in PROSPETTIVA PERSONA “Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1/ TE” MENSILE DI INFORMAZIONE E CULTURA Anno XLI - n.4 aprile-maggio 2014 Reg. n. 119 del 17-10-1974 - Tribunale di Teramo - R.O.C. n. 5615 La persona, condizione per l’Europa dopo la crisi Esiste una via d’uscita? Sì, ed è quella di ripartire da quella posizione che ha generato l’Europa e l’Europa Unita. Gli interessi economici da soli non bastano per ripartire: occorre riscoprire «che l’altro è un bene, non un ostacolo, per la pienezza del nostro io, nella politica come nei rapporti umani e sociali». Ciò che costruisce è solo un «amore al riverbero di verità che si trova in chiunque. Esso è fattore di pace, costruzione di una dimora umana, di una casa, che possa anche essere rifugio all’estrema disperazione» Il recupero di una coscienza adeguata dell’umano, di ciò che è essenziale alla realizzazione dei singoli e dei popoli, può avvenire in luoghi che risveglino l’io di ciascuno, lo educhino a un rapporto adeguato con la realtà (qualunque essa sia), gli facciano esistenzialmente percepire la centralità, unicità e sacralità di ogni persona: sono qui chiamate in gioco la bimillenaria esperienza della comunità cristiana e tutte le realtà sociali ispirate a ideali laici e religiosi. Solo una concezione dell’uomo come realtà irriducibile, «rapporto con Sironi e la grande guerra l’infinito» , può mettere insieme persone diverse per etnia, estrazione sociale, cultura, religione e ideologia politica, in vista di una reale integrazione che abbatta ogni ghetto e diventi portatrice di sviluppo. A partire da queste preoccupazioni occorre aprire un ampio dialogo su come l’UE dovrà evolvere nei prossimi anni, coinvolgendo tutti i cittadini, e soprattutto le future generazioni, che già a migliaia lasciano i loro Paesi d’origine e si sentono a casa propria ovunque vadano per studiare o lavorare..... Nella misura in cui ci si appella a una esperienza non ridotta dell’uomo si può fondare la politica europea non più sullo scontro di interessi contrapposti e su un rela- tivismo che sfocia nel nichilismo, nell’indifferenza di tutti a tutto, ma su un uso della ragione «sensibile alla verità» e su un realismo che riconosce l’altro come un bene per sé e non come una minaccia. Come scrive papa Francesco, «il nostro impegno non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza, ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro “considerandolo come un’unica cosa con se stesso”. Questa attenzione d’amore è l’inizio di una vera preoccupazione per la sua persona e a partire da essa desidero cercare effettivamente il suo bene» (Evangelii Gaudium, 199). In questo senso gli organismi europei dovrebbero essere i primi a strutturarsi nella direzione di una sussidiarietà reale. Ciò favorirebbe la responsabilità di ciascuno (persone, gruppi sociali, Stati), evitando l’illusione che le risposte vengano sempre e comunque dall’alto. Una Europa che capisse questo non tenderebbe a chiudersi all’immigrazione, non praticherebbe solo austerità ma anche solidarietà in economia, non si ripiegherebbe su nazionalismi irrealistici e antistorici, non spingerebbe per una legislazione volta a spezzare tutti i legami coltivando l’ossessione per i nuovi diritti dei singoli, non avallerebbe l’ostilità alle fedi e in particolare a quella cristiana (tradendo proprio ciò che ha costruito e reso grande nella storia l’Europa). Se non sarà sorda a tale richiamo, l’Europa potrà rinascere e così sperare di tornare ad essere il «nuovo mondo», esempio e modello per tutti. Il contributo che una rinata cultura europea può offrire a tutto il mondo è il riporre al centro la domanda su cosa fa sì che un essere umano sia e si senta tale. (Liberamente tratto da www.centriculturali.org) Al Sindaco che verrà Quando la prova elettorale sarà terminata, caro Sindaco, non fare come molti tuoi colleghi del passato che si sono dimenticati dei programmi e hanno seguito la politica del contingente giorno per giorno. Noi del mensile “La Tenda” abbiamo pensato di segnalare alcune priorità che potrebbero qualificare il futuro mandato al servizio di Teramo. Sono pareri e osservazioni di vario tipo e le esponiamo di seguito. Fondamentalmente ci piacerebbe che il Sindaco( con il futuro Consiglio) decidesse di : - Affidare incarichi pubblici guardando il MERITO e le COMPETENZE e non le clientele e le appartenenze, selezionando la classe dirigente giovane con concorsi seri sulla base delle reali necessità della città; - Stabilire tetti retributivi plausibili con la vita della popolazione per dirigenti comunali anche apicali. - Introdurre la TASI - che in pratica è il prossimo “babbau” per tutti - più studiata, più umana possibile - Riservare sempre grande attenzione ai piccoli, ai vecchi, ai nullatenenti (asili, assistenza, sostegno). - Essere attento e accorto nell’approvare l’impiego di danaro pubblico per opere, spesso incompiute il cui beneficio è comunque marginale rispetto al resto. segue a pag. 5 Lieto evento La redazione si è arricchita di una nuova mini firma: è in squadra Martino Nicchio, neo arrivato da Fabio e Valeria Cappelli. La nostra caporedattrice, nonna Margherita, ha dato il 'placet'. Tormenti elettorali Giorni fa qualcuno osservava che in questa saga elettorale teramana ormai sono più numerosi i candidati che i votanti, il che sembra incredibile : come pensano di scalfire i piccoli interessi di categoria, che rendono impossibile qualunque nuova proposta di gestione del centro storico, o di scuotere l’inerzia di chi deve controllare chi sporca la città, chi parcheggia in modo selvaggio, chi sfreccia per le stradine, e via dicendo? Tutti promettono tutto, in un gigantesco copia-incolla : sei lì che vai a fare la spesa quando all’improvviso, dalle vetrine di locali chiusi da tempo e dimenticati da tutti, proprietari compresi, spunta un faccione cordiale e sorridente che ammicca, ti invita ad entrare, per informarti minuziosamente su come renderà Teramo bella e pulita, più o meno il paese di Bengodi. E intanto tu ti chiedi cosa mai faranno in questi ufficetti improvvisati, ma completi di scrivanie, sedie e arredi vari, sbucati chissà da dove…ti offrissero almeno un tè o una cioccolata, capirei, ma, più che avere un’aria indaffarata e molto, molto ottimista, temo non abbiano granché da fare tranne, naturalmente, acchiappare più elettori possibile, per la sagra del 25 Maggio. E così il povero cittadino del centro storico, mentre è lì che saltella per evitare le buche e gira l’angolo della strada per non essere agganciato dai vu cumprà , finisce nelle braccia di un candidato sorridente e implacabile o peggio, di qualche virago (leggi: donna grintosa) candidata suo malgrado (per carità, lei non voleva, ma è per via delle quote rosa, come si fa a dire di no?). Meglio non dire cosa penso delle quote rosa, se non che sarebbe più corretto da parte delle donne in lizza dichiarare un interesse personale per la politica, perfettamente lecito e più onesto oltre che garanzia per eventuali simpatizzanti. Per quanto mi riguarda, avrei un desiderio, quello di camminare per cinquanta metri senza essere fermata da nessuno…non mi sembra di chiedere molto…mi accontento anche di trenta metri…pietà! Pasquina APPUNTI E SPUNTI 2 Oh che bel Castello marcondironderondello Prima o poi prenderò un pugno sul naso per la mia insolenza, ma io accetto il rischio e ve la dico tutta : nelle mie memorie (ormai storiche ), il Castello della Monica, oggi osannato, semirestaurato ed in cerca di nuova e più acconcia sistemazione, era una curiosità locale, il capriccio di un signorotto eccentrico ed anche un po’ tetro, che aveva voluto ricostruire un medioevo scomparso e mai visto a Teramo se non nei libri d’arte o in vecchie stampe e quadri di genere. Insomma, Gennaro Della Monica ha deciso di abitare in quello che lui riteneva fosse un palazzotto medievale, semplicemente, penso, desunto da vecchie letture polverose, simili a quelle che affascinarono Don Chisciotte spingendolo all’avventura. Mi vanto, si fa per dire, di esserci entrata da ragazza, invitata dal figlio del padrone di casa, ma non conservo molti ricordi, se si esclude una minacciosa armatura nell’ingresso e la zona di ricevimento, scura e con un