CORSO
DI STORIA
DELLE DONNE
NEL MONDO
ANTICO
gennaio - marzo 2004
Questa pubblicazione è stata resa possibile per il contributo dell’Assessorato alla Pari Opportunità della Provincia di Treviso
La famiglia è il cuore della società, il nucleo solido dal quale crescono le potenzialità di trasformazione sociale e i valori più significativi. Non vi è tuttavia ancora piena consapevolezza della profonda importanza della donna sia in ambito familiare sia nell’attuale tessuto socio-culturale ed economico. Proprio per
comprendere al meglio la grande forza di questo apporto, è necessario valorizzarlo alla luce degli sviluppi
del ruolo femminile nella storia.
Il “Corso di Storia delle Donne nel Mondo Antico” rientra perfettamente all’interno di questa necessità perché sensibilizza sui traguardi raggiunti dalle donne nei secoli, traguardi che hanno spaziato a tutti i livelli,
giuridico, istituzionale e culturale e che possiedono ancora ampi margini di progresso. Viviamo in un tempo
dove i cambiamenti avvengono repentini e confusi, e nel quale visioni opposte del ruolo della donna vengono obbligatoriamente a confronto, rimbalzando l’un l’altra attraverso la proposta mediatica, che spesso utilizza l’icona femminile per attirare attenzioni, consensi e dibattiti. Anche per questo, voglio ricordare, già in
passato la Provincia di Treviso ha proposto riflessioni sul ruolo della donna, in particolare attraverso le scuole, con la campagna “Veli Veline - Vittime, complici o protagoniste?”.
Con il corso di “Storia delle Donne”, la Provincia di Treviso continua dunque il suo impegno nel campo
delle Pari Opportunità, augurandomi che incontri come questi diano vita ad esperienze significative per
quanti sono sensibili alla convivenza paritaria tra uomo e donna, un valore civile fondamentale per il nostro
avvenire e da trasmettere con costanza alle generazioni future.
Luca Zaia
Presidente della Provincia di Treviso
Sostenere il “Corso di storia delle donne nel mondo antico” è un onore per la Provincia di Treviso che
partecipa con interesse alle iniziative di valorizzazione della storia e, in particolare, della nostra storia, perché è la principale chiave di lettura del presente e fonte di insegnamenti per il futuro. È in quest’ottica che
uno studio sulla condizione della donna nel passato può orientare alla risoluzione delle situazioni controverse attuali.
Come Assessorato alle Pari opportunità seguiamo con grande attenzione i mutamenti socio-culturali legati
ai valori fondamentali nella nostra civiltà, tra cui spicca la parità tra uomo e donna.
La strada è ancora lunga per diffondere la cultura della piena partecipazione delle donne al sistema lavorativo, sociale e in generale a tutte le espressioni della vita civile. È un passaggio complesso, che attraversa
tutti i settori e gli ambiti del vivere, e che consiste principalmente nel conciliare esigenze apparentemente
contrastanti. Ma proprio tali difficoltà e complessità possono costituire lo stimolo a ricercare nuove forme di
conciliazione.
Paolo Speranzon
Assessore alle Pari Opportunità della Provincia di Treviso
Do il benvenuto ai partecipanti e rivolgo un ringraziamento particolare a tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questo Corso, importante perché noi parliamo di donne in un momento della
nostra storia in cui, dopo molti anni di dibattiti e di lotte, si comincia a prendere coscienza del reale ruolo
della donna nella società. E io credo che le riflessioni che noi possiamo fare ci possano aiutare ad affermare
ed approfondire il nostro ruolo nella società.
Oltre a ringraziare l’Assessorato provinciale alla Pari Opportunità, ringrazio in maniera particolare anche il
Punto CLE “X Regio del Centrum Latinitatis Europae”, coordinato dalla prof.ssa De Vecchi, che è riuscita
ad attirare l’attenzione non solo su questo tema, ma soprattutto sulla motivazione dello studio delle materie
classiche.
Il Corso che oggi presentiamo ne è un esempio. Io credo che il latino e le culture classiche non siano state
dimenticate, ritengo che abbiano uno spazio dentro di noi perché riguardano ciò che è stato il nostro passato. Il passato delle donne e il loro ruolo nella società è ancora argomento, per molti versi, inesplorato.
Concludo con l’augurio che da questo Corso possa scaturire un’esperienza importante non solo per il Liceo
Canova, ma anche per tutti coloro che sono sensibili alla convivenza paritaria tra uomo e donna, un valore
civile molto importante per il nostro futuro.
Ringrazio tutti coloro che sono intervenuti e soprattutto i ragazzi che da questa esperienza culturale potranno trarre spunti per approfondire la loro preparazione scolastica e umana.
Alfea Faion
Preside del Liceo Classico “A. Canova”- Treviso
Devo dire che è un onore per me porgere il benvenuto ai presenti e, come Presidente del Consiglio
d’Istituto del Liceo Canova, sono felice che la scuola ospiti questa interessante iniziativa dedicata alla storia delle donne nel mondo antico e con relatrici tutte donne.
Il loro contributo sarà certamente originale, perché viene da donne che hanno vissuto e stanno ancora vivendo sulla loro pelle i grandi cambiamenti e le contraddizioni del nostro tempo.
Spero possa essere di stimolo e di riferimento alle giovani generazioni femminili alle quali vengono richieste
sempre nuove competenze, responsabilità e competitività sia in ambito familiare, essendo profondamente in
crisi gli stessi ruoli tradizionali uomo-donna, sia nel mondo del lavoro in questa epoca di globalizzazione
totale.
Perciò auguro a tutti un buon lavoro.
Rita Pillon
Presidente del Consiglio d’Istituto del Liceo Classico “A. Canova”- Treviso
Introduzione
Iniziamo ponendoci delle domande:
-
Le donne hanno una storia?
Che cosa si sa delle donne nel mondo antico?
A quali fonti possiamo attingere?
Le donne sono solo rappresentate o anche descritte?
E infine, perché una storia delle donne?
A queste e ad altre domande si prefigge di rispondere questo Corso di storia delle donne nel mondo antico, che prende avvio oggi.
Con questa mia introduzione cercherò di suggerire qualche risposta all’ultimo interrogativo, mentre gli
altri saranno esaminati nel corso delle lezioni proposte.
Perché una storia delle donne?
I motivi possono essere essenzialmente tre e sono da ricercarsi negli orientamenti storiografici più recenti:
1) Riscoperta della famiglia come cellula fondamentale ed evolutiva delle società
2) Allargamento progressivo dell’indagine storica al quotidiano
3) I movimenti delle donne che si sono posti degli interrogativi e hanno cercato di dare delle risposte
indagando nel passato.
La finalità dell’attuale corso è quella di affrontare un piccolo numero di questioni che ci sono sembrate
importanti per aiutare a comprendere il posto che le donne occupavano nel mondo antico, tra normalità
ed eccezione.
Questa indagine (che mi auguro possa continuare con altri corsi dedicati ad altre epoche) vuole contribuire a far capire i fondamenti:
1) di alcune abitudini mentali;
2) di misure giuridiche;
3) di istituzioni che sono durate per secoli.
Il corso proporrà dei percorsi, che possono avere anche una valenza didattica.
Desidero ringraziare innanzitutto coloro che hanno permesso la realizzazione di questa iniziativa e in particolare la Preside del liceo Alfea Faion e l’Assessore Provinciale alle Pari Opportunità Paolo Speranzon.
Il contributo della Provincia ha consentito la pubblicazione di questi Atti, una tradizione non sconosciuta
per il nostro liceo; infatti nell’esposizione attualmente in corso “150 anni di editoria in Treviso” si può
vedere esposto il volume di Luigi Coletti “L’arte in Dante e nel Medioevo”, lettura tenuta il 10 aprile 1904
nel liceo Canova di Treviso.
In conclusione riporto i saluti di Rainer Weissengruber, direttore del CLE
“Un carissimo saluto e auguri per i lavori attorno alle tematiche riguardanti la storia delle donne. È stata
un’ottima idea organizzare questi incontri, è un argomento che è un vero dovere morale visto che (finalmente) nella storia si parla delle donne. Viviamo in tempi di pari opportunità, e anche il CLE vuole tenerne conto.
A tutti gli organizzatori, a tutti i relatori, a tutti i partecipanti un augurio di buon lavoro, forse anche di
divertimento, sicuramente di approfondimento delle visioni e dei concetti della società, della vita individuale e collettiva, dell´etica nei rapporti tra gli individui umani.”
Clelia De Vecchi
Punto CLE “X Regio”
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Tre donne greche:
PANDORA, PENELOPE,
CLITEMESTRA
Manuela PADOVAN
Liceo Classico “XXV Aprile”- Portogruaro
MANUELA PADOVAN
Liceo Classico “XXV Aprile”- Portogruaro
TRE DONNE GRECHE: PANDORA, PENELOPE, CLITEMESTRA
Il dibattito sulla condizione della donna nella società greca risale alla metà dell’Ottocento con Fustel de
Coulanges (1864) ed è oggi estremamente vivo sia in Italia che all’estero. Ha prodotto le più disparate
ipotesi, talvolta di carattere estremistico, denunciando evidentemente una forzatura delle fonti che possediamo. Infatti il problema è proprio qui, nelle fonti.
Anzitutto colpisce l’esiguità di testimonianze non formali sulla condizione delle donne e sulla vita domestica nell’antichità. Intendo che mancano materiali d’archivio, lettere personali, deposizioni rese nei processi. Abbondano invece le rappresentazioni formali, pittoriche o modellate, descrizioni letterarie,
resoconti storici e analisi filosofiche. Si tratta sempre, evidentemente, di materiali fortemente elaborati e
portatori di significato simbolico o quanto meno ideologico, il che significa per noi grande difficoltà di ricostruzione storica.
Dall’altra parte abbiamo i testi letterari, cioè quello che i poeti volevano fosse tramandato ai secoli successivi: e noi li leggiamo, tenendo sempre presente che si tratta di voci maschili,
ma prendendo contemporaneamente atto di quanto l’immaginario degli uomini
greci fosse frequentato da donne.
Che i Greci fossero profondamente misogini è cosa nota; non furono certo gli unici,
ma dettero un contributo decisivo in questo senso alla cultura occidentale, perché
teorizzarono la diversità trasformandola da culturale a naturale, e dunque sancirono l’inferiorità delle donne e la loro esclusione dal mondo che conta.
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Espressioni di aperto odio o vere e proprie maledizioni contro il genere femminile si incontrano numerosissime in tutta la letteratura greca, dai poemi
omerici alla lirica al teatro, luogo più di tutti ospite di donne - eroine, malfamate o buffone.
Per tutti un solo esempio, un frammento di Ipponatte, poeta giambico vissuto nel
VI secolo a.C.:
Due sono i giorni più belli di una donna:
quando la si prende in moglie e quando la si porta via morta.
Fr. 66 Degani
Ma assai più significativi, perché estranei a un contesto poetico tradizionalmente legato all’attacco personale, com’è il giambo, si rivelano due passi dei
maggiori storiografi del V secolo a.C., Erodoto e Tucidide. Ci troviamo in
entrambi i casi in punti ideologicamente ‘caldi’: nel primo, in piena discussione
metodologica, ossia nel momento di massimo rigore e impegno per uno storico;
nel secondo, all’interno del famoso discorso di Pericle sui caduti del primo anno
di guerra con Sparta (430 a.C.), durante la celebrazione di Atene, dei suoi valori
umani e della sua civiltà.
Vediamo i due testi.
Manuela Padovan
Tre donne greche: Pandora, Penelope, Clitemestra
Io, per parte mia, non ho intenzione di discutere se i fatti [gli antichi episodi
di rapimenti di donne, n.d.t.] siano andati proprio così o diversamente: parlerò
invece di colui che per primo, per quanto mi consta, offese senza ragione i
Greci.
Erodoto, 1, 5
Se poi è necessario che io ricordi qualcosa anche della virtù femminile, di
quelle donne che ora saranno vedove, chiarirò tutto con una breve esortazione.
Fare in modo di non venir meno alla vostra natura sia per voi motivo di
grande reputazione e sia una gloria se si parlerà pochissimo tra gli uomini, sia
del vostro valore, sia in vostro biasimo.
Tucidide, 2, 45, 2
Messi in relazione con il nostro tema, i due brani esprimono nella maniera più netta l’esclusione delle
donne. Nel primo caso, dall’orizzonte di ciò che è degno di essere chiamato storia: le donne sono protagoniste di racconti mitologici, come il rapimento di Elena, cui la tradizione imputa la causa della guerra
troiana. Erodoto accenna al mito, anche se non ci crede affatto, e anzi, lo sottopone a una radicale revisione; è invece evidente che per lui il “tempo degli uomini”, cioè la storia, che nulla ha da spartire con il
tempo del mito, ha inizio con un uomo: Creso. Da lì, infatti, cioè dall’ascesa al potere del re di Lidia e
dal suo successivo scontro con l’impero persiano, inizia il percorso storico vero e proprio.
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Nel secondo brano, dopo aver passato in rassegna gli altissimi valori su cui si è costruita e poggia la potenza ateniese, Tucidide fa sancire a Pericle, con poche e secche parole, l’esclusione delle donne dalla vita
pubblica quotidiana: il che significa dalla memoria, e dunque, ancora una volta, dalla storia.
Ma da dove nasce la misoginia e l’esclusione?
Pandora
Il mito di Pandora, la prima donna, è narrato da Esiodo nel poema Le opere e i giorni, opera di carattere didascalico databile alla metà del VII secolo a.C. Il brano che segue rievoca la nascita della nuova creatura, cui concorrono tutti gli dei con i loro doni.
Così disse e quelli obbedirono a Zeus signore;
allora di terra formò l’illustre Zoppo
un’immagine simile a vergine casta, secondo la volontà del Cronide;
la cinse e l’adornò la dea glaucopide Atena,
attorno le dee Grazie e Persuasione signora
le posero auree collane, attorno a lei
le Ore dalle belle chiome intrecciarono collane di fiori di primavera;
ed ogni ornamento al suo corpo adattò Pallade Atena.
Dentro al suo petto infine il messaggero Argifonte
menzogne e discorsi ingannevoli e scaltri costumi
pose, come voleva Zeus che tuona profondo, e dentro la voce
le pose l’araldo di dèi e chiamò questa donna
Pandora, perché tutti gli abitatori delle case d’Olimpo
la diedero come dono, pena per gli uomini che mangiano pane.
Poi, dopo che l’inganno difficile e senza scampo ebbe compiuto,
ad Epimeteo il padre mandò l’illustre Argifonte.
araldo veloce, a portare il dono degli dèi; ed Epimeteo
non volle porre mente, come a lui Prometeo diceva,
a non accogliere mai dono da Zeus Olimpio, ma rimandarlo
indietro, che qualche male non dovesse venire ai mortali:
però solo dopo che l’ebbe accolto, quando subì la disgrazia, capì.
Prima infatti sopra la terra la stirpe degli uomini viveva
lontano e al riparo dal male, e lontano dall’aspra fatica,
da malattie dolorose che agli uomini portano la morte
- veloci infatti invecchiano i mortali nel male -.
Ma la donna, levando con la sua mano dall’orcio il grande coperchio,
li disperse, e agli uomini procurò i mali che causano pianto.
Esiodo, Le opere e i giorni 69-95
Pandora è la sposa primigenia ed è una figura antropologicamente importante, perché colloca il matrimonio all’interno del resoconto mitico sul rapporto tra gli uomini e gli dei. È un rapporto ambiguo:
Pandora è un dono divino - e dunque il matrimonio che con lei si inaugura è segno del legame con gli dei
- ma è anche separazione da essi, perché è un dono dato per punizione. L’ambiguità di Pandora è tutta
nella sua definizione: un male bello (kalòn kakòn), una sciagura desiderabile e perciò ingannatrice.
Il potere di Pandora è dato dalle sue qualità: l’abilità nel tessere - virtù femminile per eccellenza - menzogne, grazia, seduzione. Le attrattive di una donna sono caratteristicamente poikiloi, ‘multiformi’, e dunque rientrano in quella categoria della mutevolezza e della complessità che per i Greci caratterizza le cose
avvolgenti e ingannevoli.
La storia di Pandora è la storia della caduta - come nella Genesi la figura di Eva è legata alla cacciata dal
Paradiso terrestre; ed è la caduta in tutti i mali della carne e della nostra condizione naturale: malattia,
fatica, dolore e morte. In entrambe le culture sono le donne a condurre alla caduta perché le donne sono
le autrici della carne, in quanto partoriscono i figli. Pandora è la prima donna della storia umana: lei porta
la morte nel momento in cui porta la vita. Esiodo non dà particolari spiegazioni di come gli uomini venissero al mondo prima di Pandora: forse erano nati dalla terra o dagli alberi o più probabilmente esistevano da sempre - ai Greci è estraneo il concetto di creazione. Ma tutto sommato non c’è bisogno di
spiegazione, perché le generazioni precedenti - in successione l’età dell’oro, dell’argento, del bronzo,
degli eroi - non avevano alcun legame con la natura: erano solo uomini ed erano semplicemente esseri
culturali (cioè, in Esiodo gli uomini prima esistono e poi assumono vita biologica). È la donna, venuta in
seguito a portare la vita biologica, che si fa mediatrice tra cultura maschile e natura. Tale rappresentazione dà consistenza teorica e fondamento mitologico alla misoginia popolare, sancendo la secolare esclusione delle donne.
Se la caduta è in direzione della natura, la redenzione, per così dire, aspira a raggiungere una condizione puramente culturale. In questa prospettiva si può forse spiegare l’aspirazione dei Greci alla dimensione politica e pubblica, in cui facevano consistere tutta la loro vita, e da cui, come si è detto, le donne
erano tenute lontane. Il loro mondo era la casa, l’ambiente interno e avvolgente che era loro proprio, connesso alla direzione dell’economia domestica e alla nascita e all’allevamento dei figli. Non però all’educazione: quell’ambito, che concerneva la conoscenza del mondo, era di competenza maschile e riguardava
i soli figli maschi. E il ciclo così si chiudeva.
Manuela Padovan
Tre donne greche: Pandora, Penelope, Clitemestra
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Penelope
Regina di Itaca, madre di Telemaco, divenuta leggendaria per la lunga e fedele attesa del marito, in sua
assenza si trovò a fronteggiare un serio problema, ossia la schiera di giovani aspiranti alle sue nozze che
assediavano la reggia: Omero li chiama mnesteres, noi li conosciamo come Proci. Al di là di questi aspetti tradizionalmente noti, il testo omerico conferisce a questo personaggio una complessità notevole, che
merita un’analisi più approfondita.
Le virtù di Penelope sono messe in risalto più volte nei poemi, e sono quelle della donna eccellente.
È prima di tutto bellissima: la sua apparizione nella sala del banchetto ha un forte impatto emotivo sui
pretendenti (“si scioglieva loro il cuore nel vederla”); è saggia: quasi sempre è indicata con la formula
perifron Penelopeia, appunto, la “saggia Penelope”; è abilissima nei lavori femminili - tesse la tela. Inoltre
obbedisce silenziosamente, quando il figlio la rispedisce nelle sue stanze ricordandole di non intromettersi
nelle faccende degli uomini:
Su, torna alle tue stanze e pensa alle opere tue, telaio e fuso;
e alle tue ancelle comanda di badare al lavoro;
al canto pensino gli uomini tutti e io sopra di tutti:
mio qui in casa è il comando.
Odissea I 356-59
Questa di Telemaco non è una presa di posizione anomala: la situazione che si crea è da considerarsi
‘tipica’ per i Greci, ossia un comportamento condiviso ogni volta che una donna si intromette in un territorio maschile. E identico discorso (con la sola variante di “guerra” al posto di “canto”) è quello rivolto
da Ettore ad Andromaca in Iliade VI 490-93, quando lei esce dal palazzo per incontrarlo alle porte di
Troia: il banchetto e le mura della città sono entrambi spazi da uomini.
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Ma rispetto alle altre donne, e unica fra tutte, Penelope mostra di avere una qualità che condivide con il
marito: la metis ossia l’intelligenza astuta, l’abilità di usare trucchi e inganni con cui raggiungere la meta
per vie traverse. Tale dote la mette piuttosto in relazione con altre figure femminili della letteratura greca,
che troviamo a distanza di tempo e in un contesto letterario altro, per quanto vicino all’epica: mi riferisco
a Erodoto e alle numerose regine orientali di cui lo storico riporta fatti e imprese. Riprenderemo più avanti il motivo.
Esemplari per intendere la metis di Penelope sono due episodi: il colloquio tra lei e il marito in incognito, avvenuto di notte nella sala del banchetto (Odissea XIX 104-151) e il riconoscimento finale (ibid.
XXIII 173-230). In entrambi i casi la donna mette alla prova l’uomo che ha davanti, riproducendo un
comportamento ispirato ad astuta prudenza e ad autocontrollo che nel poema è attribuito al solo Odisseo.
In particolare, il libro XIX mette in scena uno degli episodi più affascinanti dell’intero poema, magistrale per l’atmosfera di silenzio, di mistero, di commozioni trattenute. E per lo straordinario duello di intelligenze che ci mostra.
Penelope chiede allo straniero, come sempre fa con gli ospiti di passaggio a Itaca, chi egli sia
Ospite, sarò io a domandare per prima: chi sei, da
dove vieni, dov’è la tua città, i tuoi genitori chi sono?
Lo straniero per tutta risposta esordisce in questo modo:
Donna, nessun essere umano, sulla terra infinita,
potrebbe dir male di te: la tua fama il vasto cielo
raggiunge, come quella di un nobile re, timorato di dio,
che su molti e forti uomini regna e la giustizia osserva…
Odissea XIX 104-05
ibid. 107-11
cioè evita accuratamente di rispondere e sposta il discorso sull’elogio della regina. Replica Penelope
dicendo di non essere ormai più quella di un tempo, da quando Odisseo è partito. Aggiunge:
Se lui tornasse a prendersi cura della mia vita, la
mia fama sarebbe certo più grande e più bella.
ibid. 127-28
Si deduce subito la dipendenza femminile da un uomo, anche nel caso di Penelope, che comunque aveva
una certa autonomia di movimento; pure, anche nel mondo omerico, certamente più generoso con le
donne rispetto a quanto farà l’Atene democratica, la fama e la stessa salvezza della donna erano legate
alla presenza accanto a lei di un uomo che la proteggesse. Ma andiamo oltre: Penelope non si accontenta certo della mancata risposta e chiede nuovamente allo straniero chi sia.
A questo punto Odisseo è messo alle strette e si inventa una storia fantasiosa, sì, come suo solito, ma intessuta di elementi di verità: racconta di essere cretese e di aver ospitato in casa sua Odisseo in viaggio verso
Troia. Di fronte al racconto Penelope si scioglie in lacrime, per quell’uomo che temeva morto e che invece, paradossalmente, era proprio davanti a lei, ma non riconosciuto. Dice Omero:
E Odisseo nel cuore aveva pietà per la sposa piangente,
ma fra le palpebre gli occhi rimasero fermi, come fossero
di corno o di ferro.
ibid. 209-12
Finite le lacrime, Penelope riprende il duello:
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Ospite, ora ti metterò alla prova, se è vero che tu
accogliesti nella tua casa il mio sposo
con i divini compagni, così come narri:
dimmi dunque quali abiti aveva addosso,
e lui stesso com’era e i compagni che lo seguivano.
ibid. 215-19
Per capire la portata di queste parole non bisogna dimenticare che Penelope sta vivendo un momento di
grandissima emozione, per aver appena saputo che Odisseo è ancora vivo: ma non crede, o non vuole credere, e non rinuncia chiedere precisi riferimenti allo straniero. Il verbo usato qui, peirao (“mettere alla
prova”), è usato nell’Odissea solo per il protagonista, ad esempio quando ‘saggia l’arco’ poco prima della
gara contro i pretendenti. Dunque solo Penelope condivide con Odisseo il lessico dell’astuzia: lei è il pendant femminile di Odisseo.
Passiamo all’inganno della tela: episodio famosissimo, in cui si concentrano svariati elementi mitologici,
antropologici e filosofici. La storia è nota: ma vanno messi in evidenza alcuni dettagli.
Un dio mi ispirò nell’animo di tessere nella mia stanza
una tela grande e sottile, e a loro dicevo: "Giovani miei
Pretendenti, è morto il divino Odisseo, ma voi,
anche se desiderate sposarmi, aspettate che finisca la tela:
non voglio che vada perduta la trama del lenzuolo funebre
che sto tessendo al valoroso Laerte per il giorno in cui
Manuela Padovan
Tre donne greche: Pandora, Penelope, Clitemestra
lo coglierà il funesto destino di morte; nessuna delle donne Achee
debba mai biasimarmi se privo di sudario dovesse giacere
lui che tanti beni raccolse". Dissi così e persuasi il loro cuore.
Così di giorno tessevo la tela grandissima e la disfacevo di notte,
al chiarore delle lucerne. Per tre anni così mi celavo e illudevo agli Achei.
ibid. 138-51
Prima di tutto l’inganno è una dimostrazione precipua di metis, cioè di sapienza fraudolenta, qui nella
forma di ciò che poi è diventato nell’immaginario e nel linguaggio comune la metafora stessa dell’inganno, il ‘tessere una trama’. E poiché il tessere è attività femminile, questo equivale a dire che l’inganno è
connaturato alle donne. Come per Pandora, quell’abilità manuale che fa di una donna una buona moglie
nel tempo stesso assurge a simbolo della sua naturale ambiguità e inclinazione all’inganno. La cosa vale
doppiamente per Penelope, che tesse di giorno e di notte disfa, in una stanza separata, circondata da altre
donne, nell’oscurità e nel silenzio, cioè in una dimensione interna e chiusa, in un mondo altro, che è quello femminile, dove anche il tempo si ferma. Fare e disfare significa annullare il tempo: c’era tra gli dei
una sola potenza padrona del tempo, quella delle dee della morte, le Moire o Parche: divinità femminili
e filatrici. È nel testo stesso di Omero che si trovano i segni di Penelope tessitrice-Moira: al v. 143 si legge
l’espressione me moi metamonia nemata oletai, “perché non mi si sperdano i fili”: nemata indica i fili dell’ordito ed è usato anche per il filo delle Moire. A ciò si aggiunge il fatto che la tela in lavorazione non
doveva far parte del corredo nuziale, ma sarebbe stata il lenzuolo funebre per Laerte, il vecchio padre di
Odisseo. Un dono che ai nostri occhi non è precisamente di buon augurio, ma è pur sempre un omaggio
per onorare il vecchio re, e insieme una suggestione di morte.
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Penelope che fa e disfa, padrona di un tempo immobile, Moira. Ma anche personaggio che consiste tutto
nel suo fare e disfare: nulla sappiamo della tela dopo il ritorno di Odisseo, cioè se fu terminata o no, perché il motivo perde d’interesse, viene abbandonato. Dopo il ritorno del marito, Penelope viene privata di
quello spazio e di quel tempo chiuso e ripetitivo in cui apparteneva a se stessa - non più del tutto a
Odisseo, lontano e ritenuto morto, e non ancora a un nuovo principe, le cui nozze, aborrite, lei rinviava
continuamente, facendo e disfacendo. Torna a essere la sposa reale.
Da un altro punto di vista, vediamo che Penelope è fedele custode del potere di Odisseo durante la sua
assenza, e pur con i limiti che abbiamo visto, incarna il potere in assenza del marito. Casi analoghi si trovano in Erodoto, uno dei due grandi storici del V secolo: numerosi racconti compresi nelle Storie hanno
come protagoniste donne intelligenti e risolute, capaci di guidare imperi e di prendere decisioni in assenza dei rispettivi re. Ad esempio Tomiri, regina dei Massageti, che provocò la fine di Ciro il Grande, o la
moglie di Candaule di Lidia, o ancora le regine egiziane e babilonesi. Erodoto è affascinato dall’astuzia di
queste donne, tanto da volerne tramandare vicende e imprese. L’aspetto degno di nota è che in Oriente,
dove si realizza storicamente la regalità negata dalla città greca, la figura della regina assume la valenza
di snodo dinastico, perché è lei che permette la successione al trono attraverso l’eredità del sangue, è lei
che tiene in vita la sovranità in assenza del re: è questo il caso di Penelope ed è per questo che i pretendenti ambiscono tanto alle sue nozze, al di là delle sue pur celebrate virtù. Per il legame strettissimo che
tiene avvinti regina e regno. Si veda per esempio il caso della moglie del re Candaule: quando Gige, il successore di Candaule, ebbe ucciso il re, dice espressamente Erodoto, “ottenne la donna e il regno” (I 12).
Altri esempi, stavolta dal teatro, molto frequentato da donne: nei Persiani di Eschilo la regina Atossa,
vedova di Dario, figura ieratica come un’icona bizantina, fa da collegamento tra l’ombra di Dario defunto e il figlio Serse, il re pazzo, che sulla scena rincorre il sogno di sottomettere i Greci. Da Atossa, per un
gioco di continui rinvii e richiami testuali che Euripide instaura con Eschilo, deriva la figura della vecchia
Ecuba nelle Troiane: rappresentata distesa a terra, distrutta nel fisico quanto nella psiche, è l’immagine
viva del potere regale perduto e di Troia conquistata; vede passare davanti a sé le donne troiane destinate alla deportazione ed è una presenza fissa, sempre in scena dall’inizio alla fine del dramma.
Clitemestra
Restiamo ancora nella tragedia per vedere un’ultima figura di donna, molto diversa dalle altre finora esaminate; classificabile tra quelle che Anna Beltrametti ha chiamato “le regine della notte greca”.
Per i Greci, per gli Ateniesi della polis democratica, che meglio conosciamo, esiste una netta frattura tra
l’Oriente dei re e la Grecia delle città: l’uno caratterizzato da una regalità che si riassume nella donnaregina-dea, l’altra da una cultura politica rivoluzionaria per l’antichità e fortemente androcentrata.
Fondamento dell’organizzazione cittadina è una netta separazione tra vita pubblica, di competenza esclusivamente maschile, proiettata all’esterno, nello spazio pubblico, e vita privata, vissuta dalle donne nel
chiuso delle case. Il Pericle tucidideo ritrae egregiamente la situazione, come si è visto in apertura. La
vita privata, dominata dalle donne, viene sottratta alla vista e alla memoria perché è campo di emozionalità, di irrazionalità, anche di rischio per l’uomo, data la natura poikile, cioè mutevole, complessa, ingannatrice delle donne.
Di questa città democratica il teatro è strumento di condivisione e di riflessione sulle tensioni e le paure
che l’agitano. Il teatro ha le sue convenzioni sceniche: per una strana questione di verosimiglianza le storie messe in scena, in quanto pubbliche, si svolgono all’aperto, mai in interno, tanto che spesso i personaggi danno ragione al coro del motivo per cui sono usciti di casa, specie se si tratta di donne. E il teatro
ateniese ne è popolato. La cosa non ha mancato di suscitare perplessità, data la segregazione in cui le
donne di condizione medio-alta erano tenute a vivere. Ma già questo può fornirci una chiave di lettura: le
donne che appaiono sulla scena sono già per questo in qualche modo screditate, per il fatto stesso che il
pubblico può vederle - parliamo sempre di personaggi, perché gli attori che le impersonavano erano
comunque uomini. Dunque, il teatro porta all’aperto, rivela qualcosa che è normalmente nascosto: ed è
un fatto che le relazioni domestiche rivelate del dramma sono sempre anormali e malate, devianti, mai
ambientate ad Atene, in modo che il pubblico possa riflettere sui grandi temi della colpa, del destino o
del dolore proiettandoli nell’universo del mito - e fuori dalla città. Le storie presentano sostanzialmente
dei casi-limite, che per loro natura ‘estrema’ non possono non andare incontro a sciagura: esprimono valori morali, politici o religiosi diretti alla città, la chiamano implicitamente in causa. Per questo stesso motivo, se qualche dettaglio storico e concreto sulla vita delle donne si può dedurre, non possiamo certo
prendere le protagoniste della tragedia come figure esemplari della realtà del tempo; però esse sono spie
importanti del pensiero che le ha concepite.
Clitemestra, moglie di Agamennone e madre di Oreste ed Elettra, è al centro di una storia di massacri di
palazzo: da viva governa l’azione nella prima parte dell’Orestea, dopo essere stata uccisa dal figlio ritorna
come fantasma a incitare le Erinni, le dee della vendetta che uccidono i matricidi succhiando loro il sangue.
Clitemestra domina la trilogia, e questa gronda letteralmente sangue e ambiguità. È una figura di sposa e
madre che nel corso dell’azione continuamente muta e trasforma il suo ruolo: da sposa fedele diventa
adultera, da madre matrigna. Come madre vendicatrice di Ifigenia nega il matrimonio con Agamennone;
come compagna di Egisto nega la maternità nei confronti di Oreste e di Elettra; come madre assassina
viene giustiziata da suo figlio. Si torna dunque al motivo della mutevolezza (poikilìa) inaugurata con
Pandora. La sua lingua è biforcuta, come quella dei serpenti:
Delle molte parole che or ora ho detto per opportunità,
non mi vergogno ora di dire il contrario.
Infatti, quando uno medita azioni ostili contro un nemico che solo in
apparenza gli è caro, in che modo potrebbe circondarlo con una rete di
sventura, per un’altezza superiore a qualsiasi salto?
Agamennone 1372-76
Manuela Padovan
Tre donne greche: Pandora, Penelope, Clitemestra
17
Sogna di partorire e allattare un serpente, uccide con la doppia scure (pelekys). Quando Oreste la affronta, in un estremo tentativo di salvezza si scopre il seno davanti a lui e gli dice:
Fermati, figlio, rispetta questo seno sul quale tante volte
ti addormentavi succhiando il latte.
ibid. 896-98
I due dettagli del serpente e del seno scoperto accostano la figura di Clitemestra al modello della Dea cretese dei serpenti, e dunque a un modello orientale. Ma è un modello degenerato, che nel teatro di Atene
ha perso tutta la sua sacralità: mentre le regine orientali sono figure-chiave del potere legittimo, attraverso la trasmissione biologica dal padre al figlio, in Grecia le regine trasformano questo potere del sangue
in qualcosa di oscuro e catastrofico, che travolge gli eroi.
Dunque, Clitemestra non è una donna eccezionale, tale da potersi descrivere con le categorie dell’eccesso o del difetto rispetto a una norma: è una potenza infernale efferata. Interpretata in chiave psicanalitica, porta in luce il rimosso, la paura nei confronti della doppiezza femminile, la riverenza-orrore nei
confronti del legame di sangue, una forza oscura, tutta femminile, che agisce nel profondo.
Questa Clitemestra, così come l’ha creata Eschilo, è il modello di altre regine tragiche, che nei drammi si
presentano segnate dalla lotta tra maternità e sessualità, dominate da forme aberranti di eros, visto in termini di malattia, follia e morte.
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Tra tutte la Medea di Euripide, che uccide i figli per gelosia e vendetta nei confronti del marito. Nel mito
le cose andavano in modo diverso - i bambini morivano accidentalmente. La mostruosa variante, che rese
Medea quello che è nell’immaginario occidentale, fu introdotta da Euripide per mostrare a quali aberrazioni possa arrivare una donna privata dell’unica cosa di cui era fatta la sua vita, ossia del letto del marito. Leggiamo le parole della protagonista:
Di quanti esseri al mondo hanno anima e mente, noi donne siamo le creature
più infelici. Dobbiamo anzitutto, con dispendio di denaro, comperarci il marito
e dare un padrone alla nostra persona; e questo è dei due mali il peggiore.
E poi c’è il gravissimo rischio: sarà buono colui o non sarà? Separarsi dal
marito è scandalo per la donna, ripudiarlo non può. E ancora: una donna che
venga a ritrovarsi tra nuove leggi e usi e costumi, ha da essere indovina se non
riesce a capire da sé quale sia il modo migliore di comportarsi con il suo
compagno. Se ci riesce e le cose vanno bene e lo sposo di vivere insieme con la
sua sposa è contento, allora è una vita invidiabile; se no, è meglio morire.
Quando poi l’uomo di stare coi suoi di casa sente noia, allora va fuori e le
noie se le fa passare; ma noi donne a quella sola persona dobbiamo guardare.
