Stefano Quarta
CON
I MIEI
OCCHI
GME
© 2006 GME – Medimond s.r.l.
Via Maserati 5 – 40128 Bologna
Allestimento editoriale a cura di Gamma Graphic – Bologna
Stampato nel giugno 2006 da Editografica – Rastignano (Bo)
La notte è buia, ma ci sono delle sere in cui s’illumina e
non è solo grazie alla luna, ma è anche grazie a noi. D’estate
ci sono giorni in cui noi ragazzi ci ritroviamo in spiaggia per
guardare le stelle o perché siamo nel bel mezzo dell’estate e
bisogna festeggiare. Già, ma cosa?
Festeggiamo noi stessi, perché siamo uno spettacolo nel
vero senso della parola, perché riusciamo a illuminare la notte con un po’ di legna e ci basta poco per rendere magica una
serata. Penso a tutto questo mentre me ne sto a guardare lo
spettacolo da una duna un po’ più alta delle altre, che sembra
sia stata messa lì apposta. Ma non mi accontento e decido di
andarci dentro, a questo spettacolo, di farne parte, di viverlo
insieme ai miei amici e in fondo insieme a tutti. Scendo dalla
duna, mi guardo intorno, cammino un po’, ed è sempre la
solita bellissima scena: ragazzi intorno a un fuoco, che ridono,
cantano accompagnati dal suono di una chitarra e bevono
birra.
È vero, molto spesso si esagera, oltre alla birra ci sono le
bottiglie di rum, quello rigorosamente falso dell’Havana, perché quello vero costa troppo, e a volte ci si ritrova in un angolo a vomitare di tutto facendo promesse, che puntualmente
non saranno mantenute, figlie del momento. Ma fa parte anche questo di uno spettacolo che va avanti da anni, senza
alcuna prova. Poi scattano i cinque secondi in cui ci si guarda
negli occhi, basta pronunciare la lettera B che dopo neanche
un istante stiamo già correndo verso il mare. I metri che ci
dividono sono pochi, ma li percorriamo con inarrestabile foga,
non perché vogliamo arrivare prima degli altri, non perché
abbiamo freddo, ma perché vogliamo buttarci nel mare, gridare alla luce della luna che questi momenti ci saranno sem-
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Stefano Quarta
pre e saranno sempre più belli. Ecco perché si corre così
dannatamente forte.
Si fa mattina, colazione al bar e ci si saluta con il sole, per
vedersi nel pomeriggio, fare i commenti sulla serata, per rendersi conto di chi si è infrattato con qualcuna, di chi ha sboccato anche l’anima e di chi è stato a cantare tutta la notte, ma
alla fine siamo sempre noi e va bene così.
Tuttavia, questa è una cosa risaputa, sembra che le cose
belle durino troppo poco, e infatti, dopo il fatidico 15 di agosto, iniziano le prime partenze e ci si dà appuntamento al prossimo anno, con la promessa, figlia di quel momento, che ci
sentiremo durante l’anno e non solo per le feste. Non è una
bugia, perché nel momento in cui lo dico ai miei amici, io ci
credo davvero.
L’estate è un pianeta a sé, anzi sono due mesi estranei a
tutto e a tutti. Cambiano gli amici, cambiano gli orari, non
esistono né pranzi né cene, esiste solo la fame di una certa
ora, l’esigenza di mangiare qualcosa di commestibile, i tuoi li
vedi di sfuggita e li vedi felici della felicità che leggono nei
tuoi occhi. L’indifferenza è una parola e un sentimento sconosciuto.
Ci sono sere in cui si rimane a casa a guardare film del tipo
‘Sapore di sale’ e ti accorgi che quello che ci divide dalla gioventù di allora è davvero poco, anzi quasi nulla, se si escludono vestiti e capelli. Penso che anche i nostri genitori hanno
fatto parte di quella gioventù e allora a volte mi chiedo perché non capiscono.
“Scusa pa’, ma anche a te piaceva stare in spiaggia con gli
amici e fare l’alba?”
“Certo che mi piaceva!”
“E allora perché non capisci cosa faccio io tutta la notte e
mi domandi che cosa andate a fare in spiaggia o mi dici di
non farmi il bagno altrimenti mi raffreddo?”
“Eh…i miei erano altri tempi…Hai ragione, anche a me
piaceva stare con gli amici in spiaggia, festeggiare la notte,
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Con i miei occhi
l’estate e noi stessi e bere, anche fino a vomitare, ma io dopo
aver passato una notte del genere avevo un giorno per riprendermi e poi dovevo andare a lavorare, io come i miei amici. Il
16 agosto per noi era già finito tutto. Noi lavoravamo, ed è
per questo che la voglia di divertirmi non è mai passata.”
Rimango un po’ in silenzio e cerco di elaborare ciò che mi
ha detto, cercando di pensare prima di parlare, tenendo sempre presente il famoso e celeberrimo proverbio delle p: prima
di parlare pensa perché parole poco pensate provocano problemi. Dannati detti popolari!
Il discorso finisce lì perché arriva una telefonata e quella
sottile linea di comunicazione si spezza bruscamente, anzi non
si spezza, si è momentaneamente interrotta.
SEI INDISPOSTA?
“Stè, è per te.”
“Arrivo.”
“Pronto?”
“Ehi…che fai?”
“Uhè! Nulla di particolare, anzi, sì: studiavo, storia…di quella
antichissima.” Dall’altra parte della stanza dove si fa finta di
non sentire, si alza la tv di quel minimo che non serve assolutamente a nulla, e invece dall’altra parte della cornetta c’è lei,
la mia ragazza, che sta con me da sei mesi ed è un bel rapporto, basato sulla reciproca ironia e sul rispetto, o almeno credo.
“Temo di non aver capito bene….stai studiano storia il 20
d’agosto quando a Ottobre hai l’esame di diritto privato?!
Mmmm, c’è qualcosa che non va.”
“E perché scusa? Bisogna essere preparati e soprattutto
acculturati in tutte la materie ed è quello che stavo facendo,
visto come sono bravo?”
“Ma tu sei tutto scemo!” Segue un attimo di silenzio nel
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quale Enrica, è questo il suo nome, attende la mia risposta
che non arriva.
“Beh, non dirmi che te la sei presa.”
“Ah…no, no scusa è che leggevo dell’antica Grecia e mi
ero assentato.”
“Grazie! Parli al telefono con me e pensi all’antica
Grecia…bravo!”
“Grazie!”
“Ho capito. Ci sentiamo dopo.”
“Dai, scherzo! Ma quale storia antica, cazzeggiavo! Che si
fa stasera? Mi hanno detto di un posto carino dove si balla
sulla spiaggia e c’è buona musica, ci andiamo?”
“Sì, si può fare. Comunque gli altri non li ho ancora sentiti,
quando mi chiama la Mile ti richiamo, ok?”
“Ok, a dopo. Ciao ciccia.”
“Ciao studioso!”
Sono circa le sette di un 22 agosto che mette un po’ di
malinconia perché se vado in spiaggia non trovo nessuno,
molti di noi sono tornati nelle rispettive città e gli altri sono
tutti a casa a cazzeggiare, e a me di farmi una di quelle passeggiate che ti mettono malinconia non mi va, di andare alla
piazzetta del bar non mi va proprio, di andare a casa nemmeno: che faccio? Ora rimango qui fermo come un matusa a
guardare il mare…sì, magari se lo guardo intensamente mi
parla pure! Stavo per andare via quando la mia gamba viene
urtata da qualcosa, mi giro di scatto e vedo una creatura piccola con la lingua di fuori che mi guarda con degli occhioni
dolcissimi. È un cagnolino di una razza a me sconosciuta che
a prima vista sembra sano, lo accarezzo e lui mi ricambia leccandomi tutto; mi metto a giocare con lui con una pallina
abbandonata sulla spiaggia convinto che sia scappato dal suo
padrone che presto lo verranno a cercare. Mi diverto perché
gli lancio la palla e lui la riprende ma non me la ridà, anzi per
riprenderla devo correre io dietro a lui; passa un bel po’ di
tempo, ma nessuno viene a reclamare questo stupendo cuc-
Con i miei occhi
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ciolo e allora capisco la brutale realtà: è stato abbandonato.
Mi chiedo come sia possibile lasciare andare via una bestiola
così docile, deve essersi perso, già, si è smarrito e ora qualcuno è già in cerca di lui, sì, sì sicuramente è così. Ora faccio
una bella cosa, scrivo due righe al computer, ne faccio alcune
copie, le appendo sui pali della luce sperando che qualcuno si
faccia vivo, ma nel frattempo lo terrò con me.
“Ehi ma’, ho trovato questo cucciolo abbandonato, lo possiamo tenere per alcuni giorni? E dai.”
“Non esiste, e metti che ha le pulci e la rabbia e se ci morde
e se è malato e se…”
“…sì, e se è un cane bomba di Bin Laden che tra poco
esplode?! Dobbiamo stare parecchio attenti.”
Mentre parlo il cane si è già fiondato su mia madre leccandola sulla gamba, facendole il solletico e scatenando una sua
risata. Nel frattempo arriva mio padre che subisce anche lui
una calda accoglienza.
“Questo chi è?”
“Pa’, l’ho trovato in spiaggia, ho aspettato un bel po’ che
qualcuno venisse a riprenderlo ma nulla, ma ora scrivo qualcosa al computer, poi ne facciamo un po’ di copie e le attacchiamo sui pali, casomai si è perso, che ne pensi?”
“Sì, fai così. Ma nel frattempo dove starà?”
“Eh, domanda da un milione di dollari….starà qui!”
Avrebbero voluto contraddirmi, ma non hanno fatto in tempo
perché lui li ha sommersi di coccole e non appena ho lanciato
la pallina in aria si è scatenato come un uragano. E mentre i
miei sembrano due bambini con il giocattolo preferito io ho
scritto al computer e fatto pure le copie, ma quando sto per
uscire per attaccarle, vengo fermato da una voce sospettosa.
“Dove vai?”
“Vado ad attaccare i foglietti, almeno, se si è perso, qualcuno ci chiamerà.”
“Comunque non c’è fretta… puoi anche attaccarli domattina.”
“Ah, adesso non c’è fretta?! Mah… mi suona strana questa
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cosa.” Esco ridendo sapendo bene che ci si affeziona subito a
un cagnolino del genere ma, se si è perso, qualcuno lo starà
rimpiangendo. Questo non va bene. Nel momento in cui attacco gli annunci ai pali o sul muro ho come la sensazione che
non servirà a nulla, ho la sensazione di sapere la verità, ma di
non volerla accettare. La ignoro e per ignorarla o mi perdo
nei dettagli o canto più forte di lei, naturalmente dentro di
me, altrimenti fuori chiamerebbero l’esercito con tanto di carro armato, visto le mie grandi doti canore. Ho fatto dodici
copie e le ho attaccate nei posti più centrali di questa ridente
e bellissima cittadina di mare che è Otranto. Spero che qualcuno si faccia vivo, ci voglio sperare perché non voglio credere che ci sia qualcuno capace di abbandonare un angioletto
come quello, e come lui tanti altri cagnolini. Se ne sente tanto
palare in TV, ma sembrano cose così lontane finché non succedono proprio a te.
Torno a casa e vedo una scena da libro cuore del 2000, la
mia mamma che dà l’acqua al cane. “Guarda com’è dolce.”
“Lo so mamma, però non ti ci affezionare troppo, che sicuramente se lo verranno a riprendere tra poco.” “Sei sicuro?”
“No.” “Allora perché dici così?” “Mamma, mio Dio! Non è
nostro! Ma sei una bambina oltre gli anta?!…e dai.” “Ok.”
Dopo pochi secondi arriva il boss. “Che succede?” “Nulla
pa’.” “Allora perché hai alzato la voce?” “Io non ho alzato la
voce.” Poi mi giro a guardare mia madre che non si cura di
noi tutta intenta a occuparsi del cane. “Non me ne sono accorto – continuo – ma lei non capisce che non è nostro.” “Stai
attento giovane, qualche giorno le prendi.”
“Sì sì…ti ho sempre detto di prendere meno sole, che fa
male.”
Nel frattempo lui abbaia, ha capito che si parla di lui e
sembra esserne felice. Suona il telefono. Tutti e tre ci guardiamo.
“No, tranquilli, ora va Ambrogio a rispondere” dico sarcasticamente.
Con i miei occhi
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“Ma tanto è per te, che rispondiamo a fare noi? – Non
riesco a nascondere una smorfia di insofferenza. – E non sospirare e non alzare gli occhi all’aria.”
“Respirare si può?”
“Invece di fare lo spiritoso pensa a rispondere!”
Corro per casa, facendo una specie di percorso di guerra
per evitare sedie e mobili, ma naturalmente prendo uno spigolo con il mignolino del piede destro e faccio veramente un
grande sforzo per non imprecare contro qualcuno.
“Buonasera, sono Enrica, c’è Stefano?” Non mi ha riconosciuto, dopo sei mesi che chiama a casa mia.
“No, Stefano non c’è, se non sbaglio si sta baciando fuori
con una ragazza davvero niente male…cretina!”
“Scemo! Ci avevo creduto, quasi.”
“Fai bene, cioè faresti bene.”
“Vedi di stare attento, e parecchio anche.”
“Aspetta che mi siedo perché mi stanno tremando le gambe per la paura.”
“Ah ah ah, che ridere….senti, latin lover dei falliti, ci vediamo alle nove e mezzo a casa mia, che andiamo a mangiare
una pizza e poi in quel nuovo locale… ma come hai detto che
si chiama?”
“Veramente non te l’ho detto perché non lo so neanche
io… comunque è carino.”
“Ah, e te l’ha detto l’uccellino?”
“Sì, mi ha detto anche che stasera mi offri la pizza, visto
che bravo l’uccellino?”
“Certo che il caldo fa male a tutti…. A dopo, San Francesco dei poveri…illusi!”
“Tirchia! Ciao!” Abbasso il ricevitore e mi fiondo nella doccia.
Mentre l’acqua tiepida scorre lentamente sul mio corpo sento
la musica che s’impossessa della stanza, s’impossessa di me:
penso che ascoltare delle canzoni mentre fai la doccia è una
delle cose più belle che ci siano, soprattutto quando Ligabue
chiede un momento al ‘Principale’, quello vero per davvero.
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Chissà perché d’estate si fanno sempre le cose che piacciono
di più. Io, per esempio, durante una qualsiasi doccia nella
lunghissima stagione invernale, non mi porto mai nel bagno
una radio per ascoltare musica, cosa che adoro fare, eppure
non so il perché non lo faccio. Dovrò prendere questa sana
abitudine. Mentre sono in camera e mi sto mettendo i pantaloni, entra il boss.
“Si esce stasera?”
“Sì, le ultime uscite estive, tra un po’ si ritorna alla vita
normale.”
“Quando ricominci a studiare?”
“Da settembre.”
“E che esame devi dare?”
“Diritto Privato.”
“Difficile?”
“Abbastanza. Voi che fate stasera?”
“Nulla, stiamo a casa a guardare un film.”
“Capito.”
Nel frattempo ho finito di vestirmi, ma mio padre rimane
ancora lì, sinceramente non capisco il perché. “Beh…c’è qualcosa che non va?”
“No no… tranquillo... solo stai attento e guida piano. Con
Enrica tutto bene?”
“Sì sì, almeno per il momento.”
“Mi raccomando, che a quest’età sono sempre delle storielle.”
“Ok pa’, ma sta’ tranquillo… tanto la tua è tutta invidia che
a me funziona ancora e a te no…eh eh caro mio, oramai hai
una certa età.”
“Sparisci, anzi… se ti serve una mano chiamami, che fai
sempre bella figura con me.”
“Sì sì, guarda non ho il minimo dubbio.”
“Ciao Stefano buona serata.”
“Ciao papone, a dopo. – Alzo la voce per farmi sentire
anche da mia madre. – Ciao ma’, a dopo”
“Ciao Stè, mi raccomando.”
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“Sì, ciao.”
Chissà perché i genitori hanno l’esigenza di dire quel ‘mi
raccomando’, forse li fa sentire tranquilli. Probabilmente lo
capirò quando un giorno lontano avrò dei figli.
Sono in macchina e mi sto dirigendo verso la casa d’Enrica.
Non abita molto distante da me, sono due km circa, pieni di
curve a gomito, di strapiombi bellissimi che lasciano molto
spazio all’immaginazione e alla fantasia, oppure ai pensieri su
te stesso, su ciò che sei. La luce della luna crea una scia nel
mare che all’inizio è ben distinta dal buio, ma via via si fa
sempre più tenue fino a sparire, a volte mi ci perdo proprio
nei dettagli e mi piace, mi piace davvero tanto.
Arrivo in poco tempo a casa della mia ragazza, anche perché di traffico ce n’è davvero poco. Non sono in ritardo, anzi
sono in perfetto orario, eppure trovo già tutti lì che aspettano
solo me e, non appena si accorgono del mio arrivo, non riesco neanche ad aprire lo sportello che, prima con le smorfie,
poi con il labiale riesco a capire i loro insulti, sempre benevoli
e ben accetti!
“Ecco… il solito ritardatario… chissà dove sei stato…”
“Ma ti sembra il modo, che noi dobbiamo aspettare solo
te?”
“Dai Stè, insomma… che modi sono…”
Ascolto tutto questo nell’incredulità più totale perché le loro
facce sono serie e non capisco se scherzano o no. Cerco di
cogliere qualche risatina sotto i baffi a qualcuno e la trovo in
lei: “Uffa!! Non mi trattate male il mio amore…vieni qui!” Lo
dice con degli occhi a cui non so resistere, lo dice spalancando le braccia e letteralmente mi tuffo su di lei. Nel giro di
pochi secondi mi ritrovo sommerso dal suo abbraccio e da
una quantità indefinita di mani che mi colpiscono. “Lasciate
stare il mio puffi, che già capisce poco se poi gli date gli schiaffi
è la fine!”
Alzo la testa guardando tutti con un’espressione tra la tristezza e la compassione, ma poi scoppiamo tutti in una gran-
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de risata e decidiamo di andare a mangiare una buona pizza,
al metro.
È bello quando ti guardi intorno e hai la piacevole sensazione di stare in mezzo a persone che capisci e che ti capiscono, anche solo con uno sguardo, quando senti che ti rispecchi
nei loro occhi. Arriviamo in pizzeria, naturalmente c’è da aspettare una buona mezz’ora, perché anche se non c’è più tanta
gente in giro, i locali tipo ristoranti o pizzerie sono sempre
pieni. Durante quest’attesa la coppia ne approfitta per concedersi coccole e schermaglie. Meglio ora, che dopo non si sa
mai come ci si riduce.
“Ciccia! Quanto sei bella stasera!”
“Guarda che io sono sempre bella!”
“Sì, lo so...ma stasera in maniera particolare.”
“Grazie…ma è inutile che fai il dolce tanto stasera non ti
tocca niente!”
“Uhè, come niente?! Stai indisposta?”
“No.”
“Ah, allora stai indisposta mentalmente, che è peggio!”
“Fatti tuoi!”
“Dai, vieni qui, dammi un bacio, anzi un bacio che non fa
parlare.” Si avvicina, sfiora appena le mie labbra, si stacca
immediatamente. Effettivamente rimango in silenzio perché
mi aspettavo un bacio ben più passionale.
“Hai visto che sei rimasto senza parole?”
La guardo ed è davvero carina, con una gonna che le sfiora le ginocchia, di colore rosa tenue, una magliettina blu e
scarpe rigorosamente Adidas, perché il mio amore adora quella
marca. Niente male, penso tra me e me, niente male davvero.
Il locale è pieno, c’è un gran vociare ma nessuna voce si distingue nettamente, se mi guardo intorno vedo solo gente che
mastica e muove la bocca, ma le parole non le capisco davvero. Ma a un tratto mi viene un flash: il cane! Chiamo subito a
casa.
“Marco, ma il cane che fa? Gli avete dato da mangiare?”
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“Sì, tranquillo, ha mangiato, bevuto e ha fatto pure i suoi
bisogni fisiologici nel bel mezzo della cucina, per la felicità di
tua madre.”
“Ok. Va bene, grazie, a dopo.”
“Ciao Ste.”
Enrica ha ascoltato tutta la telefonata guardandomi con un
misto di sorpresa e incazzatura. Allora le racconto subito la
storia del piccolo cane e del buon Stefano che l’ha accudito.
Lei mi gratifica con un orgoglioso: “Che tesoro che sei!”
Siamo rimasti in otto. Io ed Enrica, Giacomo e Giulia, Ivan
e Milena, Alessandro e Silvio. Siamo sempre i soliti, da ben
tre anni a questa parte, siamo tutti di Lecce, siamo uniti. Questa è una delle poche cose che mi danno sicurezza.
Ci sediamo e decidiamo di ordinare subito, non c’è neanche bisogno di guardare il menù perché veniamo qui dall’inizio dell’estate. Ci siamo venuti così spesso che il cameriere ci
guarda e ci saluta con un rassicurante: “Il solito, ragazzi?” C’è
un attimo di smarrimento fino a che Ivan risponde.
“Il solito…Beh, questa è una frase da grande film, tipo quelli
Western di Sergio Leone con Clint Eastwood, e se tu la vieni
a dire a noi, vuol dire che…che…” S’interrompe perché non
sa più cosa dire, e ha fatto la sua bella figura. Dopo lo stupore
generale, cameriere compreso, Ivan dice rassegnato che vada
per il solito, “…qualunque cosa sia il nostro solito.”
Mi viene da pensare, ma non mi va di imparanoiarmi, allora provo ad ascoltare la spiegazione di Ivan che cerca di uscire con un minimo di dignità dalla figura di merda fatta prima,
ma sa fin troppo bene anche lui che è un’impresa molto difficile.
Siamo un bel gruppo ed è bello perché io ne faccio parte, a
volte riesco anche a specchiarmi nella nostra bellezza. Siamo
tre coppie tutte molto simili e lontane dai soliti cliché: a cena
da soli o con altri accoppiati Anzi, più siamo meglio è.
Mangiamo la pizza in allegria, con qualche accenno all’inverno che verrà, all’estate che è stata. Il servizio è veloce, le
pizze da noi ordinate arrivano subito, mangiamo con gusto. È
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bello ascoltare il silenzio in cui si mangia, le uniche parole che
si sentono servono per reclamare o acqua o birra, altrimenti si
mastica e si taglia, rasentando la voracità. Finiamo, paghiamo, andiamo via.
Usciamo e vedo il buio della notte che viene infranto dalla
luce della luna e delle stelle. Affretto volontariamente il passo,
poi mi giro e guardo, guardo noi stessi, guardo i miei amici ed
è come guardare me, sorridiamo, scherziamo, parliamo, cerchiamo di capirci ma siamo anche preoccupati, di tutto. C’è il
timore di perdere tutto questo che ci lega, c’è la paura del
domani, di come si dovrà fare ad andare avanti e ad arrivare
alla fine del mese, perché anche se è venerdì sera, questi pensieri ogni tanto ti vengono. A volte provo una sensazione d’inquietudine, di voler stare in un posto e l’attimo dopo voler
andare subito via, lontano, in un altro posto da cui l’attimo
dopo vorrò nuovamente andar via.
Se Ivan non venisse a parlarmi di una partita di calcetto mi
perderei completamente in questi pensieri. All’inizio non lo
ascolto, ma quando mi chiede se ho capito sono costretto a
scuotermi. “Capito cosa?”
“Sì, io sono dieci minuti che ti parlo e tu neanche mi dai
retta….grazie!”
“Dai, scusa Ivan, è che la mia anima di filosofo aveva preso il sopravvento.”
“Tranquillo. Niente, parlavo di una partita di calcetto da
organizzare, giusto per sudare un po’, altrimenti questa pancetta alcolica non se ne va più!”
“Hai ragione, compare mio, domani mattina ne parliamo
con gli altri!”
“Ste, ma è tutto ok?”
“Sì sì, o almeno credo. Ma sì, dai, andiamo a divertirci. E a
bere qualche bicchierino di quel rum e pera che non guasta
mai.” Ritorniamo alle macchine, la mia dolce metà si avvicina e mi dà un bacio.
“Mmmmm, questo per compensare quello di prima?”
Con i miei occhi
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“Sì! Se fai il bravo vedi che stasera ti faccio quella cosa che
ti piace tanto.” Ecco, quando dice così mi viene voglia di salutare tutti e andarmene da solo con lei anche in riva al mare e
fare di tutto, ma poi aggiunge: “Sempre se fai il bravo!”
“Ma lo sai che ho 22 anni, che non sono un bambino né
tantomeno un cane e che credo di sapermi comportare?”
“Certo che lo so tesorino, ma tu dimostramelo sempre!”
Salgo in macchina, alzo gli occhi all’aria, sbuffo e mi vengono subito in mente le parole di mio padre, non sbuffare!
Allora sorrido, guardo in macchina e mi accorgo che dietro è
salito Silvio.
“Vengo con voi piccioncini…farò il vostro bravo bambino
per il tragitto. Ci sono problemi?”
“No no. Tanto un altro bambino c’è già….ed è bello
cresciutello come te.” Prima di darmi il tempo di pronunciare
un qualsiasi tipo di risposta, la sua mano scivola veloce nel
bel mezzo del sedile dove io sono seduto. Mi sfiora. La guardo con un mix di sorpresa e di rimprovero, lei mi fa l’occhiolino e allora capisco per l’ennesima volta che comanda lei.
Non c’è niente da fare.
La strada scorre veloce e tranquilla, poche macchine, qualche
pattuglia di controllo, qualche donna o presunta tale che fa il
mestiere più antico e, a detta di alcuni, più bello del mondo.
All’ingresso del parcheggio del Boko, questo il nome del locale, incontriamo un po’ di fila, ma dopo cinque minuti riusciamo a entrare.
Non appena scendiamo, notiamo subito il parcheggiatore
che ci chiede, senza neanche dire buonasera, 1 euro e 50;
paghiamo senza dire nulla, ma è chiaro che ci sembra un piccolo furto autorizzato. Tuttavia Ivan, come al solito, non riesce
a tenere la bocca chiusa.
“Scusami, ma tu stai qui finché tutte queste macchine non
vanno via?” Il parcheggiatore, intento a contare i nostri soldi,
solleva la testa e cerca di capire chi ha parlato. Ivan ripete la
domanda. “Non lo so dipende se sono stanco.”
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“Ah, quindi se succede qualcosa a una di queste macchine
e tu non ci sei?”
“Non è certo colpa mia…perché, vorresti dire il contrario?” Si avvicina a Ivan con aria minacciosa, noi istintivamente ci mettiamo tutti intorno a Ivan, gli altri parcheggiatori si
avvicinano anche loro e in pochi secondi si crea un gruppetto
di persone che non sta certo discutendo di musica.
“Non voglio dire il contrario, voglio solo dire che mi sembra eccessivo quanto chiedete per quello che fate, anzi che
non fate.”
“Ah, il signorino ha una bella lingua.” Prima che il
parcheggiatore finisca la frase, Ivan aggiunge qualcosa che
non avrebbe dovuto aggiungere.
“Perché, l’hai guardata? Hai visto che sta bene?”
Caccia fuori la lingua, abbassa gli occhi più che può e se la
guarda. “È vero, sta proprio bene!” Ecco, l’ironia in questi
casi è la cosa peggiore, quella che porta a conseguenze tali da
rovinare una bella serata. Il parcheggiatore è un uomo sulla
cinquantina con una pelle di un colore molto scuro, la faccia
segnata dagli anni, un’espressione abbastanza cattiva che, in
questo momento, si mostra in tutto il suo splendore. Si avvicinano per il classico faccia a faccia che, sia ben chiaro, non è
un programma televisivo.
“Sei spiritoso signorino, gli spiritosi parlano molto e male,
lo sai? E anche se non lo sai te lo dico io e ora te lo faccio
anche capire a modo mio.” Prima che succeda per davvero
l’irreparabile, letteralmente ci scaraventiamo in mezzo a quei
due per distorglierli dalla loro personale chiacchierata ravvicinata. Segue il classico vociare confuso in cui il parcheggiatore
urla che la vita di Ivan è praticamente finita e di rimando il
mio amico lo guarda quasi per sfidarlo. Non capisco perché
Ivan si sia messo in una situazione del genere, è uno tranquillo, come tutti noi. Insomma, grazie al nostro persuasivo intervento con Ivan e a quello dei suoi amici con il parcheggiatore,
i due si danno la mano e tutto finisce lì.
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Percorriamo un po’ di metri tutti in religioso silenzio, cercando di guardare Ivan nel vano tentativo di riuscire a capire
il perché di questa discussione evitabilissima. Alla fine mi giro
e glielo chiedo.
“Caro amico mio…anzi cari amici miei…dovevo iniziare a
movimentare la serata o no?! Pensavate che pizza e questo
bel localino potessero bastare?! Su, non scherziamo…ci voleva un po’ d’adrenalina, ma di quella vera! E poi quello mi
stava antipatico. Ride Ivan, lo fa di gusto, è una risata divertita e compiaciuta di se stesso. Il religioso silenzio continua,
interrotto finalmente da Giulia: “Beh, almeno la prossima volta
rendici partecipi, prima di queste tue scenate adrenaliniche,
almeno eviteremo di preoccuparci. “Giusto! – ribadisce Enrica
e tutti gli altri fanno cenno di sì con la testa. – Poi guarda che
quello ti gonfiava.”
“A chi?! A me?! Ma mi hai visto bene?”
“Certo, proprio perché ti ho visto bene ti dico questo!”
“Guarda che se non vi mettevate in mezzo, gli avrei fatto
ricordare il 22 Agosto per anni, anni e ancora anni.” Menomale che, quando pronuncia questa frase, si mette a ridere da
solo, consapevole delle sue stronzaggini.
Finalmente riusciamo a entrare in questo benedetto locale,
Boko. Nome strano ma originale. Non appena arrivati all’ingresso, il nostro sguardo viene attirato da un cartello: ‘Uomini
euro 10 – Donne euro 7’. Io non riuscirò mai a capire il perché di questa discriminazione, questo è puro razzismo del tutto gratuito e senza un filo di logica. Non è tanto per i tre euro
di differenza, cioè anche per quelli, ma non capisco proprio il
motivo di questa disuguaglianza. Hanno voluto la parità dei
sessi? Che parità sia, in tutto e per tutto! Pensieri che restano
nella mia mente e che non condivido con nessuno, onde evitare una discussione dal tempo incalcolabile e dagli sviluppi
incontrollabili.
Mi avvicino a Ivan che mi guarda, con un’occhiata mi indica il cartello, ci guardiamo e non c’è bisogno di parole. C’è
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Stefano Quarta
gente che parla, c’è la musica che sembra carina, ci sono i
miei amici e c’è tanta gente che ha voglia di divertirsi; sarà
una bella serata! Facciamo la fila, paghiamo ed entriamo. Enrica,
Giulia e Milena si staccano subito da noi per andare in bagno,
tutte insieme.
“È inutile, non lo capirò mai il perché… devo farmene una
ragione.”
“Già, ma non è che si credono troppo belle e si accompagnano a vicenda casomai si sciupino?!” Scoppiamo a ridere
per la battuta d’Alessandro, anche se i nostri dubbi rimangono, ma li lasciamo lì dove sono dando retta ai nostri occhi che
hanno veramente un bel da fare per non farsene scappare
neanche una: le ragazze in estate sono molto più carine, non
c’è niente da fare. Sarà l’abbronzatura, saranno quei vestitini
corti, sarà la spensieratezza che le accompagna, fatto sta che
tutte sono belle davvero. Poi sono anche meno acide, il che
non guasta per niente. Non ci vuole molto per divertirsi, noi
non ci facciamo certo pregare, iniziamo a ballare e la sensazione di libertà che si prova è davvero bella.
Tornano le ragazze dal bagno e subito si piazzano vicino a
noi tipo Kevin Kostner con Whitney, anche se noi stiamo semplicemente ballando. Ci ritroviamo tutti in pista e formiamo
un cerchio: le borsette delle ragazze in mezzo, qualche giubbotto di sopra ed eccoci qui nel centro della discoteca a scatenarci. Ma i ritmi estivi si fanno sentire e dopo neanche dieci
minuti di movimento mi viene già il fiatone, ho bisogno di
una pausa. Vado a sedermi su un briciolo di muro che è rimasto inaspettatamente libero, mi guardo un po’ in giro. Ce n’è
di gente strana...eccome se ce n’è. Non mi piace criticare gli
altri per il loro modo di vestire, perché è giusto che ognuno
sia libero di vestirsi come vuole, però non è libero di vestirsi
in maniera ridicola, e dai! Per esempio, ecco un ragazzo con
le gambe fasciate in pantaloni di pelle nera stretti stretti, dove
l’aria non entra neanche pagando, una magliettina ancora più
aderente, e qui è concepibile visto che siamo in estate e lui,
Con i miei occhi
21
oggettivamente, ha un fisico carino e, gli ultimi due tocchi di
classe, i capelli con così impomatati che, quando suda, le
goccioline sono blu come il colore del suo gel. Dulcis in fundo:
un paio d’occhiali da sole con lenti scure, qui, in piena notte,
in una discoteca. Dimenticavo, naturalmente ai piedi indossa
degli stivali a punta, ovvio. Senza parole, però devo riconoscere che il suo scopo lo raggiunge pienamente, perché la
quasi totalità delle persone presenti nella discoteca si gira a
guardarlo. Mah, contento lui, contenti tutti. Poi, alla mia sinistra, c’è una ragazza carina, con una gonnellina, un top grazioso e… ecco l’inevitabile tocco di classe: dalle caviglie fino
alle ginocchia indossa un paio di scaldamuscoli, in piena estate.
Rimango basito, decido di guardare lei, la mia Enrica. La vedo
come in un alone magico, piena di luce che abbaglia tutti
perché lei è bellissima, mi piace, mi piace davvero tanto e
mentre sono in questa specie d’estasi mistica mi accorgo che
la mia dea sta parlando con uno che mi sembra di conoscere,
ma nessuno dei due mi calcola minimamente. Questo non mi
fa un gran piacere; allora, da bravo ragazzo non geloso, ma
premuroso, mi alzo e mi dirigo verso di loro.
Lui è un tale che abbiamo conosciuto, quando io e lei eravamo solo amici, a una festa di un mio compagno d’università ma, sinceramente, non ricordo neanche il suo nome. Non
appena mi avvicino lui letteralmente si getta su di me quasi
fossimo amici dai tempi che furono e mi saluta con un certo
vigore; mi ha colto un po’ alla sprovvista, quando addirittura
mi abbraccia io poggio la mia faccia sulla sua spalla, vedo
Enrica che ride per la scena e mi fa un cenno come per dirmi
che questo tipo è abbastanza espansivo. Con una mossa da
wrestling riesco a divincolarmi dal suo abbraccio, ma lui si
mette subito a parlare con me e con la mia dolce metà, e
praticamente in dieci minuti senza darci tregua ci racconta gli
ultimi otto mesi della sua vita.
Mentre parla lo guardo e mi viene un flash, un ricordo,
un’istantanea di circa otto mesi prima, di quella festa, di noi
22
Stefano Quarta
due che parlavamo con un certo impaccio. Era la seconda
volta che la vedevo e già mi faceva battere il cuore all’impazzata:
discutevamo di cose stupide, senza alcun senso, ma l’importante era parlare, perché restare in silenzio sarebbe stato a dir
poco drammatico. Non stavamo mai zitti e poi lei è molto
meno timida di me, anche a costo di dire delle cazzate non
smetteva mai di parlare. Tra noi c’è stata subito intesa e ora
siamo qui ad ascoltare questo tipo di cui non ricordo neanche
il nome, ma non capisco neanche il perché stiamo qui ad
ascoltarlo. Enrica mi stringe la mano, lo fa sempre più forte,
segno evidente che neanche lei sa come fermare questa macchina umana. Per fortuna che arriva Silvio a salvarci.
“Ragazzi noi stiamo andando al bar a bere qualcosa e vi
ho portato le vostre cose, voi venite?” Non appena sentiamo
quel ‘voi venite’, non diamo al nostro amico neanche il tempo di finire la frase che praticamente siamo già per le scale
che conducono al bar, dopo aver salutato in fretta e furia il
logorroico ragazzo di nome Paolo. Ma ecco materializzarsi
nuovamente quello che sta diventando una specie d’incubo:
per le scale sentiamo chiamare i nostri nomi da un timbro di
voce oramai inconfondibile.
“Ehi… Enrica… Stefano… Un attimo, permesso… scusate…” Ci giriamo a guardarlo e vediamo che si dimena tra la
gente rischiando quattro cinque volte il linciaggio pur di raggiungerci. Finalmente ci riesce. Mi accorgo che Silvio ha intenzione di dileguarsi, ma lo trattengo con modi non proprio
ortodossi. Paolo ci raggiunge trafelato. “Ehi, ci siamo salutati
senza neanche scambiarci il numero di telefono...non facciamo il solito errore di perderci di vista, sarebbe un peccato.
“Eh già, sarebbe proprio un gran peccato” dice Enrica con
una faccia da culo formato famiglia. Nessuno di noi prende il
cellulare in mano per segnare il numero, c’è solo Paolo con il
suo, nessuno di noi parla e non è una bella scena. L’equilibrio
si rompe nel momento in cui mi decido, ma invece di dire il
mio numero dico quello della mia ragazza. Mi esce spontane-
Con i miei occhi
23
amente e, dopo essermi accorto del mio errore, grazie al suo
sguardo decido che è un buon errore. Vada così.
“Ok Ste, grazie mille, ti prometto che ci sentiremo quanto
prima. Buona serata ragazzi.” “Ciao Paolo a...presto.”
Riprendiamo il nostro cammino verso il bar e, dopo alcuni
commenti poco piacevoli sul quel ragazzo così discreto, raggiungiamo i nostri amici comodamente seduti a un tavolo a
gustarsi un bel cocktail sicuramente alcolico. Ci uniamo a loro,
la serata trascorre tranquilla così, osservando i personaggi più
strani, bevendo qualcosa e ridendo. Stiamo tutti bene e ci
basta questo. Per ora. Decidiamo di andare via quando l’orologio segna appena le 04:25 con conseguenti lamentele di
Silvio e Alessandro.
“Se mio padre mi sente rientrare prima delle sei in Agosto
si preoccupa, ne sono sicuro, si alza e mi chiede se va tutto
bene, se è tutto a posto, le solite domande che fanno i genitori, so già che mi dovrò innervosire perché queste domande
mi fanno innervosire e dovrò urlare. Urlando si sveglierà anche mia madre e urlerà anche lei, quindi ci ritroveremo all’alba a urlare ed è per questo che io vi chiedo, per favore, di
aspettare ancora...ecco...almeno un’altra ora...Faccio appello
al vostro buon senso.”
