Notiziario settimanale n. 546 del 07/08/2015
versione stampa
Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella
versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace
09/08/2015: Anniversario del lancio della bomba atomica su Nagasaki
avvenuto il 9 agosto 1945.
12/08/2015: Per non dimenticare: 12 agosto 1944, la strage nazifascista di Sant'Anna di Stazzema (LU)
CHIAMATEMI STREGA
Non importa chi sono. Non importa come mi chiamo. Potete chiamarmi
Strega.
Perché tanto la mia natura è quella. Da sempre, dal primo vagito, dal
primo respiro di vita, dal primo calcio che ho tirato al mondo.
Sono una di quelle donne che hanno il fuoco nell’anima, sono una di
quelle donne che hanno la vista e l’udito di un gatto, sono una di quelle
donne che parlano con gli alberi e le formiche, sono una di quelle donne
che hanno il cervello di Ipazia, di Artemisia, di Madame Curie.
E sono bella! Ho la bellezza della luce, ho la bellezza dell’armonia, ho la
bellezza del mare in tempesta, ho la bellezza di una tigre, ho la bellezza
dei girasoli, della lavanda e pure dell’erba gramigna!
Per cui sono Strega.
Sono Strega perché sono diversa, sono unica, sono un’altra, sono me
stessa, sono fuori dalle righe, sono fuori dagli schemi, sono a-normale…
sono io!
Sono Strega perché sono fiera del mio essere animale-donna-zingaraartista e … folle ingegnere della mia vita.
Sono Strega perché so usare la testa, perché dico sempre ciò che penso,
perché non ho paura della parola pericolosa e pruriginosa, della parola
potente e possente.
Sono Strega perché spesso dò fastidio alle Sante Inquisizioni di questo
strano millennio, di questo Medioevo di tribunali mediatici e apatici.
Sono Strega perché i roghi esistono ancora e io – prima o poi – potrei
finirci dentro.
Monologo di Barbara Giorgi scritto per Franca Rame
Segnalato da: Paolo Guidi
Indice generale
Evidenza...........................................................1
Parco di Castagnara: musica e sogni (di AAdP, Periferie al Centro) ...........1
TAV Torino-Lione, i conti non tornano (di Maurizio Bongioanni).............1
Approfondimenti.............................................3
Un miliardo l’anno: così accogliere i migranti fa girare l’economia italiana
(di Redattore Sociale)................................................................................ 3
Come trasformare le migrazioni in una opportunità (di Luigi Manconi) ....4
Il Jobs Act tra confusione, propaganda e ideologia (di Enrico Pugliese) ...5
L’inganno del lavoro (di Francesco Gesualdi)............................................ 7
L’avanzata delle destre estreme e le responsabilità della sinistra liberale (di
Matteo Volpe)............................................................................................ 8
La enciclica “Laudato sii” puntata e ristretta (di Antonino Drago) .............9
Il carrello della spesa? Riempiamolo di biodiversità! (di Slowfood.it) .....10
Evidenza
Parco di Castagnara: musica e sogni (di AAdP,
Periferie al Centro)
Al parco di Castagnara, giovedì 30 luglio, una serata intensa: alle 19.00 il
terzo incontro di progettazione partecipata, promosso dal Comune per
coinvolgere cittadini e associazioni nella definizione di un progetto di
investimento per il parco stesso; alle ore 20.00 una cena condivisa dove
ognuno porta qualcosa e lo mette in comune; alle 21.30 festa con musica.
Quando si levano le prime note di una canzone e parole ritmate corrono
sullo schermo, subito le gambe si muovono al ballo e bravi cantanti
improvvisati si esibiscono tra gli applausi di un piccolo pubblico: molte le
famiglie con bambini e cani mansueti. Anche la luna piena sembra
sorridere. E' successo di nuovo. L'Accademia Apuana della Pace e la rete
di associazioni Periferie al Centro, assieme ai cittadini del quartiere, hanno
portato anche quest'anno uno spettacolo di karaoke nel parco: e gli abitanti
dei palazzi hanno risposto e sono scesi a fare festa.
Per animare un parco od una piazza per una sera occorrono un budget di
spesa modesto e pochi ingredienti: un passa-parola, un bravo
professionista con la necessaria attrezzatura musicale e - nota dolente - la
corrente elettrica, di cui questo parco è privo; per questa volta il Comune
ha effettuato un allaccio provvisorio. Per le successive serate staremo a
vedere. Sono in programma infatti una tombolata il 13 agosto e
l'esibizione di un gruppo di samba il 27 agosto.
Certo l'animazione di qualche serata non risolve i problemi di una
periferia abbandonata. Serve però a richiamare l'attenzione. Serve a far
sperimentare ai residenti che far delle cose insieme è possibile ed è bello.
Serve a creare aggregazione. Serve infine a tener viva un'utopia a cui le
associazioni organizzatrici credono profondamente: se gli abitanti si
riappropriano del loro territorio, lo sottraggono alla piccola o grande
delinquenza, alle vittime del disagio sociale e al degrado.
Il problema è crederci: credere che è questa la forma più efficace di
prevenzione, a Castagnara come in tutte le periferie. Ed in una cittadina
piccola come la nostra, dove anche le criticità sono più contenute rispetto
a quelle dei grossi centri urbani, una decisa volontà politica e pochi
investimenti economici potrebbero risultare sufficienti … e vincenti.
La scelta fatta quest'anno dall'Amministrazione comunale di inserire nel
Bilancio partecipato 6 parchi pubblici di periferia accomunati da carenza
di infrastrutture e incuria sembra indicare una prima inversione di
tendenza e la scelta di restituire visibilità e centralità alle periferie.
Vogliamo credere che sia così. E sperare che non sia il solito fuoco di
paglia di una calda estate...
Servizio
fotografico
dell'evento
a
cura
di
"Studio
8":
http://www.aadp.it/index.php?
option=com_phocagallery&view=category&id=62:periferie-al-centro2015&Itemid=118
Notizie dal mondo..........................................11
Sito Studio 8: http://studio-otto.com/
Patto militare Grecia-Israele (di Manlio Dinucci) ....................................11
Il conflitto tra la Turchia e i curdi (di Robert Fisk) ...................................11
Il sistema della giustizia militare israeliano – una catena di montaggio per
la detenzione di massa (di Amira Hass).................................................... 12
Fuori dal coro: che montagna di ipocrisia... (di Campagna Ponti e non
muri, Pellegrini di Giustizia 2015)........................................................... 13
TAV Torino-Lione, i conti non tornano (di Maurizio
Bongioanni)
1
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2319
Gli 813 milioni di euro di finanziamento europeo concesso a fine giugno
non rappresentano che il 3 per cento dell'investimento necessario per la
realizzazione dell'Alta velocità tra l'Italia e la Francia. Coprono -e in parte-
solo quelli della tratta transfrontaliera del tracciato. In un documento di
febbraio 2015, inoltre, un organo della presidenza del Consiglio dei
ministri avvertiva che il costo complessivo dell'opera era ancora
indeterminato
A fine giugno la Commissione europea ha annunciato un finanziamento
pari a 813 milioni di euro per la realizzazione della tratta Alta Velocità
Torino-Lione. In molti hanno sottolineato come l'UE abbia così deciso di
"finanziare" il 40 per cento dei lavori, rispettando le previsioni. Ma il
costo stimato dei lavori per il Tav Italia-Francia è di circa 26 miliardi di
euro, di cui 813 milioni rappresentano appena il 3%. ?Ciò significa,
nuovamente, che c'è molta confusione intorno ai conti -che non tornanodella AV ferroviaria, e che la vicenda sia un pochino più complessa.
Intanto è necessario dire che il cofinanziamento europeo riguarda
solamente la tratta transfrontaliera, cioè la parte di tunnel a cavallo tra i
due Stati. Il costo totale di tale galleria è di almeno 8,84 miliardi anche se,
come abbiamo provato a spiegare sul numero di febbraio, sarebbe più
corretto parlare di 11,97 miliardi. ?
Per questa tratta trasnfrontaliera i proponenti assicuravano di poter contare
su un contributo europeo del 40%, quindi all'Italia sarebbe restato da
pagare poco più di 4 miliardi e alla Francia poco più di 3 (questo in virtù
del fatto -è bene ricordarlo- che l'Italia copre il 58% dei costi di questa
tratta, nonostante sia per il 78% in territorio francese).
Ora, il 24 febbraio 2015, pochi giorni dopo la costituazione di TELT
(Tunnel Euralpin Lyon Turin) -il soggetto giuridico che gestisce il
progetto TAV, dopo averlo ereditato da LTF- viene inviata una lettera di
richiesta di cofinanziamento alla Commissione europea, firmata dai
ministeri delle Infrastrutture e dei Trasporti italiano e francese, in cui si
dichiara che per quanto riguarda il periodo 2014-2020 i due Stati
avrebbero speso 3,06 miliardi di euro per costruire la prima parte della
tratta transfrontaliera. ?Per questo motivo, la richiesta di cofinanziamento
all'UE è di 1,28 miliardi (il 40% di 3,06 miliardi). Invece la Commissione,
come si può leggere nella lista dei progetti cofinanziati in tutta Europa,
"valuta" e considera ammissibile per quella prima tratta non una spesa di
3,06 miliardi ma "solo" 1,9. Ne consegue che il contributo scende a 813
milioni. Decisamente meno rispetto a quanto si aspettavano i proponenti:
stiamo parlando infatti di 467 milioni di euro in meno rispetto alle
previsioni: il contributo, cioè, è pari al 26,57% del costo "certificato" da
TELT, e non al 40%.
Continuiamo con i calcoli: se il 40% del contributo vale 813 milioni, ne
consugue che l'opera totale dovrebbe costare -cioè aggiunte le risorse
francesi e italiane- 2,03 miliardi al 2020 invece dei 3,06 dichiarati. Manca
un miliardo, rispetto alle stime del proponente.
Mario Virano, direttore generale di TELT dopo esser stato presidente
dell'Osservatorio sulla Torino-Lione, in un comunicato stampa preferisce
soffermarsi sull'ottenimento del finanziamento europeo invece di spiegare
questa “mancanza”: "Stratta di un risultato straordinario che conferma
l'importanza strategica della Lione-Torino per l'Europa. Ci impegneremo
per iniziare i lavori principali entro il 2017".
Nonostante l'ottimismo del Direttore rimane da spiegare perché l'Europa
non abbia valutato il costo dell'opera da qui al 2020 in 3,06 miliardi.
Secondo l’ufficio stampa della società italo-francese, interpellata da
Altreconomia, in realtà, la “Commissione, dovendo gestire un numero
elevatissimo di adesioni (681 richieste, nda) ha deciso di anticipare, per
tutti i progetti, l’orizzonte di riferimento al 2019 anziché al 2020,
prevedendo però, già nel 2018, il lancio di una nuova tornata di
finanziamenti”. ?Perciò, secondo TELT, il resto della cifra verrà assicurata
da nuove tranche che completerebbero la parte mancante della copertura
finanziaria richiesta in origine, arrivando così a coprire i 3,06 miliardi
domandati all'UE. Tali tranche aggiuntive tra il 2018 e il 2019 sarebbero
“garantite dall’impegno politico-programmatico della UE per l’intera
opera”.
Di questo impegno però non c’è traccia. Nel documento “Proposal for the
selection of projects” reso pubblico il 10 luglio e contenente le valutazioni
dei progetti, non c’è alcun riferimento al fatto, come sostenuto da Virano,
che i fondi sono da intendersi solo fino al 2019. Lì c’è scritto "end date
December 2020".
2
Abbiamo chiesto direttamente alla Commissione europea, ma al momento
della pubblicazione di questo articolo non ci è pervenuta alcuna risposta.
E non è nemmeno stato possibile -come da noi richiesto- consultare il
dossier della richiesta all'UE da parte della TELT. Tutto ciò che ci è dato
sapere, come riporta nella sua risposta l’ufficio stampa, è che “ha risposto
al bando europeo che chiedeva di evidenziare anno per anno le opere ed il
conseguente fabbisogno finanziario per il periodo 2014/2020, ovvero il
periodo di vita istituzionale dell’attuale Commissione Juncker” e di come
la cifra richiesta (3,06 miliardi) sia stata certificata “a opera di un
raggruppamento di engineering belghe scelte a valle di una procedura
pubblica di selezione a livello europeo”.
"Lo studio di 440 pagine sul Corridoio mediterraneo che la Commissione
europea ha pubblicato a dicembre 2014 -spiega Luca Giunti, guardaparco
e attivista NoTav- afferma che il percorso tra la Spagna e l’Ungheria
presenta criticità diffuse che vanno dal diverso scartamento ai software di
segnalazione, dai nodi urbani alle interconnessioni, dalle tratte mai
progettate alle scelte divergenti che ogni Paese adotta". Insomma, il
pezzettino tra Torino e Lione non sembra l’unico incerto, anzi.