Dicono anche che noi donne vivendo in casa viviamo senza pericoli e l’uomo
ha i pericoli della guerra. Ragionamento insensato. Vorrei tre volte trovarmi
nella battaglia anziché partorire una sola (…)
La donna è di solito piena di paura, e inadatta alla lotta, e ripugna alla vista
di un’arma; ma se offesa nei suoi diritti di sposa, non c’è altro cuore più del
suo assetato di sangue.
Euripide Medea 230-51; 263-66
Nella figura di Medea si mette in luce un altro elemento che ne costituisce l’essenza, legato alla donna e
dunque sospetto, ossia il ricorso alla magia. Anche qui siamo nel dominio dell’ambiguità, rivelata meglio
di ogni altra cosa dallo stesso dato linguistico: i farmaka, i rimedi magici, possono essere sia curativi che
velenosi - farmakon è vox media - e Medea, che porta nel nome la radice di medicus, è ‘colei che cura’,
ma che sa anche dare la morte.
Come per Medea, in molte altre donne della scena si riscontrano le conseguenze funeste di un comportamento che diserta la norma: in particolare, è la mancata maternità che fa di loro dei monstra. È il caso
delle ‘vergini tragiche’, spesso accoppiate a sorelle, com’è il caso di Antigone e Ismene, ma anche delle
figlie matricide: Elettra, che a un certo momento, nelle tragedie degli anni Dieci del V secolo, mette in
ombra Oreste e si fa lei autrice dell’assassinio della madre. In quest’ultimo caso, lo scontro tra figlia e
madre verte sulla contrapposizione tra verginità e adulterio - dunque, ancora una volta su scarti dalla
norma, su relazioni familiari degenerate.
Non molto diverso sembra essere il caso della commedia, con le sue donne-buffone. Gli esempi più famosi - Lisistrata che ferma la guerra con lo sciopero del sesso o Prassagora che instaura la repubblica delle
donne - se analizzati più in profondità mostrano come Aristofane non creda minimamente che scenari del
genere siano possibili e possano funzionare, anzi. Piuttosto, nell’inventare queste storie l’autore sembra
interessato soprattutto a farne occasioni di comicità, lasciando intravedere come per rimediare ai problemi (reali) della città la cosa migliore sarebbe stata, alla fine, tornare al buon tempo antico, quando i figli
obbedivano ai genitori, le mogli stavano al loro posto, non c’erano debosciati in giro e demagoghi a imbrogliare il popolo. Il governo degli uomini per bene. Quanto alle donne per bene, che non facessero mai far
parlare di sé.
(gennnaio 2004)
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Bibliografia minima
M. J. Finley, Il mondo di Odisseo
(1977), trad. it., Casale Monferrato, Marietti 1992.
J. Redfield,
L’uomo e la vita domestica
in L’uomo greco, a cura di J.P. Vernant, trad. it., Roma-Bari, Laterza 1991.
A. Cavarero, Nonostante Platone
Roma, Editori Riuniti 1992.
E. Cantarella, L’ambiguo malanno. La donna nell’antichità greca e romana
Torino, Einaudi Scuola 1995.
Id.,
Itaca. Eroi, donne e potere tra vendetta e diritto
Milano, Feltrinelli 2002.
A. Beltrametti, Immagini della donna
in I Greci. Storia, cultura, arte, società, a cura di S. Settis, Torino,
Einaudi 1996-2002, vol. 2/II.
G. Bodei Giglioni, L’oikos: realtà familiare e realtà economica, in I Greci, op. cit., vol. 2/I.
Il presente contributo è stato pubblicato per la prima volta, con minime varianti, in Memorie di lei.
Corsi di storia delle donne, gennaio-aprile 2003, Provincia di Venezia,
Commissione e Assessorato alle Pari Opportunità 2003.
Manuela Padovan
Tre donne greche: Pandora, Penelope, Clitemestra
La Donna Romana
Clelia DE VECCHI
Liceo Classico “XXV Aprile”- Portogruaro
CLELIA DE VECCHI
Liceo Classico “A. Canova”- Treviso
LA DONNA ROMANA
Parte I
LA CONDIZIONE DELLA DONNA NELLA SOCIETÀ
La condizione della donna nella società romana varia in relazione a:
Epoca storica: età arcaica, repubblicana, imperiale.
Condizione sociale: a seconda che la donna fosse libera o schiava; nobile o plebea ecc.
Età: puella (fino a 12 anni), virgo (prima del matrimonio), matrona (la donna sposata), vidua.
Il matrimonio
Con il matrimonio le figlie passano dalla dipendenza del padre a quella del marito. I fidanzamenti sono
decisi dai genitori per ragioni economiche. Raramente avvengono dei matrimoni d’amore. Non ci sposa
per amore, ma per avere dei figli (Aulo Gellio, Noctes Atticae) e compiere un dovere religioso e civile
(Lucano, Farsalia).
Il matrimonio poteva essre cum manu, la sposa passava dall’autorità del padre a quella del marito, oppure sine manu, il padre manteneva il potere sulla figlia anche dopo il matrimonio (Gaius, Institutiones).
Alla fine dell’età repubblicana queste due forme sono sparite. C’è una nuova forma di matrimonio: nuptiae da nubere, mettere il velo, fondata sul reciproco consenso (Giuliano, Digesta).
La vigilia del matrimonio la fanciulla lascia la toga praetexta, segno dell’infanzia, per rivestire una tunica
bianca e il vestito del matrimonio, un mantello color zafferano, un velo arancione, una coroncina di fiori
in testa (fiori d’arancio a partire dal II sec.)
Il giorno del matrimonio la sposa entra in una stanza dove l’aspettano il marito e i dieci testimoni che firmano il contratto. È il momento dell’unione delle mani. Una donna anziana (maritata una sola volta) prende nelle sue mani quelle dei promessi e le unisce.
Finito il banchetto di nozze, tutti gli invitati accompagnano gli sposi a casa loro cantando alternativamente un Imeneo (Catullo, Carmi), interrotto da esclamazioni rituali (Livio, Ab Urbe condita).
Accolta dallo sposo che le domanda il suo nome, la sposa risponde con la formula rituale: Ubi tu Gaius,
ego Gaia (Plutarco, ...)
Il ruolo principale della donna sposata è mettere al mondo dei figli.
La donna non è mai indipendente. È sempre sotto la dipendenza di un uomo; se il marito muore, passa
sotto la tutela del parente più prossimo. Addirittura donne anziane possono essere sottomesse ad uomini
molto più giovani.
Clelia De Vecchi
La Donna Romana
23
LE SOLE DONNE AD AVERE POTERE SONO LE DONNE ECCEZIONALI
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LE DEE, LE MUSE,
LE NINFE, ECC.,
LE SACERDOTESSE
Venere, Giunone, Erato, Clio, Calypso ecc...,
le Vestali (Gellio, Noctes Atticae, I, 12; Svetonio, De Vita
Caesarum, VIII, 4-5)
FIGURE CHE INCARNANO
LE VIRTÙ DEL
MOS MAIORUM
Lucrezia (Livio, I, 57,58), Virginia (Livio, III,44),
Cornelia (Valerio Massimo, IV,4)
LE PUELLAE
Lesbia (Catullo e Cicerone, Pro Caelio),
Pirra, Cloe, Barine (Orazio, Carm. I, 5; I, 23, II, 8)
Delia (Tibullo, Eleg. I)
Cinzia (Properzio, Eleg. I e III)
Corinna (Ovidio)
LE EROINE
Didone (Virgilio, Eneide, IV),
Cleopatra (Orazio, Ode I, 37),
Dafne (Ovidio, Met.I),
Euridice (Virgilio, Georgiche, IV e Ovidio, Met., X)
LE DONNE FAMOSE
Clodia (Cicerone, Pro Celio),
Sempronia e Fulvia (Sallustio, De Con. Cat.),
Giulia (Macrobio, Sat. II, 5)
Agrippina (Tacito, Ann. XIV, XV),
Poppea (Tacito, Annales…),
Zenobia (Historia Augusta)
Aspetti giuridici
La donna, considerata inferiore, resta per tutta la sua vita sottomessa a una tutela maschile (Isidoro di
Siviglia, Origines).
Nei tempi più antichi il matrimonio cum manu la fa passare dall’autorità (manus) paterna a quella del
marito.
Vige l’autorità assoluta (patria potestas) del capo famiglia (pater familias) che ha diritto di vita e di morte
su tutti coloro che abitano sotto il suo tetto. Per es. può punire con la morte la moglie che commette adulterio.
A partire dal II sec. a.C. la patria potestas è progressivamente limitata, fino a che la “tutela” della donna
da parte del padre o del marito sarà soppressa nel II sec. d.C.(Gaius, Institutiones).
Il marito poteva ripudiare la moglie,mentre le donne acquisirono il diritto di divorziare in tarda età repubblicana.
La vita quotidiana
La matrona deve essere una moglie sottomessa, restare a casa a filare e tessere la lana (Corpus
Inscriptionum Latinarum). È dotata di un certo potere, ma, all’interno della casa, dà ordini alle schiave e
educa i figli in tenera età, che conservano verso di lei un grande rispetto (Livio, Ab urbe condita).
A partire dall’età imperiale il numero dei figli diminuisce e le matrone si occupano sempre di meno della
loro educazione (Tacito, Dialogus de oratoribus).
Episodi di emancipazione
Nel 195 a. C. Le donne scesero in piazza per chiedere l’abrogazione della lex Oppia contro il lusso femminile (Livio, Ab urbe condita).
In questa e in altre occasioni esse si erano comportate come vere e proprie attiviste politiche, per questo
fu creato il termine axitiosae.
Con il passar del tempo le donne partecipano sempre più alla vita mondana (Plinio il giovane, Lettere),
culturale e politica (Tacito, Annales) dei loro tempi.
Reazione degli uomini
Le donne diventano ricche, autonome, invadenti, non solo a Roma, ma in tutto il territorio italico.
I romani cercano di opporsi a ciò con la lex Voconia: una disposizione proibiva che le donne fossero istituite eredi testamentarie degli appartenenti alla prima classe di censo; infatti la ricchezza femminile preoccupava e infastidiva gli uomini
Nel I sec. d.C. Giovenale guarda con inquietudine le donne che, a suo parere, invadono dei territori
maschili: la letteratura, gli sport, compresi quelli di combattimento; ma le donne sono anche rivali di volgarità con gli uomini nei banchetti (Giovenale, Satire)
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Parte II
DUE DONNE ROMANE AL CENTRO DEL POTERE
UNA
DONNA DELL’ETÀ REPUBBLICANA:
FULVIA
Fulvia fu una donna energica e volitiva, moglie successivamente di Clodio, di Curione e di Antonio, il
triumviro. Non è da confondere con la Fulvia della Congiura di Catilina di Sallustio, di cui abbiamo scarse notizie.
Fu l’unica discendente di due famiglie importanti ed ereditò una fortuna immensa. Descritta come bella
e affascinante, fin da giovane dimostrò interesse verso la politica.
Il primo marito fu Publio Clodio Pulcro, il tribuno della plebe ucciso da Milone (Cicerone, Pro Milone) e
fratello di Clodia, più nota con il nome di Lesbia. Le sorelle di Clodio erano tre, chiamate le tre Claudie,
tutte belle, sposate con uomini in vista e adultere.
Il primo marito: Clodio
I tempi di Fulvia non erano più i tempi di Cornelia. Le donne nobili non si interessavano delle cure domestiche, avevano liberi costumi e si occupavano di politica.
Clodio fu ucciso da Milone in un agguato, nel 52 a.C., sulla via Appia. Fulvia andò a prendere il cadavere del marito e lo riportò a Roma. Non si abbandonò ai pianti, ma si comportò in modo fiero.
Partecipò anche al processo. L’avvocato difensore di Milone fu Cicerone.
Clelia De Vecchi
La Donna Romana
Il secondo marito: Curione
La morte di Clodio aumentò in Fulvia la passione per la politica.
Sposò in seconde nozze Caio Scribonio Curione, amico sia di Clodio che di Marco Antonio. Anche Curione
partecipa alla vita politica del tempo, schierandosi dalla parte di Cesare e prendendo parte con coraggio
alla guerra civile.
Muore combattendo in prima linea ad Utica. Fulvia è vedova per la seconda volta.
Il terzo marito: Marco Antonio
Nel 47 Fulvia sposò Marco Antonio che aveva ripudiato la moglie Antonia.
Di Fulvia scrivono alcuni autori:
Plutarco, Vite parallele, III,1, Marco Antonio, 10
Velleio Patercolo, Historiae Romanae, II,74,2
Cicerone, Filippiche, II, 24
In particolare Plutarco dice: “...lei voleva governare un governante, comandare un comandante di eserciti.
E Cleopatra contrasse con lei un gran debito per aver insegnato a Marco Antonio a subire del tutto la signoria di una femmina. Insomma glielo consegnò, fin dall’inizio, docile e ammaestrato ad ubbidirle”.
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Cicerone dice che Fulvia fu fatale ai mariti e, poiché due erano morti, la sollecitava a “liberarsi del suo
terzo debito verso i romani” (Filippiche II, 113)
Dopo la morte di Cesare, dietro le quinte, Fulvia agì nel modo più proficuo per il vantaggio della propria
famiglia.
Cicerone dice che nella sua casa c’era un mercato in cui si vendeva lo stato intero “Una donna che ha più
fortuna per sé che per i suoi mariti vi mette all’incanto province e reami”.
Quando Antonio passò alle proscrizioni, e Cicerone ne fu vittima nel 43 a. C., Dione Cassio (Storia di
Roma, XLV, 33,3) afferma che fu l’inflessibilità di Fulvia a spingerlo a ciò.
Nell’estate del 42 Fulvia, incinta, accompagnò Marco Antonio a Brindisi. Fu l’ultima volta che lo vide.
Ben presto venne a sapere che Marco Antonio si abbandonava alle mollezze orientali e la tradiva con principesse e regine.
A Tarso avvenne l’incontro con Cleopatra (ricordato anche da Shakespeare in Antonio e Cleopatra).
Da un epigramma di Marziale sembra che anche Fulvia lo volesse tradire con Ottaviano, ma fu respinta.
Ottaviano era suo genero perché aveva sposato la figlia Claudia.
Ella tentò anche di occupare Roma con Lucio Antonio, fratello di Marco, ma l’impresa fallì. Si ritirarono
a Preneste e poi a Perugia. Marco Antonio rimase ad Alessandria.
Fulvia fuggì. Scrisse molte lettere a Marco Antonio, rimpreverandolo di non averla aiutata.
Finalmente Marco Antonio si mosse dall’Egitto, ma non incontrò mai Fulvia, che nel frattempo era morta
di malattia.
Quando Marco Antonio incontrò Ottaviano, fece cadere su Fulvia la colpa di tutte le accuse che gli vennero fatte e, come dice Dione Cassio, “deposero le armi e vennero ad un accordo perché era stata Fulvia ad
alimentare in passato la loro inimicizia”.
Tracce di Fulvia nei grandi autori europei
William Shakespeare, Antonio e Cleopatra.
Nella tragedia è riferita la morte della moglie di Antonio, Fulvia.
Voltaire, Dictionnaire Philosophique.
Alla voce Ottaviano Augusto, Voltaire si sofferma in modo ironico sui costumi di Augusto. Colui che
si era presentato al mondo come un moralizzatore e aveva condannato Ovidio all’esilio di Tomi, fu
uno dei più infami dissoluti dello stato romano, come testimonia il suo epigramma su Fulvia.
Epigramma tramandato da Marziale (Ep. XI 20, vv. 3-8)
Quod futuit Glaphyram Antonius, hanc mihi poenam
Fulvia constituit, se quoque uti futuam.
Fulviam ego ut futuam! Quid si me Manius oret
Paedicem, faciam? non puto, si sapiam.
Aut futue, aut pugnemus, ait. Quid? quod mihi vita
Carior est ipsa mentula, signa canant.
27
UNA
DONNA DELL’ETÀ IMPERIALE:
AGRIPPINA
AGRIPPINA
Claudius Nero
? - ~33
Livia Drusilla Marcus Antonius
~58 - 29
~84 - ~30
Octavia
Augustus
Scribonia
~69 ? - ~9
~63 - 14
? – 16 ?
D Claudius Drusus
Antonia Minor
M Agrippa
Julia
~39 - ~9
~37 – 40 ?
~64 - ~12
~39 - 14
Germanicus
Agrippina
~15 - 19
~14 - 33
Agrippina 15-59
Giulia Agrippina, figlia di Germanico e di Agrippina Maior, nacque ad Ara Ubiorum (poi Colonia
Agrippina, oggi Colonia), sulla sinistra del Reno nel 15 d.C.
Il padre Germanico, adottato da Tiberio, era destinato a diventare imperatore, ma morì in Siria.
Clelia De Vecchi
La Donna Romana
FIGLIA DELL’IMPERATORE DESIGNATO E SORELLA DELL’IMPERATORE
Passò l’infanzia e la prima adolescenza nel ricordo del padre.
La storia della famiglia di Agrippina si intreccia con le oscure vicende del principato di Tiberio.
Nel 29 d.C. lo stesso Tiberio la sposò a Gneo Domizio Enobarbo, più vecchio di trent’anni, di cui si ricordano molti episodi di violenza.
Nel 37 nacque Lucio Domizio Enobarbo, il futuro Nerone.
Alla morte di Tiberio, divenne imperatore Gaio (Caligola), fratello di Agrippina. Nel giuramento volle,
accanto al suo, il nome delle sorelle.
Nel 41, dopo l’uccisione di Caligola, divenne imperatore Claudio, zio di Agrippina.
Agrippina rientrò a Roma dall’isola di Ponza, dove era stata mandata in esilio da Caligola. Era vedova e
ritrovò il figlio L. Domizio Enobarbo affidato ad uno schiavo asiatico, Aniceto.
Per convenienza sposò Caio Sallustio Passieno Crispo, uomo ricchissimo che l’aveva nominata sua unica
erede; dopo poco tempo rimase nuovamente vedova.
Moglie di un imperatore
Morta Messalina, terza moglie dell’imperatore Claudio, Agrippina sapeva che per lei l’occasione era irripetibile. Con un rito sontuoso sposò Claudio. Subito si comportò da vera imperatrice:
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i liberti ebbero meno potere;
diminuirono le spese;
ottenne il titolo di Augusta;
ebbe una guardia personale di Germani, a capo della quale volle Burro;
ottenne l’adozione di L. Domizio Enobarbo, diventato Nerone.
La motivazione delle richieste era sempre la stessa: essa era prole di Germanico.
Segni del suo potere
Ara Ubiorum divenne Colonia Agrippina (Tacito, Annales, XII,27)
Gli eserciti di Germania innalzarono sue statue negli accampamenti
Claudio accettò che Agrippina ricevesse in Campidoglio gli omaggi dei sacerdoti
Si arrivò al punto che Giulia Agrippina, pronipote di Augusto, figlia di Germanico Cesare, era la vera
imperatrice.
Ma il suo destino era comandare dietro uno schermo. Come reagì Claudio?
Quando Agrippina ebbe il sentore che poteva succedere qualcosa, Claudio morì.
Madre di un imperatore
Tutti gli storici (Tacito, Svetonio, Dione Cassio), riguardo la morte di Claudio, concordano sulla colpevolezza di Agrippina, cambiano solo le versioni.
Dopo la morte di Claudio, divenne imperatore Nerone. Agrippina lo aveva fatto educare da Seneca che,
come è noto, gli fu accanto nei primi anni di regno.
Nerone aveva sposato Ottavia, figlia di Claudio e sorella di Britannico, ucciso in modo crudele dallo stesso Nerone.
Agrippina in pericolo
Con il consolidarsi del potere di Nerone, Agrippina perse gran parte della sua influenza. Le furono tolte
le guardie germaniche e pretoriane, fu costretta ad abbandonare il palazzo e ad andare ad Anzio.
Nerone era ossessionato dal pensiero che la madre potesse raggiungere le legioni germaniche a Colonia
Agrippina. Secondo Svetonio, Nerone aveva tentato di avvelenarla per ben tre volte, ma non ci era riuscito perché lei prendeva antidoti.
Il matricidio
Nerone invitò Agrippina a Baia per le feste di Minerva. Agrippina sapeva di andare incontro alla morte,
ma decise di affrontare fermamente e con distacco la malignità del destino.
La morte di Agrippina è narrata nei dettagli negli Annales di Tacito, l. XIV,1-14.
Ci fu un primo tentativo; si voleva simulare un incidente navale, ma Agrippina si salvò a nuoto. Tacito
narra che Nerone si sia consultato con Burro e con Seneca. Quest’ultimo avrebbe detto che o uccideva la
madre o avrebbe dovuto dividere l’impero con lei.
Dell’assassinio fu incaricato Aniceto, che già aveva aiutato Nerone nell’eliminare Britannico.
Giulia Agrippina, come afferma Tacito, affrontò la morte con rassegnazione e, guardando il carnefice e
indicando il suo ventre, disse: “Ventrem feri”.
Scrive Alain Michel in Tacito e il destino dell’impero:
“La morte di Agrippina suscita l’ammirazione e lo scandalo. È la morte di una criminale, è il destino di un’anima grande; si sente che Tacito prova al tempo stesso un’ammirazione mista a pietà e una
gioia da giustiziere: Agrippina ha avuto la sorte che si meritava. La giustizia divina si manifesta
attraverso la sofferenza…”
Agrippina minore è la figura femminile che ricoprì un ruolo primario nella dinastia giulio-claudia: un ruolo
in cui si combinarono vincoli familiari, sesso e politica, e che perciò fu giudicato assai severamente dalla
storiografia maschile.
Sarebbe interessante conoscere il suo punto di vista: essa lo affidò ad un libro di memorie non pervenutoci, ma che Tacito conosceva.
Agrippina nella letteratura e nella musica
Troviamo il personaggio di Agrippina nel Britannicus di Racine, tragedia in cinque atti rappresentata a
Parigi nel 1669.
La tragedia, ripresa da Tacito, ricostruisce gli eventi che portarono all’avvelenamento di Britannico.
Racine, volendo mostrare ai partigiani di Corneille di poter fare anche la tragedia storico-politica, ha scelto questo momento suggestivo: la prima rivelazione della crudeltà in Nerone. Oltre che su Nerone, l’autore rivolge l’attenzione allo studio della appassionata ambizione di Agrippina, per la quale trova
un’audacia insolita anche nel linguaggio.
Nel 1752 fu rappresentata a Berlino un’opera musicale di K. H. Graun, il cui libretto era tratto liberamente dal Britannico di Racine.
Clelia De Vecchi
La Donna Romana
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Agrippina di Händel
Su un libretto vivace, pieno di giochi di parole e situazioni comiche, scritto dal cardinale Vincenzo
Grimani, Händel ha composto, all’età di ventiquattro anni, il suo dramma per musica in tre atti Agrippina
(rappresentato a Venezia nel 1709), alla fine del suo soggiorno di quattro anni in Italia. Quest’opera si
collega, per l’argomento, all’Incoronazione di Poppea di Monteverdi.
Agrippina è l’opera nella quale Händel ha espresso la sua percezione profonda delle sottigliezze dell’animo umano. Sia la caratterizzazione dei personaggi che l’inventiva musicale, ne fanno un capolavoro tra le
sue opere.
Anche il prolificissimo Nicola Porpora, attivo fra Venezia e Napoli nella prima metà del ‘700, scrisse un’opera intitolata Agrippina.
Ahasverus in Rom di Robert Hamerling
Ahasverus in Rom, poema epico del poeta austriaco Robert Hamerling (1830-1889), fu pubblicato nel
1866.
Nella trama, piuttosto complessa, Nerone incontra la madre Agrippina, travestita da dea Roma, e se ne
innamora. Folle di gelosia, quando la vede tra le braccia di un altro giura di vendicarsi: l’indomani la fa
morire annegata. Agrippina viene presentata nell’opera come una donna superba e sensuale.
Di colorita e scintillante fantasia sono le pagine che descrivono il naufragio della nave di Agrippina.
Hamerling, rappresentante dell’estremo idealismo postromantico, mostra, anche per l’eccessiva retorica,
la crisi profonda dell’estetismo dell’epoca.
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Parte III
PERCORSI DIDATTICI SULLA DONNA ROMANA
Franca Parodi Scotti, Percorsi tematici, Paravia,
“l'altra metà del mondo: il ruolo della donna”
Epigrafi ed elogi: da Claudia a Turia
“l'ambiguo malanno”: il topos della misoginia (commedia, Giovenale, Tertulliano)
Il silenzio femminile (la leggenda di Tacita, Seneca padre)
La parola alle donne (Sulpicia, episodi riportati da Livio, Valerio Massimo)
Presenze femminili nella cultura tardo-antica : donne che leggono, scrivono, insegnano
Flocchini- Varaldi, Antologia Latina, Paravia
Moglie e madre: la pudicitia (es. Lucrezia in Livio, Cornelia in Valerio Massimo. Nell'opera di
Valerio Massimo ci sono anche altre figure che incarnano il mos maiorum); la fedeltà (Lettere di
Cicerone, Tristia di Ovidio); la tolleranza (Valerio Massimo); la cura dei figli (Quintiliano)
Oggetto del desiderio: le puellae (Lesbia, Pirra, Cloe, Barine, Delia, Cinzia, Corinna); la bellezza femminile (Catullo, Plauto, Ovidio, Ars Amatoria, Medicamina faciei…)
La donna emancipata: Clodia (Cicerone, Pro Celio), Sempronia e Fulvia (Sallustio, De comiuratione Catilinae), Giovenale (Satire)
Eroine o vittime: Lucrezia e Virginia (Tito Livio), Didone (Virgilio), Cleopatra (Orazio), Dafne
(Ovidio), Euridice (Ovidio e Virgilio)
Di Sacco, Serio, Il mondo latino, Bruno Mondadori
La donna arcaica: sottomesso modello di virtù
La fine delle repubblica: intrigo ed emancipazione
L'età di Augusto e il primo impero: la donna, strumento di eros, diviene paradigma dell'irrazionale che irrompe nel mondo degli uomini (Didone, Fedra e Medea di Seneca)
Il tardo impero e i Cristiani
Autori vari, Invito ai classici, Marietti
Figure femminili: Le donne dei poeti (Catullo, Orazio, Tibullo, Properzio), mogli e madri
(Ovidio, Seneca, Tacito, Plinio il giovane), eroine del mito (Ifigenia-Lucrezio, Arianna-Catullo,
Didone, Camilla-Virgilio, Pirra, Eco-Ovidio), le donne della storia (Sempronia, Clodia, Cleopatra,
Sofonisba, Agrippina, Arria)
Di Bucci Felicetti, Piva, Sega, Strade di Roma, La nuova Italia
La donna: psicologia e antropologia: I ruoli sociali (Terenzio, Cicerone, la donna nelle
iscrizioni cristiane, Tertulliano, Carmina Burana), i modelli e gli antimodelli storici
(Sempronia), I modelli e gli antimodelli mitologici (Euridice e Didone in Virgilio), le
oscillazioni del cuore (Catullo, Elegiaci latini, Carmina Burana), La donna nella novellistica
(Apuleio), la spiritualità (Agostino).
Clelia De Vecchi
La Donna Romana
31
Conclusione
Extemplo simul pares esse coeperint, superiores erunt
“Non appena le donne cominceranno ad essere uguali a noi, subito saranno superiori”
(Catone, in Livio, Ab urbe condita, XXXIV,3,2)
(febbraio 2004)
32
Bibliografia minima
E. Cantarella, Passato prossimo. Donne romane da Tacita a Sulpicia, Feltrinelli, Milano, 1996
G. Duby M. Perrot, Storia delle donne, L’Antichità a cura di P. Schmitt Pantel, Laterza, Bari, 1990
F. Sampaoli, Le grandi donne di Roma antica, Newton & Compton Editori, Roma, 2003
Grout, Breve storia dell’opera, Rusconi, 1985
Alain Michel, Tacito e il destino dell’impero, Einaudi, Torino 1973
L. Canali, Delitti e congiure nell’antica Roma, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 2002
Dizionario delle Opere e dei Personaggi, Bompiani, vol. III, Milano, 1950
Donne e saperi nell’antichità
Maria Grazia CAENARO
Liceo Classico “XXV Aprile”- Portogruaro
MARIA GRAZIA CAENARO
Liceo Classico “A. Canova”- Treviso
DONNE E SAPERI NELL’ANTICHITÀ
Premessa
È opportuno indicare preliminarmente di quali saperi e di quale antichità ci occuperemo in questa conversazione: i saperi su cui ho scelto di proporre alcune riflessioni sono due fra quelli considerati più specifici e più di pertinenza degli uomini, medicina e filosofia; l’antichità è quella greco romana perché
greco romane sono le radici della nostra civiltà, con cui ritengo sia sempre utile confrontarsi; nella dimensione della lunga durata dei due saperi ‘forti’ prescelti, intendo isolare alcuni momenti significativi compresi tra le più antiche testimonianze e la fine della scienza e della filosofia antiche (dall’VIII sec. a.C. al
V d.C.) non per cogliere necessariamente un progresso, ma piuttosto per identificare alcune costanti della
condizione della donna. Le fonti letterarie e documentarie che utilizzerò sono volutamente non omogenee,
dato che nell’evocare in questa sede alcune immagini femminili non c’è intendimento di studio in chiave
sociologica o antropologica, ma solo il proposito di svolgere qualche considerazione su testi di natura
disparatissima che presentano situazioni emblematiche della donna in rapporto ai saperi forti: dall’alta
letteratura al repertorio di miti, dal trattato tecnico alla testimonianza epigrafica, dalla produzione filosofica alla biografia, emergono infatti personaggi reali e ‘figure’ di forte pregnanza simbolica con cui la cultura antica si racconta e si rappresenta. Vorrei però lasciare sullo sfondo il ‘pensiero della differenza’,
l’opposizione maschile/femminile (nei termini della specificità biologica e della peculiarità delle qualità
intellettive) fortemente sentita nell’antichità; senza tuttavia dimenticare il mito esiodeo dell’inghiottimento
di Metis (l’Intelligenza pratica e risolutiva) da parte di Zeus e l’etimologia tardo latina di Festo che, sulla
scorta di Cicerone, distingue tra sagacitas delle donne (il sapere intuitivo, il fiutare, come i cani) e sapientia degli uomini.(1)
1. Donne e medicina
La prima medicina greca, come afferma Celso, è quella omerica; e a fianco di esperti guaritori figure
femminili compaiono già nella più antica poesia greca, in due notissimi episodi che offrono esempi di
‘medicina di guerra’: quello del dio Ares, ferito dal mortale Diomede nella prima grande battaglia dopo
il ritiro di Achille e sanato sull’ Olimpo dal medico divino Peone, e quello del medico Macaone trafitto da
una freccia nella mischia ai bordi dello Scamandro dove infuria Ettore, portato in salvo da Nestore e curato nella sua tenda.(2)
1.1. Medicina sull’Olimpo
Disse (Zeus), e a Peone ordinò di curarlo. Versando farmaci che leniscono il male, Peone lo guarì perché non
era nato mortale. Come quando il succo del fico fa cagliare il bianco latte, e il liquido, mescolato, si rapprende veloce, così rapidamente Peone guarì l’ardente Ares. Ebe poi lo lavò, lo rivestì con bellissime vesti;
superbo della sua gloria egli sedette accanto al figlio di Crono.
(Iliade, V, 899-906. Trad. M. G. Ciani)
Il medico divino al quale Zeus affida il figlio ferito dopo averlo aspramente rimproverato per la sua crudeltà è Peone (‘il guaritore’), epiteto di Apollo, raffigurato all’inizio del poema come seminatore di morte
Maria Grazia Caenaro
Donne e saperi nell’antichità
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nel campo greco dove diffonde il contagio della peste(3); ma sull’Olimpo si manifesta l’aspetto benefico
della relazione divina con il male (come nella guarigione di Ades ferito da Eracle, rievocata poco prima),
e il paragone domestico e quotidiano che suggerisce la rapidità dell’intervento risanatore, così lontano
dalle terribili immagini del primo libro, stempera la crisi e prepara per il ferito l’intervento della sorella
Ebe che assiste alla medicazione e completa l’opera del dio; presto con la guarigione anche l’armonia è
ristabilita e sull’Olimpo ritornano dignità e serenità.(4)
1.2. Medicina al campo greco
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Ma non avrebbero ceduto gli Achei gloriosi, se Alessandro, sposo di Elena dai bei capelli, non avesse ferito
Macaone, condottiero di eserciti, colpendolo alla spalla destra con una freccia a tre punte. Tremarono per
lui i Danai intrepidi, che non lo uccidessero, mutando le sorti della battaglia. Subito Idomeneo disse a
Nestore glorioso: “Nestore figlio di Neleo, grande gloria dei Danai, presto, sali sul carro e fa salire Macaone,
e poi sprona subito verso le navi i cavalli dai solidi zoccoli; molto più di altri uomini vale un medico per
estrarre le frecce e spalmare sulle ferite farmaci che placano il male”. Disse, acconsentì il vecchio Nestore,
guidatore di carri; subito salì sul suo carro e fece salire Macaone figlio di Asclepio, medico illustre; poi frustò i cavalli che di slancio volarono verso le concave navi, là lo portava il suo cuore.(...) Giunsero intanto,
Nestore e Macaone, alla tenda del figlio di Neleo e posero il piede sulla terra feconda; lo scudiero
Eurimedonte staccò dal carro le cavalle di Nestore. Essi frattanto, in piedi sulla riva del mare, asciugavano
al vento il sudore che impregnava le tuniche; poi entrarono nella tenda e si misero a sedere. Per loro preparò una bevanda Ecamede dai bei capelli, che Nestore portò da Tenedo quando Achille devastò la città; era
figlia del grande Arsinoo e gli Achei la diedero a lui perché nel dare consigli era migliore tra tutti.(...) Udì
le grida Nestore, mentre beveva, e al figlio di Asclepio rivolse queste parole: “Macaone glorioso, bada a quello che sta succedendo; sale, presso le navi, il grido di guerra dei giovani forti; ma tu resta a bere il vino fulgente fino a che Ecamede dai bei capelli riscaldi l’acqua per il bagno e ti deterga la polvere e il sangue; io
intanto salirò di vedetta, per sapere al più presto”.
(Iliade, XI-504-520; 618-627. XIV, 1-8.Trad. M.G. Ciani)
Se la guarigione divina è istantanea, su quella del mortale il poeta non indugia, dando rilievo invece al
ruolo sociale del medico di guerra che si trova ora nella singolare situazione di dover ricevere quelle cure
che normalmente presta agli altri. Macaone in precedenza ha infatti curato Menelao ferito dall’arciere
Pandaro: Omero lo descrive mentre strappa la freccia, mette a nudo la ferita, succhia il sangue, applica i
farmaci che Chirone aveva donato a suo padre Asclepio - definito uomo, non ancora dio - (IV, 204- 219);
Patroclo cura allo stesso modo Euripilo, con i farmaci e l’arte appresa da Achille istruito da Chirone (XI,
822-848). Quindi, come per Menelao e Euripilo, anche per Macaone possiamo immaginare incisione,
estrazione della freccia, applicazione sulla ferita detersa dal nero sangue del succo di una radice amara
che rimargina; ma giova soprattutto osservare che in entrambe le scene iliadiche, nella fase dell’accoglienza e della medicazione del ferito, è presente un personaggio femminile nel ruolo di assistente; la mortale Ecamede svolge infatti funzioni esattamente equivalenti a quelle di Ebe sull’Olimpo: mesce una
bevanda ristoratrice, deterge la ferita, somministra il ristoro del bagno caldo. Il nome della schiava (che
significa ‘Che volentieri si prende cura’) prefigura il suo ruolo e forse la superiorità per senno del verso
formulare è attribuita proprio a lei, non a Nestore; è evidente anche l’affinità del nome Ecamede con quello (dalla stessa radice med= cura, pensiero) di Medea, esperta manipolatrice di pharmaka già nella letteratura più antica e detentrice di un sapere presto considerato ‘debole’, ma nel dramma di Euripide
vantato come sophia che la rende invisa a molti: la medicina primitiva infatti si affidava alla magia delle
formule e alle erbe, conoscenza prima prerogativa di pochi, poi estesa a più, come osserva Plinio, e praticata soprattutto dalle donne.