Il piccolo monologo di Silvio ha messo in evidenza tutta la
sua capacità linguistica, ma i nostri occhi chiedono giustizia e
così si va a casa. Effettivamente mi sento stanco. È dai primi
giorni di Luglio che facciamo questa vita tanto irregolare quanto
bella, ma stiamo arrivando al limite, non reggiamo più ed è
logico e regolare. Nonostante la strenua opposizione di Silvio
e Ale, che non si capisce come mai hanno ancora la forza di
stare svegli e continuano a farcelo capire in svariati modi e
con le parole più fantasiose, oramai è deciso: si va a casa.
Per strada notiamo qualche macchina con i vetri appannati, altre con qualcuno che si sporge da un lato per evitare di
sporcare la macchina con liquidi poco profumati e ancor meno
gradevoli che escono dalla cavità orale; non è ancora l’alba,
24
Stefano Quarta
la luna risplende sul mare, le stelle sembrano immobili nel
cielo. Ci salutiamo dandoci il solito appuntamento alla solita
ora, cioè chi si sveglia prima innesca una reazione a catena
che porta al risveglio generale di tutti noi. Anche se c’è un
tacito accordo in base al quale prima delle 11:30 non si sveglia nessuno.
Alla fine rimaniamo solo io e lei, sto per accompagnarla a
casa, ha lo sguardo rivolto verso il mare. È seduta comodamente sul sedile, sembra assorta nei suoi pensieri: mi chiedo
quali siano i suoi pensieri e se io ne faccio parte, perché lei fa
parte dei miei, sempre e comunque. D’un tratto, con fare deciso si gira verso di me facendomi quasi paura, mi guarda e
mi dice:
“Tesoruccio caro, ce ne andiamo in spiaggia un pochino
pochino, soli soletti io e te? E dai, dai, dai, dai…Non essere
vecchio…Dai!” Rallento, mi accosto al marciapiede, mi volto
a guardarla, lei ha assunto quella pericolosa espressione che,
lo so io e lo sa lei fin troppo bene, riesce a non farmi dire mai
di no.
“Ok ok ok…anche perché non penso di avere potere decisionale, come sempre.” “Bravo il mio cicci!Andiamo.”
A volte penso che esista un vocabolario dei nomignoli da
affibbiare a fidanzati o ragazzi che dir si voglia, perché ce ne
vuole davvero tanta di fantasia per pensare a soprannomi
tipo cicci o puffi e nel momento in cui finiscono questi, si
attinge al mondo animale con pulcino o micione. Ma dai! Che
mi sento proprio ridicolo quando mi chiama così e lo sa che
in pubblico mi dà fastidio e non lo fa mai, anzi, quasi mai,
visto che quando vuole farmi arrabbiare usa spesso questa
tecnica. “E andiamo.”
La strada la conosco a memoria, infatti ci dirigiamo al nostro solito bagno, dove verso mezzogiorno non si può neanche mettere piede, ora invece è tutta per noi. Abbiamo anche
la possibilità di scegliere dove stare. Naturalmente ci mettiamo vicino ai pedalò, come nelle migliori tradizioni cinemato-
Con i miei occhi
25
grafiche. Ed eccoci qui in riva al mare, in un 23 Agosto appena nato, forse siamo i primi a salutarlo; il mare è calmo ed è
anche caldo perché il mare alle prime luci è sempre calmo e
caldo, sembra quasi che dorma anche lui, si sveglierà man
mano che arriveranno i primi bagnanti, forse rimarrà calmo,
forse no, certo è che cambierà temperatura e cambierà colore. Ma ora è il nostro mare, solo per noi due. Stiamo in silenzio, abbracciati, con la sua testa sulla mia pancetta alcolica. È
lei che parla per prima.
“Sai, è da tanto che non stavo così bene...forse dovrei ringraziarti Stè.”
“Mah...forse forse...certo è che dovresti ringraziarmi ogni
giorno perché poso i miei occhi su di te, perché ti parlo e
quando ti bacio dovresti prostrarti ai miei piedi e venerarmi.”
“Aspetta che prendo appunti...”
“Brava, vedo che inizi a capire.”
“Ma per favore, sottospecie di un qualche genere di
Divinità...vedi come sei rozzo e scurrile?! Io ti dico le cose
carine e tu mi rispondi con le stupid...” Non la faccio neanche
finire di parlare, afferro il suo viso e la bacio con tutto il mio
amore, che in quel momento è straripante; la bacio con
passionalità perché io sono attratto da lei, la bacio perché mi
piace baciarla.
“Inoltre sei anche maleducato perché non mi fai neppure
finire di parlare.” Sorrido, la bacio ancora. Un bacio, un altro
ancora e ancora un altro, la passione ci travolge e noi facciamo ben poco per bloccarla.Ci lasciamo andare e facciamo
l’amore, in spiaggia, in riva al mare alle 05:30 di mattina.
Questo 23 Agosto promette davvero bene. Facciamo l’amore
completamente, sia nel senso fisico che mentale, perché io
mentre sto con lei non riesco a pensare a nulla, non riesco
neanche a capire quanto sto bene, lo capisco solo dopo. Ci
avvinghiamo l’uno all’altra, ci stringiamo forte, i nostri respiri
si uniscono e i nostri corpi s’intrecciano, la sabbia non è piacevole come terzo incomodo, ma non fa niente. Chiunque
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Stefano Quarta
passi e guardi un po’ più attentamente può vederci, ma questo non ci ferma, perché entrambi abbiamo voglia di fare l’amore.
E lo facciamo.
Restiamo abbracciati, con i nostri corpi rilassati e distesi
sulla sabbia, proviamo entrambi quella piacevole sensazione
di stanchezza che invade il corpo, ma è una sensazione troppo bella e rimaniamo lì a guardare il mare e il sole che oramai
è pienamente tra noi.
“Buongiorno passerotto mio.”
“‘Ngiorno piccola mia... dormito bene?”
“Sì sì, pienamente. Non ho sentito nulla!” Sto un attimo in
silenzio, dopo alcuni istanti capisco la sottile ironia.
“Ah ah ah, ma come siamo spiritosi di prima mattina. Comunque per non aver sentito nulla, avevi un respiro abbastanza profondo e avevi anche l’affanno.” Ride, rido anch’io.
Penso che stiamo così bene insieme proprio per questo: perché ridiamo e ci divertiamo, lo abbiamo sempre fatto, fin da
quella famosa festa e da allora non abbiamo mai smesso.
Quando smetteremo di divertirci saranno guai. Ma ora è inutile pensarci, stiamo bene e basta.
Torniamo a casa anche perché si è fatta una certa ora, i
nostri corpi reclamano riposo; lascio lei a casa, mi dirigo verso casa mia, senza neanche accorgermene mi ritrovo in cucina a bere un po’ d’acqua prima di abbandonarmi tra le braccia di Morfeo, sento un qualcosa che mi urta la gamba, in
pratica mi si strofina sopra e senza neanche voltarmi a guardare mi ricordo di quella povera bestiola. Mi salta addosso e
inizia a dimenarsi reclamando affetto che è impossibile negargli; mi metto a giocare con lui come un bambino, dimenticando completamente che sono appena le 06:30 del mattino e
che un cane anche se piccolo non può abbaiare, perché sveglia le persone che dormono, perché questo è un orario in cui
si dorme, di solito. Non faccio in tempo a rendermene conto
che spunta lui: capelli alzati che sfidano la forza di gravità, un
fisico che non gli invidia nessuno e delle mutande blu, molto
27
Con i miei occhi
eleganti. “Ma ti pare l’ora?!” “Uhè... Buongiorno... Tutto bene?
Riposato bene?” Mi guarda per capire se sono sotto effetto di
qualche sostanza illecita, capisce di no, si volta e se ne va.
Loquace. Ma ora sento per davvero la stanchezza, smetto di
giocare con lui che avrebbe continuato per ore e ore, mi dirigo verso la camera, mi segue, inizio a togliermi i vestiti di
dosso, li scaravento sulla sedia, mi butto a peso morto sul
letto e lui, senza pensarci troppo, si auto invita sul mio letto, si
piazza lì buono buono e si mette a dormire anche lui.
A UN PALMO DALLA SABBIA
Quando mio padre si alza, ovviamente molto prima di me,
ha l’abitudine di chiudere la porta della mia camera, per evitare che i consueti rumori della mattina mi disturbino e per
farmi così riposare meglio. Che caro papà. È successo anche
oggi, non sono riuscito a guardare l’ora ma ho visto, attraverso un piccola fessura del mio occhio praticamente chiuso,
un’ombra che chiudeva la mia porta e qualcosa di piccolo
che con uno scatto canino usciva dalla mia camera seguendo
mio padre.
Dormo e sogno, faccio sempre dei sogni veramente strani
che difficilmente ricordo interamente, ne ricordo alcuni spezzoni,
alcuni frammenti e basta. Cerco disperatamente di ricordarmi
il resto, ma niente. La cosa buffa è che sto dormendo e sto
sognando, capisco di dormire e di sognare, cioè, ho quell’attimo di lucidità in cui capisco cosa sto facendo, ed è raro perché a volte non capisco cosa sto facendo neanche quando
sono nel bel mezzo della giornata, figuriamoci durante il sonno, ma succede ed è uno dei grandi misteri della vita. Ma
sogno.
Mi vedo in un grande castello, sono un cavaliere in mezzo
a tanti, andiamo fieri in giro e mi accorgo che non siamo
nell’epoca delle principesse, ma c’è un manifesto pubblicita-
28
Stefano Quarta
rio, c’è un bar, c’è un cinema, ci sono le macchine. Sono nel
ventunesimo secolo, sono vestito da cavaliere ma nessuno mi
guarda in maniera strana, anzi, ci sorridono, già, perché non
sono da solo. Tutti scappano e corrono verso di noi chiedendoci aiuto, noi ci guardiamo e sappiamo già cosa fare,
sguainiamo le spade, ci guardiamo negli occhi con un cenno
d’assenso, andiamo nella direzione contraria a tutta la gente.
Più camminiamo meno gente troviamo perché tutti sono scappati
da lui: un mostro con una testa di drago e il corpo di un robot,
ma noi siamo lì e non ci scomponiamo, lo guardiamo con
un’aria di sfida. Rimaniamo immobili, impassibili nella nostra
posizione a rombo mentre lui emette i suoi versi, perché ci ha
visti e non so se ha paura o no, ma ci ha visti e urla, mentre
noi stiamo in silenzio con le spade rivolte verso di lui. Ma
d’un tratto lui si alza in volo e inizia a girare sopra le nostre
teste, prende la mira e si getta a capofitto su di noi, senza
pensarci su. Noi siamo sempre fermi nelle stesse posizioni,
solo il nostro sguardo si è mosso per seguirlo, lo guardiamo
negli occhi mentre ci viene addosso, ma prima dell’impatto ci
alziamo in volo anche noi, non apriamo neanche le braccia,
semplicemente ci alziamo in volo e lui prende una gran batosta
sul naso, ma si rialza e...io non ricordo più nulla.
Mi sveglio. Cioè, mi sveglio è una parola grossa, inizio piano piano ad aprire gli occhi tentando di guardare l’orologio,
ma ho la vista completamente appannata, allora cerco di fare
pulizia nel mio occhio con la mano, funziona perché adesso
riesco a vederlo e i suoi numeretti rossi indicano le 13:22.
Inizialmente non capisco, come sempre. Poi dopo alcuni attimi il mio cervello si ricollega al mio corpo ed eccomi qui appena connesso con il mondo: è l’ora di pranzo. Io devo ancora alzarmi dal letto e, soprattutto, ho la bocca tutta impastata
e secca, nel momento in cui emetto un respiro più profondo
sento la puzza del mio alito e tossisco pure. Meglio che stia
zitto.
Mi alzo, rimango alcuni secondi seduto sul letto, ma non
Con i miei occhi
29
appena mi trovo in posizione verticale, la porta si apre ed
entra un’ondata di luce che ha gli effetti di un’ondata di vento,
perché mi fa ricadere sul letto e i miei occhi si richiudono in
un processo che è del tutto naturale. Mio padre dice qualcosa, ma non lo sento, perché non riesco a sentirlo. Ciò che
sento è uno strano profumo e una lingua che mi lecca, con
relativa saliva che rimane sulla mia guancia. Abbaia. Lo accarezzo con quel briciolo di forze che ho, faccio un enorme e
ulteriore sforzo per alzarmi e raggiungere il bagno per cercare
di assumere una parvenza decente, ma non appena mi guardo allo specchio c’è qualcosa nel mio corpo che richiama più
o meno vistosamente la mia attenzione: è quello che io chiamo mio fratello piccolo, appena mi sveglio lui è sempre più
sveglio e ben più arzillo di me, oserei dire quasi pronto per
l’uso. Ed è così quasi ogni mattina. Ora non mi preoccupo
più, ma prima quando avevo tipo 14 anni, il mio fratellino
iniziava a dare i primi segni di vita, a volte mi spaventavo
vedendomi così la mattina. Avevo troppa vergogna per parlarne con mio padre, tantomeno con mia madre, così mi rimanevano solo gli amici. I discorsi sul sesso non erano frequenti, ma iniziavano a esserci e dopo la paura iniziale di
essere diverso dagli altri, con mia somma gioia ho capito che
il mio non era un problema, ma una costante in quasi tutti
noi. Ora mi guardo e rido. Per mettere a cuccia il mio fratellino, non c’è miglior rimedio che una bella cascata d’acqua
gelida e lui si calma; in fondo è bravo ed è anche parecchio
ubbidiente, certo qualche volta prende la parola da solo, senza che nessuno gli abbia detto nulla, ma non mi posso lamentare.
Mentre sono in bagno e combatto con il mio alito mattutino, sento le voci dei miei che giocano con l’animale vero, con
quel piccolo cane che sembra essere con noi da un bel po’ di
tempo. Mi sciacquo più volte la faccia con acqua gelida per
svegliarmi per bene, ma con scarsi risultati. Esco dal bagno,
vado nella mia camera, tolgo le mutande, infilo il costume e
30
Stefano Quarta
sono vestito: ecco uno dei principali motivi per cui adoro l’estate.
Basta davvero poco per vestirsi, un jeans, una maglietta (come
diceva il caro Nino D’Angelo...)e via, mentre d’inverno c’è
bisogno della magliettina interna, del maglione, dei pantaloni
più pesanti, delle calze, e io odio le calze che non mi riscaldano per niente i piedi, poi c’è il giubbotto o il cappotto che,
quando sei seduto in macchina a guidare, t’impedisce qualsiasi tipo di movimento che non sia quello di cambiare marcia
e tenere le mani sul volante. Se vuoi cambiare stazione radio
o cd, è la fine. Ed è inutile che ti affanni a cercare di farlo,
perché più movimenti fai più hai probabilità di sudare e se
inizi a sudare in pieno inverno, con il maglione di lana e magari anche una bella sciarpa di quelle che assomigliano a
un’anaconda, ecco in quei casi ti scatta il prurito feroce soprattutto vicino al collo, che assumerà un colore rossastro tendente al violaceo e tutti saranno lì a domandarti: ma cosa ti è
successo? Ti sei fatto male? Ah, ho capito: è stata la ragazza.
Tu non rispondi perché tanto sai bene che in pochi crederanno alla tua lotta per cambiare canzone.
Mentre penso tutto questo, mi ritrovo a tavola e ho davanti
un piatto di pasta al sugo, con il formaggio grattugiato che
lentamente si fonde con il calore di un’abbondante quantità
di sugo che emana un profumo davvero niente male; ma io
mi sono alzato da neanche quindici minuti e ho serie difficoltà a ingerire qualsiasi cosa, quindi aspetto qualche minuto
prima di iniziare a tentare di mangiare qualcosa. Anche perché il mio stomaco fa fuoriuscire dalla mia bocca delle folate
d’aria che, nel momento di uscire emettono un rumore davvero poco piacevole, ma che se trattenute all’interno del mio
corpo sono ancora meno piacevoli. Per questo e anche per il
contesto puramente familiare lascio che la mia bocca emetta
dei suoni corpulenti e parecchio rumorosi che sanno puramente d’alcool.
Fino al terzo rutto i miei hanno continuato a mangiare facendo finta di niente, ma visto che ho l’abitudine di forzare la
Con i miei occhi
31
mano, ne faccio un quarto e mia madre proclama subito la
mia natura suina.
“Porco. Sei solamente un porco. Tu e pure tuo padre.” Mio
padre, poveretto, non aveva detto mezza parola, ma si sente
chiamato in causa da un aggettivo veramente poco piacevole. “Scusa, ma io che c’entro? Se hai fatto un figlio porco non
è certo colpa mia.” “Ma zitto, zitto. Che tu sei il primo a fare
cert...” Ed è qui che mio padre a quarant’ anni suonati e,
soprattutto, mentre mia madre è nel pieno della sua oratoria
sul nostro comportamento animalesco, emette un’eruttazione
di quelle alla Fantozzi, in maniera che anche il cane abbaia di
scatto guardandolo. Io rido, perché altro non posso assolutamente fare; rido così tanto che in poco tempo mi vengono le
lacrime agli occhi, mio padre cerca di pronunciare qualche
parola, ma è coinvolto nella risata anche lui. Mia madre ci
guarda con uno sguardo che esprime chiaramente il suo pensiero.
“Che schifo! Due animali, due porci, due maiali. Che schifo! Mamma mia, neanche nelle peggiori bettole fanno così...che
schifo.” Più dice così più mi rido e ride mio padre.
“E dovresti vergognarti soprattutto tu, bell’esempio che dai
a tuo figlio, che schifo!” “Io?!? Guarda che quello è grande e
vaccinato e sa fin troppo bene come ci si deve comportare a
tavola. Che poi è uscito porco è un altro conto.” Dice questo
ridendo nuovamente. Mia madre si rassegna, desiste dal dirmi qualcosa, ma ogni tanto guarda mio padre con uno sguardo che è più di un rimprovero. Lui continua a mangiare e mi
dice: “Vedi che fai arrabbiare la mamma? Certe cose lo sai
che non si fanno, porco un’altra volta.” Dice questo con un
tono da paraculo e mia madre, per tutta risposta, rincara la
dose sulla nostra e in particolare sulla sua natura suina. “Porco e pure deficiente cretino. Sto stupido animale. Bestia.”
Smetto di ridere e decido di mettermi a mangiare, anche
se mi fanno male gli addominali per tutte le risate; ma mi è
venuta fame e mangio. Fosse per me vivrei di sola pasta. La
32
Stefano Quarta
adoro. Anche perché mangiando smetto di ruttare. Arriva un
altro momento di quelli che vorresti non finissero mai, tanto
per usare uno slogan pubblicitario: la frutta. Anzi, la frutta
estiva. È troppo buona, ci sono un sacco di cose: ciliegie,
melone, pesca, albicocca, fragola, ma soprattutto lei: l’anguria. Non fa niente se dopo che ne hai mangiata in quantità
industriali ti si gonfia la pancia e la metà del pomeriggio la
passi in bagno o dentro il mare a fare pipì, l’anguria è troppo
buona. Il cuore poi, così rosso, così al centro di tutto; c’è poco
da dire o fare è buona e basta. Mentre noi mangiamo c’è il
vero piccolo animale che gira intorno alla tavola chiedendo
una qualsiasi cosa commestibile e se ne sta lì con le orecchie
all’insù, seduto su quattro zampe con il nasino piccolo e nero
intento ad annusare gli invitanti profumini che vengono dalla
nostra tavola. Ogni tanto, per giocare e anche perché sono un
po’ sadico, faccio finta di lanciargli qualcosa, lui corre, va,
annusa dappertutto e poi ritorna con il muso sconsolato perché non ha trovato nulla. Poi gli do un po’ di pasta che è
rimasta, non faccio neanche in tempo a poggiare il piatto di
carta a terra che, mentre sono a metà altezza lui si alza su due
zampe e non è che inizia a mangiare, ma inizia a divorare.
Passano esattamente quattro secondi netti da quando ho posato il piatto, che lui ha già finito: è vero, era poca roba, ma è
anche vero che la mamma prima gli aveva già dato le crocchette
per cani, comprate appositamente stamattina, e che lui aveva
ben mangiato di gusto.
“Ha una certa voracità questo cane.” “Ho notato.” Piccolo
scambio di battute tra me e mia madre. Poi interviene immancabile il boss, mio padre.
“Beh, ieri sera che hai fatto? Ti sei divertito? Quanti eravate?” Lo guardo, non rispondo. Lui mi guarda, non capisce
perché non rispondo. Continuo a fissarlo, sempre senza parlare. Lui ricambia il mio sguardo. Dalla sua espressione intuisco che non ha ancora capito il perché non sto parlando. Decido di rompere il silenzio.
Con i miei occhi
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“Hai l’impellente necessità di farmi tre domande alla volta
e di sapere tutto e subito?”
“Cioè, fammi capire: tu non stavi rispondendo perché secondo te ti ho fatto troppe domande contemporaneamente?”
Annuisco. “Tu, ragazzo, hai qualche problema, dobbiamo farti vedere da uno bravo. Da un luminare oserei dire.”
“Ah ah ah! Sai a Zelig stanno cercando nuovi comici, perché non ti candidi?”
“Evita di fare lo spiritoso, saputello, e dimmi che avete fatto ieri sera.”
“Niente.” Attimo di silenzio.
“Come niente?!? Non fai niente e torni alle 6:00, figuriamoci se facevi qualcosa, dovevi lasciarmi una foto a casa così
ogni tanto mi ricordavo di te.”
“Ah, oggi siamo proprio in grande forma...bravo, bravo,
continua così che le selezioni sono vicine.”
“Che intenzioni hai? Continuiamo così oppure mi dici che
hai fatto ieri sera?”
“Non lo so, sono in fase decisionale.” Silenzio. Lui mi guarda
e sta per dirne un’altra delle sue, quando prontamente parlo.
“Siamo andati prima a mangiare la pizza e poi al Boko.
Ecco la mia tranquilla e anche piuttosto carina serata. Contento?”
“Hai bevuto?”
“No. Cioè, un pochino. Come al solito, non ho esagerato.”
“Mi raccomando. Anche perché poi devi sempre guidare.”
“Stai tranquillo, mi rendo conto quando esagero. Voi che
avete fatto?”
“Nulla di particolare. Abbiamo cenato da soli, poi ci siamo
fatti una passeggiata con Gianni e a Cristina, un gelato e poi a
casa a chiacchierare. Le vacanze sono alla fine per tutti.” “Purtroppo è vero.”
Mi alzo e mi dirigo verso il telefono. Chiamo Enrica, mi
risponde sua madre. Ha una voce abbastanza dolce la madre
della mia lei, anche se quando urla sa farsi sentire veramente
34
Stefano Quarta
molto bene, anche da molto lontano. Forse non si accorge di
avere il microfono ancora attaccato alla bocca, perché chiama la figlia con un urlo tale che ho la reazione istintiva di
allontanare il telefono dal mio orecchio e metterci un dito dentro
per controllare che sia tutto in ordine. Aspetto alcuni secondi,
poi di nuovo la genitrice mi comunica che Enrica sta arrivando, che era in bagno, che deve ancora mangiare, che ha fatto
tardissimo e qui scatta la classica esortazione: “State attenti”.
Rieccoci! Per fortuna arriva Enrica a salvarmi. Non siamo
fidanzati in casa, come si usa dire. È semplicemente che i suoi
mi conoscono e i miei conoscono lei; non ci sono mai stati dei
pranzi ufficiali o cose simili, stiamo bene così, non abbiamo
l’esigenza di altro. Anche perché io vado tranquillamente a
casa sua e lei viene tranquillamente a casa mia.
“Ehi...scemo...
“Buongiorno eh,... bell’accoglienza.”
“Dai cicci mio, come stai?”
“Bene bene, ho appena finito di mangiare un bel piatto di
pasta parzialmente condiviso con il mio nuovo animale.”
“Già, ma come sta? Ha già un nome?”
“Sta bene, il nome ancora non ce l’ha perché stiamo aspettando che se lo vengano a riprendere. Spero che lo facciano
al più presto.”
“Ecco, il solito egoista del cazzo!”
“Cretina, altrimenti mi ci affeziono troppo. Del resto così
ho fatto con te, ti ho trovata a una festa, ti ho accolta e mi
sono affezionato. Visto che non sono egoista?”
“Egoista no, stronzetto sì.”
“Sì, e me ne vanto. Ma tu ti sei alzata ora?”
“Siiii…mannaggia.”
“Perché mannaggia?”
“Mah, avrei voluto svegliarmi prima. Comunque fa niente.”
“Capito. Ci vediamo tra una mezz’ora al mare?”
“Sì, per me va bene.”
Con i miei occhi
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“Chiami tu gli altri per vedere in che condizioni sono?”
“Certo, come sempre.”
“Ok, brava. A dopo.”
“Ciao.”
–Ciao.
Arriva lui, mi lecca un po’, io gli do una carezza e cammino
diretto per la mia camera. Penso di guardare un po’ di televisione, magari ci sono i Simpson; ma non faccio neanche in
tempo a sdraiarmi sul letto che squilla nuovamente il telefono. Naturalmente so per certo che nessuno andrà a rispondere, quindi senza pensarci molto su, rifaccio nuovamente la
strada appena percorsa.
“Pronto?” “Ivan.” È la voce di Enrica e mi chiama Ivan, ed
è anche piuttosto affannata... questa cosa mi mette un po’
d’ansia.
“Ehi scemotta guarda che sono io...il tuo presunto ragazzo.”
“Stè, Ivan ha fatto un incedente con la macchina.Ora è in
ospedale.” Ancora attimo di silenzio. Ma reagisco.
“Come sta? Chi ti ha avvertito?”
“La mamma di Milena, perché lei è lì. Comunque ha detto
che non è grave. Sono all’ospedale di Maglie. Andiamo?”
“Sì, ti passo a prendere tra cinque minuti. Sbrigati. Ciao.”
Chiudo.
Mi fermo un attimo per capire se quello che ho appena
sentito è reale oppure… Mi sento come se non fossi nel mio
corpo, guardo le mie mani e vedo che mi tremano. Ho paura.
La prima cosa che ho pensato è a Ivan disteso nel letto d’ospedale, poi mi sono visto io, steso nel letto d’ospedale. Ora sto
tremando. Tutto. Sono in piedi, fermo, davanti al telefono.
Non riesco a sentire nulla, né i rumori, né il cane che abbaia,
né i passi di mio padre che viene verso di me e mi stringe il
braccio, mi scuote. “Stefano!” Muovo la testa in segno d’assenso. Mi riprendo e cerco di riavermi. Spiego brevemente
cosa è successo, poi corro a mettermi i primi vestiti che trovo
36
Stefano Quarta
e non è un modo di dire perché sono ancora così agitato che
non guardo neanche cosa mi sto mettendo, ho un solo pensiero, anzi, ho tanti pensieri che non riesco a isolarne neanche
uno. Forse uno sì: sono preoccupato per Ivan e voglio vederlo
il più presto possibile. Non m’importa nulla se la madre di
Milena ha detto che non è niente di grave, perché Milena
potrebbe non aver detto la verità, perché è sempre un incidente in macchina, perché Ivan lo conosco da sette anni, perché gli voglio bene e perché voglio vedere con i miei occhi
come sta.
Ho le mani fredde. Ho lo sguardo perso nel vuoto, non ho
voglia di parlare, ho solo la necessità impellente di sbrigarmi
a uscire. I miei sono sull’uscio che mi parlano e mi chiedono
qualcosa, ma non riesco a sentirli, vedo solo le loro labbra
che si muovono, ma non riesco a sentirli. Sono pronto. Vado
in cucina prendo le chiavi della macchina e corro via. “Ci
sentiamo dopo. Ho il telefonino. Ciao.” Sto correndo, non do
loro neanche il tempo di rispondere.
Salgo in macchina, mi dirigo verso casa d’Enrica a velocità
sostenuta, sorpasso una macchina, mi metto dietro a un’altra,
lampeggio, chiedo strada, ma le vie di Otranto sono strette e
mentre sto per immettermi sull’altra corsia per sorpassare, una
macchina punta i suoi abbaglianti contro di me: sta venendo
nel senso opposto al mio e io non posso sorpassare. Ritorno
al mio posto, ora mi tremano anche le gambe. Faccio un respiro profondo e cerco di calmarmi, altrimenti saremo in due
in un letto d’ospedale. Poco prima di arrivare a casa d’Enrica
le faccio uno squillo al telefonino, è un comune segnale per
dirle di scendere perché sono arrivato: infatti la trovo già sotto
il portone. Sale subito in macchina, andiamo via. Mi dice un
fugace ciao, neanche lei ha molta voglia di parlare, le parole
degli altri non ci rassicurano, vogliamo vedere noi con i nostri
occhi.
Maglie dista pochi chilomeri da Otranto, sulla strada non
c’è traffico, perché sono le 15:00 e sono tutti al mare o a casa
Con i miei occhi
37
a riposare o al lavoro, ma per strada non c’è nessuno; mentre
ho la mano sul cambio delle marce, lei posa la sua sulla mia e
mi guarda, senza dire nulla. Fortunatamente troviamo subito
parcheggio, quando scendo riconosco tra le altre la macchina
di Giacomo e quella di Giulia; il fatto che stiano già qui mi
tranquillizza un po’, perché so che Ivan non è da solo, saliamo
velocemente le scale, la mamma di Milena ha detto che è nel
reparto d’ortopedia, seguiamo le frecce. Ho il fiatone, respiro
con il naso e inalo un insieme d’odori che sono tipici degli
ospedali: l’odore di brodino, quell’odore di detersivo forte che
disinfetta e manda via i batteri, la puzza di fumo nelle sale di
attesa e poi riesco chiaramente a distinguere l’odore del
mercurocromo, che è presente ovunque. Siamo in un ospedale. D’un tratto ci troviamo davanti a una grande porta con
vetri oscurati con scritto in alto Ortopedia, afferro la maniglia
e la porta si apre, un’infermiera si avvicina subito a noi.
“Ragazzi, scusate ma questo non è orario di visite, dovete
tornare alle 16:30.”
“Sì, ha ragione è solo che un nostro amico ha avuto un
incidente e lo abbiamo saputo poco fa.”
“Ho capito, siete altri amici di Ivan De Rinaldis, giusto?”
“Sì sì, è lui. Per favore ci faccia entrare solo per cinque
minuti, non faremo rumore. Sia gentile. Per favore.” Ci guarda con sguardo di rimprovero, guarda soprattutto me, perché
ho parlato io e ho insistito per entrare.
“Ok, ma fate piano, mi raccomando.” Mi verrebbe quasi di
baciarla con la lingua, ma evito, sia per la presenza di Enrica,
sia perché potrebbe essere mia madre.
“Stanza 43, in fondo al corridoio. Fate piano.”
“Grazie, grazie mille, davvero.” Stanza 43. Nella mia mente non faccio che ripetere questo. 21...27...35...Affretto involontariamente il passo, Enrica rimane un po’ indietro. 41...43!
“Ci siamo.” “Sì. Dai entriamo.”
La porta è chiusa, bussiamo delicatamente e quasi contemporaneamente afferro la maniglia e apro la porta. Mi si
38
Stefano Quarta
presenta davanti davvero un bel quadretto: Massimo e Giulia
seduti ai bordi del letto, Milena in piedi di fronte a Ivan, mentre Giacomo e Ale sono seduti come due vecchi. Li vedo sorridere tutti quanti e questo mi tranquillizza un sacco. Dico un
ciao generale, mi fiondo quasi addosso ad Ivan. “Come stai?
Ma com’è successo? E quando?”
Mi rendo conto che sto facendo come mio padre, ma è
solo perché cerco di capire. Cosa non lo so, ma voglio cercare
di capire tutto il possibile. Ivan si accorge che sono agitato e
paradossalmente è lui che tranquillizza me.
“Stai calmo Stè, non c’è alcun motivo di agitarsi. Mi è andata
bene. Ho ‘solo’ il polso fratturato, un ematoma abbastanza
grande dietro la spalla e ho la caviglia un po’ in disordine,
domattina sono fuori di qui.”
“Bene, cioè insomma bene che domattina sei fuori di qui.”
Continuavo a non sentire ciò che dicevano gli altri, se parlavano o se ascoltavano le mie assillanti e petulanti domande.
“Ma com’è successo?”
“Mi è andata bene compare mio, mi è andata veramente
bene. Avevo appena lasciato lei a casa, me ne stavo andando
tranquillo a dormire, per strada non c’era nessuno, ma andavo comunque piano. Ma a una curva ho visto un’auto arrivare a forte velocità, di getto ho abbassato lo stereo, riuscivo a
sentire la loro musica nella mia macchina, ho rallentato per
via della curva, andavo pianissimo e per fortuna questi se ne
sono andati via veloci con il loro stereo, ho fatto appena in
tempo ad alzare leggermente il volume della radio che ho
visto una macchina sbandare a destra e sinistra. Non sapevo
cosa fare e sono rimasto fermo, ho visto i suoi fari su di me,
poi ho visto che cambiavano nuovamente direzione poi ancora su di me: non sapevo se sterzare o no, sono rimasto
fermo e ho sentito un botto pazzesco. Ho chiuso gli occhi e mi
sono ritrovato nell’ambulanza con un dottore che mi dava
qualche schiaffo e un gran dolore al polso e alla schiena. Ma
la paura è stata enorme.”
Con i miei occhi
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“E l’altra macchina?”
“Erano in due. Entrambi ubriachi fradici. Il conducente è
in coma, si trova in terapia intensiva, l’altro è al reparto ustioni, sembra che sia rimasto incastrato. Ma non li voglio comunque vedere. Non m’interessa assolutamente nulla di loro.”
“Ok ok, va bene, ora pensa solo a stare bene.”
Guardo gli altri, hanno i volti sorridenti ma si vede dai loro
occhi che hanno provato un grande spavento anche loro; si
avvicina Giacomo e mi dà una pacca sulla spalla. “Ciao eh.”
“Ciao a tutti ragazzi, scusate se non ho salutato ma...” “Non ti
preoccupare, abbiamo fatto tutti così.”
Enrica è rimasta sempre vicino a me, ma me ne accorgo
solo ora. È più distesa anche lei, lo siamo tutti. Non era nulla
di grave per davvero ed è meglio così, anche se non avevo
mai provato una sensazione simile. Spero vivamente di non
riprovarla più, credo di aver capito cos’è il terrore, la paura,
l’ansia e l’angoscia per qualcosa che non sai e vuoi sapere.
Huuu, finalmente riesco a respirare, i miei muscoli si rilassano
e si abbandonano, solo ora mi sento le ascelle tutte bagnate,
la maglietta lo mette ben in evidenza, ma noto che gli altri
non stanno meglio di me, ma nessuno ci fa caso. Iniziamo a
parlare della fatalità, di come certe cose sembrano così assurde quando capitano agli altri, di come sembrano ancora più
assurde quando capitano a qualcuno vicino a noi, insomma
di come certi avvenimenti siano così lontani e così vicini.
Ora ho voglia di stendermi un po’ nell’acqua, di fare il morto
a galla per rilassarmi completamente e mandare via tutta questa
tensione che ho accumulato in così poco tempo e che voglio
eliminare in altrettanto breve tempo; ho preso, abbiamo preso tutti un sacco di paura. Ma è stata un’ulteriore dimostrazione della solidità della nostra amicizia, perché siamo tutti qui
nonostante i 37° centigradi, nonostante siano gli ultimi giorni
di vacanza e nonostante ognuno di noi abbia voglia di andare
a tuffarsi in questo splendido mare. Ma non ora perché sono
le 18:00, siamo nel pieno dell’orario visite, non ora che Ale e
40
Stefano Quarta
Giacomo hanno conosciuto due ragazze in visita a un loro
parente, non ora che Ivan ride e Milena è tranquilla, ora siamo qui e siamo contenti di esserci tutti quanti.
A volte immagino di essere come una colonna portante,
anzi, come un muro importante, una di quelle costruzioni che
rimane lì qualunque cosa succeda, sia a livello climatico che a
livello emotivo: mi piace immaginarmi, mi piace identificarmi
in un insieme di mattoni, sì, in una colonna, anzi in un faro
che guarda il mare, che prende il sole, che viene bagnato dalle onde, che viene corroso dal vento ma che rimane sempre
lì, immobile e fiero di essere lì. E s’illumina sempre al momento giusto, cioè quando gli altri hanno bisogno di qualcosa, e
segnala a tutti quanti che lui è li e ci rimarrà per parecchio. Ma
non è così, perché io sono più che vulnerabile, non ho proprio niente di così duraturo, la mia pelle cambierà
definitivamente, la mia forza fisica muterà, la mia vista svanirà, la mia voce s’indebolirà. È dura, forse è abbastanza retorico pensarlo ora che ho un mio caro amico in un letto d’ospedale ma che, fortunatamente, se la caverà in quindici giorni,
forse è retorica, ma a volte la retorica è utile. A volte essere
retorici serve ed è dannatamente bello.
Il sole sta per tramontare, lo vedo da una finestra dell’ospedale,
con i suoi vetri opachi e pieni d’impronte di mani di chissà
quante persone; Ivan è sempre steso, sembra sempre più sereno, noi siamo sempre qui.
“Ragazzi, l’orario delle visite sta per terminare, ancora cinque minuti e poi via. E non voglio ritardi.” L’infermiera, la
stessa che gentilmente ci ha fatto entrare, dice l’ultima frase
rivolgendosi apertamente a me e a Enrica. Non facciamo nessuna
obiezione, anche perché la mamma del nostro ammalato rimarrà accanto a lui tutta la notte. Poi basta guardarlo in viso:
è tranquillo, certo è abbastanza insofferente a causa del caldo
e perché sa perfettamente, nonostante le nostre continue smentite, che appena usciti da qui ci andremo a fare un bel bagno
in mare.
Con i miei occhi
41
“Mi raccomando ragazzetto, fai il bravo, non ti divertire
troppo stasera.”
“Già già, non fare faville con le infermiere. Anche perché
ne ho viste un paio davvero carine.” Silvio non ha nel suo
repertorio simili battute, forse l’ha fatto solo per stemperare
quel briciolo di tensione rimasta, fatto sta che Milena un po’
tra lo scherzo e il serio gli rifila uno schiaffo dietro alla nuca. Il
contatto della mano femminile con la nuca maschile ha generato un suono così forte che tutti, oltre a noi, si sono girati a
guardare i due protagonisti. La faccia di Silvio si è fatta tutta
rossa per la vergogna, senza raggiungere tuttavia i toni violacei
della sua nuca.