gran tavolo per le nostre giocate natalizie a baccarat, il tutto condito da un’irreale atmosfera da fondali dipinti, da quinte teatrali. Nei primi anni ’70 il castello ebbe un nuovo momento di gloria come sede di uno dei tanti clubs universitari dell’epoca, particolarmente adatto a ballare, bere ed appartarsi qua e là, buio e medievale com’era. Ma siamo cresciuti ed abbiamo dimenticato il nostro palazzotto per molto tempo ed ora, in pieno revival di ogni cosa, ecco in trincea il Comune, il Fai, i mega-critici d’arte come Daverio e Strinati, tutti uniti nel lodevole tentativo di farlo tornare a vivere. Durante la conferenza tenuta nella sala S. Carlo è stato proiettato un mini-documentario di Marco Chiarini assai suggestivo, con tanto di animali, luci ed ombre, il buon Gennaro vestito da frate, gli scorci delle finestre e delle murature, scene felicemente immerse in un’aura assai dugentesca, come dice Daverio. Già, ma che fare? Come completare ed utilizzare questo complesso, scongiurandone così il degrado? Daverio consiglia di riciclare il castello facendolo vivere come laboratorio di auto-restauro o anche aprendolo alle realtà locali, cioè collegandolo alle attività economiche e turistiche. Tutte belle idee, senza dubbio, anche per noi teramani che siamo comunque affezionati a questo quasi-rudere, rimasto a metà strada tra il castello di Ludwig in Baviera e gli interni funebri dove abita la mitica famiglia Addams. Però, se è già difficile restaurare edifici nati e vissuti nelle epoche giuste, figuriamoci una costruzione che sorge fin dall’inizio con l’intento di rappresentare l’antico, rivisitare, ma solo per finta, il tempo che fu e che certo non prevedeva la luce elettrica o il riscaldamento. Ma non disperiamo, tra un’idea giusta ed una sbagliata chissà che non ce la facciamo a salvare capra e cavoli, cioè merli e bifore, camini e stemmi, giardinetti di gesso e torroncini, pardon, torrette! Lucia Pompei, finta storica dell’arte Cesare Pavese e la ricerca del divino Il “Salotto culturale”, in occasione della ricorrenza pasquale, ha proposto una meditazione sulla fede attraverso un incontro sulla ricerca spirituale di Cesare Pavese. La conversazione,dal titolo “Nostalgia di Dio in Cesare Pavese”, è stata tenuta da mons. Giuseppe Molinari, arcivescovo emerito de L'Aquila, il quale ha fatto riferimento a una sua ricerca critica, basata su un molteplice materiale documentario, contenuta nel volume “O tu, abbi pietà”, pubblicato nel 2006. Mons. Molinari ha evidenziato il dramma interiore che ha accompagnato lo scrittore per tutta la sua vita, attratto dalla religione e nello stesso tempo incapace di abbandonarsi alla fede. Il ritratto di Pavese che ne è emerso è stato quello di un uomo sensibile e molto fragile, lucido e afflitto da un profondo dolore esistenziale, evidente nella sua opera, in particolare ne “Il mestiere di vivere”. La tormentata ricerca di Dio dello scrittore trovò un parziale e temporaneo punto di arrivo nel periodo trascorso presso i padri Somaschi, quando si accostò anche ai sacramenti, ma il suo tormento interiore gli impedì di perseverare nella fede, anche se egli ne sentì sempre la nostalgia. Il relatore ha esposto in forma rigorosa, ma piana e colloquiale l’argomento, inserendo numerosi riferimenti biografici e aneddoti, davanti a un uditorio attento e partecipe, che alla fine della relazione ha animato un vivace dibattito. Prima del film 100 disegni originali di Federico Fellini, Ettore Scola e Paolo Virzì in mostra a L’ARCA. Presentato anche il documentario , con la regia di Mario Sesti e Marco Chiarini, dal titolo provvisorio ‘Prima del film’ : il filmato è un viaggio nel mondo dei registi che disegnano e si avvale delle testimonianze esclusive di Ettore Scola, Paolo Virzì e Milo Manara, e dei disegni di questi autori, animati talvolta al computer. La mostra resterà aperta fino al 22 giugno C’è una linea di collegamento nella storia del cinema italiano che passa attraverso il disegno, una linea precisa ed evidente che sorregge la pratica artistica di alcuni suoi protagonisti. Cosa si agita nella mente di un regista prima di mettere a fuoco il suo progetto di film? Storia, personaggi, luoghi, abiti, caratteri - ma anche stile e atmosfera - come si materializzano in immagini concrete? La risposta è (forse) nei disegni esposti nella mostra Prima del film in programma all’Arca dal 5 aprile al 22 giugno, che per la prima volta in Italia prova a delineare un percorso grafico nella storia del nostro cinema. Segni, ghirigori ossessivi, spunti, volti, figure stilizzate e caricature istantanee, piccole allucinazioni e figurette fiabesche, ma anche tette e sederi accanto a scritte, appunti di battute, nomi di attori, tracce che farebbero la gioia di uno psichiatra, rappresentano una sorta di avamposto del film, il suo spirito, direbbe Fellini, che in queste forme fa le sue prime apparizioni ed epifanie. Come le immagini ipnagogiche, queste tracce di possibili film si affacciano e poi scompaiono oppure si cristallizzano, precipitano nelle forme di un film vero e proprio. “…. forse è una specie di traccia, un filo, alla fine del quale mi trovo con le luci accese, nel teatro di posa, il primo giorno di la- 2 la tenda - n. 4 - aprile-maggio 2014 vorazione” (Federico Fellini, Fare un film). Siamo lontani sia dalle pratiche di previsualizzazione della sequenza utilizzate dalle grandi produzioni e soprattutto dalla pubblicità, sia dalla dittatura dell’occhio d’autore che al cinema, da Hitchcock a Spielberg, usa il disegno o qualsiasi altra forma di simulazione dell’inquadratura, come strumento di lavoro, controllo, test sulla efficacia stessa della narrazione: non sono storyboard, con i disegni dell’inquadratura, dei movimenti di macchina e le indicazioni degli effetti da utilizzare sul set. Sono immagini in fieri, vere e proprie “previsioni”, grottesche, stranianti, una sorta di disegni ad occhi aperti, che possono anche aiutare il reparto costumi o il casting per la linea di un volto o nella definizione di un tipo, di un carattere, di un costume, ma innanzitutto servono a riempire il tempo dell’immaginazione prima del set, ad aiutare la creatività a trovare una prima, fluttuante materia oggettiva - a volte si tratta di oscure oppure abbaglianti intuizioni visive e grafiche, a volte il deposito di una tensione psicomotoria o un piccolo sentiero interrotto dell’immaginazione. In questo senso i disegni di Fellini, Scola e Virzì rappresentano un discorso comune, la traccia di un percorso tanto evidente quanto poco battuto, anche dalla critica e dagli studiosi, in cui la scena chiave è forse quella in cui il giovane Fellini e il giovane Scola si incontrano regolarmente in qualche bar per vedersi e parlare - e mentre si raccontano cose, disegnano ognuno sul proprio angolo di tavolo, come se disegnare fosse qualcosa che va fatta d’accompagnamento al pensiero, alla parola, al semplice respiro, come canticchiare mentre si lavora, fumare mentre si scrive, fischiare quando si erra per la campagna, fuori città. 