Proprio nel mondo della tragedia euripidea (V sec.a.C.), dove la malattia è rappresentata con impressionante realismo, un compito molto meno marginale di Ecamede assolve Elettra assistendo il fratello Oreste
in preda agli assalti del male che lo tormenta dopo il matricidio, raffigurato con i segni del ‘morbo
sacro’(l’epilessia) in un dramma in cui è messa in dubbio la responsabilità di Apollo nella sofferenza
umana, proprio come nel contemporaneo trattato di Ippocrate è negato ogni intervento divino nel terribile male. Elettra veglia il malato senza concedersi riposo, sempre accanto al suo letto: spia nel povero corpo
i sintomi dell’alterazione, lo trattiene nell’eccitazione motoria, lo aiuta a cacciare le allucinazioni del delirio, lo incoraggia nella fase di sfinimento che segue alla crisi acuta, gli spiega il male, ne favorisce e protegge il sonno ristoratore, senza mai interrompere la sua epikouria affettuosa, impavida, esperta; e benché
donna, giovane, non sposata, incurante del miasma al contatto con l’omicida dalle mani impure, vincendo timore e pudore, condivide ogni momento della pena fisica e morale del malato, lo riporta alla vita
mettendo a rischio la sua: come molti che curavano e assistevano i malati erano morti per la loro generosa epikouria, secondo la testimonianza dello storico Tucidide, nella peste che colpì Atene all’inizio della
guerra del Peloponneso.
Nella raffigurazione dei dolori degli eroi feriti dell’epos e della tragedia è evocata, per paragone o per
metafora, la sofferenza del parto(5). Un breve mito delle origini ci porta in un universo esclusivamente femminile, appunto al travaglio del partorire che Medea dichiara tre volte più doloroso e pericoloso della
guerra, dove il ruolo benefico della donna che assiste è del tutto risolutivo e la solidale intelligenza femminile vince le difficoltà.
1.3. La nascita dell’eroe
Alla sinistra delle porte che chiamano di Elettra si ergono le rovine di una casa che, a quel che si dice, fu
abitata da Anfitrione dopo che fu esiliato da Tirinto, a causa della morte di Elettrione. Anche la camera da
letto di Alcmena è ben visibile fra le rovine. Dicono che sia stata costruita per Anfitrione da Trofonio e
Agamede, e che vi fosse apposta questa iscrizione: “Quando Anfitrione si apprestava a condurre qui/ la sua
sposa Alcmena, egli scelse per sé questa stanza/. Trofonio l’ancasio e Agamede la costruirono”. Questi versi,
a quel che dicono i Tebani, vi stavano scritti(...). Ci sono anche delle figure di donne in rilievo, ma le loro
immagini sono ormai quasi indistinguibili. I Tebani le chiamano Pharmakides. Dicono infatti che fossero
state mandate da Era per ostacolare il travaglio di Alcmena: per questo le impedivano di partorire. Ma
Historis, figlia di Tiresia, escogitò un trucco per sconfiggerle. Si avvicinò tanto che le streghe potessero udirla e poi si mise a gridare che Alcmena aveva partorito: le Pharmakides, ingannate, se ne andarono e
Alcmena poté finalmente partorire. (Pausania, Descrizione della Grecia, IX,11,1-2)
Anche in questo racconto che Pausania, colto viaggiatore che visita la Grecia nel II secolo dell’era volgare, si sforza di rendere credibile insistendo sugli ‘oggetti del mito’ (la statua di Alcmena, l’iscrizione, il
rilievo) hanno pregnante significato i nomi propri che definiscono i ruoli delle donne che assistono al
parto: Historis è ‘colei che ricerca’, che vuole sapere, che compie indagine (cfr. historia; historein e zetein
sono, dal V sec. a.C., termini tecnici della ricerca); è figlia dell’indovino tebano Tiresia e risolve la situazione con un espediente, una forma di sapere tipicamente femminile: proclama già avvenuto l’evento (il
parto) che le antagoniste vogliono impedire, vanificando la loro magia. Pharmakides sono le streghe,
esperte nell’uso di pharmaka (termine che indica rimedio e veleno - come il latino medicamentum - pozione o impiastro d’erbe, ma anche incantesimo); il rimedio con cui Historis risolve la difficoltà della partoriente, la distocia, in questa narrazione fortemente ellittica che forse scambia l’effetto con la causa è il
gridare (ololuxe): ololyghe è il grido rituale, tipicamente femminile (anche di Ilithia e di Lachesis) con cui
la levatrice annunciava la nascita e forse segnalava, nella pratica ostetrica antica, anche il sesso del neonato. Varianti del racconto si leggono in molti altri testi, dove diverso è il nome dell’aiutante, associata
per metamorfosi punitiva al mondo animale, a sottolineare il carattere trasgressivo dell’azione; cambia
anche il nome e il numero delle antagoniste della partoriente (Moire, Ilithia / Ilithie, Lucina/Era), ma non
Maria Grazia Caenaro
Donne e saperi nell’antichità
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la loro funzione di impedimento(6). Il mito si può dunque leggere come vittoria sulla magia dell’esperienza intelligente o in qualche modo come trapasso dalla magia potenzialmente distruttiva dei pharmaka (gesti
simbolici di legamento, ritornelli, fatture) alla medicina che intuisce il rimedio e soccorre. La nascita è
ovviamente eccezionale ed esemplare: Eracle è l’ultimo figlio di Zeus nato da donna mortale e sarà con
le sue dodici fatiche benefattore dell’umanità; già Omero (Iliade XIX, 103-119) racconta ampiamente la
gelosia di Era per Alcmena, condannata a una interminabile gestazione, e la sua volontà di favorire il casato argivo di Perseo determinando il rinvio della nascita di Eracle tebano. In molti racconti di nascita di
eroi (anche nel caso di Alessandro Magno) l’evento è ritardato per farlo coincidere con congiunture astrali favorevoli (e spesso un mago o un indovino presente al parto ne determina il momento opportuno); ma
qui l’antico mito, che fa parte di una costellazione di analoghi racconti di parti difficili o impossibili(7),
sembra voler mettere in primo piano il mistero che circonda il venire alla luce e sottolineare il rischio del
non nascere cui sono esposti perfino i figli degli dei e gli dei (come Apollo e Artemide e Zeus stesso), il
pericolo di morte che corrono la partoriente e il nascituro, insidiati da forze maligne ma vittoriosamente
soccorsi dalla metis, l’intelligenza pratica o l’accortezza previdente di cui neppure il padre Zeus può privarsi (se, come ho ricordato, inghiotte la sua sposa Metis ‘che sa distinguere il bene e il male’).
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Aristotele, medico e figlio di un medico, osserva che alla levatrice necessita prontezza e una forma di
intelligenza acuta per individuare momento e modo opportuni nel taglio e legamento del cordone ombelicale (Storia degli animali, VII, 10, 587a): solo in quanto agchinous (di mente sottile), abile, accorta,
pronta, l’ostetrica può portare aiuto alla paziente nelle difficoltà del parto.(8) Il filosofo valorizza dunque
una qualità d’intelligenza rapida e agile - propria anche del politico e dello stratega - che assieme all’esperienza raggiunge il bersaglio: ouk astochos dianoia; nell’Etica Nicomachea proprio la medicina e la
navigazione sono definite arti ‘stocastiche’ perché realizzano il loro obbiettivo sfruttando prontamente l’occasione (kairos). Nel racconto tebano l’intelligenza pronta e la parola (gridata, non mormorata come nelle
pratiche magiche) dell’assistente risolvono la difficoltà di Alcmena; dunque come mito eziologico dell’arte ostetrica che richiede sapere può essere intesa la tradizione raccolta da Pausania che rappresenta un
discrimine tra magia e medicina. Altre versioni del mito sottolineano esplicitamente la valenza trasgressiva dell’intervento della soccorritrice: è infatti proprio dell’eroe fondatore infrangere le regole per instaurare un nuovo ordine.
Un mito di fondazione raccontato da un mitografo d’età augustea fissa in modi analoghi anche l’inizio della
professione medica femminile in Atene.
1.4. Origini della medicina delle donne
Il centauro Chirone, figlio di Saturno, fu l’inventore della medicina chirurgica, che praticava con l’uso delle
erbe, Apollo fu il primo a praticare l’oculistica, per terzo Asclepio, figlio di Apollo, inventò la clinica. Gli
antichi non avevano ostetriche, per cui le donne, per vergogna, morivano: infatti gli Ateniesi avevano vietato che schiavi e donne praticassero la medicina; ma una ragazza (puella virgo)di nome Agnodice volle
apprendere la medicina; presa da questo desiderio, si tagliò i capelli e in abito maschile divenne allieva di
un certo Erofilo. Dopo aver appreso la medicina, quando sentiva che una donna era malata nelle parti inferiori, si recava da lei; e se quella, credendola un uomo, non voleva affidarsi a lei, Agnodice, sollevata la
veste (tunica sublata) mostrava di essere una donna e in questo modo la curava. Quando i medici scoprirono che loro non erano ammessi vicino alle donne, iniziarono ad accusare Agnodice dicendo che non aveva
barba ed era un corruttore di donne, e che esse simulavano malattie. Quando i giudici dell’Areopago si
riunirono, il loro verdetto iniziale fu di colpevolezza; allora Agnodice sollevò la veste (tunicam allevavit)
davanti a loro e mostrò di essere una donna. I medici tanto più insistettero con l’accusa; perciò donne autorevoli si presentarono ai giudici e dissero: “Voi non siete mariti, ma nemici (hostes), perché condannate chi
ci ha guarito”. Allora gli Ateniesi cambiarono la legge e permisero che le donne libere imparassero la medicina. (Igino, Fabulae, 274)
L’accenno alla scuola del medico Erofilo consente di collocare storicamente questo aition della ginecologia: Erofilo è un famoso medico alessandrino attivo tra il IV e il III secolo a.C. (fu forse il primo a praticare la dissezione anatomica); alcuni studiosi negano tuttavia la verità storica di questo racconto che
compare solo in Igino e ha marcati caratteri folklorici e di novella popolare, mentre altri gli attribuiscono
credibilità, leggendovi un riconoscimento e una istituzionalizzazione della medicina delle donne; in effetti già sezioni del Corpus Hippocraticum (in particolare il trattato sulle malattie femminili, testo costituito
dalla stratificazione di tre materiali di diversa provenienza e antichità, il cui autore dichiara nella premessa
che è difficile curare le donne affette da malattia a causa del pudore che le rende reticenti) raccolgono
certamente osservazioni e informazioni fornite da donne esperte dell’organismo femminile. E forse è significativo che nel Corpus la levatrice (maia) sia indicata anche con il termine akestris, ‘colei che sana’ (il
maschile akestor è di impiego più remoto e indica il guaritore anche divino, come Apollo). Il nome
Agnodice, che non compare nell’onomastica corrente, potrebbe essere inteso come ‘casta di fronte al giudizio’ (ma allora dovrebbe essere Hagnodice: così infatti correggono alcuni editori); è più probabile (come
suggerisce una glossa di Esichio: agnodikos = che ignora la giustizia) che il nome dell’inventrice indichi
invece la sua violazione di un tabù e sanzioni il ricorso all’inganno per accedere al sapere detenuto dagli
uomini. Certamente il gesto di sollevare le vesti (anasyresthai) ha complesse valenze antropologiche(9):
Agnodice lo usa di fronte all’Areopago per far vergognare i giudici nemici delle donne e confonderli;
davanti alle donne invece la femminilità è esibita per rassicurarle, ma anche per dimostrare loro solidarietà come, nell’Inno omerico V, da Baubò che con l’antico gesto apotropaico fa ridere Demetra in lutto e
le fa riportare la vita nei campi senza messi.
Nel racconto di Igino gli elementi di folklore sono dunque innegabili, ma sembrano recuperati in funzione allusiva o simbolica. Resta sorprendente la collocazione di questo aition della ginecologia in un capitolo dedicato agli scopritori (tutti uomini), nella sezione compatta sulle origini della medicina dove in
particolare Asclepio inventore della ‘clinica’ è da intendere come inventore dell’incubazione nel tempio
(negli Asclepieia i malati attraverso i sogni ricevevano direttamente indicazioni per la cura dal dio), pratica molto diffusa e mai soppiantata nel mondo antico.(10)
Forse un cenno storico a medici donne si legge in Platone (Rep.454d), dove attraverso l’esempio dell’arte medica, a cui sono inclini per natura anche alcune donne, non meno di certi uomini, Socrate ribadisce
che “i nostri Custodi e le loro donne possono attendere ai medesimi compiti”.
Proprio della metà del IV secolo a.C. è la raffigurazione su una stele funeraria attica di una donna medico ostetrico (il cui nome è Fanostrata) che, assisa su un alto seggio, riceve un dono da una giovane accompagnata da due bambini. La dignità e l’autorevolezza della figura alludono alla sua competenza e
professionalità e rendono evidente che accanto alle partorienti non ci sono solo le praticone ignoranti e
le vicine di casa volonterose rappresentate dalla commedia di Aristofane (Ecclesiazuse, Tesmoforiazuse),
ma alcune donne hanno acquisito un sapere specialistico - che conferisce loro importanza sociale e orgogliosa consapevolezza del proprio ruolo - e meritano la gratitudine delle donne soccorse. L’iscrizione in
esametri dice: “Qui giace Fanostrata, levatrice e medico (Maia kai iatros sono le prime parole del distico), a nessuno molesta, da tutti rimpianta dopo morta.” (CEG 569). Il monumento funerario è dunque
una preziosa testimonianza dell’esercizio da parte di donne dell’arte maieutica e della medicina ginecologica in una società che tiene in alta considerazione il guaritore, come si ricava da analoghe iscrizioni relative a medici uomini molto più antiche (databili intorno al 500 a.C.) che ne attestano la sophia (CEG 62,
dall’Attica) e li onorano come benefattori ( CEG 127, dalla Focide). (11)
Come avveniva la formazione delle donne medico e in particolare delle ostetriche, che cosa imparavano
e da chi, quali erano i loro compiti, lo apprendiamo da una testimonianza molto più tarda, dal trattato
composto nel II sec. dell’era volgare dal medico Sorano di Efeso, formatosi professionalmente in Grecia,
ma attivo in ambiente romano. In Italia, come apprendiamo dall’enciclopedia di Catone, la medicina più
antica era esercitata dal pater familias, e il primo medico greco giunto in Italia (Arcagato, nel 219 a.C.,
secondo la testimonianza di Plinio), accolto inizialmente con favore, era stato cacciato ben presto per la
sua incompetenza o per la brutalità dei suoi metodi (da quello di Vulnerarius gli avevano cambiato il
Maria Grazia Caenaro
Donne e saperi nell’antichità
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soprannome in Carnifex). Ma la considerazione per l’arte era del tutto cambiata con l’arrivo a Roma del
medico e filosofo epicureo Asclepiade di Prusa (amico di Crasso, Attico, Cicerone) e tra l’età di Cesare
(che concesse ai medici stranieri la cittadinanza romana su tutto il suolo italico) e quella di Augusto (che
istituì sull’Esquilino una Schola medicorum) si era installata in Roma una autorevole corporazione di medici greci; successivamente gli imperatori favorirono l’insegnamento della medicina e conobbe notevole sviluppo in particolare la medicina di guerra: medici militari erano aggregati alle legioni (chirurghi che
operano vicino al campo di battaglia sono raffigurati nella Colonna Traiana; dell’età di Nerone è il celebre chirurgo militare Dioscoride, autore di un imponente trattato sulle piante medicinali; numerose epigrafi nei territori dell’impero ricordano chirurghi militari); molto rinomati erano anche i medici dei
gladiatori (così iniziò la carriera Galeno): queste esperienze sul campo diedero naturalmente grandissimo
impulso ad alcuni settori della medicina.(12) È quindi significativa l’attenzione per i problemi delle donne,
soprattutto quelli legati alla funzione riproduttiva (sterilità, aborto, contraccezione, gravidanza, difficoltà
del parto) da parte del celeberrimo ‘metodico’ (princeps methodicorum) autore di numerose altre opere,
ma per quindici secoli autorità indiscussa soprattutto nel campo della ostetricia, della ginecologia e della
pediatria. Nei capitoli iniziali della prima parte del suo trattato di ginecologia Sorano dedica alcuni precetti alla formazione delle ostetriche e ne traccia l’alto profilo professionale, giungendo a porre l’ostetrica
perfetta sullo stesso piano del medico.
1.5. L’ottima ostetrica
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Colei che intende diventare ostetrica dovrà essere fornita di istruzione elementare, avere spirito pronto, buona
memoria (...). L’istruzione elementare le consentirà infatti di acquisire l’arte anche attraverso il ricorso alla
teoria, la prontezza di spirito le permetterà di seguire con facilità quello che le viene detto o quello che accade, la memoria di ricordare ciò che ha appreso (...). È necessario dire ciò che realizza la nutrice ottima, affinché le migliori si riconoscano, quelle che stanno imparando guardino a queste come a modelli, nella vita
poi si sappia quali bisogna mandare a chiamare a seconda delle necessità. In senso generale noi dunque
diciamo perfetta solo quella che raggiunge il culmine dell’arte medica, ottima quella che ha appreso qualcosa anche con l’assistere alle lezioni teoriche. In senso più specifico chiamiamo ottima ostetrica quella che
ha esperienza di tutte le parti della terapia (infatti da un lato deve prescrivere diete, dall’altro operare, dall’altro ancora con medicine ristabilire le condizioni di salute) e quella capace di assegnare le prescrizioni e
di considerare la situazione complessiva e il caso particolare e da queste osservazioni trarre giuste decisioni
(...); inoltre in senso più specifico quella che non cambia continuamente metodo nel cambiare delle condizioni, ma che incoraggia secondo le fasi della malattia, capace di controllo nei momenti critici, in grado di
dare efficacemente spiegazioni riguardo i rimedi e offrire conforto alle donne sofferenti, partecipe delle loro
sofferenze anche se non è necessario che lei stessa abbia già partorito, come sostengono alcuni, per poter condividere il travaglio delle partorienti attraverso l’esperienza diretta (questa infatti è propria prevalentemente
di chi ha già partorito); deve invece essere robusta per prestare l’assistenza dovuta e non necessariamente giovane, come alcuni affermano: infatti una giovane è senza vigore e una non giovane al contrario è vigorosa.
Bisogna poi che sia temperante e sobria, sempre a causa dell’imprevedibilità delle chiamate presso quelle
che sono in pericolo; riservata, in quanto deve essere messa a parte di molti segreti che capitano nella vita;
non avida di danaro, così da non prestare male la sua arte per mercede; non superstiziosa così da trascurare l’utile a causa di sogni, o presagi o qualche usuale pratica segreta e rito volgare. Curi anche la morbidezza delle mani, evitando anche i lavori (=‘ le lavorazioni della lana’) in grado di renderle ruvide, e
procurandone la morbidezza con unguenti, se non sono lisce per natura. Tale deve essere l’ottima ostetrica.
(Sorano, Le malattie delle donne, I, 3, 4; I, 4,1)
Sorano ritiene dunque necessarie per la perfetta levatrice attitudini naturali (intelligenza, memoria), una
conoscenza anche teorica dell’arte (è proprio questo il sapere qualificante), esperienza in tutti i campi
della medicina, costituzione fisica idonea, doti di carattere, osservanza di un vero e proprio codice deon-
tologico; non considera invece determinanti età e pregressa procreazione. Soprattutto respinge con fermezza la superstizione e la ciarlataneria, diffuse in particolare nel mondo delle donne e, da ottimo clinico, rivolge (e raccomanda) molta attenzione ai sintomi anche nella pratica ostetrica.(13) Nella modernità
della sua concezione si propone pertanto di formare non assistenti subordinate, ma ostetriche autonome;
nel parto suggerisce inoltre che intervenga un’equipe di donne: oltre alla maia prevede tre hyperetides
(nella traduzione latina: ministrae = assistenti). Sorano, che nel trattare le cause della distocia si richiama a Erofilo, il maestro di Agnodice, insegna ad affrontare problemi come la posizione sfavorevole del
bambino, che deve essere corretta per consentire la nascita, e l’estrazione del feto con uncini o forcipe.
Ma parla anche di allattamento, di scelta della nutrice, di assistenza al neonato (un capitolo interessante
riguarda il bagno) e di malattie neonatali, della dentizione e del rachitismo infantile. Osserva anche che
le donne romane non hanno per i bambini l’amore e la cura delle madri greche; ma si mostra anche piuttosto comprensivo di fronte alla diffusa pratica dell’aborto.
Dunque il sapere medico non è più sottratto agli uomini, ma liberamente trasmesso e di conseguenza l’emancipazione della donna nell’esercizio della professione medica determina pure la valorizzazione dell’esperienza anatomica femminile che viene ora divulgata anche attraverso la scrittura: di Metrodora,
contemporanea di Sorano, è un trattato, conservato, sulle malattie di alcuni organi.
È naturale che aumentando le applicazioni della medicina con l’apertura di scuole e di centri di cura, oltre
alle levatrici e alle conoscitrici di erbe e infusi capaci di suggerire rimedi per mali comuni, siano diventate sempre più numerose le esperte specializzate in vari settori da cui raccolsero terapie, consigli, ricette medici che redigevano trattati con criterio empirico, come fece quello Scribonio Largo, un liberto
medico alla corte di Claudio, che riunì e pubblicò quasi 300 Compositiones, ‘formule’ per la cura del
corpo “dalla testa ai piedi”, tra cui consigli di bellezza suggeriti o praticati dalle potenti donne della famiglia imperiale (ma questo ‘empirico’, eppure grande ammiratore di Ippocrate di cui riporta il giuramento, dedica anche pagine importanti alla contraccezione e all’aborto che condanna).
Successivamente, nell’enciclopedia di Plinio (soprattutto nei libri dal XX al XXVIII, sui medicamenti tratti da piante e animali) sono citate notizie desunte da compilazioni di donne e sono ricordate loro opinioni su problemi di medicina femminile (legati principalmente al concepimento, alla gravidanza, al parto
e alle complicazioni successive al parto) e su trattamenti di bellezza; sono anche riferite le terapie proposte da queste esperte, molto spesso per criticarle. Plinio fa il nome di Elefantide, specializzata in rimedi
abortivi (XXVIII, 81); cita anche una Salpe di Lemno per strane ricette di bellezza, l’ostetrica Sotira per
i suoi curiosi rimedi contro la febbre (XXVIII, 82 e 83) e ripetutamente Olimpia di Tebe per prescrizioni in malattie delle donne. La figura che emerge con più evidenza è quella di Laide che scrisse testi di
medicina, teneva lezione a Roma ed era così bella da parlare stando nascosta dietro una tenda per non
turbare gli allievi (dietro una tenda insegnava Pitagora: il curioso particolare allude quindi a una concezione sacrale del sapere trasmesso e non indica solo un espediente per superare il tabù imposto dal pudor).
Come si nota scorrendo gli indici dei libri della Naturalis Historia nella rubrica “medici”, tutti i nomi femminili sono greci: dunque saranno state numerose anche in Roma, probabilmente all’inizio di origine straniera e di condizione servile, le donne che praticavano l’arte medica.(14)
Anche in seguito, nella formazione progressiva di una classe di ostetriche professionali formate dalla medicina degli uomini, la tradizionale scienza femminile del corpo delle donne ha continuato ad avere un ruolo
importante, fornendo informazioni, esperienze, ricette: Galeno di Pergamo (il medico personale di Marco
Aurelio, che esercitò la sua arte a Roma negli ultimi trent’anni del secondo secolo) conosce un’autrice di
testi di medicina e cosmesi di nome Laide; (15) cita una Cleopatra che scrisse su problemi della pelle,
Aspasia specializzata in chirurgia e nello studio delle gravidanze. Galeno stesso aveva come collaboratrice in Roma una donna medico esperta nella cura di particolari affezioni, Antiochide di Tles, alla quale
la sua città natale eresse un monumento come benefattrice. Sono di grandissimo interesse pagine del trattato Sulla prognosi (8, XIV, 641-647) in cui Galeno descrive il decorso della malattia di una donna,
moglie di un personaggio in vista a Roma, assistita da personale medico femminile (“le solite levatrici,
Maria Grazia Caenaro
Donne e saperi nell’antichità
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ma le migliori della città”) sotto la supervisione di Galeno che, dopo una notte di riflessione, intuisce ragionando e riconsiderando tutti i sintomi la natura del male della paziente e mette a punto una terapia risolutiva (e generosamente compensata). Il passo pone in evidenza il metodo rigoroso del medico ‘razionale’,
ma allude anche alla reticenza iniziale della donna malata per pudore, alla prudenza della famiglia di cui
Galeno deve conquistare la fiducia; e, nella descrizione dello stuolo di persone che circondano la malata
soffocandola e del consulto per concordare le cure, il medico lascia trasparire il suo senso orgoglioso di
superiorità soprattutto nei confronti delle donne che schiamazzano a vuoto in preda al panico, meritandosi alla fine anche il riconoscimento della sua perizia da parte di un’anziana levatrice ostile agli altri presunti guaritori. Emerge insomma il ritratto dell’ottimo medico uomo; d’altra parte Galeno, nella sua
vastissima produzione scritta, dichiara indispensabile per il medico un esteso sapere (matematica, geometria, musica, retorica, letteratura in particolare) e soprattutto la conoscenza della filosofia; ma è probabile che a questo sapere enciclopedico poche donne abbiano avuto accesso.
I termini iatrina e iatros gynaikeios ricorrono nelle epigrafi funerarie nel Mediterraneo Orientale in età
imperiale. Nelle epigrafi latine si trova invece il termine iatromea, curiosa formazione (da iatros= medico, maia= levatrice) per indicare il medico ostetrica; donne medico sono ricordate da iscrizioni funebri
nella capitale e in provincia: a Roma Valeria Berecunda (CIL VI 9477), a Capua Scanzia Redempta,
‘famosa nella sua arte’ (CIL X 3980); in Spagna, a Merida, si legge in un’epigrafe che il marito Filippo
ha fatto erigere il monumento funebre in onore di Giulia Saturnina, moglie impareggiabile e medico eccellente, donna santa sotto ogni aspetto; nella parte posteriore del monumento è effigiato un neonato, a ricordo dell’attività di ostetrica (CIL II 497). A Ostia un monumento funebre raffigura realisticamente la
levatrice Scribonia Attica mentre, affiancata da un’assistente, aiuta a partorire una donna adagiata sulla
sedia ostetrica. In tutte queste iscrizioni è significativa l’onomastica, in prevalenza latina.
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Le testimonianze epigrafiche danno una media di durata della vita delle donne di 34 anni, 10 meno degli
uomini: certo erano meno curate e assistite; altissimo risulta poi il numero delle giovani spose morte di
parto, conseguenza di matrimoni molto precoci e di assistenza inadeguata o negata dalle condizioni sociali: in un’epigrafe di Salona lo schiavo Giusto ricorda la compagna morta senza riuscire a partorire dopo
quattro giorni di travaglio (CIL III 2267), dall’iscrizione funeraria una giovane schiava di Cartagine lascia
in eredità al compagno il ricordo delle pene sofferte e delle lacrime versate per aver dato alla luce pochi
giorni prima un bimbo contro la volontà del padrone (CIL VIII 24734).
La femminilizzazione della medicina e la professionalizzazione della pratica ostetrica si può supporre siano
state favorite nei primi secoli dell’impero (quando Roma organizza una rete efficentissima di luoghi di
cura per i legionari). Poi la medicina diventa sempre più appannaggio maschile e l’attività femminile è
confinata alle pratiche più basse e limitata alle affezioni delle donne o alla cosmesi; ma si continua a utilizzare e trasmettere l’esperienza dei grandi medici del passato.
Nel V secolo il trattato in greco di Sorano è tradotto in latino da Celio Aureliano, un medico numida, che
spiega: “Gli antichi hanno istituito delle medicae perchè le patologie degli organi genitali femminili non
vengano mostrate agli uomini per essere esaminate”. Sono le stesse considerazioni che inducono agli inizi
dell’undicesimo secolo Trotula, una sapiens matrona salernitana moglie e madre di medici famosi, capace di tenere testa agli uomini nell’arte medica, a redigere il suo trattato (Le malattie delle donne prima,
durante e dopo il parto), il primo testo di ginecologia scritto da una donna; ma Trotula scrive anche un
trattato su Come rendere belle le donne; e mulieres salernitanae rinomate per la preparazione di cosmetici
sono citate nel Commentarium super tabulas Salerni di Bernardo di Provenza (XII secolo); di alcune donne
medico nei secoli dal XII fino al XV, gravitanti intorno alla scuola salernitana, conosciamo i nomi e le
opere; saranno ascoltate e stimate nel campo delle affezioni femminili e della cosmesi, ma anche accusate di superstizione. Resta significativo che donne di medicina si siano formate e messe in luce all’interno
della scuola salernitana che si fregiava del titolo di Civitas Hippocratica, come un tempo da un discepolo
di Ippocrate la coraggiosa e astuta Agnodice aveva appreso l’arte per giovare a quelle del suo sesso.(16)
2. Donne e filosofia
I tratti del filosofo antico nelle sue metamorfosi storiche, ciò che egli era per sé e per gli uomini tra i quali
viveva, non corrispondono a nessuna delle immagini moderne di filosofia, avverte Cambiano, osservando
che nel mondo antico la filosofia non fu mai soltanto un complesso di dottrine, un insieme di procedure
d’indagine e un arsenale di tecniche argomentative, ma mirò a presentarsi come un modo specifico di vita,
un bios distinto dagli altri.(17) Gli stessi presocratici, considerati iniziatori e fondatori della razionalità
moderna, soprattutto scientifica, sono portatori di un sapere eccezionale ancora indiviso e antecedente
alla scienza e alla tecnica intese come strumenti di dominio della natura, permeato di religiosità. Appunto
questi caratteri della scienza ionica sono ben riconoscibili in Pitagora che, giunto a metà del VI secolo da
Siamo in Italia dove diffuse la filosofia (‘amore per il sapere’), aveva ammesso a Crotone nella sua comunità e al suo insegnamento anche le donne; discepola di Pitagora è appunto Teano, sua moglie o figlia,
‘la prima e la più celebre filosofa’, secondo Dicearco.
Una tarda biografia di Pitagora conserva una singolare testimonianza di ‘vita pitagorica’ al femminile.(18)
2.1. La pitagorica Timica di Sparta
Allora Dionisio, colpito dalla risposta (del pitagorico Millia di Crotone), diede odine di portare via con la
forza Millia e di sottoporre Timica a tortura, convinto che, in quanto donna, in attesa di un figlio e per di
più priva del marito, avrebbe facilmente parlato per timore della tortura. Ma l’eroina si morsicò la lingua,
staccandosela, e la sputò in faccia al tiranno, mostrando con ciò che anche se la sua natura di donna,
sopraffatta dalla tortura, fosse stata costretta a rivelare a qualcuno segreti su cui era obbligata a tacere, lei
aveva tagliato via lo strumento a ciò necessario. Così maldisposti verso l’amicizia con estranei erano dunque
i pitagorici, anche nel caso si fosse trattato dell’amicizia con personaggi di rango regale. Affini alle precedenti sono poi le prescrizioni (=di Pitagora) relative al silenzio, che conducono all’esercizio della temperanza. Dominare la lingua, infatti, fra tutte le le prove di autocontrollo è la più difficile. (Giamblico, La vita
pitagorica, 194-195. Trad. M. Giangiulio)
Giamblico, raccontando un episodio antecedente alla diaspora dei pitagorici sopravvissuti all’incendio
della scuola a Crotone, riferisce che il tiranno Dionigi di Siracusa, non riuscendo a ottenere l’amicizia di
nessun pitagorico per i suoi modi dispotici, manda trenta uomini armati a catturare un gruppo di discepoli del filosofo, in cammino tra Taranto e Metaponto per raggiungere il luogo di una adunanza religiosa;
i pitagorici riescono a sottrarsi all’agguato fuggendo, ma quando si lasciano raggiungere pur di non violare una interdizione del maestro (dovevano attraversare un campo di fave), sono trucidati dai loro assalitori; scampano solo il crotoniate Millia e la spartana Timica, incinta di nove mesi e per questo rallentata
nella fuga; ma anche i due soli sopravvissuti, portati al cospetto di Dionigi, rifiutano di rivelare le dottrine segrete del maestro e di dividere il regno con il tiranno. Altre donne pitagoriche diedero prova anche
in opere scritte del loro sapere, ma questa oscura Timica testimonia con la automutilazione e con la morte
la fedeltà al primo insegnamento della scuola, il silenzio, di cui infatti Giamblico parla subito dopo (e che
è tanto estraneo alla natura delle donne). Un comportamento opposto a quello di Timica, come è noto,
tenne invece Ippaso di Taranto che rivelò la scoperta dei ‘numeri irrazionali’ e, messo al bando dalla
comunità filosofica e considerato morto, fu presto raggiunto dalla punizione divina, morendo in un naufragio.
Il capitolo finale della Vita pitagorica redatta da Giamblico registra i nomi delle 17 donne più famose
della scuola e annovera 218 uomini (l’autorevole fonte del catalogo è probabilmente il musico pitagorico
Aristosseno di Taranto). Anche Diogene Laerzio (VIII, 41-42; 50) ricorda con ammirazione donne pitagoriche: oltre alla moglie di Pitagora Teano, di cui riporta, come Giamblico, alcune massime sul lusso e
sull’amore coniugale (ma le venivano attribuiti scritti di matematica, astronomia, filosofia e medicina), la
figlia Damo che seppe conservare segreti gli scritti paterni, rifiutando di venderli nonostante il prezzo altisMaria Grazia Caenaro
Donne e saperi nell’antichità
43
simo che le veniva offerto. Secoli dopo i neopitagorici, occupandosi in modo particolare del comportamento delle donne in un contesto storico di grave crisi della famiglia, scrissero trattati, alcuni giunti fino
a noi e qualche volta attribuiti a donne illustri del primo pitagorismo, come Teano e Perictione, madre di
Platone, che sarebbe stata allieva di Pitagora: si ricorse dunque a questa finzione per accreditare un messaggio morale.
Un aneddoto risalente forse a Eraclide Pontico, citato da Cicerone (Tusc. V 3, 8) e da Diogene Laerzio
(I, 12), ripreso da Giamblico, attribuiva a Pitagora (uno dei sette sophoi) l’invenzione dell’appellativo di
‘filosofo’ (termine che non ricorre nei testi conservati prima del IV sec.) per designare coloro che si dedicano alla ricerca disinteressata, forse proiettando in un momento storico antecedente l’indagine volta a
identificare il miglior genere di vita iniziata con Socrate. In un dialogo di Platone dedicato alla definizione della scienza (episteme) appunto Socrate tratteggia la peculiarità del filosofo tutto assorto nella theoria,
estraneo alle volgari occupazioni e ambizioni degli uomini.
2.2. Il riso della donna di Tracia
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In realtà è solo il suo (=del perfetto filosofo) corpo che si trova nella città e vi risiede, mentre la sua mente,
giudicando tutte queste cose di scarso, anzi di nessun valore, non le stima per niente, e se ne vola dappertutto, come dice Pindaro, sotto la terra, misurando le superfici come un geometra, studiando gli astri lassù
nel cielo, ed esplorando da ogni parte l’intera natura delle cose esistenti, di ciascuna nella sua interezza,
senza abbassarsi a nessuna delle cose che gli stanno vicine (...); è quello che si racconta anche di Talete, il
quale, mentre studiava gli astri e stava guardando in alto, cadde in un pozzo: una sua giovane schiava di
Tracia, intelligente e graziosa, lo prese in giro, osservando che si preoccupava tanto di conoscere le cose che
stanno nel cielo e, invece, non vedeva quelle che aveva davanti, tra i piedi. La medesima facezia (skomma)
si può riferire a tutti quelli che dedicano la loro vita alla filosofia.