“Scusa. Scusa. Scusa Silvio, davvero io non ho saputo regolarmi. Scusa.” Ma mentre pronunciava la sua autodifesa
rideva, si vedeva che rideva e tentava di nasconderlo, ma
uno schiaffo è sempre uno schiaffo, ha sempre il suo non so
che di comico, è come quando cade una persona: c’è poco
da fare, il primo istinto è quello di ridere. “Di nuovo scusa se
rido, ma...non so perché ma mi viene di farlo...scusa.”
Allora, siamo tutti intorno al letto, Milena e Silvio vicini,
tutti i nostri occhi si dividono tra la nuca del poveretto, la
risata dell’assassina e la faccia del malcapitato che è sempre
rosso paonazzo: ecco noi siamo entrati in questo vortice e
basta solo che qualcuno dica ‘a’ per scoppiare a ridere, ma
non lo facciamo per rispetto del luogo in cui siamo e perché
Silvio è ancora in silenzio.
“Ragazzi che male!” esclama alla fine. Questa frase è come
il colpo di pistola alle corse campestri, ha dato il via alle nostre
risate. Forse è poco carino dirlo, ma ci voleva, un po’ per tutti.
“Insomma ragazzi, è la seconda volta che ve lo dico, l’orario
delle visite è terminato. Vogliamo andare via?” È di nuovo lei
che con tutte le sue ragioni viene a reclamare, giustamente.
“Sì sì, ha perfettamente ragione. Salutiamo e andiamo via.
Solo una domanda.”
“Dica.”
42
Stefano Quarta
“Non è che avreste un pochino di ghiaccio per questo
poveretto?” Giacomo non ha saputo resistere, noi ricominciamo a ridere, talmente forte che ci vengono le lacrime agli
occhi e più ci guardiamo, più guardiamo la mano di Silvio
che si strofina delicatamente la nuca, più i nostri addominali
o quel che ne riamane s’induriscono per le risate. Viene coinvolta anche l’infermiera che abbozza un sorriso e va via blaterando qualcosa che noi non riusciamo a sentire.
Ma ora è arrivato davvero il momento di andare, prima
che ci caccino via e prima che a qualcun altro venga in mente
un’altra brillante battuta, con spiacevoli conseguenze.
Mi avvicino ad Ivan.
“Sicuro che non hai bisogno di niente? Non ti creare nessun problema, lo sai.”
“Tranquillo Stefano, grazie ma non ho bisogno di nulla e
poi lo sai che non faccio complimenti.” “Va bene. Ci sentiamo dopo e comunque ci vediamo domani. Ciao amico mio.”
“Ciao bello, grazie per la visita.” “Ah, non dirlo neanche per
scherzo.”
Ci salutiamo dandoci la mano, in segno d’amicizia e rispetto. Succede così con tutti gli altri, e le ragazze con il bacio sulla
guancia, che è immancabile. Stranamente usciamo dall’ospedale in silenzio, nessuno dice nulla, camminiamo ognuno per
proprio conto con la testa abbassata, alzando giusto lo sguardo per vedere dove andiamo e quale sia la strada da prendere. Arriviamo al parcheggio, le nostre macchine sono tutte lì.
Sono circa le sette e mezzo di sera, ho voglia di andare via da
questo posto, il perché non lo so, ma ho voglia di andare via;
quando ero in camera di Ivan non avevo questa necessità
impellente di andarmene, ma ora sì. Voglio andarmene.
Stiamo per salutare tutti, quando Milena si ferma a parlare
con Enrica e mentre io sto per chiamarla dicendole di accelerare i tempi, la ragazza di Ivan si mette a piangere, anzi letteralmente scoppia piangere.
“Mile, che è successo?”
Con i miei occhi
43
“Ehi...che hai?”
“Stai male?” Non eravamo molto distanti l’uno dall’altro e
quindi non c’è voluto molto perché ci raggruppassimo tutt’intorno a lei, che se ne sta con le mani sul viso, quasi volesse
nascondersi da qualcosa, ma non penso da noi. Enrica e Giulia
si sono abbracciate a lei mentre io, Ale, Giacomo, Silvio e
Massimo siamo tutti intorno stretti in un abbraccio ideale. Ancora
silenzio, nessuno parla. Si sente solo il pianto di Milena, che
non accenna a diminuire e nessuno di noi abbozza un qualche genere di movimento. Se vedo la scena dall’esterno mi
sembra di vedere un quadro, penso che sia pure ben dipinto
ma non credo che sia un’opera triste. Chi l’ha dipinto ha cercato di far capire come una persona può sembrare forte, quando
in realtà dentro cade a pezzi, ma pur di non far preoccupare la
persona che ama, non mostra nulla del suo dolore. Ora ci
faccio caso, solamente ora. Dentro l’ospedale lei era sempre
sorridente e parlava tranquillamente con tutti senza mostrare
alcun tipo di preoccupazione o di nervosismo; l’abbiamo trovata lì che discuteva con Ivan, nessuno di noi a pensato a lei,
ci siamo tutti catapultati sull’ammalato. Ora capisco anche perché
non ha saputo controllarsi nel dare lo schiaffo a Silvio. Ma
adesso, con il suo pianto, ci fa capire che ha bisogno di noi. E
noi ci siamo.
Si divincola dall’abbraccio delle due sue personali guardie
del corpo, cercando di asciugarsi gli occhi dalle lacrime, ma lo
sfregamento accentua ancora di più il suo rossore vicino le
palpebre. Una lacrima le solca il viso e lei la lascia scorrere.
“Scusate, scusatemi tutti. Avevo solo bisogno di sfogarmi
un po’. Tutto qui, nulla di preoccupante, come non è nulla per
il mio Ivan, questo lo so perfettamente, ma ho preso un bel
po’ di paura. Scusatemi, davvero.” Sorridiamo tutti, quasi un
sorriso compassionevole, perché capiamo cosa prova e sappiamo che questo è il suo modo di sfogarsi, di mandare via la
tensione. Il primo che trova la cosa giusta da dire è proprio
Silvio.
44
Stefano Quarta
“Ma stai tranquilla e piangi quanto vuoi che ti fa solamente
bene. Tanto noi stiamo qui e non abbiamo nessuna fretta di
andare via, rimaniamo qui con te finché tu hai bisogno, fino a
quando tu lo vuoi.” Ha parlato bene Silvio, ha detto le cose
giuste, proprio quelle che era necessario dire, senza strafare,
senza esagerare e capisce dai nostri sguardi che ha fatto bene,
lo capisce quando si volta verso di noi per cercare conferme e
le trova tutte, anche di più.
“Giusto.”
“Ha ragione, lo schiaffo gli ha fatto bene.”
“È vero, sfogati per bene.”
“Noi siamo qui, Mile.” C’è chi ha parlato, c’è chi ha annuito, ma tutti quanti abbiamo risposto all’appello, tutti presenti
e credetemi che non avevo alcun dubbio.
“L’importante è che stai buona buonina con le mani, altrimenti qui si rischia di tornare a casa rossi, rossi.”
“State tranquilli. Anzi, scusami Silvio, non ho saputo proprio controllarmi, perdonami. Grazie a tutti. Di cuore.”
“Oh, ma come siamo carini e dolci tutti quanti...quasi quasi mi commuovo...un fazzoletto per favore...veloci che mi vergogno a farmi vedere mentre piango.”
Naturalmente Giacomo non ha perso l’occasione per
sfoderare la sua ironia, ma va bene anche questo. Ci tratteniamo ancora cinque minuti parlando di questa sera, siamo
tutti d’accordo che pizza e birra a casa di Milena vanno più
che bene. Se poi aggiungiamo un film preso in affitto, penso
che sia la serata ideale per il nostro umore. Ci salutiamo chiedendo alla nostra fontana se aveva bisogno di qualcosa o se
voleva essere scortata fino a casa, ma lei ha detto che è tutto
a posto e noi ci crediamo, altrimenti avrebbe accettato. Ci
salutiamo. Andiamo via, ognuno per la sua strada.
In macchina c’è Avril Lavigne che canta I’m with you: ha
una voce suadente che invade la mia testa scacciando ogni
pensiero, riesco solo a pensare alla musica e alla strada. Enrica
si è abbandonata sul sedile, lo sguardo fisso a destra, guarda
Con i miei occhi
45
fuori dal finestrino il sole che tramonta. Chissà perché le ragazze hanno questa strana, a volte fastidiosa, abitudine di cantare
ad alta voce in macchina, è una cosa che non sopporto molto, perché se trasmettono una bella canzone non capisco perché bisogna sentire la voce di qualcun altro e non del cantante. Un conto è quando si è in macchina in quattro o cinque e
si canta tutti insieme, ma sentire solo la sua voce su di una
bella canzone non mi fa molto piacere. Per fortuna smette di
cantare e resta in silenzio per qualche secondo.
“Noi questo sole lo abbiamo visto sorgere” osserva infine.
Ha parlato senza guardarmi e non ho sentito bene cosa ha
detto, perché il volume è alto (si fa di tutto pur di sentire una
canzone senza intrusioni). Abbasso e chiedo di ripetere.
“Ho detto che noi questo sole lo abbiamo visto sorgere.”
“Già, strano come le giornate inizino in un modo e poi proseguono in un altro, in direzione completamente opposta.”
Non risponde perché non c’è da rispondere, sinceramente
non c’è neanche da parlare, quindi rimetto il volume alto e
via verso il mare, perché ho bisogno di sentire l’acqua che
scivola sul mio corpo mentre nuoto, ho bisogno di sentire che
ci sono, che le mie forze non mi hanno abbandonato, ho sempre bisogno di me stesso. Lei mi conosce, sa che sono diretto
al mare e io conosco lei, so che farà una passeggiata sulla
spiaggia perché ama stare con i suoi pensieri, perché le piace
guardarmi mentre nuoto e ride perché dice che a causa dei
miei numerosi peli, le goccioline rimangono impigliate e non
riescono ad arrivare sulla sabbia.
Siamo arrivati e come speravo in spiaggia non c’è nessuno, lei scende, prendo l’asciugamano, chiudo la macchina senza
neanche capire come o perché, mi ritrovo in mare a nuotare.
Trattengo il respiro finché posso, cercando di fare il maggior
numero di bracciate possibile, giro la testa dal lato destro,
apro la bocca in tutta la sua ampiezza, prendo più aria che
posso e ancora giù, muovendo le braccia con un’intensità regolare, sentendo le mie gambe che sfidano l’acqua. La sbat-
46
Stefano Quarta
tono. Ascolto i miei battiti che aumentano sempre più perché
l’aria sta per finire, ancora prendo aria e questa volta decido
di andare sott’acqua con tutto il mio corpo. Nuoto a rana a un
palmo dalla sabbia del fondo, apro gli occhi e vedo sfocato,
vedo le mie mani che si muovono lentamente, vedo la sabbia
che si alza a causa del mio movimento, davanti a me non
riesco a vedere la fine di quello che c’è, chissà se c’è una fine;
chiudo gli occhi, mi giro, rivolgo il mio sguardo al cielo, li apro
e da sotto l’acqua il cielo è indubbiamente diverso. È in movimento, non sta mai fermo, mi sembra ancora più lontano.
Non ho più aria, devo ritornare su e allora mi metto quasi
seduto, mi do una spinta con le gambe, ritorno in superficie
più velocemente e la spinta permette al mio corpo di uscire
del tutto per un istante dall’acqua. L’acqua è calda e calma,
sicuramente perché non c’è nessuno e tutti hanno già fatto
pipì, io ci nuoto tranquillamente dentro. Mi volto verso di lei,
la vedo distesa con lo sguardo rivolto verso il cielo, immersa
nei suoi pensieri; decido di uscire perché il mio corpo mi comunica che ha freddo, nuoto ancora fino a pochi metri dalla
riva, poi cammino a carponi nell’acqua, lei non mi ha sentito
e io ho bisogno del mio asciugamano. La chiamo, le chiedo
di sbattere dalla sabbia il mio telo. Lei si alza, lo scuote energicamente e lo tiene aperto, pronta ad accogliermi. Esco dall’acqua facendo una piccola corsetta per non sentire troppo
questo leggerissimo venticello che dà un bel po’ di fastidio; mi
getto nell’abbraccio ideale del mio asciugamano e nella stretta reale di Enrica. Lei è alle mie spalle, ma sento distintamente il suo corpo, in fondo ci divide solo un pezzo di stoffa: sento
il suo seno poggiato sulla mia spalla, la sua bocca sulla mia
nuca, prendo le sue mani e le stringo forte a me, congiungendole alle mie, quasi a creare una cintura immaginaria. A volte
l’immaginazione è molto più bella della realtà. Stiamo un po’
così, senza parlare perché ho l’impressione che qualsiasi parola rovinerebbe questo momento davvero carino e soprattutto tutto nostro.
47
Con i miei occhi
È un momento, è un istante in cui ti dimentichi di tutto,
non pensi agli amici, non guardi l’orologio, non ti preoccupi
del tempo, ma capisci solo che sei dentro un momento bellissimo, lo stai vivendo in pieno; è un attimo, dura pochissimo,
una frazione di secondo e appena va via lo riconosci, ma non
ti avvisa che sta arrivando, avere la consapevolezza di averlo
vissuto è gratificante, vuol dire che c’è sempre qualcosa, anzi
più di qualcosa per cui andare avanti.
Faccio un respiro più profondo, lei capisce che dobbiamo
staccarci e che è ora di tornare a casa prima che ci diano per
dispersi; mi volto fino a tendere al massimo i muscoli del collo, un sorriso, ci sfioriamo le labbra, ci stacchiamo, pronti a
ritornare nel mondo reale. Ci vogliono cinque minuti per arrivare a casa sua e ce ne mettiamo ancora di meno perché
Otranto è deserta, non c’è davvero nessuno a parte qualche
gruppetto di turisti.
“Ti passo a prendere alle 9 e 30, va bene?” “Ok, mio caro
nuotatore... attento a non perderti e non andare troppo a largo.” “Ah, ah, ah! Ciao.” “Ciao!” Chiude il cancello e scompare alla mia vista, innesto la marcia e vado via. Adoro questa
macchina, me la sento addosso, me la sento davvero mia, è una
Golf usata che mi ha regalato mio padre. Amo questa macchina.
LATTE E BISCOTTI
“Ehi, sono a casa.” Nessuna risposta, tutto tace. Sono sicuro che non sono usciti perché sento il rumore della televisione in camera da letto, anche se la macchina di mio padre
non c’è. “Ehi...abita ancora qualcuno qui? O mi avete abbandonato tutti al mio triste e ignoto destino?”
Mentre cerco invano qualcuno, poso le chiavi sul tavolo e il
mio telo da mare su una sedia. Improvvisamente dal nulla
sbuca mia madre, del tutto ignara che io fossi già a casa. Non
appena mi vede, caccia d’istinto un urlo selvaggio.
48
Stefano Quarta
“Sono diventato tanto brutto?”
“Tu mi farai venire un infarto qualche giorno...Ma ti sembra il modo di entrare?”
“Aspetta un momento, che vuol dire ‘ti sembra modo di
entrare?’ Per caso ho un passamontagna, brandisco un qualche genere d’arma, o sono entrato con le chiavi e in maniera
del tutto normale gridando se c’era nessuno?”
“Evidentemente non hai urlato abbastanza.”
“Come sempre è colpa mia. No, ma scusami se sono entrato a casa mia e non ho urlato abbastanza da far capire che ero
qui, la prossima userò un megafono.”
“Il solito scemo.”
“Sì, va bene. Piuttosto dov’è il cane?” Silenzio, nessuna
risposta. Eppure è a due metri da me e, a meno che non
dobbiamo chiamare d’urgenza l’Amplifon, mi ha sentito ma
non mi risponde. Allora con la santa pazienza ripeto la domanda. “Mamma! Dov’è il cane?”
“Guarda che ho sentito.”
“Meno male...mi stavo preoccupando...ora mi preoccupo
ancora di più perché hai sentito e non mi stai rispondendo
quindi o...”
“Sono venuti a riprenderselo.” Non mi ha fatto neanche
finire di parlare, ha pronunciato quella frase con un apparente distacco ma con un vero dolore; io devo ancora recepire
bene la notizia, purtroppo ci metto un po’ a mettere bene a
fuoco le cose, cioè le capisco, comprendo quello che mi dicono, ma per rendermene conto realmente mi ci vuole un po’.
“Ah...e quando? Chi è venuto? E cosa ha detto?” Lo so, sto
facendo ancora come mio padre.
“È venuta una ragazza molto gentile che ha chiesto scusa,
ha detto che era sulla spiaggia, il cane è scappato via all’improvviso e lei non ha fatto in tempo a raggiungerlo, è stata
male per quasi due giorni, poi ha visto l’annuncio ed è corsa
subito qui. Ha ringraziato ed è andata via.”
“Ah...e nient’altro?”
Con i miei occhi
49
“No.”
“Papà dov’è?”
“È uscito, ora torna.”
“Capito. Io non mangio a casa, mangiamo una pizza a casa
di Milena.”
“Ivan come sta?”
“Bene bene, fortunatamente non è nulla di grave. Anche
se si è spaventato parecchio.”
“Ma com’è successo?”
Le spiego come sono andate le cose, lei ascolta attentamente facendo qualche domanda e basta, nessun commento
particolare; si vede che è un po’ giù, sicuramente per il cane,
ma non ho voglia di affrontare l’argomento, so che la vedrei
piangere e questo proprio non mi va. Penso che la cosa migliore sia andarmi a fare una bella doccia.
Che strano vedere come il sale del mare prende forma sul
mio corpo, con strani ghirigori che sembrano delle vene o
delle cartine stradali, senza un inizio né una fine, è strano
come ritiri la pelle creando una fastidiosa sensazione di prurito non appena s’indossa anche una semplice maglietta. Faccio in fretta a docciarmi e a vestirmi con una maglietta, un
paio di pantaloni, dei sandali. Evviva la comodità.
Mi sprofondo sul divano e accendo la televisione. Ecco
che ci risiamo: al telegiornale parlano dell’ennesimo sondaggio sui ragazzi tra i 18 e i 24 anni, ma io non capisco perché
c’è questa schifosa esigenza di catalogarci tutti in una fascia,
di farci omologare al campione di 2.000 persone che hanno
risposto alle loro domande. Io non mi ci ritrovo mai né nello
loro risposte né nelle loro categorie; poi vorrei tanto sapere
chi sono queste persone che vengono scelte come prototipi
ideali per queste stupide risposte. Io non ho mai partecipato a
un sondaggio. Non lo farò mai. Hanno la presuntuosa certezza che prima o poi tutti entreremo in quella lista, ma si sbagliano, ragazzi come me ne esistono tantissimi, siamo una fascia che loro non capiranno mai, come altre innumerevoli
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Stefano Quarta
categorie che loro non accetteranno mai o non conosceranno
mai, perché non vogliono conoscerle. I loro stupidi numeri
non ci servono, noi abbiamo le nostre certezze, le nostre paure, i nostri dubbi, i nostri problemi e abbiamo il nostro credo.
A volte si lamentano perché loro nel ’68 hanno fatto la rivoluzione perché c’era realmente qualcosa da cambiare ed era
giusto lottare, e ci accusano di non fare niente di costruttivo,
di stare tutto il giorno a bere e a fumare. Ci paragonano a un
bar.
L’ho sentito svariate volte questo concetto e nelle forme più
diverse, a volte ho riso altre volte mi sono arrabbiato. Perché,
per alcuni ragazzi che fanno così, dobbiamo essere identificati
tutti così? Perché si parla così poco dei ragazzi che fanno
volontariato? Perché non si ricordano di tutti i ragazzi della
mia età che sono in giro per il mondo a difendere la pace?
Perché non capiscono che oggi è più importante una canzone
che uno slogan di questa sottospecie di classe dirigente che
dovrebbe governare il nostro paese, mentre pensa soltanto a
litigare e fare leggi in loro favore?
Qui parlo indistintamente di destra di sinistra di centro o di
qualsiasi altra corrente, sono semplicemente ridicoli, mi fanno venire il volta stomaco, perché pensano solamente a parlare tra di loro, a vedere i loro problemi, ma perché non vengono qui nel Salento e vivono una settimana con dei contadini, alzandosi alle 5 come loro e mangiando quello che mangiano loro? Ma perché per una settimana non vanno a Brescia a vivere con un operaio che fa dodici ore di lavoro perché ha bisogno degli straordinari altrimenti non riesce a comprare i libri scolastici per la figlia, e che torna a casa stravolto
e non riesce neanche a parlare e sa che deve andare a dormire perché dopo poche ore si ricomincia? Perché non fanno
tutto questo invece di stare nelle loro auto blu a dire uno il
contrario dell’altro, permettendosi anche di affermare che loro
governano per noi e che i giovani di oggi sono senza ideali?
Preferisco credere in una canzone di Vasco, in una poesia
Con i miei occhi
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di Neruda, preferisco credere nei miei amici, preferisco credere nella forza dei miei sogni e quanto più utopistici sono meglio è, preferisco credere in un’idea, in una lettera d’amore,
preferisco credere nell’amore che ci fa soffrire e dannare, ma
che ci fa andare avanti. Io voglio credere in tutto questo ma di
credere in loro non ce la faccio proprio e non voglio neanche
sforzarmi. Ma forse loro sono troppo occupati a far andare
avanti un paese, il loro paese, perché quello dove vivono i
politici è realmente diverso da quello dove viviamo noi, è un
altro mondo. Noi, forse, sapremmo stare nel loro, ma loro nel
nostro no. Meno male che ho visto solo un sondaggio e appena cinque minuti di televisione, pensa se mi vedo un telegiornale intero che succede.
“Giovane.”
“Ehi papà, dove sei stato?”
“A prendere un caffè con Gigi, e la mamma?”
“Non lo so, penso che stia di là a preparare qualcosa da
mangiare.”
“Tu ceni a casa?”
“No, mangiamo tutti a casa di Milena.”
“Ah, Ivan come sta?”
“Bene, fortunatamente non è nulla di grave.”
Ecco un altro difetto dell’essere figli unici: bisogna ripetere
le cose minimo due volte e mentre lo fai non azzardare a sollevare gli occhi all’aria o a sbuffare, sarebbe la fine della quiete.
“Ha una caviglia malconcia il polso fratturato, qualche escoriazione e tanta paura. Ma domattina esce.”
“Ma com’è successo?” Ricomincio a spiegare con pazienza, cercando di avere una maschera facciale che non riveli
quanto è pesante dire le stesse identiche cose per due volte.
“Ma guarda un po’.” “Dove devo guardare pa’?” “Non tu,
fesso, era un modo di dire per quello che è successo a Ivan.”
“Ah.” “Dormi sempre tu eh... mi raccomando.” “Sarà fatto.”
Si avvicina a me per tentare di darmi uno scappellotto
52
Stefano Quarta
amichevole, ma oramai è troppo vecchio per certe cose e sa
che in un confronto fisico goliardico è lui che ha la peggio.
Dopo questa finta mal riuscita, si dirige verso la cucina.
“Moglie buonasera.”
“Ciao.”
“Che si mangia di buono?”
“Verdura, affettato e frutta.”
“Ah, e come mai?”
“Cosa come mai?”
“Come mai solo questo?”
“Se non ti basta ti vai a fare una pizza.”
“Mangiato yogurt?”
“Senti, che vuoi stasera? Ah, lasciami perdere. Se vuoi
mangiare mangia, se no fatti tuoi. Tanto io mi preparo il latte
con i biscotti.”
Io sono qui che ascolto tutto e so che, quando mia madre
cena con latte e biscotti, è arrabbiata. Povero papà, ora tocca
a lui tentare con la sua solita ironia di scoprire il perché di
questa arrabbiatura. Non lo invidio affatto. Ma lui, con il suo
sorriso riesce a superare parecchie difficoltà, anche se immagino già il perché mia madre è giù, è a causa del cane, ne
sono sicuro.
L’orologio segna le 21:00, l’aria è calda, mio padre ride in
cucina con mia madre che è arrabbiata, anzi è triste, Enrica
mi aspetta tra mezz’ora, Ivan sta più o meno bene e io come
sto? Mi viene da ridere se mi faccio questa domanda da solo,
perché se me la fanno gli altri sono portato per istinto a dire
bene, ma se m’interrogo da solo, mi viene da ridere, non so il
perché e non lo voglio neanche sapere. Spengo la tv, vado in
cucina, c’è mio padre che mangia un panino con pomodoro
e mozzarella, mia madre latte e biscotti; guardano un film, ma
papà la stuzzica continuamente, ha capito anche lui che è triste per il cane.
“Comunque ne possiamo sempre prendere uno.” Ha parlato con la bocca piena di pane e pomodoro e qualche scor-
53
Con i miei occhi
cio di mozzarella, ha detto questa frase così, l’ha buttata nel
silenzio per riempirlo un po’.
“Sì, dai, un bel cagnolino ci vorrebbe proprio, se ce lo prendiamo cucciolo e lo educhiamo è bello. Poi, come da sempre
si sostiene, i cani sono molto meglio delle persone.” Ecco che
su mia madre ricompare la luce del sole. In fondo siamo tutti
bambini, quando ci tolgono qualcosa a cui siamo affezionati,
mettiamo il broncio.
Non appena mio padre ammette che non sarebbe affatto
una cattiva idea, colgo la palla al balzo, in fondo farebbe piacere anche a me avere un cane. “Ok, allora è deciso. Domani
si va al canile e si prende un bel cucciolo. Io vado via, ci sentiamo dopo.”
“Ciao, divertiti. Guida piano, mi raccomando.” “Ciao Stè.”
Sono in macchina e guido con calma verso casa d’Enrica,
suona il telefonino, è un mio amico d’università. È tutto ok e
tra poco ci rivedremo. Già, perché oramai siamo davvero alla
fine, poco più di una settimana e si ritorna a Lecce, a studiare, a cercare qualche lavoretto, ad andare in palestra. Si ritorna alla vita normale, com’è giusto che sia. Non può durare
per sempre l’estate, altrimenti non sarebbe così speciale.
Così passa questa serata, passano i giorni e una settimana
vola via come niente, prima che me ne renda conto, come al
solito, mi ritrovo nella mia casa di Lecce. Ivan è uscito dall’ospedale, sta bene, a parte il polso, in famiglia siamo aumentati perché abbiamo preso un bel cucciolo bastardino dal
canile municipale, gli altri stanno tutti bene e siamo più o meno
pronti ad affrontare autunno, inverno e primavera, per l’estate non bisogna essere pronti, bisogna viverla e basta.
IN UN ANGOLO DI UN BAR
Sono le 15:00, ho appena finito di vedere i Simpson con
Homer che ha fatto credere a tutti di essere morto, che spasso
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Stefano Quarta
quel cartone animato. Purtroppo il mio telefilm preferito, quello
che ha influito più di tutti sulla mia crescita o presunta tale, è
terminato. La puntata finale di Dawson’s Creek è stata a dir
poco stupenda; l’ho guardata con tutti gli amici davanti a una
pizza e una birra a casa mia. Le lacrime scendevano giù come
pioggia, è straordinario come un telefilm possa suscitare tante
emozioni, è chiaro che si tratta di finzione, ci sono state delle
puntate nettamente paradossali, altre però sono state abbastanza realistiche e mi sono riconosciuto in alcuni personaggi
e in alcune situazioni. L’ultima è stata una di queste. Naturalmente è stata registrata e messa in cassaforte.
Ora non ho voglia di iniziare a studiare, mi metto a leggere
un libro che ho comprato da poco, è di Paulo Coelho, s’intitola Manuale del Guerriero della Luce. Non è una storia vera e
propria, sono degli spaccati, dei pensieri, dei consigli estremamente saggi e veritieri, è un buon libro. Sono in camera
mia, squilla il telefono, naturalmente nessuno risponde perché sanno che è per me, io so che è lei.
“Pronto?” “Ehi.” “Ciao!” “Che fai, studi?” “No, leggevo
qualcosa. Tu?” “Guardo Uomini e Donne.” “Che brutta fine
che hai fatto.” “Perché mi dici così, Stè?” “Dai tesoro, è un
programma troppo stupido con tutte quelle acidone che non
fanno altro che urlare anche se non hanno niente da dire.”
“Forse, ma sempre meglio dei cartoni animati.”
“No, i Simpson, Dragon Ball e All’arrembaggio non si toccano, sono sacri”.
“Ok, ok, comunque vedi che ho ragione quando ti chiamo
bambinone.”
“Sì, basta che io sia il tuo bambinone.”
“Ma come siamo romantici.”
“Merito dei cartoni animati, mentre con quel programma
diventi solo acida!”
“Stai tranquillo che quando voglio so essere dolce come il
miele e letale come una tarantola.”
“ È meglio cambiare discorso.”
Con i miei occhi
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“Già, usciamo al pomeriggio? Dai, andiamo a farci un giro
in centro che è da tanto che non lo facciamo.”
“Appunto, è da tanto che non lo facciamo.” Attimo di silenzio per far capire la battuta al suo piccolo, grande cervello.
“Senti maniaco sessuale, il problema è che io te la do troppo facilmente: d’ora in poi te la dovrai guadagnare con regali
e coccole, altrimenti ti tengo a stecchetto.”
“Dai che scherzavo, in fondo abbiamo fatto l’amore solo
due giorni fa. È solo che essendo io uno stallone di razza e
avendo questa potenza fisica, sono sempre pronto e mi sento
come un piccolo torello!”
“Bravo il mio cornuto.”
“Come scusa?”
“I tori hanno le corna non lo sai?”
“Sì, ma non è un appellativo molto carino, c’è di meglio.”
“Guarda, ho appena deciso cosa farò a pomeriggio, devo
comprare due cose.”
“Per me?”
“Certo: ti compro prima un bel telo rosso, ti faccio fare
veramente il toro, poi ti compro una bambola gonfiabile così
non hai più di questi problemi. Contento?”
“Certo, sto facendo le capriole per la felicità! Mena (?), non
scherzare, sai che la mia voglia di te è incredibilmente e costantemente presente.”
“Sì, ma non è abbastanza, deve crescere ancora di più.
Dovremmo fare come quel film...aspetta che non ricordo il
nome...Ah, ecco, ‘Quaranta giorni e Quaranta notti’, in cui il
protagonista si astiene dall’avere rapporti sessuali per tutto il
tempo della Quaresima, appunto quaranta giorni.”
“Non scherzare con i sentimenti, non scherzare con queste
cose che è pericoloso, potrei impazzire. O darmi al fai-da-te.”
“Bravo, visto che un rimedio lo trovi sempre?”
“Non mi piace questa conversazione, no, non mi piace per
niente.”
“Dai scemo, sai che scherzo, che neanche io riuscirei mai a
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Stefano Quarta
stare senza di te per così tanto tempo. Comunque al pomeriggio usciamo?”
“No Enri, non ce la faccio proprio, devo studiare privato,
ho l’appello a fine ottobre, lo sai. Non ho ancora finito il programma.”
“Sì, lo so. A me hanno messo l’appello di matematica finanziaria per metà ottobre, quindi quanto prima devo ricominciare a studiare pure io. Vorrà dire che per questo pomeriggio chiamerò il mio amante, che per me è sempre disponibile.”
“Mi piace sempre meno questa conversazione. Vedi di stare attenta e chiama Giulia o Milena.”
“Agli ordini capo!”
“Brava, chiamami quando torni.” “Va bene, un bacio. Ciao.”
“Ciao.”
Dopo neanche un minuto dalla fine della nostra conversazione mi arriva un sms al telefonino, lo leggo.
‘Mittente: Amore mio. Testo: Tra due giorni i miei partono
per un week-end e ho intenzione di chiuderti in camera mia e
buttare la chiave. Un bacio dove vuoi tu...’
Mi metto a ridere da solo. Non le rispondo intenzionalmente, perché so che si arrabbia quando non ricambio il suo messaggio, ma più si arrabbia più è bella.
Mi metto a studiare, ma dopo neanche venti minuti squilla
il telefono. È Massimo. Soliti convenevoli, sta studiando anche lui, ha l’appello di Letteratura Inglese a fine settembre. Ci
rincuoriamo a vicenda. Passiamo volentieri ad argomenti ludici.
“Senti un po’ – mi informa Massimo – mi ha appena chiamato Giacomo, che aveva appena parlato con Alessandro,
che aveva appena discusso con Silvio, insomma la solita catena.”
“Sì, ho presente.”
“Stiamo organizzando per domani sera una partita a pallone, ci sei?”
“Sempre. Contro di chi?”
Con i miei occhi
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“Non li conosco, sono degli amici che frequentano Letteratura Italiana con Silvio, dice che sono ragazzi tranquilli, chi
perde paga il campo.”
“Per me va bene. Ma il portiere? Ivan ne avrà ancora per
un bel po’.”
“Sempre Silvio ha detto che c’è un suo amico abbastanza
bravo.”
“Ok, allora io ci sono, contatemi.”
Ci salutiamo dopo aver preso accordi per un eventuale cinema in serata. Mi piace un sacco andare al cinema, lo ritengo un rifugio da questa realtà, mi permette di sognare, di far
viaggiare la mente in posti sconosciuti e straordinari. Film come
Il Signore degli Anelli, Patch Adams, Armaggeddon, Chiedimi se sono felice, sono pellicole che mi aiutano ad abbandonare momentaneamente tutto ciò che mi circonda e a rifugiarmi nella fantasia. Devo alimentare sempre la mia fantasia,
non posso lasciare che la realtà prenda il sopravvento su di
me, farò sempre in modo che la mia mente possa viaggiare e
andare via lontano anche se il corpo è fermo in un luogo.
Riesco a immaginare di poter fare a meno di un sacco di cose,
ma non della mia capacità d’immaginazione, non della mia
fantasia. Ma qui c’è il mio libro di Privato che reclama attenzione.
Riesco a studiare, anche se ogni tanto la mia mente va per
i fatti suoi, cantando una canzone o rivivendo situazioni sicuramente piacevoli, ma non ora che devo concentrarmi sulle
varie tipologie di contratto; certo, ho 22 anni, mi mancano
ancora un po’ di esami per arrivare alla tanto agognata laurea, ma non mi perdo d’animo, prima o poi ci arriverò, speriamo prima che poi.
Riesco a studiare fino alle 19:00, poi decido di andarmene
un po’ in palestra, di riprendere le mie abitudini invernali,
perché se mi guardo allo specchio, con la mia pancetta alcolica sempre lì, mi sembra davvero il caso di prendere provvedimenti. Non sono uno sportivo accanito, non prendo delle pro-
58
Stefano Quarta
teine o cose del genere per far aumentare la mia massa corporea, ma mi piace avere un fisico carino, di quelli modellati
ma non troppo vistosi, e poi in palestra ci vado con i miei
amici ed è un modo come un altro per rilassarsi, fare due
chiacchiere e vedere qualche bella ragazza. Ehi, ho detto solo
vedere, niente di più!
Preparo il borsone, dopo un po’ di sano traffico cittadino
che non incontravo da tanto e di cui avrei fatto volentieri a
meno, mi ritrovo in palestra con solamente altre otto persone
che sudano già. Faccio qualche esercizio con pesi vergognosamente leggeri, vado un po’ in giro nelle altre sale per cercare una faccia amica, incontro gli istruttori dello scorso anno, ci
salutiamo, solite frasi del tipo: “...però ti sei mantenuto in
forma...mi raccomando ti aspetto presto a lezione...ma i tuoi
amici non vengono?” Cazzate varie a cui rispondo di malavoglia. Dopo neanche un’ora e mezza e una bella doccia, sono
già a casa pronto a guardarmi Striscia la Notizia, dopo aver
accuratamente evitato qualsiasi tipo di telegiornale. Preferisco guardare il televideo, con relative pagine sportive e capire
cos’è successo nel mondo. È chiaro che se mi capita, un tg lo
guardo, ma con una notevole dose di diffidenza e di distacco,
perché sono convinto che ci fanno vedere le cose solo come
fa più comodo a loro, niente di più. La verità è un’altra cosa.
Invece con Striscia si ride. È vero, anche quello è un telegiornale, ma satirico, ne scoprono di tutti i colori, fanno fare
delle emerite figure di merda a un sacco di persone, maghi o
presunti tali in primis, poi si prendono un sacco di denunce,
ma sono sempre lì a ridere e scherzare. Secondo me fanno
vedere come stanno veramente le cose, senza alcun tipo di
timore, indipendentemente dalla persona coinvolta, dal colore della sua pelle o dal colore del suo partito. Quei due, poi,
hanno due facce estremamente simpatiche e, cosa da non
sottovalutare, vedere due ragazze come le veline non guasta
mai. Ecco perché Striscia sì.
Di là in cucina c’è mia madre che prepara la cena, petti di
Con i miei occhi
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pollo arrosto con verdure come contorno; seduto ai miei piedi c’è il piccolo Max, il cane che abbiamo preso e che dopo le
iniziali orinazioni casalinghe ha imparato a mettersi vicino alla
finestra quando deve andare a fare i suoi bisogni; è un cane
dolcissimo, gioca, si fa coccolare, ti coccola, insomma è come
un giocattolo. Ma come tutti i cani, appena sente un minimo
odore di cibo e nella fattispecie di carne, diventa un matto e
non capisce più nulla.
Io sono seduto sul divano, mio padre entra in casa e mi ci
vuole un attimo a capire che c’è qualcosa che non va, perché
anche se riesce a mentire benissimo con il suo impagabile
sorriso, basta guardarlo negli occhi per scoprire se c’è qualcosa che lo turba. Io sono sicuro che lui ha qualcosa. Sono anche convinto che se a una persona appena arrivata domando
subito se ha qualcosa o se è arrabbiato, quella si mette sulla
difensiva e non parla più, perché già è brutto essere aggrediti,
ma lo è ancora di più quando devi dire qualcosa e forse non
sai come fare.
