Lineamenti di una teoria degli oggetti sociali
Febbraio 2005. In corso di pubblicazione in A. Bottani-R. Davies (a c. di),
Ontologia della proprietà intellettuale, Milano, Angeli
Maurizio Ferraris
1.“Una immensa ontologia invisibile”
1.1. La birra di Searle
John Searle inizia la sua ontologia sociale1 sottolineando il fatto che gli oggetti di cui
si occupa sono ovvi (almeno in apparenza), non riducibili alla fisica, e invisibili.
Sembrano tre caratteri difficilmente compatibili, eppure non è così, come si vede nella
scenetta raccontata da Searle: “Io entro in un caffè a Parigi e siedo a un tavolino.
Viene il cameriere e io pronuncio un frammento di una frase francese. Dico: ‘Un
demi, Munich, à pression, s’il vous plaît’. Il cameriere porta la birra e io la bevo.
Lascio del denaro sul tavolo e me ne vado.” Apparentemente, tutto è visibile: le birre,
i tavolini, i camerieri, il denaro ecc. Ma non è così: la scena non è tanto semplice, e
soprattutto non è affatto interamente visibile.
Prosegue Searle qualche riga più sotto: “Si noti che non possiamo comprendere le
caratteristiche della descrizione che ho appena fornito attraverso il linguaggio della
fisica e della chimica. Non c’è nessuna descrizione fisico-chimica adeguata per
definire ‘ristorante’, ‘cameriere’, ‘frase in francese’, ‘denaro’ o anche ‘sedia’ e
‘tavolo’, sebbene tutti i ristoranti, i camerieri, le frasi in francese, il denaro e le sedie e
i tavoli siano fenomeni fisici.” E questo è un secondo aspetto che va notato.
Indubbiamente quelli che abbiamo visto sono oggetti fisici (comprese le frasi in
francese); ma, come sottolinea Searle, il linguaggio della fisica non ne esaurisce le
caratteristiche, visto che una frase in francese non si riduce alle vibrazioni che
produce nell’aria e nel timpano.
A questo punto entra in scena l’invisibile: “Va osservato, inoltre, come la scena
così descritta presenti un’enorme ontologia invisibile: il cameriere non è
effettivamente il proprietario della birra che mi ha portato, ma è assunto dal ristorante,
al quale la birra appartiene. Al ristorante viene richiesto di registrare una lista dei
prezzi di tutte le boissons, e anche se non vedrò mai questa lista si esige da me di
pagare soltanto il prezzo registrato. Il proprietario del ristorante è autorizzato a
esercitare dal governo francese. Come tale, è soggetto a un migliaio di norme e
regolamenti di cui non so nulla. Io ho diritto di essere qui in primo luogo solo perché
sono un cittadino degli Stati Uniti, in possesso di un passaporto valido, e sono entrato
legalmente in Francia.”2
Dov’è la selva degli oggetti invisibili? Eccola: “proprietario”, “assunto dal”,
“richiesto di registrare”, “esercitare”, “governo”, “norme”, “regolamenti”, “diritto”,
“cittadino”, “Stati Uniti”, “passaporto valido”, “Francia”… Questi sono gli oggetti
sociali. E si direbbe che Searle si accinga a scrivere una appendice alla Teoria
1
2
Searle 1995.
Searle 1995: 9-10.
dell’oggetto di Meinong3, intrecciandola con I fondamenti a priori del diritto civile di
Reinach4.
Infatti, da una parte, Searle sembra invitarci, con Meinong, a scartare il
pregiudizio a favore del reale: la presenza fisica di tavoli e sedie non è la sola forma
di presenza possibile. In qualche modo, sono oggetti persino il rotondoquadrato e
Pegaso, figuriamoci poi i “cittadini degli Stati Uniti”; quando ci riferiamo a un
rotondoquadrato non ci riferiamo a un ferro ligneo, quando ci riferiamo a Pegaso
abbiamo in mente un oggetto diverso da Bucefalo, e quando menzioniamo i “cittadini
degli Stati Uniti” non ci riferiamo (ancora) ai “cittadini dell’Iraq”.
D’altra parte –e d’accordo con Reinach- questi oggetti invisibili non sono
chimere o immaginazioni, ma comportano conseguenze reali. L’ontologia invisibile
non è una zoologia fantastica alla Borges, né una classificazione di gerarchie
angeliche. È un mondo di leggi, istituzioni, obblighi dotati di una esistenza
indipendente rispetto ai nostri singoli atti di volizione e di immaginazione. Non si
identificano semplicemente con la nostra volontà e non sono fatti della stessa stoffa di
cui sono fatti i sogni, visto che io prometto qualcosa lunedì e la promessa esiste
ancora venerdì, quando magari ho cambiato idea o persino me ne sono dimenticato
(basta che se ne ricordi il promissario, o meglio ancora che ci sia qualcosa di scritto).
