’Anno 1674, in due dirette al Signor Conte Gentile Carbonana Preposto de’ Canonici di questa Cattedrale alle pagine 338.-344. di detto Volume12. 11 12 La numerazione delle carte indicata tra parentesi quadre e in grassetto è quella attuale. SASG, Fondo Armanni, n. 299 [già III A 16], Baldassini, Memorie originali spettanti a questa famiglia, cc. 1r-8v. Dalla lettura integrale del manoscritto, ma già dal primo approccio con questo Indice, e proprio per come esso è stato formulato, si ricava la netta impressione che l’operazione di redazione e assemblaggio delle Memorie Baldassini sia stata concepita, orchestrata, fatta confezionare da Vincenzo Armanni (1608-1684), in un arco di tempo che, come legge nel manoscritto stesso, va all’incirca dal 1670 al 1674. Ma tutto questo, perché? L’illustre erudito eugubino, certo, potrebbe aver agito perché convinto delle asserzioni dei Baldassini e per salvaguardare i loro interessi, dal momento che essi sostenevano di aver perduto la maggior parte degli strumenti e dei privilegi originali che provavano il loro legame di parentela con il patrono di Gubbio e che la Memoria del 1401 grazie al canonico Baldassino Baldassini, era stata ritrovata fortuitamente “in una cassa fra le altre scritture vecchie della sua Casa custodite”. Tanto vero che, per tutelare ulteriormente la famiglia, nello stesso periodo in cui venivano resi noti e messi insieme i ricordi e le dichiarazioni superstiti, alcune di queste, autenticate, furono anche “registrate nei libri delle Riforme con Giuseppe Reposati, Ritratto di Vincenzo Arman- un Arbore della Famiglia Baldasina, così di Gubbio, come di Senigaglia [sic]” dal ni, Quadreria Comune di Gubbio notaio Ippolito Ronconi13. In diverse persone, però, a Gubbio ormai da diversi decenni, non erano del tutto convinte di quello che i Baldassini affermavano, senza chiare e indiscutibili prove. Le testimonianze dei notabili anziani, copiate nel manoscritto, non a caso forse, datavano aprile e maggio 1606, perché, in effetti, fu proprio in quell’anno che il conte Federico Falcucci aveva pubblicato il suo Vita di S. Ubaldo Vescovo d’Agobbio, in cui affermava14 che Ubaldo apparteneva alla famiglia degli Ubaldini15 e risaliva sempre a quell’anno la lite condotta dai Baldassini contro il medesimo Falcucci16. Va anche rilevato, del resto, che Vincenzo Armanni aveva tutto l’interesse a che l’operazione Memorie Baldassini andasse a compimento, poiché in essa si esponeva in modo lapalissiano che S. Ubaldo era anche tra i suoi antenati. Si tramanda infatti nelle Memorie Baldassini che Pudenza (o Pudenzia), moglie di Pace Baldassini e nonna di Ubaldo, era figlia di un Armanno Armanni, tra l’altro indicato nei documenti datati, come si afferma, dal 100217, quindi già ab antiquo, come facoltoso “Conte d’Agello” e signore “d’altri Castelli”. Come detto, il documento più importante è quello che si sosteneva fosse stato vergato da Luca di Pace Baldassini, il 6 luglio 1401; si tratterebbe dunque dell’atto più antico di tutto l’incartamento. Ma non è così. La scrittura con cui è redatto in effetti mostra caratteri antichi, ma, per come sono vergati e ripetuti, essi appaiono più come una grossolana imitazione di questi, più come una sorta di elementi di un crittogramma, per cui, anche per le affermazioni sostenute, per il lessico e per i contenuti che riporta, sembrerebbe essere palesemente un falso. Qui di seguito se ne Frontespizio dell’opera di F.Falcucci, Vita di S. Ubaldo riporta il contenuto integrale18: Vescovo d’Agobbio, Perugia 1606 13 Ivi, c. 8r. Nelle Riformanze redatte dal notaio Ronconi, nel 1670, di fatto è riportata una “Reintegrazione dei Baldassini di Senigallia nella nobiltà di Gubbio” con un albero genealogico dei Baldassini di Gubbio e dei membri di Senigallia: SASG, F. Comunale, Riformanze, 77, cc. 350r-351v (cc. 369r-370, secondo la nuova cartulazione, riportata a matita). Nell’albero sono riferiti i principali esponenti della famiglia, come menzionati nelle Memorie Baldassini. 14 Naturalmente anche Falcucci non disponeva di prove inoppugnabili. I suoi detrattori sostenevano che gli Ubaldini innanzitutto provenivano da fuori e che al tempo di S. Ubaldo non vivevano a Gubbio. 15 F. Falcucci, Vita di S. Ubaldo Vescovo d’Agobbio, Appresso gli Academici Augusti, Perugia 1606, p. 9. In SASG, Fondo Armanni, n. 299, c. 48r, Francesco Baldassini nella sua Memoria (1608) riferisce: “… con l’aiuto di Dio ho superato ogni cosa sia stata la mia ruina e di noi altri poveri figlioli senza haver hauto un minimo aiuto né da Pace né da quelli di Senegaglia che gli fecci scrivere da sig.ri Panfili quando leticavo con quel maledetto conte Federigo Falcucci risposero che loro non avevano nessuna pretensione sopra questo particolare e non volevano che ne costituise alcuna cosa però lascio qui questo recordo metto a perpetua memoria che mai per alcun tempo non si dichiarino del nostro ceppo havendo lor dichiarato di non esser di questi Baldassini di Gubbio”. Anche in altre parti del documento si fa riferimento con astio agli Ubaldini (cc. 10r, 16v) e ancora al Falcucci (c.11v), secondo la testimonianza di Baldassino Baldassini sul padre Francesco di cui dice che se avesse trovate le carte perdute che affermavano i loro diritti “… avanti la lite del Falcucci non veniaria auto tanti strapazzi, e tanti dispendi…”. 16 Il fatto che le testimonianze dei notabili anziani siano state tutte scritte da una sola mano, e non vergate di loro pugno, come invece si sostiene che essi abbiano fatto, fa pensare che esse siano state copiate nelle Memorie Baldassini e possano quindi provenire dagli atti della lite discussa tra Baldassini e Falcucci. 17 Ma anche questi documenti non sono citati ed esibiti nelle forme giuridiche appropriate. 18 Si fa presente che per rendere più leggibile il brano sono stati messi i nomi propri con la maiuscola, dove non riportata; si è aggiunta la punteggiatura e apposti accenti e apostrofi. Memoria di Luca di Pace Baldassini, SASG, Fondo Armanni, n. 299 [già III A 16], c.9r-10r. Foto fornita dall’Archivio di Stato di Perugia Sezione di Gubbio, su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, con espresso divieto di ulteriore riproduzione (conc. …/2013) [c.9r] A di 6 Luglio 1401. Recordo a miei figoli qualmete Baldassino fo Lolo19 di Baldo il S.to del 1001 come Pece20 fo suo figolo21 e che naque del 1020 et hebbe figoli, ciove22 Roraldo e Baldo, di Roraldo vene Baldo il santo, e Sperandia, de Baldo nene vene Baldasino del 1080 di che hebbe ficoli, ciove Baldo Andrea, ciove Baldo �������������������������� de 1108, Andrea de 1110; de ������������������������������� Baldo ne naque Giobelardino de 1136, e de Andrea Tedoro de 1139; de Giobelardino naque Pece Baldasino, Pece de 1160 e Baldasino de 1162,� che andò a la gera23 con Federico Babarosa in Tera Sata24 che pregò25 tanto che mandò in ruina a la casa e��������������� questo fo de 1188; de Pece ne naque Baldo e Tedoro de��������������������������������������������������������������������������� 1190 e 1192, di Andrea era figolo di Baldo et Giobelardino era figollo de Baldo e di Gonbelado26 ne vene An���������������������������������������������������������������������������������� drea et Baldassino di li di 1236 e 1237 de Baldassino ne vene Tedoro �������������������� Baldo e Pece de 1264 1265 1269 de Baldo Pece e di Teodoro ne vene Badassimo e de Andrea ne vene Giovanne e Todoro de 1299 e Baldassino di 1290 de Giovanne e Todoro, Baldassino e Camilo de 1341 e 1342 e Baldo ne [c.9v] vene Pece di 1295 di Pece ne vene Luca de 1325 de Luca ne vene Pace de 1357 e de Pace ne vene Luca che sono Io, però vi ricordo che l’Arbore antico non vada a male quale è nela casa delle sciture27 però Pece mio figolo cachissimo28 se il sigore Dio fachesse altro de me consevarete agingerete ne Arbore anticho ancora questo che qui è giunto e tenete appresso di voi questj nomi antichi. Recordo che non vi paciate29 nele nemicitie che sono state la ruina de la casa Baldassini e di tuta la cità nostra. Ricordo che Tedoro hebbe di più del mio bislavolo cento setantasette scudi di più come si può vedere da li tumenti30 de le parti che fecero con Baldo mio Bisevolo e io anco ho inteso dire. Recordo che agiungiate nel Arbore tuti quei che nasceranno doppo de voi e de altri che nasceranno al tempo vostro perché vedo che la Casa nostra s’è basata molto, così è piaciuto a Dio el glorioso santo. [c.10r] Ve ricordo che vedite di ricuperare le [carte]31 che sono state portate via dal [Catasto?] perche ci sono delle scritture e antiche di Casa Baldassini. Vi dico di più, che Dona Pudenza figola di Armanno Armanni fo Lola di Baldo il santo e hebbe di Dota mille sette cento forini in tante tere nel teritorio de Agielle come nel istrumenti rogato Ser Lione 19 Lolo forse sta per avolo (avolus= avus), quindi avo. Pece = Pace. Come riferito nell’Indice delle Memorie, c. 8r: “Pece che si pronuncia con e aperta all’uso di questo Paese, come Peolo per Paolo, amere per amare, greto per grato, e simili”. 21 Figolo e più avanti figoli o figolli e ficoli = figlio e figlioli. 22 Ciove = cioè. 23 Gera = guerra. 24 Babarosa in Tera Sata = Barbarossa in Terra Santa. 25 Forse pregò sta per brigò. In un altro passo infatti si dice che questo antenato fece talmente tante spese in quell’occasione che mandò in rovina la casata dei Baldassini (c.3r: “e scrive il detto Luca che per li dispendi ch’esso Baldasino fece nelle guerre di Terra Santa mandasse in ruina la sua casa di Gubbio”). 26 Gonbelado = Gionbelardo. 27 Sciture = scritture. 28 Cachissimo = come si ricava da una copia secentesca del documento (c. 15v), sempre contenuto nel manoscritto, si comprende che la parola doveva essere: carhissimo. 29 Paciate = fate coinvolgere. Nella copia secentesca del documento (c.15 v) è scritto: “non vi pusiate”. 