3 CULTURA Mario Sironi e la Grande Guerra “Sironi e la Grande Guerra” è il titolo della bella mostra, e del relativo catalogo, esprime ne la “Vittoria alata” del 1935. E’ lo stesso ideale che pure favorirà la che la Fondazione Cassa di Risparmio di Chieti ha organizzato, nel magnifico sua fede, poi tradita, nel fascismo. Resta per sempre nel suo tratto un’innata Palazzo De Mayo a Chieti, e che durerà fino al 25 maggio p.v. Dirne ora qual- eleganza: i suoi soldati, pur trascinando cannoni, appaiono lontani dalla trincosa di espressivo e voler rendere per un minimo il significato della pulsazione cea, spesso rappresentati in senso diagonale su sfondi vuoti che richiamano l’ artistica di questo grande maestro resta un timido tentativo ed impone di en- “astrattismo” Egli stesso è soldato, assieme a tutto il gruppo dei “futuristi mitrare nel contesto di una complessa realtà storica e culturale. lanesi”, nel battaglione dei “volontari ciclisti”. Sironi si muove Mario Sironi nasce a Sassari il 12 maggio 1888, si trasferisce con gli accadimenti bellici tra armi, aerei, elmetti, trincee e a Roma dove conduce gli studi e muore a Milano nell’agosto baionette. L’idea della vittoria sempre ben evidente è unita del 1961. Egli si colloca in quel periodo che per comunione ad una costante volontà denigratoria del nemico che di nuovo di ideologia unisce letteratura, pittura, musica ed ogni altra si esprime in “Stupidaggine nazionale tedesca” del 1916. Per espressione artistica nel movimento culturale che definiamo queste tematiche fa ricorso al carboncino qualche volta unito “futurismo”. In sostanza l’arte futurista cancella la staticità alla tempera, qualche volta alla china, qualche volta surreale, espressiva del passato per sostituirla con la ricerca costante spesso metafisico. Costante è la fede che sia l’Italia la più di movimento in una visione del molteplice e delle sue fasi forte, che siano di qua gli eroi. Il soldato austriaco è vinto, videntro la stessa opera. Un dinamismo delle forme che si prelipeso, sdentato e così lo propone, sempre su “Il Montello”, figge appunto di rappresentare l’unità del molteplice. E’il con la scritta “tutto è perduto anche l’onore”. Peggio va per tempo in cui si respira in ogni direzione il desiderio di tagliare Guglielmo II° rappresentato in croce ne “La fine di un pii ponti con ogni forma di ancoraggio al passato per guardare rata”, una croce del tutto stilizzata anche se capace, al tempo, e ispirarsi solo a ciò che dall’oggi orienterà ogni cosa verso il di sollevare polemiche su una presunta irriverenza religiosa futuro. Siamo agli inizi del ‘900 e tutto si tinge di entusiasmo, da parte del maestro. Il Kaiser è lì, piccolo e impotente, crodi voglia di conquista, di fede nei nuovi mezzi tecnici. Si cefisso dagli stessi soldati, sopra di lui la mordace scritta tratta di “mutamenti tanto profondi da scavare un abisso fra “Deutschland uber alles”. i docili schiavi del passato e noi liberi e sicuri della radiosa Sironi, Deutschland uber alles Sironi moltiplica le sue inclinazioni: si interessa di architetmagnificenza del futuro”. Queste le parole che Sironi, tura, di scenografia, di affresco, quest’ultimo spesso celebraCarrà, Boccioni e tanti altri sottoscrivevano nel “Manifesto dei pittori futuri- tivo del fascismo. Noti, tra i tanti altri, i suoi contributi all’ “E ‘42”, odierna sti!”. In tale contesto prendono fisionomia per il Nostro varie fasi, quella orien- Eur, di Roma ed all’università capitolina de “La Sapienza”. tata verso il “cubismo” inteso come studio di scomposizione delle forme Traversato il secondo conflitto mondiale e la caduta del fascismo la sua pittura secondo vari piani, quella della pittura “metafisica” richiamata, ad esempio, si fa drammatica, proposta spesso su tele di piccola dimensione. Lontani ormai nell’opera “L’ultimo discorso del Kaiser” (visibile sul catalogo della mostra, al i tempi della “Vittoria alata” le cui gigantesche proporzioni ben si adattavano quale faremo ricorso anche per altre opere esemplari) del 1918, inserito nel alla sottile vitalità del suo volo immobile e sicuro come la fede negli ideali. quindicinale “Il Montello”, rivista dedicata ai soldati del Piave. Qui l’impera- Pur muovendosi dentro le correnti e gli stili del suo tempo, Sironi trova, con tore tedesco viene raffigurato come un automa a cavallo, dentro una rappre- spontanea continuità, sempre nuove forme espressive, potenti e riconoscibili, sentazione quasi cubica, ridicolizzata dalla scritta in dialetto napoletano “ Ne’ patrimonio indiscusso della nostra arte moderna. che facimme?...” La mostra di Chieti ospita le opere di altri grandi, tra i quali Carrà, Previati e La Grande Guerra ha travolto Sironi e la sua sensibilità. La grandezza di Lomellini, con la volontà di suscitare analisi e riflessioni in occasione del cenRoma, che lo aveva rapito al tempo degli studi, è l’elemento consolatorio, tenario del grande conflitto1915-18 . quello che infonde fiducia nella vittoria sempre e comunque e che ben si abc Dove viene a mancare la cultura oggi? Da decenni la cultura parla solo a se stessa, non entra nella vita dei popoli. Surclassata dalla scienza e dall’ingegneria, schiacciata dalla tecnica e dall’economia, la cultura umanistica elabora la fine del sapere umanistico. Ma la cultura vive se è il corpo, l’anima e la mente di un’identità comune, che può essere una civiltà, una nazione, una religione, una comunità. Naturalmente differiscono i gradi e i livelli di accesso, ma se non attiene ad alcun universo condiviso, ad alcun orizzonte di riferimento, è opera intellettuale e individuale, e le si addice la solitudine e la marginalità. Noi giriamo intorno alla sua crisi ma la cultura ha un ruolo se esprime un orientamento di vita, altrimenti è solo erudizione o intellettualismo. Orientamento di vita non significa, in senso marxiano o tecnologico, che serve a cambiare il mondo: così avrebbe solo un uso pratico-ideologico assai riduttivo. Ma vuol dire in senso più largo e profondo che esprime una concezione della vita, una visione del mondo e induce a un comportamento conseguente, uno stile, una condotta coerente. E allora dove viene a mancare la cultura oggi? Per dirlo in sintesi, la cultura non Bella mia Donatella Di Pietrantonio, già autrice dell'intenso Mia madre è un fiume, diventato un piccolo caso grazie al passaparola dei lettori, torna con un nuovo romanzo e non tradisce la sua voce di narratrice potente e scabra. Bella mia (Elliot) è una storia aspra e tagliente come la prosa in cui è scritta, che a tratti ricorda quella poetica di Erri De Luca ma privata di ogni dolcezza o concessione, come scarnificata per poter arrivare dritti all'essenza di ogni parola, frase e sentimento. Una storia di ricostruzione fisica, quella lentissima de L’Aquila ferita a morte dal terremoto e non ancora rialzata, e di ricostruzione affettiva, quella dell'adolescente Marco e di sua zia Caterina, che diventa per lui madre' supplente' per caso e per necessità. Olivia, infatti, gemella di Caterina e madre di Marco, è morta durante il terremoto e per questo il ragazzo, dopo un tentativo fallito di stare con il padre, si trova a vivere con questa zia un po' spigolosa e solitaria e del tutto impreparata al ruolo. Il libro parte da qui e procede come in una specie di danza - per strappi, pause, brevissime armonie - in cui ognuno cerca faticosamente il suo posto, la sua consolazione e il suo 'senso', Cultura pensa la nascita, la morte e la vita ulteriore. Balbetta, devia o impreca, ma tace sulla nascita, sulla morte e sulla vita ulteriore che va oltre il raggio biologico, anagrafico, della nostra esistenza. Una cultura è viva se tiene a battesimo, fonda, crea, inaugura, esprime lo stupore e la promessa della nascita e della rinascita. Una cultura è viva se affronta la morte a occhi aperti e mente lucida, se elabora il lutto, se coglie la vita a partire dai suoi limiti e dalla sua finitudine. E infine, una cultura è viva se infonde il messaggio che la vita non è tutta qui, in quel che appare e si consuma nella sfera biologica; ma c’è un piano ulteriore, un’altra dimensione, attiene alla sfera di ciò che può dirsi spirituale. Anche un’opera - cioè un testo, una poesia, una pittura, una musica, un film - è l’incontro con un altro mondo, è l’esperienza di una vita ulteriore oltre la nostra. La cultura dovrebbe donare questa ricchezza che è poi l’unica, solida, vera base su cui fondare relazioni. E invece la cultura oggi, come la filosofia, aborre la nascita, rimuove la morte, cancella ogni orizzonte ulteriore nel timore di trovarsi ancora tra i piedi Dio, lo Spirito e la metafisica. Da M. Veneziani Letture extra moenia quello che dovrebbe portare a ricomporre i tasselli delle esistenze spezzate. Marco che cerca di diventare grande e di rimarginare le sue ferite nel modo scomposto ed eccessivo degli adolescenti; Caterina, da sempre la gemella schiva e cupa (che di sé dice “non sono capace di felicità, ma trascorro a volte momenti di insopportabile grazia”), che prova a gestire una nuova dimensione che non le appartiene e ad avvicinarsi a un ragazzo che le è vicinissimo ed estraneo insieme. Entrambi, che cercano di riannodare un contatto impossibile con la madre/sorella perduta per sempre e ricostruire una vita nuova e necessariamente diversa. Sullo sfondo, una L'Aquila muta e immobile, sospesa tra macerie e assenza di persone e metafora quasi perfetta delle vite dei protagonisti. L'autrice