“Ciao Stè.” “Uhè papone.” “Sei arrivato ora?” “Sì, sono
andato in palestra, ho ripreso un po’.” Un mezzo sorriso e va
nel bagno a lavarsi le mani, io mi alzo dal divano e passo
nella cucina, la mamma sta mettendo in tavola gli spinaci e la
carne, solo dall’odore mi sento l’acquolina in bocca. Ma ecco
il capo di tutta la baracca che si siede a tavola, sempre con
quel suo falso sorriso che inizia a provocarmi una sensazione
riconducibile al fastidio; ma lui ha un carattere forte e, anche
se ha qualche problema, cerca di non pensarci provando a
concentrarsi su di noi, sulla cena e sulla televisione. Inizia un
rituale di stupide domande nelle quali dovrò essere più astuto
di lui nel capire cosa lo turba, ma nel frattempo mi faccio
alcune ipotesi: problemi con la banca (alta percentuale...),
mancanza di soldi (alta percentuale...), qualche scambio di
vedute con un amico (buona percentuale...), multa con conseguente detrazione di punti dalla patente (scarsa percentuale...), oppure non so più che pensare, è meglio che inizi con
60
Stefano Quarta
alcune vaghe domande per cercare di capire dalle risposte in
che direzione mi devo muovere. A volte penso che neanche
Sherlock Holmes sapesse fare meglio.
“Novità?” “No Stè, tutto come al solito.” “Hai avuto da
fare?” “No, non particolarmente.”
Interviene la mamma raccontando un fatto accaduto a sua
sorella, che interrompe il nostro personale botta e risposta, ma
quelle poche domande hanno alimentato i miei dubbi; mentre
sua moglie parla lui è completamente distratto, si capisce che con
la testa non è con noi e lo capisce anche mia madre.
“Ma mi stai ascoltando?” “Io?” “No, tuo figlio.” “Ah, e che
ne so io...stai ascoltando?” “Guarda che era apertamente riferito a te.” “A me?!” “Certo.” La mamma annuisce con la
testa, poi dice: “Grazie per la considerazione.” “No, non avevo capito che parlassi con me.” “Ah, grazie.” “No, scusa, dai,
dimmi, dimmi, ti ascolto.”
La cena va avanti così e oramai ho la conferma che c’è
qualcosa che non va, devo scoprire assolutamente cosa, prima che arrivino le 22:00, perché una volta che finisce il primo
tempo del film del lunedì, mio padre già russa o sul divano o
direttamente sul letto, non riesce a vedersi un film intero da
non so quanto tempo.
Un po’ stiamo in silenzio, un po’ diciamo cazzate e così
finiamo di mangiare, ci dirigiamo verso il divano, dove papà
rimarrà per circa trenta minuti, cioè il tempo che mia madre
lavi i piatti e lo veda dormire sul divano con conseguente
reazione vocale che lo farà sobbalzare con i capelli all’aria
chiedendosi dove si trova e cosa sia successo. Ci metterà alcuni interminabili secondi prima di riprendersi, ricominciare
a capire la realtà, ma io devo anticipare tutto questo, devo
riuscire a farlo parlare prima.
Non è un tipo a cui bisogna tirare le parole con le pinze,
ma stasera sembra che non voglia parlare con nessuno, anzi
fa spesso delle domande per far parlare gli altri e stare zitto
lui. Sul divano ci arrivo prima io, in modo da prendere il po-
Con i miei occhi
61
sto più comodo ed evitare che si addormenti entro cinque
minuti; lui arriva, non commenta la mia scelta e si mette a
guardare la tv con un occhio insolitamente sveglio e vispo.
Questo è già un avvenimento secolare, ma la goccia che fa
traboccare il vaso è la domanda successiva.
“C’è qualche bel film stasera?”
“Ora, questo è davvero troppo: o mi dici cos’hai o ti costringo a vedere Titanic per ben due volte consecutive con le
mollette agli occhi.” Mi guarda sorpreso, capisce che ho intuito qualcosa e temporeggia per trovare quanto prima una scusa più che decente, ma io sono convinto delle mie intenzioni,
nessuna scusa mi distrarrà dal mio obiettivo.
“Ma che dici? Perché dovrei avere qualcosa? E poi lo sai
che se ho qualche problema ne parlo.”
“Appunto, hai qualcosa e non ne stai parlando, il che mi fa
preoccupare ancora di più. Parla.”
“Dai Stè, non ho davvero nulla.”
“Ok.” Mi alzo dal divano e mi dirigo nel mobiletto delle
videocassette per cercare le fatiche cinematografiche di Di Caprio
e Winslet.
“Guarda che sei proprio suonato... ho detto che non ho
niente, dico sul serio...” Faccio finta di non sentirlo, la mia
ricerca ottiene i risultati sperati: ho in mano il capolavoro di
Cameron pronto per l’uso e senza badare ai suoi continui
tentativi di negazione inserisco Titanic nel videoregistratore e
premo play. La cassetta va.
Mio padre ama particolarmente questo film semplicemente perché è uno dei pochi che riesce a farlo restare sveglio fino
alla fine, considerando che ora sono le 21:15 e la cassetta
dura ben oltre le due ore si arriverà a un orario per lui impensabile e non concepibile.
“Dai Stè, ma mi vuoi così male?”
“Sì, starò sveglio anch’io finché non finirà e poi lo rimetterò nuovamente dall’inizio fino a quando non mi dirai cosa c’è
che non va.”
62
Stefano Quarta
Mia madre è in cucina, ha chiuso la porta altrimenti i piatti
fanno troppo rumore e la televisione non si sente bene, Titanic
sta per partire quando mio padre si decide finalmente a parlare.
“Con Enrica come va?”
“Ancora?! Lo sai che va bene, cioè stiamo insieme, stiamo
bene o almeno credo.”
Non mi ha guardato negli occhi, né quando mi ha fatto la
domanda, né quando ho risposto e questo mi manda ancora
di più in confusione, non riesco a capire. Il mio corpo è invaso da un’ondata di calore con estremità delle mani e dei piedi
praticamente prossime all’ibernazione.
“Scusa, ma questo cosa c’entra? Dai dimmi cos’hai.”
“Ho... ho visto... – non riesco a muovere un muscolo – …
Enrica, in centro... con un ragazzo.”
Calma, cerco di respirare, lo sapevo che usciva, magari
sarà uscita con qualche suo amico, sicuramente è così. Ma
certo, sarà uscita con Lucio, il suo ex compagno di scuola con
cui ha un ottimo rapporto, sono certo, sicuramente è così.
“Sicuramente sarà stato un suo amico, esce spesso con degli
amici... non è nulla di grave.” Ho sempre mani e piedi freddi.
E sono fermo immobile con lo sguardo fisso nel vuoto.
“Ma lei usa baciarsi seduta al tavolino meno in vista di un bar
con tutti i suoi amici?” Tutto si ferma, tutto è immobile e confuso,
sfocato e come in movimento, lento e inesorabile, ma in viaggio verso una destinazione a me ignota. Non guardo mio padre,
ho lo sguardo rivolto verso la televisione, ma non la sto guardando riesco a capire che sono solo delle immagini
“Stè…io non volevo…non sapevo…se dirtelo oppure no:
mi sono sentito malissimo perché ho pensato subito a te. Scusami.”
Non riesco ancora a dire nulla, non riesco a fare nulla. Sono
sempre immobile sul divano con lo sguardo rivolto verso il
televisore e una vecchia signora che racconta di una storia
d’amore. La mia, forse, è appena finita. Siamo amici io e mio
Con i miei occhi
63
padre, amici veri, perché ci diciamo cose belle e brutte, ma
che mio padre mi venga a dire che la mia ragazza mi ha tradito, questo non me lo sarei mai immaginato.
“Dai Stè...io sono stato tutto il pomeriggio a pensarci, Dio
mi sento morire e ti prego dimmi qualcosa perché io non so
davvero cosa fare.”
“Cerca di rimanere tranquillo almeno tu: hai fatto benissimo a dirmelo, ma ora me la vedo io.”
Mi alzo dal divano, vado in camera mia, mi siedo sul letto
e guardo le pareti che mi circondano: c’è appeso un disegno
di un mondo immaginario, un altro che raffigura un tramonto, poi ci sono alcune foto, parecchie foto, la maggior parte
mie e sue. Le guardo, penso a lei che si bacia con un altro,
penso alle sue labbra carnose e rosse unirsi non alle mie, penso che mi fa male, Smetto di pensare. Inizio a stare male. Gli
occhi mi si riempiono di lacrime. Inizio a sudare. Cerco di
respirare più profondamente, l’indecisione si è impossessata
di me: chiamarla o no? Dirle tutto o aspettare? Non ho la
mente lucida e con i nervi non si risolve nulla, anche se l’istinto mi dice di andare da questo qui, chiunque esso sia, fargli
una faccia rossa di sangue, poi andare da lei, abbracciarla,
baciarla per un’ultima volta e urlarle con tutta la mia voce,
con tutta la mia rabbia il mio dolore. Devo calmarmi.
Suona il cellulare per due secondi. Poi niente più. È uno
squillo, è il suo squillo perché lei ha la suoneria personalizzata,
perché lei ha tutto personalizzato, perché lei è tutto per me.
Forse non lo avevo ancora capito. Non è tanto che stiamo
insieme, sono circa...aspetta...non lo so, non me lo ricordo e
non penso che abbia importanza perché non conta da quant’è che stai con una persona, conta come vivi il rapporto con
lei. Noi non ci siamo mai fatti mancare niente.
Mi stendo sul letto. La mia faccia è bagnata, sento i miei di
là che parlano. È una strana serata, questa. Non mi metto
sotto le coperte, fa ancora caldo, le lacrime continuano a graffiare le mie guance e i miei occhi bruciano d’amore. E d’odio.
64
Stefano Quarta
E L’ASSICURAZIONE?
Apro gli occhi di scatto. Capisco che mi sono addormentato, ma non riesco a vedere che ore sono perché faccio fatica a
mettere bene a fuoco i numeri rossi che segna inesorabilmente la mia sveglia, mi ci vuole ancora qualche momento: 4:32.
Mi sembra di dormire da una vita.
Mi alzo per andare in bagno, nella casa è tutto buio, ma so
perfettamente dove andare e questo mi dà un senso di sicurezza. Esco dal bagno, sento una voce che parla, come al solito non riesco a capire chi o di che cosa parli in piena notte.
Apro la porta che mi divide dal salone e vedo mio padre che
guarda la televisione più sveglio che mai, mi guarda.
“E tu che ci fai ancora sveglio?”
“Potrei farti la stessa domanda...” Ho risposto con gli occhi
chiusi e pieni di croste, ancora non riesco a distinguere bene
la sua espressione. Mi siedo accanto a lui, di fronte a noi la
voce di un giornalista che finge di essere sveglio leggendo i
titoli dei maggiori quotidiani nazionali sottolineando con un
evidenziatore quegli da lui ritenuti più importanti. Stiamo in
silenzio per un po’. Mi sento in imbarazzo e non mi era mai
successo davanti a mio padre, cerco di guardarlo con la coda
dell’occhio, credo che anche lui sia in imbarazzo.
“Ehi Stè...come stai? Cioè, perché sei sveglio? No, va beh,
capisco il perché sei sveglio...”
Lo guardo, capisce che ha detto delle cazzate, ma apprezzo
il suo tentativo di conversare. Non ce l’ho con lui, figuriamoci
se potrei mai essere incazzato con mio padre, ma provo una
sensazione di prudenza, di distacco nei suoi confronti. Mi guarda,
aspetta una risposta.
“Appunto...Comunque ora bevo un po’ d’acqua e ritorno
a letto.” C’è imbarazzo, c’è freddezza, c’è uno strano senso di
non volersi trovare in quel posto e di non voler affrontare una
simile conversazione, c’è paura, lo avverto. C’è rabbia.
“Ok... io me ne vado a letto... Tu rimani qui?”
Con i miei occhi
65
“Sì, Stè... anch’io ho davvero poco sonno... sai com’è...”
“Sì, capisco. Notte.”
Avrebbe voluto parlarmi di più, spiegarmi come si sente, il
perché del suo gesto e sperare che tutto torni come prima. Ma
ora io sto male papà, perché io mi fidavo di lei, perché io
contavo su di lei, con lei ridevo di tutto e tutti, perché con lei
ci stavo bene, ma lei ora mi ha ferito e ha ferito anche te
mettendoci in una brutta situazione. No papà, non sono arrabbiato con te, è solo che sono arrabbiato in generale, quando mi passerà questa rabbia penso che inizierò a stare male e
allora cercherò un tuo abbraccio perché tu ti sei sempre comportato alla grande con me. Scusa papà, ma ora sono davvero arrabbiato.
Mentre penso questo, mi ritrovo a letto. Le lacrime solcano
di nuovo il mio viso.
Ed è già mattina. Sono le 8:37, sia mio padre che mia madre
sono già vestiti e pronti per uscire, mi dicono un fugace
buongiorno corrisposto da un cenno di assenso con la testa,
vado dritto in bagno, mi fermo davanti allo specchio e mi
guardo, ho un colorito abbastanza pallido, sotto i miei occhi i
segni evidenti del sonno agitato della notte appena trascorsa.
Prendo spazzolino e dentifricio, inizio a lavarmi i denti. Bussano alla porta, cerco di dire avanti nella maniera più comprensibile, sapendo già che sarebbero entrati comunque a
salutarmi.
“Noi andiamo via, ci sentiamo dopo. Tu hai lezione?” Faccio segno di no con la testa. “Rimani a casa a studiare?” Alzo
gli occhi ed inarco la bocca in evidente segno che è ovvio
quello che mi ha chiesto mio padre.
“Va bene, ci sentiamo dopo. Ciao Stè.” “Ciao.”
Chiudono la porta, li sento ancora fare commenti sul mio
stato d’animo e su ciò che è successo; mia madre non mi ha
detto nulla, fa sempre così, fa finta di non sapere e aspetta che
sia io a dirle qualcosa. Butto via il misto di saliva e dentifricio,
mi riempio la bocca d’acqua, faccio un po’ di gargarismi, get-
66
Stefano Quarta
to di nuovo tutto via. Apro le mani per raccogliere quanta più
acqua è possibile e in un attimo il mio viso è bagnato, ancora
una volta e un’altra ancora. Mi riguardo allo specchio. Le mie
guance sono diventate un po’ più rosse, sono tutto pieno di
goccioline che si muovono in svariate direzioni senza un preciso ordine, senza che io le comandi. Non mi asciugo, vedo
l’acqua che scivola via dal viso e cade giù, un po’ sul lavandino un po’ sul mio petto. Sembra che la mia faccia sia cosparsa
di lacrime, ovunque. Non è poi tanto differente dal mio stato
d’animo.
Vado in cucina, bevo un po’ d’acqua, non faccio colazione
perché non uso farla, non ho voglia di mangiare di primo
mattino, e mi dirigo verso la mia camera. Apro la finestra,
fuori c’è il sole che splende, la mia camera si riempie di aria
nuova, già, forse c’è proprio bisogno di aria nuova. Accanto
al libro di Privato c’è il mio cellulare, lo fisso. Il mio sguardo
rimane alcuni secondi su di lui, magari penso che se lo guardo ancora più intensamente si accende.
La voce di un bambino fuori in strada mi scuote da questo
torpore. È il pianto di un bambino che caduto per terra si
lamenta con la sua mamma, che prontamente lo consola rassicurandolo e stringendolo a sé, il pianto del bambino si placa, le sue lacrime diventano sorriso. Mi vesto, jeans, maglietta
e sandali ai piedi, è il 13 di Settembre e fa ancora caldo, come
Agosto.
Mi siedo un po’ sul divano, accendo la tv e inizio a guardare il televideo Rai, prima pagina 103 con tutti i principali avvenimenti sia della mattina che della giornata scorsa, poi subito pagina 201 con tutte le ultime notizie sul calcio. Come un
robot in automatico, leggo pagina 229, le brevi sul calcio e
poi esco, via su Mediavideo, il televideo di Mediaset. Anche
qui lo stesso percorso per poi andare subito a 241, s’inizia
con la Juventus e poi tutte le principali notizie squadra per
squadra, fino ad arrivare a pagina 254, le notizie sul Lecce.
Niente di nuovo, si lotta sempre per rimanere in serie A, le
Con i miei occhi
67
società che sono sempre più indebitate, i presidenti che chiedono al governo un aiuto per salvare il calcio, un bel decreto
salva-calcio altrimenti falliscono tutti. Mi viene un nervoso
pensando che in quel mondo lì c’è gente che guadagna anche
100.000.000 milioni delle vecchie lire al mese e loro chiedono aiuto al governo...ma è una barzelletta?! Hanno fatto la
bella vita fino ad ora, bene è giunto il momento che ritornino
sul pianeta terra e vedano che lavorare è tutta un’altra cosa.
Spengo tutto, vado in camera mia, mi siedo, libro aperto
dal pomeriggio precedente, cellulare spento. Sono le 9:20, lei
sarà sveglia. Prendo il telefonino in mano, premo per qualche
secondo il tastino con un cerchietto e una piccola astina rossa
in mezzo, mentre compare il mio sfondo con il mitico Homer
che beve una birra, squilla il telefono di casa. Mi sento agitato, il cuore mi batte all’impazzata, al terzo squillo rispondo. È
lei. Respiro profondamente e cerco di avere la mente lucida,
è inutile aggredirla per telefono. Stai calmo Stè.
“Buongiorno anche a te.”
“Il tuo telefonino è ancora spento, ti sei alzato tardi?”
“Sì, cinque minuti fa.”
“Mmmm, allora avrai ancora quella faccetta assonnata che
a me piace tanto… “ “Già.” “...e che mi piace riempire di
baci...” “Sì.” “Oh, troppo entusiasmo ti fa male eh.” “Lo so.
Dai, è che mi sono appena svegliato, devo ancora riprendermi.”
“Capisco. Niente volevo dirti che tra un po’ io esco, vado
all’università a vedere alcune cose in bacheca.” Non credo a
mezza parola di ciò che ha detto, così, per istinto.
“Ok, ci sentiamo dopo.”
“Va bene, però riprenditi cicci, perché così sembri un iceberg,
capito?!”
“Sì, sì, a dopo. Ciao.”
Riattacco, nuovamente non so cosa fare. Rimango fermo,
con mille pensieri e nessuna certezza. Poi penso che sto esagerando, ma che non mi piace essere preso per il culo, poi
68
Stefano Quarta
guardo il libro, so a cosa devo pensare. Allora, studiare non è
una delle cose più semplici che esistano, perché per studiare
innanzitutto non bisogna avere alcun tipo di distrazione, poi
bisogna avere la mente libera e lucida, infine bisogna essere
capaci di concentrarsi su di una determinata cosa o argomento. Solo così si riesce a studiare nel vero senso della parola,
riuscendo a memorizzare uno svariato numero di concetti.
Attualmente io sono totalmente l’opposto. Sono l’anti-studio.
Guardo l’ora, sono le 9:45, io non so assolutamente cosa fare,
anzi dentro di me lo so perfettamente, ma non ho il coraggio
di ammetterlo. Lo devo fare. Mi decido, la chiamo.
“Ehi...” “Ehi cicci, ti sei ripreso?” “Sì, sì, dove sei?” “All’università. Perché?” “Ti spiace se ti raggiungo e ci vediamo?” “No... no... ti aspetto.” “Ok, arrivo.”
Ho sentito la sua voce cambiare. Ho sentito la sua paura.
Ho sentito il suo capire che io so. In men che non si dica mi
ritrovo con il mio scooter diretto verso di lei, con il battito
cardiaco che aumenta a dismisura e le mani che iniziano a
sudare, e non certo per il caldo, anche perché hanno una
temperatura vicina allo zero. L’Ateneo non è molto distante
da casa mia, poi con il motorino ci si arriva subito e così in
dieci minuti sono di fronte a lei che mi abbraccia e mi bacia,
come sempre.
Me la ritrovo di fronte con un paio di jeans strappati all’altezza del ginocchio, una magliettina blu e le sua adorate Adidas,
a volte penso che ci dorma con quelle scarpe. È il modello più
semplice, bianche con le strisce blu, ma lei le adora e sinceramente le stanno bene. Ricambio le sue effusioni, ma dentro
mi sento morire, perché so che tutto questo sta per finire, i
miei occhi non mentono e lei se ne accorge.
“Ohi, ma che succede? Stai poco bene?”
“No, no... cioè sto bene, almeno credo...”
“Non riesco a capire Stè, che sta succedendo?” Mi viene
da ridere e non mi trattengo, penso che sia una di quelle odiose risate isteriche.
Con i miei occhi
69
“Perché ridi?”
“Invece di fare sempre delle domande, perché non mi dai
qualche risposta e mi dici tu qualche perché.” La sua faccia
cambia colore, il suo viso cambia espressione.
“Io? E che ti devo dire?!”
“Non sei mai stata una brava attrice.”
Mi sento tranquillo, ora. Mi sento davvero sereno e non so
spiegare il motivo, ma fortunatamente mi sento rilassato, parlo con tutta la calma di questo mondo, senza farmi prendere
dai nervi, mi esprimo lucidamente, cercando di farle capire
quanto cazzo ha sbagliato. Ho parlato tutto d’un fiato, cercando di farle capire quanto mi ha deluso e provando a gettarle
addosso tutto il male che mi ha fatto, ma in fondo non voglio
neanche farlo. Lei è qui di fronte a me, la guardo ma non la
vedo, vedo la sua bocca arrancarsi su qualche frase di scuse,
ma non la sento parlare, i suoi occhi sono diversi. Non è più
lei, non siamo più noi.
“Io non volevo, è successo così senza motivo.”
“Peggio, almeno ci fosse un motivo decente.”
“E ora?”
“Ora ciao Enrica, sai come si dice, è stato bello finche è
durato.”
“Dai Stè, non fare così.”
“Scusa, ma che vuol dire non fare così?”
“Cerchiamo di parlarne, di trovare una soluzione... io non
voglio che finisca per una stronzata, per una grande cazzata,
scusami, perdonami ti prego. Ho sbagliato!”
“Non è che non potrei perdonarti, ma oramai è cambiato
tutto, niente sarebbe più come prima, si è rotto per sempre
qualcosa, quando si rompe qualcosa anche se poi la riattacchi
non è mai come prima, mai.”
“Ma ciò non vuol dire che non può essere bella in maniera
diversa...o no?”
“No, per me una cosa rotta è andata. Non posso negare di
essere innamorato di te, non posso negare di avere voglia di
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Stefano Quarta
fare per l’ultima volta l’amore con te e poi odiarti con tutto
me stesso, ma in realtà cercherò solo di andare avanti giorno
per giorno.”
Ora piange, ora è il suo viso pieno di lacrime. Siamo seduti
su una panchina nel giardino dell’Ateneo, gli alberi ci riparano dal sole, anche se qualche raggio filtra tra i rami e illumina
sporadicamente questo piccolo parco, ma sulla nostra panchina solo ombra. Cerca frettolosamente nella sua borsetta
un fazzoletto di carta, perché non è bello farsi vedere gli occhi
pieni di lacrime. Si soffia il naso e mi guarda.
“Ma non vuoi sapere nemmeno chi è?” Rimango un po’
spiazzato dalla sua domanda, non capisco il perché me l’abbia fatta. Chi è... chi è che ha osato profanare il mio tempio,
che si è lasciato conquistare con troppa facilità, chi è che ha
deciso di rovinare la mia tranquillità, chi è che ha osato baciare lei, lei che mi diceva che come me non c’è nessuno, che
come ha baciato me non ha mai baciato nessuno, che per lei
ero l’unico, chi è questo ragazzo che, ora che mi tremano le
mani e anche i miei occhi si stanno riempiendo di lacrime,
vorrei avere qui davanti, per fargli capire quanto male ha fatto, anzi quanto male hanno fatto... ma chi è... chi...? Non so
se lo voglio sapere. Per me è lei che ha sbagliato, nessuno l’ha
obbligata con la forza.
“No, non voglio. Ora voglio solo andare a casa mia.” Ci
guardiamo negli occhi. Stiamo piangendo entrambi, sappiamo fin troppo bene che è la fine, abbiamo un quoziente intellettivo quantomeno decente per evitare di dire le solite banalità sul rimanere amici e stronzate varie. Quando ci si vede,
massimo rispetto e basta.
Ho poggiato le chiavi del mio Scarabeo sulla panchina, le
afferro, poggio le mani sulle mie gambe, abbasso la testa, respiro più profondamente. Inizio a piangere ma non voglio,
con uno sforzo non indifferente alzo il viso verso l’alto e le
lacrime rimangono lì, ferme, immobili, ma basterebbe anche
un soffio di vento per scatenare una cascata.
Con i miei occhi
71
Sento il suo sguardo su di me, sento le sue lacrime e sento
che la sua mano si avvicina a me, ma come un vigile nell’ora
di punta le mostro il mio palmo più disteso che mai, vicino
agli occhi. Lei si blocca.
“Perdonami.”
“Lo farò. Un giorno. Ma non ora.” Capisco che è arrivato il
momento di alzarmi, è inutile restare ancora qui. Non c’è più
niente da dire o fare.
“Io vado. Vedi di stare bene. Ciao.”
“Aspetta Stè...dai, cerchiamo di parlare, discutiamone, troviamo una soluzione...ti prego!”
“Ehi... cerchiamo di rimanere calmi. Io vado perché ora è
giusto che io vada. Ed è inutile che ti dica ci sentiamo, ti chiamo io, chiamami tu o roba simile...perché io so già che avrò
voglia di chiamarti, so già che anche tu l’avrai, che continueremo ad avere le stesse voglie che abbiamo avuto fin ad ora,
ma adesso c’è dell’altro: c’è la rabbia, l’amarezza, l’orgoglio e
c’è il dolore. Ti ripeto, massimo rispetto quando ci vediamo,
almeno da parte mia, ma per il resto non aspettarti niente di
niente da me. Ciao.”
Non mi ha risposto, io sono andato via subito. L’ho lasciata
lì, seduta sulla panchina, in lacrime con un fazzoletto stropicciato in mano. Lei mi ha lasciato in quel bar, da solo in un
angolo a immaginarmi quella scena con lei che si concede a
un altro. Riesco ancora a sentire indistintamente i suoi singhiozzi.
Ho il cuore a pezzi, ho una gran voglia di andare lì, abbracciarla e consolarla. Dai amore mio, non è successo nulla, vedrai che anche questa passa, perché ti ho conosciuta a una
festa dove tra decine di persone i nostri sguardi si sono trovati
e ti ho salvata da quello che non la smetteva più di parlare,
dai amore mio che anche se stiamo insieme da solo sei mesi,
so quanto siamo legati perché in tutti questi mesi abbiamo
condiviso tutto, dai amore mio, ora ti abbraccio. Dimentichiamo tutto.
72
Stefano Quarta
Il vento mi sbatte presuntuoso in faccia, rinnegando la sua
debole forza in questa giornata di sole, guido con una mano
sola, l’altra è occupata a cercare in tasca un qualche genere di
pezzo di carta che assomigli a un fazzoletto, ma alla fine mi
convinco che sarà il vento ad asciugare le mie lacrime.
È un classico che io vada al mare, perché il mare aiuta a
pensare e perché il mare mi trasmette tranquillità. Lecce S.Cataldo sono dieci chilometri scarsi, li percorro a cinquanta
all’ora, con una calma esterna e un terremoto interno, senza
immaginare che i dieci minuti successivi sarebbero stati un’incredibile alternanza di eventi che neanche il miglior Muccino
riuscirebbe a pensare.
Non riesco neanche a vedere il mare che sento come un
piccolo botto, mi giro di scatto e vedo la ruota posteriore sgonfiarsi
a vista d’occhio, non faccio neanche in tempo a fermarmi per
imprecare pesantemente contro l’accaduto che da dietro arriva la Municipale in tutta la sua baldanzosità e come ultima
cosa, ma non certo per importanza, è che la mia assicurazione è scaduta a Luglio. Per fortuna che ho il casco. Naturalmente la municipale mi sorpassa, fa segno di accostare, cerco
di star calmo anche se la rabbia aumenta.
“Buongiorno.” “Salve.” È sceso uno solo, l’altro è in macchina, guarda la mia targa e la comunica alla centrale tramite
radiolina, riesco a vedere tutto questo dallo specchietto, ma la
mia attenzione viene subito richiamata dal poliziotto davanti
a me.
“Mi fa vedere un documento?” “Sì, subito.” Scendo dallo
scooter e guardo per la prima volta negli occhi l’uomo in divisa, anche lui guarda me, capisce che ho pianto. Prendo il portafoglio, lo apro e da una delle innumerevoli fessure prendo la
mia carta d’identità. Non ho mai visto una carta d’identità
con una foto decente, io non faccio eccezione, infatti sembro
un pregiudicato, con quei capelli lunghi, orecchino e faccia da
sconvolto con evidenti occhiaie. L’agente la guarda, poi guarda me.
Con i miei occhi
73
“Mi fa vedere assicurazione e libretto di circolazione?”
“Sì...un attimo solo...” Sollevo il mio sellino e tiro subito
fuori il libretto di circolazione...giusto per prendere un po’ di
tempo. “Prego...” Consegno nelle mani del poliziotto il libretto, questi prontamente lo porta al collega sempre seduto in
macchina attento ad ascoltare le indicazioni dalla radiolina,
neanche ci fossero le partite.
“Manca l’assicurazione.” Bella scoperta! Faccio finta di non
sentire, mi mostro impegnato a cercare un qualcosa che non
c’è e intanto cerco di pensare a cosa dire, a una giustificazione più o meno valida per evitare una qualche genere di multa.
“Guardi, io l’avevo messa qui...è mia sorella che sposta
sempre tutto... mannaggia...” “Sì, come no.” Ritorna vicino la
macchina, io rimango fermo appoggiato sul mio scooter, la
rassegnazione si sta impossessando di me. Mi sento svuotato,
alzo gli occhi al cielo forse per cercare un qualche genere di
risposta che puntualmente non arriverà.
“Lei fa uso di stupefacenti?” Il mio viso ritorna ad altezza
uomo, guardo il poliziotto. “Come scusi?!”
“Lei fa uso di stupefacenti?”
Mi viene da ridere, credetemi, di getto mi viene da ridere
perché francamente questo è troppo. La mia ragazza mi ha
fatto cornuto, mi sono appena lasciato, sono a pezzi, ho appena forato, mi ha fermato la municipale, sono senza assicurazione, per di più ho forato e questo mi chiede se faccio uso
di stupefacenti...O rido o piango.
“No, ma se non inizio ora non inizio più.” Mi guarda perplesso, non credo abbia
apprezzato la mia ironia.
“Non faccia lo spiritoso signor Quarta. E risponda seriamente che qui non stiamo mica giocando e le ripeto la domanda: lei fa uso di stupefacenti?”
“No.”
“Ne è sicuro?”
74
Stefano Quarta
“No. Cioè sì, sì, ne sono sicuro.”
“Ha voglia di giocare?”
“Per niente.”
“Bene, allora veda di rispondere seriamente e una volta
per tutte. Lei fa uso di sostanze stupefacenti?”
“NO!!!”
Se cerco di guardare questo situazione con distacco, da un
punto di vista diverso dal mio, mi sembra nettamente paradossale, con una buona dose di comicità.
“Bene, comunque devo farle la multa perché è senza assicurazione, sono € 33,60...”
“Ma come la multa?! Guardi che l’assicurazione ce l’ho, è a
casa, sia gentile... Non si può fare un’eccezione? Solo per questa
volta?”
“No.”
È antipatico e soprattutto ha una presunzione addosso che
mi fa innervosire ancora di più, decido di stare zitto, altrimenti
qui finisce male. Anche perché mi sembra che abbia un certo
gusto nel sentirmi chiedere pietà.
“Ecco a lei. Buongiorno.” Prendo la multa, non ricambio il
saluto, anzi gli auguro dentro di me cose davvero poco carine. Lo guardo con odio. Profondo. Ma loro vanno via, soddisfatti del loro operato, convinti di aver fatto una cosa buona.
Una gocciolina di sudore mi scende dalla fronte, ho la multa
in mano, la ruota a terra e il mare a circa 2 km da me e come
sempre non so cosa fare.
È quasi mezzogiorno, il sole è al massimo del suo splendore, io invece sono in piena eclissi, oscurato da troppe cose.
Come se non bastasse a pochi centimetri da me passa una
golf gt nera con quattro animali maschi a bordo che mi
strombazza in maniera insopportabilmente baldanzosa. Riesco quasi a sentire le loro risate.
Non faccio neanche in tempo ad aumentare la mia dose di
nervosismo che mi squilla il cellulare. Ci metto qualche secondo abbondante a trovarlo, guardo il display: Cicci mia!!!
Con i miei occhi
75
con tre cuoricini che lampeggiano e che non aspettano altro
che io prema il tastino verde. Ma non lo premo, anzi metto il
cellulare nel sellino, chiudo lo scooter e m’incammino verso il
mare. Mi tolgo la maglietta oramai bagnata dal mio sudore,
me la metto in testa per cercare di diminuire la temperatura
della mia cute, altrimenti prossima alla fuoriuscita di fumo,
continuo a camminare.
Mi guardo. Ho l’addome pieno di goccioline, i jeans mi
fasciano le gambe aumentando la mia sudorazione, per di
più le mutande, grazie all’aiuto del signor sudore si sono praticamente appiccicate al mio fondoschiena. Mi sento un naufrago. In tutti i sensi. Decido di continuare perché penso che il
mare sia l’unica cosa che riesca a darmi sollievo in questo
momento.
Certo è che due km sembrano pochi, ma farli a piedi e
sotto il sole cocente non è per niente carino, ma al mare ci
arrivo lo stesso. Mi tolgo le scarpe, metto un po’ i piedi a mollo, anche perché altrimenti sarebbero andati a fuoco, e tengo
accuratamente lontano le mie scarpe perché emanano un odore
davvero poco piacevole. Non c’è molta gente, anzi sono quasi da solo tranne un gruppetto di ragazzi che giocano a
pallonesoto lo sguardo delle ragazze che commentano in maniera
molto rumorosa e giuliva, ma non ci faccio caso, perché voglio stare da solo. Mi voglio sentire solo. Voglio soffrire, ora
più che mai ho deciso di affrontare questo dolore; il fatto è
che io e lei eravamo proprio nel momento più bello, in cui ci
capivamo alla grande nonostante qualche litigata che non faceva altro che unirci ancora di più, poi stavamo bene anche
con gli altri...già, i miei amici, la nostra comitiva, ora che succede? Non oso neanche immaginarmi la scena di ritrovarmi
allo stesso tavolo con lei, con tutte le sue amiche e tutti i miei
amici parlando come se niente fosse.
Mentre penso cammino, mi bagno i piedi, l’acqua è sempre calda anche se qui non ci sono certo cinque bandiere blu,
ma è sempre mare. Ho caldo, ma ho l’estremità del mio corpo
76
Stefano Quarta
freddissime. Mi allontano dal gruppo di ragazzi, cammino finché non li vedo più, mi scaravento per terra, piango perché
sto male, poi mi alzo, guardo ancora il mare, mi tolgo i jeans,
li lancio in aria e corro verso di lui, entro nell’acqua e continuo a correre, sento la fatica, la corrente ostacola la mia corsa, mi sforzo di mantenere la mia andatura, l’acqua sale sempre di più, ma io cerco di correre fino a quando non sono
praticamente tutto immerso nel mare. Mi bruciano gli occhi.
Continuo a piangere.
Eccomi di nuovo per strada, diretto verso il mio scooter
che scorgo in lontananza. Il caldo sembra infiammare l’asfalto. Mi pare di vedermi: solo, con il viso sempre e comunque
bagnato di un mix tra acqua di mare, qualche residuo di lacrime, anche una notevole quantità di sudore.
Sollevo il sellino, prendo il cellulare, il display mi informa
che ci sono ben sei chiamate senza risposta e nel momento in
cui chiedo di vedere chi è che mi ha cercato compare un solo
nome che conosco bene. Tastino rosso e il nome scompare,
magari fosse così facile per tutto. Ma ora sono qui e devo
tornare a Lecce. Ci metto quasi un’ora per arrivare a casa,
sono già tutti a tavola che aspettano me; penso che sia superfluo dire che ho ricevuto circa dieci chiamate durante il tragitto, con la seguente percentuale: 30% casa mia, 70% cicci mia...
Nella mia famiglia, come sapete, siamo in tre, sono figlio
unico e loro sanno fin troppo bene, visto lo stralunato e quanto mai singolare svolgersi degli eventi, a cosa è dovuto il mio
ritardo. Quello che non sanno è che ho parlato con lei, ma
basta uno sguardo negli occhi e in tre secondi il segreto è
svelato.
È strano che io stia così, cioè il problema è proprio questo
che non lo so se è strano o no, perché sono sei mesi. Allora, si
può dire che sono tanti, si può dire che eravamo ancora agli
inizi, ma è un periodo di tempo, un bel po’ di tempo in cui ho
condiviso tutto con lei, questo è il problema. Anche se non
stavamo insieme da anni, noi due insieme abbiamo condivi-
77
Con i miei occhi
so tutto e ci siamo sempre trovati bene. Abbiamo viaggiato
insieme, studiato, siamo usciti, abbiamo fatto l’amore, abbiamo litigato, abbiamo fatto la pace...cazzo, sei mesi sono tanti
e lei era veramente tanto per me.
Mentre a tavola mi parlano o tentano di farlo io penso a
tutto questo. Il fumo della pasta inonda il mio viso pallido, il
suo odore mi disgusta, il mio stomaco è in sciopero. Ed ecco,
inevitabilmente le prime domande dirette, sì, perché fino ad
ora si è cercato di fare dei discorsi vaghi, sul mondo in generale, ma il vero scopo era arrivare a me...Ah, che strane
creature questi genitori...La prima è mia madre.
“Studiato stamattina?” Annuisco con la testa, mentre guardo Studio Sport su Italia Uno. “Ma...quando hai l’esame di
diritto?”
“A fine Ottobre.”
“Ti senti pronto?”
“Ma’, considerando che siamo a metà settembre, non credo che io debba sentirmi pronto ora.” Il mio tono si è fatto più
duro, queste domande così stupide e inutili non le sopporto
proprio. Prima avrei chiesto un amichevole conforto a mio
padre, ma ora sento il suo sguardo su di me, capisco che si
aspetta che io gli chieda qualcosa, ma non lo faccio. Mia madre non dice nulla.
È contrasto. Con me stesso. Ma è una lotta strana perché
non so contro cosa sono in lotta, non so perché sono indeciso, ma sento di esserlo. Tuttavia capisco una cosa fondamentale: ho più di qualche problema con mio padre, devo parlargli.
TUTTI IN CAMERA MIA!
Sono seduto sul divano, sono circa le 15:00 e i Simpson
stanno per finire, oggi è una puntata speciale, è un cosiddetto
speciale di Halloween in cui molto teoricamente dovrebbe
78
Stefano Quarta
esserci un qualche genere di componente paurosa, ma in realtà si ride sempre. Mio padre si siede accanto a me, lo fa
sempre a quest’ora, di solito parliamo e regolarmente mi chiede
come fanno a piacermi certe cazzate, cazzate che io difendo
strenuamente.