"Spulciando i dati raccolti, si apprende poi che tra Spagna e Italia le merci
oggi viaggiano via mare per i 2/3, e quindi non è ragionevole spostarle
sulla ferrovia. Oppure che tra Francia e Italia le merci percorrono per il
60% distanze minori di 200 chilometri, e quindi non è plausibile che in
futuro sfruttino i treni". ?Intanto l’Europa riduce i fondi, come aveva già
fatto nel 2013 per il cunicolo di Chiomonte e in Francia la Corte dei Conti
prima e il Comitato di Mobilità poi hanno declassato la Torino-Lione a
opera “non prioritaria”.
Delle indeterminatezze italiane, invece, si parla poco. Alcune sono
indicate all'interno degli Appunti che il Dipartimento per la
programmazione e il coordinamento della politica economica ha
indirizzato al Governo il 19 febbraio 2015, nell'ambito dell'approvazione
del Progetto definitivo del "Nuovo collegamento internazionale Torino
Lione Parte comune italo-francese Sezione transfrontaliera Tratta in
territorio italiano". ?"Le opere che compongono il progetto della tratta in
territorio italiano non hanno, da sole, i requisiti di funzionalità -spiega il
CIPE- posto che quest'ultima è assicurata dalla realizzazione della tratta in
territorio francese della Sezione internazionale". L'del progetto, inoltre,
"non consente comunque l’avvio dei lavori definitivi della parte comune
italo-francese, che resta subordinato all’approvazione di un protocollo
addizionale "che dovrà tenere conto in particolare della partecipazione
definitiva della UE al progetto". ?È piena di se, la strada dell'Alta velocità
tra Torino e Lione. Sempre il DIPE, riporta poi in grassetto sul suo
documento: “Rimane pertanto indeterminato l’importo a carico dell’Italia
dell’intera Sezione transfrontaliera di cui il progetto costituisce uno
stralcio non funzionale”. ??E dopo aver contestato l’utilità della stazione
di Susa, finisce raccomandando, ancora in grassetto: “Occorre che siano
indicati i costi, ancorché stimati, e la relativa fonte di provenienza, della
Sezione internazionale e della Parte comune italo-francese”. ?Luca Giunti
fa notare che pure il ministro Padoan è stato severo con l’opera:
nell’Allegato infrastrutture al Documento di finanza 2015 il ministro
afferma che l’opera non può essere finanziata dai privati, considerato il
troppo basso tasso interno di rendimento per investitori di mercato ma che
“occorrono contributi pubblici comunitari e nazionali a fondo perduto
accompagnati da condizioni favorevoli di indebitamento”.
Le voci critiche non si fermano qui. “La TELT dovrebbe impegnarsi a
spendere 2 miliardi di euro (condizione per poter ottenere il
cofinanziamento naturalmente, nda) in 2 anni e mezzo quando in
precedenza LTF ha speso 700 milioni in 14 anni!”scrive il Movimento
NoTav Presidio Europa.
Mentre secondo il quotidiano economico francese Les Echos la decisione
di ridurre il costo ammissibile dell'opera da qui al 2020 può essere
spiegato in due modi: prima di tutto che Bruxelles avrebbe stabilito che
francesi e italiani avevano una visione molto ottimistica dello stato di
avanzamento dei lavori all’orizzonte 2020 e gli importi da sostenere entro
quella data sarebbero stati più vicini ai 2 miliardi di euro, considerato che
un certo numero di difficoltà giuridiche sono ancora da superare. Secondo
l’autorevole giornale francese, però, questa prudenza di bilancio
servirebbe anche per inviare un messaggio alla Francia: infatti, per poter
beneficiare di sovvenzioni comunitarie, i governi devono specificare come
intendono finanziare la propria quota.
Così, se da una parte l'europarlamentare Karima Delli, membro dei Verdi,
ha commentato la decisione europea dichiarando che “la somma di
cofinanziamento annunciata sembra fuori luogo e non garantisce il
progetto a meno di non mettere in pericolo le nostre finanze pubbliche per
decenni”, dall’altra, come si può leggere nella domanda di finanziamento,
l'Italia avrebbe già “archiviato” 2,5 miliardi: sono i fondi stanziati ogni
anno da qui al 2027 così come previsto da una Legge finanziaria del
Governo Monti. Intanto in Francia si pensa piuttosto di pagare il tunnel
aumentando le tasse ai trasportatori su gomma (eurovignette) che già
utilizzano i trafori di Ventimiglia, Frejus e Monte Bianco.
C'è, infine, una ultima criticità, come spiega nuovamente il comitato
NoTav Presidio Europa: se i due Stati iniziassero i lavori adesso
potrebbero violare due articoli del Trattato di Roma da loro stessi
sottoscritto il 30 gennaio 2012, quello che regola la realizzazione della
tratta Torino-Lione: il primo sarebbe l'articolo 16, in quanto “i due
Governi hanno deciso di iniziare i lavori senza disporre della totalità dei
finanziamenti, quindi in assenza di costi vincolanti e di impegni di spesa
certi, come lo esigerebbe “una gestione sana e attenta del denaro
pubblico” (Articolo 126 del TFUE); l'articolo 18, invece, sarebbe stato
disatteso affidando certificazione dei costi “a un subappaltatore invece che
a un soggetto terzo indipendente: il subappaltatore in questione è la
società GDF Suez Tractebel, che dichiara di aver lavorato per Lyon Turin
Ferroviaire dal 2002 al 2006 e dal 2009 al 2013”.
(fonte: Altreconomia - segnalato da: Centro Studi Sereno Regis)
link: http://www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=5235
Approfondimenti
Immigrazione
Un miliardo l’anno: così accogliere i migranti fa
girare l’economia italiana (di Redattore Sociale)
Ospitare nei centri chi arriva sulle nostre coste costa oggi fino 980 milioni,
tutti spesi per lavoratori e commercianti italiani. Ma sono ancora tanti
quelli che speculano sulla pelle dei profughi e per essi i controlli sono
ancora scarsi. Parlano Di Capua (Sprar), Albanesi (Capodarco), Mossino
(Piam)
L’accoglienza dei migranti è un business. E non solo per coloro che sulla
pelle dei profughi fanno affari illeciti. Assistere le persone che ogni giorno
arrivano sulle nostre coste, ospitare nelle strutture i richiedenti asilo e i
titolari di protezione internazionale, anche nel rispetto della legge e delle
convenzioni stipulate con le prefetture, muove introiti che favoriscono
innanzitutto gli enti territoriali e aumentano le entrate a livello locale.
Profitti che in alcuni casi sono una vera e propria manna dal cielo,
soprattutto per le zone in cui si soffre più la crisi. Parafrasando un vecchio
spot del governo Berlusconi, insomma, l’accoglienza “fa girare
l’economia”.
980 MILIONI L'ANNO
Secondo gli ultimi dati forniti dal ministro dell’Interno Angelino Alfano, a
giugno erano 78 mila i migranti ospitati nei centri italiani, tra strutture
temporanee (48 mila), sistema di accoglienza per richiedenti asilo (20
mila) e centri governativi (10 mila). Per la loro assistenza lo Stato eroga ai
centri convenzionati una somma media giornaliera di circa 35 euro al
giorno a migrante (in cui rientrano anche i 2,50 euro al giorno del pocket
money che spetta agli ospiti per le piccole spese giornaliere). “Quello dei
35 euro è costo calcolato mediamente per i progetti Sprar. Ma nel tempo si
è attestato come costo medio anche per l’accoglienza straordinaria messa
in pratica dalle prefetture – spiega Daniela Di Capua, direttore dello stesso
servizio centrale Sprar (Sistema di protezione per rifugiati e richiedenti
3
asilo) – Tutte le convenzioni si sono quindi livellate su questo valore
medio. Nel caso dello Sprar, in particolare, il costo viene calcolato in base
al progetto che l’ente titolare presenta al momento in cui partecipa al
bando. Nel presentare il budget ci si adegua anche al costo della vita
locale, ci sono infatti territori in cui i servizi sono assenti e devono essere
attivati, mentre in altri già esistono. Di tutto questo si tiene conto nel
calcolare la spesa”. Stando alle cifre dichiarate dal ministero, dunque, la
spesa massima quotidiana per l’accoglienza è di due milioni e 730mila
euro, circa 82 milioni al mese, oltre 980 l’anno.
I SOLDI NON VANNO AI MIGRANTI, RESTANO NEI COMUNI
“Sono soldi che non vanno assolutamente in mano ai migranti – continua
Di Capua – ma che rappresentano il costo del loro mantenimento. Se
togliamo i due euro e cinquanta circa di pocket money, restano più 32 euro
(il 92% del totale) a migrante che servono, prima di tutto, per coprire la
spesa del personale: cioè per pagare gli stipendi, i contributi e i contratti
degli operatori che lavorano nei centri, e che sono soprattutto giovani
italiani. Una parte è spesa per l’alloggio e per il mantenimento delle
strutture, che alcune volte sono di proprietà dei Comuni e vengono
ristrutturate e altre volte sono prese in affitto da privati della zona. Infine,
una parte serve a pagare i fornitori, da quelli di generi alimentari alle
farmacie fino alle cartolerie”.
Si tratta di una spesa che sostanzialmente rimane nei Comuni, spiega
ancora la direttrice del servizio Sprar, non solo quelli vincitori dei bandi
per l’accoglienza ma anche quelli limitrofi: “L’accoglienza è vantaggiosa
da diversi punti di vista, quello culturale sicuramente, ma anche quello
economico – dice Di Capua -. Nel caso dello Sprar sono 400 circa i
comuni direttamente coinvolti nei progetti, ma secondo i nostri calcoli a
beneficiarne sono almeno il triplo, cioè oltre mille. Questo perché spesso
gli enti territoriali fanno accordi con comuni limitrofi per gestire meglio
l’accoglienza. Stiamo portando avanti un monitoraggio proprio su questo e
dai primi risultati emerge che il flusso finanziario ha un impatto positivo
su un territorio ampio”.
LA SPESA IN DETTAGLIO: DAL CIBO AI VESTITI
Per la ripartizione dei fondi erogati per l’accoglienza, fa fede la
convenzione che il gestore del centro stipula con la prefettura di
riferimento: dentro quei 35 euro pro capite pro die ci devono rientrare
l’acquisto e l’erogazione dei pasti, i servizi, il pocket money, la
manutenzione delle strutture e in alcuni casi anche i progetti di
integrazione. In una convenzione standard, per esempio, viene messo nero
su bianco che i pasti al giorno devono essere tre, colazione, pranzo e cena,
sette giorni alla settimana. Nella scelta delle pietanze (che devono essere
genuini e di qualità) si chiede di prestare attenzione a cibi “non in
contrasto con i principi e le abitudini dei richiedenti asilo”, in particolare
rispettando i vincoli religiosi. Inoltra ai migranti va fornita una tessera
ricaricabile da 15 euro, prodotti per l’igiene personale, vestiti, un posto
letto adeguato, un servizio di lavanderia, assistenza nel caso di nuclei
familiari con bambini. Infine bisogna rispettare gli ambienti devono essere
puliti assicurando un “confort igienico e ambientale”. “Tolti i due euro e
cinquanta di pocket money e il cibo che mangiano, ai migranti non va
nient’altro – sottolinea don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di
Capodarco e della fondazione Caritas in Veritate, che a Fermo ospita 100
rifugiati in un progetto di prima accoglienza -. Il resto viene speso sul
territorio. Bisogna assicurare personale adeguato: educatori, mediatori
culturali, uno psicologo e una cuoca. E questi sono posti di lavoro. Il cibo
poi viene comprato sempre in zona, così come le medicine e i vestiti".
L'ACCOGLIENZA E' UN VANTAGGIO, MA NESSUNO LO DICE
"L’accoglienza è chiaramente un vantaggio, questo nessuno lo dice –
aggiunge Albanesi -. Al Sud in particolare è un modo anche per sistemare
le persone, il caso più eclatante è il Cara di Mineo, dove il consorzio dei
comuni, titolare del progetto, era interessato non tanto alla speculazione
finanziaria quanto ai 500 posti di lavoro per le persone del luogo”.
Ovviamente, spiega ancora Albanesi, sono in tanti quelli che continuano a
lucrare sull’accoglienza, perché il ritorno economico è sostanzioso,
soprattutto in un momento di crisi. “Per quanto riguarda lo Sprar il
controllo c’è ed è costante, tutto deve essere tracciato e registrato –
continua -. Ma i furfanti continuano ad esserci, e non è difficile truffare,
soprattutto nei casi in cui si va in emergenza e si cercano posti senza
preoccuparsi troppo di chi li gestisce. C’è molto margine d’azione, e non
tutti sono interessati a fare un’opera adeguata, con onestà”. Il presidente
della Comunità di Capodarco sottolinea infine il paradosso di chi continua
a parlare di costi enormi per l’accoglienza: “quando c’è stato il terremoto
a L’Aquila lo stato pagava per l’accoglienza ai terremotati 64 euro al
giorno. Molti erano sistemati negli alberghi della costiera adriatica, ma
nessuno ha protestato. Perché oggi 35 euro ci sembrano così tanti? Solo
perché queste persone sono nere?”.