ha il dono di raccontare questa storia con sobrietà e intensità, lasciando da parte ogni indulgenza ma intessendola di piccoli dettagli, solo all'apparenza minimi, che descrivono interi mondi e aprono squarci di riflessione sull'esistenza e sulla sua ineludibile complessità. Valeria Cappelli la tenda - n. 4 - aprile-maggio 2014 ....3 PARLIAMO DI... 4 Vendetta tremenda vendetta. “Rigoletto” di G. Verdi L’11 marzo 1851 andava in scena aVenezia Rigoletto, prima opera della cosiddetta “trilogia popolare” di Verdi, su libretto di F. M. Piave. La vicenda era tratta dal dramma di V. Hugo “Le roi s’amuse” (il re si diverte), che aveva destato grande scandalo e forte riprovazione. Anche Verdi dovette affrontare i rigori della censura, tanto che cambiò non solo il titolo in Rigoletto, ma soprattutto l’ambientazione e i protagonisti: Francesco I di Francia divenne il Duca di Mantova, Tribolet diventò Rigoletto. Il soggetto, definito dal censore asutriaco “di ributtante immoralità e oscena trivialità”, è incentrato sulla figura di un deforme buffone di corte e sul suo padrone, un signore libertino e amorale, che dedica tutte le sue cure a sedurre le dame della corte e della città. Il padre di una ragazza sedotta dal duca si ribella e viene perciò incarcerato, ma prima di essere portato via lancia contro il duca e contro il buffone, che sostiene e incoraggia il comportamento licenzioso del padrone, la maledizione intorno alla quale ruota il dramma. Rigoletto ha una figlia, Gilda, cresciuta nella fede e nell’innocenza, lontana dagli intrighi e dalla corruzione della corte; la ragazza conosce un giovane e se ne innamora, senza sapere che è il duca sotto le mentite spoglie di uno studente povero (caro nome). Gilda viene rapita dai cortigiani e portata al duca “in dono”. Rigoletto troppo tardi scopre l’inganno (cortigiani vil razza dannata) e giura di vendicarsi (sì vendetta), incaricando un sicario, Sparafucile, di assassinare il duca. Decide quindi di andare via con Gilda, ma prima si reca presso la dimora del sicario, dove si trova il duca, intento a corteggiare la sorella dell’uomo, Maddalena. Rigoletto e la figlia assistono alla scena, ma la ragazza dice di essere ancora innamorata; ella, infatti sapendo che l’amato dovrà essere ucciso decide di morire al suo posto. In tal modo si avvera la maledizione nel modo più atroce, poiché il buffone viene colpito in quello che ha di più caro. Si attua nello stesso tempo l’intreccio drammatico dei contrasi: la ragazza semplice e innocente è sedotta e disonorata, la sete di vendetta che spinge Rigoletto a tramare l’omicidio del duca si ritorce su di lui, il seduttore si salva mentre la sedotta si sacrifica per lui. Il groviglio di sentimenti e di situazioni della vicenda è sostenuto sempre dall’equilibrio di parola e musica, una musica intensa, travolgente, elegiaca, ironica; le melodie si susseguono raccontando e interpretando i sentimenti e le situazioni. L’inizio leggero e brillante descrive il clima della festa, durante la quale il duca da un lato esplicita il suo atteggiamento verso le donne (questa o quella), dall’altro sfodera le sue arti seduttive. Nel monologo di Rigoletto (quel vecchio maledivami) avvertiamo già il senso della tragedia, mentre l’invettiva (pari siamo) svela la consapevolezza e il dolore della condizione di essere deforme e della sua importenza di buffone di fronte al potere. Il duetto con Gilda (figlia, mio padre) svela un profondo e delicato affetto paterno, inaspettato nel caustico buffone che affianca il duca nelle sue gozzoviglie. Il coro dei cortigiani (zitti, zitti) con ilsuo incalzante picchettato sillabato, e quello successivo (scorrendo uniti remota via) esprimono lo spirito superficiale e vendicativo di un gruppo di “gentiluomini” che vivono di divertimenti e servilismo. Bollata come “popolare”, nel senso più negativo, in realtà Rigoletto è un’opera complessa, ricca di numerose e mirabili melodie, che lo stesso autore collocava tra le sue composizioni migliori; di grande cantabilità è per questo divenuta subito molto popolare, anche se non sempre le numerose esecuzioni le hanno reso giustizia. Emilia Perri Cyberspace C’è qualcuno nei paraggi? Se tra i lettori c’è qualcuno appassionato di Harry Potter ricorderà la mappa che il maghetto usava per vedere le persone che si trovavano vicino a lui. La mappa indicava non solo la loro posizione ma anche in quale direzione stavano andando. Una cosa del tutto simile sta per essere messa a disposizione da Facebook sui dispositivo IOS e Android. Si chiama Nearby Friends (amici nelle vicinanze) ed è una funzione che, geolocalizzando i nostri amici, ci permetterà di vedere su una mappa quelli vicini a noi o che si stanno dirigendo verso di noi. Naturalmente, per rispetto di quelle norme di privacy a cui i social network sono comunque tenuti, si tratterà di una funzione che potremo decidere o meno di attivare o di “personalizzare”, restringendo la visibilità della nostra posizione a fasce orarie particolari o a liste di amici ristrette. La comunicazione avverrà tramite notifiche “push”, utilizzate anche dalle applicazioni di posta, da messenger o da chat come WhatsApp e simili. Ad un certo punto il telefono ci avvertirà della presenza di amici nei paraggi, dandoci quindi la possibilità di contattarli e di organizzarci con loro e viceversa. Data la passione per le "mappe" e la caratteristica di mappatura dell'applicazione, la funzione sarà estesa anche al viaggio. Saremo quindi in grado di sapere dove stanno andando, se la località è vicina alla nostra destinazione, se ci sono delle recensioni fatte dai nostri amici sui luoghi che intendiamo raggiungere o dei posti dove ci fermiamo a mangiare. In Italia, purtroppo, dovremo aspettare per avere la nuova Nearby Friends che sarà distribuita prima negli Stati Uniti. Annarita Petrino Astrofisica Kepler-186f, il pianeta cugino della terra È la notizia pasquale dell’Anno Domini 2014, è un piccolo passo dell’Umanità verso l’esplorazione diretta del Cosmo: il Telescopio Spaziale Keplero ( il cacciatore di esopianeti della Nasa) ha scoperto, a 500 anni luce, il primo esopianeta alieno più simile alla Terra per dimensioni e temperatura, non per massa. Chiamato Kepler-186f, nella costellazione del Cigno, è il 10% più grande della Terra e il più esterno dei cinque esopianeti fratelli che ruotano intorno alla comune stella nana rossa K-186, più piccola e fredda del nostro Sole. Si presume che Kepler-186f possa essere il primo pianeta roccioso di dimensioni del tutto simili a quelle della Terra sul quale potrebbe scorrere acqua allo stato liquido. Una condizione fondamentale, questa, per poter ospitare forme di vita. L’esomondo si trova nel nostro stesso angolo visuale della Via Lattea. Le sue caratteristiche sono riassunte in una dettagliata Carta d’Identità Galattica pubblicata sulla rivista Science. Secondo i calcoli della Nasa, l’esomondo Kepler-186f completa la sua orbita (anno) in 130 giorni e la distanza che lo separa dalla sua stella è pari a quella esistente, nel nostro Sistema Solare, tra il Sole e Mercurio. Dunque si trova nella fascia verde abitabile, la regione orbitale ‘Riccioli d’Oro’ in cui potrebbe ricevere dalla sua stella la giusta miscela di luce e calore, non troppo né troppo poco, perché l’acqua possa scorrere allo stato liquido, in superficie, sempre che la gravità aliena lo consenta! Per questo motivo Kepler-186f è molto diverso dagli altri esopianeti simili alla Terra finora scoperti che sono, infatti, troppo vicini alla loro stella per poter avere acqua liquida e vantano masse superiori almeno del 40% rispetto alla nostra Terra. Tuttavia pur essendo Kepler-186f simile alla Terra, viene considerato come cugino del nostro mondo e bisognerà attendere la prossima generazione di supertelescopi spaziali e terrestri della Russia, dell’Eso e della Nasa per le osservazioni dirette ad alta risoluzione 4 la tenda - n. 4 - aprile-maggio 2014 Lirica spettroscopica. La scoperta di Kepler-186f è certamente significativa e potrà imprimere la tanto auspicata accelerazione per giungere alla totale liberalizzazione dell’impresa e dell’industria spaziale privata origine di una vera ‘rivoluzione copernicana’già in atto nelle Esoscienze e nella