Oggi stiamo zitti, guardiamo la tv, ma non vediamo nulla
perché entrambi pensiamo a cosa sta succedendo. Mia mamma finisce di fare i piatti e va in camera da letto. Sembra fatalità, ma ci sono dei momenti che sembrano fatti apposta per
parlare, chiarire delle situazioni che devono essere risolte per
il bene di tutti. Mi accorgo che mi manca il coraggio di parlargli, perché anche se dico di non essere arrabbiato con lui, in
fondo credo di avercela un pochino. Anche se onestamente il
perché non lo so spiegare. Lui questo lo sa.
“Parlato con Enrica?” Annuisco. “Vi siete chiariti?” Scuoto
il capo. “Hai perso la lingua?” “No. Quella mi è rimasta.” “E
cos’hai perso?” “Ancora devo capirlo bene cos’ho perso, ma
c’è una certezza: ho perso qualcosa di bello”. “Cosa vi siete
detti?” “Le solite cazzate di circostanza...non credo ci sia molto da dire in questi casi...” “Ma ora vi siete lasciati?” Mi giro di
scatto a guardarlo e me lo mangio con gli occhi.
“No, era per capire... per sapere come siete rimasti.”
“Hai capito.”
“Sì. Forse non smetterò mai di dirti quanto mi dispiace che
sia stato proprio io a... sì beh, insomma lo sai... a scoprirlo.”
“Non è colpa tua.”
“Ma si vede che sei un po’ risentito nei miei confronti.”
Annuisco.
Ora siamo in silenzio. C’è di nuovo quel silenzio pesante
che odio profondamente perché sono una frana a farlo cadere. Prendo coraggio perché accanto a me è seduto mio padre,
che con me è sempre stato sincero e leale, mi ha sempre aiutato in qualunque situazione, facendo il possibile e anche di
più. È un mio amico, è l’amico mio per eccellenza. Ed è mio
padre. Niente silenzi con lui.
Con i miei occhi
79
“Non lo so perché, ma è come se un po’ di colpa la dessi
anche a te... cioè, capisco che tu non hai fatto niente di male,
anzi, sei stato come sempre più che corretto, ma non riesco a
spiegartelo bene a parole. Dai, magari è solo la rabbia del
momento, anzi sicuramente è così, stai tranquillo, tu hai fatto
la cosa giusta. Davvero papà.”
“Stè... io mi sono sentito morire. Quando ho visto lei con
quell’altro mi sono sentito male per te e avrei avuto voglia di
andare lì, dargli due schiaffi e fargli una faccia gonfia come
una zampogna.” Rido, anzi sorrido perché cerco di immaginarmi la scena.
“Non dovevi, hai fatto benissimo a comportarti così. Sei
stato un grande, come sempre.”
Ora ho la sua mano davanti che mi chiede di stringerla
all’americana, cioè quelle strette di mano in cui si vuole esprimere la lealtà tra due persone. Afferro la sua mano, la stringo
forte. “Grazie.” “Scusa Stè.” “Evitiamo certi formalismi...
Guardone!” “Ok. Io raggiungo la mamma a letto” “Va bene.”
D’un tratto mi viene un pensiero: non ho sentito nessuno
dei miei amici. Non riesco a capire il perché. O non hanno
ancora saputo niente, magari capita uno di quei giorni in cui
casualmente non ci si sente, oppure non sanno cosa dirmi,
oppure... Il pensiero che loro sapessero mi sfiora per un attimo, si concretizza l’attimo dopo, ma lo ricaccio via da dove è
venuto, perché non voglio credere a niente di simile.
Trascorro il pomeriggio giocando svogliatamente alla
playstation. In palestra non ho voglia di andare, preferisco
guardare un film, stare a casa mia, tra le mie cose che mi
danno sicurezza. E poi c’è il piccolo Max che mi fa compagnia, mi metto a giocare con lui. Arriva l’ora di cena, c’è un
clima più disteso a tavola, non ci sono tensioni tra di noi. Ma
il mio cuore è sempre a pezzi.
Apro gli occhi, dalla mia radiosveglia intravedo dei numeri
che ancora non riesco a decifrare, mi rigiro ancora una volta
nel letto strofinandomi gli occhi con le mani. Le 9:33, niente
80
Stefano Quarta
male, penso. I miei sono già usciti, dalla finestra intravedo
qualche raggio di sole e capisco che è ora di alzarmi. La stanza è buia ma so come muovermi, perché è la mia camera.
Non ci metto molto a lavarmi, vestirmi e aprire il libro di diritto,
il problema è studiare. Poi il mio sguardo cade inevitabilmente sul mio cellulare ancora spento, lo accendo e non trovo nessun
messaggio, meglio così, penso. Ma dei miei amici ancora niente.
Scuoto la testa, quasi per mescolare i pensieri e vedere se si
sistemano da soli, riprendo a leggere, a sottolineare, cercando
vanamente di capire qualcosa di contratti collettivi, demanio e
cose simili, ma fortunatamente vengo salvato dal suono del
campanello. Mi alzo dalla sedia quasi felice perché non ho interrotto per mia volontà, ma per cause esterne.
“Chi è?” “Stè, sono Ivan, posso entrare?” “Sì, sì, entra.”
Apro il portone. Sento il rumore dei suoi passi. Lo aspetto
sulla porta. Non so cosa aspettarmi. Mi abbraccia forte, capisco che ha saputo, ma non da molto. Mi sento sollevato. Ci
guardiamo negli occhi, leggo il suo dispiacere, lui capisce e
sente il mio.
“Porco giuda Stè... io l’ho appena saputo, non sapevo cosa
fare, stavo impazzendo, volevo chiamarti, mandarti un sms,
poi ho pensato che era meglio venire da te...ho fatto male?”
“Hai fatto benissimo, davvero. Anzi, io pensavo lo sapessi già.”
“No, altrimenti sarei venuto prima...Sei arrabbiato con me?”
“Che c’entri tu?”
“Niente, ma visto che non mi chiedi neanche di entrare.”
Rido, non mi ero neanche accorto che eravamo ancora fermi
sulla porta.
“Scusa! È che non sono proprio lucidissimo e questa volta
non è colpa di qualche sostanza alcolica… purtroppo!” Mi dà
una pacca sulla spalla ed entra, ci sediamo in cucina. “Vuoi
qualcosa?” “Si.” “Cosa?” “Che ti sieda e se ti va mi spieghi
cos’è successo.” Sorrido, malinconicamente.
“Niente, Ivan... penso che Milena ti abbia già detto tutto,
non c’è molto da spiegare, lei ha ritenuto opportuno baciarsi
Con i miei occhi
81
con un’altra persona, per sua sfortuna è stata vista e ciò che è
successo è la conseguenza.”
“Sì, ma perché?”
“E lo chiedi a me?”
“Giusto. Scusa.”
Segue un attimo di silenzio in cui ci guardiamo e non sappiamo cosa dirci, perché non è facile dire qualcosa che valga
la pena di essere detto in una situazione come questa. Non
voglio renderla drammatica, ma fa male.
“Mannaggia Stè.” Lo guardo tentando di sorridere, ma è
quel sorriso amaro che è davvero brutto.
“Io non ci volevo credere Stè, cioè mi è sembrato assurdo,
ma quando Mile ha insistito tanto e poi si è messa pure a
piangere.”
“E perché, piange pure lei?”
“Sai come sono... cioè io non lo so e non lo capirò mai.
C’è poco da dire, ha pianto e basta. Io mi sono sentito male
perché mi sono innervosito, e poi... “ “...e poi...?” “Ma tu lo
sai chi è?” Scuoto il capo guardandolo negli occhi e temendo
che dalla sua bocca possa uscire un nome che io non voglio
sentire, qualunque esso sia.
“Non t’interessa saperlo? Lo sai che Lecce è piccola, se
chiediamo a qualcuno riusciamo a sapere qualcosa per andare a trovare sta’ merda.”
“Ivan, teniamo sempre presente che Enrica non aveva una
pistola puntata contro e nessuno l’ha obbligata a fare ciò che
ha fatto, quindi, se lo vuoi proprio sapere, io do più colpa a lei
che a lui.”
“Non hai torto. Ma dimmi una cosa, scusa: ma tu da chi
l’hai saputo?” Sorrido. Mi viene subito in mente Titanic. “Da
mio padre.” Rimane sorpreso, non sa cosa dire. Appoggia la
schiena sulla spalliera della sedia e butta via l’aria in maniera
più decisa.
“Cazzo Stè... e... e... cioè, non so che dire... boh… porca
puttana.”
82
Stefano Quarta
“Già... proprio porca puttana. Ma lo sai che ancora devo
capire bene cosa sia successo? Cioè, l’ho capito, ma devo
realizzarlo materialmente, perché a livello di dolore fisico sto
già messo bene.”
“Dai Stè... è una brutta storia, è vero, ma piano piano ne
esci, cerca di stare tranquillo. Forse è banale dirlo, ma conta
pure su di noi.”
Ivan ha appena finito di parlare quando il citofono ha nuovamente reclamato attenzione. È Giacomo. Anche i suoi passi sono svelti e decisi, si ripete la scena con Ivan: io sulla soglia
della porta, guardo i suoi occhi, capisco che ha saputo, lui
capisce il mio dolore e l’abbraccio è una cosa spontanea. Questa
volta non ripeto l’errore, faccio entrare subito Giacomo, saluta Ivan e siede accanto a lui, entrambi mi guardano, come se
si aspettassero qualcosa da me. Io li guardo e faccio spallucce...
che dovrei dire?!
“Ma come cazzo si fa?” Il tono di Giacomo è serio, lo guardo, capisco che è rimasto colpito anche lui, per davvero. Ma
anche questa volta non faccio in tempo a rispondere che il
campanello richiama nuovamente la mia attenzione. Mentre
vado a rispondere mi viene da ridere perché mi sembra una
situazione paradossale e ho una vaga idea di chi possa essere, anzi penso che siano in due.
“Stè siamo Silvio e Ale, poss...” Non faccio neanche finire
di parlare, apro la porta, mi viene da ridere, ma mi sento
parecchio sollevato. Mi sento protetto. Anche i loro passi sono
svelti e le loro facce affrante.
“Stè...porco Giuda...” Mi abbracciano entrambi, ricambio
sinceramente il loro abbraccio. “Ti abbiamo disturbato? Stavi
studiando?” “No... qui manca solo la musica e un po’ di alcool e poi siamo pronti per la festa.”
Non capiscono le mie parole finché non oltrepassano la
porta che divide la cucina dal salone e vedono i primi arrivati
già belli e comodi.
“... e noi che pensavamo di disturbare, invece ci hanno già
Con i miei occhi
83
pensato loro...bravi, bravi!” I loro sguardi sono rivolti verso di
me, per cercare di capire come sto, se ho bisogno di qualcosa.
Io, come sempre, cerco di vedere questa situazione dal di fuori, di staccarmi dalla realtà, cercando di vedere gli altri e me,
io e gli altri da un’altra prospettiva.
Immagino la scena. Sorrido, perché sono contento che siano qui, sono contento perché ho degli amici, sono contento
perché con loro posso essere me stesso, senza timori né remore.
Questo sono io. Questi siamo noi.
“Amici miei... che botta!” Ho parlato all’improvviso. Cioè,
non è che ho interrotto qualcuno, ma si era creato quel silenzio che io odio così tanto e che oramai sto imparando a rompere. Si sono voltati tutti quanti di scatto a guardarmi, smarriti e spaesati. Ho parlato con il viso rivolto verso la finestra. Ma
ora mi volto e li guardo.
“Non me lo sarei mai aspettato, è arrivato nel peggior modo
possibile e pensate che l’ha scoperta mio padre...ci siamo già
parlati, ci siamo già mandati fanculo...mi manca. Tanto.” Ci
guardiamo, mi guardano. Forse esagero o forse è solo che mi
fa piacere, ma secondo me stanno male anche loro, non come
me, è logico, ma è piacevole condividere il dolore con qualcuno a cui vuoi bene. Come al solito, il primo a parlare è
Ivan.
“Noi... siamo qui, ecco. Siamo come ci vedi. Stiamo qui e
basta. Non dobbiamo parlare per forza di lei, anzi. Possiamo
parlare di tutt’altro, sapendo che tu hai il pensiero fisso a lei,
ma noi siamo qui e se stai male, beh cercheremo di condividere il tuo dolore, di renderlo meno pesante, anche se solo tu
puoi aiutarti veramente.”
“È vero Stè.”
“Noi stiamo qua. Fanculo alle troie.”
“Tutte zoccole.”
Hanno parlato tutti, ognuno confermando ciò che ha detto
Ivan. Non è una promessa figlia del momento, no. Non lo è.
“Beh, ma ora basta altrimenti quasi quasi mi commuovo.
84
Stefano Quarta
Di lacrime ne ho già versate abbastanza e penso che ne dovrò
versare ancora un bel po’.”
Ora, mentre sono tutti qui, mi viene in mente lei, chissà
cosa starà facendo...chissà se anche a casa sua si sta svolgendo questa specie di riunione carbonara nata spontaneamente... chissà se lei è lì che mi pensa... chissà se è sola. Mentre
siamo tutti qui a prendere coscienza, ancora una volta, di ciò
che siamo, suona il campanello. Ci guardiamo e abbiamo tutti espressioni abbastanza sorprese. Le persone che avevo voglia di vedere sono tutte qui, non manca nessuno.
“Chi è?” “Stè, sono Giulia, posso entrare?” “Sì, sì, entra.”
Ci metto volontariamente qualche secondo per aprire il portone, mi volto verso i miei amici che pendono tutti dalle mie
labbra per sapere chi è il nuovo arrivato. Ho gli occhi a terra
perché sto pensando cosa fare. Giulia è amica di Enrica, certo
lo è anche mia, ma è una ragazza ed è normale che abbia
legato di più con la mia ex. Se è venuta qui vuol dire che ha
qualcosa da dirmi, se vede tutti questi animali a casa mia, tra
cui il suo ragazzo, non mi dirà nulla.
“Ragazzi è Giulia.”
“Stè...che vuoi fare?”
“Nascondetevi. Se è qui è perché devi dirmi qualcosa e se
vi ved...” Non faccio in tempo a finire di parlare che tutti hanno capito cosa volevo dire e tipo banda bassotti si sono alzati
e diretti verso la mia camera, cercando di fare silenzio. Intanto
Giulia è alla porta che suona. Apro.
“Ciao.” “Ciao Stè.” Mi bacia sulla guancia, è un bacio un
po’ più prolungato del solito, segno chiaro ed evidente che è a
conoscenza della situazione, se ancora ci fosse qualche dubbio.
“Non ti chiedo come stai perché mi sembra abbastanza
scontato.” Loquace e intelligente, avrei dovuto aspettarmelo
da una tosta come lei.
“Appunto.”
Ci sediamo in cucina, le sedie sono tutte un po’ spostate,
Con i miei occhi
85
ma fortunatamente lei non ci fa caso, è troppo concentrata su
ciò che deve dirmi, perché se è qui deve dirmi qualcosa. Le
offro qualcosa da bere. Rifiuta, poi si decide a parlare.
“Senti, Stè… – ci siamo, sto sudando –...io, come ben potrai immaginare, ho parlato con lei...non sta tanto ben...” Il
rumore è uno di quelli assordanti e secchi, di quegli starnuti
che ridi al solo sentirli, perché certi starnuti si sentono e questo di Ivan non fa eccezione. Ci siamo guardati stupiti, se possibile ho sudato ancora di più.
“No... eh...sai... il signore di sopra è... è... raffreddato e poi
questo è periodo di allergie, quindi sai... polline, acari,
graminacee, ecco le graminacee, mi raccontava proprio giorni fa che sono letali. Gli si gonfia tutta la faccia, diventa rosso,
subisce tipo una mutazione e via con gli starnuti. Mi guarda
perplessa, io cerco di reggere il suo sguardo, anche se non
oso neanche immaginare cosa starà succedendo nella mia
camera e la punizione fisica che starà subendo Ivan.
“Ah, brutta cosa. Io ho una zia che soffre di allergia, ma
non è così rumorosa.”
“Per le donne è diverso.”
“Già, infatti mia zia...”
“Giulia, scusa se ti interrompo, sono sicuro che l’allergia di
tua zia è fondamentale per la prosecuzione della specie, ma a
me, in questo momento preme sapere perché tu sei qui.” “Hai
ragione Stè, scusa. Dicevo sai che ho parlato con lei... non sta
per niente bene, sua mamma è preoccupata, non ha mangiato nulla e...”
“Alt, alt alt! Fermati! Cioè, tu sei venuta qui a dirmi che lei
non sta bene, a dirmi che non dorme e non mangia da massimo un giorno e senza neanche sapere o sentire le mie ragioni?!”
Rimane colpita dalle mie parole e soprattutto dal tono in
cui le ho dette, ma penso che avrebbe dovuto pensarci su un
bel po’ prima di venirmi a dire certe stronzate.
“Stè io non c’entro, io sono solo preoccupata e non vogl...”
86
Stefano Quarta
Il rumore della serratura della porta lo si sente anche a una
festa dove ci sono cinquanta persone e musica ad alto volume, figuriamoci quando si parla in due e in un tono normale.
Mia madre entra con le buste della spesa, mi alzo per aiutarla e insieme si alza Giulia, non per aiutarla, ma rimane in
piedi. Saluta mia madre con il solito bacio, si conoscono non
mi ricordo perché, ora sto solo pensando a quando lei entrerà
nella mia camera e si troverà quattro ragazzi che non so cosa
stiano facendo. Ma Giulia è inaspettatamente abile a complicare la situazione. Infatti si avvicina a me e, mentre mia madre è occupata a togliersi la giacca e a posare le sue cose in
camera da letto, mi dice queste testuali parole: “Stè, non è
meglio se andiamo in camera tua?” Nooo, non è assolutamente meglio! Cazzo. Panico. E il sudore scivola via.
“No, dai, tanto mia madre deve girare per casa, pulire, spolverare, cucinare, lavare, raccogliere le mie cose, ecco proprio
raccogliere le mie cose, quindi deve entrare e uscire dalla mia
camera...non sai quante cose ho che si devono raccogliere...”
Lei mi guarda perplessa. “Dai, tranquilla – continuo con aria
falsamente indifferente – risiediamoci...e vediamo se riusciamo a finire questo discorso.”
“Proviamo. Anche se tu non sei molto contento della mia
visita.”
“No. Non è così, sono contento della tua visita, ma non
sono soddisfatto di ciò che sei venuta a dirmi: ma ti sembra
logico dopo quello che lei ha fatto che tu venga qui e mi dica
che lei sta male e tutto il resto...?!”
“Pensavo fosse giusto dirtelo.”
“Perché, credi che io sia tanto stupido che non sia in grado
di immaginarlo? Beh, se è così ti sbagli perché sono sicuro
che lei sta male quanto me, questo lo so perfettamente. Una
cosa non so. Perché?”
Ora è in silenzio, Giulia. Ora mi guarda, Giulia. Ora cerca un
mio sorriso, Giulia. Ora si è pentita di esser venuta qui, Giulia.
“Io...io...non...”
Con i miei occhi
87
“Ti aiuto io, Giulia: tu non lo sai e non lo puoi sapere perché lo sa solo lei. Capisci dove voglio arrivare? È una cosa
mia e sua... è un nostro problema!”
“Ho capito. Ho solo cercato di rendermi utile, perché vedere lei e vedere te che state così male per una cazzata.”
“...una sua cazzata...”
“Sì, sua, non è comunque piacevole.”
“Giulia, per quanto mi riguarda sei sempre la benvenuta
qui, ma non per dire stronzate. Intesi?” Lei annuisce. Capisce
che deve andare. Ci alziamo e l’accompagno alla porta.
Non appena se n’è andata, mi dirigo deciso verso la mia
camera, apro la porta e vedo i quattro animali parlare con
mia madre cercando di spiegarle il perché si trovano chiusi lì,
in silenzio, nascosti non si sa da chi o cosa. Naturalmente è
Ivan che tiene la scena.
“No, signora Claudia, glielo ripeto, non è che ci stiamo nascondendo, è che abbiamo preferito lasciare Stefano di là da solo
con Giulia, in modo che possano parlare liberamente.”
“Ma perché mio figlio sta con Giulia?”
“No mamma!” Quando si dice al momento giusto nel posto giusto.
Sono tutti in cerchio intorno a mia madre, tutti a parlare a
bassa voce, non sapendo che la nostra amica è già andata
via. Nessuno dice niente, ma tutti mi guardano e si capisce fin
troppo bene che aspettano solo che mia madre vada via per
inondarmi di domande.
“Ah figlio mio...io non capisco più.”
“È normale mamma.”
“Cosa?”
“Che non capisci.” Gira le spalle e va via, un po’ risentita
per la mia battuta fuori luogo ma consapevole che era ora
che io rimanessi solo con i miei amici. Non appena varca la
soglia della mia camera, come ampiamente previsto, vengo
sottoposto a una fucilazione verbale di domande che sfociano in una sola: che cosa ti ha detto? Riassumo la nostra con-
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Stefano Quarta
versazione e il mio stupore per le sue parole. Giacomo, se
possibile, è ancora più attento degli altri. Alla fine del mio
breve discorso è il primo a parlare.
“Ah, tutto qui?” Annuisco. Poi è la volta di Silvio.
“Giacomino, con tutto il rispetto, ma questa conversazione
se la poteva pure risparmiare...insomma...” C’è un giro di sguardi
abbastanza eloquenti, con espressioni che non fanno altro che
dar ragione a Silvio. “Se la poteva risparmiare, sì.” Anche il
suo ragazzo è d’accordo con noi.
Non c’è più molto da dire, non c’è più molto da fare. Ora
c’è da reagire e vedere come va. Avendo la consapevolezza di
non essere da solo.
Vanno via tutti insieme, mi viene voglia di seguirli, ma so
che oltrepassato il mio cancello ognuno andrà per la propria
strada, qualunque essa sia.
Chi ancora ha bisogno di spiegazioni è mia madre. “Stè, io
non ho ancora capito cos’è successo stamattina, perché c’erano
quattro amici tuoi chiusi nella tua stanza e tu in cucina a parlare con la ragazza di uno di loro, nonché tua amica.”
“Ma’, ti ho detto che è normale che non lo capisci... non lo
capisco neanche io...” Fa spallucce e va via.
Non saprei come spiegarle tutto, potrei parlare della mia
amicizia con quei quattro animali di prima, di quanto io sia
loro grato perché mi hanno dimostrato il loro affetto e la loro
comprensione, ma so già che la mamma non capirebbe. Quindi,
giro le spalle anch’io e ritorno nella mia camera, che ora mi
sembra ancora più mia. Il mio libro è li, il mio cellulare è li, io
sono qui, o almeno ci provo.
VIA DA ME
Gli eventi che si susseguono dopo questa mattina non riesco ancora a capire se siano una conseguenza logica di un
qualche genere di ragionamento, oppure se era tutto scritto in
Con i miei occhi
89
un disegno stabilito da entità superiori, tipo Final Destination,
giusto per citare qualcosa di cinematografico. Fatto sta che
tutto è destinato a cambiare, ogni cambiamento comporta
inevitabilmente sofferenza da una parte e piacere da un’altra.
Quando tutti, amici e amiche, sono andati via da casa mia
eravamo convinti di essere sempre noi. Ma d’ora in poi non
lo saremo più. O forse lo saremo, ma in maniera diversa.
“Allora, un po’ di silenzio per favore... dite presente quando il vostro nome viene chiamato, poi con gli altri professori
vi conteremo e decideremo se dividervi in gruppi o se riusciamo ad interrogarvi tutti oggi...Iniziamo...”
Sono le 8:45 di un mercoledì di fine ottobre, sono seduto
nell’aula ‘Carmelo Bene’ per sostenere l’esame di diritto privato: ma a me chi mi sostiene?!
C’è un sacco di gente, io sono con alcuni miei amici di
facoltà, con cui condivido i numerosi dolori e le scarse gioie
di questo corso di laurea. C’è agitazione, si vede nei volti di
tutti quanti, attenti a non tardare neanche un nano secondo
nel rispondere ‘presente’ al suono del proprio nome, o comunque ad alzare la mano in segno di esistenza fisica.
“Paoletti...”
“Si.”
“Pasculli...”
“Eccomi.”
“Quarta...”
“Presente.”
“Rabito...”
“Si.”
Ho dato il mio segno di esistenza, ho comunicato a una
parte di mondo che ci sono, almeno fisicamente sono qui,
mentalmente non lo so dove sono. È inutile nasconderlo, non
ho studiato molto, o meglio ho provato a studiare ma i risultati sono stati veramente scarsi.
Dopo alcuni minuti di consultazione privata, giusto per ri-
90
Stefano Quarta
manere in tema, il professore ci comunica che verremo interrogati tutti oggi e che per le 18:00 l’esame sarà terminato.
“Se c’è qualcuno che ha esigenze particolari non venga a
comunicarlo a noi, ma mettetevi d’accordo direttamente tra
di voi, noi non possiamo fare nulla. Ora iniziamo. Naturalmente essere interrogati da me o dai miei assistenti è la stessa
cosa, quindi state tranquilli perché se siete preparati, lo sarete
con chiunque.”
Non è sbagliato ciò che ha detto. Anzi. Ma che gli assistenti
siano uguali a lui, beh ho i miei seri dubbi visto che hanno
solo qualche anno più di me, ma la loro presunzione e arroganza raggiunge livelli preoccupanti, presi dal delirio di
onnipotenza per essere seduti dietro una cattedra. A volte ci si
dimentica troppo in fretta come si sta dall’altra parte.
“Bene. Ora iniziamo perché siamo già in ritardo. Abate c’è?”
C’è c’è, Abate si alza consapevole di ciò che l’aspetta e si
dirige verso il professore, mentre i due assistenti chiamano
altri due ragazzi. Per me c’è tempo, meglio che stia attento
agli esami per sentire le domande e soprattutto le risposte.
È distesa sul letto, sul fianco destro. La vedo di spalle, ma
già so che ha la mano destra poggiata sul viso e la mano
sinistra in mezzo alle gambe, rannicchiata come a coccolarsi
da sola. Lo fa sempre. Le sono andato di fronte, il suo viso è
un po’ nascosto dai capelli lunghi, ma sempre bellissimo. Dolcemente le sposto una ciocca di capelli dietro l’orecchio per
permettermi di guardare i suoi occhi, di perdermici dentro. Le
accarezzo la guancia per alcuni secondi, forse anche minuti.
Mi accorgo che ha pianto prima di addormentarsi, e ne so
bene il motivo. Il mio cuore si stringe, non avrei mai voluto
farla piangere, mai. Lei non avrebbe mai voluto farmi piangere, mai. Ma mi ha fatto male e in realtà non so se mi fa più
male il tradimento o la sua mancanza. Ed è per questo che
sono qui, che sono venuto da lei: perché mi manca da morire. Ho cercato di convincermi che quello che mi ha fatto aves-
Con i miei occhi
91
se spento, cancellato, spazzato via tutto il nostro amore, invece guardandola adesso mentre dorme il mio cuore non mente. Mi sdraio accanto a lei e sento il suo profumo che sa di
buono, di fresco, di tutto ciò che di bello c’è intorno a noi, che
purtroppo non è molto, ma c’è ancora. Appoggio la mia guancia
nell’incavo del suo collo, la mia pelle sulla sua, chiudo gli occhi e le lacrime vengono giù da sole, scivolano giù fino ad
arrivare sul suo collo, lì si dissolvono. Continuo a piangere, è
un pianto liberatorio. Non ho mai smesso d’amarla.
Vorrei restare fermo così per un tempo indefinito senza dover
decidere, senza dover chiedere o dare spiegazioni, senza parole. Così, abbracciato a lei senza farci domande di cui non
conosciamo una valida risposta, perché così conterebbe solo
l’amore. E nient’altro. Lei si sveglia, mi guarda senza dire una
parola: chissà come le appaio buffo a questa distanza così
ravvicinata e con la vista ancora offuscata dalle lacrime dei
nostri sogni infranti. Mi sorride dolcemente. È bella, è stupenda, è il mio angelo. Siamo così intensamente vicini che riesco
a vedere ogni suo centimetro che si muove, le sue labbra strette
tra i denti in segno di rimorso, i suoi occhi che diventano subito lucidi e non smettono di osservarmi e di scrutarmi. Le sue
mani roteano nervosamente, indecise se tuffarsi o no su di
me. Aspetta un mio cenno, anche un mio mezzo sorriso perché tutto questo gelo svanisca e ritorni la passione tra di noi.
Le sfioro le labbra con la mano, inizia a piangere e ridiamo,
quasi a voler buttare fuori tutto ciò che abbiamo dentro.
“Oh Stè...ma ci sei?!” Mi sento scosso, anzi percosso. “Ma
stai bene?” Giro lo sguardo per capire chi è che mi parla e
vedo Matteo. “E tu che cazzo ci fai qui?” Spalanca gli occhi e
mi guarda. Tutti mi guardano, tutti in un limitato raggio d’azione
mi hanno sentito. Per fortuna i professori no.
“Stefano ma stai bene?” Mi guardo intorno. Mi sento sudato, sono sudato. Incrocio un po’ di sguardi sorpresi e anche un
po’ schifati. Non capiscono. Effettivamente devo capire pure
92
Stefano Quarta
io cos’è successo, anzi forse cosa non è successo, il che è peggio.
Mi rimetto composto sulla sedia, mi sfrego la faccia con le
mani, guardo il mio compagno universitario Matteo. Mi rendo conto della figura di merda che ho fatto. Ora sudo ancora
di più. Rimango fermo e immobile per un po’, come a volermi incastrare in questo contesto così distante da me, lo sguardo rivolto verso il professore: come sempre vedo le labbra
muoversi, ma non sento nessuno parlare.
“Stè...come cazzo stai?!? Ma hai fumato?” “No, Mattè...
penso di essermi addormentato.” “Minchia! Ma scusa... se
avevi gli occhi aperti come hai fatto ad addormentarti?”
Lo guardo. Nei miei occhi si legge anche la mia incredulità
per ciò che è successo, o meglio che non è successo.
“Non lo so Mattè, non lo so proprio. Ma io avevo proprio
gli occhi aperti? Scusa, ma adesso che ora è?” “Sono le 10:25
e hai sempre avuto gli occhi aperti. Oserei dire spalancati.
Già, proprio spalancati.”
Quando è nervoso, Matteo, ripete spesso le cose, soprattutto gli aggettivi. Ora è nervoso perché siamo in un’aula d’esame,
e non di un esame qualsiasi, siamo all’esame di Diritto Privato, cioè non so se riesco a spiegarmi bene. A parte il solito
detto, Diritto Privato mezzo avvocato, teniamo in considerazione le 1.000 e oltre pagine di studio che una persona dovrebbe aver fatto (il condizionale è d’obbligo), e quindi tutte
le giornate seduto su quel libro che non finisce mai, sforzandosi di memorizzare concetti che dopo un po’ si dimenticano
perché la dimenticanza è fisiologica, insomma tenendo conto
di tutto questo, io cosa faccio?! Dormo e soprattutto sogno ad
occhi aperti. Ma che cazzo di esame devo fare!!
“Matteo io me ne vado a casa...è inutile che io stia qui.” Mi
guarda perplesso. Naturalmente è al corrente delle mie sfighe
sentimentali, ma è ugualmente sorpreso.
“Ti facevo più...più...più...cazzuto, sì ti facevo proprio più
cazzuto Stè.”
Con i miei occhi
93
“E questo che vuol dire?”
“Vuol dire quello che ho detto.”
“Ma che significa cazzuto?!” Mi guarda di nuovo. Non più
sorpreso, ma è uno sguardo deciso. “Caccia fuori le palle.”
Ora sono io che lo guardo perplesso. Ho capito cosa vuole
dire, ma se uno non ha studiato, è inutile che si presenti all’esame, è una delle prime cose che i professori ci dicono e,
secondo me, giusta. Non è che un esame lo puoi tentare o
presentarti così, tanto per fare figura.
“Mattè, ma che mi siedo a fare? Non so niente, almeno
non mi ricordo niente... E poi sto sotto a un treno.”
“Si vede, proprio per questo ti devi sedere lì. Indipendentemente da come va, ma tu siediti lì. Tanto anche se ti bocciano che fa? Salti un appello, e allora? Non è mica la fine del
mondo.”
Ora non lo guardo più. Guardo in un punto non molto
definito davanti a me. Anche ora, guardo ma non vedo quello che osservo. Caccia fuori le palle. Lo ripeto a me stesso per
svariate volte, non lo so se sono uno con le palle, uno che
affronta tutto e non ha paura di niente, uno che non si tira
mai indietro. Forse non lo so ancora cosa sono.
Sento vibrare la tasca, so che non è il mio fratellino, perché
è un po’ che non dà segni di vita, figuriamoci se si mette anche a vibrare. Prendo dalla mia tasca il cellulare, sul display
compare la scritta Papà, non rispondo, non saprei cosa dirgli
su quest’esame. Lo rimetto in tasca e dopo alcuni secondi
smette di vibrare. Ma poco dopo mentre ero nuovamente assorto nei miei pensieri, il telefonino reclama nuovamente la
mia attenzione. È il segnale di arrivo di un sms. Lo leggo.
Mittente: Papà. Testo: Appena finisci fammi sapere com’è andata. Io credo in te. Ti voglio bene.
Certo che alcune volte chi sta lassù si diverte proprio a
metterci in difficoltà, in teoria pensiamo che Lui sia occupato
a risolvere problemi ben più grandi di questi, ma in realtà
guarda tutto. Devo ricordarmela questa bella pensata.
94
Stefano Quarta
Non vado in Chiesa, perché non credo in essa come istituzione, come regole e come ‘facciata’. Ma credo in Dio, non so
se ci credo perché mi hanno obbligato a credere in qualcosa
di superiore e astratto, che ci ha creato, un essere che ha dato
la sua vita per la nostra e noi lo abbiamo ucciso; ecco, ci credo perché penso che l’uomo sia capace di qualcosa di così
aberrante. Mi rivolgo a Lui quando ho bisogno di qualcosa,
prego la sera prima di addormentarmi e la mattina quando
mi sveglio, a volte dopo aver detto qualche Padre Nostro e
Ave Maria mi metto a parlare con il Principale, so che in un
dialogo ci dovrebbe essere una domanda e una risposta, so
altrettanto bene che in questo caso non sarà mai così, ma è
bello avere qualcuno che ti ascolta sempre. In chiesa ci sono
andato regolarmente fino alla Cresima, poi qualche volta in
occasione delle grandi feste, tipo Pasqua e Natale, ora non
più. Non è una cosa di cui vado fiero, è semplicemente un
mio punto di vista, in quanto non mi sembra giusto che la
Chiesa dica di aiutare sempre il prossimo, di donare quello
che si ha e le offerte e tutte le cazzate varie, poi loro indossano tuniche rivestite d’oro, copricapo importantissimi e non
tocchiamo il tasto degli anelli che portano al dito. Cioè, la
vendita di uno solo di questi gioielli basterebbe a sfamare un
intero paese. Sì, va bene, loro parlano di tradizioni, di significati e di altre stronzate varie che a me sinceramente non fanno nessun effetto. Non credo nella Chiesa. Ecco, mi sono nuovamente smarrito nei meandri della mia mente, per fortuna
che Matteo è ancora qui.
“Oooh... Ma oggi è così!?” Annuisco. E aggiungo: “... ma
stavolta almeno una minima parte di me era cosciente, cioè
era qui.”
“Ah, grazie per la gentile concessione. Noi tutti te ne siamo
grati.”
“Ah ah, spiritoso. Senti, ma a che lettera siamo?”
“Sono arrivati alla D.”
Guardo l’orologio, sono circa le 12:00. Entro le 18:00 ce la
Con i miei occhi
95
faranno a interrogare tutti. Mi alzo e scendo qualche fila più in
giù, passo davanti a Matteo che mi guarda con lo sguardo
attonito, ma non ricambio la sua occhiata volontariamente,
vado deciso alla seconda fila, ci sono un po’ di posti liberi. Mi
siedo da solo, accanto al corridoio. Qui riesco a sentire le domande e le possibili risposte. L’esame lo faccio, comunque
vada.
Per svariate ore riesco a stare completamente assorto (strano eh?), ma stavolta in maniera positiva, ho ascoltato e sono
stato attento a tutto. Accanto a me è arrivato Luca, un altro
amico universitario.
“Ma sei qui da molto Luca?”
“Abbastanza Stè, abbastanza.”
“Ah... Io non ti ho sentito proprio arrivare.”
“Ho notato... non preoccuparti.”
Non è un vero amico, Luca, ma è un bravo ragazzo ed è
piacevole parlare con lui. Tuttavia preferisco concentrarmi sullo
svolgimento degli esami. Tra un 18 striminzito, un bel 28 e un
‘è meglio che ci vediamo al prossimo appello...’, sono arrivati
alla lettera P, precisamente mancano tre persone e poi tocca a
me. Il mio telefonino ha squillato varie volte, erano i miei
amici che sicuramente volevano sapere dell’esame. Non ho
volontariamente risposto a nessuno.
“Paoletti...c’è Paoletti?” Dopo qualche secondo di puro
terrore, fortunatamente il candidato si alza e va incontro al
suo destino universitario. Si vede che è spaventato.
La situazione è la seguente: il professore è alle prese con
una ragazza che tra meno di dieci secondi si metterà a piangere, il primo assistente ha appena chiamato Paoletti e il secondo assistente è quasi alla fine dell’interrogazione. In teoria
Pasculli dovrebbe andare da quest’ultimo e io dal professore.
Mi sento più sollevato. Infatti, dopo neanche cinque minuti
l’assistente finisce e chiama Pasculli. Silenzio. “Pasculli Claudia.” Ancora silenzio. Inizio a diventare rosso e compaiono le
prime goccioline. “Pasculli c’è?” Nessuno parla e tutti si guar-
96
Stefano Quarta
dano intorno, sicuramente tale Claudia sarà in mezzo a noi,
ma per non so quale genere di ripensamento sta zitta e muta
in un angolo a far finta anche lei di guardarsi intorno. L’assistente comunica al professore che Pasculli non c’è, lui dice
che è meglio così almeno è uno di meno, ci si sbriga prima.
“Allora andiamo avanti... venga Quarta, c’è?”