(Platone, Teeteto,173e-175b. Trad. Antonelli)
Il notissimo aneddoto, in altre fonti attribuito a filosofi diversi e raccontato, senza nomi, anche in una favola esopica, illustra la superiorità della vita contemplativa su quella pratica e spesso è stato assunto a simbolo dell’incompatibilità tra donna e filosofia, o almeno dell’estraneità femminile alla più antica e
veneranda delle Muse, Urania, e in generale alla speculazione. Intorno all’aneddoto è poi fiorita nei secoli una imponente letteratura filosofica che interpreta la schiavetta come raffigurazione della stoltezza e dell’ignoranza dei non iniziati alla filosofia.(19) Nei dialoghi di Platone compaiono tuttavia grandi figure
femminili detentrici di sapere: nel Menesseno Aspasia di Mileto (la celebre etera che sedusse Pericle con
la sua sapienza più che con la bellezza, si diceva), sophe kai politikos, da cui Socrate sostiene d’aver udito
il logos epitaphios per i caduti della guerra corinziaca (una mitizzazione della storia di Atene, idealizzata)
che ora riferirà al giovane interlocutore aspirante alla vita politica, e che in alcune fonti antiche è detta
sua maestra di retorica, o addirittura di filosofia;(20) nel Simposio la sacerdotessa Diotima di Mantinea (che
un tempo con le sue prescrizioni aveva stornato per dieci anni la peste da Atene), esperta della scienza
d’amore e di molti altri saperi, unica voce femminile in un convito di sapienti dove prendono successivamente la parola il retore, il politico, il poeta comico e tragico, il medico, il filosofo; appunto Socrate, che
sa di non sapere, riferisce quanto un giorno gli aveva insegnato la profetessa (201d-212c): il mito della
nascita di Eros ‘demone grande’ da Penia e da Poros (figlio di Metis), la sua natura di intermedio (metaxù) tra mortale e immortale, sapienza e ignoranza, bello e brutto, la dottrina della procreazione nel bello,
della umana ricerca di eternità attraverso la generazione di prole mortale (i figli della carne) e immortale
(i discorsi filosofici), i gradi della scala d’amore; nel Teeteto (149a-152d) rievocando la madre, l’ostetrica Fainarete, Socrate riconosce la grande sapienza delle levatrici (maiai pansophoi) nel combinare le
unioni migliori e la loro arte di favorire le nascite con i filtri e gli incantesimi adatti; da Fainarete, esperta della procreazione dei corpi, il filosofo ha appreso l’arte maieutica, il metodo per far nascere dall’anima i discorsi veri, espellendo come parti abortivi quelli spuri (210b-d). Ma queste donne realmente esistite
che insegnano, pur nella finzione letteraria e nella idealizzazione simbolica, che trasmettono saperi (ma
altri parlano per loro: esse hanno voce attraverso la parola degli uomini), queste “personatae voces” sono
soprattutto modelli metaforici di quella synousia filosofica che, attraverso il contatto diretto interpersonale, nell’assiduo scambio dialettico all’interno di una ristretta comunità, porta alla luce la verità che è già
in ognuno e fa generare ragionamenti belli e veri che, allevati assieme da coloro che li hanno procreati,
formano vincoli più saldi e una comunanza più profonda di quella dei genitori verso i figli.
Se Socrate molto ha imparato da donne che definisce maestri (didaskaloi), Diogene Laerzio cita il nome
di due donne discepole di Platone e poi fedeli uditrici di suo nipote Speusippo, quando prese la direzione dell’Accademia: Lastenia di Mantinea e Assiotea di Fliunte che frequentava le lezioni in vesti
maschili. (III 46; IV 2)
Del resto Platone, sempre per bocca del suo maestro Socrate, prevede donne filosofo con compiti pubblici nella ‘Città Bella’ disegnata nella Repubblica, dove la contrapposizione fra vita filosofica dedita interamente alla ricerca e vita ‘politica’ è superata: i filosofi devono infatti prendersi cura del governo della
città per assicurarle giustizia, pace e felicità (ed è quanto avevano fatto quasi tutti i filosofi presocratici,
Talete e Pitagora compresi, partecipando attivamente alla vita delle loro comunità e cercando di riformarle
filosoficamente). Pertanto nel progetto di città perfetta tracciato da Socrate anche donne della ‘razza
d’oro’, cioè di natura eccellente, allevate come Custodi ricevono la stessa educazione degli uomini e sono
destinate alle stesse funzioni, in compiti collaborativi di difesa della città (così anche nelle Leggi): non c’è
più differenza fra uomo e donna di quanta ce ne sia fra cani e cagne da caccia e da guardia, dice Socrate.
Le migliori, dopo un tirocinio di studi lunghissimo e arduo che culmina nell’apprendimento di matematica, astronomia e dialettica, condivideranno anche il reggimento dei filosofi.(21) Naturalmente la commedia
aristofanea irride le nuove concezioni filosofiche rappresentando la presa del potere da parte delle donne
esperte solo di tessitura, di lana come di imbrogli.
Nell’ambito delle filosofie che in età ellenistica ricercano la felicità dell’individuo fuori della dimensione
‘politica’ Epicuro, il cui Giardino era aperto alle donne e perfino agli schiavi, sembra aver apprezzato il
sapere femminile: conviveva con un’etera, Leonzio, capace di tenere testa al peripatetico Teofrasto negli
scritti filosofici e indirizzava lettere piene di considerazione a Temista, moglie del suo discepolo Leonteo
di Lampsaco.(22) Ma queste donne dotate di sapere restano figure evanescenti; piuttosto in un altro indirizzo filosofico che si richiamava a Socrate, quello cinico, si mette in luce un singolare personaggio femminile, negli anni immediatamente successivi alla grandiosa impresa di Alessandro che aveva spalancato
i confini del mondo.
2.3. Ipparchia, sorella e moglie di filosofi, filosofa
Fu attratta dalla dottrina di questa scuola anche Ipparchia, sorella di Metrocle. Entrambi erano nati a
Maronea. S’innamorò delle teorie e della vita di Cratete, sprezzando tutti i pretendenti e rimanendo indifferente alla loro ricchezza o nobiltà o bellezza: per lei Cratete era tutto. Minacciava i suoi genitori che si sarebbe uccisa, se non fosse stata data in matrimonio a lui. Cratete allora fu pregato dai genitori di lei di
distogliere la ragazza da questo proposito ed egli ricorse ad ogni espediente. Ed alla fine, poiché non vi riusciva, si alzò e depose dinanzi a lei tutto il suo abbigliamento e disse:“Ecco lo sposo, ecco i suoi possessi: prendi dunque la tua decisione. Ché non potrai essere la mia consorte, se non ti adeguerai al mio stesso modo di
vita”. La ragazza fece subito la sua scelta e indossava lo stesso suo vestito (=il mantello del filosofo) e andava in giro con lui e si univa con lui in pubblico e con lui andava ai conviti. Fu appunto in un simposio alla
corte di Lisimaco che ella confutò Teodoro soprannominato l’Ateo con un sofisma (...). Ma quando Teodoro
le disse:“Questa è colei che abbandonò le spole presso i telai?”, “Sono io, rispose, Teodoro. Ma credi tu che
io abbia preso una cattiva decisione se il tempo che avrei dovuto dedicare al telaio lo dedicai alla mia educazione?”
Questi ed infiniti altri aneddoti si raccontano di questa filosofa. Sotto il nome di Cratete va un libro di
Epistole, in cui la sua arte filosofica è eccellente. Talvolta lo stile è simile a quello di Platone. Scrisse anche
Maria Grazia Caenaro
Donne e saperi nell’antichità
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tragedie, che hanno altissimo carattere filosofico, come dimostra questo passo:“La mia patria non è una
torre, non è un tetto, ma dove ci è possibile vivere bene, in ogni punto di tutto l’universo, lì la mia città, lì
la mia casa”. Morì vecchia e fu sepolta in Beozia.
(Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, 96-98.Trad.M. Gigante)
Nella sua piacevolezza novellistica il capitolo di Diogene Laerzio contiene elementi interessanti: il sapere
accostato da Ipparchia attraverso l’esempio familiare (il fratello prima discepolo di Teofrasto, poi convertito all’indirizzo cinico), la scelta matrimoniale, del tutto inusuale secondo i parametri correnti ma conforme al principio filosofico della limitazione dei bisogni; la filosofia come pratica di vita, ma anche come
capacità dialettica, tanto che la donna tiene testa a un rinomato filosofo; il rifiuto consapevole di un sistema educativo e di un ruolo tradizionale (il telaio); la produzione scritta, senza diritto però di farla circolare sotto il proprio nome -forse sorte di tante donne-; l’ideale cosmopolita, remotissimo dalla prassi
corrente che continua a circoscrivere lo spazio femminile alla casa. Nelle Baccanti di Euripide, di cui è
citato un verso, le donne di Tebe abbandonano le loro case e la città e salgono sul monte Citerone in preda
alla follia ispirata da Dioniso, Ipparchia invece compie consapevolmente e lucidamente la scelta cui resta
fedele per tutta la vita (Diogene descrive la sua disputa con un filosofo alla corte del re di Tracia e ha cura
di sottolineare che muore lontana dalla piccola località della Grecia settentrionale dove era nata).
L’indirizzo cinico escludeva dalla formazione filosofica la più alta forma di sapere platonica, i mathemata, e rifiutava la scuola come luogo di trasmissione delle conoscenze, praticando l’insegnamento itinerante; incoraggiava inoltre con modelli trasgressivi di vita e di pensiero il rifiuto delle convenzioni, nella sua
ricerca di aderenza alla natura: ne sono testimoni, anche nella durata assicurata loro dalla letteratura,
Diogene di Sinope e Menippo di Gadara, protagonisti dei dialoghi di Luciano; e anche Ipparchia trovò il
suo cantore nel poeta Antipatro di Sidone (A.P.VII 413).
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Ma altre scuole più orientate al perfezionamento interiore, come lo Soicismo d’età imperiale, respingendo la tradizionale restrizione educativa imposta al sesso femminile prospettano in modi nuovi il rapporto
della donna con il sapere filosofico.
2.4. Il sapere negato alle donne
Ti indirizzo al rifugio di tutti quelli che fuggono la fortuna, gli studi: saranno essi a guarire la tua ferita,
a sradicare ogni afflizione. Anche se tu non li avessi mai praticati, questo era il momento di farlo; ma, nei
limiti concessi dal rigore all’antica di mio padre, ti sei fatta una cultura vasta, anche se superficiale. Magari
quell’ottimo uomo di mio padre, ligio alla tradizione, ti avesse, più che iniziato, educato alla saggezza! Non
dovresti ora procurarti armi contro la fortuna, ma sfoderarle. Per colpa di donne che non si servono della
cultura come via alla saggezza ma se ne adornano come di un gioiello, non ti lasciò troppo tempo per gli
studi, ma grazie alla tua rapidità di apprendimento ne hai approfittato più del previsto. Ci sono in te le basi
di ogni scienza: ora torna ad esse e ti troverai al sicuro. Saranno il tuo conforto e il tuo diletto e una volta
accolte con sincerità nel tuo spirito, mai più vi faranno entrare il dolore, mai più l’ansia, mai più il vano
tormento di un’afflizione senza senso.
(Seneca, Consolazione alla madre Elvia,17, 3-5. Trad.A. Traina)
Il filosofo Seneca, relegato in Corsica, raccomanda alla madre che lo piange come morto di approfondire
gli studi per rafforzare l’animo e sostenere gli assalti della fortuna avversa; testimonianza umanissima di
affetto filiale e materno, il passo contiene anche spunti interessanti, come l’accenno a tutti i saperi di cui
Elvia possiede i rudimenti: evidentemente logica, fisica, etica, secondo la tradizionale tripartizione della
filosofia scientia rerum humanarum divinarumque; significativa è anche l’accusa di ostentazione femminile del sapere, che deve essere acquisito invece per mitigare debolezze congenite della donna, creatura
irrazionale che, se difetta di cultura e di educazione, è preda dell’istinto e delle passioni, dice il filosofo
nel de constantia sapientis (14,1). Nella Medea, dove rappresenta drammaticamente la ratio sconfitta dal
furor, Seneca mette in scena, ispirandosi al mito ma anche al fenomeno sempre più diffuso delle avvelenatrici (mulieres veneficae), anche il terribile uso che del loro sapere possono fare le donne, la loro antisapientia; descrive infatti con impressionante realismo la preparazione del filtro che dovrà dare morte alla
rivale, un rito di magia che sconvolge cielo e terra, catturando le potenze letali di piante e animali e perfino degli astri (vv.670-848): saperi e passioni, tutto è portato all’eccesso in questo ‘mondo senza dei’,
come grida disperato Giasone mentre la maga fugge sul carro del sole, dopo aver ucciso i figli.(23)
Musonio Rufo (filosofo stoico della prima età imperiale, maestro di Epitteto) pone esplicitamente il problema se estendere l’educazione filosofica anche alle donne e dimostra che esse, uguali agli uomini per
costituzione fisica e inclinazione naturale al bello e al giusto, non possono che migliorare la loro virtù con
la conoscenza del bene e del male (Diatribe II, III e IV), e quindi non c’è ragione per negare alle donne
la filosofia che è la scienza della vita, e riservare agli uomini la ricerca e lo studio di come vivere bene,
in cui appunto consiste la filosofia; la donna filosofo sarà la perfetta compagna dell’uomo filosofo, purchè
naturalmente per filosofia non intenda il disputare cavillosamente aggirandosi in mezzo agli uomini mentre dovrebbe stare in casa a lavorare la lana, anche perchè tutti i ragionamenti (degli uomini e delle donne)
devono essere affrontati in vista delle opere; e come quelli dei medici non hanno nessuna utilità se non
portano alla salute del corpo, così quelli filosofici non hanno valore se non assicurano la salute dell’anima.
Analoga convinzione manifesta anche Plutarco, che nelle Virtù delle donne dimostra la parità dei sessi
attraverso esempi di coraggio, senno, fedeltà femminile e che stimava moltissimo la sapienza della sacerdotessa di Delfi, Clea, alla quale dedicò due dialoghi; nel catalogo delle opere di Plutarco era compreso
un trattato contro l’amore del lusso scritto da sua moglie Timossena, di cui il filosofo raccomandava la lettura alla giovane Euridice destinataria dei Precetti coniugali: ma l’operetta, non conservata, per
Wilamowitz in realtà sarebbe stata composta dal marito, e il filologo non risparmia sarcasmo nei confronti
di chi ritiene che quella nobilissima matrona abbia generato libri anziché figli e filato trame di ragionamenti invece di lana al telaio (“libros pro liberis procreasse, fila dictionum pro lanae filis deduxisse”):
indice della difficoltà anche moderna ad ammettere un sapere femminile.
In realtà perfino a Roma fino dalle prime apparizioni la filosofia aveva suscitato l’interesse anche delle
donne: Cornelia, la madre dei Gracchi, aveva ascoltato le lezioni di Carneade;(24) proprio dall’età degli
Scipioni in Roma si diffonde nelle grandi famiglie la moda di tenere in casa un filosofo e anche le donne
più attratte dal sapere avranno potuto ascoltarne le conversazioni; dall’epistolario di Cicerone (ad Att.
XIII, 21) apprendiamo che Cerellia, abile e ricca donna d’affari che all’oratore aveva prestato danaro,
avida di conoscenze filosofiche (“mirifice studio philosophiae flagrans”), volle leggere il de finibus prima
che fosse messo in circolazione dall’officina libraria dell’editore Attico. Nell’età imperiale si circondano
di filosofi le donne della corte o dei ceti alti: Livia cerca consolazione per la morte del figlio Druso nell’ascolto di filosofi, Agrippina sceglie Seneca per l’educazione del figlio Nerone, a Marcia Seneca raccomanda di riprendere a coltivare gli studi storici e filosofici: la figlia di Cremuzio Cordo godeva quindi di
quell’educazione che Seneca il retore aveva negata a Elvia e salvò l’opera del padre nascondendo una
copia delle Storie condannate al rogo, modello di amore filiale, ma forse anche di amore del sapere.
A Roma c’è infatti anche un modo eroico di vivere il sapere: è quello di alcune matrone, fedeli compagne di filosofi stoici sospettati di opposizione al principe e colpiti dalla lex maiestatis, che condividono gli
ideali etico politici dei condannati: Arria minore, moglie di Trasea Peto, avrebbe voluto seguire il marito
nella morte, la loro figlia Fannia, moglie del filosofo Elvidio Prisco, lo accompagnò in esilio, ne salvò l’opera, fu più volte bandita; in questo intreccio di filosofia e politica in cui la costellazione familiare è dominante, si conciliano i valori tradizionali romani (fides, virtus, constantia) con i principi della dottrina
filosofica che raccomanda la pratica della virtù e la difesa della libertà interiore fino alla morte.(25)
Su un piano più modesto, alla fine del secolo, dedita alla filosofia è la fidanzata di un poeta spagnolo amico
di Marziale, che in un epigramma la definisce spirito tutto impregnato di filosofia greca (“cuius Cecropia
pectora dote madent”), degna di essere annoverata tra i discepoli di Epicuro e tra gli stoici, capace di fisMaria Grazia Caenaro
Donne e saperi nell’antichità
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sare nella mente qualunque opera legga, tanto diversa è la sua cultura da quella femminile corrente (“tam
non femineum nec populare sapit”), più casta della poetessa Pantenide, non meno dotta di quella (VII
69). E in un’epigrafe si legge che merita di essere detta philosopha la giovane Euphrosyne, morta a vent’anni, esperta anche delle nove Muse (ILS 7783).
Ma più spesso la donna colta è considerata con sospetto: la satira di Giovenale, tra la fine del primo e l’inizio del secondo secolo, esprime l’irrisione dei tradizionalisti per la donna saccente (VI,434-456) colpendo l’eccesso di doctrina e facundia esibito in pubblico, a banchetto: l’appropriazione da parte delle
donne del sapere degli uomini (conoscenza di poesia, critica letteraria, tecnica argomentativa) è segno di
una mascolinizzazione che inevitabilmente si estenderà anche ad altre pratiche - l’abbigliamento, i sacrifici, i bagni - e, come l’usurpazione della competenza giuridica e della pratica gladiatoria (242-245, 246267), rende ormai evidente, con la rinuncia al pudor, la loro fuga a sexu.
Il diritto di imparare, nella scuola e da adulte attraverso la lettura o l’ascolto, è riservato a poche e concesso dalla liberalità dei familiari; ma alla possibilità di comunicare, insegnare, praticare professionalmente la donna antica accede ancora più raramente, anzi almeno in Roma le è negato l’uso della parola
in pubblico (questo vale naturalmente anche per l’eloquenza: le donne avvocato sono ‘femmine latranti’).
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A donne colte e desiderose di frequentazioni intellettuali, se ricche o potenti, è aperta la via del mecenatismo e la possibilità di sfruttare l’autorità che deriva dal rango sociale per aggregare intorno a sé i sapienti, per suggerire o incoraggiare iniziative culturali. Tra II e III secolo d.C. la moglie di Settimio Severo,
Giulia Domna, ‘erudita nella filosofia e nelle scienze’, si circonda di intellettuali e di esponenti di tutti i
saperi, dalla filosofia al diritto, dalla storiografia alla medicina; certamente per sua richiesta Filostrato scrive la vita di Apollonio di Tiana e Diogene Laerzio rende forse omaggio all’imperatrice o a sua sorella
Giulia Mesa, quando dice d’essere stato indotto alla redazione delle Vite dei filosofi da una donna philoplaton e di essersi impegnato nella raccolta di dati per dare delle esistenze e delle caratteristiche degli
antichi pensatori una ricostruzione degna della competenza filosofica dell’amica che ha ispirato l’opera:
dunque una filosofia vissuta di riflesso, un rapporto mediato con la comunicazione del sapere, ma ancora una volta soprattutto una preziosa opera di salvataggio e conservazione delle grandi esperienze di pensiero.(26)
Nei secoli dell’impero la donna dunque legge e ascolta i filosofi, scrive e fa scrivere, conserva e trasmette le opere dei pensatori; ma che insegni è assolutamente eccezionale (e con il cristianesimo sarà esplicitamente interdetto): lo testimonia la tragica vicenda di Ipazia, tramandata - fatto del tutto inusuale per una
donna - da molte fonti.
2.5. Ipazia di Alessandria, matematico, astronomo, filosofo
Ad Alessandria c’era una donna chiamata Ipazia, figlia del filosofo Teone, che ottenne tali successi nella
letteratura e nella scienza da superare di gran lunga tutti i filosofi del suo tempo. Provenendo dalla scuola
di Platone e di Plotino, spiegò i principi della filosofia ai suoi uditori, molti dei quali venivano da lontano
per ascoltare le sue lezioni. Facendo conto sulla padronanza di sé e sulla facilità dei modi che aveva acquisito in conseguenza dello sviluppo della sua mente, non di rado appariva in pubblico davanti ai magistrati
della città. Né si sentì confusa andando ad una riunione di uomini, anzi, tutti gli uomini, tenendo conto
della sua dignità straordinaria e della sua virtù, l’ammiravano ancora di più. Fu vittima della gelosia politica che a quel tempo prevaleva: Ipazia infatti aveva frequenti incontri con Oreste (= prefetto imperiale,
governatore della città); questo fatto fu interpretato calunniosamente dal popolino cristiano che pensò fosse
lei ad impedire ad Oreste di riconciliarsi con il vescovo (= Cirillo): alcuni di loro perciò, spinti da uno zelo
fiero e bigotto, sotto la guida di un lettore (= cancelliere) chiamato Pietro, le tesero un’imboscata mentre
ritornava a casa: la trassero fuori dal carro (= che guidava personalmente) e la portarono nella chiesa chiamata Caesareum, dove la spogliarono completamente e poi l’assassinarono con delle tegole. Dopo aver fatto
a pezzi il suo corpo, ne portarono i lembi strappati in un luogo chiamato Cinarion, e là li bruciarono. Questo
affare portò non poco obbrobrio a Cirillo e alla chiesa di Alessandria. E certamente nulla può essere più lontano dallo spirito del cristianesimo che permettere massacri, violenze ed azioni di quel genere. Questo accadde nel mese di marzo durante la quaresima, nel quarto anno dell’episcopato di Cirillo, sotto il decimo
consolato di Onorio ed il sesto di Teodosio
(Socrate Scolastico, Storia ecclesiastica, VII,15)
L’anno della lapidazione di Ipazia (415) è convenzionalmente assunto come data della fine della scienza
antica. Russo (La rivoluzione dimenticata) nota in particolare che, dopo quell’episodio di intolleranza,
emigrò verso l’India la scienza matematica che ad Alessandria aveva ricevuto tanto impulso.
La vicenda di Ipazia è riferita anche da altre fonti antiche, oltre che da Socrate, avvocato alla corte di
Costantinopoli e di religione cristiana, il più vicino a lei nel tempo (380-450): l’ariano Filostorgio negli
stessi anni racconta che il padre volle educarla come un “vero uomo” e la avviò alla filosofia, il pagano
Damascio, filosofo neoplatonico e ultimo scolarca dell’Accademia di Atene (che fu chiusa da Giustiniano
nel 529) le dedica, ottant’anni dopo la morte, una pagina significativa nella Vita di Isidoro (un filosofo che
in qualche racconto figura come marito di Ipazia),(27) utilizzata poi dall’autore del lessico Suda (Y 166)
dove leggiamo che “poiché aveva più intelligenza del padre, non fu soddisfatta della sua conoscenza della
matematica e volle dedicarsi anche allo studio della filosofia. Era solita indossare il mantello del filosofo
ed andare nel centro della città. Commentava pubblicamente Platone, Aristotele o le opere di qualunque
altro filosofo per tutti coloro che desiderassero ascoltarla. Oltre alla sua esperienza nell’insegnare, riuscì
a elevarsi al vertice della virtù civica, fu giusta e casta e rimase sempre vergine”. Era così bella da far
innnamorare i suoi allievi, e guarì l’infatuazione di uno di essi con la musica o mostrandogli la miseria
dell’organismo femminile per esortarlo alla contemplazione della vera bellezza. L’invidia di Cirillo per il
grandissimo seguito di Ipazia, “il filosofo”, che un giorno vide salutata da una folla di persone, determinò il proposito dell’assassinio e suggerì il modo più feroce per compierlo. Damascio biasima l’impotenza
dell’imperatore che, sebbene adirato, pure sospende la punizione dei colpevoli (definiti omericamente
“uomini bestiali”). Altro spirito permea invece il resoconto di Giovanni, vescovo copto di Nikiou, per il
quale “la pagana chiamata Ipazia, un filosofo femmina che si dedicò completamente alla magia, agli astrolabi e agli strumenti di musica, ingannò molti con stratagemmi satanici e sedusse con le sue arti magiche
il governatore della città, allontanandolo dalla chiesa, come molti altri che prima erano credenti”. Secondo
il vescovo, dopo un massacro di Cristiani ad opera di ebrei protetti dal governatore, “una moltitudine di
credenti in Dio si radunò sotto la guida del magistrato Pietro e si mise alla ricerca della donna pagana che
aveva ingannato le persone della città e il prefetto con i suoi incantesimi. La trovarono seduta su un alto
seggio, la spogliarono, la trascinarono via attraverso le vie della città finché morì, ne bruciarono il cadavere; Cirillo fu acclamato ‘nuovo Teofilo’ perché aveva distrutto gli ultimi resti dell’idolatria nella città”.
Come si vede, l’uccisione è riferita da questa relazione copta negli stessi termini delle altre fonti, ma Ipazia
è presentata come maga perché detentrice di sapere, sospetto che grava su tante donne sophai fin dalle
origini, e accusata di pratiche sataniche: certo con riferimento ad un insegnamento esoterico in cui aveva
parte la scienza caldea.
La situazione storica spiega l’incredibile violenza dell’uccisione: da meno di quindici anni Teodosio aveva
proclamato il Cristianesimo religione di stato e promulgato una legge speciale contro i culti pagani che
sotto il lungo episcopato di Cirillo furono perseguitati da una banda di monaci fanatici. Sinesio di Cirene,
un pagano proclamato vescovo di Tolemaide che era stato allievo di Ipazia e le faceva leggere le sue opere
prima della pubblicazione, le testimonia ammirazione e gratitudine appena due anni prima della morte,
chiamandola madre, sorella e maestra venerata, patrona e benefattrice. Forse determinò l’intolleranza per
Ipazia il progetto politico che si sospettava dietro la frequentazione delle autorità civili della città: la realizzazione della politeia platonica dei filosofi alla guida della città. Terza scolarca dell’Accademia, dopo
Platone e Plotino, riferisce Filostorgio, Ipazia non si limitò alla storia della filosofia, ma produsse speculazione originale; come scienzata, introdusse molti alle scienze matematiche; si distinse nello studio del
moto degli astri, rendendo accessibili le sue scoperte attraverso la pubblicazione del Canone astronomico,
Maria Grazia Caenaro
Donne e saperi nell’antichità
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del Corpus astronomicum (tavole dei corpi celesti), di otto volumi sulle Coniche di Apollonio, di un trattato su Euclide, di tredici volumi di commento all’Aritmetica di Diofanto. Il Commento al terzo libro del sistema di Tolomeo del matematico Teone cita nel titolo la supervisione della figlia Ipazia, che fu
probabilmente la vera autrice dell’opera e si interessò anche di meccanica, disegnò e fece realizzare dai
suoi discepoli strumenti scientifici, come si ricava dalle lettere di Sinesio di Cirene (astrolabio piatto,
aerometro, idroscopio, apparecchi per la misurazione della densità dei liquidi e per la distillazione dell’acqua).(28) Ma su questa produzione scientifica di Ipazia le testimonianze sono molto avare, mentre è
entrata nella leggenda la sua vicenda, simbolo della feroce intolleranza dei fanatici per il sapere e per i
modi di vivere indipendenti.
Ipazia praticò infatti un insegnamento essoterico, coltivò il progetto politico di un governo ispirato dai filosofi, si consacrò al sapere profano e condusse vita pubblica mentre la morale cristiana diffondeva un altro
ideale di sapere (si diranno ‘filosofe’ tante conoscitrici delle Scritture) e raccomandava altri modelli di vita,
appartata e silenziosa, giungendo a interdire alle donne il sacerdozio e l’insegnamento.(29)
Il poeta bizantino Pallada celebrò in un epigramma “Ipazia venerata, perfezione di ogni discorso, astro
incontaminato della sapiente cultura, ogni atto rivolto verso il cielo”(A.P. IX, 400). L’elogio più bello di
Ipazia e della scienza delle donne si legge però in una lettera indirizzata nei primi decenni dell’800 dalla
grande astronoma Caroline Herschel a un’altra importante scienziata del suo tempo:(30)
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“Qualche volta, quando sono sola nell’oscurità e l’universo rivela ancora qualche segreto, dico i nomi delle
mie lontane, perdute sorelle, dimenticate nei libri che registrano la nostra scienza, come se le stelle potessero ricordarle (...)
Quale sarebbe la nostra era, se quella era oscura? / Così il mio nome, anch’esso sarà / dimenticato, ma io
non sono accusata / di essere una strega, come Aganice, / e i cristiani non minacciano di / condurmi alla
chiesa, di uccidermi, come fecero / ad Ipazia di Alessandria, l’eloquente, giovane / donna che ideò gli strumenti / atti a misurare accuratamente la posizione / e il movimento dei corpi celesti”.
(traduz. di Angelica Salustri).
(febbraio 2004)
NOTE
(1)
“Saga quoque dicitur mulier perita sacrorum, et vir sapiens, producta prima syllaba propter ambiguitatem evitandam” (De
significatione verborum, epitome di Paolo a Festo, Lindsay 427).”Sagire sentire acute est; ex quo sagae anus, quia multa
scire volunt, et sagaces dicti canes. Is igitur qui ante sagit quam oblata res est, dicitur praesagire, id est ante sentire”. (Cic.,
De divinatione, I, 31, 65). Nella Teogonia di Esiodo(vv.886ss.) Zeus ingoia la sua prima sposa Metis “che sa più cose di
tutti gli dei e gli uomini mortali, figlia di Oceano, perché la dea gli faccia sempre conoscere il bene e il male”. Come è
noto, nacque poi dalla testa di Zeus la figlia concepita da Metis,“uguale al padre per vigore dell’animo e saggio volere”.
(2)
Aurelio Cornelio Celso (I sec. d.C.), autore in latino di una vastissima enciclopedia di cui è conservata solo la sezione De
arte medica, in otto libri, traccia nel primo la storia della medicina da Omero ai suoi tempi e dedica alla cura delle ferite il
sesto libro, ammirato per la completezza della trattazione. In Omero sono impiegati circa centocinquanta termini di anatomia e ricorrono altrettante descrizioni di ferite con una precisione che ha fatto ipotizzare che il poeta fosse medico.
(3)
Alla guarigione sull’Olimpo di Ades ferito da Eracle (raccontata con gli stessi versi formulari: V 401-402 =900-901) accenna Dione, madre di Afrodite, che per consolare la dea ferita da Diomede rievoca storie di mortali che osarono colpire gli
dei; l’intero episodio del ritorno sull’Olimpo di Afrodite è caratterizzato dal tono lieve e dal sorriso: la dea non è curata, ma
si rifugia piangente tra le braccia della madre che la conforta con suadenti parole e deterge con la mano l’icore dalla ferita, mentre Atena ed Era la scherniscono.
(4)
In modo altrettanto rapido Apollo guarisce un mortale ferito (XVI 527-9): invocato da Glauco che, colpito da una freccia
di Teucro, non riesce a fermare il sangue e a muovere la spalla, lo sana perché possa riprendere a combattere e proteggere il cadavere di Sarpedone; invece intorno ad altri eroi feriti -Odisseo, Agamennone- si affacendano a lungo”medici dai
molti rimedi”. In questa funzione di guaritore ben presto Apollo soppianta Peone, l’antico medico degli dei, assumendone il nome come epiteto (in origine paian era la litania contro il malocchio, intonata a scopo terapeutico). Nell’Inno a Delo
Apollo chiede al padre la facoltà di guarire, e come “dio che largisce i rimedi agli infiniti mali di uomini e donne” compare in Pindaro ( Pitica V). Il dio oulios (funesto) dell’arco d’argento, in quanto tiene lontane le malattie, ben presto fu considerato risanatore, quindi invocato come iatros, akestor (medico, guaritore). La stessa ambivalenza caratterizza la sorella
Artemide: la dea cacciatrice che scocca con l’arco la morte fulminea alle donne è anche invocata in soccorso nel parto.
(5)
Nell’Iliade (XI 264-272) quando la ferita inferta ad Agamennone dal figlio di Antenore cessa di sanguinare e la piaga si
asciuga, “acuti dolori sommersero il figlio di Atreo, come quando una donna è colpita dai dolori del parto, freccia acuta e
crudele che scoccano le dee della nascita, le Ilithie figlie di Era che danno amaro travaglio” (cfr. XIX 109-113: le Ilithie
impediscono la nascita di Eracle; XVI 189: Ilithia fa nascere il figlio di Hermes Eudoro da una mortale: in tutti questi passi
l’epiteto formulare per le dee del parto è mogostokos = che provoca le doglie, attributo anche di Artemide).
(6)
In Antonino Liberale (Metam. 33, 4-5) che riprende il poeta didascalico alessandrino Nicandro, in Ovidio (Metam. 9, 281323), in Libanio (Narrationes, 8) cambia il nome dell’assistente e il modo con cui scioglie il parto (Galinthias, amica di
Alcmena, che corre a dare l’annuncio, trasformata in donnola, poi ministra di Ecate e onorata da Eracle con una statua;
Galanthis, assistente ‘dai fulvi capelli’ che ride annunciando il parto, punita con la metamorfosi in donnola; Akalanthis che
corre, trasformata in cardellino o in donnola). Eliano racconta che la donnola - gale - spesso associata alle donne nella tradizione popolare, un tempo era incantatrice e strega e fu trasformata per punizione della sua lussuria in questo animale
(Nat. anim.,15, 11); proprio la donnola compare anche nel suo breve cenno alla nascita di Eracle:“Dicono che fu sua nutrice - trophos - perchè sciolse i nodi del parto”(12,5). Così era narrata la nascita dell’eroe anche da Istro, scolaro di Callimaco.
Donnole - streghe intorno a un neonato si trovano anche in Apuleio, nella celebre novella di Telifrone.
(7)
Per la sua caratteristica di mito fondante il racconto della nascita di Eracle può essere accostato a quello omerico della
nascita di Apollo e Artemide (Latona, perseguitata da Era, cerca a lungo un luogo sulla terra dove dare alla luce i suoi
gemelli e finalmente a Delo, dopo nove giorni di travaglio, quando accorre Ilithia informata dalle dee dell’isola, partorisce
inginocchiata presso una palma, ancora venerata al tempo di Cicerone; cfr.anche Inno a Delo callimacheo e Igino Fabulae
140); anche nell’Inno a Zeus di Callimaco la nascita del dio si accompagna a una difficoltà (in Arcadia, dove si è nascosta
per poter partorire il figlio al sicuro da Crono, la madre Rea fa scaturire l’acqua dalla terra arida per il lavacro purificatore del neonato); ma soprattutto è significativo il confronto con il mito della prima nascita da donna in Atene, quando
Erittonio porta alle partorienti Ilithia (da allora gli esseri umani non nacquero più dalle zolle della terra). Questa antichissima divinità, il cui nome ricorre già in una tavoletta micenea di Cnosso, fu onorata in una grotta a Creta con culto ininterrotto dal neolitico a età romana. Spesso è associata alle Moire (anche nella Nemea VII,1-4) o identificata con Ecate o con
Artemide che, nata prima del gemello Apollo, avrebbe aiutato la madre Leto a partorire il fratello ed era invocata con gli
appellativi di orthia (che facilita la nascita) e kourotrophos ( che alleva i bambini).
(8)
Il termine entra nella lingua filosofica con Platone che definisce agchinoia (Carmide 160a) l’acutezza della mente (oxutes
psyches); è l’intelligenza intuitiva, la perspicacia, che opera rapida e vigorosa nel comprendere e ricercare; appunto queste
qualità sono attribuite dai poeti post-omerici alla metis (che, come divinità primigenia, ha un ruolo importantissimo nelle
teogonie orfiche ed è caratterizzata dalla capacità di metamorfosi). La metis insegna a Rea come ingannare Crono facendogli ingoiare una pietra al posto di Zeus partorito in segreto e nascosto (Teog.471 ss). In Pindaro (Olimpica VI) Apollo
invia le Moire e Ilithia ‘Praumetis’ (= dalla benevola astuzia) a soccorrere la mortale Evadne per consentire la nascita del
proprio figlio Iamo.Ancora in alcune lingue moderne il termine che indica la levatrice (sage femme, wise woman e cunning
woman) sottolinea il suo particolare sapere.
Maria Grazia Caenaro
Donne e saperi nell’antichità
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0(9) Vi ricorrono le donne per fare vergognare gli uomini (ad esempio le donne di Licia verso Bellerofonte per costringerlo a
ritirare l’inondazione mandata da suo padre Posidone, come racconta Plutarco ne Le virtù delle donne; donne persiane accogliendo i loro uomini sconfitti in guerra, in una narrazione erodotea). E’un gesto equivalente a mostrare il seno o altre parti
intime agli uomini in battaglia (come si legge in Cesare delle donne dei Galli e si troverà anche nell’ epos celtico).