30 Tumenti = strumenti. 31 La parola è stata saltata, ma dal contesto si comprende che possa essere carte o un suo sinonimo. 20 Fornari del 1000 in circa e così e ha inteso dire dal mio babbo e lui di altri suoi antenati della nostra chiatta; di più non vi fidate degli Ubaldini perché fecero abrusciare certi strumenti antichi della Casa Baldassina per quatrini e questo l’ò inteso dire dal lolo, e dal babbo più e più volte però conservarete l’altre scritture rimaste di Casa Baldassini e non si metino più nel archivio del Palazzo perché sariano levate via o abrusciate come le altre et cetera. Tenete celato Govanni e non dite a nyguno dove sia32. Se si fa una attenta lettura di tale documento ogni commento ai diversi contenuti esposti è superfluo, tanto scoperti e chiari risultano gli scopi che i Baldassini da una parte e Vincenzo Armanni dall’altra intendevano raggiungere con esso. L’antenato Luca Baldassini, oltretutto, nell’esporre e difendere gli interessi, anche nei minimi dettagli, delle famiglie Baldassini e Armanni, si rivelava un campione di lungimiranza e, soprattutto, nei confronti degli Ubaldini e dei Baldassini discendenti di Giovanni, trasferiti a Senigallia33, dimostrava di possedere indubbie doti di preveggenza. Gubbio, il 13 giugno 1419, proprio in virtù della loro parentela con il santo vescovo Ubaldo. In questo privilegio del 1638, il documento del 1419 è certo trascritto integralmente, ma, caso strano, facendo riferimento ad una copia di esso, redatta nel 1564. Nel leggere il privilegio di Urbano VIII, quindi, ci si è chiesti perché non fosse stata fatta una diretta citazione delle carte delle Riformanze del 1419, dove doveva essere necessariamente stato trascritto tale privilegio, in quanto rilasciato dal conte Guidantonio e ratificato dalle autorità cittadine. Si è capito poi chiaramente il motivo di tale mancanza: si è infatti scoperto che la serie dei registri delle Riformanze risulta priva proprio dei documenti redatti dal 1416 al 1420 . Viene allora spontaneo domandarsi, se i Baldassini siano stati veramente sfortunati, nel corso dei secoli, con i loro documenti più importanti, tanto gli atti originali, quanto quelli contenuti nelle fonti pubbliche, o se in effetti tali Antiporta dell’opera di B. Tondi, La scuola del governo pastorale documenti siano mai esistiti. (1685) con lo stemma dei Baldassini I Baldassini stessi, però, ancora negli anni ’70 del Seicento, non si sentivano tranquilli e garantiti da quanto affermato, scritto ed esibito, tanto è vero che, pur avendo avuto in precedenza l’appoggio alle loro rivendicazioni del giureconsulto, nonché storico ed erudito Giambattista Cantalmaggi, vollero avere anche quello di un altro dotto, di chiara fama, conosciuto anche oltre i confini cittadini: Vincenzo Armanni, che sposò volentieri, e si comprende bene il perché, la loro causa. (continua) 32 SASG, Fondo Armanni, n. 299 [già III A 16], cc. 9r-10r. Questa vicenda meriterebbe un maggior approfondimento. Dalle dichiarazioni di Francesco Baldassini nel manoscritto delle Memorie risulterebbe che tra i due rami non correva buon sangue, in quanto il ramo marchigiano aveva negato il suo supporto a quello eugubino nella lite contro Falcucci (Ivi, c. 48r). Di fatto, però, nel 1671 i Baldassini marchigiani ottengono la reintegrazione nella nobiltà eugubina, connettendosi all’albero genealogico del casato eugubino e vantando la parentela con Sant’Ubaldo: SASG, Fondo Comunale, Riformanze, 77, c.351v (370v vc). I Baldassini marchigiani poi si erano stabiliti a Senigallia, Iesi, Scapezzano e Pesaro: ma quali furono le effettive relazioni tra loro? Per ragioni di convenienza, a metà ’700, i Baldassini di Pesaro sostenevano di discendere da quelli di Scapezzano e non da quelli di Senigallia e Iesi. Nell’albero genealogico del 1671, però, è indicato che il ramo marchigiano si stabilì innanzitutto a Senigallia con Giovanni. 34 SASG, Fondo Comunale, Riformanze, 70, cc. 30v-33v. 35 è ignoto il motivo di tale assenza di documentazione. Di fatto il registro n.19 delle Riformanze comprende i documenti registrati tra il 1412 e il 1416, mentre il n. 20 comprende quelli dal 1420 al 1422. 36 In SASG, Fondo Armanni, n. 299 [già III A 16], c. 11r, si legga il passo dove Baldassino Baldassini racconta: “Di più Luca nostro antico lasciò scritto alcune cose antiche di Casa nostra ritrovate dalla buona memoria del Babbo, che non si potevano leggere, e le fece leggere dal Signor Conte Gio. Battista Cantalmaggi e disse, che erano [cancellato: bolle, e che] scritture antiche di Casa nostra, che erano belle, e che tenesse in conto, che sono in un libretto di carta grossa con le coperte, e che il Patre di Luca ci eva scrito di sua mano non so che di antichità de’suoi Antenati”. 33 10 L’ANTICA CHIESA DI S. FELICISSIMO Filippo Paciotti 1. Sant’Ubaldo e la chiesa di san Felicissimo topografia eugubina e umbra in generale, i segni della continuità con l’antico debbano essere considerati una realtà e non una remota fantasia. La vicenda terrena di sant’Ubaldo si intreccia con la chiesa di san Felicissimo a causa di un atto firmato dal vescovo eugubino il 7 maggio 1160, a pochi giorni dalla sua morte. Si tratta della concessione di privilegi che vengono offerti al priore e al sacerdote della chiesa, nonché ai loro successori. Due sono in particolare le prerogative attribuite: la possibilità di seppellire presso la chiesa di san Felicissimo e la libera facoltà di intervenire, scomunicare e correggere i propri parrocchiani. Queste particolari concessioni non solo sono immutabili ma chiunque si opponga ad esse è passibile di scomunica. Il redattore specifica inoltre che i vescovi suoi successori, in perpetuo, non potranno modificare tale decreto. Questi privilegi verranno riconfermati dal pontefice, papa Alessandro III intorno al 1161 e dal vescovo Offredo nel 1184. Ciò ad evidenziarne l’importanza e l’inalienabilità. Questo atto ebbe importanti effetti sulla chiesa extraurbana soprattutto nella concessione di seppellire nell’area. Sicuramente l’avvallo dato dal santo vescovo eugubino ratifica una prassi già ampiamente in uso, la cui antichità non sappiamo se fosse nota ai contemporanei di S. Ubaldo. è certo tuttavia che quest’area risale fino all’età romana, come ci attestano le numerose iscrizioni funerarie La chiesa di S. Felicissimo, oggi ivi rinvenute. Il decreto del vescovo aprirà la strada non solo ad una nuova fase della funzione cimiteriale ma di conseguenza alla sua permanenza fino ad oggi. Questa continuità funzionale è stupefacente e contribuisce ad ampliare l’importanza del sito e a comprendere quanto spesso, nella 2. La leggenda del Santo La titolazione della chiesa richiama alla memoria un arcaico passato. San Felicissimo nacque a Mosciano, vicino alla città di Nocera, ed era figlio di un agiato possidente; venne inviato fin da bambino nel monastero di S. Eutizio, presso Norcia, dove fu istruito. La sua sapienza profonda lo portò a predicare agli stessi monaci del cenobio. Raggiunta un’età matura, il padre lo indusse a tornare a casa, ma qui entrò in conflitto con la famiglia, in quanto era solito distribuire ai poveri tutto quello che gli veniva dato; temendo il depauperamento del suo patrimonio, più volte il padre cercò di fermare la prodigalità del ragazzo, finché il genitore lo percosse e il santo, per sfuggire all’ira paterna, andò a vivere lontano da casa come pastore. Si rifugiò nel luogo del suo primo miracolo, avvenuto piantando in terra un bastone da pellegrino, che miracolosamente iniziò ad emettere germogli; in quel luogo egli restò conducendo vita eremitica in un piccolo rifugio eretto dai coloni della zona, fino a quando si diffuse la venerazione popolare per la sua santità. Un altro miracolo che riguarda il santo è la circostanza prodigiosa per cui, a causa delle sue preghiere, scaturì da terra una limpida fonte d’acqua. 3. La diffusione del culto a Gubbio Il culto ebbe una rapida diffusione in età altomedievale e, oltre a Nocera, anche a Gubbio venne eretta una chiesa in sua memoria. Il canonico Pio Cenci riporta la tradizione per cui, nel luogo della chiesa, fosse già presente un tempio pagano dedicato alla dea Vesta, com’è testimoniato da un’iscrizione che riportava la dicitura: TEMPLUM DEAE VESTE. Secondo lo storico, questa iscrizione, veduta già da vari eugubini, doveva trovarsi alla sinistra dell’altare maggiore nel pavimen- P. Cenci, Carte e diplomi di Gubbio dall’anno 900 al 1200, Perugia, 1915, pp.196-197. L. Braca, F. Faramelli, Il vescovo eugubino Ubaldo concede l’esenzione ed ampi privilegi alla chiesa di S. Felicissimo in Quaderni Ubaldiani, anno III, n.5, 2012, pp. 9-10. P. Cenci Carte e diplomi..., p. 199. Ibid., pp. 294-295. Diversi reperti sono stati ritrovati e descritti in M. Matteini Chiari, Museo Comunale di Gubbio. Materiali archeologici, Electa Perugia, 1995. Esattamente, una lastra con iscrizione funeraria, scheda 14, p. 99; un cippo funerario, scheda 51, p. 117; un cippo funerario ‘ad ara’, scheda 55, p. 120; una stele funeraria (frammentaria), scheda 35, p. 109; tutti provenienti da o nelle vicinanze della chiesa di S. Felicissimo. Infine vanno ricordati un frammento di coperchio di sarcofago con una figura di ariete marino, scheda 100, p. 148 ed altre due iscrizioni presenti: una nell’angolo nord della chiesa, inserita nella muratura esterna, e l’altra scolpita su di un frammento di sarcofago, all’interno di una tabula ansata, inserito nel pavimento originale della chiesa nella sua fase romanica. ‘Iacobilli pone la nascita circa l’anno 1070 e l’anno della morte appena dopo il quarto lustro (15 luglio 1092). Però propenderei per una data anteriore, se si considera l’antichità delle due chiesette a lui dedicate, tanto nel territorio Nocerino, come pure in quello di Gubbio.’ in Pio Cenci, San Felicissimo di Nocera-Umbra: leggenda e memorie del suo culto, Roma, 1906, pp. 23-24. Ibid., p. 51. 11 to, ma andò smarrita durante i restauri fatti circa l’anno 1854. Inoltre il nostro studioso parla di un’altra iscrizione mutila e adibita ad uso di architrave interno in una finestrina spettante al sec. XI, e che io non trascrivo qui, perché non mi è riuscito cavarne senso alcuno; anche questa iscrizione è andata perduta. Da un testo conservato nell’Archivio diocesano di Gubbio, abbiamo memoria di un’ulteriore iscrizione, di cui si parla nel cod. II C 1, che tratta del protocollo di un notaio chiamato Durante, consegnato a Mons. Vincenzo Massi, vescovo di Gubbio. Il codice sulla coperta in pergamena riporta una memoria, datata 1846, dei vari passaggi subiti dal volume; all’interno si trova tra le altre cose un testo interessante che parla dell’epigrafe: “Da un libretto del Signor Francesco Maria Bernardini. Nel pavimento della chiesa di S. Felicissimo a canto dell’altar maggiore della mano sinistra si trova una pietra grande, dove si legge la seguente iscrizione: D. M./PAETILIE/PRIMOGENIE/TIBERIUS/CLAUDIUS/CARPUS/CONIUGI OPTIME bottone rilevato nel mezzo. Il motivo a edicola contenente la croce greca è attestato nel IX sec. soprattutto a Roma, ma anche nell’alto Adriatico e con qualche riscontro in Umbria, come in una lastra di pluteo dalla chiesa di S. Maria degli Angeli, e da una lastra dalla chiesa di S. Lorenzo a Spello. è stata proposta dagli studiosi una datazione fra la fine dell’VIII e gli inizi del IX secolo.12 Frammento di sarcofago bizantino (VIII - IX sec.). 4. La storia della chiesa Dello stesso periodo sono i 5 frammenti di plutei nei muri perimetrali dell’edificio sacro che presentano un ornato a treccia di nastri viminei bisolcati con nodi. Vi sono inoltre un frammento di pilastrino, decorato su due facce, uno di un architrave, due di decorazioni architettoniche varie che presentano motivi con cerchi annodati contenenti rosette, bottoni rilevati o cerchi intersecati e rombi annodati. Infine ricordiamo un frammento di coperchio di sarcofago in calcare con raffigurata una croce latina palmata, che all’intersezione dei bracci presenta un cerchio con bottone a rilievo, anch’esso è inserito nel muro del braccio sinistro del transetto. La fase altomedievale della chiesa è attestata soprattutto dalla presenza dei plutei e del pilastrino che dovevano decorare l’interno di una chiesa. Tali reperti attesterebbero la presenza già in quella fase di un sepolcreto vicino alla chiesa, com’era in uso in quel periodo storico. Un caso analogo più vicino è quello della chiesa ad aula unica absidata, con vicino il sepolcreto con otto tombe rinvenute nel 1928, presso la Porta degli Ortacci dallo Stefani.13 La chiesa continuò ad essere frequentata dai fedeli fino alla seconda metà dell’800 mantenendo non pochi privilegi e indulgenze nei confronti dei fedeli in tutti i lunedì dell’Anno dove si celebrano alcune messe... ed in specie il giorno dei morti e suo Ottavario.14 Quando nel 1884 fu inaugurato il cappellone del nuovo Cimitero comunale la chiesa di san Felicissimo fu chiusa e lasciata al degrado. Nei primi decenni del XX secolo crollò il tetto e in seguito il locale fu adibito a deposito di attrezzi agricoli. Nel 1982 per intervento del presidente dell’Azienda di La chiesa è ubicata all’inizio della periferia sud-est di Gubbio, alle spalle dell’attuale Cimitero comunale. In merito alla storia dell’architettura di questo edificio, hanno scritto diversi studiosi, i quali confermerebbero quanto scritto da Pio Cenci: L’architettura nel suo complesso è propria dei secoli X e XI10. La chiesa si trovava probabilmente lungo una strada di origine romana. La via era disseminata di sepolture di epoca tardo romana ed era nota in un documento del 1491 come via vetus. Dalla chiesa provengono diversi reperti funerari fra i quali un cippo rinvenuto extra ecclesiam sancti Felicissimi[...] in muro ad dextrum cornu risalente al periodo tardo repubblicano e protoimperiale.11 A testimonianza dell’uso cimiteriale del luogo in epoche successive ricordiamo un frammento di sarcofago in pietra calcarea (ora conservato nel Museo Civico - Palazzo dei Consoli) scolpito su due registri: in quello superiore si trova una decorazione consistente in croci greche con estremità a volute, collocate in tre edicole; in quello inferiore si snoda Cippo funeraio di epoca romana (I sec. a.C.) un motivo a treccia di nastro vimineo bisolcato con un Ibid, p. 51. Archivio Diocesano Gubbio (ADG), cod. II C I. R. Pardi, Ricerche di architettura religiosa e medievale in Umbria, Perugia 1972. I. Moretti e R. Stopani Architettura romanica religiosa a Gubbio, Firenze 1973; G. Binazzi, Le origini della parrocchia rurale nella Diocesi di Gubbio (IV-VIII secolo), in Bollettino d’Arte, serie VI, 2005, n.133-134. 10 Pio Cenci, S. Felicissimo..., p. 52. 11 M. Matteini Chiari (a cura di) Museo Comunale..., cit., scheda 51, p. 117. 12 Ibid, scheda 617, pp. 410-11. M. Matteini Chiari (a cura di), Museo Comunale... scheda 617 pp. 410-11 14 ASG., Fondo S. Pietro e chiese soggette, ex fondo delle Corporazioni religiose soppresse, coll. III 26.20. 13 12 Soggiorno e Turismo, Ubaldo Palmi, con l’aiuto tecnico dell’arch. Giovanni Venturini della Soprintendenza dell’Umbria, si arrivò al recupero. Grazie all’opera sagace di un artigiano del luogo, Carlo Pierotti, si provvide a ricostruire il tetto e a ‘ricucire’ i muri portanti e rinforzare le romaniche volte.15 Da quell’anno iniziò la rinascita del sacro La chiesa nel totale degrado (1972) tempio. Successivamente seguirono altri interventi sempre più interessanti che portarono a nuove scoperte. assolutamente unica. Il fatto che la città si sia stratificata all’interno degli stessi contesti territoriali, dall’età umbra a quella medievale, fino ai giorni nostri, è stato motivo di un continuo ciclo di ricostruzione ma anche di obliterazione, per cui molte fasi della sua storia urbanistica non ci sono più visibili. Questo vale in particolar modo per la tardoantichità e l’altomedioevo. L’unicità di san Felicissimo sta nell’essere un contesto suburbano che ha potuto conservare molto di questa fase storica, altrimenti scomparsa nella maggior parte del territorio eugubino. è dunque prioritario mettere in luce tutte le memorie che ancora probabilmente si trovano nell’area circostante la chiesa, ampliando la superficie degli scavi archeologici. Il profondo valore che tanti storici e studiosi hanno dato a questa chiesa, è una prova ulteriore della sua rilevanza. Va evidenziato come nel passare degli ultimi cento anni o poco più, le istituzioni hanno, con solerzia, speso risorse ed energie per recuperare la struttura in ogni sua parte e si siano impegnati anche nella ricerca e nella sua valorizzazione. L’opera di riqualificazione esterna è stata notevole, in particolare nell’area dietro all’abside della chiesa. Un percorso molto interessante e suggestivo che è quasi completo nelle sue parti strutturali. La presenza di un numero cospicuo di tombe, è motivo di sicuro interesse, non solo per gli studiosi, ma per chiunque voglia approfondire la comprensione della centralità che questa chiesa ha rivestito nel tempo per l’intera comunità eugubina, per la sua spiritualità e per le tradizioni che ne seguirono. 5. I ritrovamenti archeologici del 2008 Gli scavi effettuati dai dott. archeologi Filippo Paciotti, Luca Donnini e Barbara Venanti, nel periodo fra il 20 e il 22 Agosto 2008 riguardano due tombe, di cui una reimpiegata in una seconda fase come ossario. Vennero ritrovate due monete in pessimo stato di conservazione. Ai fini di una più puntuale datazione dei manufatti, lo studio delle due monete e dei frammenti ceramici rinvenuti nel terreno assieme alle ossa, potrebbe fornire agganci più esatti (verosimilmente dovremmo trovarci tra la seconda metà del XII e il XIV secolo). Infine la tecnica di costruzione delle due tombe cosiddetta ‘a cassone’ con lastre di pietra calcarea, assai diffusa in tutta l’età medievale, sembrerebbe avere, ad una prima analisi, stringenti analogie con quella utilizzata per le tombe rinvenute posteriormente ed esternamente all’abside pertinente alla fase romanica della chiesa. La mancanza di corredi, la presenza di elementi che rimandano esclusivamente ad epoca basso medievale ed il perfetto orientamento delle tombe con la facciata della chiesa romanica, avvalorano una datazione non eccessivamente alta. Sicuramente la presenza delle tombe si deve agli effetti della concessione fatta dal vescovo Ubaldo. Foto F. Paciotti - 2013 Quindi sarebbe incomprensibile, in anni di così profonda crisi, non dare conclusione ai pochi lavori necessari a rendere fruibile questo monumento fondamentale per la storia della città. 6. La valorizzazione del sito L’importanza di questo sito nella storia della città di Gubbio, in particolare nella sua fase tardoantica e altomedievale, è L’interno oggi, dopo gli ultimi lavori (2008) 15 Giorgio Gini, Restaurata la chiesa di san Felicissimo, in ‘Messaggero’ 1 dicembre 1982. 