Ecco qua, ci siamo. Mi ha chiamato, tu sei Quarta. Devi
andare. Dovresti andare e sederti lì, cercare di parlare di ciò
che lui ti chiede, dovresti provare. Ce la puoi fare. Dai Stè,
coraggio. “Sì, eccomi.”
Non appena pronuncio queste parole, mi pento amaramente anche di essere venuto, di aver detto presente all’appello e di aver proferito parola. Mentre mi dirigo alla cattedra
mi volgo verso Matteo che ricambia il mio sguardo; stringe il
pugno in segno di incoraggiamento, come a dirmi di farmi
forza. Prima di sedermi mi faccio il segno della Croce in maniera molto composta, in modo che nessuno possa vedermi.
È un modo per raccomandarmi a Dio. Per avere più coraggio.
“Buongiorno.” “Salve.” “Lei è Quarta Stefano vero.” “Sì,
o almeno credo.” “Ha dubbi sulla sua identità?” “Ho molti
dubbi.”
Queste poche battute scambiate mentre lui compilava le
varie carte burocratiche, mi sono servite a stemperare un po’
la tensione. Respiro più profondo, mi tranquillizzo. Come al
solito, ho la sensazione di non sapere nulla, ma proprio niente
di niente. Tra un po’ capirò se è solo una sensazione o è qualcosa di più.
“Spero che non abbia così tanti dubbi anche per quanto
riguarda il diritto.” “No, no... Oddio, qualcosina sfugge sempre, però... in linea di massima... ci siamo.”
Mi guarda perplesso. Non è stata una risposta felice la mia.
“...in linea di massima ci siamo...” Ma che cazzo dico?!?
“Va bene. Iniziamo.” Annuisco. Forza Stè. Cerca di rimanere tranquillo e non preoccuparti. Dai, dai, dai!!!
“Allora signor Quarta, mi vuole parlare delle varie tipologie
Con i miei occhi
97
di contratto?” Non è una cattiva domanda, ho letto un bel po’
di cose, ne ho studiate di meno, ma ricordo ancora qualche
concetto.
“Sì. Il contratto è un accordo scritto tra due entità private o
pubbliche...” Parlo in scioltezza del contratto, dico quello che
so, cerco di ampliarlo e ridirlo almeno un paio di volte per
cercare di dare l’impressione di sapere cosa dico e dove voglio arrivare. Anche se non è per niente facile.
“Bene, bene, ho capito che quest’argomento è di suo gradimento. Ora entriamo nello specifico, mi parli del diritto di
proprietà. Mi faccia un bel discorso e me lo argomenti bene.
Coraggio.” Il diritto di proprietà?! Io ricordo solo una cosa
che era di mia proprietà e che mi ha fatto male senza alcun
diritto. Rimango fermo immobile, impassibile e lo guardo fisso negli occhi. È come se io esaminassi lui.
“Cerca l’ispirazione guardandomi?” Non mi è piaciuta questa
sua ironia, ma ora il pensiero di lei si fa più forte, non so il
perché. Cerco di ricacciarlo via, ma oramai è al centro del
mio stomaco, del mio intestino, del mio addome. Del mio
cuore. È al centro di tutto.
“No... C’è poco da essere ispirati.” Ora si sono nuovamente invertite le parti. Lui fissa me e io lo guardo senza vederlo.
Avrà avuto al massimo quattro o cinque anni più di me, non
è né particolarmente arrogante, né particolarmente buono di
cuore: semplicemente fa l’assistente.
“Ho capito. Vuole che vada avanti e le faccia un’altra domanda?” “Sì.” Ho risposto di getto. Non ho nulla da perdere,
non voglio perdere nulla. “Bene. Si rilassi e stia tranquillo che
qui non fuciliamo nessuno.”
Evidentemente il mio velo di timidezza deve essere aumentato
di vari strati con segni visibili e tangibili alla vista di quasi tutti
i presenti. Già, perché il rossore s’impossessa di me, la mia
sudorazione ascellare aumenta in maniera smisurata con conseguente produzione ascellare e non ultimo, il sudore che scorre
lungo il mio torace mi dà ulteriore sensazione di fastidio. Se
98
Stefano Quarta
mi ha detto così, vuol dire che almeno i due terzi dei suddetti
eventi si sono verificati senza che io me ne accorgessi: sto
peggiorando.
“Ci provo.” “Bene. Mi parli... dunque... sì, mi parli del demanio pubblico.” Mi sento svuotato. Non ho ancora finito l’esame, ma mi sento già vuoto, come fuori dal mio corpo. Eppure
questa domanda la so bene, cioè potrei parlare tranquillamente del demanio pubblico e sciorinare un sacco di concetti
a questa persona che si trova di fronte a me e che, devo ammettere, si comporta in maniera normale. Ma cos’è la normalità? Resto in silenzio, lo faccio volontariamente. Rido, anzi
sorrido. Alzo gli occhi, mi guardo intorno e mi chiedo cosa ci
faccio qui. In realtà sono lontano mille miglia da qui.
“Sig. Quarta c’è qualche problema?”
“Qualche?! C’è più di un problema, il primo è che sono qui
ma non dovrei esserci e non so dove dovrei stare, ma di certo
non seduto qui. Chiedo scusa. Arrivederci e buona giornata.”
Mi alzo, e me ne vado. Felice. Sollevato. L’assistente mi ha
guardato dubbioso, ma non può certo perdere tempo a pensare a me. Sono io che devo pensare a me.
Mi volto, vedo Matteo sorridente che ricambia il mio sguardo, scuote il capo in maniera bonacciona e alza la mano in
segno di saluto. Sappiamo entrambi che non ci vedremo per
un po’ di tempo, alzo la mano anch’io, racchiudo tutte e cinque le mie dita fino a formare un pugno, batto due volte sul
mio petto, all’altezza del cuore, segno del nostro legame. Lo
stesso fa lui. Mi giro e vado via. Mi viene da correre come se
avessi vinto qualcosa, mi viene da piangere e non so se è per
la gioia o per la tristezza, mi viene da urlare e non so se è per
la disperazione o la rabbia, mi viene da spaccare tutto, perché
ho qualcosa dentro di molto forte e devo farlo uscire fuori.
Il mio cellulare squilla, ma non rispondo, non vedo neanche chi è, sento solo il solito vibrare. Lo spengo. Mi fermo a
una cabina e chiamo Ivan. È una chiamata veloce, poi riprendo il mio cammino.
99
Con i miei occhi
STEO, 3
“...e siamo tutti quanti qui, in questo bellissimo posto per
divertirci tutti insieme alla grandissima. Ora buon appetito!!!”
C’è sempre una costante nella mia vita: il sudore. Sudo
sempre come un animale, però un belva buona.
“Dai Stè, prepariamoci.” “Eccomi Mario.” Un cambio di
maglietta e siamo pronti, belli come il sole.
“Sempre più caldo qui eh.” “E aumenterà Stè.” “Bene,
sono contento. Mi fa veramente piacere.” Ride Marione, ha
una risata di quelle contagiose, ha un viso che ti ispira simpatia e ti dà anche una buona dose di sicurezza. È proprio una
bella persona.
“Oh ragazzi, pronti? Dai, altrimenti Fabio s’incazza.” “Sì,
sì, ci siamo. Via.” Chiudiamo la porta della camera a chiave e
andiamo. Questo posto è bellissimo, ne avevo sempre sentito
parlare del Mar Rosso, della sua bellezza, ma devo dire che
vederlo dal vivo è tutta un’altra cosa. Il ragazzo del bar ci
chiede qualcosa in quella lingua più che incomprensibile, gli
rispondiamo, ridendo, ognuno nel proprio dialetto. È un piccolo gioco tra di noi, ma prima o poi ci capiremo.
“Salve, buon appetito.” “Buon appetito.” “Pino ti aspetto
alle 17:00 per il torneo di calcetto. Buon appetito.” “Buongiorno
signora, buon appetito.” Il concetto è sempre quello, basta
dirlo in maniera diversa e sempre con il sorriso sulle labbra.
“Ciao Gigi, a dopo per il torneo di calcetto. Buon appetito.” “Ok ragazzi, a mangiare anche noi. Nutritevi che ne avete
bisogno.” È loquace Fabio, si vede che siamo un po’ stanchi,
ma stiamo tutti bene.
L’idea di partire come animatore in qualche villaggio non è
stata premeditata, ma figlia della necessità di non pensare, di
divertirsi, di lavorare e di imparare qualcosa. Siamo ai primi
di Novembre, è 23 giorni che sono qui a Sharm el Sheik ed è
inutile nasconderlo: ho sempre e ancora lei in testa, ma va
meglio. Mio padre mi ha detto di fare ciò che mi fa stare bene,
100
Stefano Quarta
io ho sempre ascoltato mio padre; mia madre si è preoccupata dell’università, degli amici e cazzate varie. Non ci ho messo
molto a trovare una buona agenzia di animazione, ho fatto
un colloquio ed ecco un provetto animatore sportivo, specializzato in calcetto, nuoto e tennis. Sono tutti sport che ho praticato a livello dilettantistico.
Certo questo non è un villaggio Valtur, ma non ci si può
lamentare davvero di niente: siamo un’équipe di diciotto ragazzi, più il capo animatore e il capo villaggio, tutta gente simpatica, ma soprattutto di un’umiltà unica. Mi trovo bene. Inizio a stare bene. I miei amici li ho salutati in fretta e furia. Non
ho detto a nessuno che volevo partire, l’ho detto solo nel momento in cui ero certo della mia partenza. Ci sono rimasti
male perché, forse, non si sono sentiti all’altezza di aiutarmi,
ma poi hanno capito che solo io posso stare bene e solo io
posso stare male: non dipende da nessun altro se non da me
stesso.
“Amico mio divertiti e spacca il mondo...Io ti voglio bene
ed è questo quello che conta. Tutto il resto è passeggero.” È
stata questa frase di Ivan quella che mi ha fatto commuovere
di più. Ci siamo abbracciati forte, con quella forza che può
essere sentita solo da chi conosce veramente l’amicizia, come
noi.
Ora mi ritrovo seduto qui a mangiare della buona pasta al
sugo, con una maglietta con dietro scritto ‘Steo’ e un bel numero stampato, sono il 3. Non sono un terzino sinistro, qui
c’entra davvero poco il calcio, è un modo per far sì che i clienti si ricordino meglio di noi, anche se il numero non è che
abbia un significato particolare. Non per forza tutto deve avere un senso.
Quest’oggi ho pranzato insieme a una famiglia di Bergamo,
a una bella coppia, a due ragazzi di Forlì venuti in vacanza
con il dichiarato e spudorato obiettivo di ampliare le loro conoscenze femminili e a una signora di Roma, molto distinta e
piuttosto borghese. Mi piace. Mi piace davvero molto la pro-
Con i miei occhi
101
spettiva di mangiare quotidianamente con persone diverse,
ascoltare le loro storie, raccontare le mie, sentire migliaia di
opinioni e capire che alla fine siamo tutti uguali e cerchiamo
tutti la stessa cosa.
Alle 15:00 il nostro capo animatore ha indetto una riunione per discutere delle attività del pomeriggio, poi, forse, potremo andare a riposare un po’. Mi congedo dai miei commensali
dando appuntamento a Marco, Sandro e al signor Ottavio
per il torneo di calcetto del pomeriggio.
“Va bene, Stè. Senti... ma quelle ragazze al tavolo di fronte
chi sono?” Marco non se ne lascia scappare neanche una.
“Sono Letizia e Marta, di Rovigo. Due belle figliole...Dopo te
le presento.” “Grande Stè. A dopo.”
Sono le 14:28, abbiamo appena finito il gioco caffè e ora
siamo in attesa della riunione con il nostro capo, nel frattempo mi metto a parlare con Graziana, una hostess di Bari che è
arrivata due giorni dopo di me. Mi chiede come mi trovo, io
mi lament del caldo. Sorride e si asciuga una goccia di sudore
anche lei.
“No...ma che dici...invece si sta così bene, al fresco...e poi,
non lo senti questo venticello che ti accarezza la faccia?”
“No...evidentemente Eolo è arrabbiato con me.” Ride di
nuovo e si siede vicino a me. Iniziamo a parlare di cazzate
varie, del perché siamo qui, dell’università che non si finisce
mai e di come ognuno di noi abbia sofferto in maniera differente, ma sempre per qualcuno del sesso opposto.
“...sto pensando seriamente di diventare omosessuale, almeno chiudo con le donne...Tanto dicono che il dolore lo si
prova uno volta sola e poi basta... mi abituerò... “
Ride e mi guarda. “Ma sei sicuro di voler rinunciare anche
a una come me?” Ha cambiato tono. Si è avvicinata a me. Mi
prende la faccia e avvicina velocemente le sue labbra alle mie,
ma quando siamo a un millimetro di distanza si ferma, caccia
fuori la lingua e mi lecca il labbro superiore.
“Pensaci bene.” Come faccio a non pensarci più che bene.
102
Stefano Quarta
È inutile nasconderlo, è una bella ragazza, dolce e decisa al
punto giusto e lo si capisce che vuole portarmi a letto... e non
per dormire... o perché ha paura del buio.
Da quando mi sono lasciato con ‘lei’, non sono mai stato
con nessun’altra ragazza, non mi sono mai messo in condizione di stare con altre. Non ne avevo voglia. Ora non lo so se ne
ho voglia, fatto sta che ho un po’ di paura a mettermi con
un’altra persona che non sia lei, ma Enrica non ha avuto alcuna paura. Mi sono chiesto quali fossero le mie colpe, quali i
miei sbagli, perché credo che quando in una coppia succede
qualcosa, le colpe siano sempre di entrambi. Io penso di aver
dato alcune cose per scontate, ma di altre colpe davvero non
ne trovo. Forse non so essere obiettivo.
“Allora ragazzi andiamo tutti nella costumeria.” Ci muoviamo tutti insieme, parlando dello spettacolo di questa sera,
delle attività del pomeriggio e adocchiando qualche bella e
gentile cliente femminile che merita particolare attenzione e
servizio completo!
La costumeria è una stanza non molto grande con degli
stand dove sono appesi oltre 100 costumi dai colori sgargianti
e dove aleggiano profumi non proprio gradevoli. In più fa
molto caldo, e Cristiano, l’animatore di contatto, lo fa presente. È un coro di approvazione, siamo tutti d’accordo, è meglio
scegliere un altro posto per la nostra riunione, e allora via sui
gradini dell’anfiteatro, all’ombra. Noi seduti, Fabio in piedi
davanti a tutti quanti.
“Ragazzi, le cose vanno bene, la gente è contenta. Gli ultimi arrivati, Steo e GraGra si stanno inserendo bene, meritano un bravo, tutti voi state continuando sui soliti alti livelli.
L’agenzia mi ha chiamato chiedendomi se serviva qualche altra figura professionale. Io ho chiesto qualche giorno di tempo, ma in realtà volevo parlarne con voi. Che ne pensate?
Consideriamo che il villaggio è pieno all’80% e la settimana
prossima sarà completo. C’è un attimo di silenzio, poi parla il
capo sport, Giulio.
Con i miei occhi
103
“Per quanto riguarda noi, siamo a posto. Il settore sportivo
non ha bisogno di nulla.”
Gli fa eco la capo hostess, Marina. “Anche noi Fa’, stiamo
alla grande.” Gli animatori di contatto e le animatrici del mini
club annuiscono e si uniscono anche loro al coro dei stiamo
bene così’.
“È quello che pensavo anch’io. Meglio così, ragazzi. Ora
sono le 15:15, andate a riposare fino alle 16:00, poi pronti
per il pomeriggio che si ricomincia alla grande. Steo tu sei a
posto con il calcetto?”
“Sì, sì Fabio, ho già qualche adesione e altri mi hanno assicurato che vengono.”
“Bene. Tu Andrea come sei messo con le lezioni del tiro
con l’arco?” “Ho tre ragazzi nel pomeriggio e sul tardi una
signora che vuole imparare.”
“Ok, siamo a posto. Buon riposo ragazzi, a dopo.” Saluto
generale e via. Di dormire abbiamo bisogno tutti quanti.
Graziana mi guarda e ride, poi ognuno nella sua camera.
Io la condivido con Cristiano e Andrea, due bravi ragazzi con
cui non ho avuto problemi a legare.
“E buon pomeriggio!! Lo staff di animazione vi comunica
che le nostre attività riprenderanno tra pochissimo. Godetevi
questi ultimi due giorni in questo splendido posto, poi ritornerete in città, senza sole, senza mare e sarete incazzati in mezzo
al traffico perché qualcuno ha parcheggiato male ed ha bloccato tutto.. Per non pensare partiamo subito con una bella
canzone di Eros Ramazzotti, colui che più di tutti ama la precisione e la fedeltà svizzera!”
Le note di ‘Un’emozione per sempre’ invadono piacevolmente l’aria. Io sono appena arrivato, con il mio immancabile
fischietto al collo me ne vado in giro salutando tutti, fischiando ai più. Ho ancora una mezz’ora libera prima di iniziare a
organizzare la partitella mista e poi dirigere le due semi finali
del torneo che domani vedrà la sua conclusione. Mi fermo a
104
Stefano Quarta
parlare con un signore molto simpatico di Treviso, incazzato
con Berlusconi per la sua politica, ascolto ma non lo sento.
Poi è la volta di un gruppo di ragazzine sui quattordici anni,
che mi guardano come se fossi un idolo solo perché ho una
maglietta con scritto staff, e poi diritto verso una bella ragazza
in vacanza con due amiche, ma momentaneamente sola.
“Oh, ecco qui la mia bella sirena Viviana... come stai?”
“Bene, mio caro Nettuno.”
“Ti rilassi?”
“Sì...mi rilasso e penso.”
“E a cosa pensi?”
“Diciamo che guardandoti mi vengono parecchi pensieri.”
In questi casi adotto sempre la tattica del finto tonto. Funziona
sempre!
“Davvero?! E che pensi? Spero non siano cose brutte.” Mi
guarda e ride. Capisce il mio gioco. Si avvicina al mio orecchio e mi sussurra qualcosa. Annuisco e la saluto. Allora, non
è che io sono Brad Pitt o Jude Law, sono un bel ragazzo e
basta. Ma c’è una cosa che non bisogna mai dimenticare: il
fascino della divisa è micidiale e funziona sempre. Se poi aggiungiamo che siamo in un villaggio turistico dove c’è gente
che viene in vacanza per una settimana e se la vuole godere a
fondo, ecco spiegato il tutto!
Fischio un calcio di punizione perché a calcetto le scivolate
sono vietate. Un simpaticone al di là della rete mi grida ‘arbitro cornuto’. Lo avrei voluto uccidere, davvero. Ma non posso. Purtroppo. Tuttavia, per stare allo scherzo, sorrido a denti
stretti, vado vicino a lui e gli mostro il cartellino rosso. È una
stronzata, ma è l’unica alternativa possibile. Ridono un po’
tutti, rido anch’io, ma dentro cado a pezzi. Ancora una volta.
Cristiano è lì ad assistere, apprezza il mio sforzo e mi viene in
aiuto. Entra nel campo, alza le braccia, naturalmente fischio,
fermo il gioco e tutti lo guardiamo, in attesa di qualcosa.
“Stop!! C’è il cambio arbitro causa impegni maggiori ap-
Con i miei occhi
105
pena sopraggiunti...c’è bisogno del ragazzo altrove. Vai mio
eroe, il destino ti attende.” Ha scherzato Cristiano, ma mi ha
guardato quasi sempre negli occhi, ha capito, ci siamo capiti.
Ho riso alla sua battuta, mi sono sentito sollevato. Mi tolgo il
fischietto dal collo e lo metto al suo.
“Ragazzi occhio a quest’arbitro che ha il cartellino facile, è
severissimo.” Gli do una pacca sulla spalla e vado via.
Giro un po’ per il villaggio fermandomi a parlare con questo e quello, ma alla fine mi ritrovo nella mia camera, a sciacquarmi la faccia. Una, due, tre volte l’acqua scivola sul mio
viso. Mi guardo allo specchio e ricordo bene di aver già visto
questa scena. Non è cambiato molto da allora, forse ho solo
imparato a sopportare meglio e a mascherare il mio dolore, il
mio stato d’animo, la mia completa e assidua inquietudine
interna. Chiamo casa, ho voglia di sentire qualcuno di familiare.
“Pronto?” “Mamma!” “Ehi! Come stai?” “Bene, bene ma’,
tutto ok! Voi lì?” “Tutto bene Stè.” “Novità?” “No no, tutto
tranquillo. Solite cose, papà è uscito e io tra un po’ vado in
palestra. Tu? Ti stai divertendo? Sei stanco?” “Sto bene, mi
diverto, si lavora parecchio ma ce la faccio. Sto più o meno
tranquillo.” “Capito... Pensi ancora a lei.” Non rispondo, ma
rido. “None ma’.” Mi rendo conto da solo di essere veramente poco credibile. “Dai figlio mio, che tutto passa, ricorda sempre
cosa diceva il grande Eduardo de Filippo:...la notte ha da
passa’...” “... e quando ma’?” “Passerà Stè.”
Mi viene il magone in gola, mi viene da piangere. Saluto
velocemente inventando una banale e penosa scusa, chiudo
il telefono. Ancora 30 secondi e sarei scoppiato a piangere.
Che brutta sensazione non riuscire a cacciare fuori, anzi a scacciare fuori quello che si ha. Ho gli occhi lucidi, guardo l’orologio, devo ritornare al campo di calcetto. Nuova sciacquata di
faccia e via. Si riparte. Per forza.
La domenica mattina è il giorno della partenza, mentre al
pomeriggio ci sono i nuovi arrivi. Tutto questo via vai mi mette
106
Stefano Quarta
una gran tristezza, perché comunque mi affeziono alle persone, e non faccio in tempo a dirglielo che sono già andati via e
ci sono i nuovi clienti. Abbiamo preparato un piccolo cocktail
di benvenuto, al capo villaggio è sembrata un’idea carina.
“Ragazzi mi raccomando, tra cinque minuti il pulmino con
i primi ospiti sarà qui. Siate belli e sorridenti come sempre.
Cioè provate a essere sorridenti, perché sulla bellezza si
scarseggia...Scherzo, scherzo. Oh, eccoli. Mi raccomando.” Non
è antipatico, è una persona molto preparata, è solo un tantino
esibizionista.
“Buonasera...ben arrivati. Fatto buon viaggio?” Iniziamo a
parlare con i nuovi clienti, offrendo loro il nostro cocktail. Come
sempre c’è di tutto, famiglie, gruppi di ragazze, gruppi di ragazzi e comitive miste. Vengono da tutta Italia. Noi abbiamo
le nostre solite magliette con il nome e il numero, che piacciono un sacco e fanno subito colpo. Vicino a me c’è GraGra,
prendiamo due bicchieri a testa e cerchiamo qualcuno a cui
darli, ma notiamo che tutti stanno già il bevendo.
“Allora facciamo un brindisi noi due Steo...ti và?”
“Dai. A cosa brindiamo?” Mi guarda. Mi fissa. Sta zitta. Si
avvicina.
“A stanotte.”
“A stanotte.”
Devo ancora capire se è una minaccia o no. Ma non faccio
in tempo a chiederglielo che subito arriva l’altro pulmino con
il suo nuovo ma sempre vecchio carico di ospiti. Nuovamente
parte la nostra sigla, ancora noi con i bicchieri e le solite frasi.
Tutti contenti per l’accoglienza. Io mi soffermo a parlare con una
coppia di Bari, mi chiedono del villaggio, delle attività e altre
stronzate varie. Mentre sono nel bel mezzo della mia oratoria
esplicativa, mi arriva prima un buffetto dietro la nuca, faccio finta
di niente e continuo a parlare. Me ne arriva un altro un po’ più
forte e vedo che i clienti non guardano più me, ma guardano
le mie spalle. Mi giro. Il mio cuore si ferma. Sento in maniera
nitida il suo battito, lo sento proprio nelle orecchie.
107
Con i miei occhi
“...cioè...qui...sei qui...tu...” Mi getto letteralmente tra le sue
braccia e ancora non riesco a realizzare cosa sta succedendo
che da dietro mi arrivano altri due colpi. Mi giro. Altro tuffo al
cuore. “Anche voi qui?!?” Mi abbracciano anche loro. Ivan,
Silvio e Ale sono qui. Non ci posso credere. Ci abbracciamo
tutti e tre forte forte. Solo ora capisco quanto cazzo mi sono
mancati. Abbiamo tutti e tre gli occhi lucidi e guardandoci
ridiamo.
“Ragazzi che bella sorpresa. Ma rimanete qui una settimana vero?” “Certo, numero 3...Almeno sei titolare...bravo, bravo!”
“Mamma mia, ancora non ci credo...voi qui...come state? È
tutto ok?” Come al solito è Ivan a rispondere.
“Guarda, siamo noi che ancora non ci crediamo che per
vederti siamo dovuti venire fino a Sharm...chiariamo subito
questo fatto!!” Risata generale e appoggio incondizionato alle
rimostranze di Ivan.
“Noi stiamo bene, c’è qualche novità, ma ne parleremo
dopo. Ora vorremmo sistemarci.”
“Avete ragione, vi accompagno io.”
“È il minimo che puoi fare.”
Ha ragione Silvio. Ale si avvicina e mi abbraccia. Per un
istante ci siamo guardati e mi sono sentito realmente a casa.
Nella mia vera casa.
VIA DA LEI
Li accompagno in camera, vorrei rimanere con loro, ma il
dovere mi chiama. Ceneremo insieme stasera. Sto per salutarli, ma vengo fermato dalla prevedibile domanda di Ale.
“Ma...qui si tromba?” Sorrido, annuisco e vado via. Cammino per il corridoio ma sento ancora ben distinte le loro
risate. Sono davvero contento che siano qui.
Come stabilito ci rivediamo a cena. Eccoli, i miei amici. Silvio
108
Stefano Quarta
mi fa l’occhiolino. Ho troppa voglia di sapere quali sono le novità
che mi hanno promesso. Forse ho anche un po’ paura di saperle.
Il ristorante è pieno, tutti i tavoli sono occupati, la maggior parte
delle persone sono già sedute e mangiano la pasta. Io sono in
fila per riempire il mio piatto, dietro a me c’è Ivan.
“Allora...Steo, oramai ti devo chiamare così?” “None scemo. Chiamami come vuoi.” “Come stai?” “Mmmm...Diciamo
che sto. Ed è già una cosa. Tu?” “Mmmm...Diciamo che non
sto.” Mi giro di scatto. Lo guardo. Capisco che parla sul serio.
Preferisco stare zitto, io sto comunque lavorando e il nostro
discorso lo continueremo a tavola. Qui c’è troppa gente.
Mi ritrovo a tavola con i miei amici e non ricordo più da
quanto tempo non succedeva, da veramente troppo. Naturalmente ho notato che manca Giacomo, ma nessuno mi ha
detto il perché e poi si capisce lontano un miglio che hanno
qualcosa da dirmi. Aspetto. Iniziamo a parlare di cazzate.
“Oh, ma il Lecce?! Meno male che c’è Chevanton, altrimenti guai seri...ci andate sempre in curva vero?”
“Stè, anzi Steo...ma sono domande da fare? Se l’arbitro
non ci vede non inizia la partita, anzi, per far capire che tu
non c’eri e che si poteva comunque iniziare, è stato un bel
problema.”
I tavoli sono da sei posti, quattro sono occupati noi, gli altri
due da una coppia di signori un po’ in avanti con l’età. Si
divertono a sentirci parlare e io cerco di coinvolgerli nel discorso, anche se non è facile.
“Signor Ignazio, lei per chi tifa?”
“Io so della Lazio, so tutto bianco-celeste.” La moglie scuote
il capo in segno di rassegnazione.
“Per me la domenica è sacra – continua – c’è solo la Lazio,
c’è solo la partita. Nu parlamo poi dei cugini de merda che
c’avemo.”
“Ignazio!!!Ma ti sembra modo di parlare? E insomma...in
fondo è solo sport.” Povera signora Giulia, non avesse mai
detto l’ultima frase e nello specifico le ultime parole.
Con i miei occhi
109
“Solo sport?! Nu t’azzardà mai più Giuliè, lo sai che ‘a Lazio
è la vita mia.” La guarda fulminandola. Lei fa spallucce e
sorride, rimettendosi a mangiare. Noi ci siamo goduti la scena con gran divertimento.
“Ah coso...come te chiami...Steo.”
“Mi dica signor Ignazio.”
“A me lo sai perché i leccesi me stanno simpatici? So proprio brava gente da quando hanno battuto la Roma per 3 a 2
in casa. E i ‘cuginetti’ hanno perso lo scudetto...quanto m’è
dispiaciuto non hai idea.”
“Posso solo immaginare...” commento ironicamente.
È comico, perché si sforza di parlare quanto più possibile
in italiano, anche se qualche parola di quel dialetto così divertente non riesce a trattenerla. Dopo un’altra occhiata di guerra con sua moglie, si alzano e vanno via. Mentre sono a pochi
metri da noi, vediamo che la sua metà lo prende giocosamente
per le orecchie, tirandogliele un po’.
“Allora sportivo, come si sta qui?”
“Non mi posso assolutamente lamentare...i ragazzi dell’équipe
sono davvero bravi, c’è sempre gente, ci sono spettacoli carini, una sola nota stonata: il caldo! Fa veramente caldissimo. E
voi? Comunque grazie per la sorpresa, è stata più che gradita.” Come al solito è Ivan che prende la parola.
“Noi...noi stiamo bene, più o meno.” Basta. Non aggiunge
nulla. Come al solito non aggredisco, ma cerco di guardare
tutti negli occhi e capire qualcosa. Ma ci conosciamo troppo
bene, Silvio e Ale si alzano per prendere il dolce che hanno
già mangiato. Rimaniamo soli io e Ivan.
C’è un attimo di silenzio: lui con la testa abbassata intento
a ripulire un piatto che tra un po’ luccica, io che cerco invano
il suo sguardo. Mi faccio coraggio, perché oramai questo silenzio ho imparato a romperlo.
“Allora...come stai amico mio?”
“Insomma Stè.”
“Che succede? Devo preoccuparmi?” Sorride e non parla.
110
Stefano Quarta
Gioca con la forchetta, tentando di scaricare la tensione.
“Ehi...,guarda che anche se siamo in terra straniera io sono
sempre io e noi siamo sempre noi.” Sorride ancora. Alza lo
sguardo.
“Mi sono lasciato con Milena.”
“Ah..., per solidarietà maschile?”
“Ah ah...che spiritoso!”
“Scusami. Non pensare che io stia tanto meglio. È solo che
qui c’è così tanto da fare che non ci penso, o meglio ci penso
di meno, o meglio cerco di non pensarci...va beh, hai capito.
Ma insomma, a voi cos’è successo?”
“A dire il vero non lo so neanche io...abbiamo iniziato a
litigare perché uscivamo in quattro, con Giacomo e Giulia...
ci scocciavamo. Ale e Silvio sai come sono, giustamente un
po’ escono con noi, un po’ per i fatti loro, senza te...sì, insomma hai capito...non era più la stessa cosa... Poi Giulia si è
chiusa a casa dicendo che doveva studiare, che non stava
bene e insomma non usciva più con noi, Giacomo doveva
dividersi, alla fine è più il tempo che passa a casa di lei che a
casa sua e così...eccoci qua.” Ho ascoltato attentamente...non
l’ho interrotto anche se avrei avuto mille domande da fare. Si
vede che sta male, che è preoccupato, ma è un pensiero bello
grosso, lo vedo, lo sento. Lo leggo nei suoi occhi.
Ritornano Silvio e Ale con due ragazze di Napoli appena
conosciute. Mi presento cercando di avere una parvenza di
sorriso, faccio qualche domanda cercando di fare l’interessato, poi meno male che i marpioni si mettono a bombardarle
di domande a cui le due malcapitate fanno fatica a rispondere. Guardo Ivan che segue il discorso e sorride ogni tanto. Ma
non è la sua risata vera.
“Ohi, capisco che ci tenevi alla Mile, ma…” Mi guarda. Mi
fissa. E sta zitto. “Che c’è Ivan?”
I due guerrieri sentono il nostro discorso e decidono di
portare le due da un’altra parte. Grandi! Le saluto dando appuntamento alle 22:00 per lo spettacolo serale, dove ci sarà la
Con i miei occhi
111
presentazione dell’équipe. Silvio e Ale mi guardano facendomi l’occhiolino. Alzo il pollice destro in segno di ok. Sono
svegli. Anche Ivan ha fatto loro un segno di assenso. Guardo
il mio amico qui accanto a me, a non so quanti mila km di
distanza da casa e nei suoi occhi ritrovo i miei giorni felici con
lei. I nostri abbracci, le belle serate, il nostro ridere per le cose
più stupide, le sue Adidas, le nostre litigate, il suo mettere il
muso e fare la faccia brutta per la mia scarsa attenzione nei
suoi confronti... ritrovo e rivedo un noi che non c’è più.
Ora ho paura che mi debba parlare di lei, che magari si è
fidanzata con qualcun altro... che si sta sposando... che è incinta... che si sta facendo suora... Sì, così scomunicano l’intero ordine di appartenenza. Ho pensato. Siamo stati zitti. Ivan
ancora non parla e questo mi spaventa un po’.
“Quanti giorni è che sei andato via Stè? E non dirmi di
chiamarti Steo perché non mi piace proprio.”
“Lo sai che puoi chiamarmi come vuoi... Dunque, oggi è il
22 Novembre... guarda è più o meno un mese che sono qui...
sì, sì, più o meno un mese...ma perché?” “Perché è cambiato
tutto.”
Non appena Ivan pronuncia questa frase, istintivamente
mi faccio indietro, come se qualcuno mi avesse spinto, fatto
sta che per istinto la mia schiena è andata indietro portandosi
anche la mia testa. Non riesco a capire, non riesco a pensare:
mi viene in mente solo una parola: tutto. Che ci siano stati dei
cambiamenti lo capisco, ma che sia cambiato tutto non lo
accetto proprio.
“Spiegati Ivan.” Il mio tono è serio. Capisco che non si
scherza più. Vedo Mario da lontano, mi fa segno di andare da
lui, sempre a gesti gli rispondo di aspettare, mi guarda e capisce.
“Ivan, spiegati.” Lo sollecito perché vorrei cercare di capire
qualcosa.
“Dunque, hai presente...noi?” Ci metto qualche minuto a
capire, ma annuisco.
112
Stefano Quarta
“Bene, hai presente come ci siamo sempre specchiati in
noi stessi? Hai presente le nostre promesse, la nostra unione,
la nostra amicizia? – Continuo ad annuire. – È cambiato tutto.”
“Ma tutto cosa??”
Ho alzato un po’ la voce, non mi sta piacendo proprio né il
suo tono di voce, né la flemma con cui mi parla, ma soprattutto ho paura di quello che dovrò sentire. “Scusa...ma non
capisco cosa vuoi dirmi.”
“Giulia è incinta, si sposa con Giacomo tra cinque mesi,
prima che nasca il bambino. Milena ha iniziato a uscire con
altra gente che dice di trovare molto più trendy di noi e oramai so che frequenta tutti locali molto chic, so che se la intende con un giovane avvocato, Silvio e Ale oramai pensano
solo alle ragazze e ai cazzi loro e, come puoi vedere, sono
venuti solo per una cosa... non pensare che sono andati via
per lasciarci soli a parlare. Sono solo interessati a quelle due,
con la speranza di farsela dare prima che trascorra questa
settimana.”
Ascolto in silenzio. Quasi sotto choc, come se fossi in anestesia, ma in realtà sento nitidamente il dolore che queste parole mi provocano. Tuttavia so che ancora non è finita. Ivan
respira profondamente. Deve prendere coraggio perché manca il pezzo forte.
Chiude gli occhi e parte. “Enrica è chiusa da quindici giorni in un centro specializzato per ragazze bulimiche e anoressiche.”
D’improvviso mi sembra di vederla con un camice bianco,
seduta in un angolino con le ginocchia al petto e i capelli che
le coprono il viso. Me la immagino fragile e debole. Mi prende
una morsa allo stomaco. Senza che io possa evitarlo una lacrima scivola giù. Rimane ferma sul mento, senza riuscire a
cadere.
“Sono andato a trovarla tre giorni prima di venire qui da te.
È dimagrita dodici chili. Non aveva un bell’aspetto.” Sento un
dolore forte al cuore, ma di quelli veri. Che fanno male per
Con i miei occhi
113
davvero. Ivan mi abbraccia. Non riesco a ricambiare il suo
abbraccio, sono fermo, impalato e con gli occhi sbarrati. Il mio
amore sta male. Io sono qui a fare l’animatore. Lei sta male.
“Ha bisogno d’aiuto Stè.” Ora piango spudoratamente. Con
i singhiozzi, perché il mio amore, la mia piccolina sta male.
Ivan si stacca da me, lo guardo, piange anche lui.
“Io non volevo dirtelo, non sapevo che fare, ma tu sei il
mio amico e devi sapere perché lei è sempre lei.” Piango neanche fossi una fontana. Voglio tornare da lei. Voglio abbracciarla forte e stare in silenzio, voglio parlare, voglio chiederle
perché. Ora me la immagino distesa su di un letto d’ospedale,
con la flebo attaccata e sua madre che le toglie i capelli dal
viso per guardarla meglio.
Mi scuoto. Sono stanco di immaginare. Io voglio andare
da lei. Ivan mi afferra il braccio. Lo guardo.
“Stai calmo. Non farti prendere dal panico, perché ora è in
buone mani. Sua madre ha detto che i dottori pensano che
non sia una buona idea che voi vi vediate ora... lei potrebbe
avere una brutta reazione.
“Fanculo i dottori.”
“Calma Stè... capisco che a parole è facile dirlo, ma dobbiamo cercare almeno di conservare un po’ di lucidità.”
“Ivan, sono più che lucido, io devo tornare da lei. Ora.
Anche a costo di cercare un passaggio per la Tunisia e poi
imbarcarmi con qualche clandestino. Io devo andare da lei,
perché io so per certo che lei ha bisogno di me. Mi aspetta.
“Ragiona, cerca di pensare a quello che fai, Dio Santo, Stè.
Non farti prendere dai nervi, sono d’accordo anch’io che devi
vederla, ma ora fai la tua serata e domattina andiamo via di
qua. Ma tu avvisa chi di dovere.” Inarco le labbra all’insù. Lo
abbraccio con tutta la forza che ho. Lui ricambia.
“Sarei perso senza di te amico mio. Lo so che tu hai fatto
questo viaggio solo per avvisarmi e dirti grazie è riduttivo. Sei
un angelo.”