nuova Economia del Credito. da Nicola Facciolini Teramo poesia Si è conclusa l’ottava edizione di Teramo Poesia , tre serate che hanno visto importanti nomi del mondo letterario avvicendarsi nella lettura e nel commento di poesie contemporanee e non, e che, pur nelle ristrettezze imposte dall’attuale situazione economica, hanno sempre mantenuto un livello notevole di indagine poetica e di stile. La poesia è per tutti, non è un prodotto di nicchia, i grandi poeti sono sempre fuori da ogni schema e parlano a ognuno di noi purché, come ci ha ricordato il critico Filippo La Porta, ci liberiamo dalle regole : infatti non è necessario capire tutto il testo poetico semplicemente perché esso è fatto non solo di parole ma anche di suono, ritmo, cioè qualcosa di primitivo, ancestrale, radicato da sempre nell’uomo e che conserva sempre qualcosa di spontaneo e misterioso, nascosto talvolta anche allo stesso autore. La speranza è che la manifestazione continui l’anno prossimo, e che veda anche la partecipazione dei pigri e dei poco motivati, che sicuramente hanno perso un’occasione per entusiasmarsi con linguaggi forse non usuali ma assai coinvolgenti e pieni di fascino. TERAMO E DINTORNI 5 segue da pag. 1 Al Sindaco che verrà Passando alle piccole cose che qualificano un’ Amministrazione: - Controllo delle strade più a rischio con istallazione di telecamere, per individuare i vandali e i violenti. -. Lotta al parcheggio selvaggio tramite dissuasori tipo colonnine, paletti e simili, per salvaguardare i pedoni più deboli, vecchi e bambini. - Rifacimento dell’asfalto in tutta la città, creazione di marciapiedi, sistemazione sì del centro storico ma non solo : esistono anche zone semiperiferiche e periferiche dove vivono persone! - Sistemazione degli spazi rimasti, come piazza S.Agostino e simili, per il passeggio e la sosta delle persone. - Introduzione di dissuasori (rialzi dell’asfalto come esistono in tante città) in alcune strade pericolose. - Proibizione della vendita dell'alcool ai minori di 16 anni come hanno fatto a Padova con un'ordinanza del Sindaco. - Monitoraggio della città nei punti critici(vomito e urine, ma soprattutto ritrovo e piccolo spaccio in luoghi bui) con luci e telecamere. - Multe e monitoraggio serio circa l'igiene e il decoro della città per i proprietari di cani. - Monitoraggio e controllo sugli extracomunitari che, chiedendo l'elemosina, infastidiscono signore sole e/o anziani. - Potenziamento dei servizi in rete per evitare code agli sportelli comunali, con banda larga libera per cittadini e turisti. E poi, una richiesta molto impegnativa ma inderogabile riguarda i collegamenti stradali e ferroviari che aiuterebbero a far uscire Teramo da un notevole e atavico isolamento : - Impegnarsi per aumentare i collegamenti stradali, ferroviari etc. tra Teramo,– Giulianova -Pescara (metropolitana di superficie) e il resto della provincia . - Impegnarsi con gli altri territori interessati a fare della fermata FFSS di Giulianova un nodo di raccordo importante anche per i treni veloci. Solo così si può ripensare la politica culturale che più ci sta a cuore: a) creare eventi importanti valorizzando ciò che già esiste (Premio Teramo, Premio Di Venanzo, Cineramnia, Mostre di rilievo) che possano attrarre persone da fuori, senza accontentarsi della quantità di alcune circostanze più popolari (Vittorio il fenomeno,noccioline, arrosticini e birra). b) sostenere l’impegno permanente settimanale fatto di piccoli ma continui incontri di formazione, incrementando la creatività pur esistente (Salotto culturale, UPM, Auser, Rassegna cinema, Scuole di teatro, Cori musicali, Teramo Poesia, Libri in vetrina). c) limitare le sagre (birra, porchetta, arrosticini e musica pop) in centro storico, anzi riutilizzare e valorizzare gli spazi dell’area ex industriale della Villeroy per fiere e mostre come quella di San Giuseppe o dell’Agricoltura e per concerti di musica rock. Nelle piazze cittadine favorire musica colta, jazz, canto lirico, teatro, cinema all’aperto. f) istituire dei mesi dedicati a tema (marzo dedicato alla riscoperta del patrimonio storicoarcheologico, maggio dedicato ai libri, giugno dedicato alle mostre, luglio all’arte internazionale collegata alla Coppa interamnia, novembre dedicato ai convegni internazionali) con il concorso della popolazione(balcone fiorito, estemporanee di pittura, corto d’autore, riscopriamo i nostri tesori). g) Valorizzare le testate giornalistiche e televisive esistenti con sostegni che diano sicurezza di sopravvivenza. Caro Sindaco, che vuoi essere eletto, puoi impegnarti perché si torni a declinare etica e politica senza deroghe, nel rispetto di tutti i cittadini? La Redazione “Quando l’arte fa volare” Michel Pochet, pittore ed artista eclettico, conversatore estroso e molto francese, mercoledì 30 Aprile ha intrattenuto gli amici della sala di lettura di Via Nicola Palma sul senso dell’arte, o meglio, sulla ricerca che lo impegna da una vita, cioè il senso intimo dell’arte. Riprodurre i dipinti celebri di tutte le epoche e di tutti gli stili come, in una carrellata di sue opere, ci ha mostrato l’artista, non è copiare tout-court, ma cercare appunto il senso interiore, profondo, accennandolo, interpretandolo, cogliendone una qualche angolazione e realizzando, alla fine, un lavoro personale eppure evo- cativo. Attraverso queste riletture, Pochet ci ha fatto fare un gran bel viaggio nel mondo dei suoi maestri ispiratori rivelando una cultura sterminata, che ha usato poi per scegliere uno stile personalissimo, fatto di ritratti su stoffa e tele pregiate, grandi volti triangolari con colori squillanti ed enigmatici occhi a mandorla, essenziali sculture geometriche e vedute di luoghi monumentali nelle varie luminescenze del giorno e della notte. Complimenti ed auguri, maestro! Dalla sala di lettura OSSERVATORIO TERAMANO I pozzi sono avvelenati Ormai, come si dice, la frittata è fatta. Se si volevano avvelenare i pozzi, e questo era il motivo, i pozzi sono stati avvelenati ( la storia scoperta oggi ma denunciata da anni a Bussi dovrebbe aprirci gli occhi, l'acqua che almeno in 700mila hanno bevuto era avvelenata). Dunque i pozzi sono stati avvelenati. Questo è un problema grossissimo che adesso condiziona tutto, dalla politica alla giustizia. Forse adesso bisognerebbe attendere che la polvere si depositi. Ma c'è il tempo di attesa? All'ombra del Duomo c'è odore di elezioni. Tuto è avvelenato per cui uscire dalla plaude senza beccarsi la malaria è impresa da missione impossibile. Bisognerà però provarci lo stesso. Tuttavia non è impegno da poco. Tanti concorrenti, tante illazioni, forse la politica ha lasciato spazio al rancore, per cui è davvero difficile poterci capire qualche cosa. E mi immedesimo in un signore di 88 anni che sfoglia il fac simile per decidere a chi affidare il proprio voto. Siamo sicuri che i programmi diramati sia tutti comprensibili? Siamo sicuri che tutti avranno compreso quanto promesso? Siamo sicuri che la comunicazione sia stata chiara e trasparente? Pozzi avvelenati dovunque e comunque. Nel frattempo però l'aria delle elezioni ha fatto gridare al miracolo. Mezzi movimento terra in moto, cantieri aperti, alcuni per pochi giorni, insomma l'acqua è stata mossa per dare un seguito logico alle promesse elettorali. Su un motore di ricerca si legge di promesse:"Un gran numero di promesse elettorali viene disatteso. Questa circostanza è da molti considerata un grosso problema che disaffeziona il pubblico nei confronti dell'intero sistema politico, incrementando l'apatia e riducendo l'affluenza alle urne. Le promesse elettorali sono state disattese da quando esiste la democrazia e si presume continueranno ad esserlo. Ci sono forti pressioni sui politici affinché facciano promesse che non possono mantenere. Un partito che fa promesse pompose appare più ambizioso, intraprendente ed interessante agli occhi degli elettori in confronto ad un altro che non ne fa, traendone vantaggio". Parole sante. Parole scritte al vento all'ombra del Duomo. Teramo però ha urgentemente bisogno di compiere un balzo in avanti. Di riappropriarsi del suo (importante) ruolo di città capoluogo. Ruolo ricoperto dalla polvere, ruolo che ha ridotto la nostra Teramo a recitare ruoli che