MA PER CHI SPECULA, POCHI CONTROLLI
Ad Asti, la onlus Piam, che da anni si occupa di tratta ma anche di
accoglienza ai richiedenti asilo e rifugiati, ha lanciato addirittura una
campagna mediatica dal titolo “L’accoglienza fa bene”. “Le Regioni
guadagnano (l'Iva), l'Inps sta meglio (con i contributi versati ai lavoratori
dell'accoglienza ), noi ne beneficiamo (una buona accoglienza è più
salutare per tutti, le malattie si prevengono con un tetto, qualche pasto e
una buona doccia)” si legge in uno dei suoi spot. “Gestiamo uno Sprar con
60 persone, ma nell’ultimo anno abbiamo ampliato il numero
dell’accoglienza attraverso una convenzione con la prefettura, e in totale
ospitiamo 140 migranti – spiega Alberto Mossino, presidente di Piam Una parte dei fondi Sprar sono destinati alla comunicazione, e
normalmente le organizzazioni li spendono in occasione della Giornata
mondiale del rifugiato. Noi abbiamo pensato di lanciare questa campagna
per rispondere ai tanti pugni che ci arrivano da ogni parte, alle ruspe di
Salvini, ai luoghi comuni che non possiamo più sentire – spiega -. Dopo
l’inchiesta Mafia Capitale, su tutti coloro che lavorano nell’ambito
dell’accoglienza si è abbattuta un’ondata di disprezzo. E perciò volevamo
chiarire alcune cose: innanzitutto che l’accoglienza fa bene perché ne
beneficia chi lavora nei luoghi dove essa viene messa in pratica. Un
esempio? Questa mattina ho speso 500 euro in vestiti per i migranti che
sono arrivati nel nostro centro, li ho comprati in un negozio qui vicino.
Sempre qui compriamo gli alimenti, e quando abbiamo qualche lavoretto
da fare ci rivolgiamo in zona. A Natale abbiamo speso quattromila euro
per comprare delle biciclette ai migranti da un artigiano che lavora poco
distante da noi. Questo va detto, bisogna chiarire che le ricadute ci sono”.
Mossino invita però anche a fare i giusti distinguo: “c’è chi lavora bene e
chi specula. Purtroppo i controlli, soprattutto nei casi dell’accoglienza
straordinaria sono troppo pochi. Ci sono centri riempiti all’inverosimile,
dove gli standard sono totalmente inadeguati ma nessuno se ne preoccupa.
C’è chi si mette in questo giro solo per speculare, perché in questo
momento è un guadagno che fa gola a tanti”. (ec)
© Copyright Redattore Sociale
link: http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/487585/Un-miliardo-l-annocosi-accogliere-i-migranti-fa-girare-l-economia-italiana
Come trasformare le migrazioni in una opportunità
(di Luigi Manconi)
C’è un divario drammatico tra le esigenze e le aspettative originate dal
fenomeno globale dei flussi migratori in atto e la realtà politica, dura e
ruvida, in cui ci muoviamo.
Nel Consiglio europeo del 25 e 26 giugno si era parlato di un possibile
progetto di ricollocazione riguardante quarantamila richiedenti asilo già
sbarcati sulle nostre coste: una cifra tragicamente esigua a fronte dei
626mila profughi che nel corso del 2014 hanno chiesto asilo nel
complesso dei paesi europei. Oltre a questo si prevedeva un piano di
reinsediamento che doveva riguardare circa ventimila richiedenti asilo
provenienti dai campi profughi, in particolare da quelli del Libano e della
Giordania, gestiti dall’Alto commissariato della Nazioni Unite per i
rifugiati. Alla lettera, una goccia nel mare.
Certo, come ha detto lo stesso Matteo Renzi, se fino a ieri l’accoglienza a
livello europeo riguardava zero richiedenti asilo, l’averne previsti
quarantamila rappresenta una novità significativa, un piccolo passo avanti
in termini di metodo e anche di sostanza.
4
Ma anche quell’esile “quarantamila” non ha avuto vita facile. Anzi. La
riunione dei 28 ministri dell’interno dell’Unione europea, che si è tenuta il
20 luglio, ha dato un esito ancora più deludente: la riduzione fino a 32.256
del numero di quanti saranno ricollocati e l’aumento di 2.500 unità della
cifra dei richiedenti asilo da reinsediare.
L’Italia dovrebbe compiere la sua mossa del cavallo: uno scarto laterale,
intelligente e audace
Questa riformulazione dimostra come anche questo primo passo sarà assai
breve, lento e non privo di ostacoli. Non solo. È l’ulteriore conferma, se
mai ve ne fosse stato bisogno, dell’urgenza di cambiare radicalmente
politica.
Se si avrà la determinazione per farlo, l’Italia avrà una grande occasione.
Insomma, il nostro paese ha – meglio: potrebbe avere – l’opportunità di
compiere la sua mossa del cavallo: uno scarto laterale, intelligente e
audace allo stesso tempo, e soprattutto lungimirante, che possa
consentirgli di svolgere un ruolo da protagonista.
Dico uno scarto laterale perché è necessario, come prima condizione,
sottrarsi al peso totalizzante e soffocante delle procedure finora adottate
dalle istituzioni europee. Non si può fare a meno di esse, certo, ma si
devono percorrere (anche) vie diverse e assumere (anche) strategie
alternative.
Per certi versi, possiamo dire che l’Italia è costretta a fare questa scelta: la
collocazione geografica non offre alternative e ci obbliga a uno sforzo di
innovazione e di fantasia, accettando i rischi che ciò comporta.
Una camicia di forza
Ecco due ipotesi. La prima: il nostro paese, proprio in virtù di quanto
accaduto negli ultimi tempi e che prevedibilmente si riprodurrà nei
prossimi mesi e anni, deve assumere con forza la decisione di dare voce e
corpo a quel principio fondante dell’Unione europea che è la solidarietà
tra gli stati membri, oggi palesemente calpestato. E dunque dovrebbe
rivolgersi direttamente, attraverso una serie di accordi bilaterali, a quei
paesi europei che già si sono mostrati disponibili a condividere e a gestire
unitariamente il flusso di profughi verso il nostro continente.
Il regolamento di Dublino grava come una cappa e come una camicia di
forza che pretende di imprigionare i movimenti delle persone causando
situazioni inestricabili, oltre che crudelmente dolorose. È proprio qui che
serve un atto di coraggio e di indipendenza.
Si può decidere di derogare a quel regolamento di Dublino attraverso un
accordo tra l’Italia e quegli stati membri, pochi o molti che siano, già
disponibili ad accettare le procedure di ricollocazione e di reinsediamento.
Una deroga necessaria e assolutamente possibile, pur nell’attuale contesto
dei trattati vigenti, dal momento che non danneggerebbe altri paesi.
Si tratta evidentemente di assumere l’iniziativa e di cogliere aperture,
spiragli, anche modeste opportunità, concentrando l’attenzione in un
primo momento su quanto sin d’ora previsto. Attraverso, cioè, il più ampio
utilizzo possibile del meccanismo dei ricongiungimenti familiari, che già
Dublino III ha reso maggiormente flessibile.
Autoriduzione di solidarietà
C’è poi l’altra ipotesi, che va manovrata con prudenza e saggezza, ma che
può rappresentare un autentico punto di svolta da cui far discendere un
nuovo protagonismo politico dell’Italia.
La premessa da cui partire è che il nostro paese è un contributore netto
dell’Unione europea, il che significa, in parole povere, che l’Italia dà
all’Ue più di quanto riceva in termini di risorse economiche, attraverso
varie voci e differenti contribuzioni.
Ebbene, di fronte alla evidente violazione di quel principio costitutivo
della solidarietà tra gli stati, rappresentata dal rifiuto di una politica
condivisa per l’immigrazione e l’asilo, viene meno inequivocabilmente
ciò che per noi è la ragione prima, la base essenziale e il fondamento
politico ed etico della stessa Unione europea.
Alla luce di questa crisi della stessa idea costitutiva dell’Unione, l’Italia
può assumere una decisione radicale e, al contempo, ragionevole.
Scegliere, cioè, che quella quota eccedente il saldo zero tra ciò che si dà e
ciò che si riceve nello scambio con l’Ue sia destinata alla creazione di un
fondo speciale di solidarietà, da destinare a una politica comune per
l’immigrazione e l’asilo.
Ciò attraverso la cooperazione rafforzata con quei paesi – non importa
quanti all’inizio – interessati all’elaborazione di una politica condivisa in
materia. Detta grossolanamente, una sorta di “autoriduzione” finalizzata
non a particolari interessi nazionali, bensì a una delle questioni cruciali per
la definizione dell’identità dell’Europa e, molto concretamente, del suo
programma politico e sociale. La proposta determinerà inevitabilmente
una intensa conflittualità all’interno dell’Unione e va costruita con
intelligenza e con tenacia.
analisi alla confusione. Diversamente non si riesce a capire perché a una
legge italiana venga dato il nome di un provvedimento americano che
parla sostanzialmente d’altro e che non mostra neanche elementi comuni
sul piano dell’orientamento in materia di politica economica.
A scopo di chiarimento condurrò una breve analisi comparativa dei due
provvedimenti - degli elementi comuni (pochi) e delle differenze (molte) allo scopo di introdurre il punto conclusivo dell’intervento: quello che
riguarda i processi di produzione delle informazioni (e della
disinformazione), le retoriche e lo stile comunicativo. Tutto ciò partendo
dalla osservazione che il processo di produzione delle informazioni e le
pratiche di convincimento e autoconvincimento non riguardino solo il
capo del governo, o il suo staff in questo ambito, ma anche i mezzi di
comunicazione di massa e i soggetti capaci di influenzare l’opinione
pubblica.
(fonte: Internazionale - segnalato da: Centro Studi Sereno Regis)
link:
http://www.internazionale.it/opinione/luigi-manconi/2015/07/22/migrantieuropa-flussi
Cominciamo dal primo punto (il contesto). Il governo Renzi, segue il
governo Letta che a sua volta seguiva il governo Monti. Non ci sono state
grandi differenze nell’orientamento di politica economica e di politica del
lavoro tra i tre governi. Si può dire che – come per altro su tutto il resto –
il governo Letta sia stato meno aggressivo in questo ambito rispetto a
quello precedente e a quello successivo. Ma la direzione è stata chiara e
univoca. E se la stessa operazione del Jobs Act da un certo punto di vista
rappresenta un balzo in avanti nell’attacco ai diritti e alle prerogative dei
lavoratori, e in particolare della classe operaia, dall’altra rappresenta solo
una iniziativa un po’ più drastica all’interno di una linea generale fissata
dal governo Monti e non priva di qualche coerente antecedente. Si tratta di
una linea chiara: essa non prevede alcuno spazio per politiche espansive,
impone che la spesa pubblica vada contratta, esclude che il sindacato vada
ascoltato e tanto meno preso in considerazione: si tratta di un elemento di
disturbo e basta.
Lavoro ed occupazione
C’era una volta un Piano per il lavoro della Cgil
Certo, è un progetto assai impegnativo, ma è la sola via affinché, per
l’Italia e per il suo ruolo nel Mediterraneo in questo delicato momento
storico, i movimenti di tanti esseri umani non rappresentino solo un
problema lacerante, ma costituiscano anche una opportunità.
Il Jobs Act tra confusione, propaganda e ideologia
(di Enrico Pugliese)
A differenza del Jobs Act di Obama, quello di Renzi rientra all’interno del
sogno tradizionale per cui per aumentare l'occupazione vanno ridotte le
protezioni dei lavoratori stabili e prolungata all’infinito la situazione di
apprendisti e occupati non standard
Ho trovato molto apprezzabile il contributo di Sbilanciamoci!, Workers
Act, sia per la critica al cosiddetto Jobs Act del Governo Renzi (contenuto
nella prima parte) sia per lo sforzo di produrre proposte per l’occupazione
e per la difesa dei diritti dei lavoratori cui è dedicata la seconda parte. Pur
ritenendo molto importante questo sforzo e che sia utile fornire commenti,
critiche e integrazioni per questa seconda parte del lavoro di
Sbilanciamoci!, il mio intervento si riferirà alla prima: alla critica del
“Jobs act” di Renzi.
Ciò non perché non sia d’accordo con l’analisi e le proposte. Anzi mi pare
che la critica centri bene i principali punti della questione e trovo che sia
ben argomentata. Intervengo perciò solo per sottolineare ulteriormente
qualche punto e per commentare qualche aspetto che nel volumetto non è
forse stato approfondito a sufficienza. Si tratta innanzitutto del contesto
politico e sociale nel quale il Jobs Act - questa “Rivoluzione Copernicana”
come l’ha definita il suo autore – è scaturito. Si tratta poi del perché
questo piano di intervento nel mercato del lavoro sia stato chiamato dal
suo proponente, prima ancora di renderne noti i contenuti, con il nome (in
inglese) di una legge americana: il Jobs Act di Obama. Premetto che a mio
avviso è non tanto – o comunque non solo – una questione di
provincialismo, di mostrare che si sa parlare in ‘stranierese’.
Probabilmente c’è anche questo ma non è l’aspetto principale.