114
Stefano Quarta
“Lascia stare, avresti fatto lo stesso per me.” Ci alziamo, ci
stringiamo forte l’uno all’altro. “Grazie, grazie, grazie, grazie,
grazie, grazie fratello mio.” “Siamo sempre noi.”
Rimaniamo abbracciati alcuni attimi che sembrano un’eternità, non appena mi stacco da lui, mi sento diverso. Ho lo
sguardo deciso e sicuro.
C’è una domanda che mi sta a cuore. “Ma i miei sanno
niente di tutto questo?”
“No Stè, non lo sanno. Lo sanno Giacomo e Giulia, ma
non sono neanche andati a trovarla, hanno solo telefonato.
Io sono andato da lei una sola volta insieme ad Ale e Silvio
che, però, usciti da lì hanno pianto come due bambini e non
hanno più avuto il coraggio di tornarci... perché lei ha solo
bisogno solo di te in questo momento... e perché noi non
facciamo altro che ricordargli te.”
Non li ho proprio sentiti arrivare. Non faccio neanche in
tempo a voltarmi che Ale e Silvio si scaraventano su di me e
mi abbracciano veramente forte, forse come mai avevano fatto
prima. Anche loro piangono, me ne accorgo dai sussulti del
loro corpo.
“Ora devo avvisare tutti qui, capo animatore in primis.”
“Come sempre, siamo qui con te.” Sorrido e mi avvio verso l’anfiteatro. Poi mi volto e li guardo.
“Partiamo subito, stasera stessa. Io ho un bisogno disperato di vederla.” Non ribattono. Penso che capiscano ciò che
provo.
“Ivan, a noi delle ragazze non importa niente in un momento come questo, davvero.” “Lo so, scusate. È stata una
frase stupida e fuori luogo.”
Siamo di nuovo noi. Siamo sempre noi.
Non è stato difficile indire una piccola riunione straordinaria, ho spiegato a tutti cos’è successo, ho detto la verità perché non mi andava di mentire, non ne vedevo il motivo. Non
ho avuto paura dei loro commenti, perché ora m’importa solo
Con i miei occhi
115
di lei. Naturalmente non appena ho smesso di parlare, Fabio
ha preso la parola.
“Steo, ci spiace un sacco a tutti, vai tranquillo non ti trattengo certo qui. Sei uno con le palle, tu solo sai quello che è
giusto fare. In bocca al lupo, da parte mia e di tutto lo staff.”
Mi hanno fatto un applauso, poi mi hanno abbracciato, prima
tutti insieme e poi uno alla volta. Alla fine è venuta GraGra,
mi ha stretto più forte degli altri.
“Anche se non la conosco, dille che è davvero fortunata ad
avere te. E che ha fatto giusto in tempo, altrimenti ti avrei
portato via con me...fidati.” Non le rispondo, l’abbraccio ancora più forte.
Non è più tempo di saluti e di discorsi, è il momento di
andare via da qui. Il tempo di fare le valigie in fretta e furia, di
appoggiarsi a Fabio per chiamare un taxi che mi accompagni
all’aeroporto e soprattutto per mettersi in contatto con la responsabile dell’Alitalia per prenotare quattro posti con il primo volo. Partirà esattamente tra 45 minuti.
“Steo se corri ce la fai.” “Speriamo. Grazie mille Fabio,
grazie davvero.” “Ah, non dirlo neanche per scherzo e, se vuoi
tornare, i numeri li sai. Ciao grande Steo!” “Ciao capo!”
Il taxi arriva dopo due minuti spesi a salutare tutta la reception.
I miei tre amici hanno già sistemato i bagagli. È il momento di
andare via da qui, non nascondo che mi spiace perché per
quasi un mese questa è stata semplicemente la mia famiglia.
Ma non ho il tempo per pensare, ora devo andare.
In auto non abbiamo parlato, siamo troppo tesi, perché se
perdiamo quest’aereo il prossimo è la mattina alle 6:00, ma
io non posso e non voglio aspettare tanto tempo. Io devo
andare da lei. La strada scorre più o meno veloce, qualche
semaforo di troppo che avrei volentieri evitato, ma arriviamo
a destinazione in 18 minuti esatti. So per certo che la maggior
parte dei passeggeri si sarà già imbarcata, ma noi dobbiamo
salire su quell’aereo. A tutti i costi. Per amore.
Mentre Silvio paga, Ale e Ivan scaricano i bagagli, io faccio
116
Stefano Quarta
uno scatto da far invidia a Carl Lewis e mi fiondo a razzo per
fare il check-in, ci sono due persone davanti a me per non so
quale volo, chiedo scusa e con moderata educazione ma smisurata fretta passo avanti.
“Devo, anzi dobbiamo prendere il volo per Roma che parte alle 23:36.” L’hostess sta per aprire la bocca, quando aggiungo: “...e non mi dica che è già partito o che non è possibile perché altrimenti vado in pista e lo fermo.” Lei mi guarda
male, ma io devo prendere quell’aereo. Alle mie spalle sono
arrivati i miei amici, capiscono subito che attendono anche
loro con ansia il responso della signorina.
“Aspetti un attimo che controllo. Forse ce la fa.” Fa due
telefonate parlando in quella lingua che per me è più che incomprensibile, temporeggia un attimo che a me pare un minuto, controlla sul computer e poi ha emette la sua sentenza.
“Ragazzi mi spiace ma hanno già chiuso le uscite.”
“Lei mi viene a dire che non posso raggiungere il mio amore
perché hanno già chiuso le uscite?!? Signorina forse non ci
siamo capiti, io devo partire, devo andare in Italia, per forza.”
“Mi spiace, ma non è possibile. Ora si faccia da parte perché sta bloccando la fila.”
Non avrei mai voluto perdere la calma, ma c’è gente che
proprio non capisce, perché senza cuore, senza emozioni. Questa
cretina, giusto per fare un esempio, non capisce perché non
comprende il mio stato d’animo, non capisce che sto cercando di usare tutta l’educazione possibile, ma se insisto vuol
dire che c’è un motivo più che valido, brutta zitella deficiente.
“Signorina, forse non mi sono spiegato bene. Io devo salire su quell’aereo a qualsiasi costo, io devo partire questa sera,
per forza. Ora glielo richiedo per favore, sto per perdere la
pazienza, faccia un cazzo di telefonata in più e faccia salire me
e i miei amici sul quell’apparecchio di merda. Adesso.”
Ho gridato, lei mi guarda con gli occhi sbarrati. Senza proferire parola prende il telefono e mi sembra di capire che cerca di spiegare la situazione a colui che gestisce gli imbarchi. E
Con i miei occhi
117
intanto il tempo passa. Abbassa il microfono e, senza aver il
coraggio di guardarmi, mi dice che non è possibile partire.
Non più. Non hanno capito che io devo raggiungere il mio
amore, perché lei ha bisogno di me. I miei amici alle spalle
hanno le facce più incazzate della mia.
Mi tolgo dalla fila. Mi metto le mani ai fianchi per circa
dieci secondi, poi guardo l’uscita del nostro volo, guardo negli occhi uno alla volta Ivan, Silvio e Ale, mi fanno cenno di sì
con la testa e, senza pensarci due volte, iniziamo a correre
come dei forsennati verso il ‘gate’ dell’imbarco. Salto un sedile, evito un signore, gli altri fanno altrettanto, corro ancora più
forte, la polizia inizia a inseguirci, ma noi non ci fermiamo, io
non mi fermo, devo arrivare dal mio amore. Entro domani.
Perché il mio tesoro ha bisogno di me. Ora. Continuo a correre, sento una mano che cerca di afferrarmi ma accelero, mi
volto un attimo verso i miei amici, sono tutti in ottima forma e
corrono ancora tutti dietro me, la mano era di Silvio che mi
porgeva gentilmente il documento d’imbarco. Le nostro gambe volano, sono spinte dall’amore, dalla passione, dall’amicizia. Sono spinte da cose buone.
Arrivo di fronte all’uscita, vedo quello strano pulmino che
porta i passeggeri del mio volo ancora fermo. Io devo essere lì
sopra. Noi dobbiamo essere lì sopra. Ci raggiunge la polizia,
pronta con le manette da metterci ai polsi. I miei amici stanno
spiegando loro il motivo della nostra corsa, ma c’è una notevole differenza tra la nostra lingua e la loro.
“Io devo salire sull’aereo, devo prendere quel volo... capisci, io devo tornare in Italia... con aereo...” Mentre parlo allargo le mani e gli faccio il gesto dell’aeroplano, alla Montella,
giusto per capirci. Cerco di mimare con il corpo ogni parola
che dico, tentando di renderla più comprensibile, ma questo
qui sembra che voglia metterci le manette a tutti i costi.
Per un istante riesco a staccarmi dal mio corpo, vedo la
scena dall’alto e mi viene da ridere, se penso che dovrò chiamare a casa dicendo che mi hanno arrestato qui a Sharm el
118
Stefano Quarta
Sheik, perché ho bisogno di prendere un aereo, perché lei sta
male, perché ho corso per tutto l’aeroporto. Penso che si metteranno a ridere e mi chiederanno se sto bene.
Ma è meglio tornare alla realtà, perché questo brutto celerino
che ha pure i baffi e soprattutto un alito da far svenire chiunque vuole arrestarci.
“Ehi ehi, che succede?” Riconosco questa voce, ma non
ricordo di chi sia. Tento di girarmi per vedere il volto di colui
che ha parlato, ma mister alitosi me lo impedisce.
Questo nuovo personaggio ha parlato prima in italiano,
poi ha iniziato a parlare con i tre poliziotti che ci tenevano
fermi. Io riesco a vedere a malapena nel riflesso dei vetri le
facce dei miei amici, sembrano tutti parecchio divertiti... sembrano! Dopo circa cinque interminabili minuti di colloquio
nella solita lingua più che incomprensibile, sento la morsa allentarsi, fino a lasciarmi totalmente libero, lo stesso succede ai
miei amici. Finalmente posso girarmi.
“Signor Franco!!”
“Ciao Steo! Ti ho riconosciuto dalla maglietta.” Non me
ne ero neanche accorto, ma ho ancora addosso la maglietta
dell’animazione con scritto il numero e fortunatamente il nome.
Ivan, Silvio e Ale mi guardano perplessi cercando di capire
come io conosca tale signor Franco che ci ha letteralmente
tolto dalla merda.
“Steo ma che succede?” Spiego nella maniera più veloce
possibile quanto è successo, sta succedendo e quanto dovrà
accadere.
“Ho capito. Sta’ tranquillo, ci penso io.”
Non avevo ancora notato il suo abbigliamento, anzi la sua
divisa da pilota dell’Alitalia. Franco l’ho conosciuto circa due
settimane fa al villaggio, c’è subito stata una simpatia reciproca, dopo neanche due giorni lui già mi parlava delle sue avventure con le hostess e io gli raccontavo della mia storia d’amore,
ecco perché ha capito tutto e subito. Ma non sapevo fosse un
pilota, cioè sicuramente ne avremo parlato, ma non lo ricor-
Con i miei occhi
119
davo assolutamente. Ma ora è qui, di fronte a me, che parla
con una specie di walkie-talkie sempre nella famigerata lingua. Io guardo l’ora, mancano esattamente sedici minuti alla
partenza dell’aereo, il pulmino è già andato via.
Guardo i miei amici, hanno le facce tese come e più della
mia, non è vero che Ale e Silvio sono venuti qui solo per farsi
qualcuna, Ivan ha sbagliato su questo e lo sa bene, ma ne
parleremo dopo. Guardo nei vetri di quest’aeroporto, sono
così lucidi che riesco a specchiarmi e contemporaneamente a
guardare fuori cosa succede: il mio viso ha i lineamenti tirati,
naturalmente sudo, ho le ascelle più che commosse, ho il cuore
a pezzi. Guardo Franco, il signor Franco che continua a parlare e cerca di fare qualcosa per me.
“Steo, abbiamo esattamente tre minuti per arrivare all’aereo in qualsiasi modo, e i bagagli devono viaggiare con voi,
per forza.” Musica per le mie orecchie, i miei amici sono già
sul piede di partenza, pronti a scattare, Franco ci deve solo
dire come fare e dove andare.
“Allora Steo, una macchina sta venendo a prendervi, salite
e dirigetevi verso quel Boeing Alitalia 747, attenzione però,
perché la macchina non può avvicinarsi più di tanto, quindi
circa 200 metri li dovrete fare correndo. Ecco l’auto.” Non
riesco a dirgli nulla, lo abbraccio per un secondo, ma intenso,
i miei amici gli stringono la mano. Corriamo, via, veloci. Prima di passare la soglia, in piena corsa, mi giro, lo guardo e gli
urlo un mega grazie che penso mi abbiano sentito fino al villaggio. Lui mi guarda e mi sorride, mi fa segno di correre.
Il conducente sa già dove portarci, ci rimane un minuto
scarso. In macchina ci stiamo poco più di trenta secondi, vedo
l’aereo, 200 metri sono tanti, ma ce la dobbiamo fare, per
forza. Ringrazio velocemente l’autista e voliamo verso il nostro aereo. Corriamo come dei disperati, ecco è proprio la
forza della disperazione che ci fa andare avanti. Ho il fiatone,
lo abbiamo tutti, mi fa male la milza, il fegato, lo stomaco,
l’intestino tenue e anche quello crasso, ma vado avanti per-
120
Stefano Quarta
ché non posso fermarmi. Con la coda dell’occhio riesco a
vedere la sofferenza dei miei amici, so per certo che provano
le stesse cose, ma neanche loro si fermano, perché credono in
qualcosa che è comune a tutti noi: l’amore. L’amicizia è la
forma più nobile dell’amore.
“Dai Stè che ci siamo quasi, dai ragazzi non molliamo proprio ora.” Ale ha parlato, Ale ha urlato, Ale ci ha incitato e ha
incoraggiato se stesso.
Questi ultimi metri mi sembrano infiniti, ma quando il
portellone si apre e un’hostess con due gambe davvero niente
male esce, mettendosi in posizione d’attesa, inizio a crederci
davvero. Oramai sento i nostri respiri, sento i nostri corpi che
sono in debito d’ossigeno, ma ascolto il mio cuore, i nostri
cuori che non si vogliono fermare, perché hanno ancora fiato,
perché hanno ancora ossigeno, perché hanno ancora amore.
HAI SETE?
Mi viene quasi da piangere quando la suola della mia scarpa mette piede a Roma. Bacio terra, emulo di non ricordo
chi, ma ricordo che qualcuno lo ha fatto. “Ancora non ci credo che siamo in Italia...che corsa ragazzi!”
Sono circa le 3:00 di notte o di mattina, sono a Fiumicino
quando neanche dodici ore fa ero convinto di rimanere a Sharm
almeno fino a Natale. Invece, ora sono qui con i miei amici,
che sono venuti per dirmi che c’era più di qualcosa che io
dovevo sapere e che forse era il caso che io tornassi, perché
ognuno di noi deve imparare una cosa fondamentale: chiunque ha la possibilità di cambiare la vita di un’altra persona.
C’è poco da dire o fare, è così. Con un gesto, una parola,
un’azione, un qualsiasi essere umano può dare una svolta alla
vita di un altro essere umano e bisogna avere la consapevolezza di questo, il che non è facile.
Non riesco a stare fermo, perché voglio arrivare alla stazio-
Con i miei occhi
121
ne e prendere il primo treno per Lecce, perché devo andare
da lei. Il prima possibile. Non ho dimenticato ciò che mi ha
fatto, ma ci sono cose che vanno oltre. Il nostro legame è
comunque forte, se uno dei due ha bisogno, l’altro ci deve
essere, ce lo siamo sempre promesso, comunque vada la nostra storia. Comunque vada.
“Come state ragazzi? Cioè, siete stanchi, volete passare la
notte qui o continuare? Io voglio continuare, ma non posso
certo obbligarvi, perché avete già fatto tanto per me.” Mi sembrava doveroso chiederlo, anche se so già la risposta, mi sono
lasciato andare un po’ alla retorica, perché in fondo mi volevo
compiacere della inevitabile risposta.
“Mena, scemo, e corriamo a prendere questo treno. Ma
quant’è idiota questo ragazzo quando fa così...sembra quasi
vero!” Come al solito, Ivan non lesina complimenti.
Fortunatamente l’aeroporto è collegato alla stazione con
un servizio continuo di navetta, che ci permette di raggiungerla in poco tempo. Non ci vuole molto a capire che il primo
treno per Lecce è alle 10:27. Le imprecazioni che susseguono
sono una normale conseguenza del tutto.
“Allora, siamo riusciti a tornare dall’Egitto in meno di quattro ore e adesso dobbiamo aspettarne più di sette per partire
e non so quante per arrivare...c’è un non so che di assurdo in
tutto questo!” Silvio ha ragione perché questa cosa non la
capisco neanche io. È anche vero che l’unica cosa che in questo momento riesco concepire è che io non posso star fermo
qui tutto questo tempo. Guardo Ivan, che a sua volta incrocia
gli occhi di Silvio che ricambia lo sguardo di Ale che mi fissa
interrogativamente.
“Tra un po’ inizio ad andare a piedi, poi non ditemi che
non ve l’avevo detto.” L’ho buttata lì così, per smuovere le
acque e per rompere questo giro di sguardi che rischiava di
ipnotizzarci tutti quanti. Aspettiamo il colpo di genio, la magia
alla Roberto Baggio che qualcuno deve cacciare fuori dal cilindro.
122
Stefano Quarta
Ivan sgrana gli occhi, si alza lentamente, noi siamo talmente immobili che noteremmo anche il battito d’ali di una mosca, e in questo silenzio piomba come un tuono la sua voce.
“Rent a car...” Lo guardiamo con un’espressione tra la preoccupazione e lo stupore.
“Tranquilli, è la fame che lo fa delirare.” Silvio è sempre il
solito. Ma io ho capito cosa vuole dire Ivan e l’ha capito anche Ale, ecco perché Silvio è sempre il solito. Affittiamo una
macchina e partiamo. Grande Ivan.
Sbrigate le solite formalità, esibiti i soliti documenti, partiamo da Roma che sono le 04:16. Non ricordo neanche che
giorno è.
Mentre eravamo in volo, nonostante fosse notte, il mio sguardo si sforzava di distinguere cosa stavamo sorvolando. Era
tutto nero, un nero che incute timore, perché non ti fa vedere
dove vai, nasconde i pericoli e non ti permette di capire neanche se c’è qualcosa o qualcuno pronto ad aiutarti. C’è solo il
buio. Poi, d’un tratto, una miriade di piccole luci unite tra loro
formano un disegno dalla forma incomprensibile, come fosse
un quadro in movimento. Se è in movimento, questo cazzo di
dipinto, sta imboccando certamente la direzione sbagliata, dal
mio personalissimo punto di vista, non ho il minimo dubbio
su questo. Guerre, gente che si fa esplodere in nome di un
qualche genere di credo, tifosi che sfasciano tutto perché la
loro squadra perde, mamme che ammazzano figli, padri che
sterminano famiglie, figli che uccidono padre e madre per soldi
o per raptus improvvisi, la spazzatura che non si sa più dove
metterla, ragazzi di vent’anni che muoiono per missioni di
‘pace’, una giustizia che punisce gli innocenti e lascia liberi
coloro che dovrebbero stare al fresco, uomini e donne giudicati innocenti dopo anni di galera, disoccupati che si danno
fuoco perché stanchi di promesse mai mantenute, giovani
incazzati con questo mondo di schifo che non hanno certo
chiesto loro. Questa non è la nostra direzione. Le vostre verità, le vostre parole, il vostro linguaggio, la vostra vita non ci
Con i miei occhi
123
appartengono, noi siamo di un’altra categoria. Coloro che
decidono per noi, vanno da un analista almeno tre volte alla
settimana, cercando di capire come mai la vita è stata così
generosa nei loro confronti, oppure per chiedere come mai le
loro orecchie fischiano continuamente. Forse, per tutte le nostre imprecazioni.
Noi studiamo la storia per capire come cazzo siamo arrivati fino a questo schifoso punto, noi stiamo in gruppo perché
cerchiamo di capire cosa succede, ci confrontiamo. Noi abbiamo talento. Noi veniamo dalla strada, veniamo dalle cose
vere. Dobbiamo, vogliamo capire come avete fatto a prenderci in giro così bene, visto dove siamo, anzi dove non siamo.
Stanchi di voi, della vostra politica, dei vostri battibecchi, delle vostre barche, delle vostre leggi fatte per voi, dei vostri vestiti che puzzano di nuovo. Noi lottiamo ogni giorno per capire il perché di tutto questo, il perché i ragazzi piangono sempre più spesso, cerchiamo di capire perché molti di noi non ce
la fanno e cercano rifugio in una realtà virtuale, parallela, che
non conduce da nessuna parte, cerchiamo di capire come
cazzo è possibile ammalarsi di anoressia e bulimia, com’è
possibile rifiutare il proprio corpo, odiarsi a tal punto da mettersi due dita in gola e vomitare tutto, anche l’anima.
Mi viene lo sconforto. Ma poi mi guardo intorno e la forza
di rialzarmi la trovo accanto a me, dove ci sono i miei amici
che hanno fatto un viaggio non indifferente solo per mettermi
a conoscenza della situazione, io avrei fatto lo stesso per ognuno
di loro. C’è ancora qualcosa di buono qui, ci siamo noi che
siamo la parte vera intorno a questa merda, ci siamo noi che
non molliamo mai, che quando cadiamo chiediamo aiuto perché
se siamo caduti vuol dire che siamo arrivati al limite e, nel
momento in cui siamo di nuovo in piedi, il limite lo superiamo di nuovo. Noi non abbiamo paura a chiedere aiuto. Noi ci
rispettiamo, ci stimiamo perché siamo tutti dalla stessa parte,
anche se abbiamo idee differenti, ci confrontiamo e cerchiamo di capire qual è la cosa più giusta. Non mi permetto di
124
Stefano Quarta
generalizzare, ma molti di noi sono così. Abbiamo sempre
qualcosa in cui credere, abbiamo sempre qualcuno con cui
parlare, abbiamo sempre qualcosa da cambiare
“Stè, ti fermi al prossimo autogrill che devo pisciare?” “Ok.
Il prossimo è tra un km.” “Grazie fratello.”
Rallento, passo in seconda corsia, metto la freccia ed eccoci
all’autogrill nei pressi di Foggia. C’è poca gente, Ivan e Silvio
vanno al bagno, Ale entra nell’autogrill per prendere qualcosa
da bere e da mangiare, io vado a fare gasolio. Sono le 06:00.
Sono in viaggio, sono per strada.
Il vento mi sbatte in faccia muovendomi i capelli, ho la
bocca impastata, con il sapore del panino al prosciutto e della
coca cola bevuta poco prima. Ho la fronte piena di goccioline
di sudore, accanto a me c’è Ivan che dorme, Ale è attento alla
guida e Silvio è in continua lotta nel cercare una buona stazione radio.
“Ragazzi, ma dove siamo?”
“Olà amigo. Benvenuto a Bari.”
“Ma...per caso mi sono addormentato?”
“Chi?! Tu?! Dai, non scherzare.”
Faccio uno sforzo notevole per sollevarmi e mettere la testa
tra ai due sedili davanti, ma dopo un po’ cedo clamorosamente, perché la stanchezza si fa sentire ancora. Buttato a
peso morto sul sedile, faccio un rutto di una certa entità che
ha come danno principale quello di svegliare Ivan.
“Ma dove siamo Stè?” “A Bari.” “Ah...ma ci siamo addormentati?” Annuisco.
“Uhè...Ben svegliato anche tu, eh...gradisce qualcosa per
colazione?” Ivan molto gentilmente alza il dito medio in direzione Ale. “Capito...il solito per il signore.”
Mi strofino le mani sul viso, faccio un po’ mente locale su
ciò che è successo e penso inevitabilmente a lei. Non riesco a
togliermi quest’idea, di lei seduta su di una sedia, con un ca-
Con i miei occhi
125
mice bianco, le ginocchia rannicchiate al petto. Mi viene una
stretta al cuore, ma non posso fare a meno di pensarci.
Ho lo sguardo rivolto verso il nulla, guardo la strada che
scorre, guardo il paesaggio mutare, ma in realtà vedo solo il
mio amore che è lì, sola, senza di me. Da qualche minuto in
macchina c’è silenzio, ma non è quel silenzio brutto, anzi, è
quella quiete che precede la tempesta, ma sappiamo tutti che
dopo una tempesta c’è sempre il sole, che splende più bello e
forte di prima. Oramai non riesco più a stare zitto. “Tra un po’
ci siamo.” Mi hanno guardato tutti, perché tutti hanno già visto prima di me che a Lecce mancano solo 68 km. Sono tutti
seri. C’è silenzio. Inizio a sudare.
“Stè, ma vuoi passare prima da casa per sistemarti un po’...?
Eh, che ne pensi?”
“Non lo so, ho troppa voglia di vederla...e di capire.”
Ale mi guarda, è più serio che mai, sia perché guida sia
perché parla con me.
“È difficile capire...Ci sono apposta dei dottori.”
“Sì, ma i dottori non conoscono noi...il nostro legame e il
nostro amore.”
Ancora silenzio. Sono arrabbiato, sono ancora più incazzato
con lei, perché tutto questo è successo per un bacio di merda.
Ma se ci fosse dell’altro? Cioè, se il motivo per cui lei si è
ammalata non fosse la fine della nostra storia, ma qualcos’altro.
Solo ora mi viene in mente questo pensiero che non mi
piace per niente, ma oramai si è insinuato nei miei pensieri e
farlo andare via è impossibile. La mia faccia si è incupita, è
evidente. Mi sento gli occhi di tutti addosso, anche se ho la
testa abbassata, rivolta verso le mie scarpe.
“Riprenditi e non pensare molto. È inutile farlo ora, adesso
devi solo pensare ad aiutarla.”
“Ma se lei non vuole il mio aiuto?”
“Stè, fidati, lo vuole.”
“Ne ha bisogno Stè.”
“Le manchi troppo.”
126
Stefano Quarta
Ognuno ha detto la sua. Ma stavolta è servito davvero a
poco. Ho paura di rivedere i suoi occhi, ho paura di vederla
in quelle condizioni, anche se non le conosco. Ho paura di
affrontarla.
“Ma dov’è precisamente che sta?”
“È ricoverata in una clinica che si trovo in via Don Bosco.”
“Ma io non me la ricordo proprio questa clinica.”
“Neanche noi l’avevamo mai notata, eppure c’è, Stè, fidati
che c’è.”
“Ma, cioè...fatemi capire...lei è proprio ricoverata lì? Cioè
non esce mai...?”
“Stè, quando una persona non sta bene, la si ricovera. Lei
non sta bene.”
Non so più cosa pensare e forse è meglio così. Devo solo
cercare di calmarmi un po’.
“Ma quanto manca Ale?”
“Siamo a Brindisi...quindi circa 20 minuti.”
Mi vengono in mente i miei, forse sarebbe il caso di avvisarli. Mi vengono in mente Giacomo e Giulia, lei con il pancione,
lui che è sempre con lei per cercare di farla stare quanto più
tranquilla possibile, forse dovrei chiamare anche loro o forse
dovrei chiamare la mamma di Enrica, per chiederle come va
e dirle che io voglio andare a trovare sua figlia, perché saperla
in quello stato ed essere totalmente inutile, mi fa male. Ma in
realtà non chiamo nessuno, perché voglio solo vedere lei, parlare
con lei.
“Ale, ma quanto manca?” Mi guardano tutti.
“Sto rompendo i coglioni?” Si mettono a ridere tutti quanti, io continuo a sudare, ovunque, la mia fronte è cosparsa da
una miriade di goccioline, le ascelle oramai sono in preda ad
una vera e propria crisi emotiva e dietro la nuca mi sembra di
avere una fontana. Eppure non fa caldo, anzi, si sta bene. Ma
io sudo.
Quella risata è stata l’ultima udibile manifestazione emotiva tra di noi, finché non siamo arrivati davanti a destinzione:
Con i miei occhi
127
‘Clinica Specializzata nei Disordini Alimentari’. Come tutti gli
edifici sanitari è alto e dà l’impressione di essere mastodontico.
Poco prima di parcheggiare, dalla radio sono uscite le note
di una vecchia canzone. C’è una strofa che fa:
‘... non c’è vocabolario, non c’è dizionario per trovare la
parole, allora scusa se son scritte male, ma tu tanto mi capisci
uguale, perché tu sei come me... ‘
Ancora un’altra che dice:
‘... vorrà pur dire qualcosa, dai, se insieme a te la notte
passa veloce e con un’altra non ci starei, non potrei farlo neanche se mi piace, e stare in macchina a parlare per ore mi
piace quasi come fare l’amore che è una parola che non so
pronunciare, c’ho confusione su che cosa vuol dire, però mi
sa che la ritrovi uguale se guardi dentro di te... ‘
Mi viene il magone ancora prima di entrare, gli occhi mi
diventano subito lucidi e le estremità del mio corpo diventano più fredde che mai. La macchina è ferma, siamo fermi tutti
quanti, nessuno osa dire mezza parola. Ma è chiaro che sono
io a dover fare la prima mossa. Ma non ce la faccio, amici
miei, ho paura, ho così tanta paura perché questa è una cosa
più grande di me e non so se sono in grado di affrontarla, non
so se lei mi vuole vedere.Ora non riesco neanche a parlare,
amici miei, perché se parlo scoppio a piangere.
Sollevo un po’ le spalle e cerco di prendere più aria possibile, nessuno mi guarda ma tutti sanno.
“Lo so che devo muovermi.”
“Allora fallo Stè, perché lì dentro c’è qualcuno che ha un
disperato bisogno di vederti.”
“Vai, adesso.”
“Muoviti, corri da lei e dille tutto ciò che provi, chiedile
qualunque cosa vuoi sapere. Però fallo, Stè. Adesso.”
Grido un grazie con una foga ingiustificata, ho urlato. Perché dovevo urlare, perché mi sembrava in questo modo di
dimostrare loro tutta la mia riconoscenza.
Apro lo sportello, con passo svelto e deciso mi dirigo verso
128
Stefano Quarta
l’entrata. Gli altri mi seguono, sono dietro di me. Lo so che
entreranno con me, so che mi accompagneranno fino alla
soglia della sua stanza e sanno che non possono ancora lasciarmi solo perché la paura c’è sempre.
“Buongiorno.” “Salve, desidera?”
“Vorrei sapere il numero di stanza della signorina Enrica
De Donatis.”
“Guardi che questo non è orario di visite e poi dipende in
quale reparto si trova, perché ci sono dei giorni specifici e poi
dipen... “
“Senta, mi scusi se la interrompo, ma mi guardi fisso negli
occhi. Io neanche ventiquattro ore fa ero in Egitto, ho fatto un
viaggio incredibile, mi volevano anche arrestare, ora il mio
amore è qui dentro in qualche stanza e lei mi deve dire dov’è,
perché io devo correre ad abbracciarla e stringerla forte a me.
Se non me lo dice lei, io mi giro tutte le stanze, qualunque
numero siano, io giuro su Dio che me le giro tutte finché non
la trovo.”
Non sono riuscito a trattenere le lacrime, la mia voce spesso è stata rotta dal pianto, ha avuto alti e bassi, ma i miei
occhi non si sono mai chiusi e l’infermiera mi guarda ancora
come se fossi un alieno. Distoglie lo sguardo da me per circa
cinque secondi e annuisce. “Stanza 32, secondo piano, appena entra sulla sinistra. Ma fate piano, tutti quanti.”
Mi ero dimenticato di avere i miei amici alle spalle, ora
capisco lo sguardo della donna e il suo improvviso consenso.
Ho e avrò sempre le spalle coperte. Ringrazio e corro. Altrettanto fanno i miei amici, tranne Ale che afferra la malcapitata
e le dà un bacio sulla guancia. Lei arrossisce e gli fa segno di
sparire.
Non aspetto nessuno, corro, salgo i gradini a due alla volta, non guardo in faccia nessuno ho in mente solo il numero
32, secondo piano, a sinistra. Il mio cuore penso che abbia
raggiunto circa 320 pulsazioni al minuto, se non di più. Ecco,
Con i miei occhi
129
ci siamo. È questo il piano. Apro la porta del reparto, dopo
pochi secondi arrivano anche le mie guardie del corpo. Anche loro con l’affanno, riesce a parlare solo Ivan, mentre gli
altri hanno le mani poggiate sulle ginocchia, la schiena piegata e la faccia rivolta verso il pavimento. “Stè...noi ti aspettiamo qui...vai!” Faccio cenno di sì con la testa.
Entro lentamente, evitando di fare qualsiasi tipo di rumore. C’è silenzio, sento distintamente il mio respiro. Incontro la
prima stanza, cerco di sbirciare, vedo due letti vuoti, ma disfatti. Alzo lo sguardo, il cartellino dice che questa è la stanza
numero 30. Il mio sguardo va automaticamente più avanti:
32. È a pochi metri da me. Non sento nessun rumore provenire dalla sua camera, forse neanche c’è, penso tra me e me.
Cammino con il palmo della mano appoggiato al muro, non
si sa mai. Un’infermiera attraversa il corridoio e mi guarda
con aria sospetta, non me ne frega niente, a me. Ma per lei
non è così, infatti viene con aria minacciosa verso di me. “Scusi,
ma lei cosa ci fa qui?”
Cerco l’uovo di Colombo, deficiente. “Salve. Guardi, è
un’urgenza, l’ho spiegato anche alla sua gentilissima collega
che è al piano terra, capisco che non è orario di visite, ma mi
creda che è un urgenza.”
La faccia di quest’infermiera è la personificazione dell’acidità,
mi scruta dalla testa ai piedi, soffermandosi sulla mia maglietta con la scritta animazione a caratteri cubitali.
“Ha presente che siamo in una struttura ospedaliera?”
“Certo, capisco che il mio abbigliamento non è dei migliori, ma cerchi di capirmi, la prego, è un’emergenza, devo vedere e parlare con una persona.”
“Ah... e chi cerca di preciso?” Ma cazzi tuoi mai?!
“Cerca me... penso.” Ecco, la sua voce. Il mio respiro si
blocca. I miei occhi si chiudono. Stringo le mani. L’infermiera
va via. Io rimango girato, lei è alle mie spalle. Non la vedo da
quella mattina. Apro gli occhi, decido di girarmi, ma lei mi
anticipa e si mette di fronte a me. Ho ancora il capo abbassa-
130
Stefano Quarta
to. Vedo solo i suoi piedi, indossa delle ciabatte bianche, con
sopra disegnato un coniglietto.
“Qui non usi le Adidas?”
“Non me le fanno mettere.”
Mi viene da piangere solo sentendo la sua voce, che mi
sembra stentata. Respiro, alzo la testa e la guardo negli occhi.
Non ho guardato il suo corpo, non ho cercato nessun dettaglio, volevo solo il suo sguardo.
Mi osserva, osserva la mia malietta. “Steo. – È pallida, è
veramente pallida. – Numero 3.” Ha le occhiaie, gli zigomi
molto più pronunciati. “Animazione. – I capelli raccolti all’insù,
un po’ cresciuti, che mettono in evidenza la magrezza del suo
collo. – Bello l’Egitto?” I suoi occhi sono sempre gli stessi, neri
e profondi. Ma vedo la sua tristezza. Vedo il suo malessere.
“Come mai sei qui? – I suoi denti sono sempre bianchi, le sue
labbra sono secche e screpolate. – Hai perso la lingua?”
“No.”
“Vieni, andiamo a sederci.”
La seguo, ora noto le sue gambe: quanto cazzo sono magre, sono due stecchini. La camera non è la 32, ma la 30.
“Prima non c’era nessuno qui.” “Ero in bagno, Steo.” Pronuncia Steo evidenziando il mio soprannome.
“Guarda che sono sempre Stè. O Stefano. Come preferisci.”
“Come preferisco.”
Mi guardo intorno. Due letti, un tavolino con tre sedie, una
finestra bella grande, televisione, bagno in camera. Tutto quasi
esclusivamente bianco. Lei indossa dei pantaloni di tuta rossi,
naturalmente Adidas, una felpa con il cappuccio grigio i cui
laccetti le scivolano fino al seno, fino a quel poco di seno che
le è rimasto. È sempre bella, mi fa sempre battere il cuore. Il
mio. Sudo copiosamente, sulla maglietta se ne distinguono
nettamente i segni, piccole chiazze che aumentano a vista d’occhio. Devo calmarmi.
“Perché sei qui?” Mi attacca subito, penso che lo faccia per
Con i miei occhi
131
difendersi. Ma devo anche pensare che lei non voglia che io
sia qui.
“Se vuoi vado via subito.”
“Dimmi perché sei qui.”
“Tu dimmi perché non dovrei essere qui.”
“Perché io e te non siamo più una cosa sola.” Tossisce, il
viso le si arrossa un pochino e poi ritorna subito pallida.
“Ma come stai?”
“Tu come mi vedi?”
“Diciamo che ti ho vista meglio.”
“Già, sono stata meglio.” Non ha perso il suo umorismo,
non ha perso la sua forza, questo mi consola.
“Vuoi sapere se sono finita qui dentro a causa della fine
della nostra storia e della mia cazzata?” Annuisco, spaventato
dalla risposta.
“Ti ritieni tanto importante...?” Il mio sguardo cambia.
Onestamente sì, mi ritenevo tanto importante, perché tu per
me lo eri e... forse lo sei ancora.
“Sì, avevo questa presunzione... Sbagliavo?” Abbassa la
sua testolina e sorride.
“No, non sbagliavi affatto. Ma non sono finita qui dentro
solo per te.”
“Che vuol dire solo per te?”
“Che c’è dell’altro Steo.”
“E smettila di chiamarmi così... e soprattutto smettila di
mettere in evidenza questo soprannome. Ti dà fastidio?”
“Molto. Mi dà molto fastidio che tu sia stato lì.” Non è mai
stata così schietta e sincera con me. È cambiata.
“A me hanno dato fastidio altre cose.””
“Lo so.”
“Lo so che lo sai.”
Scambio eloquente di battute, condite da una certa acidità. Tossisce ancora e ancora. Si alza e beve un sorso d’acqua.
Fa un po’ di gargarismi e ritorna di fronte a me.
“Vuoi bere?”
132
Stefano Quarta
“No, grazie.” Si scioglie i capelli, sono cresciuti parecchio.
Si sistema la coda e la ferma di nuovo.
“Posso sapere il perché sei finita qui dentro? Cos’hai?”