poco si addicono al suo passato che di gloria comunque ne ha avuta tanta. A questo credo tutti dovranno guardare e non allo spicciolo pettegolezzo di condominio, al sussurro di sottoveste, al bisbiglio indiscreto e colmo di cattiveria che serve soltanto a mettere in cattiva luce qualcuno. Politica e pettegolezzo, politica che vola basso, pettegolezzo che invece vola alto. Non c'è da stare allegri. Il pettegolezzo è l'autobus dei falliti i quali lo prendono al volo. Gustavo Bruno Vetrina della Libreria Cattolica - Teramo, via della verdura Il libro del mese BERGOGLIO J.M.,Evangelii gaudium - esortazione apostolica sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale. Ed. Paoline 2013, Milano pgg.218 In libreria c’è un’ampia scelta di pubblicazioni aggiornate di catechesi, teologia, pastorale, famiglia, narrativa per ragazzi e anche audiovisivi, CD, DVD, immagini, biglietti, confetti Casimirri e altro ancora. Sono inoltre, in vendita oggetti dell’artigianato POC (Piccola Opera Caritas) e articoli da regalio. È poi disponibile un punto Internet, è attivo il servizio fax, fotocopie, ricarica dei cellulari, carte telefoniche internazionali e pagamento utenze varie. TOYOTA Di Ferdinando Vieni nel nostro salone per scegliere la tua nuova Toyota! V. CAMELI 15/23 - TERAMO (TE) Tel. 0861 242312 Fax. 0861 244034 [email protected] la tenda n. 4 - aprile-maggio 2014 5 MOLESKINE Maggio 2014 6 Salotto culturale Contributo Fondazione Tercas aprile-settembre 2014 Via Niccola Palma 33- Teramo SALA di LETTURA MAGGIO 2014 ore 17.45 Mercoledì 21 maggio La selva delle lettere Giorgio Bassani a cura di Modesta Corda Mercoledì 28 maggio Libro in vetrina Terapia del pensiero di Luciano Verdone U.P.M. Università popolare Medioadriatica Sala ventilij Caraciotti-via Torre bruciata Teramo - ore 17.00 20 maggio 2014 Il panno e la seta nella lettura degli ex voto Alessandra GASPARRONI 27 maggio 2014 Sfilata “La pittura di Pasquale Celommi tra rotte di scambi culturali” - fino al 30 giugno Inaugurata il 12 aprile, presso la Pinacoteca Civica di Teramo , la mostra ‘ La pittura di Pasquale Celommi tra rotte di scambi culturali’. Curatore dell’esposizione Cosimo Savastano, guest star il critico d’arte Vittorio Sgarbi. La mostra antologica dedicata al pittore Pasquale Celommi (Montepagano 1851 – Roseto 1928), con l’esposizione di oltre 60 opere dell’ar- P. Celommi, il ciabattino tista rosetano, alcune delle quali provenienti dall’estero e mai presentate in pubblico finora, è un doveroso contributo alla valorizzazione dell’opera di un artista ingiustamente tenuto in scarsa considerazione dalla critica. Chi osserva le sue opere viene catturato dalla luce, dai colori, dai particolari minuziosi che definiscono il soggetto e lo rendono vivo, vero, reale e al tempo stesso rimandano all’idea di un mondo irrimediabilmente perduto. “Lo stile, o maniera, del Celommi è suo proprio, imitatore di nessuno: puro nel disegno, semplice nelle linee, vero attraente e grandioso nell’effetto che produce il colorito dal pennello facile scorrevole e geniale” scrive Raffaello Pagliaccetti, un amico, uno degli illustri personaggi del mondo intellettuale abruzzese, quali Gabriele d’Annunzio e Francesco Paolo Tosti, Barbella e Paolo De Cecco, e soprattutto Michetti , con i quali Celommi fu in 6 la tenda - n. 4 - aprile-maggio 2014 contatto. Una linea ideale sembra legarlo proprio a Michetti ma va detto che, nell’ambito dell’arte del secondo Ottocento, la pittura di Celommi non è riconducibile ad alcuna corrente pittorica, anche se è evidente quella concezione verista che comunque è presente nella pittura meridionale dell’epoca e di cui restano emblematici Il Ciabattino e L’operaio politico. Dopo l’esperienza decennale vissuta a Firenze, negli ultimi venti anni dell’800 avviene la maturazione artistica del Nostro, quando tornato nella sua Roseto, vi si stabilì definitivamente. Lì scoprì i temi che avrebbero ispirato la sua pittura, i soggetti congeniali a lui ed ai suoi mezzi espressivi: i costumi della sua gente, le scene legate alla vita marinaresca, le marine dalle tenui atmosfere immerse nella trasparenza di una luce dorata. Ma fu anche l’interprete del lavoro e della fatica dei pescatori, dei contadini e degli operai. A tal proposito Vittorio Sgarbi nel suo intervento (quando Sgarbi tiene a freno la spesso inopportuna ed esasperata vis polemica, riesce a conquistare la platea con notazioni, osservazioni,rimandi d’arte che aprono squarci e aiutano a comprendere l’opera che si ha di fronte) ha evidenziato le ragioni che rendono Celommi diverso dagli altri pittori abruzzesi dell’800 ed ha sottolineato particolarmente la differenza tra l’impegno e il ‘sentire’ dell’aquilano Teofilo Patini, e l’osservazione del mondo di Celommi. Patini, pervenendo a risultati di notevole spessore, concorre a rappresentare la condizione umana, l’uomo che deve riscattare la sua dignità e i suoi diritti, che deve uscire da una condizione di minorità sociale, culturale e antropologica per ottenere uguaglianza, rispetto, democrazia, una dimensione cioè più accettabile. Una pittura ‘impegnata’ piena di quel pathos che in Celommi è assente. Egli non avverte la necessità di un riscatto perché vede contadini e pastorelli in una condizione felice: stanno bene così non toccati da ubbie, pensieri e turbamenti. I suoi quadri comunicano emozioni che non feriscono, sensazioni non forti, trasmesse con immagini dignitose della povera gente, la cui compostezza dei sentimenti non turba l’osservatore, sublimando in tal modo il degrado e la tragedia della miseria in una poetica idilliaca ed irreale. Rappresenta una sorta di Arcadia felice, un mondo che va scomparendo. In particolare il pittore guarda i campi e le pastorelle, il rosa e l’azzurro speciali della luce che cade sull’Adriatico davanti a Roseto. Il suo è un mondo senza implicazioni ideologiche. In quegli anni di poetica realistica è difficile vedere tanti sorrisi, tanti giochi d’amore senza peccato come nei suoi quadri. Le opere rappresentano un mondo povero, ma felice, fatto di contadini e pescatori ritratti nei momenti di serenità, di riposo, di feste e rituali, Celommi maestro del mondo agreste e delle marine rende l’immagine dell’Abruzzo nei suoi vari aspetti: la natura incontaminata, il mare quieto o tempestoso, la pace dei campi, l’alternarsi delle stagioni. Forse c’è un po’ di “patinismo” nel Ciabattino e nella Vedetta ma prevale il compiacimento della bellezza contadina. Nel concludere la sua “lezione”, Sgarbi ha voluto ricordare come nei dipinti di Celommi si avverte la presenza di Dio e un Abruzzo felice che, nonostante alcuni pessimi interventi è ancora incontaminato e come tale va preservato col massimo impegno. ZURIGO Gentile Lea Norma sas Via Paris 16 - 64100 Teramo Tel. 0861.245441 - 0861.240755 Fax 0861.253877 7 “Grandi Madri Grandi Donne” mostra a Pescara presso la casa Museo D’Annunzio (fino a giugno) Una mostra di dimensione limitata ad una decina di pezzi ma di grande valore artistico-antropologico si è inaugurata a marzo nella casa natale di Gabriele D'Annunzio a Pescara. Il filo conduttore è la donna come madre generatrice dell'universo, nutrice e vivificatrice della natura vista anche nel suo ciclo di amore e morte dalla Preistoria al Rinascimento attraverso reperti rinvenuti in Abruzzo. L'abruzzesità delle testimonianze artistiche ed il tema oggetto di rappresentazione non sono le uniche motivazioni a giustificare il sito della mostra: determinante è infatti la presenza di ben 3 statue di divinità femminili che provengono da Luco dei Marsi, località del serparo padre di Angizia, la matrigna omicida della tragedia dannunziana "La fiaccola sotto il moggio". La prima, una dea in trono non bene identificata ma compatibile con la Dea Angizia, compare nella locandina della mostra assieme al gruppo di S.Anna, la Madonna e il Bambino (sec. XIV); la seconda rappresenta Demetra/Cerere; l'altra è Afrodite/Venere (entrambe del sec.II a.C.). Denominatore comune, pur nelle diverse sfere di competenza per la protezione dai morsi dei serpenti, per l'incentivo alla fertilità delle messi e per lo stimolo all'amore sensuale e fecondatore, è l'archetipo misterico della Magna Mater di cui parla anche lo stesso D'Annunzio