(10) Attraverso il mito Pindaro aveva illustrato l’origine della medicina nella Pitica III raccontando che il centauro Chirone,
benevolo ai mortali, insegnò ad Asclepio tre tipi di rimedi per le molte sofferenze degli uomini: incantesimi, pozioni e
unguenti, incisioni; in quest’ode consolatoria inviata al tiranno Ierone malato il nucleo mitico è costituito appunto dalla narrazione della nascita prodigiosa di Asclepio che il padre Apollo estrae da Coronide già morta e posta sul rogo (punita per
essersi unita a un mortale prima che si compisse il tempo della gravidanza con l’aiuto di Ilithia “che si cura delle madri”).
Così anche Zeus aveva salvato il figlio dall’incenerimento di Semele: entrambi gli dei fanno nascere senza madre o addirittura dal loro corpo maschile i loro figli (Atena dalla testa, Dioniso dalla coscia): gli uomini vogliono usurpare alle donne
il segreto della procreazione, le donne carpire ai maschi il loro sapere.Già Esiodo e l’Inno omerico XVI attribuiscono ad
Apollo (ma senza il particolare della punizione di Coronide) la paternità di Asclepio e collegano quindi i due detentori del
sapere medico dell’Iliade: Peone-Apollo e Macaone figlio di Asclepio.
(11) Della metà del IV secolo è una lastra votiva che raffigura al centro il dio della medicina Asclepio affiancato dai figli
Macaone e Podalirio, mentre alle loro spalle, sfocate, appaiono le tre figlie: Igea, Panacea e Iaso (che entrano tardi nel
mito). Al lato opposto della lastra è effigiato (in proporzioni più ridotte) il paziente con la sua famiglia: anche a livello umano
le donne stanno sullo sfondo, in primo piano è il padre con due bambini piccoli. La scena votiva rappresenta efficacemente il rapporto tra guaritori e malati, ma anche la superiorità maschile rispetto alle donne, sia in campo umano che divino.Testimonianza del carattere aristocratico ed esclusivo del sapere medico si ricava anche dal rimprovero mosso da
Alessandro Magno ad Aristotele per aver divulgato quel sapere che aveva trasmesso al suo discepolo e doveva rimanere
segreto, come racconta Plutarco.
(12) Isidoro di Siviglia (alla fine del VI sec.d.C.) per classificare gli indirizzi della scienza medica ricorre ancora al mito: attribuisce infatti ad Apollo l’invenzione della medicina e a suo figlio Asclepio il perfezionamento dell’arte; distingue poi tre
scuole mediche, “tutte inventate da uomini”: la metodica da Apollo, l’empirica da Esculapio (=Asclepio), la logica o razionale da Ippocrate che univa esperienza e teoria. Isidoro proietta dunque in età mitica la fondazione degli indirizzi o ‘scuole mediche’ di età imperiale romana (accuratamente definite da Galeno nel primo trattato del Canone senza alcun
riferimento mitico), tra cui non compare medicina al femminile; eppure Plinio che indica le origini della medicina dalla
magia attribuisce un forte ruolo alle donne.
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(13) Sorano non attribuisce molta importanza all’anatomia e alla fisiologia (su cui dà qualche cenno per non essere accusato di
deprecare, per ignoranza, mezzi considerati utili); anche i medici ippocratici non praticavano l’anatomia (il trattato sulle
fratture costituisce un’eccezione), ma tendevano a interpretare l’organismo in base a schemi filosofici (per esempio consideravano gli organi interni femminili come rovescio di quelli maschili: così ancora Galeno). Sorano fornisce però una descrizione molto accurata dell’utero, che Platone raffigurava nel Timeo come un’anima pervasiva e indomabile; anche Ippocrate
attribuisce mobilità all’utero e spiega molte malattie femminili, tra cui l’isteria, con i suoi spostamenti all’interno del corpo
(e, secondo qualche studioso, non avrebbe mai visto direttamente un parto, dato che attribuisce solo alla forza del nascituro che preme e non alla spinta della madre l’espulsione dall’utero).
(14) Marziale (XI 71) pare alludere a una diffusione della prestazione medica femminile rappresentando una malata, Leda, isterica per l’impotenza del marito anziano, che ottiene medici maschi mentre le ‘medichesse’ devono fuggire a gambe levate: “Protinus accedunt medici medicaeque recedunt, tollunturque pedes: O medicina gravis!”. In Apuleio (V,10) una delle
sorelle invidiose di Psiche è stanca di fare la medica, l’infermiera che applica pomate e impacchi al vecchio marito.
(15) Ovidio aveva dedicato alla cura della persona della donna a scopo seduttivo il poemetto didascalico Medicamina faciei;
Marziale e Giovenale irridono donne tutte rifatte con trucco e tinture, Galeno in qualche occasione si presta a dare aiuto
con i suoi preparati a mogli di personaggi inmportanti che hanno bisogno di ben apparire per ragioni sociali.Le ostetriche
sono spesso messe in relazione con la bellezza femminile e la loro l’abilità in questo campo è paragonata a quella dei mangones che artificiosamente alterano l’aspetto delle merci da vendere (anche schiavi) per aumentare i profitti.
(16) In tempi in cui per l’esercizio della professione medica era richiesto il parere dei magistri della scuola salernitana, una
Francesca di Romana fu autorizzata dal duca di Calabria ad esercitare la chirurgia agli inizi del XIV sec.; Costanza Calenda,
allieva del celebre padre, fu proclamata dottore in medicina all’università di Napoli nella prima metà del XV sec.
(17) Cambiano osserva che se la dimensione filosofica sta nella elaborazione di spiegazioni degli eventi naturali, nell’impiego di
tecniche di osservazione e di indagine razionale, nella pretesa di dare validità universale ai risultati, nel tentativo di giustificarli con argomentazioni oppure nel carattere pubblico dell’enunciazione del messaggio, queste sono prerogative anche di
medici e storici del v sec.
(18) La tradizione antica considera ‘filosofi’ i presocratici a partire da Aristotele, cioè da quando il filosofo cominciò ad essere
una figura definita e riconoscibile nel panorama culturale ellenico grazie soprattutto alla dimensione scolastica che ne sorreggeva l’attività e, usando criteri principalmente dottrinali (in particolare i problemi del mondo naturale), li fece diventare
antesignani della propria ricerca e li separò da altri. La ‘scuola’ pitagorica è naturalmente ben diversa.. Di Teano ‘prima
filosofa’ e di Perictione si conservano citazioni in Stobeo. Non è chiaro se questa letteratura circolasse in Roma o ad
Alessandria, nel V secolo a.C. o più tardi.
(19) Sulla filosofia e le donne, cfr.H. Blumenberg, Il riso della donna di Tracia. A.Cavarero, Nonostante Platone. La circostanza che poche siano state le donne filosofo nel vero senso della parola è stata attribuita a incapacità della psicologia femminile di adattarsi al rigore speculativo, ma questa opinione non ebbero Pitagora né l’età tardo antica (e il Medioevo): lo
stoico Apollonio scrisse un trattato su Le Donne che filosofarono, citato dalla Biblioteca di Fozio. Nel 1600 uno studioso,
Gilles Ménage, scoprì ‘da solo’ sessantacinque filosofe, nel secolo successivo Wolf pubblicò un catalogo di philosophae
mulieres e frammenti delle opere antiche che le riguardavano.
(20) Socrate definisce maestra eccellente (didaskalos ou phaule) Aspasia che ha insegnato la retorica a lui e molti altri uomini in
vista, compreso Pericle, e dichiara di poter riferire anche molti altri bei discorsi politici, se Menesseno si impegnerà a non
farli circolare in pubblico (236a-d; 249d-e). Anche se la cornice del dialogo può apparire ironica, il discorso che Socrate
dice d’aver ascoltato dalla compagna di Pericle riveste delle forme tradizionali del genere commemorativo contenuti politici genuinamente platonici. Plutarco(Pericle, 24) riferisce che si diceva Aspasia avesse conquistato l’affetto di Pericle con
la sua non comune saggezza e che lo statista la amò di un amore straordinario; racconta poi che Socrate stesso andava talvolta a trovarla in compagnia dei suoi discepoli ed i suoi amici intimi vi conducevano ad ascoltarla anche le mogli e che nel
Menesseno di Platone ha sapore di verità la notizia che molti Ateniesi si credeva frequentassero Aspasia per imparare da
lei la retorica. Filostrato (Vite dei sofisti, II, 257) riferisce che insegnò allo statista la retorica gorgiana, per rendere meno
rozza la sua eloquenza.Certamente era elemento di spicco, assieme a Fidia, di quel gruppo di intellettuali di cui Pericle si
circondò e che i suoi avversari politici colpirono intentando loro processi. Un rilievo del IV sec. rappresenta Socrate e
Aspasia (o Diotima?) in conversazione.
(21) Così era del resto, secondo il racconto appreso da Solone in Egitto e rievocato nel Timeo, molti millenni prima, quando
Atena, philopolemos ma anche philosophos (in quanto figlia di Metis) aveva prescritto gli ordinamenti per l’Attica e l’Egitto
e la sua norma aveva scoperto la mantica e la medicina e procurato tutte le altre arti partendo dalle conoscenze divine e
dalle loro applicazioni umane (23d-24d); philosophos e philotechnos (in quanto sorella di Efesto che con lei ha avuto in sorte
l’Attica) è la dea eponima di Atene nel Crizia. Il modello della dea inventrice dei due dialoghi della vecchiaia valorizza il
sapere delle donne e ne legittima il ruolo nella comunità; eppure proprio nel mito escatologico alla fine del Timeo il pitagorico interlocutore di Socrate dichiara l’inferiorità della donna, se è vero che dovranno reincarnarsi assumendo questo
genere o passando in altre specie animali gli uomini che, plasmati dagli dei giovani collaboratori del Demiurgo, non hanno
condotto la prima esistenza secondo giustizia e temperanza, quindi filosoficamente (e questa inferiorità come legame con la
materia e smania di procreare si manifesta anche nel carattere della quarta anima: organo nell’uomo, nella donna vuoto
inquieto e ricettivo che la spinge a cercare l’unione e la procreazione). Sarà tuttavia Aristotele, descrivendo la donna come
animale freddo e quindi passivo, a sancirne un’inferiorità biologica che ha conseguenze nella sfera riproduttiva e intellettiva (limitata importanza nella generazione e ridotta capacità deliberativa per mancanza di autorità).
(22) Aspasia e Leonzio, forse anche Temista, sono etere: anche se il potere delle donne sembra non oltrepassare l’arte della
seduzione, in realtà, come è noto, le etere possedevano, oltre alla bellezza e alla raffinatezza, quel sapere che consentiva
loro di conversare con gli uomini.
(23) Plutarco racconta che Cornelia, figlia di Scipione l’Africano, data in moglie a Tiberio Sempronio Gracco che era stato avversario politico del padre, generò dodici figli e rimasta presto vedova allevò i tre sopravvissuti con tanta cura e saggezza che
la loro virtù fu giudicata frutto dell’educazione più che della disposizione naturale, di cui pure erano dotati più di ogni altro
tra i Romani; per dedicarsi a questo compito rifiutò tutte le proposte di matrimonio, perfino l’offerta di Tolomeo che le offriva di condividere con lui la corona d’Egitto. (Tib.Gracco, 1). Annota anche che era onorata in Roma non meno a causa dei
suoi figli che di suo padre, tanto che il popolo volle le fosse innalzata una statua di bronzo (C.Gracco, 4; cfr. Plinio, XXXIV,
31). Plutarco conclude le vite dei due fratelli con un bellissimo ritratto di Cornelia anziana che, nella villa a Capo Miseno
dove amava risiedere, intratteneva piacevolmente gli ospiti, sempre attorniata di uomini di lettere soprattutto greci e scambiava doni con tutti i re che aveva conosciuto attraverso il padre e il marito e che evidentemente la ammiravano.Con i visitatori ricordava la vita e le consuetudini del padre e parlava dei figli senza dolore né lacrime, come se si fosse trattato di
uomini antichi, non perché avesse perduto il senno per il dolore o per l’età, ma mostrando quanto valgono una natura virtuosa, una nobile nascita, una retta educazione a rendere gli uomini immuni dalla sofferenza. Infatti “la Fortuna che spesso prevale sulla virtù nella sua lotta contro i mali, non può togliere il potere di soccombere con serenità”. (C. Gracco,19)
(24) Con Seneca Medea, raffigurata in tutta la letteratura antica come detentrice di una sophia che rivaleggia con quella maschile, è assunta definitivamente a immagine del ‘sapere debole’. Figura complessa, il cui nome è connesso con metis, era originariamente una grande dea, poi sacerdotessa, capace di ridare la vita o la giovinezza con i suoi pharmaka ad animali e
uomini (sono frequenti le raffigurazioni di Giasone o di un ariete bolliti dalla ‘dea del calderone’ per ricevere nuova vita),
e di respingere il dolore (in Apollonio Rodio rende l’eroe greco insensibile ai colpi dei guerrieri di bronzo nella prova imposta da Eeta). La radicale innovazione euripidea dell’infanticidio cancella per sempre il lato solare e positivo dell’eroina; nella
tragedia senecana che inizia con l’invocazione alla dea dei parti Lucina i tratti di Medea sono ormai esclusivamente umani
e l’uccisione dei figli è suggerita dalla scoperta dell’amore del padre per le sue creature (ma Giasone stesso è colpevole,
con l’impresa degli Argonauti, della violazione del limite naturale).
(25) Di Arria maggiore danno testimonianza Tacito (Ann.VI 9), Plinio il giovane (Epist. III 16; VI 24), Marziale (Epigr. I,13); di
Arria minore e Fannia Tacito (Ann. XVI 33-35) e Plinio (Epist.VII 29); Fannia salva l’opera del marito e viene relegata una
terza volta per aver ordinato a Senecione l’elogio del marito, così come Marcia aveva salvato una copia della storia del
padre. Forse non è casuale l’analogia di condotta tra queste perseguitate d’età imperiale e matrone repubblicane spose degli
ultimi difensori della libertas - Porcia, moglie di Bruto, e Cornelia, moglie di Pompeo- attraverso le quali Plutarco tratteg-
Maria Grazia Caenaro
Donne e saperi nell’antichità
53
gia il modello della condivisione totale tra marito e moglie. Porcia, figlia di Catone l’Uticense, mette alla prova la propria
resistenza fisica per mostrarsi degna di essere messa a parte dei progetti politici del marito, che non le impone il fuso e il
telaio perché “se la natura del corpo le impedisce di compiere azioni pari a quelle degli uomini, lotta per la patria con lo
stesso nostro coraggio”; dopo la morte del tirannicida a Filippi si sarebbe suicidata inghiottendo carboni ardenti (Bruto,
13,15, 23, 53). Cornelia, vedova del figlio di Crasso e seconda moglie di Pompeo al quale rimase sempre devota anche
dopo la morte “possedeva molte attrattive, in aggiunta a quelle che le provenivano dall’essere giovane: conosceva egregiamente la letteratura, la musica, la geometria e seguiva d’abitudine e con profitto discussioni filosofiche”. (Pompeo, 66; 7475; 78-80).
(26) Per Mazzarino l’ispiratrice dell’opera sarebbe stata piuttosto Arria, amica di Galeno, o Salonina Augusta, moglie dell’imperatore Gallieno (amico del neoplatonico Plotino che ideò il progetto di Platonopoli in Campania), prendendo esempio da
Giulia Domna, protettrice del neoplatonico Ammonio o di Giulia Mamea protettrice di Origene. Queste donne imperiali
ripresero il ruolo che già in età ellenistica avevano avuto mogli dei Tolomei come Arsinoe II e Cleopatra VII, esercitando
una forte azione di mecenatismo sulle arti e sulla letteratura.
(27) Isidoro, maestro di Damascio, fu l’ultimo sacerdote del Serapeo, distrutto e saccheggiato per ordine del vescovo Teofilo in
ottemperanza al bando teodosiano contro i culti pagani. Sinesio, coetaneo di Ipazia e suo discepolo (la nomina più volte
nelle lettere e le dedica il Dione, operetta che propone riflessioni sulla regalità ispirate alla politeia platonica), è esponente
di una cultura tollerante che cerca di conciliare tradizione pagana e pensiero cristiano.
(28) Prima di Ipazia almeno un altro esempio femminile di possesso di un sapere specialistico ad Alessandria è costituito da
‘Maria l’ebrea sorella di Mosè’ (nel primo secolo d.C.), autrice di importanti studi alchemici. Alessandria nel IV-V sec. era
ancora il grande centro di cultura e sapere di tradizione ellenistica, in rapporti difficili con la capitale Costantinopoli per
ragioni religiose, in quanto erede della sapienza pagana, ma anche travagliata da lotte interne al platonismo e da opposti
orientamenti cristiani (neostoriani e monofisiti).Costanzo emanò un decreto contro stregoni e indovini (355), Teodosio contro aruspici e maghi (385); tra i due editti è noto quanto fu effimera la restaurazione del paganesimo di Giuliano, che proprio nella lettera agli Alessandrini si dichiara molto deluso dalla città, non più all’altezza della sua tradizione.
(29) Contemporanea di Ipazia fu Eudocia, moglie dell’imperatore Teodosio II che, “benchè donna e vissuta tra gli agi di cui
gode un’imperatrice” (annota Fozio,183-184) versificò episodi del Nuovo Testamento e scrisse le vite dei santi Cipriano e
Giustina.
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(30) Tedesca di nascita, trasferitasi in Inghilterra con il fratello William, il celebre studioso delle galassie, come governante, ne
divenne ben presto l’assistente aiutandolo nei calcoli matematici, nelle osservazioni astronomiche e nella preparazione degli
specchi e delle lenti del loro telescopio; dopo la sua morte, ritornata ad Hannover, si dedicò completamente alla ricerca:
scoprì otto comete e compilò un catalogo astronomico di straordinaria completezza, con la classificazione di duemilacinquecento nebulose. Nel 1928 ebbe l’onore di una medaglia d’oro dalla Royal Astronomical Society che la riconobbe fra i
suoi membri. La lettera citata è indirizzata a Mary Sommerville, membro onorario della Royal Society nel 1835.
Nb. Le note che accompagnano il testo della conversazione tenuta durante gli incontri di Storia delle donne nel mondo antico intendono offrire qualche ulteriore spunto di ricerca e approfondimento sul tema.
La Donna
nell’arte Greca e Romana
Alda PELLEGRINELLI
Liceo Classico “XXV Aprile”- Portogruaro
ALDA PELLEGRINELLI
Liceo Classico “A. Canova”- Treviso
LA DONNA NELL’ARTE GRECA E ROMANA
Bellezza e modelli di riferimento
Sicuramente l’immagine dell’Afrodite di Milo, presa a simbolo del nostro corso, riassume tutta in sè l’idea della bellezza muliebre. Nello stesso tempo essa, come e ancor più della celebre Afrodite Cnidia
(fig. 1), rappresenta un paradigma al quale si rifà tutta la produzione di Veneri dei secoli successivi, sino
addirittura alla provocatoria Venere degli stracci di Pistoletto (1967).
La ragione? non perché rappresenti la perfezione secondo i canoni classici. Anzi, i suoi rapporti proporzionali, la posa lievemente attorta su se stessa, tale da suggerire un equilibrio instabile, una sorta di movimento in potenza che la anima “sospingendola” verso l’osservatore, le sue misure “a portata d’uomo” e
l’espressione assorta e malinconica di derivazione prassitelica, proprio tutti questi elementi che l’allontanano dalla perfezione classica, ne fanno un modello emblematico di bellezza, apprezzato perchè in certo
qual modo vicino alla sfera dell’umano più che del divino.
Comunque per chi si accinge a indagare la figura femminile nell’arte greca e romana, la bellezza, la cui
definizione è per molto tempo obiettivo di una ricerca di natura filosofica ed estetica è un problema nel
problema. Se da una parte infatti il pensiero mira alla definizione del concetto stesso di bellezza giungendo a un topos atopos proprio del mondo delle idee, dall’altra l’operare artistico agisce mediando dalla
realtà (il rappresentando) elementi che troveranno forma sensibile in un’immagine altra da quella d’origine in quanto condizionati sia dalla preoccupazione (sempre presente nell’operare artistico) di selezionare il meglio dalla realtà scartando le imperfezioni sia di recepire e dare forma sensibile all’assolutezza
indicata dal pensiero del tempo. Se questo vale per il rappresentato in generale, il problema si complica
quando ad essere rappresentate sono figure di donna, condannate per loro propria natura ad essere belle,
non solo nell’antichità. È un aspetto non indifferente perchè agisce come un filtro sulla apparenza di
un’immagine che viene proposta come specchio del reale o che come tale viene creduta, mentre raramente rispecchia il reale. Di più, è un’idea che trova il suo primo luogo nella mente e dopo acquista forma
sensibile nella materia, marmo, bronzo, o altro, tanto di da divenire paradigma, riferimento, pur se ingannevole. Così Afrodite sublima nelle forme levigate l’idea del bello del suo tempo, diversa rispetto all’idea
del bello che è sublimata nelle forme fidiache.
Il problema è sempre attuale. Muta con il tempo l’idea di bello e assieme ad essa i modelli di riferimento. Non muta la preoccupazione di adeguarsi ai modelli e di rincorrere un’eterna, inossidabile giovinezza
(cos’altro è se non questo la pratica del lifting, molto simile alle immagini di imperatori romani e relative
consorti, la cui testa veniva “montata” su un corpo apollineo, nel tentativo il più delle volte maldestro di
miscelare potere e prestanza fisica?). Come detto, per la donna, nella storia e nella realtà di tutti i giorni,
la preoccupazione della bellezza è un condizionamento molto più forte di quanto sia per l’uomo, come se
fra i suoi compiti (o fra le sue potenzialità) vi fosse, e di fatto è così, quello di deliziare gli animi con la
propria immagine abbellita e curata.
Nella Grecia classica dunque prende forma uno dei modelli di riferimento (canon) più durevoli della ricerca estetica, una regola non semplice alla quale sottoporre la rappresentazione del corpo umano, maschile e femminile. Accanto ad essa, trovano luogo forme più vicine alla realtà, in particolare con la graduale
scoperta del “nudo” femminile, anche se sul principio si tratta di un nudo soltanto suggerito sotto il panneggio di una veste aderente o mossa dal vento (Centauromachia dal tempio di Atena a Egina; Estia,
Dione, Afrodite dal front. orient. del Partenone; Nike che si slaccia un sandalo dal tempietto di Athena
Alda Pellegrinelli
La Donna nell’arte Greca e Romana
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Nike sull’Acropoli ateniese, Nike di Samotracia, ecc.). Sino ad arrivare, nel periodo ellenistico, con
Prassitele, alla celebre Afrodite Cnidia, “madre” di moltissime altre Afroditi, compresa la nostra di Milo,
non tutte ben riuscite e fissate in pose anche diverse da quella del modello di riferimento (fig. 2).
Questa dea così amata diffonde il proprio messaggio di bellezza anche nell’arte romana, come testimoniano le numerose copie. Come in Grecia, qualcuno riesce ad emulare il modello meglio degli altri: capita, ad esempio, per l’Afrodite, suggestiva e enigmatica nella sua frammentarietà, del Museo di Aquileia
(fig. 3).
Occorre a questo punto ricordare che l’arte greca resta a lungo esemplare per gli artisti romani, che a
Roma vennero spesso chiamati a lavorare artisti greci e che non pochi imperatori romani provarono ben
più che un semplice interesse per la produzione artistica greca in genere, in particolare per quella classica o ellenistica. Cosa non di poco conto se si deve mettere a fuoco dove finisce l’influenza greco-ellenistica e dove inizia l’arte romana vera e propria. Non di poco conto se si deve giudicare di un’immagine
che già di per sè è condizionata, da una parte e dall’altra (in Grecia e in Roma) dalla preoccupazione della
bellezza. La valutazione del grado di credibilità ovvero di rispondenza della figura femminile, così come
ci viene conservata nelle opere d’arte, alla realtà è resa ancora più difficoltosa per le opere romane perchè, accanto al problema bellezza, si deve considerare pure che è presente nell’artista (o nel committente) l’intento di evidenziare nel rappresentato il ruolo sociale, la funzione svolta. Quella romana è in
generale un’arte che sovente, a partire dall’età imperiale, diviene strumento di propaganda, serve cioè a
divulgare, mediante la rappresentazione, un’idea base di potere o, per lo meno, un particolare concetto
utile a rafforzare la politica sociale o familiare. In questo senso il quadro di riferimento è, rispetto a quello dell’arte greca, doppiamente filtrato e, se consideriamo soltanto la donna, per giunta penalizzato, rispetto all’uomo, dalla minor quantità di “materiale” (opere) che la riguardano in prima persona.
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Occorre quindi, se vogliamo tentare di avvicinarci all’universo femminile del tempo, abbandonare la scultura e la pittura ufficiali e lasciarci guidare, oltre che dalle fonti, da testimonianze più umili, dalla produzione vascolare e dalle arti minori (glittica, oreficeria).
In ogni caso, se Afrodite di Milo è, sia in oriente che in occidente, paradigma di bellezza, la ben tornita
Saturnia Tellus (1) risponde meglio alla concretezza romana e riassume nella posa plastica i concetti di
fondo dell’ideale matronale: honestas, pudor, pietas, simplicitas. Una femina tutissima (2), salda e inespugnabile come una torre, garante, nella legalità del vincolo matrimoniale, della continuità della discendenza. Ideale che preoccupava i romani, a cominciare da Augusto, molto di più di quello della bellezza. alla
quale comunque non sono affatto insensibili poiché pure nella Saturnia Tellus si legge chiaramente l’influenza dell’estetica greco-ellenistica (fig. 4).
Affrontiamo dunque, con l’aiuto delle immagini e delle fonti, alcuni momenti di vita importanti nella realtà femminile.
Il matrimonio
È una tappa fondamentale per la donna. Segna il passaggio dall’età adolescenziale all’età adulta,
nonostante in Grecia, e non solo, molte volte rappresenti semplicemente un trasferimento da una casa
(quella paterna) ad un’altra (quella del marito), e sovente, prima della cerimonia, i due giovani non si
conoscano, dato che si tratta di vere e proprie unioni combinate.
Avviene in età molto giovane: già a dodici anni la fanciulla viene considerata in età da marito. Sarà
Platone, preoccupato delle conseguenze che un matrimonio in età così precoce poteva avere (non ultimo
la maggiore incidenza delle morti da parto), ad indicare per la donna come periodo ottimale quello dai
sedici ai venti anni (3). Cosa che resta un’indicazione astratta riferita piuttosto al pieno vigore fisico, dato
che venivano date in sposa fanciulle ben più giovani.
Nell’antica Grecia, il matrimonio trova fondamento nella enguesis, la promessa solenne fatta dal padre
della sposa o dall’avente potestà su di lei al futuro marito; è una sorta di contratto con il quale vengono
definiti anche la dote e il corredo personale assegnati alla donna. Secondo alcuni studiosi, il vincolo derivante dal matrimonio è successivo e si attua con la consegna della donna allo sposo e la coabitazione.
Vi è una certa analogia fra questa forma di matrimonio e la romana coemptio, che è simile ad una compravendita tra padre della donna e futuro marito, concretizzantesi nell’accoglimento nella casa di quest’ultimo della sposa con la sua dote.
Nell’antico diritto romano, quando la donna romana si sposava, passava dal potere assoluto del padre a
quello del marito (manus) se questo era autonomo e indipendente (sui iuris) o a quello del suocero se il
marito era ancora sottoposto alla potestas del proprio padre. Nel “passaggio”, la donna, dopo avere rinunciato con la traditio ai propri legami famigliari, entrava di fatto a far parte della famiglia del marito, adottandone persino il culto domestico (sacra privata). Queste forme di assoggettamento vanno comunque
scomparendo nell’età imperiale, mentre restano come requisiti basilari il consenso reciproco e duraturo
(affectio maritalis) e la convivenza.
Altra analogia fra le due civiltà riguarda l’età della sposa: quella minima necessaria per possedere la capacità di contrarre matrimonio era fissata per la donna romana a dodici anni.
Ma veniamo alle cerimonie che precedono e accompagnano il matrimonio.
Fra i riti di carattere sacrale che nella Grecia antica precedevano le nozze, riveste una certa importanza
il bagno purificatore che, ciascuno per conto proprio, facevano gli sposi con l’acqua di una fonte o di un
fiume prescritti per l’occasione: la fonte Calliroe in Atene, il fiume Ismeno in Tebe; in età storica, le acque
dello Scamandro nella Troade, acque nelle quali le fanciulle si immergevano pronunciando la formula
sacra: “O Scamandro, prenditi la mia verginità”(4). Il pensiero corre alle rarefatte presenze del Trono
Ludovisi (5), nel quale la giovane donna sostenuta da due ancelle (o, secondo altra interpretazione, Ore)
nell’atto di immergersi o di levarsi dalle acque di un fiume può al contempo rappresentare la dea Afrodite
o una sposa intenta al bagno purificatore (fig. 5). Se così fosse, avrebbe una ragione precisa, in una delle
fiancate del trono, la figura assorta di donna intenta a bruciare grani d’incenso (segno della purezza del
vincolo contratto), come una ragione precisa e opposta avrebbe pure l’altra figura femminile, un’etera nell’atto di suonare l’aulos, presente nell’altro lato, come a simboleggiare ciò che è al di fuori del legame
coniugale.
Si tratta comunque di una delle immagini più suggestive che la ricerca artistica del V sec. a. C. abbia consegnato alla storia: perfetta nella levigatezza del modellato, nella naturalezza delle pose e dei gesti, nell’allusione della profondità e del contesto (la riva di un fiume) appena suggerito dai ciottoli su cui poggiano
i piedi delle ancelle, un contesto che nella ricezione dell’immagine si fa spazio incredibilmente aperto,
non limitato dalla superficie della materia.
Sovente per il bagno precedente le nozze viene utilizzato un apposito vaso dalla forma allungata, detto
lutrophoros (lo stesso termine indica il fanciullo o la fanciulla cui è affidato il compito di andare ad attingere l’acqua “sacra”): è così importante questo rito che sulla tomba di coloro che sono morti senza essersi sposati viene sistemato un lutrophoros ad indicarne la particolare condizione.
Ancora il tema dell’acqua ritorna nella cosiddetta Toilette di nozze (fig. 6), in cui in una sola scena sono
rappresentati i preparativi di nozze: la fanciulla viene aiutata a lavarsi i capelli da un’ancella che le versa
acqua sulla testa da un’anfora; si pettina, si adorna di gioielli e si veste, comparendo poi sulla sinistra
pronta per la cerimonia mentre un amorino, chino ai suoi piedi, le aggiusta la veste.
Dopo il banchetto nuziale, allestito nella dimora paterna di lei e nel corso del quale si serviva anche la
focaccia al sesamo (simbolo beneaugurante di fecondità), lo sposo conduceva la sposa nella propria casa.
Si formava così il corteo nuziale, con alla testa il carro tirato da buoi o cavalli sul quale prendevano posto
gli sposi.
Alda Pellegrinelli
La Donna nell’arte Greca e Romana
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Il più antico rito nuziale romano è la confarreatio. Prende il nome dalla focaccia, in questo caso di farro,
che gli sposi dividevano in segno della vita in comune che si accingono a condividere (consortium omnis
vitae). La cerimonia, nella sua forma compiuta, avviene alla presenza del Pontefice Massimo, del Flamine
Diale e di dieci testimoni, davanti ai quali gli sposi offrono un animale in sacrificio a Giove.
La sposa ha il capo coperto da un velo rosso arancio (flammeum) e porta i capelli intrecciati attorno alla
testa e tenuti fermi da un lungo spillone (hasta caelibaris) .(6) La cerimonia è suggellata oltre che dai rituali, anche da una particolare formula giuridica, di cui permane traccia nel rito cristiano: al marito che le
chiede il nome, la sposa risponde “ubi tu Caius ego Caia”.(7) Sembra che già al tempo vi sia l’uso di sollevare fra le braccia la sposa mentre viene varcata la soglia di casa.
Alcuni testi visivi testimoniano l’abitudine degli sposi di stringersi la mano in segno di promessa solenne
alla presenza di sacerdoti e testimoni (che poi si traducono in immagini di figure allegoriche). Nel
“Sarcofago dell’Annona”,(8) la dextrarum iunctio, sotto lo sguardo attento e beneaugurante di Juno
Pronuba, sembra suggellare meglio di ogni altro rituale l’inizio del consortium (fig. 7).
Più complessa appare la scena raffigurata nelle Nozze aldobrandine (prima metà I sec. a. C.), antico affresco scoperto nel 1605 sull’Esquilino. Per molto tempo ritenuto copia di un dipinto di Aetion avente come
tema le Nozze di Alessandro e Rossane, in realtà descrive un’allegoria nuziale il cui culmine narrativo corrisponde nella parte centrale con il motivo della dea Peitho, la Persuasione, intenta a vincere la ritrosia
della sposa dal capo velato (fig. 8). Si tratta di una composizione per sequenze ben ritmate e composte
anche se non sostenute da un adeguato studio della profondità. La pennellata mossa e chiaroscurata e in
particolare le pose, ora frontali ora di spalle o di scorcio, la solennità dei rituali che in sequenza precedono e seguono la scena centrale richiamano, sotto il profilo compositivo la narrazione della Villa dei
Misteri (Pompei, I sec. a.C. - I sec. d. C.).
60
Tele e trame
Una delle occupazioni femminili che per certo hanno contribuito a delineare il ruolo della donna-moglie
sia greca che romana e a metterne in risalto alcune virtù proprie, fra le quali la pazienza, è la tessitura.
Occupazione di un certo rilievo nell’economia della famiglia, se si considera che essa garantisce a tutti i
membri, compreso il marito, di potersi coprire. Lo stesso imperatore non indossava, pare, che abiti quam
domestica usus est, ab sorore et uxore et filia neptibusque confecta.(9) Si tratta di una vera e propria piccola industria domestica che tiene occupata la donna per la maggior parte della giornata. L’uomo provvede
la lana grezza, che la donna pensa a lavare, battere, pettinare e filare. Il telaio usato per tessere è verticale e la donna vi lavora restando in piedi o seduta, probabilmente iniziando il lavoro dall’alto verso il
basso. Tessere richiede grande abilità e non comuni doti di originalità e creatività. Sotto mani abili, una
tela può trasformarsi in una vera opera d’arte nella quale si snodano, intreccio dietro intreccio, figure isolate o narrazioni complesse talvolta ispirate alla vita vissuta o, più di frequente, al mito.
È Penelope la tessitrice per antonomasia, colei che è passata indenne nei secoli come simbolo di fedeltà
all’amore coniugale e di attesa paziente, attesa simile ad una incrollabile fede non sostenuta da ragioni
oggettive, ma solo dalla forza del sentimento.
Penelope attende il ritorno di Ulisse, nascondendo nel cuore l’inganno ordito nei confronti dei Proci: di
notte, alla luce delle fiaccole, disfà ciò che ha tessuto di giorno, “un manto funebre per l’eroe Laerte, per
il giorno che lo colga il destino della morte dolorosa”.(10)
L’anomino “Pittore di Penelope” (Skyphos attico a figure rosse con Telemaco e Penelope, fig. 9) coglie
l’attimo in cui la donna, in una pausa del lavoro, appare assorta, il capo chino appoggiato al dorso della
mano. In piedi accanto a lei un giovane sembra guardarla preoccupato: è Telemaco. Le due lance che,
secondo l’uso omerico, egli stringe nella sinistra determinano il punto centrale della composizione, sembrano contrapporre due mondi e due differenti affetti, quello della sposa e quello del figlio, l’ardore gio-
vanile, le ansie, la tensione all’operare da una parte; il dolore muto, la riflessione, l’attesa incondizionata
dall’altra. Alle loro spalle, nella tela incompiuta (un manto sottile e ampio), si rincorrono animali e divinità alate, un drago, un cavallo, Hermes, definiti a lato da bande con motivi geometrici di derivazione
orientale. I fili dell’ordito scendono a piombo verso terra, trattenuti dai pesi. La scena, nel suo insieme,
è altamente suggestiva, come poche volte capita di osservare nella pittura vascolare. Nell’altra faccia del
vaso è rappresentato il “Riconoscimento di Ulisse” e la storia trova la sua compiutezza: è un po’ come se
la circolarità del manufatto rendesse tangibile l’indissolubile interdipendenza dei due protagonisti, spogliatisi del ruolo proprio e divenuti sinonimo di concordia profonda tra marito e moglie.