Ora, come si conciliano l’invisibilità e la solidità? La risposta di Searle è che gli
oggetti sociali sono oggetti di ordine superiore i cui inferiora sono costituiti da oggetti
fisici, da cui traggono buona parte della loro solidità. Il prezzo è quello di 25 centilitri
di un liquido, la birra; il cittadino degli Stati Uniti pesa 73 chili (e anche il cameriere
ha un peso, sebbene lo ignoriamo); il denaro consiste in pezzi di metallo e di carta.
Quando entriamo nel mondo sociale non accediamo a un universo spirituale, bensì a
un misto di oggetti fisici e di atti psichici a cui possono (ma non necessariamente
devono, visto che un accordo si può siglare con una stretta di mano) corrispondere
degli atti linguistici. Il vantaggio che Searle si ripromette da questa impostazione è
duplice. Da una parte, nell’immediato, riesce a sottrarre la sfera del sociale alle mani
dei postmoderni, che ne fanno una materia friabile, vaga e infinitamente
interpretabile. Dall’altra, questa operazione è possibile proprio perché Searle ritiene di
avere superato la tradizionale contrapposizione tra scienze della natura e scienze dello
spirito, visto che tra gli oggetti fisici a quelli sociali non sussiste uno iato, ma una
continuità.
Vasto e commendevole disegno. Considerando però che, malgrado l’avviso di
Searle, c’è un gran numero di oggetti sociali, per esempio entità complesse come gli
Stati, le università o le aziende, che non possiedono una controparte fisica evidente; e
che ce ne sono altri –i debiti, per esempio- che paiono non possedere per definizione
alcuna controparte fisica, il legittimo desideratum della ontologia searliana chiede di
essere elaborato con una griglia diversa. Incominciamo dal principio, a costo di
apparire pedanti.
1.2. Realismo e Testualismo
Nel mondo ci sono soggetti e oggetti. I soggetti si riferiscono a oggetti (se li
rappresentano, li hanno in mente, se ne fanno qualcosa), ossia sono dotati di
3
4
Meinong 1904.
Reinach 1913.
intenzionalità5; gli oggetti non si riferiscono a soggetti.
Gli oggetti sono di tre tipi:
1. gli oggetti fisici (montagne, fiumi), che esistono nello spazio e nel tempo
indipendentemente da soggetti che li conoscono, anche se possono averli
fabbricati, come nel caso di artefatti (sedie, cacciavite);
2. gli oggetti ideali (numeri, teoremi, relazioni), che esistono fuori dello
spazio e del tempo e indipendentemente da soggetti che li conoscono, ma
che, una volta conosciutili, possono socializzarli (per esempio, pubblicare
un teorema: ma sarà la pubblicazione ad avere un inizio nel tempo, non il
teorema);
3. gli oggetti sociali, che non esistono nello spazio, ma hanno una durata nel
tempo, e dipendono, per la loro esistenza, da soggetti che li conoscono.
A proposito degli oggetti sociali, non possediamo solo la teoria di Searle. Anzi,
abbiamo a disposizione ben quattro tipologie fondamentali:
Realismo forte
Gli oggetti sociali sono solidi
quanto gli oggetti fisici
Testualismo forte
Gli oggetti fisici sono
socialmente costruiti
Realismo debole
Gli oggetti sociali sono costruiti
su oggetti fisici
Testualismo debole
Gli oggetti sociali sono costruiti
su registrazioni (piccoli oggetti
fisici)
Dove i nomi “realismo” e “testualismo” indicano, secondo un vecchio
suggerimento di Rorty6, la contrapposizione tra filosofi naturalisti che credono che gli
oggetti esistono indipendentemente dai soggetti, e filosofi ermeneutici che credono
che gli oggetti dipendano dai soggetti, proprio come i testi dipendono dagli autori; e
gli aggettivi “forte” e “debole” indicano, ovviamente, il carattere più o meno stretto di
questa assunzione. Si tratta di posizioni variamente diffuse e altrettanto variamente
sfumate, ma credo che si possano trovare delle teste di serie che le esemplificano, per
così dire, allo stato puro.
1. Il realismo forte è stato sostenuto, in aperta opposizione al positivismo
giuridico, da Reinach7
2. Il testualismo forte è stato professato dai postmoderni, il cui capofila è
Foucault8.
3. Il realismo debole è stato costruito in opposizione ai postmoderni da Searle9
4. Il testualismo debole è stato sostenuto da Derrida10, che passa per un
postmoderno ma, come vedremo, non lo è.
5
Brentano 1874.
Rorty 1982
7
Reinach 1913.
8
Foucault 1966.
9
Searle 1995.
10
Derrida 1967.