Anticipando il punto in questione si può ipotizzare che in questa scelta ci
sia anche un tentativo di legittimazione: “anche noi sappiamo fare come si
fa in America”. Ma vedremo che c’è ancora dell’altro, in particolare i
vantaggi connessi alla mancanza di chiarezza, all’allusività, e in ultima
5
In un quadro di totale isolamento – con il Partito Democratico coinvolto
direttamente o indirettamente nel governo di coalizione di Monti - la Cgil
lancia qualche anno addietro il suo ambizioso ‘Piano per il lavoro‘. Si
trattava di una proposta di interventi in materia di politica economica
espansiva con indicazione di investimenti in diversi settori che avrebbe
implicato un indirizzo della spesa e in generale della politica economica
incompatibile con il governo del quale tuttavia il Pd, il partito più vicino
alla (o meno lontano dalla) Cgil, era magna pars. Esso non voleva essere
un semplice sforzo analitico a dimostrazione che esistono alternative
possibili economicamente nell’indirizzo della spesa pubblica come il
lavoro di Sbilanciamoci. Nel caso della Cgil, del più importante sindacato
dei lavoratori, non si poteva trattare di una operazione del genere: doveva
e voleva essere una proposta al governo, un progetto operativo per lo
sviluppo economico e occupazionale quale contenuto di una strategia e di
azioni rivendicative. Ma per far questo la Cgil, avrebbe dovuto attrezzarsi,
decidere il tipo e i contenuti specifici delle rivendicazioni, valutare su
quali gambe avrebbe dovuto marciare la proposta, quali mobilitazioni
avrebbe dovuto mettere in campo, di che portata, di che natura e con chi. A
queste cose invece – a me pare - non si pensò molto. Questa operazione
mi sembra ora più una versione farsesca che una versione aggiornata della
gloriosa esperienza storica del Piano del Lavoro della Cgil di Di Vittorio.
Come si sa, la risposta (o la mancata risposta) del governo Monti sembrò
riecheggiare quella parimenti arrogante data da De Gasperi una sessantina
di anni prima alla Cgil di Di Vittorio “I piani non mancano, mancano i
quattrini!”. In questo secondo caso comunque il ‘Piano’ fu semplicemente
ignorato. Eppure, bene o male, delle proposte da prendere in
considerazione erano presenti in questo progetto, dal nome
inopportunamente pomposo, ormai dimenticato. A quattro anni di distanza
dal suo lancio nessuno se ne ricorda più, a parte il cortese riferimento che
ne fa il volume di Sbilanciamoci! I tempi dell’epoca neo-liberista sono
velocissimi.
Passata la serena stagione del governo Letta arriva il governo di Renzi e
Alfano. Ed è proprio quest’ultimo ad anticipare a modo suo la linea del
finto jobs act ponendo come punto caratterizzante del nuovo governo la
soppressione dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori. Ma Renzi fa di
peggio: mentre ancora la Cgil - così come il Pd (o almeno la parte ancora
di tenue origine social-comunista) – è lungi dall’archiviare il ‘piano del
lavoro’, il segretario del partito e capo del governo lancia una alternativa
radicale. Fa conoscere l’esistenza di una proposta di legge dal nome
appunto di Jobs act che, detto in italiano significa legge sul (o per il )
lavoro – o, meglio, sui (o per i) lavori o, meglio ancora, sui (o per i) posti
di lavoro. Ma dalle dichiarazioni che accompagnarono questa iniziativa di
legge italiana (se riesco a tradurre bene la parola act) si capisce subito che
vuole essere un nuovo piano per l’occupazione che però non ha niente a
che vedere con quello della Cgil. Nei suoi discorsi Renzi promette grandi
sviluppi dell’occupazione ma è subito chiaro che la sostanza del ‘piano’
consiste in un nuovo quadro delle relazioni sindacali.
alle imprese italiane. Naturalmente la portata degli incentivi in America è
più che proporzionale a quella italiana. Ma quello che conta è la spesa
complessiva davvero enorme, oltre trecento miliardi di dollari.
Ciò che impressiona – soprattutto osservando il coro di entusiasti
suggeritori del Jobs act nostrano– è che per la sua natura esso esprime una
netta svolta neo-liberista, un rovesciamento rispetto all’approccio del
Piano della Cgil. L’obiettivo non è né solo l’articolo 18 né solo lo statuto
dei lavoratori, ma l’intera tradizione del diritto del lavoro italiano a partire
dalla seconda guerra mondiale. I contenuti del Jobs Act di Renzi sono ben
illustrati nel libretto di Sbilanciamoci! e pertanto non è il caso di entrarci
nel merito.
Per entrare più in dettaglio delle differenze e a scopo di documentazione si
può scaricare da internet un qualunque documento illustrativo prodotto
dall’amministrazione o dal partito democratico per vedere di che si tratta.
Le misure del jobs Act di Obama che riguardano la domanda sono
comprese sotto il titolo generale di “far tornare sui posti di lavoro i
lavoratori ricostruendo e modernizzando l’America”. Come esempio si
può prendere la voce, lautamente finanziata, “Investimenti urgenti per
strade, ferrovie e aeroporti” o quella relativa alla “Creazione di una banca
nazionale per le infrastrutture” o quella avente l’obiettivo di “Evitare
licenziamenti di insegnanti modernizzando oltre 35 mila scuole
pubbliche”. Si noti il riferimento alle “scuole pubbliche” e non
semplicemente alle scuole.
Mantenendoci ancora nel tema del contesto è bene sottolineare la grave
situazione del mercato del lavoro e dell’occupazione in Italia. Si tratta di
problemi strutturali, problemi di povertà e crisi dell’apparato produttivo,
problemi connessi al dualismo territoriale nel nostro paese: problemi
dovuti alla carenza di investimenti pubblici e privati. Insomma problemi
rispetto ai quali ulteriori iniezioni di flessibilità quali sono quelli proposti
e magnificati da Renzi e dai suoi mentori possono fare ben poco. Con una
disoccupazione vicina al 13%, con una disoccupazione meridionale
superiore al 20%, con una disoccupazione giovanile meridionale (15-24
anni ) pari ai due terzi delle forze di lavoro nella stessa fascia di età, la
proposta del piano di Renzi e i dei suoi, tutta basata sulla flessibilità,
sembra venire da un altro mondo. E per quel che riguarda i contributi,
lauti, alle imprese che assumeranno va ricordato che le imprese capaci di
usufruirne stanno proprio nelle aree dove meno grave è la disoccupazione,
cioè fuori dal Mezzogiorno. E’ vero che questo incentivo in linea teorica
potrebbe anche produrre qualche occupato stabile in più nel breve periodo
(magari non nel Mezzogiorno) nella fase iniziale. E ciò servirà
sicuramente per l’opera di propaganda, che è già in corso. Poi l’effetto
finirà in mancanza di altri stimoli.
Obama non c’entra nulla
Passiamo ora a un confronto tra il jobs act e il jobs act finto di Renzi. Una
breve analisi comparativa dei due provvedimenti mostra differenze
enormi. In sostanza trattano materie solo in parte analoghe e comunque
con approcci differenti. La legge italiana ha come punto centrale tematiche
di relazioni sindacali in particolare i criteri di riduzione delle misure di
protezione all’impiego: tematiche che nel jobs act vero non sono proprio
trattate. Al contrario - e questo è il punto principale – il jobs act vero si è
basa anche su massicci investimenti pubblici che vanno dal finanziamento
del sistema educativo a lavori pubblici: tematiche che sono assolutamente
ignorate nella legge italiana che punta tutto sulla flessibilità sulla
questione della ‘occupabilità’ nell’assunto di un basso capitale umano dei
giovani disoccupati italiani, quelli che solitamente e malamente vengono
definiti NEET. Insomma, al costo di ripeterci vale la pena sottolineare che,
al contrario della linea di Renzi, il jobs act vero, quello americano, è
basato su investimenti e quindi di un azione diretta sulla domanda di
lavoro per far crescere così realisticamente l’occupazione al contrario di
quello italiano. C’è da dire che in esso non mancano iniziative che
possono farsi rientrare delle politiche attive del lavoro o anche delle
politiche passive come interventi per i disoccupati di lungo periodo e
gruppi disagiati. Ma la prima area di intervento è quella di maggior
rilievo. Non mancano neppure sgravi fiscali per le imprese che assumono
e questa può essere considerata una analogia con il bonus triennale dato
6
È ovvio che un intervento che riguarda anche l’offerta ma soprattutto la
domanda come quello americano costa molto di più. E infatti il jobs act di
Obama si basa su un elemento realistico e ovvio per cui per fare
aumentare l’occupazione bisogna fare investimenti. Il finto jobs act di
Renzi rientra invece all’interno del sogno tradizionale per cui riducendo le
protezioni dei lavoratori occupati stabili e prolungando all’infinito la
situazione di apprendisti e occupati non standard, l’occupazione
aumenterà automaticamente. Per inciso vale la pena di ricordare che il
decreto Poletti che prolunga all’infinito i nuovi contratti non standard è
divenuto parte integrante del finto jobs act italiano.
Al contrario nella mente dei creatori della ‘copia’ nazionale del jobs act
non c’è alcuna intenzione di sprecare danaro in investimenti. Il
disciplinamento dei lavoratori con le nuove forme di controllo e la
riduzione della tutela fondamentale con l’eliminazione dell’articolo 18,
dovrebbero rinnovare la fiducia degli imprenditori e stimolare così gli
investimenti.
Naturalmente non manca una dose di retorica neanche nel jobs act vero,
quello di Obama. Così, in coerenza con l’ideologia dominante si sottolinea
la riduzione del 50% delle tasse sul lavoro in base al principio di mettere
più soldi nelle tasche di ogni lavoratore americano e di ogni famiglia. La
retorica e la fraseologia su questo punto sono molto simili a quelle usate
da Berlusconi e da Renzi: la retorica dei soldi in tasca ai cittadini, l’unico
diritto che merita di essere rispettato. Infine mentre la retorica del conflitto
intergenerazionale accompagna la presentazione del finto Jobs act italiano,
c’è un'altra retorica che caratterizza il Jobs act americano che è la retorica
patriottica espresso da misure a vantaggio dei reduci dal titolo “Returning
heroes” .
D’altronde man mano che in qualche modo i contenuti del Jobs act
nostrano risultavano più chiari, il riferimento al Jobs act di Obama veniva
dimenticato e rimaneva solo il nome.
Le dichiarazioni ufficiali di Renzi e le azioni di propaganda hanno in
genere obiettivi ed interlocutori diversi. Così a volte esse sembrano rivolte
alla Confindustria e in generale ai datori di lavoro (sempre in maniera
benevola) a volte esse sono rivolte al sindacato in maniera spesso
insultante e con un intento evidente di delegittimazione. A volte infine
Renzi parla alla sinistra spiegando cosa vuol dire ora essere di sinistra.
Basta prendere una breve citazione: “Qual’è l’identità della sinistra in
Italia?....essa consiste nel dare più diritti ai giovani, di dare possibilità ad
una nuova generazione. Noi avevamo in Italia un apartheid del lavoro. Il
Jobs act è la cosa più di sinistra che io abbia mai fatto”. Dove siano poi
questi maggiori diritti ai giovani è difficile da immaginarlo. Eppure su
questo si continua ad insistere. Ed è difficile dire se affermazioni di questo
genere e l’intero quadro della propaganda di Renzi si basino sull’ideologia
o su un conscio intento di disinformazione o se c’è qualcos’altro ancora.
Probabilmente c’è un po’ di tutto.
Confusione, propaganda e ideologia
Passiamo con ciò all’ultimo punto, quello relativo all’ideologia e alla
propaganda. La presentazione delle iniziative del governo Renzi è sempre
accompagnata nei media da un grande battage pubblicitario che ne
sottolinea la novità e al contempo la capacità di risolvere problemi
strutturali dell’economia e della società italiana. Sempre nei discorsi c’è la
promessa, anzi la garanzia, che i risultati dell’iniziativa saranno strepitosi,
meravigliosi. Non si parla dei contenuti specifici delle misure ma degli
effetti che esse avranno per la vita economica e sociale del paese. Allo
scopo di rendere più confusa la situazione – o magari per semplice
provincialismo – nel discorso ufficiale si abbonda di termini inglesi
generalmente ricavati dal lessico americano, come abbiamo già notato in
premessa. Non è una pratica originale questa dell’uso improprio di termini
in inglese. Ormai siamo da tempo abituati e non a tutti viene il dubbio che
ci sia il trucco: pensiamo al caso della cosiddetta ‘spending review’ e gli
esempi potrebbero continuare all’infinito. Ma questo stile di
comunicazione istituzionale nel caso del finto Jobs act raggiunge la sua
massima espressione.
Preparata da studiosi di fede governativa - ancor prima che fossero resi
pubblici, e probabilmente prima ancora che fossero decisi, i contenuti
specifici - questa legge (questo ‘act’ per dirla con loro) è stata
pubblicizzata come la misura che avrebbe risolto in senso positivo il
conflitto generazionale, avrebbe eliminato la contraddizione tra ‘insiders’
e ‘outsiders’ – una volta i primi si chiamavano ‘garantiti’ - avrebbe
determinato un superamento della precarietà e una riduzione della
disoccupazione giovanile soprattutto nel Mezzogiorno. Sul modo in cui si
sarebbero raggiunti gli obiettivi si diceva ben poco. E soprattutto su
quest’ultimo punto avevano ben poco da dire.