“Sono bulimica Stè. Lo sono da oltre un anno.”
“E io...” “...e tu non te ne sei mai accorto, ma non preoccupartene, non se ne era mai accorto nessuno.”
“Ma io...” “ …ma tu non addossarti colpe che non hai, è
inutile.”
“Perdona la mia ignoranza, ma che vuol dire di preciso
essere bulimica?” Sorride ancora una volta, ma in questo caso
è un sorriso amaro.”
“Vuol dire che mangio e vomito. Vuol dire che m’ingozzo
di un sacco di cose, poi mi metto due dita in gola e mi provoco il vomito. Vuol dire che non mi accetto. Vuol dire che non
accetto l’idea che i miei si stiano separando, che non mi piace
il mio corso di Laurea, che non mi piace l’idea di aver sbagliato con te e di perderti, io non mi piaccio.”
“Ma... perché non hai chiesto aiuto?”
“Perché non ne ho avuto la forza.”
“Ma non dico per forza a me, ma alle tue amiche, ai tuoi, a
tua cugina a qualche professore, a qualche anima sparsa per
il mondo potevi chiedere aiuto.”
“È inutile che ti arrabbi: non ce l’ho fatta.” Ha una buona
dose di rassegnazione e questo non mi piace per niente, perché questo non è da lei, è sempre stata forte.
“Ma ora come stai? Cioè perché sei qui?”
“Sono qui perché sono malata, perché ho ancora lo stimolo di mettermi due dita in gola, perché ho bisogno di
essere sempre sotto controllo e di mangiare quello che dicono loro.
Non so cosa rispondere, lei mi leva dall’imbarazzo. “Com’è l’Egitto? Anzi per essere precisi com’è Sharm?”
“Ma lascia stare com’è Sharm.” Ora siamo in silenzio. Non
capisco come non mi sono accorto di niente. Non capisco
questa sua fragilità.
Con i miei occhi
133
“Non ti aggrovigliare nei pensieri, è totalmente inutile.” La
guardo, la fisso. Non so cosa dire.
“Ti ripeto, è inutile che ti chiedi perché non te ne sei accorto, perché non te l’ho detto, perché, perché e ancora perché...
Sono io che devo rispondere a svariati perché, non tu.”
Si sente bussare la porta. “È permesso?” Mi giro. Vedo un
dottore con i baffi e le guanciotte, ha l’aria davvero buona,
anche se non mi guarda e parla solo con Enrica.
“Buongiorno... Tutto bene?”
“Sì, sì, tutto bene.”
“Lui è quello Stefano?” lei annuisce.
“Ah... ripeto tutto bene?” Annuisce ancora e sorride.
“Vi lascio soli, ce la fai?”
“Ce la faccio.”
“D’accordo. Arrivederci.” Se ne va con aria rassicurante e
rassicurata.
Riesco a salutarlo a malapena. Ho assistito a questo dialogo girando imbarazzato lo sguardo da una parte all’altra. Non
sono stato assolutamente calcolato, nonostante fossi lì e si parlase
apertamente di me. Tuttavia, per evitare equivoci domando.
“Ma si riferiva a me quando ha detto quello Stefano...?”
“Certo che si riferiva a te...altrimenti a chi?”
“Mah... certo si poteva anche presentare.”
“...o tu ti potevi anche alzare per presentarti.”
“Giusto. È che sono troppo preso da te.” Si alza per bere
ancora una volta. Fa due lunghi sorsi e poi i suoi occhi sono
di nuovo dentro i miei.
“Ma ancora non mi hai risposto alla prima domanda: perché sei qui?”
“Perché voglio aiutarti.”
“Non puoi.”
“E perché?”
“Perché è una malattia che devo superare da sola.”
“Non ti serve l’appoggio di nessuno?”
“No.”
134
Stefano Quarta
“Ma io mi considero qualcosina in più di nessuno.”
“Tu sei qualcosa in più.”
Le racconto del perché sono partito, dell’esame di Diritto,
della mia esperienza di animatore fino a ieri sera, quando
sono arrivati loro, che ora sono lì fuori o chissà dove nei paraggi. Racconto del mio pianto, della mia sensazione d’impotenza e di rabbia. Della mia voglia di lei. Dei miei continui
perché. “... e così eccomi qui da te.
Mi ha ascoltato senza interrompermi mai, si è alzata solo
una volta ancora a bere acqua, e poi mi ha sempre guardato.
In silenzio. Ora ha gli occhi abbassati, gioca con la coperta,
muove le mani nervosamente.
“Che hai?”
“Ti ho fatto male, vero?”
“Sì, stronzona! – Naturalmente ho usato un tono ironico
nel dirlo, anche se capisco che ha accusato il colpo. – Mi ha
fatto male, ma forse è servito a qualcosa.”
“Forse.”
“Mi permetterai di esserti vicino?”
“Tu prova, poi vediamo.”
“Ok.”
“Posso abbracciarti?”
“Devi.”
CON I MIEI OCCHI
Si getta letteralmente su di me, e quasi contemporaneamente si mette a piangere e inizio a farlo anch’io. È un pianto
liberatorio, è una cascata di lacrime che non riesce a essere
interrotta neanche dai singhiozzi. Ci sfoghiamo, piangiamo,
ancora lacrime, fino a sentirci tutta la faccia bagnata e ancora
di più. Ci alziamo in piedi, ci stringiamo ancora più forte, non
esiste nient’altro, ci siamo solo noi. I nostri occhi sono socchiusi nello sforzo di piangere, ma nessuno dei due vuole
Con i miei occhi
135
smettere. Lei tossisce, vorrebbe bere, ma ora no. Ora è il
momento in cui ci dobbiamo liberare di tutto, amore mio,
dobbiamo mandare via tutto quello che ci ha fatto male e
dobbiamo ricominciare perché noi possiamo farlo.
“Io... gli unici... momenti belli... li... li... ho trascorsi... con...
con... te.” Riesce a malapena a finire questa frase, il suo pianto aumenta d’intensità. Il suo addome si contrae insieme al
mio, le sue braccia intorno al mio collo, le mie intorno alla sua
esile schiena. Vorrei stringerla ancora più forte, vorrei stritolarla, vorrei tenerla con me, per me, sempre, così. Sento il suo
pianto, sento il mio pianto, vedo la sua schiena muoversi.
“Ma quanti chili hai perso?” “Abbastanza Stè, abbastanza... forse troppi.”
Ci calmiamo. Il nostro respiro inizia a farsi regolare, il nostro battito cardiaco ritorna alla norma. I nostro occhi, lucidi e
rossi, guardano le nostre facce bagnate dalla stessa acqua.
“Che scemi che siamo.” Tossisce ancora, ora beve un sorso d’acqua. Bevo anch’io.
“Scusate l’interruzione, ma fuori ci stavano cacciando e,
visto che abbiamo già rischiato l’arresto, non abbiamo avuto
altra scelta.” Ivan, Ale e Silvio sono fermi sulla soglia della
porta e non so da quanto sono lì, ma come sempre ci sono.
Lei li guarda un po’ sorpresa, ma sembra felice di vederli.
“Entrate, entrate.” “Grazie Enrica.” “Gentilissima.” “Grazie!”
Ora siamo di nuovo tutti insieme. Iniziamo a parlare di tutta questa storia così assurda, iniziamo a ricordare qualche situazione comica del passato, raccontiamo meglio del nostro
viaggio, ridendo come non ci capitava da tempo. Poi il discorso va inevitabilmente sugli assenti.
“Giulia come sta?” Enrica non l’ha mai vista da quando è
ricoverata qui.”
“Non lo sappiamo, cioè, l’abbiamo lasciata che era incinta,
penso lo sia ancora.” Risata generale, ma è la verità. Enrica scuote
il capo, io ho gli occhi abbassati, Ivan guarda fuori dalla finestra,
136
Stefano Quarta
Ale è andato in bagno e Silvio è seduto con la schiena appoggiata al muro. È chiaro che pensiamo tutti alla stessa cosa, ma
nessuno ha il coraggio di dirla, questa volta neanche io.
“Ma come cazzo siamo finiti così? Cioè, noi che eravamo
così uniti da anni, noi che ci siamo sempre aiutati, noi che
abbiamo sempre parlato di tutto, noi che abbiamo condiviso
tante cose... noi.” Enrica ha parlato perché le cose dentro
non possono più restare, deve tirare fuori tutto ciò che la turba. Nessuno di noi si è mosso dalla posizione in cui era, perfino Ale è ancora in bagno.
“Ale sei caduto? O hai bisogno di una mano?”
“Ci sono cretini...Eccomi.” Apre la porta e si siede accanto
a me. “Eccomi... eccomi.” Sospira anche lui, alzando un po’
le spalle.
C’è di nuovo silenzio. C’è incapacità di capire, ma c’è consapevolezza di potersi guardare in faccia e sapere che ancora
niente è perduto.
“Ma... secondo voi... loro sono più forti di noi?” Ivan ha
parlato con lo sguardo rivolto verso il pavimento, osservando
chissà cosa. Nessuno di noi l’ha guardato, siamo tutti rimasti
nelle nostre stesse posizioni.
“Ma tu chi intendi per loro?” Enrica non lo sa chi sono
loro, o meglio, lo sa ma forse lo ha dimenticato. Perché noi
tutti sappiamo chi sono loro.
“Loro, Enrica, i politici, la classe dirigente italiana, insomma tutti quelli che hanno la presunzione e la superbia di dire
che rappresentano noi. Mi fanno addirittura ridere quando
parlano dell’euro, si lamentano perché con la nuova moneta
si spende di più e i cittadini non ce la fanno ad arrivare a fine
mese: ma loro ci arrivano e pure bene. Rilasciano delle dichiarazioni ai telegiornali solo per far vedere che hanno un
minimo di interesse per problemi che non appartengono loro
minimamente. Mi fanno ridere, ma mi viene da piangere quando
si attaccano tra di loro, rinfacciandosi fatti e avvenimenti lontani anni luce dai problemi reali.
Con i miei occhi
137
Abbiamo tutti un certo sorriso sulle labbra, una specie di
ghigno, non certo di soddisfazione o di felicità, anzi. È tutta la
nostra delusione perché non sappiamo a chi credere, perché
non ci sentiamo rappresentati e perché a volte ci perdiamo
anche noi. Ci siamo divisi, ognuno ha preso la propria strada,
ma nessuno sa qual è la via giusta. Ci incamminiamo in sentieri bui, a volte da soli, altre volte in gruppo, ma camminiamo sempre con le nostre gambe. Sbagliamo. Ci chiamano
imprudenti. Stiamo fermi. Ci chiamano parassiti. Dobbiamo
imparare a ragionare con la nostra testa, ascoltando gli altri,
ma pensando sempre a cosa ci fa stare bene.
“Allora, mi dici come posso aiutarti?” Le ho sussurrato queste
parole avvicinandomi a lei. In fondo è solo questo ciò che mi
interessa.
“Stai qui.” Mi ha guardato come non faceva da tempo.
Starò qui.
“Stefano... ma che ci fai qui? È successo qualcosa?” Mia
madre è letteralmente sbiancata quando ha aperto la porta e
mi ha visto. Anche perché non ho sicuramente un bell’aspetto, non sono stati giorni facili. Ho spiegato a mia madre la
situazione, brevemente, ma penso per il momento di aver
soddisfatto la sua sete di domande. Le spiego che ho assoluto
bisogno di riposare. Lei capisce.
Non mi faccio neanche la doccia, mentre ne avrei più che
bisogno, ma so che mettendomi sotto l’acqua mi sveglierei
completamente. Mi butto sul letto e faccio appena in tempo a
togliermi maglietta e pantaloni ed eccomi sotto le coperte.
Piango. La stanchezza è tanta che non riesco a dormire. Continuo a piangere. Da solo, sotto le coperte. Non ho nemmeno
il viso fuori, sono rannicchiato su me stesso, interamente avvolto da questo piacevole tepore. Inizia a mancarmi l’aria,
sollevo un po’ la coperta, creando uno spiraglio dal quale entra
una ventata benefica. Sento che la mia faccia è rossa. Me la
immagino, sorrido. Mi sento svuotato, ancora una volta. Sen-
138
Stefano Quarta
to la porta che si apre lentamente, penso che mio padre abbia
voluto controllare che mia madre non sia letteralmente impazzita e se è vero che io sono a casa. Non ho la forza né la
voglia di alzarmi per salutarlo. Lo farò dopo. Dopo.
“Salve, posso esservi utile?” “No, no, grazie, stiamo dando
uno sguardo.” “Va bene. Fate pure.” “Grazie.”
Fuori c’è vento, un vento gelido di tramontana da far invidia alla bora di Trieste.
“Ehi Marco, guarda questo, non è carino?” “… insomma,
troppo... troppo... non lo so, ma mi sembra troppo spinto per
la zia.” Fuori è un arcobaleno di luci rosse, i negozi sono rossi,
le commesse sono vestite di rosso.
“Se le prendessimo un bel pigiama?” “Sì, chiediamo alla
signorina.” Si sente quell’atmosfera di festa, fuori.
“Certamente, seguitemi. Ve li mostro subito. Genere tinta
unita o fantasia?” “Vediamo qualcosa di fantasioso... Stè, sono
qua.” “Eccomi papà.”
È il 21 Dicembre, sono in giro con il mio papà per fare gli
ultimi regali di Natale, fa freddo, siamo tutti immersi in sciarpe e maglioni dolcevita che coprono quasi per intero il nostro
corpo, dandoci un’aria più posata e più adulta.
Squilla il cellulare di mio padre, continuo io la scelta tra
una svariata quantità di pigiami per la zia. “Sì, penso che questo
qui con il disegnino della luna vada bene. Comunque aspettiamo un attimo, è il capo che decide.”
La commessa si allontana, io mi guardo intorno. Vedo una
magliettina molto carina, a maniche lunghe, blu cielo con stampata una scritta che recita: ‘Nei sogni, come in amore, non ci
sono cose impossibili.’ Mmmm... bella frase davvero. Ora la
compro. Mi faccio fare un bel pacco regalo.
Continuo a guardarmi intorno, ci sono un sacco di cose
carine, per fortuna che arriva mio padre, altrimenti avrei dato
via libera alla mia sete di shopping natalizio.
“Allora, fatto?” “Ho detto alla commessa di metterne da
Con i miei occhi
139
parte uno, comunque vorrei lo vedessi tu. Poi ho preso una
magliettina da regalare ad un’amica.” “Un’amica...” Annuisco. Lui ride.
Si rifa viva la commessa, il pigiama per la zia riceve l’approvazione del capo, non resta che andare alla cassa e pagare: 55,35 euro. Non appena sente il prezzo, mio padre mi
rivolge uno sguardo poco piacevole, ma gli do una bella pacca sulla spalla spingendolo verso la cassa. Sorride anche lui,
sconsolato, ma rassegnato.
Per le strade c’è traffico, un traffico caotico, con i vigili che
tentano invano di far rispettare qualche genere di codice della
strada, ma in realtà tutti fanno a gara a volersi fregare l’un
l’altro. È una legge non scritta ma sempre vera e riscontrabile.
“Dove ceniamo la sera della vigilia?” “A casa della nonna,
lo sai. Sono anni che la sera della vigilia siamo lì.” “Vero!”
“Ma... quest’amica a cui devi regalare la magliettina, precisamente: chi è?” “È un’amica.” “Certo, ma come tale avrà anche un nome e probabilmente anche un cognome, suppongo.” “Supponi bene.”
Mio padre non vuole sentir più parlare di Enrica, quando
gli ho spiegato il perché del mio precipitoso rientro da Sharm,
mi ha fatto gentilmente capire che lui non era d’accordo, di
stare attento, di cercare di essere sveglio.
“Ma è italiana?” “Certo. Ma che domande fai?” “No, dato
che non mi dici il suo nome, pensavo fosse una clandestina di
qualche genere di etnia.”
La metto in ridere. Lui sorride anche se muore dalla voglia
di sapere chi è quest’amica. Lo immagina. O forse no. Io ci
provo.
“Dai, lo sai chi è.” Non sorride più. Guida, il suo viso è
illuminato dalla luce dei fari delle macchine che si dirigono in
direzione opposta alla nostra.
“... Ma è davvero solo un’amica?” Annuisco senza esitare.
“Lo sai, ne abbiamo parlato migliaia di volte. Ho cercato
di esserle vicino in tutti i modi, non solo da amico, ma non
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Stefano Quarta
funziona, è inutile. L’unico modo con cui riusciamo ad avere
un rapporto decente, da persone civili, senza urlare e scagliarci contro qualcosa è così: da amici.”
“E... fa male Stè?”
“Mi sto abituando pa’.”
Rivolgo il mio sguardo verso la strada, davanti alle vetrine
c’è una barriera umana in movimento con un sacco di buste,
e sempre con qualcuno accanto. A Natale nessuno passeggia
da solo. Almeno esteriormente. Quanta solitudine ci sia dentro, non si sa.
Stiamo tentando un’impresa impossibile, cioè quella di
trovare parcheggio in pieno centro: assurdo! Ma, come sempre ci proviamo. Regolarmente, dopo neanche cinque minuti
conditi da svariate parolacce, decidiamo di mettere la macchina in periferia e camminare a piedi. L’importante è averci
provato.
“Papà, ma a chi manca ancora il regalo?” “A tua cugina
nonché mia nipote Valentina, alla figlia di Gianni e Cristina
che staranno con noi.”
“Idee?” “Poche, strada facendo vediamo. Tu?” “Mah... per
la Vale qualcosina si può trovare, ma per la figlia di …di...
insomma di quei due mi rimane difficile.” “Ma scusa, io che ti
porto a fare in giro se non ti fai venire idee neanche per i
regali?!” “Ah, scusa padrone.” “Prego.”
“Mena mè, ricordati che per te è un onore girare con me.
Ride. Non ci mettiamo molto a trovare due pensierini e per le
21:00 siamo a casa seduti a tavola. Con la cena già pronta.
I giorni del periodo natalizio trascorrono così, tra un regalo, una partita a carte e in mezzo a pranzi e cene che non
finiscono mai, tipo che ci si alza da tavola verso le cinque del
pomeriggio con le ossa che scricchiolano.
Per le strade incontri un sacco di persone che non vedevi
da un bel po’ di tempo, alcuni tuoi amici che studiano fuori
Lecce, altri che sono in altre città per svariati motivi, ma a
Natale il richiamo di casa è troppo forte. Per circa quindici
Con i miei occhi
141
giorni è quasi ininterrottamente una festa, fino alla Befana,
poi stop. Si ritorna alla vita normale.
Durante questo periodo ho visto più di una volta Enrica, ci
siamo scambiati dei pensierini, sta meglio. Ci siamo anche
andati a prendere un caffè insieme, da soli, abbiamo parlato
tranquillamente un po’ di tutto, ma soprattutto del matrimonio di Giacomo e Giulia che ci vedrà entrambi testimoni.
“Io devo andare ancora a comprare il vestito... uffa!”
“Dai, tanto non ci metti molto a trovarlo.”
“Sì, sembra facile a te. Per voi uomini è diverso, perché è
sempre la solita giacca e cravatta, mentre per noi ci vuole un
bell’abitino, fatto come si deve.”
“Lo troverai... Se hai bisogno di aiuto non mi chiamare,
perché sono una frana in queste cose.”
“Lo so. Non solo in questo.” Ecco, i nostri dialoghi sono
più o meno così, conditi da tanta ironia che sa un po’ di amaro, ma per ora va bene. Comunque il matrimonio è esattamente tra trentasette giorni, cioè il 14 Febbraio, che romantici
a sposarsi di San Valentino.
C’è stata una cena tra tutti noi, in cui ci siamo detti svariate
cose, in cui abbiamo urlato, pianto, litigato, discusso, ci siamo
arrabbiati, ci siamo buttati addosso svariati chili di merda,
insultati e infine abbracciati. Ci siamo chiesti il perché, vari
perché, con sempre troppe poche risposte. La conclusione,
forse la più logica, è stata che i fatti, gli avvenimenti della vita
ci hanno portato al distacco. Ci siamo ripromessi di far il possibile, quando uno di noi otto avesse avuto bisogno dell’altro,
poi le nostre braccia si sono unite tutte insieme, formando un
cerchio. In questo cerchio ognuno di noi ha lasciato un pezzo
della sua anima e un altro l’ha presa. Così abbiamo fatto tutti.
Ho ricominciato a studiare. Cosa? Naturalmente Privato,
c’è un appello a fine Febbraio, penso di presentarmi, questa
volta con sani principi. Speriamo. Parlo spesso con me stesso,
mi serve.
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Stefano Quarta
Tra una partita a calcetto, un’ubriacatura e un qualche genere di flirt che poi puntualmente finisce in niente, mi ritrovo
a tre giorni dal matrimonio senza capire né come né perché.
“Allora Stè, senti cos’ho pensato per l’addio al celibato di
Giacomo: niente locali, niente luoghi pubblici e naturalmente
niente donne...di nostra conoscenza.” Ivan è al settimo cielo,
eccitato come un bambino, neanche fosse il suo di addio al
celibato... Poi Ale e Silvio stanno invitando il mondo intero
per questa pseudo festa che devo ancora capire dove si svolgerà.
“Ascolta, ascolta... Stè, mi ascolti?”
“Sì!!! Continua Ivan...”
“Ok, su internet ho trovato quattro spogliarelliste professioniste che dopo lo spettacolo, gentilmente si concedono agli
invitati, indipendentemente dal numero dei presenti... Stè, ma
hai capito...?
“Non ne sono sicuro.”
“Oh, queste praticamente si scopano chiunque è presente... nessuno escluso... garantito.
“Nessuno escluso...?”
“Nessuno escluso.”
Certe cose le vedi solo nei film e pensi che sia solamente
finzione, mentre evidentemente esistono davvero. Anche se
tutto ha un prezzo.
“Ivan, ma quanto vogliono?” “Eh... questo è il tasto dolente.” “Immagino.” “No, non immagini nemmeno.” “Comunque dimmi, quanto vogliono?” “Dunque, sono in quattro e
mi hanno chiesto 1.200 euro.” “Sti cazzi!!” “Quali?” “Quelli
che prenderanno loro...deficiente.”
“Dai Stè...è il nostro primo addio al celibato, cioè Giacomino
poi si sposa, ha finito. Mio Dio, mi viene da piangere per lui,
cioè lui è fuori, è out, diventerà papà, inizierà a lavorare per
tutto il giorno, la sera tornerà a casa e sua moglie, Giulia, sarà
incazzata come una bestia perché tutto il giorno è stata con il
Con i miei occhi
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bambino e magari i primi tempi brucerà anche la cena... Oh
mio Dio, aiutalo tu, dopo. Ma ora aiutiamolo noi Stè, ti prego.
Silvio e Ale sono d’accordo.”
“Figurati, non avevo dubbi.” “Dai, vecchio...” “Va bene,
va bene, va bene... mica posso mancare solo io.” “Bravo amico
mio. Finalmente ti riconosco. Comunque sono 300 euro a
testa. Passo dopo a prenderle, devo scappare, ciao.”
Non ho neanche avuto il tempo di fiatare. Devo trovare un
bel po’ di soldi entro poco tempo, perché Ivan sta praticamente venendo a casa mia. Per fortuna ho qualcosina da parte,
anche se sono un po’ a secco. Devo trovarmi qualche lavoretto.
“Allora, la festa si farà nella casa di mia nonna al mare, lì
saremo da soli, isolati da tutto e da tutti e nessuno ci disturberà, garantito. Le maialine arrivano il 12 febbraio, cioè domani
con il treno delle 16:25. Rimarranno per tutta la notte.” Ivan è
arrivato a casa mia prima del previsto, cioè esattamente dieci
minuti dopo la nostra conversazione telefonica. Ha gli occhi
spiritati, sembra un invasato, mi fa quasi paura.
“Noi le porteremo subito nella casa al mare, infatti domattina andremo là io, te, Silvio e Ale con altri due e puliamo un
po’, cercheremo di creare un’atmosfera adatta per l’occasione. Poi mangiamo qualcosa e le andiamo a prendere. Ah...
ho anche trovato la pertica, rossa, alta 2 metri e 25 cm.”
Penso che non abbia neanche respirato, non sta respirando più. Mi guarda negli occhi, si guarda intorno, muove continuamente le mani, si aggiusta i capelli, un pazzo.
“Calmati piccolo Rocco, altrimenti domani fai anche brutta
figura con quelle.” “Impossibile, sono una bestia!”
“Tieni bestia, queste sono le mie 300... a malincuore, ma
so che sono per una giusta causa.”
“Più che giusta. Io vado, che devo passare a prendere i
soldi da Ale.”
“Va bene. Ma... senti una cosa: queste qui come le hai trovate?”
“Te l’ho detto su internet.”
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Stefano Quarta
“Ma ci hai parlato al telefono?”
“Certo.”
“Di dove sono?”
“Di Roma.”
“Ma siamo sicuri che verranno loro e non manderanno
qualche brutta vichinga?!”
“Tranquillo, ho parlato io.”
“Appunto.”
È scappato via, volato. O si droga o i suoi ormoni sono
letteralmente impazziti. Non so per quale possibilità optare,
penso e spero per la seconda.
‘È in arrivo sul binario 2 il treno proveniente da Roma Centrale
delle ore 16:25.’
“Eccole Stè, ci siamo... mamma mia! Mi sento male, mi
sento male, sto per svenire... ecco, ecco, sto svenendo... tienimi, tienimi... “
“Finiscila cretino, piuttosto cerchiamo di trovarle e andiamo via subito, che a casa di tua nonna saranno già arrivati
tutti. Ah, ricordiamoci di fare uno squillo ad Ale quando partiamo di qui, così lui va a prendere Giacomino e lo porta là.
Penso che gli piacerà la sorpr...”
Non faccio in tempo a finire la frase, perché il treno si è già
fermato e le porte si sono aperte. Scendono due militari con
svariati bagagli, li posano a terra e aiutano a scendere circa
due chilometri di gambe, per quattro volte. Due bionde, una
mora e una rossa, corpi perfetti, occhiali da sole, lunghi cappotti che causa il nostro grande amico vento ogni tanto si
aprono e lasciano intravedere un ben di Dio che più bene
non si può.
Ivan si è impallato, lo sono anch’io. Le vediamo come circondate da un alone magico, quasi paradisiaco, anche se di
santo queste quattro devono avere ben poco.
“Stè, muoviamoci.” Annuisco senza parlare. Ci dirigiamo
verso di loro come due bambini alle prese con il primo giorno
Con i miei occhi
145
di scuola, non sai da dove devi cominciare. Loro quattro si
guardano un po’ intorno, quasi scocciate, forse per questi pochi
secondi di attesa.
“Ivan, ma sono tutte italiane?”
“Non lo so, non m’importa. So che sono tutte bone.” È
andato. Siamo andati.
“Scusate, voi siete le spogliarelliste?” Ecco, penso che parole meno opportune e più infelici Ivan non le potesse proprio usare. È unico!
“Tu sei Ivan?” Ha parlato la bionda, spostando gli occhiali
per squadrare il mio amico dall’alto in basso e non solo a
causa della sua altezza.
“Sì, sì, sì, sono io.”
“Bene, avrai anche una macchina.”
“Sì, sì, sì, è fuori.” Per fortuna che abbiamo una monovolume,
altrimenti bisognava fare quattro viaggi.
Ci voltiamo per andare, ma le quattro grazie rimangono
ferme... ci mettiamo qualche istante a capire, mentre loro sembrano sempre più scocciate.
“Certo, certo, scusate: le valigie le prendiamo noi.”
Dopo un notevole sforzo fisico, con conseguenti imprecazioni
interne e un numero imprecisato di sguardi volti ad ammirare
le magnifiche quattro, arriviamo alla macchina. “È questa qui?!”
Ha parlato sempre la bionda, inarcando la bocca verso il basso, dimostrandoci tutto il suo schifo per il nostro mezzo di
locomozione.
“Sì. È comoda. Davvero.” Non sono stato molto credibile,
ma sono le uniche parole che mi sono uscite. Salgono a malincuore sulla nostra vettura, parlano tra di loro sottovoce lanciandosi sguardi eloquenti. La bionda loquace ha un accento
marcatamente romagnolo, mentre le altre ancora non hanno
fatto sentire la loro voce.
“Ivan, lo sai vero che il pagamento è anticipato?”
“Certo, vuoi che saldiamo subito?” Rimane un po’ sorpresa e con lei le altre.
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Stefano Quarta
“Sì’, è meglio ora.” Ivan accosta, le dà i soldi in mano. Lei,
con fare esperto li conta velocemente, si toglie gli occhiali,
prende il mio amico per le guance, si avvicina e lo lecca sulla
bocca. “Ora possiamo divertirci.”
In questo momento tra i colori della faccia di Ivan e l’arcobaleno non c’è nessuna differenza. Fatto sta che dopo aver
regolato i conti, le quattro signorine si sono sciolte.
Giacomino ha molto gradito la sorpresa, diciamo che l’ha
vissuta completamente, fino in fondo. Eravamo in quindici,
tutti abbiamo avuto la nostra parte, anche se, naturalmente il
festeggiato ha fatto da protagonista. Abbiamo bevuto, abbiamo esagerato, ci siamo divertiti. È giusto così.
“Ma quando arriva?”
“Tranquillo Giacomino, vedrai che arriva. Capisco la tua
paura, perché se perdi questa chi ti carica più? Anche se hai
appena ventidue anni, sei già un bel mattoncino... “ Gli do
una pacca sulla spalla per stemperare la tensione. Non fa molto
freddo, c’è un vento leggero e il nostro amico sole è sempre
presente. Ivan si avvicina a noi.
“Ma l’avete vista quella gran puntini, puntini della mia ex?
Non lo dico giusto perché siamo in chiesa.”
“Sì che l’abbiamo vista.”
“Pure io. Con quella mezza cartuccia di avvocato... che
pena che mi fanno.” Sorridiamo io e Giacomo, l’amore fa
brutti scherzi. Ma oggi siamo qui per celebrare l’amore nella
sua forma più bella.
Dall’angolo più lontano uno zio dello sposo urla: “Eccola,
eccola.” Tra una grande agitazione tutti prendono i loro posti,
io e Ivan ci mettiamo vicino l’altare in qualità di testimoni, di
fronte ho Miriam, una vecchia amica d’infanzia di Giulia e
poi lei. Ha un vestito lungo tendente al rosa molto tenue, una
borsettina minuscola e troppo carina, due tacchi vertiginosi.
È sempre magra, ha preso qualche chilo, ma i suoi zigomi non
mentono.
Con i miei occhi
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Guardo Giacomo che sta aspettando nella corsia centrale,
muove nervosamente le mani e si asciuga la fronte con un
fazzoletto, intravedo all’esterno una Bmw nera che si ferma
davanti la chiesa: è lei, la sposa. Lo sposo, con passo veloce,
ci raggiunge vicino all’altare. “Volevo essere sicuro fosse veramente lei.” Ha parlato sottovoce, ma anche Ivan ha ascoltato e sorride come me.
Eccola. È bella, una sposa è già bella di per sé, poi con il
pancione è ancora più solare. Raggiunge Giacomo che emozionato le mormora: “Sei bellissima.” Il padre gli stringe la
mano e, dopo avere baciato sua figlia, la consegna idealmente nelle mani del suo futuro marito. Penso sia questo il momento più bello dell’intera cerimonia.
Non riesco a staccare i miei occhi da lei, la guardo ininterrottamente, lei fa lo stesso. Ogni tanto Ivan mi urta con il gomito per farmi notare come l’altra testimone stia idealmente
flirtando con lui. Ma io ho occhi solo per lei. Sta meglio, i suoi
non si separeranno più, perché la sua malattia ha fatto loro
capire tante cose, e ha deciso di continuare gli studi perché è
convinta di farlo. Quasi tutto è andato a posto, quasi.
“Bene, ora dovete scambiarvi gli anelli.” Arriva il solito
bambino vestito per l’occasione, con dietro la mamma che lo
indirizza verso i due sposi. Giacomo ci guarda, ricambiamo il
suo sguardo. I nostri occhi vorrebbero dire tante cose, siamo
tutti emozionati e felici in maniera diversa, siamo commossi,
siamo anche un po’ impauriti da tutto questo. Ci giriamo per
cercare Ale e Silvio, eccoli, sono lì che ci guardano anche
loro. Hanno anche loro la nostra stessa espressione.
C’è lo scambio degli anelli, c’è lo scambio di una promessa
eterna, perché nessuno ti obbliga a impegnarti così, sei tu che
lo decidi, sei tu che lo vuoi. Io la guardo, è spudoratamente
bella. Lei mi guarda, non lo so cosa pensa. È da un po’ che
non lo capisco più. Una lacrima sul suo viso. I miei occhi si
riempiono di lacrime.
“Io, Giacomo de Santis prendo te, Giulia Rubichi come
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Stefano Quarta
mia legittima sposa...” Mi sudano le mani e le ascelle non
sono da meno, per fortuna che ho la giacca e non si vede.
Vedo l’anello al dito di Giulia, guardo lei. Sorrido malinconicamente, dentro ho un nodo allo stomaco, faccio anche fatica
a mandar giù la saliva. Ivan è in silenzio, tutti sono in silenzio,
nessuno parla. È il loro momento, quello che hanno scelto di
vivere oggi. Una lacrima scivola giù sul mio viso, mi giro verso il mio amico testimone che è già con il fazzoletto in mano,
guardo lei, non posso non farlo. Lei aspettava il mio sguardo.
Non mette ostacoli alle sue lacrime, sorride per la felicità. Non
metto ostacoli alle mie lacrime, ho il cuore che batte all’impazzata.
“Mi manchi!” Ha mosso le labbra, cercando di far capire
bene cosa volesse dire, senza mai smettere di guardarmi. Seguo i movimenti della sua bocca e il cuore mi balza in petto.
Ci guardiamo, nessuno dei due vuole smettere di farlo, lei
piange, piange a dirotto, ma è felice, è un pianto liberatorio.
Allora, già la situazione induce a commuoversi, se poi vedi
una persona di cui sei ancora innamorato piangere e dirti,
sempre piangendo, che le manchi, sfido chiunque a non versare fiumi di lacrime. Ivan mi mette la mano sulla spalla, ha
seguito tutta la scena senza fiatare. Mi giro per cercare Silvio e
Ale, sono lì con gli occhi lucidi che non riescono neanche a
muoversi. Mi stacco un attimo da me stesso, cerco di guardare la situazione dall’alto, ma sempre con i miei occhi, e vedo
che siamo tutti composti, vestiti bene, pronti a celebrare il
nostro amico, ma ognuno di noi ha le sue emozioni.
Devo risponderle, devo farle capire cosa provo. “Anche tu mi
manchi.” Mi sforzo di muovere bene le labbra, per farle capire
al meglio ciò che le voglio dire. Ci guardiamo senza sosta, senza
interruzioni, senza pause. È uno sguardo ansioso, come i nostri
respiri, è uno sguardo passionale, come il battito dei nostri cuori,
è uno sguardo intenso, come il nostro amore.
“… vi dichiaro marito e moglie. Ora può baciare la sposa.”
Un coro di approvazione si è levato quasi immediatamente,
applausi a volontà. Io e lei fermi, immobili, uno negli occhi
Con i miei occhi
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dell’altro. Persi in noi. Intorno non c’è confusione, non c’è
nulla, ci siamo solo noi. Ma nessuno dei due si muove, non
possiamo farlo, sarebbe ingiusto nei confronti degli sposi, ma
ci guardiamo ancora, ci fissiamo. I nostri respiri all’unisono, i
nostri battiti uguali.
“Stè, muoviamoci, dobbiamo firmare.” Ivan mi trascina,
lei si muove dall’altra parte, non smettiamo mai di guardarci.
Ci ritroviamo fianco a fianco. Non ci sfioriamo, non ci tocchiamo le mani, siamo uno dentro gli occhi dell’altro. Ci stacchiamo per firmare. Poi di nuovo, sempre a fissarci. Non ci
sono più lacrime, né il cercare di capire cosa uno pensa dell’altro, c’è solo il guardarsi negli occhi ininterrottamente. Gli
sposi escono, noi con loro, ci ritroviamo di nuovo vicini.
“Mi manchi Stè.” “Anche tu Enrica.” Prendo la sua mano.
Chicchi di riso volano in parte anche sulle nostre teste, anche
noi ne buttiamo una manciata sugli sposi.
“Non farmi stare mai più senza di te, ti prego. Io non vivo
senza te.”
“Se tu hai bisogno di aiuto, chiedilo. Farò l’impossibile per
te.” È la nostra promessa.
Coinvolti dal casino generale, mi ritrovo in macchina diretto verso il ristorante. Alcuni commenti sulla cerimonia, di cui
onestamente ho capito ben poco. Giacomo è felice, stanco
ma felice, Ivan guida con il sorriso sulle labbra, Giulia è al
settimo cielo. Al ristorante è un continuo brindisi, ci si alza
sempre in piedi perché oggi si festeggia.
“Questo è vino di Malvasia, faccio un brindisi alla compagnia.” Tutti su con i bicchieri che in poco tempo si svuotano.
È il momento dei balli, naturalmente un lento e come ovvio gli sposi aprono le danze. “Gli sposi che canzone desiderano?” Giacomo guarda me, Ivan, Ale e Silvio, sappiamo già
cosa chiederà, non può essere altrimenti.
“Amici, cantiamo insieme? Sono stonato, datemi una mano.”
“Vai.” “Ci siamo.” “Parti tu.” “Vai sposo.” Tutti ci guardano in
attesa di una esibizione.
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“Penso che ogni giorno sia come una pesca miracolosa, e
che bello pescare sospesi su di una soffice nuvola rosa, io
come un gentiluomo e tu come una sposa...” L’applauso scatta spontaneo, noi abbiamo seguito Giacomo e tutti ci hanno
seguito, senza musica. “... sarà che noi due siamo di un altro
lontanissimo pianeta, ma il mondo da qui sembra soltanto
una botola segreta, tutti vogliono tutto per poi accorgersi che
è niente...”
Mentre tutti in coro cantano, io mi avvicino a lei, ci guardiamo, ci stringiamo uno all’altra, ho preso dolcemente la sua
faccia nella mie mani e l’ho baciata. In lontananza abbiamo
sentito un altro applauso, chiaramente rivolto a noi, con le
labbra ancora unite abbiamo riso, sempre più forte. Mi sono
ritrovato sommerso dall’abbraccio dei miei amici. Anzi, hanno sommerso entrambi. Ci siamo stretti ancora di più, l’uno
all’altro, eccoci.
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