13 L’arca vecchia di Sant’Ubaldo da reliquario a reliquia COME FU SALVATA L’ANTICA ARCA DI SANT’UBALDO Francesco Mariucci Nel 1726 il corpo incorrotto di Sant’Ubaldo venne collocato nella cosiddetta arca nuova, un moderno monumento funerario aggiornato secondo il gusto barocco romano. L’urna, rivestita in rame e dotata di due angeli in bronzo, sostituì l’arca vecchia, il sarcofago ligneo a capanna che aveva conservato la reliquia del patrono per ben quattro secoli. La storia dell’arca vecchia, come preziosa memoria ubaldiana, inizia in questo frangente. Si riteneva, infatti, che il corpo del patrono avesse trasmesso parte della sua potenza miracolosa allo stesso contenitore, che dunque assunse lo status di vera e propria ‘reliquia’. Il manufatto fu allora riposto in un qualche ambiente della Basilica di Sant’Ubaldo dove rimase fino al 1876 quando Luigi Carattoli, membro della Commissione Artistica della Provincia dell’Umbria, la censì come oggetto storico-artistico di valore segnalandola proprio nei locali della chiesa di Sant’Ubaldo: L’episodio è di grande importanza per la storia di Gubbio, anche perché si colloca in un momento davvero drammatico, caratterizzato da un costante flusso di asportazioni e vendite di oggetti d’arte locale. Questo e altri manufatti in legno, prodotti d’arte cosiddetta ‘minore’, furono infatti riabilitati, sul piano critico, proprio a partire dalla metà dell’Ottocento, quando una nuova considerazione fu rivolta alle arti industriali, determinando, nella coscienza civica degli eugubini, un impulso di malcontento per la loro improvvida dispersione. Grazie a questo scatto di orgoglio la cassa di Sant’Ubaldo rimase di proprietà comunale. Nel 1888 fu trasferita presso la Pinacoteca, posta nella residenza municipale di Palazzo Pretorio, e adeguatamente restaurata dall’intagliatore eugubino Raffaele Toscanelli. Segnalata nelle guide di Gubbio di Laura McCracken e di Arduino Colasanti, nel 1915 è perfino citata da Paul Schubring, uno studioso tedesco che si interessava di cassoni dipinti rinascimentali. «prossima alla Sacristia vedesi sopra un armadio un’arca di legno ricca di riquadrature con il coperchio ad angolo acuto abbellita di fondi a colore e dorature. Questa è quella che accolse prima di tutte le spoglie mortali di S. Ubaldo, e rimonta al secolo XIII». Nel 1920 l’arca era già passata nella chiesa di Santa Maria Nuova ormai sconsacrata, che il comune di Gubbio aveva progettato di usarla per esporre «una raccolta di cimeli d’arte sacra, tolti da altre chiese». Censita da Giuseppe Cantelli nel 1973 come uno dei «rari manufatti in legno che ci sono pervenuti» del Trecento umbro, l’arca è stata restaurata da Alberto Polidori di Perugia nel 1982 e successivamente sistemata, nel 1997, all’interno della Basilica di Sant’Ubaldo. Solo recentemente ha trovato degna collocazione presso la Raccolta delle Memorie Ubaldiane organizzata nei locali attigui al chiostro della stessa Basilica. Nel 1884 l’arca vecchia fu trasportata in una sala del Palazzo dei Consoli. In questa nuova sede destò la curiosità degli eugubini che, forse per la prima volta, poterono scrutare all’interno, attraverso la grata di ferro, i dipinti fondo oro posti all’estremità della cella funeraria. Fu allora oggetto di interesse da parte di un antiquario eugubino, Antonio Angeletti, un nome noto nell’ambiente dei mercanti d’arte locale. Angeletti avanzò richiesta di acquisto dell’arca al Consiglio Comunale che però espresse parere contrario alla vendita dichiarando Appendice documentaria «Questo giorno di lunedì 28 aprile 1884. Presidenza dell’On. Sig. Conte Carlo Fabiani, assessore facente funzione di Sindaco. Adempiute le formalità... si venne alla discussione delle proposte rimaste inevase, come al relativo ordine del giorno... Oggetto 9. Domanda di Antonio Angeletti per la vendita dell’antica Arca del patrono Sant’Ubaldo. A questo punto è sopraggiunto il consigliere Sig. M.se Giovanni Barbi (votanti n. 9). «non essere cosa decorosa per il Municipio di disfarsi di un oggetto antico, massimo in un’epoca in cui per le vendite fatte dei privati si lamentava che la nostra Città perdeva tutte le memorie antiche». L’arca nuova è oggi collocata presso l’abside di sinistra della Basilica di Sant’Ubaldo. ASSU (Perugia, Archivio Storico della Soprintendenza ai monumenti e alle gallerie dell’Umbria), AGCM (Archivio Guardabassi, Carattoli, Moretti), IX, fasc. 5, n. 6. Cfr. F. Mariucci, In più elegante forma. L’arte del legno a Gubbio nella seconda metà dell’Ottocento e i Ceri novi, in T. Biganti (a cura di), Lo stupore e la meraviglia. I Ceri di Gubbio. Cronaca di un restauro, Perugia 2011, p. 33. Per l’atto vedi l’Appendice documentaria in calce a questo breve saggio. Sul caso dell’acquisto di una statua raffigurante Francesco Maria I della Rovere da parte di Antonio Angeletti, fortunatamente recuperata dal Ministero della Pubblica Istruzione (ed oggi esposta presso il Museo di Palazzo Ducale) cfr. P. Castelli, Il Museo di Gubbio dal periodo postunitario al primo Novecento, in P. Castelli, S. Geruzzi (a cura di), Il Museo di Gubbio. Memoria e identità civica 1909-2009, Atti del Convegno di Studio (Gubbio 2009), Pisa-Roma 2012, pp. 36-38. SASG, Fondo Comunale, Allegati Contabili, 1888 b. 1, n. 228. SASG, Fondo Comunale, Allegati Contabili, 1888 b. 1, n. 225. L. Mc Cracken, Gubbio, past and present, London 1905, p. 127; A. Colasanti, Gubbio, Bergamo 1905, p. 20. P. Schubring, Cassoni. Truhen und Truhenbilder der italienischen Frührenaissance. Ein Beitrag zur Profanmalerei im Quattrocento, Leipzig 1915, p. 337�. P. Guidi, Lavori in S. Agostino di Gubbio, in “Cronaca delle Belle Arti (Supplemento al «Bollettino d’Arte»)”, VII (1920), 1-4, pp. 30-32. G. Cantelli, Il mobile umbro, Milano 1973, p. 7. 14 IL PRIORE UBALDO NON VOLEVA FARE IL VESCOVO Adolfo Barbi L’ articolo di don Angelo Fanucci nel precedente Quaderno Ubaldiano mi ha stimolato ad approfondire il problema: non mi convince troppo che gli eugubini (laici ed ecclesiastici) avessero fatto una opposizione durissima al priore Ubaldo nel momento della elezione del vescovo. Ho riletto attentamente i documenti disponibili, in particolare le due Vite scritte da Giordano e da Tebaldo. L’antica arca di sant’Ubaldo 1126: i Perugini designarono Ubaldo a loro vescovo, ma Lui rifiutò Il Sig. Presidente ha esposto che il Sig. Antonio Angeletti ha fatto verbale richiesta per ottenere in vendita l’antica Arca di legno, ove riposò il Corpo del Patrono S. Ubaldo che ora trovasi custodita in una sala del palazzo dei Consoli. A chiarimento della proposta ha rammentato che altra volta fu presentata eguale richiesta sulla quale il Consiglio non volle pronunciarsi, dacché ritenne non essere cosa decorosa per il Municipio di disfarsi di un oggetto antico, massime in un epoca in cui per le vendite fatte dei privati si lamentava che la nostra Città perdeva tutte le memorie antiche, che la rendono illustre fra le altre. Il consigliere Sig. Nanni-Seta [Giulio], presa la parola, si associò pienamente alle osservazioni già esposte, ed aggiunse inoltre che la vendita dell’Arca, la quale non solo per la sua antichità ma anche per le tradizioni religiose costituisce un oggetto per molti pregevole e rispettato, sarebbe forse sinistramente interpretato come sfregio cioè alla pubblica credenza. Osservò egli, o l’Arca per la sua antichità e per il lavoro ha realmente un pregio, e non conviene al Comune, come già si è osservato, di privarsene per decoro del Paese, o questo pregio intrinseco non esiste ed in tal caso non sarebbe cosa ben fatta per un meschino guadagno offendere l’opinione della maggior parte del Popolo, il quale attribuisce alla medesima un pregio sotto l’aspetto religioso, opinione che in ogni modo deve essere rispettata. Il parere del Sig. Nanni risultando appoggiato, venne ad unanimità approvato il seguente ordine del giorno dal medesimo presentato. Dopo la morte di Gennaro, vescovo di Perugia, il clero e il popolo lo acclamarono loro vescovo e inviarono una delegazione a Gubbio. Il priore Ubaldo non si fece trovare: fuggì segretamente e si nascose in un eremo sperduto lungo il crinale appenninico (inter ambas partes). Trascorso un certo tempo, per non fare una magra figura al cospetto delle autorità ecclesiastiche, egli ritornò nella sua canonica, di soppiatto, senza farsi notare. Ben presto si accordò con quattro suoi chierici e andò a piedi, senza l’ausilio di alcun mezzo di trasporto, a Roma (180 km!) per conferire con il Papa Onorio II. Gli si presentò umilmente e in tutta semplicità… lo scongiurò di annullare la sua elezione a vescovo. Si servì, per convincerlo, anche di alcuni cardinali della curia romana. Perché Ubaldo rifiu- La chiesa dei SS. Andrea e Gregorio al Celio tò un posto così am- a Roma, dove Onorio II soggiornò fino alla morte bito, quando tutt’intorno c’erano canonici, abati, monaci pronti a sgomitare per arraffare un boccone così prelibato? Vescovo, diventare vescovo. Questo sì ch’è vivere! Lui, no. Non lo voleva fare. Era talmente deciso che aveva proteso quella mano verso l’altare del Signore, giurando su quei santi Pegni che non avrebbe mai accettato l’infula pontificale. Nella vecchiaia quella mano diventò insopportabilmente dolorosa, come se Cristo gli volesse ricordare quel lontano spergiuro. Rifiutò perché non amava minimamente gli onori. E poi quella proposta venuta dai perugini aveva qualcosa di poco chiaro. Una città che mirava, con l’aiuto dei feudatari confinanti, di mettere le mani su un territorio così vasto e punteggiato di pievi e chiese, non gli andava giù. Il Consiglio dichiara di non potere cedere in vendita l’antica Arca del Patrono Sant’Ubaldo, e quindi passa sulla domanda Angeletti all’ordine del giorno». Tebaldo, La ‘vita secunda’ di sant’Ubaldo in Quaderni Ubaldiani, I n. 2 dicembre 2010, p. 18. Giordano, La ‘vita prima’ di sant’Ubaldo in Quaderni Ubaldiani, I n. 1 aprile 2010, p. 4. SASG, Fondo Comunale, Atti del Consiglio, vol. X, 1884-85, pp. 39-40. 