nelle Laudi, la Madre Terra. Presente in tutte le civiltà fin dall'età paleolitica, assume nomi diversi: Iside e Nana in Africa; Ninhursag, Cibele e Anahita in Asia; Quan-Yin in Cina; Durga in India; Abito di serpente in America; Gea e Athena in Grecia; Cibele, Bona Dea, Minerva in Italia; per gli Etruschi Mater Matuta; Astarte in Spagna; Brigit in Irlanda; Lada in Russia.Matrice di vita primordiale, racchiude nel suo termine latino humus la stessa radice etimologica di homo, a sottolineare il ciclo di nascitamorte-resurrezione collegato alle attività umane come la semina e la raccolta delle messi, o alle risorse della natura come l'acqua delle fonti, i frutti e i bo- schi che assumono tutti un valore sacrale. Il primo reperto della mostra di Pescara è un ciottolo paleolitico con segni in ocra rossa, accenno stilizzato forse di panneggio, caratterizzato da protuberanze informi che evocano gli attributi sessuali. Richiama altre testimonianze antropomorfe dette "Veneri", come la Venere di Willendorf (2400-2600 anni fa) e presenta analogie con l'idoletto neolitico da Popoli nell'accentuazione delle forme femminili. Come madre nutrice è invece atteggiata la Kourotrophos di Cansano (Aq), risalente forse al IV sec. a.C., abbigliata alla greca con chitone ed himation. Gli studiosi hanno interpretato la diffusione della Grande Madre nelle espressioni artistiche e nella teologia di tante civiltà come la conferma dell'ipotesi di un matriarcato delle società primitive sempre in guerra e sempre in peregrinazione, dettato da esigenze sociologiche di istituire un punto di riferimento stabile e sicuro per i figli e la natura. Le donne erano sacerdotesse, padrone e guide della casa, capi di clan, anche guerriere che assicuravano la nutrizione, la conservazione e la continuità della specie, la legge egalitaria. Secondo Robert Graves, poeta e non storico, a questa figura di donna si deve anche l'origine del mito e della poesia, una Magna Mater che lui definisce "Dea Bianca", che altro non è se non il suo corrispettivo nella mitologia celtica. Con il Cristianesimo, le dee pagane trasferiscono le loro prerogative e le loro sfere di competenza nelle virtù miracolistiche di Madonne e Sante.. Ce ne sono alcune, in questa mostra, di grande realismo e nello stesso tempo di forte misticismo nela postura ieratica: la Madonna delle concanelle (1262); la Madonna in trono con Bambino, la Madonna di Ambro, la Madonna del latte ( metà del sec. XIII); la Madonna orante (sec.XV). Elisabetta Di Biagio. Leggendo ‘La figlia di Iorio’ Rappresentata nel 1904 “La figlia di Iorio” offre al lettore la visione più compiuta e sofferta della “naturalità paesana” del D’Annunzio. “Tragedia pastorale” essa fu definita da coloro che, purtroppo assai semplicisticamente, a tutt’oggi l’hanno esaminata nel quadro della ponderosa e dispersiva produzione del poeta pescarese. Ma il termine delinea, senza “vivere” e specificare nella sua essenza profonda, soltanto la veste esteriore di questa mitica favola in cui si incontra verso dopo verso, parola dopo parola, immagine dopo immagine, un mondo sconosciuto eppure sempre “saputo”, passato e inesorabilmente presente, fermo e in continuo movimento per questo “popolo” dalla spiritualità particolare che continua a coltivare la sua primigenia tradizione culturale e vitale nella sua striscia di terra tra “mare e monti”. Fin dalla epigrafe introduttiva, D’Annunzio chiama a testimoni della sua “figliolanza” (mai rifiutata) i più inveterati e arcaici valori della sua stirpe: la terra, la famiglia, i morti, la gente in un’atmosfera di incantato presente, di eterno cominciamento. Da una sua lettera abbiamo notizia della causa contingente che lo portò alla composizione della favola: un quadro di Francesco Paolo Michetti del 1895 in cui è rappresentata con i caldi e sferzanti colori accesi del naturalismo più esasperato la scena della mietitura con la protagonista meretrice spiccante in primo piano. Essa narra la storia di Mila che, per sfuggire all’inseguimento dei mietitori imbestiati, si rifugia nella casa di Aligi dove si stanno celebrando le nozze del giovane con Vienda e vi porta la disgrazia. Infatti di lei si innamora il giovane che intravede alle spalle della meretrice la figura dell’Angelo custode nel momento in cui, istigato dalle donne di casa, sta per scacciarla. Aligi sogna di recarsi a Roma per chiedere al Papa lo scioglimento del suo matrimonio e sposare Mila. Anche il padre Lazaro desidera Mila e, per sottrarla alla sua violenza, Aligi commette il parricidio del quale si accuserà Mila per espiare nel martirio il suo peccato. La rappresentazione valorica ed idealmente sofferta che D’Annunzio ci da del dipinto michettiano può essere considerata ulteriore testimonianza della profonda, intima e magica umanità vissuta sulla scena da personaggi che perdono ogni loro teatralità per divenire creature vive e doloranti di un mondo arcaico e primitivo in cui i valori intimi della stirpe si perpetuano nei gesti, negli usi, nei costumi, nei nomi e nelle stesse cadenze aspre e risonanti del linguaggio. D’Annunzio è Aligi, è Candia, è Lazaro, è Mila, nessun personaggio è a lui estraneo, bensì, partecipa di quella sua autentica, viva anima abruzzese che lo rende, al di la degli artifici, delle estetizzanti ricerche, delle esaltazioni retoriche e prive di contenuto, un vero poeta, non soltanto un “dilettante di sensazioni” (Croce)Nello snodarsi stesso delle scene balza carico di tutto il suo calore “antico” lo spirito di quest’uomo che non ha mai cessato, perché gli è fondamentalmente impossibile, di essere figlio della sua terra di cui celebra in questa favola tragica tutta la verità passata, presente e futura, i sentimenti, i valori, i miti, le leggende. Lo stupore immoto e fatale da cui Aligi è posseduto è frutto di quel tremore e timore incontrollato conseguente ai presagi e alle circostanze che lo hanno forzatamente distaccato dal preordinato corso atavico degli eventi. La violenta sensualità, la brutalità dirompente, la crudele esibizione del diritto di vita e di morte sul figlio fanno di Lazaro una figura in cui vive quell’arcana ferinità primitiva dell’uomo prigioniero del peccato originale; sono due personaggi, due motivi che si scontrano, soltanto apparentemente, perché generati da quella profonda storica “naturalità” umana che richiama alla memoria l’atmosfera torbida e innocente, oscura e luminosa, sensibile e sentimentale, corposamente realistica del romanzo russo, sopratutto Dostoevskij. Uno dei valori più sacri e profondi dello spirito abruzzese sta alla base di tutta la vicenda e da esso si dipartono, come raggi da un nucleo vivente, tutte le altre motivazioni: la famiglia. È la sacralità della famiglia che prende a sua protagonista Candia della Leonessa (nella scelta stessa del nome la scintillante forza che promana da quel Candia, candore, e dall’immagine del fiero animale) sacerdotessa dai modi e atti che richiamano la austerità e il mistero delle divinità pagane e, insieme, la ieratica solennità delle liturgie cristiane; e una rappresentazione liturgica essa amministra: le nozze. La prima parte del dramma naturalistico a cui assistiamo è centrata su queste nozze; i personaggi che si avvicendano sulla scena sono tutte donne che srotolano una barbarica sequenza di riti e atti in cui serpeggia vivissima la primigenia superstizione in cui la religiosità è divenuta mistero, arcano incombente, fato, destino che si ripete nel tempo con gesti sempre uguali. È quasi come se l’autore abbia voluto sottolineare una sua visione sacrale della donna nella famiglia, essa è la continuatrice della stirpe, colei che trasmette all’altra donna il sacro crisma di quel mistero di cui è custode riconosciuta; l’uomo stesso è lontano da questo sacro rito, è quasi figura di secondo piano, concorrente a convalidare la sacralità di questo valore del focolare, ma non perciò gliene è concessa la custodia. ”(segue a p.8). Nella celebrazione del rito l’uomo è testimone muto, quasi passivo, (Aligi), o lontana presenza dedita al lavoro, quindi suggerente, quasi, il legame intercorrente con quella famiglia più grande che è la società di cui egli è la rappresentazione fisica (Lazaro); perciò lo troviamo protagonista nella se(segue a pag. 8) la tenda - n. 4 - aprile-maggio 2014. 