Per tutta una fase si è discusso del provvedimento senza che ne esistesse
una bozza ma c’era solo una vaga, per altro orale, indicazione degli
obiettivi. Si discuteva senza un testo di riferimento. Anche coloro che
criticavano il progetto dovevano basarsi anch’essi sul sentito dire, sulla
tradizione orale. Di certo gli esperti sapevano che il cuore del
provvedimento sarebbe consistito in misure riguardanti le relazioni
industriali le quali avrebbero inciso sulla legislazione italiana riducendo il
presunto eccesso di garanzia dei presunti ‘insiders’ (l’obiettivo era la
classe operaia ‘centrale’, quella da anni sotto attacco). E autori di
orientamento neo-liberista pubblicizzavano complesse soluzioni (solo in
parte poi assorbite nella legge) che avrebbero garantito la quadratura del
cerchio. Si trattava – come ben illustrato nel libro di Sbilanciamoci! - del
famoso contratto a tutele crescenti. A questo poi si aggiungevano degli
incentivi alle imprese per le nuove assunzioni consistenti in una
vantaggiosa forma di contributo fiscale. A operazione compiuta, e mentre i
decreti attuativi mostrano la ferocia dell’attacco ai diritti sanciti dallo
statuto dei lavoratori (ultimamente sul piano della riservatezza personale),
si può fare un brevissimo bilancio del rapporto tra proposte originarie –
non le promesse che sono ben altro – e testo della legge. Dal contratto a
tutele crescenti è ormai esclusa una larga fascia di quelli cui doveva essere
destinato: i giovani da salvare dal precariato. E per quel che riguarda le
tutele, se vogliamo considerare esagerata l’affermazione di Sbilanciamoci!
secondo la quale esse sono ‘calanti’ anziché crescenti, non si può negare il
carattere scandaloso delle norme definitive sui licenziamenti senza alcuna
giusta causa con la libertà incondizionata di sbattere via il dipendente al
costo di un piccolo indennizzo. Circa poi l’incentivo alle aziende, come
accennato, esso è importante per la propaganda e per far vedere che
l’occupazione aumenta grazie al Jobs act. Purtroppo questo effetto è
destinato – come mostrano esperienze passate – a durare poco e vedremo
che nel Mezzogiorno le cose, anche in caso di miglioramento della
situazione congiunturale a livello nazionale, cambieranno di poco. I
giovani, in particolare i neet del Mezzogiorno – dei quali tanto si parla allo
scopo di aizzare il conflitto generazionale - non avranno alcun beneficio
dalla riduzione dei diritti degli occupati stabili. E pochi ne avranno anche
dai sussidi alle imprese. Ci vorrebbe ben altro.
Tornando alla questione di prima sulla ideologia e sulle forme di
comunicazione è evidente come le esternazioni di Renzi in materia si
7
basino su informazioni generalmente distorte. Con la sua usuale irruenza il
Primo ministro e autore del finto Jobs act promette l’improbabile e
l’impossibile senza mettere mai le carte in tavola. Non ci è dato di sapere
quanto egli stesso creda alle sue mirabolanti promesse ma la scarsa
attendibilità è chiara e abbiamo tentato di evidenziarlo.
Nel complessivo processo comunicativo ci sono anche altri elementi, altri
modelli di informazione ma anche altri convincimenti e visioni del
mondo. Innanzitutto c’è una posizione assolutamente dominante, più
sincera per così dire, che è dominata dall’ideologia. L’intero apparato neoliberista che è alla base dell’operazione del Jobs act nostrano – a parte
qualche piccola evidente bugia detta “perché si deve anche campare” - è
basato su presupposti ideologici che poi sono quelli dell’economia neoclassica tradizionale. Tra questi uno è rappresentato dal mito della
flessibilità. Il volume di Sbilanciamoci! smonta in dettaglio con
argomentazioni e documentazione empirica le tesi dei vantaggi della
flessibilità (nelle sue varie dimensioni: salariale, numerica, etc). Eppure
non ci si ferma neanche di fronte all’evidenza. E i mentori della politica
renziana non sono affatto isolati in ciò. L’evidenza in materia di flessibilità
e dei suoi fallimenti non frena neanche i responsabili delle organizzazioni
internazionali. Renzi e associati sono in buona compagnia.
C’è poi un’ulteriore forma di convincimento e autoconvincimento che
riguarda probabilmente altri soggetti e non le teste d’uovo o i - riccamente
stipendiati – consulenti del governo, insomma i produttori del finto Jobs
act. Si tratta di una tendenza a vedere le cose come si desidera che esse
siano: “il wishful thinking” come direbbero gli inglesi e gli economisti
alla moda. Questo atteggiamento lo si registra tra i propugnatori del Jobs
act per fede renziana o per odio nei confronti del sindacato. E lo si registra
anche nella grande stampa. Esso infine riguarda anche qualche ministro
distratto, come nel caso dei numeri sbagliati del ministro Poletti che, preso
dall’entusiasmo, dimenticò l’esistenza della sommatoria e comunicò i
grandiosi (inesistenti) risultati delle iniziative governative sul piano
dell’occupazione.
Per fortuna pare che a tutto ciò non credano invece una parte dei diretti
interessati. Forse neanche le imprese che sanno che i problemi dello
sviluppo e i rapporti con i lavoratori non si regolano a forza di cancellare i
diritti sulla carta. Ma soprattutto non ci credono i giovani e i lavoratori.
Renzi avrà ragione a dire che il Jobs act è la cosa più a sinistra che ha fatto
(figuriamoci il resto). Ma la gente vuol vedere i risultati effettivi. Vuol
vedere davvero lavoro e lavoro decente. E da questo punto di vista la
prospettiva è nera.
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link:
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Il-Jobs-Act-tra-confusionepropaganda-e-ideologia-30658
L’inganno del lavoro (di Francesco Gesualdi)
Il Fondo Monetario Internazionale ha sentenziato che l’Italia avrà bisogno
di 20 anni per tornare ai livelli occupazionali pre-crisi. Ma ci sta
prendendo in giro perché sa bene che di lavoro questo sistema non ne
creerà più. Semplicemente perché non è il suo obiettivo, non è la sua
missione come piace dire a chi vive l’economia come una religione.
La missione di questo sistema è garantire profitto alle imprese e ai suoi
azionisti. Quanto al lavoro è solo un costo da contenere e poco importa se
dietro al così detto mercato del lavoro ci sono persone in carne e ossa, con
una dignità, una vita, dei diritti da salvaguardare. Per il mondo degli affari
il lavoro è solo una merce, è del tempo da comprare al prezzo più basso
possibile. E poiché la legge di mercato sancisce che il prezzo scende
quando c’è più offerta che domanda , per fare scendere il prezzo del
lavoro bisogna creare più offerenti lavoro di quanto siano i posti
disponibili. Il capitalismo può essere raccontato come la storia di un
sistema che si è organizzato per creare disoccupazione e assicurarsi
costantemente lavoro a buon mercato. Fra le strategie utilizzate, c’è prima
stata l’estromissione dei contadini dalle terre comuni, poi la sostituzione
degli umani con le macchine, infine la globalizzazione. Strategie in
continuo cambiamento per ottenere un numero crescente di persone in
sovrappiù che tengano basso il prezzo del lavoro. Un progetto definito da
Papa Francesco come l“economia dello scarto”, e se fino a ieri gli scartati
eravamo abituati a vederli nel Sud del mondo, oggi li troviamo sempre più
nelle nostre case, a giudicare dalla crescita dei poveri e dei disoccupati.
Fosse onesto, il sistema ci racconterebbe apertamente che l’esclusione fa
parte della sua natura. Invece tenta di farci credere che lui, poverino,
vorrebbe tanto dare un lavoro a tutti, ma per riuscirci ha bisogno di
crescita, perché che volete, il lavoro lo creano le aziende e le aziende
assumono solo se vendono di più. Peccato che ogni volta che si creano
nuove opportunità di lavoro le aziende preferiscano le macchine alle
persone e al tempo della globalizzazione, oltre ad assistere alla guerra fra
lavoratori da un capo all’altro del pianeta, si assiste anche alla guerra dei
robot contro gli umani. Lo stanno sperimentando anche cinesi da che
hanno osato alzare la testa per chiedere migliori condizioni di lavoro.
Ma la bugia più grave rispetto alla crescita è che ormai non è più
compatibile con lo stato comatoso raggiunto dal pianeta. E mentre
geologi, agronomi, climatologi ci informano che le risorse si stanno
riducendo al lumicino e che i rifiuti ci stanno sommergendo facendo
cambiare equilibri millenari come il clima, succede che industriali,
politici, sindacalisti ed economisti, tutti insieme acclamino la crescita
come l’unica via per tirarci fuori dai guai. E noi ci crediamo. Presi da
quell’impellente bisogno di lavoro, anche noi corriamo dietro alla
leggenda, finendo per sdoppiare la nostra personalità: pro sobrietà in nome
dell’ambiente, pro crescita in nome del lavoro.
Prima o poi scopriremo che la schizofrenia non ci porta lontano e che la
sobrietà è l’unica strada per garantirci un futuro. Ma la buona notizia è che
sobrietà non è sinonimo di vita di stenti né di disoccupazione dilagante. Al
contrario è occasione di libertà, sovranità e inclusione. L’importante è
convincerci che il lavoro è un falso problema. Nella storia dell’umanità,
l’obiettivo non è mai stato il lavoro. L’obiettivo è stato vivere bene nel
senso di avere di che mangiare, vestirsi, viaggiare, istruirsi, curarsi. Solo
noi, figli del mercato, abbiamo trasformato il lavoro in idolo e non perché
siamo impazziti, ma perché viviamo in un sistema che ci offre l’acquisto
come unica via per soddisfare i nostri bisogni e ci offre il lavoro salariato
come unica via per accedere al denaro utile agli acquisti. Per questo il
lavoro è diventato una questione di vita o di morte e in suo nome siamo
tutti diventati partigiani della crescita. L’unico modo per uscirne è
smettere di concentrarci sul lavoro e concentrarci sulle sicurezze. La
domanda giusta da porci non è come creare lavoro, ma come garantire a
tutti la possibilità di vivere dignitosamente utilizzando meno risorse
possibile, producendo meno rifiuti possibile e lavorando il meno possibile.
La strada è ridurre la dipendenza dal lavoro salariato, in modo da
interrompe la schiavitù dalla crescita delle vendite. In altre parole
l’alternativa è l’autoproduzione in ambito individuale, per i piccoli bisogni
personali e familiari, e in ambito collettivo per i beni e servizi
fondamentali che richiedono strutture produttive organizzate.
Quando ciò che ci serve lo potremo ottenere senza denaro grazie al lavoro
non retribuito nostro e degli altri, in quel momento il lavoro smetterà di
essere un costo e si trasformerà in ricchezza. In quel momento non ci sarà
più interesse ad escludere, ma a ottenere la collaborazione di tutti. E se
dovesse risultare che siamo troppi, potremo sempre dare una bella
sforbiciata all’orario di lavoro con somma soddisfazione di tutti perché
con meno lavoro potremo avere lo stesso livello di sicurezze.
Capito che l’inclusione passa attraverso il ridimensionamento del mercato
e il rafforzamento della solidarietà collettiva, la prima cosa da fare è
arrestare la demolizione di ciò che ci è rimasto di pubblico. Basta con la
politica delle privatizzazioni. Basta con il taglio alle spese sociali. Basta
con una politica di bilancio che dà priorità al servizio del debito. Sì,
invece, a una seria lotta all’evasione e ai paradisi fiscali. Sì a una
tassazione progressiva dei redditi e in particolare delle rendite finanziarie.
Sì a una ristrutturazione del debito. Sì a una sovranità monetaria al
servizio dell’occupazione in ambito pubblico. C’è bisogno di politica
nuova, ma potremo trovarla solo se saremo capaci di gettare il pensiero
oltre il muro del sistema imperante.
8
(fonte: Mondo Solidale Massa Cooperativa Sociale)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2321
Politica e democrazia
L’avanzata delle destre estreme e le responsabilità
della sinistra liberale (di Matteo Volpe)
L’avanzata delle destre estreme si deve al fallimento storico (ennesimo)
della sinistra liberale e degli intellettuali che ne hanno abbracciato i
principi. Scoprire che l’idea, comunemente accettata negli ultimi
trent’anni, secondo la quale sarebbe stato possibile garantire un livello
accettabile di ricchezza a tutta la popolazione attraverso un’espansione del
mercato, e quindi rimuovendo tutti gli ostacoli che ne impediscono tale
espansione – ovvero l’intervento diretto dello Stato – scoprire
all’improvviso che questa idea è sbagliata, ha generato dei mostri.