15 1129: il Papa lo costrinse ad accettare l’incarico di Vescovo di Gubbio Foto G. Rossi - 2013 Prima di Ubaldo, vescovo di Gubbio era stato eletto Stefano. Da un atto di donazione del giugno 1127 egli era ancora in vita. Non si sa esattamente quando morì perché le donazioni al vescovo non avvenivano tutti gli anni. Certamente non prima del marzo 1128 quando ancora Ubaldo era priore della canonica e non dopo il novembre 1129, quando in un atto notarile figura priore Barunzio. Non sappiamo quindi quanto durò la vacatio: forse poco più di un anno. Don Angelo sostiene che dopo la morte di Stefano l’opposizione all’elezione di Ubaldo Baldassini fu durissima. Non certo da parte del popolo. Altrimenti come si spiegherebbero le numerose donazione alla canonica di S. Mariano e Giacomo durante la sua reggenza? In due documenti viene citato con il vezzeggiativo di Ubaldino; il che sta a significare l’affetto della gente comune. Il popolo l’amava ma, come si sa, contava ben poco. Chi decideva era la casta di allora: gli abati di Fonte Avellana, dei monasteri di S. Pietro e di Donato di Pulpiano, tutti aspiranti a diventare vescovi. Non mancavano fra i grandi elettori le famiglie più influenti della città: i Guelfoni, i Salinguerra, i Gabrielli, i Bentivogli. Giordano scrive: Tra gli eugubini non si raggiunse l’accordo sulla designazione di un presule appartenente alla giurisdizione vescovile cittadina. Tebaldo conferma: Nel clero eugubino non si raggiunse l’accordo sull’elezione del successore. Da entrambi non c’è alcun riferimento al priore Ubaldo. Come Ubaldo vide che i litigi in città si allargavano a macchia d’olio non tanto sul suo nome ma sugli ambiziosissimi presuli, prese l’iniziativa di mettersi a capo di una delegazione e ritornò a Roma per convincere Papa Onorio a nominare un degno prelato della curia vaticana. Il suo intento era quello di stroncare i contrasti a Gubbio. Ma il Papa, che aveva apprezzato nel primo incontro le qualità spirituali di Ubaldo, lo ascoltò benignamente. Poi negò risolutamente agli Eugubini un vescovo che venisse dalla Curia Romana e ordinò loro di accettare come vescovo il Beato Ubaldo…che CONTRO LA PROPRIA VOLONTA’ accettò la cattedra pontificale…. Ecco, Ubaldo non poteva rifiutare le parole del Papa, ma in cor suo non voleva fare il vescovo. Se ben si considera, c’era in lui un certo spirito eremitico, piuttosto diffuso in quell’epoca. Lo testimoniano le diverse frequentazioni a Fonte Avellana, dove Tebaldo, suo successore, lo conosceva troppo bene. Egli scrive: Basilica di sant’Ubaldo: vetrata absidale Ubaldo si cibava con estrema parsimonia, indossava vestiti striminziti, più idonei ad incrementare il freddo che a tenerlo lontano, come giaciglio usava un pagliericcio semivuoto, un piccolo sacco modesto... ed una coperta risicata. Era l’esatto opposto dei vescovi di quel tempo: corpulenti, pomposi, avidi e pronti ad accettare ricche prebende e onori, bramosi di comandare con cipiglio e di lanciare scomuniche a destra e a manca. Concludo con le parole di quel grande studioso che fu don Pio Cenci: Ubaldo non chiedeva ricchezze, non domandava onorificenze; voleva solo restare accanto ai suoi confratelli, vivere nella sua canonica all’ombra del santuario dove aveva pregato da bambino, dove lo legavano tanti cari ricordi, dove posavano le ceneri dei martiri Mariano e Giacomo. P. Cenci, Carte e diplomi di Gubbio dal 900 al 1200, Perugia 1915, p. 100. P. Cenci, Carte e diplomi..., op. cit., p. 103. P. Cenci, Carte e diplomi..., op. cit., p. 107. Angelo M. Fanucci, Quando Ubaldo prese a reggere la Chiesa di Gubbio per i secoli, in Quaderni Ubaldiani, IV, n. 6, giugno 2013, p. 4. Giordano, La ‘vita prima’..., op. cit., p. 12. 16 Tebaldo, La ‘vita secunda’, op. cit., p. 19. P. Cenci, Vita di sant’Ubaldo, vescovo di Gubbio, Gubbio 1924, p. 57. LA LETTERA DI BENEDETTO XII NELLA STORIA DI THANN infatti le sue origini risalgono almeno al X secolo. Il diritto di nominare il curato apparteneva al Capitolo di Saint Amarin8. All’inizio, la chiesa di Saint Thiébaut di Thann era una semplice filiale, condizione che dovette conservare per lungo tempo. I miracoli che Saint Thiébaut continuava ad operare attirarono pellegrini sempre più numerosi: è questo certamente il motivo che aveva spinto Pierre Hagge9 a chiedere al pontefice delle particolari indulgenze per loro. Si hanno notizie infatti dell’arrivo a Thann nel 1357 di pellegrini provenienti da Lubecca, nel Saint Thiébaut , portale nord della 1368 da Kiel, nel 1371 da Collegiata (sec. XV) Amburgo, nel 1378 da Salisburgo10. Siamo in un periodo immediatamente successivo alla lettera pontificia ed il pellegrinaggio alla chiesa di Saint Thiébaut era ritenuto, tra tutti quelli alsaziani, il più importante. Nei primi tempi, la diffusione del culto di Saint Thiébaut era stata favorita certamente dalla particolare posizione geografica di Thann, tappa importante sulla strada internazionale che collegava l’Italia ai Paesi Bassi. Questa strada, d’epoca romana, era molto frequentata soprattutto dopo l’apertura dei valichi del S. Gottardo e del Sempione (circa 1220)11, ed i mercanti che vi transitavano avevano contribuito a portare lontano il nome di Saint Thiébaut. In seguito, nel XV sec., sebbene la strada cominciasse ad essere abbandonata dal traffico internazionale, l’aumento dei pellegrini continuò ad assicurare la prosperità della città e la costruzione della chiesa12. Ritengo comunque che si debba soprattutto alla lettera di indulgenze di Benedetto XII il grande movimento di pellegrini che permise ai Tannesi di costruire, con le offerte ricevute, la chiesa dedicata al Santo. Si tratta di un’opera di stile gotico: primitivo a destra, ornato nel coro e nella navata centrale, ‘fiammeggiante’ (flamboyant) nella navata di sinistra e nella torre campanaria, ritenuta una delle più belle di Francia, anche se di modeste dimensioni. La presenza dei pellegrini è attestata da un antico manoscritto il ‘Tomus miraculorum sancti Theobaldi’ dove per primo il parroco-canonico Nicolas Wolfach trascrisse i racconti dei miracoli per intercessione di Saint Thiébaut. Vi si trovano le descrizioni di 216 fatti prodigiosi avvenuti tra il 1405 e il 152113; questo prova che molti pellegrini arrivavano a Thann per chiedere una guarigione, una protezione o più semplicemente per testimoniare riconoscenza. Le numerose offerte in denaro o in oggetti preziosi (come suggerito Paolo Salciarini Nella storia di Thann assume notevole rilevanza la lettera del Papa Benedetto XII1, con la quale nel 1340, da Avignone, venivano concesse particolari indulgenze ai pellegrini che raggiungevano quella località e visitavano una delle due chiese della zona: la chiesa di Notre-Dame a Vieux-Thann e la chiesa di Saint Thiébaut Henri Segur (sec. XVIII) a Thann. Papa Benedetto XII Tale città, a m. 343 di altitudine, si era sviluppata attorno alla piccola borgata sorta per il pedaggio imposto ai viandanti e ai mercanti che i Conti di Ferrette, signori del luogo, avevano stabilito all’entrata della vallata del fiume Thur. La vallata, attraversata da una strada a traffico internazionale che collegava l’Italia del nord ai Paesi Bassi, si trova incastonata tra due contrafforti rocciosi: lo Schlossberg (444,8 m. alt.) e lo Staufen (525 m. alt.) e la collina di Rangen, (607 m. alt.), oggi tappezzata da vigneti, i più rinomati della zona. In questa vallata arrivò stanco il servitore di S. Ubaldo e qui si fermò per riposare, con un prezioso fardello nascosto nel pomo del bastone: ciò ha dato origine alla poetica leggenda sulla nascita della suggestiva cittadina alsaziana. Stemma della città di Thann La storia di Thann ci racconta che nella piccola borgata esisteva già dal 1287 una chiesa dedicata a S. Thiébaut2, attorno alla quale sorsero ben presto un villaggio, poi una borgata, che crescendo si trasformarono anche con fortificazioni per opera soprattutto del Conte Thibaut di Ferrette. Lo sviluppo della nuova borgata fu così rapido3 che nel 1290 le fu riconosciuto il titolo di città4. è lo stesso conte che nel 1297 donò un terreno ai francescani per costruirvi un convento5. La preziosa reliquia (particula digiti) lasciata dal servitore di S. Ubaldo fu conservata, in attesa della costruzione dell’apposita cappella, presso la chiesa dedicata alla Madonna nel vicino paese, Vieux-Thann. Questa breve premessa è doverosa per comprendere meglio i destinatari della lettera di Benedetto XII. Fino alla Rivoluzione francese, infatti, Thann6 e Vieux-Thann hanno formato una sola ed unica parrocchia compresa nel territorio diocesano di Basilea7. La chiesa di Notre-Dame di Vieux-Thann è molto più antica della chiesa di Thann; 17 nel rescritto papale)14, permisero la costruzione della Collegiata, e ciò avvenne a più riprese in un periodo di due secoli, a partire dal 1351. Tutto questo movimento non poteva passare inosservato ai responsabili della diocesi; infatti nel 1369, con l’intento di dirottare parte dei pellegrini a loro favore, le autorità civili e religiose di Basilea cercarono ed ottennero dal magistrato e dai canonici di Gubbio una reliquia ‘Sancti Theobaldi cuius corpus sepultum honorifice habetur supra montem portam civitatis Eugubii’15. La reliquia, una volta giunta nella città svizzera, fu portata con una solenne processione, presieduta dal vescovo coadiutore di Basilea, e posta all’interno della cappella dedicata a St. Thiébaut nella chiesa di S. Leonardo16, officiata dagli agostiniani17. La festa della traslazione fu fissata il 1° luglio come a Thann. L’episodio sta a dimostrare, se ancora ce ne fosse la necessità, che S. Ubaldo di Gubbio e S. Thiébaut di Thann sono la stessa persona. Dopo la Riforma protestante gli Ugonotti si lasciarono andare ad attacchi iconoclasti, distruggendo altari, immagini sacre, e reliquie. Anche nella chiesa di S. Leonardo la cappella dedicata al Santo non esiste più; è rimasta solo una parte del gruppo ligneo, cioè un perChiesa di san Leonardo,TheobalKappelle. sonaggio inginocchiato Basilea, La statua di Hüglin von Schönegg sopra la sua in preghiera: Hüglin von tomba. Schönegg18. Tale notabile aveva scelto come luogo della sua sepoltura la cappella di St. Theobald, a fianco del coro, dove si trova ancora la tomba policroma del cavaliere in abito militare al di sotto della stessa figura inginocchiata in adorazione di St. Theobald. La lettera di Papa Benedetto XII contiene anche una miniatura in cui vengono rappresentati la Vergine Maria e S. Ubaldo con i paramenti episcopali, mitria e pastorale; è la più antica immagine che si conosca di Lui. Per fugare ogni dubbio sulla sua identità, ricordo che il riconoscimento dei Santi avviene con l’esame della loro iconografia. A Thann esistono cinque statue in pietra del XIV e XV sec., due statue lignee policrome del XV sec., le vetrate del coro della Collegiata, una statuetta d’argento del XV sec. e la famosa moneta detta il ‘Pilgertaler’ del 1511, tutti raffiguranti St. Thiébaut come vescovo. NOTE 1 Benedetto XII, nato Jacques Fournier (Saverdun, 1285 - Avignone, 25 aprile 1342), fu il 197º Papa della Chiesa cattolica dal 1334 alla morte. Eletto Papa il 20 dicembre 1334 alla morte di Papa Giovanni XXII, non proseguì con le politiche del suo predecessore. Fece pace con l’imperatore Luigi IV, che era stato precedentemente scomunicato, e per quanto possibile scese a patti con l’Ordine Francescano, che era all’epoca in contrasto con la sede romana. 