7 SATURA LANX 8 Gusto letterario “Calò il sole e si adombrarono tutte le vie: essa [la nave] giunse ai confini d’Oceano sovrappongono al futuro prossimo; l’indovino parla di un viaggio estremo dalla corrente profonda”. Il viaggio più difficile e misterioso di Odisseo co- che l’uomo compirà dopo essere tornato ad Itaca (“arriverai fra uomini che mincia al tramonto, mentre sta per scendere l’oscurità. Il buio che avvolge non conoscono il mare né mangiano cibo condito con sale né sanno di navi dalle la nave dei Greci non è però una condizione temporale legata al calare del guance vermiglie o di maneggevoli remi che delle navi sono le ali”). Anticlea inSole, ma è la metafora dell’eterna negazione della luce, è il simbolo della vece parla del dolore dell’assenza, di una vecchiaia malinconica che annega lotta tra la vita, intesa come energia nel suo divenire, e la morte che è l’an- inesorabilmente nell’autoisolamento e nell’inerzia (“ non fu la saettatrice acuta nullamento dell’essere. di vista ad uccidermi in casa colpendomi con le sue frecce Il Greco e i compagni penetrano nel mondo dei miti (…) ma fu la nostalgia di te, delle tua saggezza, del morti in maniera quasi inavvertita, come se il viaggio “Quando ebbi implorato con preghiere e con tuo animo gentile, luminoso Odisseo, che mi strappò la che essi hanno intrapreso fosse una logica prosecu- suppliche le stirpi dei morti, afferrate le bestie vita dolcissima”). L’emozione momentanea del rizione delle loro avventure. L’eroe non è solo in que- le sgozzai sopra la fossa, e scorreva il sangue cordo culmina nell’invocazione della donna, in quel scuro come nuvola “. sta impresa, ma è accompagnato dagli altri che ‘luminoso Odisseo’, un grido affettuoso che per un hanno il compito di trascinare gli animali prescelti istante fa risplendere la notte dell’eternità per stemOmero ,Odissea XI, 34-36 perarsi nel vano abbraccio tra figlio e madre (“ tre nel luogo deputato al sacrificio. Tutti partecipano all’ecatombe: Odisseo sgozza gli animali mentre volte mi slanciai, il cuore mi spingeva ad abbracciarla, e esorta i compagni a completare il rito (“ e allora spronai i compagni a scuoiare tre volte mi volò via dalle dita simile ad ombra o sogno. Strazio più acuto mi scene a bruciare le bestie che giacevano al suolo sgozzate col bronzo spietato e a pre- deva in fondo al cuore”). gare gli dei”). L’Oltretomba omerico è lontano dalla dinamicità volontaristica Il pathos scaturito dall’incontro tra Odisseo e Anticlea si esaurisce in un e trascendente dell’ Inferno dantesco: non ci sono selve intricate e oscure e nuovo motivo che si sovrappone all’episodio precedente: “ Così noi due ci neanche mostruosi animali da affrontare. Esiste solo la rassegnata dimen- scambiavamo parole quando arrivarono, sospinte dalla splendida Persefone, tutte sione della definitiva incompiutezza sancita dalla Morte. Una nebbia oppri- le donne che furono spose e figlie di principi”. Figura invisibile per tutta la durata mente avvolge ogni cosa di uno statico grigiore dal quale emergono le anime del canto, Persefone anima però poeticamente il mondo sotterraneo di cui dei defunti: “ Erano giovani spose e adolescenti e vecchi carichi di pene e tenere parla Omero. Dea silenziosa e potentissima, essa si pone come discrimine vergini con l’animo fresco di duolo, e molti trafitti da aste puntute di bronzo, guer- estremo tra il mondo dei vivi e quello dei morti, appartenendo ad entrambi. rieri uccisi in battaglia che ancora portavano le armi sporche di sangue”. Monadi Sottratta alla madre Demetra, dea delle messi, da Ade, sovrano dei defunti dimentiche di se stesse, quasi automi, le anime possono interagire con Odis- “ Persefone dalle sottili caviglie è la freccia flessibile che Afrodite aveva ingiunto seo solo se è loro permesso di bere il sangue delle vittime sacrificali; la vitale ad Eros di scoccare su Ade (…)*. Per volere divino la fanciulla è destinata a sostanza ha infatti il potere di richiamare alla memoria dei trapassati il ri- trascorrere sei mesi sulla terra e sei mesi nel Regno dei Morti e quando Percordo dei vivi e del mondo che essi hanno dovuto lasciare. L’attenzione del- sefone sedette sul trono di Ade (…) la morte subì un mutamento (…). I due regni l’eroe si focalizza su due figure in particolare: quella dell’indovino Tiresia e [ quello dei vivi e quello dei morti] erano sbilanciati, ora, e ciascuno si apriva verso quella della madre Anticlea. I due spiriti giungono, attirati dall’odore del l’altro”*. Odisseo che impone il sacrificio del sangue per i morti *è l’uomo che sangue. Beve per primo Tiresia, il quale deve predire all’eroe il suo destino; oltrepassa i limiti del “ Sempre Immutabile”. Come la sposa di Ade, egli non successivamente è l’anziana donna a compiere il rituale della libagione. Il porta con sé solo il sangue “ nero dei sacrifici, non più il sangue a cui i morti si legame affettivo tra madre e figlio che dovrebbe muovere da un sentimento abbeverano con avidità”*, ma porta anche il suo, quello “di chi continua ad esspontaneo e imperituro, è invece sottoposto al cerimoniale delle rigide re- sere pienamente vivo, anche nel palazzo della morte.* gole ultraterrene. Futuro e passato si incontrano nel mondo dei morti: Tire- * Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia. sia predice al greco il suo travagliato ritorno in patria, criptiche immagini si B.D.C. (da p. 7- Leggendo ‘La figlia di Iorio’) conda parte quando il delitto, il peccato, l’offesa a “quel termine antico che innalzarono i padri” coinvolgerà non solo la cellula familiare, ma la società stessa che scioglierà il suo incubo nel grido del coro: “di nostra gente non viene il parricida. A Dio gloria!E' questa coralità senza tempo che ha le sue radici nelle leggende e nei miti più arcani dei padri, che si esprime nelle formule rituali ricorrenti, è la saggezza, la religiosità dei padri che si ripete, si manifesta,si estrinseca in toni, in parole, in atti che hanno vivificato e sostenuto secoli e millenni di vita, che hanno generato e accompagnato le manifestazioni sempre uguali e sempre nuove della vita dell'uomo che perciò si trasformano in poesia ma poesia della vita stessa dell'umanità. La cantilena cadenzata che ri- Mensile fondato da don Giovanni Saverioni Direttore responsabile Attilio Danese Via Torre Bruciata, 17 64100 Teramo corre nella prima parte della rappresentazione, le nozze, trova il suo corrispondente nelle antiche formule che accompagnano il parricida; dal tono sereno, fresco, ridente della cantilena delle ragazze, alle formule ritmate, austere delle donne che amministrano la cerimonia nuziale, dal roco vociare dei mietitori oppressi dallo sfolgorante, impietoso sole estivo, alle cadenzate, ansanti formulazioni del finale della tragedia, assistiamo allo slargarsi dei toni di un unico motivo: il linguaggio popolare, in cui vive, soffre, gioisce, prega, sogna, spera l'uomo di tutti i tempi a cui D'Annunzio ha saputo dare in questo particolare momento della sua attività letteraria tutta la sua anima, perché della sua anima egli ha scritto: la sua terra d'Abruzzo. Modesta Corda Ricordando Don Domenico Taraschi Mons. Domenico Taraschi è tornato alla casa del Padre, alla bella età di 95 anni e ha lasciato la Sua Sant’Atto, dove ha esercitato il servizio di parroco per oltre 60 anni. Giovanissimo prete in piena guerra(1943) ha seguito la formazione e il servizio alla chiesa diocesana come Vicario generale di due Vescovi (Mons. Battistelli e Mons. Conigli). Va ricordato anche per l’opera meritoria di aver riaperto il Convento benedettino delle suore sui resti dello storico convento benedettino, il cui abate nell’anno mille era appunto S.Attone. Nel frattempo le suore si sono staccate da Offida e sono divenute autonome con fioritura di nuove vocazioni alla clausura. Questo sevizio di formazione è stato caro a don Domenico tutta la vita. Lo ricordano i familiari e i parrocchiani cui vanno le condoglianze de La Tenda. La Tenda vivrà con il tuo abbonamento: annuale 15 euro, sostenitore 20 euro, cumulativo con la rivista “Prospettiva persona” 37 euro c/c n. 10759645 intestato a CRP, Via N. 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