6
Ci si può domandare perché le teorie risultino talmente discordanti, e la risposta
sta nel fatto che la tesi secondo cui gli oggetti sociali dipendono da soggetti si presta a
venire interpretata (ed equivocata) in molti modi. In particolare, uno potrebbe
concludere che visto che dipendono da soggetti sono soggettivi. È un errore banale,
in cui tuttavia si incorre molto naturalmente, per esempio allorché si sostiene,
poniamo, che una promessa è la semplice manifestazione della volontà, e non un
oggetto che acquisisce autonomia sia rispetto al promittente sia rispetto al
promissario. Ma ovviamente a questo punto ci si troverebbe a dover spiegare come
mai, se gli oggetti sociali sono dipendenti da soggetti nel senso di essere “soggettivi”,
un dipinto può essere quotato 30, 300 o 3000 euro (il che dipende chiaramente da
giudizi di soggetti), ma nessuno si sognerebbe, invece, di sostenere che l’euro sia una
costruzione puramente soggettiva e dipendente dai gusti.
1.3. Atto Contenuto Oggetto
Dietro a questo equivoco c’è sicuramente una tradizionale sopravvalutazione della
soggettività nella costituzione del mondo (Cartesio, Hume, Kant, Nietzsche, ne
riparleremo un poco trattando del Testualismo Forte), ma c’è anche una confusione un
po’ più tecnica, di cui ci si è accorti pienamente solo alla fine dell’Ottocento. In
fondo, visto che tutto il mondo può rappresentarsi nei soggetti, allora si potrebbe
concludere (e c’è chi lo ha fatto, per esempio Schopenhauer) che il mondo è nei
soggetti. Ma chiaramente non è così.
Io mi rappresento, poniamo, la Cattedrale di Strasburgo, è un atto che dipende
dalla mia soggettività. Ma so anche che, diversamente dal mio malumore, non è in
me, è qualcosa che c’è fuori, nel mondo. Poi posso guardare la Cattedrale di
Strasburgo dipinta da Monet: è un contenuto, il modo specifico di presentazione di
quell’oggetto nello stile di Monet, e che non corrisponde al mio modo di
presentazione (così, se io mi rappresento un cavallo, posso facilmente immaginare che
non sarà identico al cavallo che si rappresenta un altro). Infine, posso dire “la
Cattedrale di Strarburgo” o “un cavallo”, e sapere che, per quanto i contenuti possono
variare, l’oggetto resta lo stesso, altrimenti parlare non avrebbe senso. Atto, contenuto
e oggetto non si equivalgono. La cattedrale c’è anche se non ci penso (se non c’è un
mio atto), la cattedrale dipinta da Monet può non piacermi e la cattedrale che vedo a
Strasburgo può piacermi (o viceversa). E questa distinzione appare decisiva proprio
nel caso degli oggetti sociali. La propongo nella formulazione di Twardowski11:
Atto: processo psichico
Contenuto: iscrizione idiomatica
Oggetto: idea comune
Questa distinzione, poi recepita anche da Meinong12 e –sebbene con diverse
terminologie- da Husserl13 e da Frege14, insiste per l’appunto sulla differenza
11
Twardowski 1894.
Meinong 1904.
13
Husserl 1901-1901.
14
Frege 1892.
12
essenziale che intercorre tra “atto” (il fatto che io pensi qualcosa), “contenuto” (il
modo specifico di presentazione dell’oggetto intenzionato nel mio pensiero) e
“oggetto” (la sfera ideale e comune di riferimento, il contenuto comune, per esempio,
a tutti coloro che pensano all’oggetto designato dalla parola “cavallo”, “horse”,
“Pferde”, e indipendentemente dal fatto che il loro modo di presentazione –il
contenuto- risulti, individualmente, un cavallo bianco, nero, pezzato, grande, piccolo
ecc.)
Distinguere l’atto dal contenuto, e soprattutto dall’oggetto, era stata una mossa
resa necessaria per replicare allo psicologismo, cioè alla riduzione della logica alla
psicologia15 che aleggiava in molti settori nell’Ottocento, e dunque ha una genesi
nell’ambito del problema degli oggetti ideali. Da questo punto di vista appare
particolarmente eloquente la distinzione di Frege tra senso (“Sinn”, il modo di
presentazione, per esempio “Espero” e “Fosforo”) e significato o riferimento (secondo
le diverse traduzioni di “Bedeutung”, dove il riferimento comune di “Espero” e
“Fosforo” sarebbe “Venere”). Ed è in questo quadro che si era generata quella figura,
un po’ mitologica ma necessaria, che sarebbe il terzo regno delle idee, l’oggettività
ideale indipendente sia dai singoli atti psicologici di chi pensa, sia dai modi di
presentazione dei pensieri16.