2 C.Wilsdorf, Dans la vallée de la Thur aux XIII et XIV siècles. La transformation d’un paysage par la route, in Bolletin philologique et historique, année 1967, vol. I, ���������� p. 326. è la più antica chiesa dedicate al nostro S. Ubaldo, ancor prima della sua canonizzazione ufficiale avvenuta il 5 marzo 1192. 3 C. Heider, Thann, entre France et Allemagne. Una ville de Haute-Alsace sous la domination des Habsbourg (1324-1648), in Société Savant d’Alsace, 2006. 4 C. Wilsdorf, op. cit., p. 319: trans flumen civitatis Thannensis condita fuit an. 1290. 5 J. Baumann, Histoire de Thann des origines a nos journ, SAEP Colmar, 1988, p. 20. 6 Nel corso dei secoli la città conobbe più toponimi: 1202 Tanne, nel 1304 Opidi Tanne, nel 1521 Pinetum, nel 1576 Dan, nel 1941 Tann e infine Thann. 7 Solo dopo la Rivoluzione francese, Thann passò sotto la Diocesi di Strasburgo. 8 Il Capitolo dei Canonici di Saint Amarin (piccola località nelle vicinanze di Thann) nel 1422 si trasferì nella chiesa di Saint Thiébaut di Thann che venne così elevata al rango di Collegiata (cfr. J. Baumann, op. cit. p. 30). 9 Pierre Hegge chi era? Il direttore degli archivi dell’Alto Reno, interpellato in proposito tramite l’amico Andreé Rohmer di Thann, ha ipotizzato che fosse stato un componente del capitolo di Saint Amarin che a metà del sec. XIV aveva altri due canonici dal nome Enri e Jean Hacke, precisando che l’ortografia dei nomi allora era molto aleatoria. Se il Pontefice cita nella lettera uffici divini e preghiere in onore per il medesimo Pietro e i suoi genitori significa che Hegge era sicuramente morto. 10 J. Baumann, Histoire de Thann... op. cit. p. 29. 11 C. Wilsdorf, Dans la vallée de la Thur aux XIII et XIV siècles. La transformation d’un paysage par la route, op. cit., p. 303-330. 12 C. Heider, La glorie dei Dieu e la ferveur des Hommes-La paroisse de Thann des origines à la Revolution (1389-1789), ediz., Société d’Histoire Le amis de Thann, 1997. 13 A. Rohmer, Thann 850 ans d’histoire et de culture, ediz., Société d’Histoire Le amis de Thann, 2011. 14 Le offerte venivano lasciate nel Tronc des pélerins, una specie di cassaforte con un’apertura che permetteva il passaggio di monete e di gioielli preziosi, tuttora esistente nella Collegiata. 15 Ubaldo F. Braccini, La mano di S. Ubaldo - Alla ricerca della verità sui legami tra Thann e Gubbio, ediz. Santuario di S. Ubaldo, 1993, pp. 68-69. L’autore ipotizza che la reliquia inviata a Basilea provenga dal pollice della mano sinistra, dove l’esame dei calchi ha rivelato un’asportazione di tessuti con lama tagliente; mentre quella di Thann risulta strappata e non tagliata. Di questo prelievo non abbiamo notizie a Gubbio, perché mancano negli archivi i volumi delle Riformanze dal 1350 al 1374. 16 Autori Vari, Thann 1161-1961 - regards sur 8 siècles d’histoire locale, p. 8, ediz. L’Alsace, Mulhouse, 1961. 17 Agostiniani dell’ordine dei Canonici regolari presenti sul territorio svizzero a S. Leonardo di Basilea dal 1117. 18 Hüglin di Schönegg è citato a partire dal 1354 perché membro del palazzo papale in Avignone. A partire dal 1376 era stato il maresciallo del ducato Spoletino. Aveva fatto inviare nel 1369 le reliquie di St. Theobald al TheobalKappelle nel Leonhardskirche in Basilea, che aveva scelto come suo luogo di sepoltura; è morto dopo il 1377 probabilmente in Italia (informazioni tratte dalla voce Hüglin di Schönegg in Wikipedia). 18 LA RICOSTRUZIONE DEL VOLTO DI SANT’UBALDO Ubaldo E. Scavizzi Le reliquie dei santi hanno sempre costituito, fin dagli albori del Cristianesimo, un vero e proprio ‘tesoro’, oggetti “dotati di un potere reale e simbolico, da inserire nella storia degli oggetti di devozione in un rapporto talvolta simbiotico con le immagini che, secondo il Belting, possono catalizzare il potere delle reliquie, ‘mettendole in scena’ e catturando così l’immaginazione dei credenti”, come afferma S. Boesch Gajano in un breve saggio nella rivista Sanctorum. In questo senso, gli Eugubini possono dire di avere un grande tesoro nella loro città, costituito dalla salma incorrotta di Sant’Ubaldo, un corpo non imbalsamato, ma mummificatosi naturalmente ed oggetto di venerazione da oltre otto secoli e mezzo. Non a caso, il Prof. Ezio Fulcheri, Ricercatore e Professore Associato di Anatomia patologica presso l’Università di Genova, nel volume Human Mummies, cita ampiamente il corpo di S. Ubaldo, come uno dei casi più straordinari di eccellente mummificazione naturale nel panorama italiano, che conta circa 25 mummie di santi. Ricorrendo alle fonti antiche, in particolare a Giordano, Fulcheri attribuisce ipoteticamente la perfetta conservazione del corpo del Santo, alla rapida disidratazione che esso subì in conseguenza delle condizioni climatiche molto calde e ventilate che si ebbero durante i tre giorni in cui esso rimase esposto alla venerazione dei fedeli, dopo la morte avvenuta il 16 maggio 1160. Tali condizioni, avrebbero infatti reso minime l’autolisi dei tessuti e la loro putrefazione. Le perfette condizioni della mummia di S. Ubaldo consentirono già nei secoli passati numerose ricognizioni al sacro corpo, effettuate per lo più al fine di verificare l’integrità della salma e talora per ricavare reliquie, per lo più ponendovi a contatto degli oggetti. Fu solo nel 1977 che fu effettuata un’approfondita e scientifica ricognizione che, partita con lo scopo di disinfettare e disinfestare il sacro corpo, contemplò anche alcuni esami di carattere anatomico e radiografico, portando tra l’altro a constatare, in accordo con le fonti an- tiche, le evidenze di multiple fratture costali e della tibiaperone della gamba destra. Oggi, a distanza di quasi quarant’anni da quell’evento e dopo due ulteriori ridiscese in città della salma per varie ricorrenze (1986, in occasione del nono centenario della nascita, 1994, a ricordo della ‘traslazione’ avvenuta otto secoli prima) diverse voci si levano in città per chiedere un nuovo intervento di conservazione, stante l’avanzamento delle tecniche in questo campo. Sorvolando in questa sede sull’opportunità o meno di tale operazione, vorrei proporre, nel caso tale ipotesi divenisse realtà, una serie di indagini ed esami scientifici che contribuirebbero sicuramente ad una migliore conoscenza a tutto tondo dell’amato Patrono. Cercherò quindi di esporre tale proposta in alcuni articoli su questa testata, a cominciare dalla ricostruzione del volto di S. Ubaldo vivente, mediante le più recenti tecniche disponibili. Da quando fu fatta l’ultima ricognizione ad oggi, numerosi sono stati i progressi nel campo delle metodologie di indagine diagnostica e della realtà virtuale, a cominciare dalla tomografia assiale computerizzata (TAC) e dalla ricostruzione facciale tridimensionale assistita dal computer (CAFR). Le metodologie atte a ricostruire le fattezze di un volto costituiscono l’oggetto di una disciplina specifica, nota appunto come facial reconstruction, il cui scopo è riprodurre, a partire da resti scheletrici o mummificati, un modello di volto che sia scientificamente corretto, coerente con i dati disponibili e plausibile. Presupposto della disciplina è l’esistenza di precise relazioni fra la distribuzione dei tessuti molli (ossia le parti ‘carnose’) e la struttura ossea sottostante (tessuti duri), codificate dagli antropologi in tabelle di spessore (Rhine et al., 1982). Sebbene il suo ambito di applicazione abbia ben altra rilevanza nel campo della medicina legale, le tecniche della ricostruzione facciale ebbero il loro esordio proprio nel contesto di un problema storico-archeologico: attribuire con relativa certezza crani non identificati a personaggi del passato, mediante la ricostruzione del loro probabile volto in vita ed il confronto con ritratti e raffigurazioni esistenti di tali personaggi. Dalla fine degli anni ’70, dunque, sono state numerose le ricostruzioni di volti di personaggi più o meno famosi mediante il c.d. ‘metodo plastico’ tradizionale, general- S. Boesch Gajano, La tesaurizzazione delle reliquie, in Sanctorum, rivista dell’associazione per lo studio della santità, dei culti e dell’agiografia, 2, 2005, Viella Libreria Editrice. E. Fulcheri, Mummies of Saints: a particular category of Italian mummies, in Human mummies: a global survey of their status and the tecniques of conservation - K. Spindler et al, Wien; K. Spindler New York 1996, pp. 219 -230. Giordano, Vita Beati Ubaldi Episcopi, trad. di don Angelo M. Fanucci, ed. Famiglia dei Santantoniari, Gubbio 1992. E. Fulcheri, Mummies of Saints..., op. cit., p. 220. Nolli G., Gabrielli H., Venturini M., Dati F., Relazione del trattamento effettuato sul corpo di S. Ubaldo, Roma, 1977. In Braccini U., La mano di S. Ubaldo, Santuario di S. Ubaldo, Gubbio 1993. V. Blasi, Referto radiologico su alcune radiografie del Venerato Corpo di S. Ubaldo, Santuario di S. Ubaldo, Gubbio 1993. Giordano, op. cit. Tra I numerosissimi scritti in proposito, v. ad es. �������������� Caldwell M.C, New questions and some answers on the facial reproduction tecniques, in Reichs K.J. (ed.), Forensic osteology advanced in the identification of human remains, Charles C. Thomas, Springfield, 1986; Marella G. L., Elementi di antropologia forense. Dalle indagini di sopralluogo agli accertamenti di laboratorio, CEDAM, Padova, 2003. 