Si è detto, e la cosa pare senz’altro ovvia, che questa occupazione femminile richiede abilità, creatività,
pazienza. La finezza di Omero sta comunque nel sottolineare, se pure implicitamente e attraveso molti
richiami, che queste doti si traducono in un esercizio mentale pronto a trasformarsi rapidamente in uno
strumento di inganno. L’abilità e la pazienza di Penelope, insieme alla riflessione che si alimenta nell’ombra chiusa del megaron, diventano insomma l’elemento risolutivo del dramma, allo stesso modo del
cavallo di Troia fatto costruire da Ulisse. A questo punto paiono abbastanza ovvie e, per tale ragione, non
meritevoli di essere rimarcate, le non comuni potenzialità della mente femminile.
D’altra parte, se indaghiamo il mondo romano, le fonti ci tramandano la memoria di non poche donne la
cui presenza, accanto all’uomo, è stata senz’altro significativa, pur se collocata nel contesto delineato dalla
tradizione che vuole la donna sposata (la matrona) casta, pudica, pia, domiseda, e, ancora una volta, lanifica...(11)
Se Penelope perdura nella memoria come sinonimo di fedeltà, la meno celebre, ma sicuramente più celebrata Livia,(12) moglie di Augusto, diviene riferimento ideale della politica sociale del marito e modello per
le donne dell’élite aristocratica del tempo che intendano appoggiare il consorte nell’ascesa al potere e
nella conservazione del potere.
La famiglia, intesa in senso tradizionale, è al centro di questa politica contrapposta agli eccessi dell’ultima Repubblica. Se poi ad essere celebrata è la famiglia imperiale, nella sua rigida struttura per ruoli
gerarchici, come accade nel lato sud dell’Ara Pacis, allora l’immagine diviene realmente riferimento, confronto, idea, messaggio politico e sociale.
In quest’ottica, Livia conserva intatto il ruolo dell’univira, moglie e madre fedele, custode della casa e
rispettosa del mos maiorum e, al contempo, all’interno della domus imperiale è partecipe delle decisioni
politiche che al suo interno vengono prese. Nel passaggio dalla Repubblica all’età imperiale questa nuova
visione, in parte correlata al fatto che la discendenza diretta di Augusto avviene principalmente per linea
femminile, colloca la donna in un piano di parità morale nei confronti dell’uomo, come d’altronde evidenzia pure il pensiero filosofico di Seneca. In ogni caso, ci tramanda l’aneddotica, Augusto si preoccupa sempre che le donne di casa (la figlia, le nipoti) vengano educate alla filatura e tessitura della lana e
provvedano a confezionare gli abiti che lui stesso indosserà (cfr. nota 9).
Livia però deve essere esperta anche di ben altre trame, se le viene affibbiato l’appellativo di Ulixem stolatam: (13) Ulisse in gonnella (letteralmente in stola)..., vittoriosa nei maneggi per la successione sia nei
confronti di Giulia, che di Agrippina Maggiore che di Giulia Minore.
A parte le battute ironiche attribuite da Svetonio al pronipote Caligola, più volte ella viene raffigurata, in
età giovanile o matura (rimase vedova e visse a lungo), come dea Cerere o semplicemente divinizzata nella
veste di “Augusta”: sempre il suo volto lascia trasparire, sotto l’apparente dolcezza, un carattere sicuro,
volitivo. Piace ricordarla, circa trentenne, nella bella testa del Louvre, incorniciata dalla pettinatura di
moda all’inizio dell’impero, un rotolo di capelli sopra la fronte, una piccola crocchia sulla nuca, il sorriso
appena accennato, i lineamenti decisi. Oppure divinizzata, illanguidita nell’estenuata materia, nell’altro
ritratto del Museo di Aquileia (fig. 10), il diadema segno della dignità imperiale e il velo, da esso trattenuto, ad ammorbidire ulteriormente lo sfumato del volto. O, ancora, ormai anziana, vedova di Augusto
da diversi anni, nel realistico ritratto in bronzo del Museo di Pergola (fig. 11), in cui, temperatasi ogni
traccia della primitiva fermezza, traspare la rassegnata consapevolezza dell’età.
Alda Pellegrinelli
La Donna nell’arte Greca e Romana
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Un po’ di moda
Si diceva all’inizio della bellezza per come ci viene trasmessa dai testi scritti e visivi, che pure ci possono
aiutare a capire un altro tipo, non meno importante, ma effimero di bellezza: quella di tutti i giorni.
Condanna? strumento di tortura? o mezzo? Forse tutte queste cose insieme a piccole dosi, visto che la
donna assai più dell’uomo, deve preoccuparsi del proprio aspetto esteriore anche in considerazioni delle
molte, possibili rivali con cui si deve misurare.
Non in modo molto dissimile deve pensarla Ovidio, se nei primi due versi dei Medicamina Faciei scrive:
“Imparate qual è il trattamento curativo che può valorizzare il vostro aspetto, o giovani donne, e con quali
mezzi debba essere salvaguardata la vostra bellezza”. (14) Un buon incipit per continuare con la descrizione dei rimedi curativi per cinque diversi tipi di pelle... descrizione alquanto interessante per chi volesse
fare qualche opportuno raffronto con i “rimedi” attuali o qualche esperimento.
Sono diversi e tutti combinabili i modi con i quali la donna può migliorare il proprio aspetto esteriore: le
cure di bellezza appunto, l’acconciatura dei capelli, l’abbigliamento, gli ornamenti (gioielli, ad esempio)
e, ovviamente, tutte quelle arti che le possono permettere di essere affascinante anche solo con il sorriso,
come dice sempre Ovidio. (15)
Diverse testimonianze, in parte provenienti in gran parte da corredi funerari, ci permettono di ricostruire
questa femminile preoccupazione di essere bella. Il moderno beuty-case è stato preceduto, molti secoli fa,
da delle cassette, più o meno della stessa dimensione, in legno o in avorio e dotate di coperchio.
All’interno di esse, in appositi alloggiamenti, viene sistemato tutto l’occorrente per il trucco: vasetti con
unguenti profumati (centum pyxidibus) (16), pinzette per la depilazione, pettini, basi per stemperare le polveri (fig. 12).
62
Per l’acconciatura dei capelli la donna non bada a spesa e a tempo. Nei tempi più antichi, le greche portano i capelli lunghi sciolti sulle spalle in treccioline o raccolti sulla nuca con un nodo naturale o tenuto
fermo da una reticella (sakkòs); passano poi a pettinature più complesse, nelle quali i capelli sono trattenuti da bende intrecciate con essi o da appositi fermagli di metallo prezioso (fig. 13). Ma più della contenuta acconciatura di Afrodite di Milo, fanno tendenza le diverse fogge che portano il nome di alcune
note mogli di imperatori romani. Saranno ripetutamente imitate Ottavia, che lancia la moda dell’acconciatura che porta il suo nome con il caratteristico nodus sulla fronte, seguita subito dalla stessa giovane
Livia; Giulia Domna, moglie di Settimio Severo, donna colta, raffinata, con la complessa pettinatura adottata negli anni attorno al 211-217 e caratterizzata da un originale attorcersi delle trecce sulla nuca detto
“a tartaruga”; Faustina Maggiore con il delicato chignon portato alto sulla sommità del capo e così via.
Velato da un sottile lirismo il Ritratto di fanciulla (fig. 14), oltre a parlarci di una giovane donna colta (lo
stilo suggerisce la conoscenza della scrittura, assai più rara nell’antichità per le donne rispetto agli uomini), ci rinvia l’immagine di una leggiadra acconciatura, con piccoli riccioli a fare corona sulla fronte sotto
la tipica calautica, una leggera cuffietta a reticella.
Le donne romane portano anche parrucche complesse, vere e propri monumenti di riccioli fatti con il
calamistrum, (fig. 15) tingono i capelli di biondo, di rosso, di nero e di altri colori... non di giallo o di blu,
perchè questi due colori sono esclusivo “appannaggio” delle cortigiane, tanto è vero che Messalina, nelle
sue “uscite” extraconiugali amava indossare una parrucca bionda. Attenzione comunque a calzare bene
la parrucca! Che non capiti, come riferisce Ovidio, che: “Fu annunciato all’improvviso a una donna che
ero venuto: quella turbata, indossò la parrucca a rovescio. Tocchi ai nemici una così brutta vergogna e
tale disonore cada sulle nuore dei Parti!” (17)
Ma non esiste donna, a parte Cornelia (passata alla storia per avere esclamato dei propri figli “haec ornamenta sunt mea!”), che non abbia ceduto alla tentazione di un gioiello, anche solo una fibula, per dare
un tocco di eleganza e di distinzione al più semplice chitone o alla più anonima delle stolae.
Esiste una percettibile unità compositiva rafforzata da inequivocabili rispondenze di gesti, da calibrati giochi di luce e non ultimo da silenziosi, evidenti legami d’affetto nel sepolcro attico proveniente dal Dipylon
di Atene e raffigurante una fanciulla, Egeso, seduta avvolta nel lungo chitone, le mani reggenti un gioiello estratto da un cofanetto porto da un’ancella ritta in piedi di fronte a lei (fig. 16). I movimenti pacati
delle due giovani suggeriscono da soli una storia inespressa, parte della quale trova nel cofanetto e in
quanto esso può contenere un sicuro riferimento. Non è dato conoscere. Sappiamo però delle tante “storie” di cui un oggetto anche minuscolo può farsi custode. Così, nella superficie morbida, le due figure
sembrano incredibilmente riacquistare vita.
È una strana forma di transfert quella che può verificarsi quando si indossa ciò che è appartenuto ad altri.
Viene da pensare all’immagine fotografica di Sofia Schliemann, (18) seconda moglie di Heinrich, con indosso la stupenda parure di gioielli del cosiddetto “Tesoro di Priamo” (19) e all’emozione che ella avrà provato, particolarmente se avrà pensato si trattasse di oggetti appartenuti ad Elena (fig. 17).
Lasciando da parte gli errori archeologici o attributivi in genere (sempre possibili e purtroppo sovente non
privi di fascino per chi li commette), la parure denota oltre alla incredibile abilità tecnica pure, sotto il
profilo del rapporto fra valore estetico e valore funzionale, la indubbia potenzialità tipica di simili prodotti artistici di trasformarsi, nel sottolineare la dignità del ruolo, in veicolo comunicativo di potere, al pari
della corona sul capo di Livia.
Le conoscenze tecniche nel campo dell’oreficeria, raggiunti livelli di estrema raffinatezza, si diffondono
ben presto nell’area mediterranea e trovano esempi mirabili anche nei nostri territori, nelle zone della
Magna Grecia, in particolare in ambito tarantino. Qui, già nel III secolo a. C., la produzione, nel recepire, elaborandoli secondo il gusto locale, i modelli greco-ellenistici offre oggetti che non hanno eguali quanto a complessità e abilità tecniche (fig. 18).
D’altra parte, il fluire continuo di scambi e di contatti alla fine riesce ad avere la meglio anche sulla legislazione che a Roma si preoccupa di contenere il lusso per indirizzare verso una morigerata semplicità i
costumi, in particolare l’abbigliamento delle matrone.(20) E pure più a nord, nei territori romanizzati dell’area veneta, quello atestino in primis, si annovera una produzione orafa che recepisce senz’altro il repertorio ornamentale tradizionale (fibule, collane, armille, anelli, ecc...) e al contempo si indirizza verso
forme più semplificate e materiali nobili e non, fra di loro combinati (fig. 19).
Dunque pare alla fine di poter dire che, nell’antichità, il ruolo della donna è ben distinto rispetto a quello maschile: così nella società greca, così in quella romana esso appare contrassegnato per la maggior
parte dal chiuso delle mura domestiche.
Al contempo, la memoria conservata nei “testi” in genere lascia spazio ad altre riflessioni: questa donna
è, in certo qual modo, costretta alla bellezza, ma la sua bellezza viene spesso esaltata e trasformata nella
silenziosa poesia dell’immagine (Afrodite); questa donna è costretta a vivere all’ombra di un uomo, ma
l’ombra finisce per inghiottire il compagno, che diviene l’alter ego di lei in un gioco di rimandi per il quale
il nome di lei richiama quello di lui e viceversa (Penelope docet)... Si potrebbe continuare.
La moda forse insegna qualcosa. Si stanno recuperando nelle recenti sfilate milanesi, i panneggi di classico ricordo, panneggi che, meglio del nudo, esaltano il corpo femminile e, sia consentita la ripetizione,
lo “femminilizzano”. Che sia un invito a riappropriarsi, senza rinunciare alle prerogative conquistate negli
anni con tanta fatica, della propria femminilità?
(Marzo 2004)
Alda Pellegrinelli
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NOTE
1)
La rappresentazione della Saturnia Tellus decora esternamente uno dei lati brevi del recinto marmoreo che circonda l’Ara
Pacis Augustae (13 - 9 a.C.), l’altare celebrativo fatto erigere in Campo Marzio dal Senato in onore di Augusto e della pace
da lui conseguita nei territori conquistati. L’immagine di una solida figura femminile, seduta in posizione di scorcio rispetto all’osservatore con due bambini in grembo e affiancata da altre due figure femminili di dimensioni minori (una Ninfa e
una Nereide), simboleggia la grande madre Terra e al contempo rinvia al tempo felice del regno di Saturno, un’epoca di
serenità e di pace simile a quella che aveva contraddistinto il Lazio delle origini. Come detto, sotto il profilo stilistico, i rilievi dei lati minori e tutta la fascia inferiore esterna dell’Ara evidenziano, anche per l’interesse di tipo naturalistico, uno stretto legame con l’arte greco-ellenistica.
2)
Da tutus, tutissimus, inteso come sicuro, protetto, inespugnabile. E’ curioso che solo la mater familias o la flaminica (moglie
del flamine) potessero portare i capelli arrotolati a cono (quasi una piccola torre) sulla sommità del capo e tenuti insieme
da bende di lana (tutulus) e che alcuni scrittori classici, come Varrone, ritenessero tale acconciatura simile al punto più
sicuro della città, la roccaforte appunto. L’assonanaza fra tutulus e tutissimus appare inequivocabile e non lascia molti dubbi
circa l’idea che si doveva avere al tempo sull’onore della matrone.
3)
PLATONE, Leggi (VI, 785 b): si tratta comunque, come capita anche in Aristotele che pure dà delle indicazioni al riguardo (Polit., VII, 14, 4), di soluzioni astratte del problema, dettate per Platone dalla intenzione di modificare in terra dorica,
con la ragionevolezza della legge, ciò che in Atene era considerato normale dall’uso o prescritto dalla legge. Nella realtà,
le cose andavano diversamente, come testimoniano diverse epigrafi sepolcrali di donne sposatesi in età molto giovane (dodici o tredici anni).
4)
ESCHINE, Epist. X, 3: “Vi è l’usanza nella Troade che le fanciulle che stanno per sposarsi vadano al fiume Scamandro e,
fattovi un bagno, pronuncino come formula sacra queste parole: ‘O Scamandro, prenditi la mia verginità”
5)
Si tratta di un’opera dalla lettura ancora oggi controversa. Risalente al 460 a.C. circa, è stata ritrovata nel 1887 a Roma,
nell’antica villa Ludovisi, nel terrreno del giardino di Sallustio. Sul principio si è ritenuto fosse un trono per una statua di
culto, poi un recinto predisposto per riparare un piccolo altare. Potrebbe pure trattarsi di un recinto posto a ornare una
fonte sacra (la consuetudine di delimitare questi “luoghi” perdura a lungo nei nostri territori, tanto da ritrovarsi sino nel
tardo Medioevo, ad esempio, in Fonte Gaia a Siena). Come per la destinazione, anche la lettura dei rilievi non è univoca.
Secondo alcuni critici, il rilievo centrale tratterebbe della nascita di Afrodite dal mare e le due fanciulle che sollevano la
dea sarebbero Ore che di solito ne accompagnano la rappresentazione; secondo altri, la scena si riferirebbe al bagno sacro
di una dea o di una mortale. Questa seconda interpretazione, collegata alla lettura delle due figure presenti nei pannelli
laterali, appare tematicamente più omogenea.
6)
Lungo spillone, simile come forma all’asta usata nei combattimenti dai gladiatori. Vuol messere segno di buon augurio e in
particolare di ricca prole, ma allude anche alla sottomissione della donna al marito.
7)
Caius indica nelle formule giuridiche un individuo qualsiasi e viene quindi utilizzato pure nella formula usata per il matrimonio romano.
8)
Il sarcofago, fatto risalire al 275 per la foggia delle acconciature femminili e la toga contabulata dell’uomo, appartiene a un
funzionario dell’Annona. Ai lati delle figure centrali (i coniugi nell’atto della dextrarum iunctio e Juno Pronuba alle loro
spalle), quattro allegorie: Portus (il Porto Traiano presso Ostia dove aveva sede l’Annona), Frumentatio (personificazione
della distribuzione del frumento), Annona e Africa.
9)
SVETONIO, Divus Augustus, 73: “Veste non temere alia quam domestica usus est, ab sorore et uxore et filia neptibusque
confecta; togis neque restrictis neque fusis, clavo nec lato nec angusto, calciamentis altiusculis, ut procerior quam erat videretur” (si noti come il “confecta” richiami subito alla mente il nostro “confezioni”!)
10) OMERO, Odissea, canto II, vv 92 e segg.. Questa bella immagine della donna intenta al telaio ricorre nella poesia omerica: anche Elena, infatti, è descritta in tale occupazione nella sala centrale del palazzo, mentre singolarmente traccia sulla
tela le vicende che la vedono protagonista (Iliade, canto III, vv 121 e segg.).
11) Leitmotiv delle qualità che identificano la matrona ideale: casta (senza macchia, illibata, con evidente allusione a rapporti
sessuali solo all’interno del matrimonio), pudica (modesta e riservata), pia (virtuosa, dedita al culto e al rispetto del mos
maiorum), domiseda (che sta in casa), lanifica (che lavora la lana).
12) Livia Drusilla (58 a.C. - 29 d. C.), discendente dalla famiglia Claudia, moglie di Tiberio Claudio Nerone sino al 39 a. C.
quando, dopo il divorzio e in attesa della nascita di Druso (figlio di Tiberio Claudio Nerone), sposa Augusto. Dopo la morte
di questi, viene adottata nella gente Giulia e chiamata Augusta.
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13) SVETONIO, Caligola, 23, 2: la definizione allude chiaramente all’abilità di Livia nell’intrecciare inganni, intrighi come
Ulisse; stolatam, poi, poichè la stola è l’ampia sopravveste, prerogativa delle donne di rango, delle matrone, che copriva la
figura dalla testa ai piedi. Quindi una definizione che, giocando sull’ambiguità, rende subito l’idea del carattere della donna.
Ma non va trascurato che le battaglie politiche allora (e non solo) si potevano vincere anche a colpi di pettegolezzi e maldicenze.
14) OVIDIO, Medicamina Faciei,vv 1-2: “Discite, quae faciem commendet cura, puellae, et quo sit vobis forma tuenda modo”.
15) OVIDIO, Ars Amatoria, III, vv 281-286: “Quis credeat? Discunt etiam ridere puellae, quaeritur atque illis hac quoque
parte decor: sint modici rictus parvaeque utrimque lacunae, et summos dentes ima labella tegant, nec sua perpetuo contendant ilia risu, sed leve nescioquid femineumque sonet”
16) MARZIALE, Epigrammi, IX, 37, vv 4-8: “et iaceas centum condita pyxidibus,/ nec tecum facies tua dormiat, innuis illo/
quod tibi prolatum est mane supercilio,/ et te nulla movet cani reverentia cunni, / quem potes inter auos iam numerare
tuos.”
17) OVIDIO, Ars Amatoria, III, vv 245-248: “Dictus eram subito cuidam venisse puellae: turbida perversas induit illa comas.
Hostibus eveniat tam foedi causa pudoris inque nurus Parthas dedecus illud eat!”
18) Sophia Engastromenos sposa, appena diciassettenne, Heinrich Schliemann nel 1869 e gli è vicino negli anni delle più
importanti campagne di scavo, Troia, Micene, Tirinto.
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19) Il “Tesoro” viene scoperto da Schliemann nel 1873 (presumibilmente il 17 giugno) e donato, con lascito testamentario, nel
1889 al Museo Etnologico di Berlino (Collezione Schliemann. Il tesoro rimane fino al maggio del 1945 in Germania; il 26
maggio dello stesso anno le casse con i reperti partono per una destinazione sconosciuta. Ricompariranno nel 1994 al
Museo Puskin di Mosca e la grande mostra “Il tesoro di Troia. Gli scavi di Heinrich Schliemann”, allestita presso lo stesso
Museo Puskin (1996/1997), ne sancirà il ritorno alla condizione di bene fruibile da tutti. Fra gli interventi degli studiosi,
registrati nel catalogo della mostra stessa, vale la pena ricordare quello di Michail Treister (“Botteghe e centri di produzione”), che riconosce nella regione di Troia il centro di produzione orafa più importante in Asia Minore al tempo di Troia II,
sia sotto il profilo stilistico che tecnico e anzi mette in relazione forme e stili con la probabile esistenza di gruppi itineranti
di artigiani, oltre che con il movimento legato al commercio in genere.
20) Lex Oppia: la più antica delle leggi suntuarie, proposta nel 215 a.C. per porre limiti al lusso femminile.
ILLUSTRAZIONI
Fig. 1 - Testa di Afrodite, detta “testa Kaufmann”, II sec. a. C.,
Parigi, Louvre Frammento di una statua riproducente
l’Afrodite scolpita da Prassitele nella metà del IV sec. a.C.
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Fig. 2 - Afrodite accovacciata, II sec., Roma, Museo nazionale
Romano. La scultura, proveniente da ambienti termali della
villa di Adriano a Tivoli, si richiama al bronzo del III sec.
a.C. attribuito a Doidalsas di Bitinia.
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Fig. 3 - Afrodite stante, età augustea, Aquileia,
Museo Archeologico
Fig. 4 - La Saturnia Tellus, rilievo dall'Ara Pacis Augustae, 13-9 a.C., Roma
Fig. 5 - Trono Ludovisi, 460 a.C., Roma, Museo Nazionale Romano
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Fig. 6 - Anfora con scena di "Toilette di nozze", circa IV sec. a. C.,
Leningrado, Ermitage
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La Donna nell’arte Greca e Romana
Fig. 7 - Sarcofago dell'Annona, seconda metà III sec., Roma, Museo Nazionale Romano
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Fig. 8 - Le “Nozze aldobrandine” (particolare),
prima metà I sec. a. C., Roma, Musei
Vaticani
Fig. 9 - Skyphos detto di “Penelope” (fascia anteriore:
Penelope con Telemaco), V sec. a.C., Chiusi,
Museo Nazionale Etrusco
Fig. 10 - Livia, 30-25 a.C. circa, Aquileia,
Museo Archeologico
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Fig. 11 - Livia (particolare), 23-30 d.C. circa,
Pergola, Museo dei Bronzi Dorati.
Fig. 12 - Strumenti da toletta in osso, I sec. a. C. circa,
Aquileia, Museo Archeologico
Alda Pellegrinelli
La Donna nell’arte Greca e Romana
Fig. 13 - Dea in trono (particolare), 480 a.C.
circa, Berlino, Staatliche Museen
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Fig. 14 - Ritratto di fanciulla, I sec., Napoli,
Museo Nazionale
Fig. 15 - Ritratto di dama flavia, 90-100 d. C.,
Roma, Museo Capitolino
Fig. 16 - Monumento sepolcrale di Egeso, seconda metà
V sec. a.C., Atene, Museo Nazionale
73
Fig. 17 - Sophia Schliemann con la parure di gioielli
del “Tesoro di Priamo”
Alda Pellegrinelli
La Donna nell’arte Greca e Romana
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Fig. 18 - Corredo di gioielli rinvenuti a
Taranto, fine III - inizio II sec. a.C.,
Berlino, Staatliche Museen
Fig. 19 - Elementi di collana dal corredo della
Tomba di Nerka rinvenuta a Este,
primi decenni III sec., Este, Museo
Nazionale
Le illustrazioni sono state tratte dai seguenti testi:
PAOLI, U.E., La donna greca nell’antichità, Firenze, 1953: fig. 6
LULLIES, R. - HIRMER, M., La scultura greca, Firenze, 1957: figg. 5, 13 e 16
Musei Vaticani (a cura di Ragghianti, C. L.), Milano, 1968: fig. 11
BERSOTTI, G., Chiusi, Chiusi, 1974: fig. 9
GIORGETTI, C., Manuale di storia del costume e della moda, Firenze, 1992: figg. 14 e 15
MARCUZZI, L., Aquileia, Pordenone, 1993: figg. 3, 10 e 12
DUCHENE, H., L’oro di Troia e il sogno di Schliemann, Trieste, 1996: fig. 17
I Greci in Occidente (a cura di Pugliese Carratelli, G.), Milano, 1996: fig. 18
Palazzo Massimo alle Terme (a cura Sopraintendenza Archeologica di Roma), Roma, 1998: figg. 2 e 7
ADORNO, P., L’Arte Italiana, Firenze, 2000: figg. 4 e 11
Le Collezioni del Louvre (a cura di Bresc-Bautier, G. e Morvan, F.), Parigi, 2000: fig. 1
BIBLIOGRAFIA ORIENTATIVA
PAOLI, U.E., La donna greca nell’antichità, Firenze, 1953
75
LULLIES, R. - HIRMER, M., La scultura greca, Firenze, 1957
SVETONIO, Divus Augustus, (a cura di Levi, M.A.), Firenze, 1958
FROVA, A., L’arte di Roma e del mondo romano, Torino, 1961
MARZIALE, Epigrammi, Parigi, 1961
P. OVIDIO NASONE, Metamorfosi (a cura di LAFAYE, G.), Parigi, 1966
BREGLIA, L., L’arte romana nelle monete dell’età imperiale, Milano, 1968
POMEROY, S.B., Donne in Atene e Roma, Torino, 1978
GENTILI, B., Le donne in Grecia, Roma, 1985
PLATONE, Opere complete (a cura di Sartori, F.), Bari, 1987
SCHMITT PANTEL, P., Storia delle donne. L’antichità, Roma-Bari, 1990
WHEELER, M., Roman Art and Architecture, London, 1990
P. OVIDIO NASONE, Opere (a cura di Della Casa, A.), Torino, 1991
GIORGETTI, C., Manuale di storia del costume e della moda, Firenze, 1992
BOARDMAN, J., Greek art, London, 1995
SALLER, R.P., Symbols of Gender and Status Hierarchies in the Roman Household in Women and Slaves
in Greco-Roman Culture, Differential Equations (a cura di Joshel, S.R. e Murragham, S.), Londra-New
York, 1998
CENERINI, F., La donna romana, Bologna, 2002
Alda Pellegrinelli
La Donna nell’arte Greca e Romana
La donna Paleocristiana
Antropologia e Ideologia
di una presenza
Antonia PIVA
Liceo Classico “XXV Aprile”- Portogruaro
ANTONIA PIVA
Liceo Classico “A. Canova”- SSIS - Università di Venezia, Ca’ Foscari
LA DONNA PALEOCRISTIANA
ANTROPOLOGIA E IDEOLOGIA DI UNA PRESENZA
... beata quae credidisti...
Lc 1, 45
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1. Paradosso e rivoluzione sulla soglia di un mondo in crisi
Il Cristianesimo non ha la pretesa di essere una teoria, una filosofia; ai suoi albori non è neppure una concezione del mondo e della vita. Esso è originariamente un avvenimento: la venuta di una persona che
entra concretamente nella storia. Ogni successivo arricchimento concettuale nasce da questa constatazione che è un fatto di fede e non di conoscenza.
Cristo è questa persona: per chi lo condannò a morte fu un esagitato e un mistificatore, con la pretesa di
essere il figlio di Dio e re dei giudei da lungo tempo preannunciato; per le folle che lo seguirono fu un
medico per le anime oltre che per il corpo, considerata la capacità di operare risanamenti che si diceva
prodigiosa; per i suoi seguaci fu anzitutto un maestro. Egli non scrisse, né volle proporre un’ideologia,
semmai propose se stesso. Ebbe dei genitori ebrei, l’artigiano Giuseppe e Maria sua sposa; visse trent’anni
a Nazareth, un villaggio della Galilea, prima di intraprendere il proprio insegnamento spirituale dapprima
a Cafarnao, per trovare morte per crocifissione, tre anni dopo, a Gerusalemme.
Antonia Piva
La donna Paleocristiana Antropologia e Ideologia di una presenza
In realtà - senza intraprendere un’analisi teologica che non ci compete - la portata di questa venuta fu
estesa, radicale, imprevedibile. Il Cristianesimo è un mondo nuovo che si spalanca all’interno di quello
vecchio, un mondo portatore di paradosso e di rivoluzione.
Paradossale è considerare segno di beatitudine quanto normalmente è disprezzato o considerato indizio
d’infelicità. La sofferenza non rimarca più il castigo e la vendetta divini, né è semplice, inesorabile legge
terrena, ma richiama a un ordine soprannaturale, che stravolge i consueti beni del mondo.(1) La povertà
non è sigillo di sconfitta, ma tramite di purificazione e misteriosa attestazione della gratuità di quel Dio
per i quale tutti siamo, in un modo o in un altro, mendicanti.(2) L’umiltà fa rovesciare i potenti dai troni e
vanificare i disegni dei superbi.(3)
Rivoluzionario è parlare di fraternità in una società retta sullo sfruttamento schiavile, valicando secoli
orientati alla guerra come criterio di rapporto tra i popoli. Altrettanto rivoluzionaria è la svalutazione della
sapienza terrena e della gloria come finalità ultima del nostro operare. Il potere della politica e della religione tradizionale perdeva ogni appetibilità, avvolto in un tristo cono d’ombra: è l’impero delle tenebre,
potestas tenebrarum, di cui aveva parlato Gesù.(4)
Anche senza ipotizzare uno scontro cruento, si fronteggiarono due prospettive diverse dell’uomo e del
mondo: da un lato l’antropocentrismo, retto dal primato della ragione e orientato alla solidarietà naturale; dall’altro il teocentrismo che si riverbera nel primato della grazia e della carità soprannaturale.
Del resto, l’amore di Cristo per gli uomini esigeva una risposta netta, adeguatamente al suo mandato:
“Non crediate ch’io sia venuto a portare pace sulla terra; non la pace sono venuto a portare, ma la spada.
[...] Chi avrà trovato la sua vita la perderà; e chi avrà perduto la sua vita a causa mia, la ritroverà”. (5)
80
Un modo completamente diverso di rapportarsi col divino non poté che avere risvolti in ogni settore: cambiò l’approccio con la politica, con la cultura, con l’arte; scaturì un differente stile di vita, che permeò la
stessa quotidianità. Nella sua fase iniziale, il Cristianesimo parlò anzitutto ai ceti più umili, sino ad allora
relegati ai margini della storia, mentre svuotava di contenuto etico il tradizionale modello del vir bonus.
Lo scontro ideologico fu violento, senza mediazioni: la letteratura apologetica registra la carica di pregiudizio che da sempre accompagna il diverso, sino alla discriminazione e alla persecuzione.
Agli occhi pagani, la nuova religione è assurda nei contenuti di fede, pericolosa nello stile di vita predicato, due motivi che spiegano il feroce divampare delle persecuzioni. Il Cristianesimo è una superstizione, definita esecrabile da Tacito, malvagia e sfrenata da Plinio il Giovane,(6) nuova e malefica da Svetonio;
fanatici apparivano i cristiani anche a Marco Aurelio (161-180), che vi contrapponeva la sobrietà razionale del logos stoico.
Eppure, è proprio l’imperatore-filosofo che svelava, nei suoi Pensieri autobiografici, la profonda crisi dei
valori tradizionali, con la dolorosa sensazione di sradicamento rispetto al mondo. Man mano che l’impero entrava in crisi - istituzionale, morale, culturale - e che le irrequietudini sociali si diffondevano un po’
ovunque, quella minoranza perseguitata crebbe per incidenza e credibilità: “la comunità cristiana esercitò improvvisamente un’attrattiva su individui che si sentivano abbandonati. In un’epoca di inflazione i cristiani investivano grosse somme di capitale liquido in uomini; in un’epoca di crescente brutalità il coraggio
dei martiri cristiani impressionava; durante calamità pubbliche, come epidemie o sommosse, il clero cristiano dimostrava di essere l’unico gruppo unito nella città, in grado di provvedere a seppellire i morti e
a procurare cibo”. (7)
Le prime generazioni cristiane introdussero una drastica esperienza di vita sociale; i fedeli si consideravano una non-nazione, la cui patria era unicamente il Cielo, come afferma Tertulliano nella prima metà
del III secolo: “La nostra setta sa di vivere da straniera sulla terra, di trovare facilmente nemici tra gli
estranei, ma sa anche di avere nei cieli la propria famiglia, la propria dimora, la speranza, il credito, l’autorevolezza”.(8)
Il Cristianesimo guardò al mondo pagano talora con obbediente rassegnazione, più spesso con inconciliabile chiusura. Si veda il caso dell’apostolo Pietro, che Gesù indica come proprio vicario sulla terra: nel
64 è a Roma; poco prima della crocifissione ad opera di Nerone, egli scrive una lettera indirizzata ai fedeli sparsi nell’Asia Minore. Questo scritto offre delle indicazioni interessanti: da un alto, infatti, egli esorta
i fedeli a un comportamento irreprensibile, perché “operando il bene voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti”, dall’altro egli designa Roma con l’appellativo metaforico di Babilonia, la città dell’idolatria e dall’avidità di dominio.(9)
Di fronte alle persecuzioni, non mancarono le abiure, coi cosiddetti lapsi (10), ma il fenomeno maggiormente
rilevante fu la diffusione sempre più salda del Verbo, tanto che si proclamava: “Noi cristiani siamo di ieri,
e già abbiamo riempito tutto quello che è vostro, o pagani: città, isole, fortezze, municipi, luoghi di adunanza, gli accampamenti stessi, il Palazzo, il senato, il foro”.(11) Si affermarono nuovi valori: il martirio
come scelta militante, la verginità, la vita comunitaria, il ritiro eremitico. La crudeltà delle persecuzioni
rafforzò la fierezza cristiana: “Ma quel Medesimo che ha fatto il sole e la luna fu per voi una luce ancora
maggiore nel carcere; lo splendore di Cristo, brillando nel vostro cuore e nella vostra mente, irraggiò di
eterna e folgorante luce le tenebre del luogo di pena”.(12)
Spetterà alla letteratura patristica proiettare il Cristianesimo al centro della storia: con l’editto di Milano
del 313 e l’editto di Tessalonica del 380,(13) la nuova religione è associata al potere; anche sotto il profilo culturale, si assiste a una mediazione della grande eredità dei classici.
2. Gesù e le donne
La venuta del Dio-persona di nome Gesù determinò una diversa considerazione del ruolo femminile e,
anzi, una nuova percezione, da parte della donna stessa, del suo destino e del suo valore. Per comprendere tutto ciò, basterà fare una considerazione che tanto scontata non è: Cristo nacque da donna e da una
donna ben precisa. A Maria è assegnato un ruolo meno defilato di quanto si potrebbe pensare: ella vive
con riservatezza e obbedienza, è vero, ma il suo assenso alla maternità non è né ingenuo né passivo;(14) è
lei a disporre Cristo al primo miracolo, a Cana, insegnando “a fare quello che vi dirà”;(15) a lei, dalla croce,
Cristo affida il discepolo prediletto, Giovanni, come simbolo dell’umanità intera;(16) attorno a lei, a
Gerusalemme, vivono gli apostoli nel cenacolo, là dove discenderà lo Spirito Santo.(17) Da madre del
Salvatore ella è divenuta madre degli uomini, in un mistero di maternità e di filiazione esemplarmente sintetizzato da Dante: “Vergine madre, figlia del tuo figlio…”(18)
Già nel Vecchio Testamento, la donna o, meglio, la sposa è allegoria dell’amore di Dio per il suo popolo:(19) “Al re piacerà la tua bellezza. Egli è il tuo Signore: prostrati a Lui”;(20) “Come gioisce lo sposo per
al sposa, così il tuo Dio gioirà per te”;(21) “Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al
tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in una terra non seminata”;(22) “Uscite, figlie
di Sion, guardate il re Salomone con la corona che gli pose sua madre, nel giorno delle sue nozze, nel
giorno della gioia del suo cuore”.(23)
Nelle parabole, Gesù è lo sposo che viene,(24) mentre nell’Apocalisse la nuova Gerusalemme è “pronta
come una sposa adorna per il suo sposo”; questa sposa è “la fidanzata dell’agnello”.(25) La Chiesa è dunque destinata ad essere “Madre dei Santi; immagine della città superna; del Sangue incorruttibile conservatrice eterna”;(26) a svolgere nei secoli il proprio ruolo di Mater et Magistra.(27)
In realtà, non si tratta solo di simbolismi: l’esistenza terrena di Cristo, e le pagine evangeliche che la documentano, è interamente intessuta di presenze femminili. Donne che compaiono col loro nome, e donne
confuse nella folla di seguaci e di curiosi, per i sentieri di pietra della Giudea o sulle distese verdeggianti dei colli galilei.