La sconfitta individuale e generazionale del comunismo e del socialismo
occidentali nel corso del Novecento (conclusosi tragicamente con il crollo
di quello orientale e con la dissoluzione dell’URSS) è stata tramutata in
una sconfitta antropologica e persino biologica. Incapaci di accettare il
fallimento personale (che personale poi non è, perché dovuto a ragioni
storiche) gli individui che ne hanno preso parte preferirono vedervi la
realizzazione di una “legge di natura”, commettendo l’errore dei
conservatori più accaniti, ovvero “naturalizzare” i fatti storici, e quindi in
definitiva far scomparire la storia dall’orizzonte del pensiero, come era
stato teorizzato da Francis Fukuyama. La sinistra ha così finito per
arrendersi alla visione liberale, capitalista, mercatocentrica e globalista,
poco prima che questa si schiantasse contro l’iceberg della storia. Ha
riconosciuto anche questo secondo fallimento (più grande del primo,
perché strutturale, non contingente) dichiarando nella semplicità più
assoluta che il miglioramento delle condizioni delle masse è precluso, ed
esso deve essere sacrificato sull’altare del dio Capitale, variamente
coniugato (mercato, euro, “Europa”, globalizzazione, modernizzazione,
ecc.). Perdendo il capitalismo qualsiasi fascino (come nelle illusioni dei
rampanti scalatori sociali piccolo-borghesi degli anni ’80) e rivelando il
suo volto peggiore, quello reale, fondato sullo sfruttamento di classe e
sull’esproprio delle ricchezze delle classi inferiori a vantaggio del capitale
finanziario, esso può esercitare il proprio dominio culturale in soli due
modi: escludendo qualsiasi alternativa ad esso, descritta come utopistica o
ignorata, censurata, derisa, banalizzata; descrivendo tutto ciò che si
estenda oltre le colonne d’Ercole dei propri orizzonti come il baratro, il
vuoto, la miseria totale, ovvero esercitando un vero e proprio terrorismo
psicologico sulle masse.
La sinistra, si diceva, ha riconosciuto questo fallimento, ma non fino al
punto da ripudiare la propria conversione, non al punto da riconoscere
lucidamente le cause di questo fallimento. Il capitalismo mieteva come
sempre e con ancora più violenza che in passato le proprie vittime, ma
permaneva il pregiudizio antimarxista che nella sinistra convertita
risultava spesso ancor più feroce che nella destra da sempre ostinatamente
liberale. Questa sinistra è stata l’alleato politico più prezioso del Capitale.
Essa ha traghettato le masse politicizzate e sindacalizzate, ma disorientate
dagli avvenimenti storici di fine secolo, entro il recinto liberale,
provvedendo a tenervele rinchiuse.
Mancando, però, la comprensione chiara delle cause, dei rapporti
economici e una critica del capitalismo (sostituita dalla giustificazione, più
o meno mascherata da critica, dello status quo economico) mancando un
partito che organizzi un’opposizione teorica e pratica, la rabbia e la
frustrazione degli strati sociali devastati dalla crisi rischia ora seriamente
di emigrare verso altri lidi. La rabbia sociale repressa, non inquadrata
politicamente e culturalmente sprovveduta, si trasforma in rabbia etnica.
Non potendo lanciarsi verso l’alto, si sfoga verso il basso, verso i gruppi
dei socialmente esclusi. Il principio etnico costituisce una chiave di
semplificazione laddove viene a mancare il principio di classe. Le passioni
sociali più violente possono trovare uno sfiatatoio: il conflitto di classe
rimosso dalle coscienze si etnicizza, trova una discriminante geografica,
da tutti facilmente riconoscibile e utilizzabile.
di “è pazzia”.
L’avanzata delle destre estreme e xenofobe, che si registra negli ultimi
anni, si deve alla repressione culturale degli ideali socialisti e
anticapitalisti scaturita dalla restaurazione neoliberista e dall’inasprirsi
della guerra del capitale finanziario nei confronti di tutti gli altri settori
sociali (eccezion fatta per il grande capitale industriale). La sinistra è stata
non un oppositore ma un alleato in questa strategia, ha abbassato i ponti
levatoi e spalancato le porte per far entrare le truppe nemiche, serbandogli
tutti gli onori e difendendole contro i pochi resistenti che queste
incontravano sul loro cammino.
IV. POLITICA ED ECONOMIA IN DIALOGO PER LA PIENEZZA
UMANA
189. La politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve
sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia…. Il
salvataggio a ogni costo delle banche, facendo pagare il prezzo alla
popolazione, senza la ferma decisione di rivedere e riformare l’intero
sistema, riafferma un dominio assoluto della finanza che non ha futuro e
che potrà solo generare nuove crisi dopo una lunga, costosa e apparente
cura. La crisi finanziaria del [in realtà, iniziata nel] 2007-2008 era
l’occasione per sviluppare una nuova economia più attenta ai principi
etici, e per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria
speculativa e della ricchezza virtuale. Ma non c’è stata una reazione
[politica] che abbia portato a ripensare i criteri obsoleti che continuano a
governare il mondo… In definitiva, ciò che [oggi] non si affronta [più]
con decisione è il problema dell’economia reale….
190. In questo contesto bisogna sempre ricordare che «la protezione
ambientale non può essere assicurata solo sulla base del calcolo
finanziario di costi e benefici. L’ambiente è uno di quei beni che i
meccanismi del mercato non sono in grado di difendere o di promuovere
adeguatamente».[134] Ancora una volta, conviene evitare una concezione
magica del mercato, che tende a pensare che i problemi si risolvano solo
con la crescita dei profitti delle imprese o degli individui…. All’interno
dello schema [attuale] della rendita non c’è posto per pensare ai ritmi della
natura, ai suoi tempi di degradazione e di rigenerazione, e alla complessità
degli ecosistemi che possono essere gravemente alterati dall’intervento
umano. Inoltre, quando [oggi] si parla di biodiversità, al massimo la si
pensa come una riserva di risorse economiche che potrebbe essere
sfruttata, ma non si considerano seriamente il valore reale delle cose, il
loro significato per le persone e le culture, gli interessi e le necessità dei
poveri.
191. Quando si pongono tali questioni, alcuni reagiscono accusando gli
altri di pretendere di fermare irrazionalmente il progresso e lo sviluppo
umano. Ma dobbiamo convincerci che rallentare un determinato ritmo di
produzione e di consumo può dare luogo a un’altra modalità di progresso
e di sviluppo…. Si tratta di aprire la strada a opportunità differenti, che
non implicano di fermare la creatività umana e il suo sogno di progresso,
ma piuttosto di incanalare tale energia in modo nuovo.
192. Per esempio, un percorso di sviluppo produttivo più creativo e
meglio orientato potrebbe correggere la disparità tra l’eccessivo
investimento tecnologico per il consumo e quello scarso per risolvere i
problemi urgenti dell’umanità… La diversificazione produttiva offre
larghissime possibilità all’intelligenza umana per creare e innovare,
mentre protegge l’ambiente e crea più opportunità di lavoro. Questa
sarebbe una creatività capace di far fiorire nuovamente la nobiltà
dell’essere umano, perché è più dignitoso usare l’intelligenza, con audacia
e responsabilità, per trovare forme di sviluppo sostenibile ed equo, nel
quadro di una concezione più ampia della qualità della vita. Viceversa, è
meno dignitoso e creativo e più superficiale insistere nel creare forme di
saccheggio della natura solo per offrire nuove possibilità di consumo e di
rendita immediata.
193. In ogni modo, se in alcuni casi lo sviluppo sostenibile comporterà
nuove modalità per crescere, in altri casi, di fronte alla crescita avida e
irresponsabile che si è prodotta per molti decenni, occorre pensare pure a
rallentare un po’ il passo, a porre alcuni limiti ragionevoli e anche a
ritornare indietro prima che sia tardi. Sappiamo che è insostenibile il
comportamento di coloro che consumano e distruggono sempre più,
mentre altri ancora non riescono a vivere in conformità alla propria dignità
umana. Per questo è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in
alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in
modo sano in altre parti. Diceva Benedetto XVI che «è necessario che le
società tecnologicamente avanzate siano disposte a favorire
comportamenti caratterizzati dalla sobrietà, diminuendo il proprio
consumo di energia e migliorando le condizioni del suo uso».[135]
194. Affinché sorgano nuovi modelli di progresso abbiamo bisogno di
«cambiare il modello di sviluppo globale», [136]… Non basta [cercare di]
conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la rendita
Questa sinistra dovrà rispondere davanti al tribunale della storia non
soltanto per i massacri e i disastri sociali causati da un capitalismo dotato
di “licenza di uccidere”, ma anche per le recrudescenze della frustrazione
popolare, per l’enticizzazione del malcontento e per tutto ciò che ne deriva
e ne deriverà.
(fonte: Pressenza: international press agency)
link:
www.pressenza.com/it/2015/07/lavanzata-delle-destre-estreme-e-leresponsabilita-della-sinistra-liberale/
Religioni
La enciclica “Laudato sii” puntata e ristretta (di
Antonino Drago)
L’ultima enciclica di Papa Francesco è certamente molto importante. Il
primo motivo, secondo me, è l’aver acquisito alla dottrina sociale della
Chiesa il tema dell’ecologia.
Il secondo è di averlo fatto dirigendosi a tutti gli uomini, in un dialogo che
si accorda con il pensiero ecologista e che implicitamente propone una
nuova etica universale a cui tutti possono dare contributi.
Questi fatti storici però vengono sminuiti dall’aver mantenuto il
linguaggio tipico di quel tipo di magistero, in cui non risultano chiare le
cause sociali, le responsabilità, i cambiamenti da compiere noi cattolici e
più in generale, le prospettive storiche, il tutto in una concezione ben
congegnata e senza sbaffi, riempitivi, diversivi, aggiunte consolatorie.
Inoltre la lunghezza eccezionale della enciclica rischia di disorientare chi
la voglia assumere come direzione di lavoro.
Per rimediare a questi difetti si può fare una operazione: prendere la parte
più saliente dell’enciclica e snellirla nel linguaggio, sì da renderla
stringente. Ammetto che questa operazione è un po’ una forzatura; ma è
anche una chiarificazione ideale; che se anche non rappresenta
esattamente la mente di papa Francesco, però rende più chiara una delle
direzioni di lavoro lì indicate. In questo senso, e con questa avvertenza,
considero lecita e utile l’operazione del seguito.
La parte più saliente di questa enciclica mi appare un brano che tratta non
tanto i temi ecologici, quanto il quadro socio-economico in cui essa
colloca il problema ecologico oggi, il Cap. V, IV. Questa parte descrive in
maniera molto forte il problema della attuale economia mondiale, la quale
è diventata una morsa oppressiva quasi insostenibile, senza che appaia una
risposta politica adeguata. E’ di questa descrizione sistematica che oggi i
cattolici e tutte le persone nel mondo hanno bisogno per orientare le loro
vite a costruire assieme un mondo più giusto e più ecologico.
Secondo me, se anche l’enciclica fosse ristretta a questo solo brano
costituirebbe una novità radicale. Ma se queste 8 pagine restano immerse
in un testo di 184 pagine, rischiano quanto meno di restare nell’ombra, o
scomparire nel contesto di tanti problemi e di un frasario ridondante.
Eccone una versione ottenuta semplicemente rinsecchendo quel brano alle
parti più importanti e più forti.
Nota. Mi sono permesso di modificare leggermente qualche punto
dell’enciclica inserendo parole in parentesi quadre [], perché non sempre il
testo ufficiale pubblicato sul sito “Vatican.va” è risultato fedele
all’originale. Vedasi il famoso esempio della condanna della guerra
nucleare al pt. 67 della Pacem in Terris: “alienum a ratione” che ancora
oggi (vedi il sito) è tradotto con “riesce quasi impossibile pensare”, invece
9
finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il progresso. Su questo
tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro.
Semplicemente si tratta di ridefinire il progresso. Uno sviluppo
tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità
di vita integralmente superiore, non può considerarsi progresso…. In
questo quadro, il discorso della crescita sostenibile diventa spesso un
diversivo e un mezzo di giustificazione che assorbe [i] valori del discorso
ecologista all’interno della logica della finanza e della tecnocrazia, e [così]
la responsabilità sociale e ambientale delle imprese si riduce per lo più a
una serie di azioni di marketing e di immagine.
195. Il principio della massimizzazione del profitto, che tende a isolarsi da
qualsiasi altra considerazione, è una distorsione concettuale
dell’economia: se aumenta la produzione, interessa poco che si produca a
spese delle risorse future o della salute dell’ambiente; se il taglio di una
foresta aumenta la produzione, nessuno misura in questo calcolo la perdita
che implica desertificare un territorio, distruggere la biodiversità o
aumentare l’inquinamento. Vale a dire che le imprese ottengono profitti
calcolando e pagando una parte infima dei costi. Si potrebbe considerare
etico solo un comportamento in cui «i costi economici e sociali derivanti
dall’uso delle risorse ambientali comuni siano riconosciuti in maniera
trasparente e siano pienamente supportati da coloro che ne usufruiscono e
non da altre popolazioni o dalle generazioni future».[138]…
196. Qual è il posto della politica?… È vero che oggi alcuni settori
economici esercitano più potere degli Stati stessi. Ma non si può
giustificare un’economia senza politica [pubblica]…
197. Abbiamo bisogno di una politica che pensi con una visione ampia, e
che porti avanti un nuovo approccio integrale, includendo in un dialogo
interdisciplinare i diversi aspetti della crisi…. Se la politica non è capace
di rompere una logica perversa, e inoltre resta inglobata in discorsi
inconsistenti, continueremo a non affrontare i grandi problemi
dell’umanità…. [infatti] non basta inserire considerazioni ecologiche
superficiali mentre non si mette in discussione la logica soggiacente alla
cultura attuale. Una politica sana dovrebbe essere capace di assumere
questa sfida.