19 mente frutto della collaborazione fra antropobiologo ed ottenuto. In breve, la tecnica si basa su una collezione artista. Nel metodo tradizionale, si modella il volto su un virtuale di modelli di riferimento di teste di persone vive, calco del cranio, mediante la ricostruzione dei tessuti tra- differenti per età, sesso, etnia, stato fisico, ecc.; la momite l’apposizione di plastilina guidata da pioli di varia dellazione 3D del cranio di riferimento viene opportulunghezza, a simulare lo spessore dei tessuti di diversa namente ‘distorta’ fino a far combaciare perfettamente i natura (muscoli, tendini, ecc.). Tuttavia, il modo in cui i suoi tessuti ossei con quelli del modello della mummia in tessuti carnosi si distribuiscono sulla struttura ossea non studio, ottenuto tramite la TAC. Nel corso di questa opedipende solo da questo, ma da tutta un’altra serie di fat- razione, i tessuti molli del cranio scelto come riferimento, tori non sempre quantificabili con esattezza, come sesso, si distribuiscono sulla struttura ossea della mummia che età, gruppo etnico, stato di nutrizione. L’accuratezza della viene studiata, rappresentando con buona approssimaricostruzione è dunque affidata all’esperienza dell’antro- zione quelli originali. L’intero processo di deformazione pobiologo e dell’artista, con un grado è individualizzato da un software che di soggettività comunque inevitabile, permette di variare opportunamente specie riguardo alla ricostruzione lo spessore delle parti molli su una di elementi quali barba, capelli, soserie quanto si vuole ampia di punti, pracciglia, labbra, colore degli occhi, così da correggerlo in base a inforlunghezza della parte cartilaginea del mazioni note su età, stato di nutrinaso, che non lasciano tracce nel subzione, provenienza etnica, eventuali strato osseo. Dalla fine degli anni ’80, patologie, etc. le tecniche di visualizzazione e ricoSul modello così finito è possibile apstruzione tridimensionale TAC sono plicare ‘texture’ per conferire al volto state spesso applicate, con risultati i dettagli necessari per raggiungere il di rilievo, all’indagine sulle mummie miglior grado di realismo possibile, dell’antico Egitto: le proprietà non anche in base alle informazioni didistruttive e non invasive dell’indasponibili su presenza o meno di bargine radiografica si coniugano infatti ba e capelli, rugosità del viso, dimenalla migliore leggibilità delle immagisioni e forma delle orecchie, colore ni; la diversa densità delle superfici Ricostruzione del capo in fase di ‘warping’. degli occhi. scandite dalla TAC ne permette la viConcludendo, ritengo personalmente sualizzazione separata e, senza manoaffascinante la possibilità offerta dalle mettere in alcun modo la mummia e nemmeno togliere nuove tecniche di CAFR, non distruttive né invasive in gli indumenti, è possibile osservarne e ricostruirne gli or- alcun modo, di ricostruire il vero volto del nostro Pagani interni e lo scheletro. trono; si aggiunga poi che alcuni dettagli, come quelli Un’avanzata metodologia, messa a punto ad esempio da sulle orecchie, sono nel nostro caso parzialmente dispoun’equipe pisana, comporta cinque diverse fasi: 1) ana- nibili grazie alla presenza, sul sacro corpo, dell’orecchio lisi antropologica (ed egittologica, in quel caso specifico) sinistro ancora perfettamente conservato, mentre per la della mummia; 2) TAC della mummia; 3) visualizzazione barba c’è discrepanza tra il viso del Santo e le immagini tridimensionale delle immagini TAC e generazione di un tradizionali di Gubbio. Tuttavia, le tecniche di ricostrumodello virtuale dei tessuti duri del cranio; 4) ricostru- zione facciale virtuale consentono la produzione di mozione dei tessuti molli mediante tecniche di ‘warping’10 delli infinitamente variabili e modificabili con una spesa (Bro-Nielsen, 1996), controllate tramite un software di minima di tempi e costi. Si aggiunga che la ricostruzione implementazione dei protocolli usati dagli antropologi assistita dal calcolatore richiede solo poche ore, in conper la ricostruzione plastica tradizionale delle fisionomie; fronto ai metodi tradizionali che richiedono più giorni 5) applicazione delle ‘texture’11 più idonee ad aumentare per ogni modello. il grado di realismo e verosimiglianza del modello virtuale Potremmo così, a distanza di oltre otto secoli, contemplare per la prima volta un’attendibile immagine tridimen Volti per le mummie. La ricostruzione facciale tridimensionale assistita dal calcolatore applisionale del volto del nostro caro Patrono, come se fosse cata alle mummie dell’antico Egitto, di Marilina Betrò (Univ. Di Pisa, Dip. Di Scienze ancora fra noi. Storiche del Mondo Antico) e Silvano Imboden – Roberto Gori (Cineca Vis. I.T., Casalecchio di Reno, Bologna) in Ut Natura Ars – Virtual reality e archeologia, atti della giornata di studi (Bologna, 22 aprile 2002), a cura di Antonella Coralini e Daniela Scagliarini Corlàita, University Press Bologna – Imola, 2007 10 Le tecniche di warping sono algoritmi utilizzati nella grafica computerizzata per trasformare le strutture tridimensionali, deformando le loro caratteristiche geometriche, senza alterarne i loro attributi 11 Dettagli quali colore della pelle, degli occhi, eventuale rugosità. 20 (continua) Iconografia Ubaldiana Ettore A. Sannipoli Palazzo Ducale Ignoto maestro eugubino, Madonna col Bambino in trono tra i Santi Giovanni Battista e Ubaldo, Mariano [e Giacomo], fine del sec. XIII - primo quarto del sec. XIV, affresco staccato. Gubbio, Palazzo Ducale, già Palazzo Comunale. 1. Madonna con il Bambino in trono e Santi Per quanto riguarda la decorazione pittorica dell’antico «palatium communis», ora inglobato nella fabbrica del Palazzo Ducale, una delle tracce principali è rappresentata dall’affresco proto-giottesco raffigurante la Madonna col Bambino in trono e tre Santi (in origine probabilmente quattro). Il dipinto, molto frammentario, è stato distaccato dalla parete sud-est del salone principale del Palazzo Ducale, già sede della magistratura comunale eugubina. In esso sono visibili i resti di una Madonna in trono col Bambino, di due Angeli reggicortina e di tre Santi di cui rimangono solo le teste molto fatiscenti. Riconoscibili sono San Giovanni Battista (con gli inconfondibili capelli irsuti) e un Santo vescovo, di sicuro Sant’Ubaldo. L’altro Santo, tonsurato, potrebbe essere San Giacomo o San Mariano: probabilmente in origine ambedue i martiri africani erano rappresentati, poiché un quarto Santo (ora perduto) doveva integrare a destra la scena. Ci troviamo, insomma, al cospetto dei quattro antichi protettori di Gubbio. L’affresco è stato ipoteticamente messo in relazione a un documento databile al 1321, riguardante il pagamento di un dipinto eseguito dal pittore Palmerino in una sala della residenza comunale di allora, su commissione della magistratura: «Item dictus camerarius in presentia dictorum dominorum capitanei et priorum, de pecunia dicti comunis, dedit et solvit dicto ser Vanni, recipienti pro Palmerino pictore, pro pictura Beate Virginis et Sancti [sic] patronorum comunis Eugubii pingenda in salecta dominorum consulum secundum reformationem consilii populi et sue apudixe scripte manu dicti ser Amedei notarii facte sub dictis annis Domini, indictione et die – libras novem [...] decem octo». Il pittore in questione dovrebbe essere Palmerino di Guido, collaboratore di Giotto in Assisi e padre del più noto Guiduccio Palmerucci. Sulla base dello stesso documento, Manuali propone la dubitativa identificazione di Palmerino con il ‘Maestro della Croce di Gubbio’, a cui attribuisce il dipinto in questione. Lunghi, invece, esclude l’attribuzione al ‘Maestro della Croce di Gubbio’ e nota analogie con l’arte dell’ignoto maestro giottesco autore di una frammentaria Maestà nella chiesa eugubina di San Francesco. Al ‘Maestro della Croce di Gubbio’ riferisce dubitativamente l’opera Todini, mentre Santanicchia inserisce il malridotto affresco nel corpus del ‘Maestro delle Maestà di Gubbio’. Naturalmente non si può escludere del tutto l’eventualità che il dipinto documentato sia andato perduto, sempre ammesso che sia stato portato a 21 compimento, in una forma non dissimile da quella prevista e nel luogo indicato. Anche se tra l’opera menzionata nel documento databile al 1321 e il lacerto conservato corrisponde il soggetto, altrettanto non può dirsi, con la dovuta serenità, del luogo preciso di collocazione. Nel documento citato si parla di «salecta dominorum consulum», nella realtà ci troviamo di fronte ad un salone; e pure ammettendo che nel corso delle molte modifiche che interessarono l’edificio qualcosa sia cambiato nella disposizione interna dei vani, resta ugualmente un margine troppo grande di incertezza. E poi motivi stilistici sembrano escludere una datazione dell’opera al 1321. Anche se il lacerto è molto deperito (tanto da non poter avanzare un’attribuzione precisa), i suoi rari brani superstiti rimandano più indietro nel tempo, appena dopo il compimento delle Storie Francescane di Giotto ad Assisi. Se, dunque, risulta ancora in forse l’attribuzione della Madonna col Bambino in trono e tre Santi a Palmerino di Guido, non sembra in discussione l’appartenenza del dipinto all’ambito pittorico eugubino della fine del