È a una donna di Samaria che Gesù indica l’acqua che “diverrà sorgente zampillante per la vita eterna”,
(28)
così come elogia la fede della cananea, che si contenta “delle briciole che cadono dalla mensa dei
padroni”.(29) Gesù vuol bene alle donne, soprattutto a quelle deboli ed emarginate, e si stacca dall’ipocriAntonia Piva
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sia dei benpensanti che gli stanno attorno: di fronte all’avarizia dei ricchi, egli porta ad esempio la generosità della vedova che, nel fare l’elemosina, “nella sua miseria ha messo tutto ciò che aveva”;(30) prova
misericordia per la peccatrice che, piangendo, gli unge i piedi di olio profumato, e sentenzia: “i suoi peccati le sono perdonati, perché ha molto amato. Colui invece al quale si perdona poco, ama poco”;(31) prende le difese dell’adultera condannata alla lapidazione, e la congeda con dolcezza: “va’, e d’ora in poi non
peccare più”.(32)
La donna non è più considerata nella sua semplice funzione riproduttrice, per perpetuare legittimamente
la stirpe, né è un oggetto decorativo e vacuo, funzionale al piacere maschile: le spetta di diritto, onesta o
traviata che sia, tutta l’implicita dignità della persona e i tratti salienti del suo essere, la sua identità priva
di camuffamenti. Gesù, figlio di donna, non assegna all’universo femminile un ruolo puramente subalterno: ribalta gli schemi, i pregiudizi, le convenzioni. Per questo, proprio la donna che maggiormente è
inchiodata dagli stereotipi, la peccatrice, è accolta da Gesù, che ne riceve in cambio una piena comprensione: quella di un Dio fattosi uomo e, come uomo, destinato a morire.
Leggiamo il brano evangelico in una riscrittura coinvolgente:
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Maria lo guardò negli occhi. Come era triste in tutto quel chiasso!
Allora le venne un brivido di paura: ricordò a una a una tutte le parole di Gesù e specialmente quella del Buon Pastore: “il buon pastore dà la vita per le sue pecorelle…”
Allora capì tutto.
Capì che Gesù andava a morire.
Povero Gesù, come doveva sentirsi solo tra tutti quegli amici che festeggiavano il suo regno vicino e
non avevano voluto credere che nel suo Regno, la corona c’è, ma di spine, il trono c’è, ma è una croce!
Maria volle far qualcosa per far capire a Gesù che lei aveva capito.
Corse in casa, e prese un vasetto di olio profumato, di quello che gli ebrei adoprano per profumare il
corpo dei loro morti prima di seppellirli. Maria passò dietro agli invitati. Spezzò il collo del vasetto, e
versò tutto l’olio sui piedi di Gesù.
Tutti badavano a far festa e nessuno badò a quel che faceva lei finché la casa non fu piena dell’odore del nardo. Allora si voltarono tutti e la videro in ginocchio che asciugava con i suoi capelli i
piedi del Signore. Non badava a nessuno, piangeva come se quella settimana fosse già passata e quel
corpo già pronto per la sepoltura.
Giuda guardò il bel vasetto rotto e tutto il profumo versato e disse: “Che peccato! Se si vendeva si poteva prendere più di 300 denari e darli ai poveri!”
E tutti gli davan ragione.
Allora parlò Gesù: “Lasciatela fare, non le date noia. Ha fatto una buona azione verso di me.
I poveri li avrete sempre con voi ma me non m’avrete sempre. Lei ha fatto quel che poteva, ha profumato il mio corpo in anticipo per la sepoltura. In verità vi dico che in tutto il mondo, dovunque sarà
predicata la Buona Notizia, si racconterà anche quel che ha fatto lei per me”.(33)
Per capire la posizione di Cristo nei confronti delle donne, è indicativo l’episodio di Marta e Maria, le
sorelle di Lazzaro. A Marta, che si affaccenda come una perfetta padrona di casa, egli addita Maria, intenta alla contemplazione e alla preghiera; non si tratta solo dell’allegoria della natura duplice della nostra
personalità, quanto dell’affermazione di un primato spirituale, di una disposizione speculativa e per così
dire ‘filosofica’ - tradizionale appannaggio maschile - nella concreta vicenda di ogni donna:
Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio, e una donna di nome Marta lo accolse nella sua
casa. Essa aveva una sorella di nome Maria la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua
Parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: “Signore, non ti
curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”. Ma Gesù le rispose:
“Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria
si è scelta la parte buona, che non le sarà tolta.(34)
Che proprio ad una donna - e in una donna - egli proponga la superiorità della dimensione spirituale assume una valenza anche in termini concretamente antropologici, tanto più forte se si pensa alle condizioni
di soggezione, materiale e intellettuale, alle quali era tenuto il mondo femminile nell’antichità. Per altro,
non c’è nulla di astratto nel rapporto di Gesù con le donne: la sua sublimità si cala nelle vicende quotidiane e si misura con la psicologia concreta di chi incontra. Insomma, egli non ama, genericamente, “la“
donna, cioè un universale di donna, ma si accosta e si lascia accostare da ogni donna, presa nella sua singolare interezza e irrepetibilità.
Tutto diventa relativo, per Gesù, di fronte alla causa del Regno: i parenti, gli amici, le tradizioni della sua
gente. Eppure, al tempo stesso, ogni cosa, anche la più piccola, anzi, soprattutto la più piccola, gli sta a
cuore, attira il suo sguardo, la sua risposta. Così è anche per le persone: forse è per questo che le donne
lo sentono vicino, lo percepiscono come straordinariamente recettivo.
Vero Dio per i credenti, Gesù è anche vero uomo, anzi, dotato di una umanità pienamente integrata e
riconciliata: nella nostra prospettiva di ricerca, la sua novità consiste nell’essere “aperto al femminile con
tutta naturalezza. Sotto questo aspetto offre un contrasto estremamente significativo con gli uomini del suo
tempo e di molte altre epoche. In Gesù i modi di attuazione e di espressione del sé che sono propri del
maschile giungono a un integrazione perfetta con quelli propri del femminile”. E, dunque, un Cristo che
è perentorio e persino duro, ma anche dotato di “un’attenzione privilegiata all’interno delle cose, al mistero dell’essere, un’interiorità che poi diventa la chiave dell’accoglienza, della sollecitudine materna, dell’elasticità di carattere”.(35)
Le donne ripagano Gesù di pari amore; assieme ai discepoli lo seguono “anche alcune donne che erano
state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Màgdala, dalla quale erano usciti sette demoni,
Giovanna moglie di Cusa, amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con i loro
beni”.(36) Sono loro che non lo abbandonano sino al calvario e alle devote pratiche del sepolcro: “le donne
che erano venute con Gesù dalla Galilea [...] tornarono a casa a preparare aromi e unguenti”.(37)
E proprio a Maria Maddalena - ella che lo aveva pianto ai piedi della croce - prima che ai discepoli, apparirà Cristo risorto, presso il sepolcro aperto: “Donna perché piangi? Chi cerchi?”.(38)
Un momento, questo, di trepidazione e struggimento, in cui l’umanità di Cristo, vincendo le tenebre, sfavilla in modo nuovo, vicino eppure incommensurabilmente lontano da Maddalena, così come ricreato nei
versi di Rainer Maria Rilke:
Il Risorto
Mai fino all’ultimo ebbe cuore
di rifiutarle o di vietare
ch’ella del proprio amore si gloriasse;
ed ella cadde ai piedi della croce
vestita d’un dolore ch’era tutto adorno
delle più grandi gemme del suo amore.
Ma quando venne in lacrime al sepolcro
per spalmarlo di balsami, Egli era
per lei risorto e per poterle dire,
più beato, il suo: non mi toccare.(39)
Lei capì solo poi nella sua grotta,
quando fortificato dalla morte,
Lui finalmente le vietò il conforto
di spalmarlo di unguenti e il presagio del
contatto,
per educare in lei la donna amante
che sull’amato ormai più non si china
perché sospinta da bufere enormi,
sopravanza la voce dell’amato.
Antonia Piva
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È una figura affascinante, quella di Maria Maddalena,(40) che ben presto viene circonfusa dalla leggenda,
riunendo sotto il suo nome tre personaggi distinti: Maria di Betania, la sorella di Marta e di Lazzaro; la
peccatrice che unge di profumo i piedi di Gesù; la donna liberata dagli spiriti maligni. Sin dal Medioevo
e soprattutto con la Controriforma, ella è il prototipo della penitente, con il fascino ambiguo del peccato
che si misura con il rimorso, ma anche con la promessa di redenzione. È una vita nuova, quella che intraprende Maddalena per propria scelta, sottratta dunque al determinismo consueto alla società antica.
Rilke mette in evidenza il rapporto personale, profondamente affettivo, della sua devozione per Cristo;
eppure, all’autentico, intimo incontro con la divinità del suo Signore ella giunge attraverso il distacco:
“Non mi toccare”. Uno sguardo nuovo, aperto al trascendente, senza più la necessità di un contatto materiato: ecco l’approccio al divino che la vicenda di Maddalena propone alla soggettività femminile.
3. Storie di donne, storie di martiri
Non era una spiritualità facilmente fruibile da Roma, questa.
Troppo radicata la struttura sociale dell’Urbe, troppo ferma l’opinione di un mondo articolato su un accentuato dualismo: uomo / donna; libero / schiavo; romano / straniero… , troppo marcata la consapevolezza
di una supremazia romana in tutto, anche nella religione.
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Cicerone affermava la superiorità dei romani su ogni gente e nazione “nel sentimento religioso, nell’osservanza del culto e in questa singolare sapienza, in base alla quale siamo persuasi che tutto sia governato da una mente divina”.(41) I romani erano convinti che il volere divino fosse alla base di ogni avvenimento,
quotidiano o eccezionale che fosse. La loro religione aveva tre principali caratteristiche: l’utilitarismo,
giacché il culto serviva a procurare il concreto favore degli dei; il legalismo, considerato che la devozione faceva parte a tutti gli effetti dello stato, interpretata e gestita da funzionari della res publica e, più tardi,
dall’imperatore stesso; il ritualismo, per il quale fastose cerimonie, disseminate per tutto l’anno, erano
strumento di aggregazione sociale.
Eppure i romani si mostravano assai curiosi e sostanzialmente rispettosi di ogni altrui religione, purché
essa non pregiudicasse la centralità del potere statale. Possiamo allora comprendere come Roma accogliesse numerosi culti stranieri, fondendoli con la religione tradizionale: un fenomeno di sincretismo fece
venerare Iside e Serapide, Mitra e Cibele, così come, ai suoi albori, aveva accettato le usanze etrusche in
fatto di divinazione. Ma quando si ponevano in discussione le basi stesse di Roma - i suoi istituti giuridici, il suo concetto di potere fondato sulla guerra e sulla schiavitù - non esisteva possibilità di dialogo né,
tanto meno, di tolleranza.
In quest’ottica va inserita la discriminazione che colpì gli ebrei, i quali continuavano a difendere la propria identità e indipendenza anche religiosa. Un’ottica che serve a motivare in gran parte anche le persecuzioni nei confronti dei cristiani: essi non si riconoscevano infatti appartenenti a nessuno specifico popolo
sulla terra, ma si richiamavano a una più vasta collettività ultraterrena e, di conseguenza, sovranazionale.
Ebrei e cristiani furono inizialmente accomunati, perché invisi per i loro presunti crimini, per flagitia invisos, e accusati di odio nei confronti del genere umano, odio humani generis convicti, come ci narra
Tacito:(42) accuse gravissime, calunnie senza debito controllo, ma che facevano comunque capo a un modo
di intendere la vita e il mondo, opposto e irriducibile rispetto a quello romano.
Le persecuzioni, inizialmente dettate da intolleranza frutto di ignoranza, costituirono in un secondo
momento dei veri e propri provvedimenti politici, rivolti a colpire ciò che sembrava una pericolosa forma
di eversione.(43) Eppure, i cristiani continuavano a proclamarsi buoni cittadini, rispettosi e obbedienti della
legge, secondo quanto raccomandato dallo stesso Pietro: “siate sottomessi ad ogni istituzione umana per
amore del Signore: sia al re come sovrano, sia ai governatori come ai suoi inviati per punire i malfattori
e premiare i buoni”.(44) Più forte fu, comunque, l’esigenza di un proclama di fede, la confessio, che sapesse spingersi sino all’estrema testimonianza, il martirio. Anche allora le donne fecero la propria parte:
accanto ai confratelli maschi, ma con il tratto distintivo della loro genere.
In greco martys vuol dire testimone: chi per diretta conoscenza è in grado di deporre. Aristotele precisa
il significato: testimone è chi depone su un fatto di cui ha personale esperienza e anche chi fornisce opinioni soggettive.(45) Anche nel Vecchio Testamento si parla di testimonianze giuridiche, oppure si invoca
Dio a testimone. Nel Nuovo Testamento, il termine ricorre una settantina di volte ed acquista un valore
innovativo: martire è il testimone ufficiale della vita e resurrezione di Cristo, depositario del suo insegnamento. Per questo i discepoli hanno il mandato missionario di testimoniare la Rivelazione. Questo precetto è radicale e comporta notevoli rischi, che Cristo stesso esplicita: “Guardatevi dagli uomini, perché
vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti ai
governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza”.(46)
La vicenda di Stefano, il protomartire lapidato a Gerusalemme come viene narrato negli Atti degli
Apostoli (47) è davvero esemplare: la testimonianza è completa quando è assoluta e, quindi, cruenta. È una
evoluzione etimologica completata alla fine del II secolo: “Chiunque rende testimonianza alla verità, sia
con parole, sia con fatti, sia in ogni altro modo, può essere chiamato a buon diritto testimone, martys.
Presso i fratelli, tuttavia, colpiti dalla forza d’animo di quanti lottano per la verità o la virtù, c’è l’abitudine di chiamare martiri solo quelli che, spargendo il proprio sangue, hanno testimoniato il mistero della
vera religione, mentre il Signore chiama testimone chi rende testimonianza delle cose annunciate intorno
a lui”.(48)
Gli esempi più nobili di sacrificio testimoniale nel mondo pagano collegano la morte a una verità di ordine morale: esemplare è il caso di Socrate. Il martire cristiano, invece, sconfina nell’ambito soprannaturale, poiché la morte non solo gli permette di rendere testimonianza a Cristo, al quale è unito dalla carità,
ma addirittura di ripercorrere il cammino della sua passione e morte. Il martirio diventa così un premio
da tempo promesso: “Ti benedico per avermi giudicato degno di questo giorno e di quest’ora, degno di
essere annoverato tra i tuoi martiri. Tu hai mantenuto la tua promessa, o Dio della fedeltà e della verità”.(49)
Il martirio va inserito nel concetto di comunione dei santi: l’eroismo del singolo estende la grazia su tutta
la comunità. Uomini e donne concretamente chiamati a testimoniare: all’eroe pagano che afferma il primato della propria personalità sulla massa, subentra un modo diverso di intendere il proprio io, un dono
di Dio, cioè, da trasmettere a propria volta agli altri. Insomma, un carisma.(50)
Le gesta dei martiri e delle martiri ci sono state tramandate da una copiosa produzione scritta, organizzata in due gruppi: gli acta martyrum, con gli scarni verbali del processo e dell’esecuzione, e le passiones,
narrazioni arricchite da particolari, annotazioni psicologiche e riferimenti biblici. A partire dal IV secolo,
poi, nascono le leggende: esse traggono origine da fonti storiche, ma le integrano con ricostruzioni fantastiche e modelli letterari pagani, allo scopo di edificare le anime e convertire gli uomini.
Così, la sorte di Agnese, la dodicenne romana sgozzata intorno al 305, dopo essere stata condotta nuda
in un postribolo, si arricchisce di particolari fiabeschi: le crescono d’un tratto i capelli, a celarle il corpo,
e un angelo la riveste di un manto candido. E leggendaria diventa anche la vicenda di Cecilia, che la sera
delle nozze, mentre suonano misteriosamente gli organi, cantantibus organis, converte il proprio sposo
Valeriano e con lui offre a Dio la verginità: ella che la statua del Maderno immortala col gesto delle dita
a ricordare, nel momento del supplizio, la trinità.(51)
O, ancora, Agata, la santuzza catanese, orribilmente torturata dal console Quintiano da lei respinto: egli
si accanisce facendole amputare i seni e poi costringendola a camminare sui carboni ardenti, mentre d’un
tratto l’Etna comincia ad eruttare e il terremoto scuote l’isola. E Lucia, la nobile siracusana che, durante
le persecuzioni di Diocleziano, rinuncia al matrimonio e dona i suoi beni ai poveri: il suo nome, connesso alla lux, avrebbe stimolato più tardi, nella fantasia popolare, la tortura degli occhi che le sarebbero stati
strappati e che lei stessa si sarebbe rimessi nelle cavità.
Caterina, invece, sarebbe stata la bella e dotta figlia del re d’Alessandria, che aveva rifiutato l’imperatore Massenzio: costui, per convincerla a sacrificare agli idoli, la sottopone a una disputa dottrinale con cinquanta filosofi ed oratori. Uscita vittoriosa dall’agone dottrinale, Caterina è sottoposta alla tortura della
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ruota dentata e poi decapitata. Anche lei, come le altre giovani, antepone all’amore carnale i beni dello
spirito e preferisce essere sponsa Christi: per questo, i pittori la immortalano non solo con la ruota, strumento di martirio, e con il libro, attestazione di sapienza, ma anche con l’anello gemmato delle nozze
mistiche.
Non molto diversa la storia di Barbara,(52) l’affascinante figlia del re di Nicomedia morta durante le persecuzioni di Massimiano. Il padre aveva voluto rinchiuderla in una torre, perché nessuno potesse vederla: lei, convertitasi al Cristianesimo, trasforma la torre in cella eremitica per dedicarsi allo studio delle
Scritture, e vi fa aggiungere una terza finestra in onore della Trinità. Ma il re, accecato dalla rabbia, la
consegna personalmente al carnefice che le mozza il capo, mentre un fulmine stronca il crudele genitore.
Di là dagli ampliamenti agiografici, la breve vita di Agnese, Cecilia, Agata, Lucia, Caterina, Barbara testimonia un nuovo paradigma esistenziale, che non può non riverberarsi sul modo di concepire la femminilità: le cristiane, al pari dei loro compagni, fanno parte della militia Christi e scelgono consapevolmente
l’agone, il combattimento per la fede, destinate poi alla palma della vittoria, come un tempo i vincitori
delle arene. La virtus non è più esclusivo appannaggio del vir: essa adorna la pudicizia delle vergini e le
sostiene nell’ultimo cimento.
In ogni narrazione paleocristiana, come nella corrispondente profluvie iconografica, la pulchritudo intensifica, anziché annacquare, la fermezza testimoniale. La teoria delle martiri in S. Apollinare Nuovo in
Ravenna (53) parla chiaro: bellezza e castità non si elidono, come capiterà spesso nei secoli a venire.
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In termini più generali, l’ideologia del martirio era sostenuta da una ferma convinzione palingenetica: si
avvicinava il destino ultimo dell’uomo preannunciato dall’Apocalisse, con l’irriducibile condanna o salvazione dell’umanità. Che senso poteva avere, dunque, restare abbarbicati a un’esistenza terrena che si
mostrava ogni giorno di più labile e provvisoria, quando erano vicini “un cielo nuovo e una terra nuova
[…] e la nuova Gerusalemme discesa dal cielo”?(54) In effetti, le prime comunità cristiane “credevano che
la fine di questo mondo non fosse lontana, essi la sospiravano e l’attendevano come prossima; perciò
l’Apocalisse annunzia avvenimenti destinati a verificarsi ben presto e prossimi a compiersi. L’avvenire,
quale se lo figura lo scrittore apocalittico, è quindi visto con una prospettiva temporale assai ristretta”.(55)
Tra gli acta, parchi e veridici, particolare importanza ha la trascrizione del processo ai martiri di Scilli,
cittadina della Numidia. Esso si svolse a Cartagine, il 17 luglio del 180, nel primo anno dell’impero di
Commodo. Lineare e sobrio, il testo è forse il primo esempio di latino cristiano, poiché le primitive comunità si servivano del greco.(56)
Del sangue di molti martiri sarà bagnata la terra d’Africa e africano sarà il primo grande scrittore cristiano in latino, Tertulliano (160-230): egli forse non creò questo linguaggio speciale, ma certo lo utilizzò con
geniale violenza espressiva. “Può darsi che non meriti l’appellativo di padre del latino cristiano, ma non
si potrebbe affermare che egli prese un fanciullo promettente e lo allevò dotandolo di ricchezze che ne
fecero il padrone di un nuovo mondo intellettuale e spirituale?” (57)
Anche molte passiones hanno per sfondo i tribunali e le arene d’Africa. Tra le più celebri quella che vede
protagoniste due giovani amiche, Perpetua e Felicita.(58) Siamo a Cartagine, nel 203, sotto l’impero di
Settimio Severo: Vibia Perpetua, Revocato, Saturnino, Secondalo, Felicita, da poco approdati alla fede, e
il loro catechista Saturo, vengono dapprima esposti alle fiere e poi finiti con un colpo di spada alla gola.
La descrizione è agghiacciante: per il mondo romano la violenza era una prassi e anche un passatempo.
Eppure l’immagine delle due giovani che si avviano assieme al martirio e che lo fanno con compostezza
e serenità sembra vincere anche la violenza, e scuotere gli spettatori:
Per le giovani donne, il diavolo preparò una ferocissima vacca, cosa veramente insolita, quasi per fare,
anche per mezzo della bestia, un oltraggio al loro sesso. Furono condotte nell’arena spogliate ed avvolte soltanto in reti. La folla inorridì vedendo una fanciulla delicata, Perpetua, e l’altra, Felicita, fresca del parto, con i seni che stillavano latte. Furono allora richiamate e rivestite con tuniche discinte.
Per prima, Perpetua, scagliata in aria dalle corna della vacca, cadde a terra supina. Messasi a sedere, con la tunica che si era lacerata, si affrettò a ricoprirsi un fianco, preoccupata più dal pudore che
dal dolore. Poi, con un fermaglio che aveva raccolto, si appuntò i capelli che si erano sciolti. Non si
addiceva, infatti, a una martire soffrire con i capelli scomposti, perché non sembrasse in lutto nel
momento della gloria.(59) Poi si rialzò e, vedendo a terra Felicita, l’aiutò a sollevarsi e così tutte e due
rimasero in piedi.
Vinta allora la crudeltà della folla, entrambe furono fatte uscire; Perpetua fu accolta da Rustico, un
catecumeno che le era affezionato. Come destandosi da un sonno profondo, tanto a lungo era durata
la sua estasi nello Spirito, cominciò a guardarsi intorno e fra lo stupore disse: “Quando saremo esposte a non so quale vacca?”.
Quando le dissero che la cosa era già avvenuta, non volle crederci finché non vide sul suo corpo tracce di quello strazio, poi chiamò a sé il fratello e il catecumeno e disse:”Restate fermi nella fede, amatevi a vicenda e non scandalizzatevi delle nostre sofferenze”.(60)
4. Tra le fiamme di Roma
Il 19 luglio del 64, tra le miserande baracche di legno attorno al Circo Massimo, divampò un incendio
che distrusse con eccezionale rapidità dieci dei quattordici quartieri di Roma: il legno, la sporcizia, la calura estiva furono alla base della combustione. Il racconto di Tacito e di Svetonio è aspro, concitato.(61)
Presto, si diffuse l’accusa che Nerone stesso avesse ordinato l’incendio, un’accusa che Tacito respinge,
definendola una calunnia infamante, infamia et rumor, nonostante continuasse a girare, ma che Svetonio
accoglie, motivandola col desiderio che Nerone aveva di cambiar volto a Roma, per abbellirla di sontuosi edifici.
Resisi inutili i provvedimenti amministrativi, si passò a cerimonie di espiazione e veglie sacre, anch’esse
vane. Calunnie o verità che fossero, Nerone reagì stornando l’accusa sui cristiani, come ci racconta Tacito:
Dunque, per eliminare la calunnia, Nerone inventò i colpevoli e li destinò a torture raffinate: erano
quelli che, invisi per le loro turpitudini, il volgo chiamava cristiani.
L’origine di quel nome era Cristo, condannato a morte ad opera del procuratore Ponzio Pilato, durante il principato di Tiberio; e quella perniciosa superstizione, per il momento repressa, da capo erompeva, non soltanto attraverso la Giudea, origine di quella calamità, ma addirittura attraverso Roma,
dove da ogni parte confluisce e attira le folle tutto ciò che è vergognoso e abominevole.
Dunque, arrestati dapprima quelli che confessavano, quindi, in base alle confessioni di costoro, un’ingente moltitudine, furono riconosciuti colpevoli non tanto del delitto di incendio quanto di odio verso
il genere umano.
E a coloro che si avviavano a morte furono aggiunti gli scherni, come il rivestirli di pelli di belve perché morissero straziati dai cani o appenderli alle croci e dar loro fuoco, perché, quando fosse scesa la
notte, bruciassero come torce per illuminare la notte.
Dopo questo episodio, Tacito non menzionerà più i cristiani, relegandoli ai margini della storia: per lui le
vicende di tanti uomini e donne nelle fiamme di Roma interessano relativamente, quel tanto che basta per
denunziare l’immane arbitrio di Nerone. Certo non pensava che proprio quella moltitudine reietta avrebbe, anno dopo anno, contribuito a scrollare le superbe fondamenta dell’imperium di Roma. E che quel
nome, importato dai lembi riottosi del Mediterraneo, avrebbe avuto ben altra accoglienza.
Comunque, la pagina tacitiana, ma anche quelle di Svetonio, e la straordinaria ambientazione - forse proprio al tempo di Nerone - del Satyricon petroniano rivivranno secoli dopo in un celebre romanzo, apparso a puntate sulla Gazeta Polska, il giornale di Varsavia, tra 1894-1896, per essere subito tradotto in tutte
le lingue.
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Si tratta di Quo Vadis, di Henryk Sienkiewicz (1846-1916), premio Nobel nel 1905: sullo sfondo torbido
della Roma neroniana, esso ospita la storia di Licia, figlia di re, portata in ostaggio a Roma, del suo gigantesco connazionale Ursus, e del giovane romano Vinicio, che s’innamora della ragazza. Ma Licia, cristiana, è destinata al supplizio nel circo: la salveranno la forza di Ursus e il coraggio di Vinicio che,
convertitosi, la condurrà sposa in Sicilia. Accanto a questi personaggi d’invenzione, Sienkiewicz fa agire i
personaggi della realtà storica, come Nerone, Tigellino, il suo spietato prefetto del pretorio, e soprattutto
Petronio, l’arbiter elegantiarum autore del Satyricon, rappresentato come un Dorian Gray dell’antichità (il
Ritratto di Oscar Wilde è del 1892).
In quegli anni l’Europa era attraversata dalla moda del romanzo archeologico di ispirazione cristiana,
anche sulla spinta della riscoperta delle Catacombe romane, avvenuta a partire dal 1849 ad opera di
Giovanni Battista De Rossi: si assiste così al successo di Fabiola di Wiseman (1855) e Càllista di Newton
(1856), mentre gli studi di storia del Cristianesimo si intensificarono, con la celebre Vita di Gesù di Renan
(1863).
Ma, senza dubbio l’opera più significativa, meritevole ancor oggi di essere letta, è proprio Quo vadis, con
i suoi personaggi vivamente sbalzati, la trama incalzante, lo sfondo indimenticabile:(62)
Tutta la pianura era coperta di fumo che formava quasi una nube immensa distesa sulla terra; in
quella nube scomparivano le città, gli acquedotti, le ville, gli alberi e all’estremità di quella orribile
distesa bruciava sulle colline l’Urbe.
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L’incendio però non formava una colonna di fuoco, come avviene quando arde un edificio isolato sia
pure grande. Il fuoco era piuttosto un lungo nastro fiammeggiante simile all’aurora. In quel nastro di
fuoco s’innalzava il fumo, in alcuni punti nerissimo, in altri rosato e dai riflessi d’oro, gonfio, denso,
accartocciandosi e allungandosi come le spire di un serpente. Quel fumo mostruoso sembrava a tratti
coprire anche il nastro di fuoco che si faceva sottilissimo, a tratti invece erano le fiamme ad illuminare il fumo dal basso, trasformando i suoi strati inferiori in ondate di fiamme che con il fuoco si
estendevano da un’estremità all’altra dell’orizzonte.
I monti Sabini erano invisibili.(63)
Anche un nostro grande poeta ambienta nella Roma neroniana una vicenda di morte e di resurrezione,
di cui una donna è protagonista. Si tratta di Giovanni Pascoli, col suo Pomponia Graecina, un poemetto
latino del 1909.
Interessante è ripercorrerne la genesi: Pascoli aveva in mente alcune pagine di Sienkiewicz, poi un’iscrizione alle catacombe di S. Callisto, dedicata a un certo Grekeinos, ma soprattutto il capitolo 32 del XIII
libro degli Annales di Tacito, secondo il quale “Pomponia Grecina, illustre donna moglie di quell’Aulo
Planzio che tornò con l’onore dell’orazione dell’impresa contro i Britanni, accusata di superstizione straniera, fu rimessa al giudizio del marito. Questi istruì il processo sulla vita e sull’onore di lei secondo l’antico costume e la proclamò innocente. Lunga vita ebbe questa Pomponia Grecina e in continua tristezza
sempre per quarant’anni si vestì a lutto e sempre fu mesta nel cuore”.
Nell’ispirazione pascoliana, causa di tanta mestizia è la lontana abiura, con la quale la matrona ha abbandonato al proprio destino il nipotino orfano Grecino, cristiano. Così, per lei, il Cristianesimo da speranza
di vita eterna si è mutato in disperazione, tragica consapevolezza della morte perenne, quando ogni affetto nil fuerit, non sarà più nulla. Il suo rimorso diventa angoscia, nel tremendo rogo neroniano, mentre
Roma è velata da un sangue vaporoso di fiamme, vaporato flammarum sanguine Roma velatur. I cristiani
affrontavano la morte perché avevano proclamato a gran voce ciò che ella aveva negato, ma se ne andavano a dormire nella pace, attendendo la luce dell’autentica vita, vitalis mane diei.(64)
Incapace di trattenersi, Pomponia si avvia alle catacombe, guidata da un canto sconosciuto e lontano: è
la nenia delle donne che cullano il corpo senza vita di Grecino, il nipotino ritrovato troppo tardi, dilaniato dalle belve, eppure tenero e più bello a vedersi che da vivo. Seguiamo da vicino i passi della donna:
Intanto Dio si manifestò nel fuoco e nel fumo di una notte cieca. Una nube di oscurità coprì la città,
nuvole veloci la cosparsero di faville infinite che i venti portavano duri e ringhiosi. Roma brucia come
un rogo e pare illuminare il mondo come l’immensa fiaccola della morte.
Poi piovve sangue. Innocenti perirono di spada e di fuoco. Altri, coperti di pelli belluine, furono dilaniati dai cani. Altri bruciarono, nei giardini di Nerone, come fiaccole fumose di pece e di zolfo. Padri
sulle croci, pastura dei corvi di Roma.
Fanciulle lanciate in aria dalle corna dei tori del circo, tra le grida della folla. Perché dicevano a
gran voce ciò che Grecina, nella sua infelicità, aveva negato. E quelle, accolto nel sangue il ramo di
palma, coperte nel corpo violentato dal manto bianco, andavano a dormire nella pace, sotto cripte
profonde, in attesa del mattino, del giorno della vita.
Grecina non potè resistere alla sua cupa angoscia: si allontanò da casa al tramonto, tutta attenta, per
la porta di servizio, vagando per le vie e i vicoli della città. [… ] Va sicura e lenta per tanti giri, tanti
luoghi per dormire e un respirare di sonno tranquillo le dà dolcezza; il sonno, desto, della morte che
respira ovunque. Poi a poco a poco quel rumore leggero cambia, diventa un canto, sconosciuto, infinitamente lontano. Come un unico morto che, da solo, cantasse in sogno e tutti, nel chiuso delle celle,
accompagnassero la melodia e le parole del cantore, tutti i fratelli e, con voce sottile, le sorelle.
Allora Pomponia cammina dietro il canto. Una nenia si fa più limpida, confusa a un lamento di
donna. Una nenia come quelle che si cantano perché il bimbo dorma. Sono bimbi tutti quelli che
muoiono, mutilati, eppure ancora una volta li mette nella culla in fasce, al levar delle stelle, una
madre attenta. Grecina distingue le parole del canto: “Nella pace” e intanto scorge fiaccole e un gruppo di uomini. “Che succede?” Nulla: sono ragazzi e ragazze dai capelli sciolti che versano l’olio profumato da ampolline di vetro. E altri che scuotono rami di palma e dicono a gara “Doxa soi en
Christò, gloria a te in Cristo”.
Madri con un bisbiglio di pianto che curano con mirra e dolce amomo il corpo senza vita di un bimbo.
È morbido, più bello che da vivo. Grecina ha paura a riconoscerne il viso. Eppure, piano piano, scosta gli astanti, s’insinua. O Dio, in alto, alla gola, sul petto bianco, c’è un morso, nel fianco un taglio,
nel ventre l’orrore di uno squarcio d’artiglio, e lei come una folle: “Ma che ha fatto?” dice, “Che ha
fatto? Ha proclamato il Cristo”. C’è a terra la pelliccia setosa di una fiera, dov’era nascosto quando
i molossi dilaniarono un fanciullo magro. “Qual è il nome?”, chiede Grecina. “Leggi”, dice l’uomo
che scava, “leggi pure”, e le indica una lapide. “Pomponios Grekeinos sta qui”.
Sulle membra dilaniate mettono una stola bianca. Oscilla mollemente dal peso la testa reclinata. I
suoi occhi abbracciano una madre tante volte chiamata e le chiede dov’è, se c’è ancora, il suo dolce
fratello.(65)
A un’operetta di argomento cristiano sono legati anche gli ultimi mesi di vita del Pascoli, tra 1911 e 1912.
Si tratta di Thallusa, la storia della giovane schiava che rivolge l’affetto, un tempo dedicato al figlioletto
rapitole, ai bambini della padrona.
Il carme muove da un celeberrimo verso virgiliano: Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem, comincia,
tenero bambino, a riconoscere la madre nel sorriso.(66) Pascoli immagina Thallusa intenta a cullare il neonato della domina, con una ninna-nanna fatta di parole smozzicate e dolci, che le fa tornare in mente il
suo bambino perduto:
Antonia Piva
La donna Paleocristiana Antropologia e Ideologia di una presenza
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flet Thallusa canens aeque memor immemor aeque
piange Thallusa cantando, memore e immemore a un tempo.(67)
Ed ecco il miracolo:
Ridet - ait Thallusa furens, oblita sui, nil
percipiens oculis aliud, nil auribus, omnis
in puero, risum lacrimans, deperdita - Ride!
Coepisti tandem risu cognoscere matrem
Ride - dice Thallusa, come pazza, dimentica di sé,
senza vedere né sentire altro, tutta protesa
al piccino, tra il riso e il pianto, come smarrita: Ridi!
Finalmente cominci a riconoscere col sorriso la madre!