198. La politica e l’economia tendono a incolparsi reciprocamente per
quanto riguarda la povertà e il degrado ambientale. Ma quello che ci si
attende è che riconoscano i propri errori e trovino forme di interazione
orientate al bene comune. Mentre gli uni si affannano solo per l’utile
economico e gli altri sono ossessionati solo dal conservare o accrescere il
potere, quello che ci resta sono guerre o accordi ambigui dove [= nei
quali] ciò che meno interessa alle due parti è preservare l’ambiente e avere
cura dei più deboli….”
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link: http://serenoregis.org/2015/07/30/la-enciclica-laudato-sii-puntata-e-ristrettaantonino-drago/
Stili di vita
Il carrello della spesa? Riempiamolo di biodiversità!
(di Slowfood.it)
Uno studio condotto nel 2011 da ricercatori dell’Università di Exeter ha
previsto la scomparsa di una specie su 10 entro la fine del secolo: si è
innescata quella che chiamano sesta estinzione di massa. Con la quinta –
65 milioni di anni fa – si erano estinti i dinosauri. Ma c’è una differenza
sostanziale tra l’estinzione presente e quelle del passato. Il responsabile di
questa crisi ecologica globale è l’uomo.
In 70 anni abbiamo distrutto i tre quarti dell’agro-biodiversità che i
contadini avevano selezionato nei 10.000 anni precedenti. Ed ecco alcuni
esempi
Api
Nel 2007 le api mellifere – impollinatrici di gran parte dei vegetali che
mangiamo – hanno cominciato a morire in massa. In Europa, le morie si
sono attestate intorno al 20%, mentre negli Stati Uniti, nell’inverno del
2013/2014, hanno superato il 40%.
Foreste
10
Ogni anno distruggiamo 10 milioni di ettari di foreste pluviali (nel
Borneo, in Amazzonia, in Africa), per far posto a palme da olio e campi di
soia.
Mangrovie
Le mangrovie e le barriere coralline, habitat di numerose specie e
protezione fondamentale per i litorali, si sono già ridotte rispettivamente
del 35% e del 20%. L’equilibrio si è rotto quando abbiamo iniziato a
gestire le fattorie come industrie. L’industria non tollera i tempi della
natura, non ha stagioni né pazienza. Deve produrre sempre, tanto,
velocemente e nel modo più efficiente possibile. Deve produrre in serie.
Prima di allora si arricchivano i terreni grazie alla rotazione con le
leguminose (fagioli, fave, piselli) e al letame degli animali. Ma da quel
momento, abbiamo iniziato a comprare fertilizzanti, pesticidi, diserbanti,
carburanti per le macchine. Abbiamo iniziato a cibarci di petrolio.
È un destino segnato? O possiamo favorire un cambio di direzione? Noi
siamo convinti di sì! Possiamo, con le nostre scelte quotidiane, favorire
altri comportamenti, altri tipi di agricoltura, di produzione alimentare.
Iniziamo a scegliere il cibo con consapevolezza, partiamo dal nostro
territorio, impariamo a conoscerlo: sarà ricco di ortaggi, frutta, razze
locali, pani, formaggi, salumi, dolci tradizionali che sicuramente sapranno
soddisfare anche i palati più esigenti. E quando facciamo la spesa teniamo
presente alcuni piccoli accorgimenti. Ecco quali:
Carne
Continuare a mangiare carne con i livelli di consumo a cui si è abituato
l’Occidente – e a cui si avvicinano anche i paesi emergenti – non è più
possibile. I costi ambientali degli allevamenti intensivi sono enormi, per
non parlare della sofferenza cui sono sottoposti gli animali allevati con
questi metodi crudeli. Il nostro consiglio? Consumiamo meno carne, di
migliore qualità, proveniente da allevamenti attenti al benessere animale e
alla qualità dell’alimentazione del bestiame. Privilegiamo le razze locali e
i tagli meno noti, così eviteremo che molta della carne vada sprecata.
Gamberetti
Vi siete mai chiesti da dove arrivano i gamberetti che porti in tavola?
Perlopiù provengono da zone tropicali, dove sono oggetto di pesca
intensiva. Il risultato? I loro stock sono vicini al massimo limite di
sfruttamento e le tecniche utilizzate per pescarli sono devastanti per
l’ambiente. Per non parlare delle condizioni inumane cui sono ridotti molti
migranti costretti a lavorare sui pescherecci (ne abbiamo parlato qui)
Meglio quelli di allevamento? No, perché, per allevarli, sono distrutte ogni
anno ampie porzioni di foreste di mangrovia, con conseguenze gravissime
per l’ambiente e per la sopravvivenza dei pescatori di piccola scala. Quali
scegliere allora? Cerchiamo quelli che arrivano da mari vicini. Oppure
proviamo alternative meno note ma molto buone, come gli scampi, le
cicale di mare e tanti altri crostacei!
Banane
A livello mondiale, il commercio delle banane è in mano a cinque
multinazionali che le coltivano su immensi latifondi, facendo uso di
pesticidi, fertilizzanti chimici di sintesi e fungicidi, spesso sfruttando il
lavoro degli agricoltori locali. La raccolta dei caschi di banane non è che
l’inizio di un lungo viaggio – in nave, attraverso l’oceano – e poi su
gomma – dai centri di stoccaggio, dove vengono fatte maturare, ai
mercati. Il mercato è dominato da una sola varietà, la Cavendish, mentre
moltissime altre sono perlopiù sconosciute. Quale scegliere? Proviamo
quelle biologiche del commercio fairtrade, che offrono maggiori garanzie
di sostenibilità ambientale e sociale!
Una merendina e una bibita
La maggior parte delle bibite disponibili sul mercato sono zuccherate con
lo sciroppo di mais (Hfcs) e piene di additivi e coloranti. Ecco perché sono
una delle principali cause dell’obesità. Per di più tantissime contengono
l’olio di palma. E che problema c’è, vi chiederete voi: per fabbricarlo ogni
anno, sono abbattute ampie superfici di foresta pluviale con conseguente
devastazione di flora e fauna. Siete sicuri che valga la pena devastare il
pianeta per uno snack? Aguzziamo l’ingegno, impieghiamo un po’ di
tempo e scegliamo qualcosa di più buono e meno impattante per
l’ambiente: una spremuta, un frullato fatti in casa, pane burro e
marmellata. Una torta fatta in casa. Oppure cerchiamo di leggere bene gli
ingredienti prima di effettuare l’acquisto!
Spreco alimentare
Dove finiscono le bottiglie di plastica, gli imballaggi delle merendine, il
cibo che abbiamo comprato in eccesso o ancora quello che non abbiamo
neanche potuto acquistare – la mela maculata, la carota storta – perché al
supermercato non c’è mai arrivato? I numeri dello spreco mondiale sono
impressionanti: in Nord America e in Europa ognuno di noi spreca circa
280-300 chili di cibo all’anno. E, nel resto del mondo, milioni di persone
soffrono la fame. Facciamo più attenzione ai nostri acquisti! Compriamo
prodotti di stagione, più vicino a noi quando possibile e tradizionmagari
direttamente dal produttore. E impariamo dalla popolare: gli avanzi del
giorno prima possono diventare vere leccornie.
Da Slowfood.it
(fonte: Unimondo newsletter)
link:
http://www.unimondo.org/Notizie/Il-carrello-della-spesa-Riempiamolo-dibiodiversita!-151795
Notizie dal mondo
Il patto militare con Israele, stipulato a nome del governo Tsipras, non è
solo un successo personale di Kammenos. Esso rientra nella strategia
Usa/Nato che, nell’offensiva verso Est e verso Sud, mira a integrare
sempre più strettamente la Grecia non solo nell’Alleanza ma nella più
ampia coalizione comprendente paesi come Israele, Arabia Saudita,
Ucraina e altri.
Il segretario generale Stoltenberg ha dichiarato che il «pacchetto di
salvataggio» Ue per la Grecia è «importante per l’intera Nato», essendo la
Grecia un «solido alleato che spende oltre il 2% del pil per la difesa»
(livello raggiunto in Europa solo da Gran Bretagna ed Estonia).
Particolarmente importante per la Nato la base aeronavale della baia di
Suda a Creta, usata permanentemente dagli Stati uniti e altri alleati, negli
ultimi anni per la guerra contro la Libia e le operazioni militari in Siria.
Utilizzabile ora, grazie al patto con la Grecia, anche da Israele soprattuto
in funzione anti-Iran.
In tale quadro strategico si ricompongono i contrasti d’interesse fra Grecia
e Israele, da un lato, e Turchia dall’altro. La Turchia, dove la Nato ha oltre
20 basi e il Comando delle forze terrestri, in nome della «lotta all’Isis»
bombarda i curdi del Pkk (veri combattenti anti-Isis) e, insieme agli Usa e
ai «ribelli», si prepara a occupare la fascia settentrionale del territorio
siriano. Appellandosi all’Art. 4 del Patto Atlantico, in quanto ritiene
minacciate la propria sicurezza e integrità territoriale.
L’arte della guerra, il manifesto, 28 luglio 2015
Grecia
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link: http://serenoregis.org/2015/07/30/patto-militare-grecia-israele-manlio-dinucci/
Patto militare Grecia-Israele (di Manlio Dinucci)
Kurdistan
Quando in Grecia è andato al governo Tsipras, in Israele è suonato
l’allarme: Syriza, sostenitrice della causa palestinese, chiedeva di porre
fine alla cooperazione militare della Grecia con Israele. Di fronte alla
brutale repressione israeliana contro i palestinesi, avvertiva Tsipras, «non
possiamo rimanere passivi, poiché quanto accade oggi sull’altra sponda
del Mediterraneo, può accadere sulla nostra sponda domani».
Sette mesi dopo, cessato allarme: Panos Kammenos, ministro della difesa
del governo Tsipras, è andato in visita ufficiale a Tel Aviv, dove il 19
luglio ha firmato col ministro israeliano della difesa, Moshe Ya’alon, un
importante accordo militare. Per tale mossa, Kammenos, fondatore del
nuovo partito di destra Anel, ha scelto il momento in cui la Grecia era
attanagliata dalla questione del debito.
L’«Accordo sullo status delle forze», comunica il Ministero greco della
difesa, stabilisce il quadro giuridico che permette al «personale militare di
ciascuno dei due paesi di recarsi e risiedere nell’altro per partecipare a
esercitazioni e attività di cooperazione». Un accordo simile Israele lo ha
firmato solo con gli Stati uniti. Nell’agenda dei colloqui anche la
«cooperazione nel campo dell’industria militare» e la «sicurezza
marittima», in particolare dei giacimenti offshore di gas che Israele,
Grecia e Cipro considerano propria «zona economica esclusiva»,
respingendo le rivendicazioni della Turchia.
Sul tavolo dell’incontro «le questioni della sicurezza in Medioriente e
Nordafrica». Facendo eco a Ya’alon che ha denunciato l’Iran quale
«generatore di terrorismo, la cui ambizione egemonica mina la stabilità di
altri Stati», Kammenos ha dichiarato: «Anche la Grecia è nel raggio dei
missili iraniani; se uno solo riesce a raggiungere il Mediterraneo, potrebbe
essere la fine degli Stati di questa regione». Ha quindi incontrato i vertici
delle forze armate israeliane per stabilire un più stretto coordinamento con
quelle greche.
Contemporaneamente il capo della marina militare ellenica, il viceammiraglio Evangelos Apostolakis, ha firmato con la controparte
israeliana un accordo di cooperazione su non meglio precisati «servizi
idrografici».
11
Il conflitto tra la Turchia e i curdi (di Robert Fisk)
I curdi sono nati per essere traditi. A quasi ogni aspirante staterello in
Medio Oriente era stata promessa la libertà dopo la Prima Guerra
mondiale e i curdi inviarono perfino una delegazione a Versailles per
chiedere una nazione e confini sicuri.
Ma con il Trattato di Sèvres, nel 1920, hanno avuto una piccola nazione in
quella che era stata la Turchia. Poi arrivò il nazionalista turco Mustafa
Kemal Ataturk che riprese la terra che la nazione curda potrebbe aver
guadagnato. E così i vincitori della Grande Guerra si sono incontrati a
Losanna nel 1922-23 e hanno abbandonato i curdi (e anche gli armeni) che
erano ora divisi tra il nuovo stato turco, la Siria francese e l’Iran e l’Iraq
britannico. Quella è stata la loro tragedia da allora – e quasi ogni potenza
regionale vi ha partecipato. I più brutali sono furono i turchi e gli arabi
iracheni, i più cinici i britannici e gli americani. Non c’è da meravigliarsi
se i turchi sono tornati a bombardare i curdi.
Quando si sono ribellati contro Saddam Hussein in Iraq all’inizio degli
anni ’70, gli americani li hanno appoggiati, insieme allo Scià dell’Iran. Poi
il Segretario di stato americano Henry Kissinger, ha progettato un accordo
tra Iran e Iraq: lo Scià avrebbe ricevuto un diritto territoriale, e, in cambio,
avrebbe abbandonato i curdi. Gli Americani bloccarono le loro forniture di
armi. Saddam ne uccise forse 182.000. “La politica estera”, osservò Mr
Kissinger, “non dovrebbe essere confusa con un’opera missionaria.”