Duecento o del primo Trecento. Più che al ‘Maestro della Maestà di Gubbio’, autore di opere qualitativamente mediocri, l’affresco del Palazzo Ducale sembrerebbe da avvicinare al frammento di Maestà presente sulla parete sinistra della chiesa eugubina di San Francesco, segnalato da Lunghi. Si tratta di un brano pittorico molto vicino – a mio credere – all’arte di un grande proto-giottesco umbro, il cosiddetto ‘Maestro del Farneto’, alla cui fase più avanzata non è da escludere che un giorno possa essere riferito. Se così fosse, allora bisognerebbe considerare illuminanti le proposte di Miklós Boskovits, che ha ipotizzato un’attività comune, sui muri della Sala dei Notari del Palazzo dei Priori di Perugia, del ‘Maestro del Farneto’ e di Palmerino di Guido. Bibliografia essenziale E.A. Sannipoli, Palmerino di Guido, in «L’Eugubino», a. XXXII (1982), n. 2, pp. 12-13; G. Manuali, Aspetti della pittura eugubina del Trecento: sulle tracce di Palmerino di Guido e di Angelo di Pietro, in «Esercizi», 5 (1982), pp. 5-19, speciatim pp. 5-8; G. Manuali, scheda sulla Madonna in trono col Bambino e due Angeli del Museo Comunale di Gubbio, in Interventi di conservazione. Quaderno n. 2, Gubbio 1983, pp. 13-17, speciatim p. 14; E. Lunghi, Un affresco giottesco a Gubbio, in «Paragone», a. XXXV (1984), n. 407, pp. 51-56, speciatim pp. 54, 55-56, nota 9; E. Lunghi, Palmerino di Guido, in La pittura in Italia. Il Duecento e il Trecento, Milano 1986, p. 647; F. Todini, La pittura umbra dal Duecento al primo Cinquecento, vol. I, 1989, p. 123; M. Santanicchia, Pittura eugubina e ‘dintorni’, in Il Maestro di Campodonico. Rapporti artistici fra Marche e Umbria nel Trecento, Fabriano 1998, pp. 70-86, speciatim pp. 74, 83, nota 14; E.A. Sannipoli, Dipinti, ornamenti, simboli e altro, in Il Palazzo Ducale di Gubbio e Francesco di Giorgio Martini, a cura di S. Capannelli, Gubbio 2008, pp. 224-295, speciatim pp. 228, 232-235. Cattedrale 1. Madonna col Bambino in trono tra i Santi Giacomo e Mariano Ai lati San Giovanni Battista (?) e Sant’Ubaldo (?) ‘Maestro delle Maestà di Gubbio’, Madonna col Bambino in trono tra i Santi Giacomo e Mariano. Ai lati dell’affresco principale: un santo vescovo (verosimilmente Sant’Ubaldo), e un altro santo non identificabile (San Giovanni Battista?). Secondo decennio del XIV secolo, affresco. Gubbio, Cattedrale. 22 Photostudio - 2013 La Maestà è citata per la prima volta da Manuali (1983), che attribuisce l’opera a Palmerino di Guido, a suo parere identificabile con il cosiddetto ‘Maestro della Croce di Gubbio’. Lunghi (1984) considera invece il dipinto della cerchia del ‘Maestro Espressionista di Santa Chiara’. Anche Todini (1989) assegna la Maestà a un seguace dell’‘Espressionista’ e la data verso il 1310. Santanicchia (1998) riferisce, infine, l’affresco al suo ‘Maestro delle Maestà di Gubbio’, un anonimo pittore, presumibilmente locale, operante nei primi due decenni del Trecento ma ancora parzialmente legato alla tradizione tardo duecentesca. La Madonna in trono e Santi risulta essere un prodotto violentemente attratto nell’«occhio del ciclone giottesco», in alcuni brani del quale è finanche troppo ostentato il «recupero dell’integrità corporea dell’edificio umano» (accanto al tentativo di resa di uno spazio ‘spazioso’). Fatti che si possono ben comprendere considerato l’estremismo espressionistico che serpeggia nell’animo dell’autore, riconducibile a tanto sturm und drang umbro della seconda metà del Duecento. Nei brani in cui risulta più difficile al maestro aggiustare il proprio repertorio linguistico sugli esempi giotteschi – come nel Sant’Ubaldo (?) dalla frontalità allucinata – riemergono, appena rivestite di uno stile ‘moderno’, le cifre astratte della parlata ducentesca (sul tipo di quelle usate dal ‘Maestro di San Francesco’). Prova questa evidente dell’arcaismo sostanziale del pittore. Il motivo del velo di Maria tenuto in mano dal Bambino è ricorrente nella pittura senese. Più che a dipinti di Duccio (trittichetto di Londra, Madonna di Perugia), esso sembra comunque rimandare a opere di Pietro Lorenzetti, segnatamente al trittico murale della cappella Orsini nella basilica inferiore di San Francesco ad Assisi. Questo particolare, e altri ancora (ad es. l’‘aperta frontalità’ del trono marmoreo) inducono a datare già nel secondo decennio l’affresco del Duomo di Gubbio. Risulta verosimile l’identificazione del Santo vescovo con Sant’Ubaldo (Santanicchia 1998), giacché ai Santi Mariano e Giacomo che affiancano la Madonna potrebbe essere stata deliberatamente aggiunta, sul lato interno dei pilastri, la coppia degli altri due principali santi protettori di Gubbio (vale a dire Sant’Ubaldo e San Giovanni Battista). Del probabile Patrono, molto frammentario, si conserva solo la testa nimbata e una parte della spalla destra. Il sacro personaggio è ritratto frontalmente, ha il volto barbuto e il capo ricoperto dalla mitra. Il piviale, visibile solo in piccola parte, è riccamente decorato. Bibliografia essenziale G. Manuali, scheda sulla Madonna in trono col Bambino e due Angeli del Museo Comunale di Gubbio, in Interventi di conservazione. Quaderno n. 2, Gubbio 1983, pp. 13-17, speciatim p. 14; E. Lunghi, Un affresco giottesco a Gubbio, in «Paragone», a. XXXV (1984), n. 407, pp. 51-56, speciatim pp. 55-56, nota 9; F. Todini, La pittura umbra dal Duecento al primo Cinquecento, vol. I, 1989, p. 344; M. Santanicchia, Pittura eugubina e ‘dintorni’, in Il Maestro di Campodonico. Rapporti artistici fra Marche e Umbria nel Trecento, Fabriano 1998, pp. 70-86, speciatim pp. 73-74. 23 Solenne e storica celebrazione notiziario LA RINASCITA DEL ‘SANTUARIO DI SANT’UBALDO’ la Redazione li, appena arrivato da Assisi per reggere le sorti della Basilica, lanciò l’idea di iniziare la pubblicazione del ‘Santuario di S. Ubaldo’. Nel suo articolo di apertura egli si richiamò ad una certa frustrazione degli eugubini che non accettavano più «che una luce così luminosa, S. Ubaldo, sia tenuta nascosta e non esaltata come merita. C’è la fede di un popolo che pretende farsi conoscere attraverso segni di devozione, oggi vivi come in altri tempi». L’articolo terminò con l’augurio che potessero essere scritte «pagine nuove di intensa e autentica religiosità in onore di S. Ubaldo e a prestigio di Gubbio, città tanto cara al cuore del suo Patrono». 1981: redattore padre Giacomo Speziali. «Dopo 542 anni i preti della diocesi di Gubbio tornano a custodire il Santuario di Sant’Ubaldo, luogo prezioso e caro agli abitanti della città e dell’intera diocesi, dove è conservato il corpo incorrotto del santo Patrono». Così esordì il vescovo di Gubbio, mons. Mario Ceccobelli, nell’articolo di fondo apparso sul ‘Santuario di Sant’Ubaldo’ del febbraio 2013. La rinascita del periodico religioso fu accolto con soddisfazione dagli eugubini, legati da grande affetto al loro Protettore. Dal 2007, se non erro, non arrivava più nelle case il periodico, e ciò fu motivo di rammarico e di tristezza per tanti cittadini. Il 6 gennaio 2013 prese possesso, in qualità di rettore della Basilica, mons. Fausto Panfili (vicario diocesano), che accettò di buon grado l’invito del vescovo di trasferirsi lassù con don Stefano Bocciolesi. I più affezionati al Santo risposero con entusiasmo alla chiamata del Rettore, subito si misero all’opera per dare una mano alle numerose necessità che una Basilica comporta. La storia del periodico viene da lontano. Nel marzo 1981 padre Giacomo Spezia- 1989: redattore padre Igino Gagliardoni. Le parole di padre Giacomo furono raccolte e il periodico si fece sempre più corposo e attraente, ricco di articoli di vario genere, ma in prevalenza attinenti al culto di S. Ubaldo. Si venne così a scoprire che il Patrono era ed è venerato non solo nella sua diocesi, ma anche in luoghi lontanissimi, con chiese o altari a Lui dedicati. Nel dicembre del 1989 padre Giacomo, al quale va la riconoscenza per aver riportato ad una bellezza mai vista prima la Basilica, fu richiamato ad Assisi. Grazie, padre Giacomo! Tra gli eugubini sorse una malcelata apprensione, fugata però dall’arrivo di padre Igino Gagliardoni, che non solo continuò la pubblicazione del Santua- Mario Ceccobelli, Passaggio di consegne al Santuario di sant’Ubaldo in ‘Santuario di Sant’Ubaldo’ XXXIV, n. 1, febbraio 2013, p. 3. rio, ma lo arricchì sempre più dopo la costituzione di un comitato di redazione. Egli voleva diffondere il periodico ovunque: portò la «rivista al numero di circa 10.000 abbonati, residenti anche in paesi lontani, come le Americhe e l’Australia dove il nome di S. Ubaldo è conosciuto e amato». A padre Igino, inoltre, va il merito di aver fatto restaurare le vetrate policrome, ritornate al loro originale splendore e i numerosi quadri che abbelliscono tuttora le pareti della Basilica. Grazie, padre Igino! Ma con la sua partenza, avvenuta nel dicembre 2003, tutto il castello da lui costruito crollò. Padre Gianni Califano, che a lui subentrò, non volle più sapere di inviare ovunque il Santuario. Fu ridotto a tre numeri annui… fino ad esaurirsi nell’ottobre 2007 con l’arrivo di padre Salvatore Tanca. Cinque anni di silenzio, rotto dallo slancio generoso di mons. Fausto Panfili e dei suoi più stretti collaboratori. Ritornando alle parole del vescovo, mons. Mario Ceccobelli, «Il bollettino... tornerà non solo nelle case di Gubbio, ma anche in quelle degli eugubini sparsi nel mondo. Attraverso questo prezioso strumento potranno conservare il contatto con sant’Ubaldo e con Gubbio, addolcendo così la nostalgia per la loro città…». 2013: redattore mons. Fausto Panfili. Il rettore del Santuario, Il perché di questa pubblicazione, marzo 1981. 24 Gianni Califano, Editoriale, in ‘Santuario di sant’Ubaldo’, XXIII, n. 1, gennaio-giugno 2003. Mario ceccobelli, Passaggio di consegne..., op. cit., p. 3.