(68)
Ma una schiava non ha diritto alla maternità; Pascoli polemizza col Manzoni che aveva chiesto:
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Perché, baciando i pargoli,
la schiava ancor sospira?
E il sen che nutre i liberi
Invidiando mira?
Non sa che al regno i miseri
Seco il Signor solleva?
Che a tutti i figli d’Eva
Nel suo dolor pensò? (69)
La conclusione di Pascoli, invece, è tragica: l’indomani un nuovo compratore strapperà via Thallusa da
quell’affetto illusorio. Anziché la liberazione, il Cristianesimo può solo recare il conforto alle vittime che
la storia - fatta di potere e sopraffazione - calpesta e lascia ai margini, come le tante e tante donne dei
primi secoli cristiani.
5. Nelle catacombe
Non lontano dall’estrema cinta delle mura, presso il Pomerio, s’apre in profondità una cripta dalle
oscure fosse. Conduce nell’oscurità di essa un sentiero in discesa, con gradini rientranti, attraverso
anfratti dove manca la luce. Essa infatti vi entra appena dall’apertura superiore e rischiara la soglia
del vestibolo.
Quindi, avanzati con facilità, quando l’oscurità sembrò raddensarsi in una notte oscura attraverso la
spelonca malsicura, si vedono delle aperture sulla sommità della volta, che gettano raggi luminosi nel
sotterraneo.
Da una parte e dall’altra stretti vani formano recessi misteriosi sotto le oscure gallerie; tuttavia, dentro le profonde viscere del monte tagliato, dalla volta forata, la luce penetra abbondante.
E così, attraverso i sotterranei, si può vedere lo sfavillare del sole che vi manca e godere dei suoi
raggi.(70)
Così scrive lo spagnolo Prudenzio, il grande cantore del primo Cristianesimo. Ma per assaporare meglio
il fascino dei suoi distici, riandiamo al 1849, quando un giovane archeologo, Giovanni Battista de Rossi,
entrava in una vigna tra l’Appia e l’Ardeatina: il suo sguardo colse una lastra di marmo spezzata, con un
frammento d’iscrizione, NELIVS MARTYR, che egli completò in <Cor>nelius Martyr. Era l’iscrizione
sepolcrale di papa Cornelio, morto martire a Civitavecchia nel 253 e lì sepolto. Sotto quella vigna si trovava il “cimitero ufficiale” della Roma cristiana del III secolo, le Catacombe di San Callisto, con la Cripta
dei Papi, il sepolcro di santa Cecilia e la lunga iscrizione poetica di papa Dàmaso (360-382).
Nell’antichità, Roma non conosceva luoghi di sepoltura comunitaria, come ai giorni nostri; al di fuori della
cerchia muraria cittadina, con lo spazio delimitato dal cosiddetto Pomerio, era possibile provvedere a piacimento all’edificazione dei sepolcri, per lo più situati lungo le vie consolari. Poiché i cristiani avevano
una concezione del tutto particolare della morte, diverso era anche il modi porsi di fronte alla sepoltura:
in attesa della resurrezione della carne, quando il giudizio universale avrebbe ricostruito l’unità e identità del defunto, i cadaveri ‘dormivano’, inumati nella tomba, mentre l’anima continuava la propria esistenza soprannaturale. Per questo, i luoghi di tumulazione si chiamavano cimiteri, dal greco koimáo,
dormo. Era la morte a permettere al Cristiano l’inizio della vera vita; e dies natalis, giorno di nascita, era
detto il giorno della morte per un martire.
I cimiteri cristiani, in ottemperanza alla legge delle XII Tavole, sarebbero stati scavati fuori dalla città,
vicini dunque ai sepolcri pagani. Solo in età medioevale, si utilizzò il termine catacomba per i primitivi
cimiteri cristiani, da un toponimo, Catacumbas (= presso le cavità) che indicava l’accesso a cave di tufo.
Le catacombe non furono segreto luogo di rifugio, come erroneamente si pensa: erano dunque cimiteri
sotterranei, noti alle autorità.
Poiché la Chiesa delle origini non disponeva di luoghi di culto cittadini, se non in case private messe a
disposizione dai fedeli facoltosi, esse servirono per raduni di preghiera e celebrazione dell’Eucarestia; solo
sporadicamente furono usate come possibilità di scampo, in base al diritto di asilo, previsto in casi analoghi dalle disposizioni giuridiche romane. All’epoca di Costantino, che nel 313 aveva concesso libertà di
culto, la proporzione tra cimiteri sotterranei e sovraterra restava a favore dei primi, circa 2/3.
Il rito funebre cristiano avveniva nell’immediato sopraterra, in un oratorium comunicante con il sottosuolo; seguiva la depositio, la sepoltura vera e propria, con il sacrificio eucaristico e l’epulum, il banchetto
funebre. Il refrigerium era invece un’austera offerta di cibi sparsa sul sepolcro, a scopo commemorativo.
Scendere nelle catacombe dà un senso di sconcerto: all’oscurità e alla ristrettezza del luogo fanno da contraltare immagini di pace e mitezza, come quelle suggerite da simboli tracciati con semplicità quasi ingenua: la colomba, l’agnello, il pesce, il tralcio di vite… Anche le iscrizioni catacombali ci portano per lo
più a vicende dimesse, quasi senza storia, trascorse tra i pacati affetti familiari. Il loro latino attinge al
sermo humilis ed è ormai ibridizzato col greco, segnale di una comunità per nulla attenta all’autorità dei
testi classici, tutta tesa, com’era, a un solo modello: Cristo.
Molte iscrizioni trattengono il ricordo di ragazze e di donne. Eccone qualcuna, dalle catacombe di S.
Callisto:(71)
FL. CRISPINVS AVRELIAE ANIANE BEN. M. COIVGE QVE VIXIT AN XXVIII QVEM COIVGE HABVI AN VIIII KARITATE SINE VLA ANIME MEI LESIONE VALE MICHI KARA IN
PACE CVM SPIRITA XANTA VALE IN XP.
Flavius Crispinus Aureliae Anianae benemeritae coniugi, quae vixit annos XXXVIII quem coniugem
habui annos VIII (cum) caritate sine ulla animae meae lesione. Vale, mihi cara, in pace cum spiritis
sanctis, vale in Christo.
Flavio Crispino ad Aurelia Aniana, benemerita sposa che visse 28 anni, che ebbi in sposa per 8
anni con amore, senza che mi procurasse alcuna afflizione dell’animo. Stammi bene, cara, in pace,
tra le anime sante. Stammi bene in Cristo.
Antonia Piva
La donna Paleocristiana Antropologia e Ideologia di una presenza
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MIRAE BONITATIS SECVNDE QVAE VIXIT PVRA FIDE ANNOS VIGINTI PVDICA CESSAVIT IN PACE ID VIRGO FIDELIS BENEMERENTI QVIESCET ID IVL PALVMBO SINE FELLE
Mirae bonitatis Secundae, quae vixit cum pura fide annos viginti pudica. Cessavit in pace id virgo
fidelis. Benemerenti quiescet idibus Iuli palumbae sine felle.
A Seconda, di mirabile bontà, che visse con fede pura vent’anni, castamente. Questa vergine fedele morì in pace. Alla benemerita, (che) riposa dal 15 luglio, alla colomba senza fiele.
FVIT MIHI NATIBITAS ROMANA NOMEN SI QVERIS IVLIA BOCATA VIXI MVNDA CVM
BYRO MEO FLORENTIO CVI DEMISI TRES FILIOS SVPERSTETES MOX GRATIA DEI PERCEPI SVSCEPTA IN PACE NEOFYTA
Fuit mihi nativitas Romana. Nomen si quaeris Iulia vocata. Vixi munda cum viro meo Florentio cui
demisi tres filios superstetes. Mox gratia Dei percepi suscepta in pace neofita.
Nacqui a Roma. Se chiedi il mio nome, fui chiamata Giulia. Vissi fedele con il mio sposo Florenzo,
al quale lasciai tre figli che ancora vivono. Non appena ricevetti la grazia di Dio, morii in pace da
neofita.
PETRONIAE AVXENTIAE. C. F. QVE VIXIT ANNIS XXX LIBERTI FEC. BENEMERENTI IN
PACE
Petroniae Auxentiae, clarissimae foeminae, quae vixit annos XXX liberti fecerunt benemerenti, in
pace.
A Petronia Aussenzia, donna illustre, che visse 30 anni, benemerita, i suoi liberti costruirono il
sepolcro. Riposi in pace.
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SEVERA DVULCIS PARENTIBVS ET FAMVLIS REDDIDIT VIII FEBRARIAS VIRGO KALENDAS QVAM DOMS NASCI MIRA SAPIENTIA ET ARTE IVSSERAT CORPVS HIC EST
SEPVLTVM DONEC RESURGAT AB IPSO QUIQVE ANIMAM RAPVIT SPIRITV SANCTO SVO
CASTAM PVDICAM ET INVIOLABILE SEMPER QVAMQVE ITERVUM DOMS SPIRITALI
GLORIA REDDET QVAE VIXIT ANNOS VIIII ET XI MENSES XV QVOQVE DIES SIC EST
TRANSITATA DE SAECVLO.
Severa, dulcis parentibus et famulis, reddidit (animam) ante diem octavum Febrarias Calendas, virgo,
quam Dominus nasci mira sapientia et arte iusserat. Corpus hic est sepultum donec resurgat ab ipso
quique animam rapuit spiritu sancto suo castam pudicam et inviolabilem semper quamque Dominus
spirituali gloria reddet. Quae vixit annos novem, et undecim menses, quindecim quoque dies. Sic
transivit de saeculo.
Severa, dolce per i genitori e i servi, morì vergine il 25 gennaio, ella che Dio aveva decretato
nascesse adorna di straordinaria sapienza e qualità. Qui è sepolto il suo corpo, sinché risorga, per
opera di quello stesso che rapì la sua anima casta, pudica e sempre inviolabile, con il suo santo spirito. E di nuovo gliela renderà, adorna di gloria spirituale. Ella visse nove anni, undici mesi e quindici giorni. Così è passata dalla vita terrena.
Questi testi(72) ci permettono di indagare la funzione della donna all’interno della prima comunità cristiana.(73)
La morte di una persona cara è sempre dolorosa per tutti: anche Gesù piange per l’amico Lazzaro.(74)
La promessa della resurrezione deve però mutare il pianto in serenità, mentre la preghiera è vista come
unione tra vivi e morti, considerato che anche le anime beate dei defunti intercedono per noi presso Dio.
Così, senza eccessiva nostalgia, le lapidi ci tramandano il semplice e affettuoso ricordo della vita dome-
stica. Il matrimonio non è per il cristiano un patto civile, ma una comunione di anima e di corpo che ricorda quella tra Gesù e la sua Chiesa: in questa chiave simbolica i Padri della Chiesa lessero il Cantico dei
Cantici.
Ne consegue l’esigenza di una totale fedeltà tra i coniugi e di integrità nei costumi, per realizzare nella
casa un tempio domestico. Tra gli sposi intercorrono dei doveri reciproci, anche se la donna ha un ruolo
subalterno, basato sull’obbedienza all’uomo e su una partecipazione più discreta alla vita ecclesiale, esclusa com’è dal sacerdozio, prerogativa maschile. Bandita ogni dissolutezza, nell’intimità i due coniugi devono appartenersi l’un l’altro senza indulgere nel piacere.
Uno spazio importante spetta ai bambini:(75) essi costituiscono un esempio di innocenza e testimoniano l’amore fecondo di Dio, allevati fin da piccoli nella partecipazione alla vita liturgica.
L’amicizia e la benevolenza familiare si trasmettono all’intera comunità, tanto da assicurare a tutti, anche
agli orfani, ai poveri e ai perseguitati, sostegno concreto in ogni circostanza.
Così raccomanda la lettera agli Ebrei, attribuita a Paolo: “Perseverate nell’amore fraterno. Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo. Ricordatevi dei carcerati,
come se foste loro compagni di carcere, e di quelli che sono maltrattati, in quanto anche voi siete in un
corpo mortale. Il matrimonio sia rispettato da tutti e il talamo sia senza macchia. I fornicatori e gli adulteri saranno giudicati da Dio. La vostra condotta sia senza avarizia; accontentatevi di quello che avete”.(76)
6. Un nuovo modello di comportamento
Discreta, remissiva ma al tempo stesso ferma, aliena da ogni civetteria e vanità: questo il modello femminile cristiano delle prime generazioni, ma anche, a ben guardare, di quelle a venire. Gesù non prescrive
una condotta femminile anziché un’altra; di questo si occupano S. Paolo e i padri della Chiesa. La sottomissione della Chiesa a Cristo deve essere il paradigma che la donna deve utilizzare nel matrimonio, mentre spetta all’uomo amare e proteggere la sposa, sull’esempio dell’amore redentore di Gesù per la
Chiesa.(77)
S. Girolamo, nella sua lettera ad Eustochio, nota come epistula de virginitate, tratteggia un comportamento
ideale:
Leggi spesso ed impara quanto più puoi. Che il sonno ti colga con un libro in mano; che la tua faccia cadente per il sonno incontri una pagina santa. Devi fare digiuno ogni giorno e prendere un pasto
che eviti la sazietà. A nulla giova digiunare per due o tre giorni, se poi ci si carica lo stomaco, se si
compensa il digiuno con la sazietà. Così la mente si intorpidisce subito per questa pienezza e, come
una terra abbondantemente irrigata, germina le spine della libidine. E quando ti accorgerai che l’uomo sospira per cogliere il fiore della tua adolescenza, afferra allora lo scudo della fede, nel quale si
estinguono le infuocate saette del diavolo. […]
Di questo anzitutto ti ammonisco e ti scongiuro: la sposa di Cristo fugga il vino come il veleno. Questa
è la prima arma dei demoni contro la giovinezza: vino e giovinezza, doppio incendio di voluttà! (78)
La lettera esorta alla verginità come forma incruenta di martirio: la claustrazione monacale enfatizza questa testimonianza. Girolamo stesso aveva scelto il ritiro eremitico, al quale volle condurre la nobildonna
Paola e la figlia Eustochio. Infatti, come Cristo si era immolato, l’eremita immolava se stesso con la rinuncia e la penitenza: solo indebolendo l’uomo carnale, si rafforzava quello spirituale, in un mondo in cui i
desideri repressi si proiettavano in continue visioni diaboliche. O desertum Christi floribus vernans!, O
deserto ove sbocciano i fiori di Cristo!:(79) questa era un po’ la soluzione propugnata da Girolamo.
Il modello della pagina di Girolamo è classico, quello cioè della lettera aperta, con la quale si indirizza a
un destinatario concreto un vero e proprio trattato. Il contenuto è invece anticlassico, con la rinuncia a
Antonia Piva
La donna Paleocristiana Antropologia e Ideologia di una presenza
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quella centralità dell’uomo sulla terra che della classicità era stata la sigla. Nella difficile, talora allucinata, scalata alla vita contemplativa, solo la fede soprannaturale colma la debolezza umana: il contemptus
mundi, il disprezzo del mondo tipico del Medioevo cristiano trova qui il proprio modello.
Per il cristiano, la purezza è un valore privilegiato, in un dualismo accentuato anima / corpo che tende a
escludere la concupiscenza, giacché “la purificazione del cuore esige la preghiera, la pratica della castità, la purezza dell’intenzione e dello sguardo”.(80)
Contrariamente a come la pensavano i greci e i latini, il piacere fine a se stesso è concepito come radice
di disordine morale, spadroneggiamento delle passioni e degli istinti, dunque come peccato. Ne consegue
che nulla, negli atti come nell’abito, deve essere strumento di lusinga. Nasce un nuovo concetto di bellezza: pudico, raccolto, interiorizzato, di cui sarà esempio, secoli dopo, la Lucia manzoniana.
Il primato della castità non era, comunque, una cosa nuova nel mondo ebraico: così, ad esempio, la pensavano gli esseni, una comunità esclusivista insediatasi nel deserto a partire dal II a.C., la cui regola fa
parte dei manoscritti ritrovati a Qumrân, là dove si trovava il monastero riservato ai membri celibi, mentre alcuni sposati svolgevano attività di inservienti. Gli esseni credevano nell’immortalità dell’anima, prigioniera del corpo, corruttibile; nel giudizio finale e nella risurrezione. Avversavano ogni forma di
violenza, non ammettevano la schiavitù, respingevano il commercio e la proprietà privata; praticavano la
castità e il sesso era lecito solo a scopo procreativo.
Nella concezione cristiana, dalla Patristica ai giorni nostri, la sessualità investe la persona nella sua globalità, segno e luogo del rapporto interpersonale al servizio della donazione di sé, della comunione con
l’altro, secondo una personale chiamata, matrimoniale o celibataria.(81) Anche il matrimonio, insomma, è
una vera e propria vocazione.
Agostino, nel ritrarre la propria madre, Monica, che tanta parte ebbe nella sua conversione, ci consegna
il tipo perfetto della sposa cristiana:
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Allevata così nella pudicizia e nella temperanza, sottomessa ai genitori da Te piuttosto che a Te dai
genitori, quando ebbe raggiunta l’età conveniente andò a marito: e lo servì come un padrone, studiandosi di guadagnarlo a Te: parlava di Te a lui con quella virtù di cui la abbellivi e che la rendevano rispettata, amata e ammirata.
Ne tollerò le infedeltà tanto da non farne mai motivo di litigio, ma attendeva la Tua misericordia su
di lui, affinché la fede lo rendesse casto. In realtà, egli era molto affettuoso, ma anche molto irascibile; ella però aveva imparato a non opporsi alle sue sfuriate né con i fatti né con le parole; quando
poi, sbollita la collera, lo vedeva quieto e ben disposto, gli spiegava i motivi della sua condotta, se le
pareva che si fosse adirato a torto. […]
Ella sapeva esercitare, quando poteva, un’azione pacificatrice tra caratteri dissidenti e discordi, perché anche quando aveva ascoltato dalle due parti le accuse più atroci, quali suole vomitare un’animosità gonfia e inacidita nei colloqui con un’amica trasudanti crudo odio contro la nemica assente,
non riportava mai da una all’altra se non quel tanto che poteva servire a riconciliarle. […]
Tale era la madre mia: Tu le sei stato maestro segreto nella scuola del suo cuore. E infine guadagnò
a Te, sullo scorcio della sua vita terrestre, anche il marito, ed in lui, divenuto cristiano, non ebbe più
a lamentare quello che aveva sopportato nel non credente.(82)
Se l’autentico spirito cristiano valorizza la dignità della donna, è pur vero che non mancano radicalizzazioni in chiave misogina. È il caso di Tertulliano:(83) nel De cultu feminarum, egli sottolinea la continuità
tra le donne ed Eva, vera e propria ianua diaboli, ella che persuase l’uomo al male. Dunque, le donne
dovranno perennemente scontare nella mortificazione degli atti e delle vesti la colpa della loro progenitrice: “Tertulliano non ha sentito l’anima femminile, non ha compreso che, sotto l’abito di porpora e rica-
mi, batteva un cuore corrotto quanto si voglia, ma pur degno di redenzione. Egli ha gettato tutte le peggiori colpe sui delicati omeri femminili e ha fatto dell’uomo una vittima paziente e rassegnata. Tertulliano
non ha saputo interpretare la sottile seduzione della donna, il fascino che ispira e che non è, come a lui
parrebbe, sempre fonte di basse passioni, ma può diventare poesia altissima. Egli non vede nel corpo perfetto della donna bella un’opera d’arte, comprese solo che questo corpo tentatore bisognava rivestirlo di
gramaglie, che bisognava abbassare il capo e nascondere il viso imbellettato e gli occhi dardeggianti sotto
il velo prescritto. Io credo che egli non sia stato, nella vita pratica, odiatore delle donne. Ha parlato troppo di esse, mentre non si dovrebbe rivelare ciò che si disprezza. Se ne è occupato con tale compiacenza,
le ha seguite con cura così convinta con tutti i particolari fino a tradire, forse, in fondo all’animo, il culto
del sesso debole”.(84)
7. Il genio femminile
L’analisi della figura femminile, così come il Cristianesimo la concepì nei suoi primi secoli di vita - dinamiche antropologiche, aspetti ideologici e dottrinali, esiti artistici e letterari - ci conduce, inevitabilmente,
a una domanda: esiste uno specifico femminile che nessuna rivoluzione storica potrà eliminare, una caratteristica innata e primigenia che si dipana generazione dopo generazione? Esiste un animo e un intelletto
al femminile e, anzi, un ruolo specifico della donna come spartiacque della storia?
Possiamo rispondere con le parole utilizzate da Madre Teresa di Calcutta nel 1975, in un suo discorso al
convegno di Città del Messico per l’Anno internazionale della Donna:
Se una donna svolge il proprio ruolo nella famiglia, se c’è pace all’intorno, ci sarà pace nel mondo.
Esiste il potere della donna che nessun uomo potrà supplire: il potere di dare la vita, il potere dell’amore. La grandezza delle donne sta nel loro amare gli altri, non se stesse. Ciò che regge il mondo è
l’amore delle donne di cui nessuno sa niente.
Questo amore che, vivendo nell’ombra, illumina gli altri e ci restituisce il profumo della vita, è un po’ il
segreto della donna cristiana, e del suo modello, Maria, madre di Gesù. A questo certo pensava Antoni
Gaudì, quando lasciò scritto sul soffitto di Casa Milà,(85) a Barcellona:
Verge Maria, not sapigue de ser petita, tambè lo son les flors y lo son les estrelles,
Vergine Maria, non dispiacerti di essere piccola, perché lo sono i fiori e le stelle.
(marzo 2004)
Antonia Piva
La donna Paleocristiana Antropologia e Ideologia di una presenza
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NOTE
1)
In tal senso, si vada al catalogo delle beatitudini presentato da Matteo 5, 1-2.
2)
Nei suoi Sermones (56, 6, 9), riprendendo il tema della povertà evangelica, Agostino darà questa definizione: "L'uomo è
mendicante di Dio", una frase che trova riscontro in un'analoga sentenza musulmana: "Siamo tutti poveri, solo Dio è ricco".
3)
Si veda a tale proposito la pagina del Magnificat, il canto di lode pronunciato da Maria, madre di Cristo (Luca 1, 47-55),
tutto intessuto di rimandi ai salmi e ai libri profetici. Accanto alle Beatitudini proclamate da Gesù, il Magnificat rappresenta
un po' la magna charta dei cristiani. È interessante, ai fini della nostra trattazione, ricordare che il canto di Maria è inserito in un episodio stupendamente al femminile: la visita della Vergine alla cugina Elisabetta, incinta del futuro Battista.
4)
Luca 22, 53.
5)
Matteo 10, 34; 39.
6)
È molto indicativo della fondamentale incomprensione nei confronti dei cristiani il carteggio intercorso tra Plinio il Giovane,
legato imperiale in Bitinia tra 112 e 113, e l'imperatore Traiano (Epistulae X, 96; 97). A Plinio che chiede istruzioni sul
da farsi, l'imperatore raccomanda di applicare il codice, specificando alcuni aspetti: vanno rifiutate le delazioni, è opportuno chiarire a chi viene denunciato le possibili sanzioni, vanno esortati i cristiani ad abiurare per non incorrere nella pena
capitale, è lecita la tortura durante gli interrogatori. Si può per altro dire che questa era la prassi 'equamente' applicata da
Roma nella sua procedura penale.
7)
P. Brown, Il mondo tardo antico, trad. it. Torino, Einaudi, 1974, p. 53.
8)
Apologeticum 1, 2.
9)
Epistola I, 2, 15; 5, 13.
10) Questo fenomeno dette luogo, nel Cristianesimo africano successivo all'editto di tolleranza costantiniano, allo scisma di
Donato, che negava la possibilità di riaccogliere nel seno della Chiesa chi se ne fosse allontanato per timore delle persecuzioni. Contro il Donatismo si erse, alla fine del IV secolo, la parola e l'opera di S. Agostino.
11) Apologeticum 37, 4.
12) Cipriano, epistola 37.
13) Dovuti l'uno a Costantino, l'altro a Teodosio.
14) Nella scena dall'annunciazione ella chiede esplicitamente all'angelo come sia possibile la sua maternità verginale: Luca 1,
34.
15) Giovanni 2, 1-12.
16) Giovanni 19, 26. Si può dire che l'attività pubblica di Gesù, come tratteggiata dall'evangelista Giovanni, ha proprio Maria
come cippo di confine, da Cana al Golgota.
17) Atti degli Apostoli 1, 14.
18) È l'incipit della preghiera alla Vergine pronunciata da S. Bernardo nel XXXIII del Paradiso.
19) Il motivo della ierogamia, cioè del rapporto sponsale sublimato come metafora religiosa, è presente in tutte le culture mediterranee: nell'antico Egitto il dio Amun si accosta alla regina con l'aspetto di un re, per unirsi a lei; presso i babilonesi, il
sovrano era sacerdote ma anche sposo della dea Istar; si pensava che la Pizia, sedendo sopra la fonte Castalda, si congiungesse col dio Apollo.
20) Salmo 45, 12.
21) Isaia 62, 4.
22) Geremia 2, 2.
23) Cantico dei cantici 3, 11.
24) Così nella parabola delle vergini stolte e delle vergini savie: Matteo 25, 1-13.
25) Apocalisse 21, 2; 9.
26) Manzoni, La Pentecoste, vv. 1-4.
27) Così nell'enciclica di Giovanni XXIII sulla dottrina sociale, promulgata il 15 maggio 1961.
28) Giovanni 4, 4-42.
29) Matteo 15, 21-28. È interessante sottolineare la carica destabilizzante e, dunque, esemplare di questi incontri: i samaritani e i cananei erano guardati con sospetto dagli ebrei, dei quali non condividevano i riti, e dunque esclusi dalle attese del
cosiddetto 'popolo eletto'. Anche nella cultura greca, come attesta Euripide, la connaturata debolezza del ruolo femminile
si faceva davvero drammatica se si era straniere.
30) Marco 12, 41-44. A Naim, invece, avrà compassione dell'"unico figlio di una madre vedova", destandolo da morte: "ed
Egli lo restituì alla madre" (Luca 7, 11-17).
31) Luca 7, 36-50.
Antonia Piva
La donna Paleocristiana Antropologia e Ideologia di una presenza
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32) Giovanni 8, 3-11.
33) Il brano è tratto da un catechismo storico che don Lorenzo Milani compose tra 1948-49, per i bambini della V elementare di Calenzano, e che venne stampato solo postumo: L. Milani, Il Vangelo come catechismo, Firenze, LEF, 1997, pp. 8890.
34) Luca 10,38-42.
35) L. Sebastiani, Il concreto dello spirito. Gesù celibe, "Rocca", LXII (2003), 20, p. 56.
36) Luca 8, 1-3.
37) Luca 23, 55-56.
38) Giovanni 20,1-18.
39) È il celebre Noli me tangere, ricreato pittoricamente da molti artisti, come Giotto, Beato Angelico, Rembrandt, Tintoretto.
40) L'iconografia ce la consegna con i lunghi capelli sciolti e l'ampollina d'unguento profumato, come nella celebre Maddalena
penitente dipinta da Tiziano nel 1523, conservata a Palazzo Pitti; nella Maddalena di Caravaggio, del 1596-7, oggi alla
Galleria Doria Pamphilj di Roma, accanto al vasetto di profumo, stanno dei gioielli abbandonati per terra, segno del raggiunto disprezzo del lusso e delle ricchezze.
41) De haruspicum responso 9, 19.
42) Annales XV, 54.
43) Possiamo ricordare le seguenti tappe: 43, primo viaggio di Pietro a Roma; 64, incendio di Roma e prima persecuzione ad
opera di Nerone; 67, Pietro e Paolo sono trucidati a Roma; 95, persecuzione di Domiziano; 202, editto di Settimio Severo
contro giudei e cristiani; 250, persecuzione di Decio; 303, culmine della persecuzione di Diocleziano. Le persecuzioni di
Domiziano, di Settimio Severo, di Decio furono organizzate con forza e razionalità, ma non portarono, di là delle carneficine, l'esito sperato. Anzi, mentre la crisi dell'impero - istituzionale, economica, militare - andava estendendosi, il
Cristianesimo acquistava nuovo vigore, sia grazie alla capillare organizzazione comunitaria sia alla penetrazione sempre
maggiore nei ceti sociali più elevati e negli stessi ranghi dell'imperium militare. Con Diocleziano si giunse a una sorta di
'soluzione finale': tra 295 e 305 d.C. scatta la repressione più feroce, intesa come una metodica opera di polizia. Neppure
ciò estirpò il 'problema', che l'imperatore Costantino - figlio della cristiana Elena, anche se egli si battezzerà solo prima
della morte - pensò di gestire in modo completamente nuovo: diede ampie garanzie ai cristiani, in modo che la forza della
loro ideologia e la robustezza della loro organizzazione potesse dare linfa fresca all'impero.
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44) Epistola I, 2, 13.
45) Retorica I, 15.
46) Matteo 10, 17-18.
47) Atti 6-8, 2.
48) Origene, Commento al Vangelo di Giovanni 2, 28.
49) Martyrium Polycarpi 14, 2.
50) La dottrina cristiana del carisma è compiutamente elaborata nella prima epistola di S. Paolo ai Corinzi.
51) L'opera, scolpita nel 1600, riproduce nel marmo la posizione del corpo in cui fu ritrovata la martire durante gli scavi di
restauro della chiesa dedicatale a Trastevere.
52) Per queste vicende a metà tra storia e letteratura, notevole importanza riveste la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine: una
raccolta duecentesca di storie edificanti, spesso pittoresche, messe assieme da tradizioni diverse. Di grande valore, poi, il
Peristephanon liber di Prudenzio, tra IV e V secolo: 14 carmi dedicati, come dice il titolo greco, alle corone dei martiri,
come S. Lorenzo, S. Agnese, S. Eulalia.
53) La chiesa risale al vescovo Agnello (556-558).
54) Apocalisse 21, 1-2.
55) A. Wikenhauser, L'Apocalisse di Giovanni, trad. it. Milano, Rizzoli, 1983, p. 29.
56) L'origine africana del latino cristiano è disputata dagli studiosi. Altri preferiscono parlare di un'origine romana: nel II secolo la comunità cristiana di lingua latina è in aumento, rispetto all'originale base grecofona; cresce allora la richiesta di traduzioni, la prima delle quali fu quella dell'epistola di S. Clemente ai Corinzi, forse più antica degli stessi Acta Martyrum
Scillitanorum.
57) L. Palmer, La lingua latina, trad. it. Torino, Einaudi, p. 248.
58) La passio ricevette nel III secolo, forse da Tertulliano, la sua forma definitiva. Essa ingloba il diario che Felicita tenne in
carcere. La tradizione vuole che Felicita fosse la schiava di Perpetua: queste distinzioni di STATUS non avevano valore alcuno nelle comunità cristiane e non infrequenti erano i casi dei padroni convertiti dai loro servi.
59) Sappiamo che i capelli scarmigliati erano per i pagani segno manifesto di lutto.
60) Passio Perpetuae et Felicitatis 20.
61) Tacito, Annales XV, 54; Svetonio, Vita di Nerone 38.
62) Non va dimenticato, per altro, che l'autore aveva studiato Filologia Classica all'Università di Varsavia e possedeva una conoscenza minuziosa dell'età neroniana.
63) Capitolo 42.
64) Pomponia Graecina, vv.196; 232-233; 217.
65) Pomponia Graecina, vv. 198-220; 268-302.
66) IV Bucolica, v. 60.
67) Thallusa, v. 180.
68) Thallusa, vv. 188- 192.
69) La Pentecoste, vv. 65-72.
70) Prudenzio, Peristephanon XI, vv. 153-168.
71) ICVR IV, 12566; 9558; 11927; 10085; 10183.
72) Per una maggiore comprensione ai non specialisti, la trascrizione epigrafica è accompagnata da una resa con i canoni del
latino classico.
73) Sotto il profilo linguistico, nella iscrizione di Aurelia Aniana, oltre alla chiusura del dittongo (es. anime per animae), notiamo dei grecismi grafici, come kara per cara, karitate per caritate, xanta per sancta, la velarizzazione di michi per mihi,
alcune incertezze nell'uso dei casi, ad esempio cum spirita al posto di cum spiritis. In quella di Seconda è presente uno slittamento sematico, per cui la bonitas non è più la virtù civile della probità (ricordiamo il paradigma catoniano del vir bonus
dicendi peritus o il tentativo politico ciceroniano del consensus omnium bonorum), ma quella religiosa della mansuetudine.
In quella di Giulia ci sono grecismi fonetici, con natibitas al posto di nativitas, bocata al posto di vocata e byro al posto di
viro, poiché nel greco tardo la lettera beta rende il nostro suono [v]. In quella della piccola Severa rilevante è la forma perifrastica intransitiva est transitata (è passata) al posto del classico transivit, con l'introduzione dell'ausiliare sum; esso, utilizzato in latino nella diatesi passiva, rende in italiano gli intransitivi, oltre che i passivi (es. è arrivato, è vinto).
74) Giovanni 11, 1-45.
75) Si afferma col Cristianesimo la cosiddetta infanzia spirituale: il bambino, proprio nella sua ingenuità incorrotta, è modello
anche per gli adulti. Gesù esorta espressamente in tal senso: "se non vi convertirete e non diventerete come i fanciulli, non
entrerete nel regno dei cieli" (Matteo 18, 3).
La diversità rispetto agli antichi è notevolissima. Sostanzialmente, nel mondo antico non c'è grande considerazione o spazio per i bambini. La loro condizione oggettiva, di individui imperfetti, senza tutela economica, li esponeva all'indifferenza
o agli abusi degli adulti; la loro condizione soggettiva, di creature delicate, d'altro canto, ritagliava per loro piccoli spazi
domestici, senza una reale centralità. Vilipeso o vezzeggiato, il bambino antico non è mai, comunque, una persona, nella
pienezza spirituale oltre che giuridica del termine. Tanto meno è un esempio da seguire. Platone, nel Fedone, assimila proprio al bambino la paura che nasce dalla condizione irrazionale, uno stadio di ingenuità che bisogna superare grazie alla
filosofia. Nel periodo arcaico e classico, la cultura greca è pertanto una cultura matura, anzi, addirittura anziana. Il momento di maggiore dolcezza lo conosciamo con l'Iliade, nel celebre commiato di Ettore e Andromaca del libro VI. La scena è
impreziosita dal piccolo Astianatte, "simile a una chiara stella": egli urla spaventato alla vista dell'elmo paterno e strappa
un sorriso ai genitori che lo coprono di baci. Ma prevarrà il codice eroico ed Ettore si congederà dai suoi cari, per andare
incontro al destino di morte. Va segnalata piuttosto la quarta bucolica virgiliana, con l'annuncio della nascita del puer: si
trattava probabilmente del figlio di Asinio Pollione, ma il Medioevo vi scorse la profezia della venuta di Cristo, anche per
il clima di sospensione irenetica che caratterizza l'ecloga.
76) Lettera agli Ebrei, 13, 1-5.
77) S. Paolo, Lettera agli Efesini 5, 32.
78) Epistola 22, passim
79) Epistola 14.
80) Catechismo della Chiesa Cattolica, 2532.
81) È interessante il confronto tra la verginità della suora cristiana, che deve essere perpetua, come i restanti voti, e della vestale romana: essa, estratta a sorte tra una ventina di fanciulle dai 6 ai 10 anni proposte dal pontefice massimo, manteneva la
sua condizione per 30 anni, dopo di che poteva abbandonare il servizio sacro e maritarsi. Maggiori analogie riguardano
l'abbigliamento: la vestale utilizzava l'abito matronale, con le bende bianche, le infulae, a cingerle la fronte, le guance e il
mento, e un velo simile a quello nuziale.
82) Confessiones IX, 9.
83) Va precisato che Tertulliano aderì a una eresia, il Montanismo: essa, nata intorno al 170, così chiamata dal frigio Montano,
prevedeva la rinuncia assoluta al matrimonio e una disciplina di rigorosissima austerità.
84) G. Cortellezzi, Il concetto della donna nelle opere di Tertulliano, "Didaskaleion", II (1923), p. 61.
85) La frase è in catalano; per inciso, Gaudì aveva progettato di coronare il tetto del celebre palazzo, meglio noto come la
Pedrera, la cava di marmo, proprio con una statua della Madonna del Rosario.
Antonia Piva
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STAMPERIA
DELLA
PROVINCIA
DI
NOVEMBRE 2004
TREVISO
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