Avreste pensato che i curdi forse potrebbero aver imparato la lezione, ma
all’inizio della prima guerra del Golfo per liberare il Kuwait, sono stati
spinti dagli americani – o piuttosto da una stazione radio segreta della CIA
che operava dall’Arabia Saudita – a sollevarsi contro Saddam. E hanno
obbedito. Gli americani li hanno lasciati morire a migliaia, di nuovo,
soltanto costretti , settimane dopo, a creare una zona “sicura” nell’Iraq
settentrionale dopo che decine di migliaia di civili curdi avevano fatto un
viaggio a piedi sotto il fuoco in un esodo biblico verso la salvezza della
Turchia. Alla fine la zona “sicura” dell’America si dimostrò illusoria.
Anche quando gli Stati Uniti programmarono di invadere l’Iraq di Saddam
attraverso il Kurdistan nel 2003, i curdi scoprirono che Turchi avevano
intenzione di mandare 40.000 soldati con loro. I turchi volevano impedire
che i curdi prendessero le città irachene di Mosul e Kirkuk; Ankara
temeva che uno pseudo stato curdo con un governo proprio, si sarebbe
insinuato in Turchia attraverso il confine.
persona, è difficile immaginare una situazione in cui questa persona se ne
stia in disparte e semplicemente esibisca cartelli contro la demolizione e
che gli animi non si scaldino, soprattutto quando se ciò avviene di
sorpresa,” ha scritto nella sentenza Keidar il 29 giugno.
E quando i turchi iracheni combatterono l’ISIS l’anno scorso –mentre gli
Americani decidevano di nuovo che i curdi in un certo senso erano utili –
la Turchia osservava mentre il Kurdistan diventava l’avanguardia della
battaglia dell’Occidente. Kobane era una mini Stalingrado e la sua difesa
da parte dei di curdi di orientamento marxista ha reso l’umiliazione della
Turchia più dolorosa. I combattenti del PKK (il Partito dei Lavoratori del
Kurdistan) lungo la striscia settentrionale della Siria e dell’Iraq sono stati
considerati degli eroi.
“Non ci si può aspettare che una persona non resista alla distruzione della
sua casa, così come ha fatto la gente di ogni settore del Paese, come ad
Yamit, Gush Katif, Amona, Givat Amal [a Tel Aviv] ed altrove. In questi
esempi ci sono stati (parecchi) proprietari di case che hanno preso
iniziative violente e sono stati arrestati, ma non mi pare che siano stati
trattenuti più di qualche giorno per essere interrogati e non fino al termine
delle procedure legali nei loro confronti.”
Questo non si poteva permettere. E così quando l’Isis attaccò i kurdi turchi
che cercavano aiuto per la ricostruzione di Kobane, con un devastante
bombardamento suicida a Suruc – seguito dal PKK che rivendicò la
responsabilità dell’uccisione di due poliziotti turchi – la Turchia decise di
attaccare il PKK sotto la copertura di un bombardamento contro l’Isis. Gli
americani dovevano essere mantenuti contenti con la riapertura della
base aerea di Incirlik – nel Kurdistan turco – e il mondo avrebbe
dimenticato che i combattenti islamisti avevano ricevuto la libertà di
attraversare il confine tra Turchia e Siria.
Con la loro più recente campagna aerea, i turchi stanno seguendo la strada
del Pakistan verso la corruzione totale, quando quel paese era diventato un
canale per le armi e la guerriglia verso l’Afghanistan – con
l’incoraggiamento degli americani – negli anni ’80. I pachistani hanno
appoggiato in vari modi i mujahedin, i talebani e gli altri gruppi islamisti.
L’accusa sostiene che Zagharna ha aggredito un poliziotto di frontiera con
una pietra delle dimensioni di un pompelmo e che è ancora un pericolo
pubblico. La difesa dice che è arrivato per difendere suo padre, che i
poliziotti stavano picchiando.
Qualunque festeggiamento nel caso di Keidar era prematuro; il normale
sistema di giudizio è stato immediatamente rimesso a posto. Il pubblico
ministero militare ha presentato appello contro la sua liberazione su
cauzione e il vice presidente della Corte d’appello militare, il tenente
colonnello Zvi Lekah, ha deciso che Zagharna, arrestato il 7 maggio,
debba rimanere in carcere fino alla fine del procedimento legale.
Questo è il modo in cui il sistema giudiziario militare obbliga i palestinesi
al patteggiamento. L’imputato si dichiara colpevole perché se attende il
processo in cui i testimoni sono interrogati in modo corretto, finisce per
stare in prigione più a lungo di qualunque pena ricevesse in caso di
condanna.
In quanto ai curdi, si sono forse imbattuti per caso nelle parole di Arthur
Harris, il capo dello squadrone della RAF che aveva contribuito a
schiacciare l’insurrezione irachena del 1920? “Gli arabi e i curdi adesso
sanno,” ha detto, “che cosa significano i veri bombardamenti in termini di
vittime e danni. In 45 minuti un villaggio di grandi dimensioni può essere
praticamente spazzato via e un terzo dei suoi abitanti può essere ucciso o
ferito.” Chiaramente i turchi la pensano allo stesso modo.
Un’eccezione come Keidar fa giurisprudenza e questa linea di condotta ci
fa dimenticare che il sistema della giustizia militare è una catena di
montaggio per la detenzione di massa, parte integrante dell’elaborato e
sofisticato meccanismo di abusi per annullare i desideri di un popolo e la
capacità di riprendersi la sua terra e la sua libertà.
Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo www.znetitaly.org
Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/turkey-kurdish-conflict/
Originale : The Independent Traduzione di Maria Chiara Starace
A differenza delle colonie di Amona e Gush Katif a Gaza, il quartiere di
Sidri, dove vive Zagharna, non è stato costruito sulla terra rubata agli altri.
La maggior parte delle sue case è stata costruita prima del 1967 o appena
dopo. Israele non ha scuse per poterle demolire, ma può rendere piuttosto
miserabile la vita dei residenti.
29 luglio 2015
http://znetitaly.altervista.org/art/18043
Palestina e Israele
Tra queste, non includerli nel progetto complessivo del villaggio,
impedendo loro di ampliare le loro case o costruirne di nuove e rifiutando
di collegarli alla rete elettrica e idrica. Benché il villaggio di Ramadin sia
stato inserito nell’area B, sotto il controllo civile palestinese, il quartiere di
Sidri è inserito nell’Area C, sotto il totale controllo israeliano. Perché? Per
prendersi più terra possibile da annettere a Israele.
Il sistema della giustizia militare israeliano – una
catena di montaggio per la detenzione di massa (di
Amira Hass)
A pochi chilometri dal rione di Sidri c’è Sansana, un avamposto non
autorizzato e illegale costruito nel 2000, a cui il governo ha concesso il
riconoscimento ufficiale nell’aprile 2012. Sansana, ora autorizzato ma
illegale, avrà bisogno di spazio per ingrandirsi, e Sidri si trova sulla sua
strada.
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link:
http://serenoregis.org/2015/07/30/il-conflitto-tra-la-turchia-e-i-curdi-robertfisk/
E’ anche parte integrante del meccanismo di annullamento dei desideri di
un popolo e della capacità di prendersi la sua terra e la sua libertà
Uomo morde cane – ecco perché il caso di Mohib Zagharna attira la nostra
attenzione. C’è un giudice della corte militare di Ofer che considera
l’uguaglianza un valore accettabile.
Il tenente colonnello Shmuel Keidar aveva deciso che Zagharna avrebbe
dovuto essere rilasciato su cauzione dopo che lui ed altri si sono azzuffati
con le forze di polizia di frontiera e ispettori dell’Amministrazione civile
che erano arrivati per smantellare la linea elettrica nel suo quartiere del
villaggio di Ramadin, a sud della Cisgiordania.
“Quando le forze di sicurezza arrivano per distruggere la casa di una
12
Nel 2008 la compagnia elettrica palestinese ha allacciato il rione al XX
secolo, piazzando 40 pali e portato i fili della luce fino alle loro case.
Anche questo è resistere all’occupazione.
Ma nell’aprile 2012 l’Amministrazione civile [israeliana, in realtà
militare, dei Territori occupati. N.d.tr.] ha emesso un ordine di
demolizione dei pali elettrici. Sperando che il sistema israeliano
dimostrasse un poco di correttezza, i residenti hanno iniziato una
procedura amministrativa e legale per ottenere un permesso edilizio
retroattivo per i pali. La demolizione ha avuto luogo nel bel mezzo di
questa causa. Un arresto come quello di Zagharna ha l’obiettivo di far in
modo che gli altri si sottomettano.
I giudici militari devono essere semplici ingranaggi nelle ruote del grande
bulldozer, ma sono ingranaggi con libertà di scelta. Un giorno si
troveranno a dover difendere le loro decisioni in tribunale.
Campagna Ponti e non muri
Pellegrini di Giustizia 2015
per interviste e contatti con la stampa: 00972 543176361
15.07.15, Haaretz, (trad. di Amedeo Rossi)
Fonte: Pax Christi Italia
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link: http://serenoregis.org/2015/07/21/il-sistema-della-giustizia-militare-israelianouna-catena-di-montaggio-per-la-detenzione-di-massa-di-amira-hass/
(fonte: Pax Christi Italia)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2320
Fuori dal coro: che montagna di ipocrisia... (di
Campagna Ponti e non muri, Pellegrini di Giustizia
2015)
Scusate, ma stando qui in Cisgiordania non si può non rimanere fuori da
questo coro di commossa condanna e sgomento che tutti accomuna, nel
nome del piccolo Ali, ucciso a Nablus. Anzi, se foste qui sareste nauseati
dall'insistenza con cui i media italiani continuano a riproporre le immagini
della casa di questo bambino data a fuoco dai coloni, semplicemente
perchè dalla mattina alla sera vediamo centinaia di bambini come Ali
minacciati dai soldati e aggrediti dai coloni.
Ma essi non fanno notizia.
E delle migliaia di Ali arrestati e detenuti non si deve parlare, come d'altra
parte nessuno ha pubblicato anche solo una foto come quella di Ali per
qualcuno deI quasi 500 (cinquecento) bambini massacrati esattamente un
anno fa a Gaza. Nessun servizio di questi giorni ha accennato al primo
anniversario del massacro di più di duemila palestinesi.
Se foste qui non dareste certo credito alla “dura condanna” di Natanyahu
verso questi “estremisti”, semplicemente perchè questi signori sono la
maggioranza del suo governo ultranazionalista, con i leader più violenti
dei coloni ad occupare le più alte cariche di governo.
Se come noi aveste gli occhi pieni di queste “cittadine ebraiche” (così
definiva gli insediamenti un giornale italiano) che crescono come funghi
in territorio non “conteso” ma palestinese, non credereste certo alle
dichiarazioni del ministro per la sicurezza, per cui “dovremo imparare la
lezione”. Infatti il governo sta approvando anche in questi giorni nuovi
piani di “sviluppo” con la costruzione di centinaia nuove case. Ma questo
non scandalizza nessuno.
Avremmo piuttosto voluto avere con noi anche un solo giornalista ieri a
Bir Zeit, a pochi minuti dalla casa del giovanissimo Mohammed ucciso
l'altro ieri dall'esercito, quando abuna Manuel, per tanti anni parroco di
Gaza, ci ha chiesto di smuovere i nostri governi tiepidi ed incapaci di “dire
la verità dei fatti che ha un nome: occupazione israeliana, così come
hanno un nome le quattro colonne della pace: giustizia, verità, sviluppo e
perdono. Tutte necessarie, certo, anche se per la Palestina e per la sua pace
andrebbero puntellate soprattutto le colonne della giustizia e della verità!”
E se dall'Italia la commozione dello Stato d'Israele vi è apparsa sincera nei
confronti di un bimbo di 18 mesi bruciato vivo nella sua casa, abbiamo
accolto con ben maggior credito le parole dell'amico israeliano Zvi
Shuldiner, che ieri a Gerusalemme ci ha descritto come “un coro di
ipocriti” queste condanne di suoi connazionali. “Tutti ripetono all'unisono:
atto orribile e deprecabile! E così noi in Israele siamo soddisfatti,
continuando indisturbati a tenere quattro milioni di palestinesi chiusi
nell'enorme carcere gestito dall'”unica democrazia del medioriente”. E
magari da voi in Italia tutti avranno pensato: guarda che grande prova di
etica hanno dato i governanti israeliani!”
Insomma, forse vi sembrerà strano che, vista da qui, non ci appare affatto
positiva questa commozione generale per la terribile morte del piccolo Ali,
perchè se il cittadino israeliano Shuldiner descrive i suoi governanti come
“un coro di ipocriti”, a noi, cittadini italiani che in questi giorni ci
ostiniamo a dar voce ai milioni di palestinesi schiacciati dall'occupazione
e dalla colonizzazione, quella dei nostri media e dei nostri politici ci
appare più che un coro: una montagna di ipocrisia.
13
Scarica

versione stampabile - Accademia Apuana della Pace