Che io sappia, e spero che si avrà modo di notarlo nelle pagine che seguiranno,
l’applicazione di questa distinzione agli oggetti sociali è stata molto meno netta e
sistematica, sebbene, come osservavo prima, sia proprio in questa sede che appare
urgente e decisiva. In altri termini, se ormai nessuno se la sentirebbe di affermare che
il principio di contraddizione dipende da come è fatto il nostro cervello, ancora in
molti sono disposti a sostenere che la forma degli oggetti sociali dipende dall’arbitrio
delle persone.
Oltre a questo problema macroscopico17, ne sorgono parecchi altri, che affronterò
poco alla volta nelle prossime pagine. Per questo vorrei illustrare in breve la mia
strategia. Come ho anticipato, escluderò subito il realismo forte e il testualismo forte,
esaminerò il realismo debole, ne indicherò una difficoltà, e poi mostrerò come, a mio
avviso, questa difficoltà sia risolta dal testualismo debole.
15
Costa 1996.
Dummett 1993.
17
Smith 2003.
16
2. Realismo forte
Uno scimpanzè adopera una bacchetta per estrarre delle formiche da un formicaio e
succhiarle (ne è ghiottissimo), poi depone la bacchetta. Arriva un altro scimpanzè e
la prende, adibendola allo stesso scopo. Quando ritorna il primo scimpanzè, il
secondo gli restituisce la bacchetta. Morale: la proprietà esiste senza alcuna
codificazione esplicita, in una società molto primitiva.
Criptotipi. Come suggerisce Rodolfo Sacco, che ha valorizzato e teorizzato
questo esempio18, abbiamo a che fare con dei criptotipi19, con delle tipologie nascoste
ma oggettive. È difficile immaginare che un qualunque diritto positivo possa aver mai
informato i due scimpanzè circa la proprietà e le sue norme. E qui abbiamo a che fare
con una considerazione molto giusta: scoprire la forma di un oggetto sociale è come
scoprire un continente o un teorema. Dunque, sotto questo profilo, un oggetto sociale
è identico a un oggetto ideale e a un oggetto fisico. Ma se quella di Sacco è la
formulazione condivisibile, è difficile seguire fino in fondo Reinach.
Gli alberi di Reinach. Il Realismo Forte di Reinach assume a giusto titolo che non
c’è alcuna legge di natura, le leggi sono piuttosto dei costrutti paragonabili a degli
oggetti ideali, visto che possiedono dei fondamenti apriori. Reinach si limita a
osservare che, proprio come non esiste un colore senza estensione, o un suono senza
durata, così non può esserci un obbligo senza oggetto, né un obbligo infinito.
Diversamente dal giusnaturalismo, dunque, Reinach non trae delle conseguenze
quanto al contenuto giuridico, e si limita alla forma. Per interessante che sia dal punto
di vista intellettuale, giacché oppone una ferma smentita al paradigma soggettivistico
che sta alla base dello storicismo, il modello di Reinach ha almeno tre difetti
principali.
In primo luogo, come ogni dottrina apriori, non fornisce alcuna indicazione
positiva, e dunque si può opporre a Reinach, piuttosto paradossalmente, lo stesso tipo
di critica che si poteva muovere nei confronti della morale kantiana.
In secondo luogo, ciò che distinguerebbe la prospettiva di Kant da quella di
Reinach, il fatto cioè che il primo parlerebbe di una legge morale nettamente distinta
dal cielo stellato sopra di noi, ossia separata dal mondo fisico, mentre il secondo
sostiene che i fondamenti del diritto civile sono fuori di noi e sono solidi come alberi
e case, poggia su una metafora fallace. Gli oggetti sociali saranno anche “solidi come
alberi e case”, ma rispetto ad essi manifestano una differenza fondamentale: non si
vedono. Questo è un primo limite della teoria, che vale tutt’al più come una metafora
che ci invita a non considerarli come cose evanescenti. Ma da una metafora non si può
ricavare una teoria, a meno di rassegnarsi a cadere in contraddizioni di vario tipo. In
particolare, se davvero gli oggetti sociali fossero solidi come alberi e case, allora,
quando ci troviamo di fronte a un segnale di divieto di sosta, dovremmo ritenere di
avere a che fare con due oggetti sociali, il segnale (che è davvero solido) e il divieto
(che solo Reinach pretende essere solido come il segnale, se la sua teoria vuole essere
più che una metafora). Trascurare questa circostanza equivarrebbe -come succedeva
18
19
Sacco *; cfr. anche Id. 1993.
Sacco 2000.
ai vecchi empiristi, con la loro teoria delle idee a giusto titolo criticata da Reid20- a
pretendere che l’idea dell’ago punga, e che l’idea del calore sia calda.
In terzo luogo, Reinach sostiene che gli oggetti giuridici possiedono un loro
“essere indipendente”, ma anche qui non ci siamo. È immanente alla loro natura,
come sostiene lo stesso Reinach, il fatto di avere un inizio nel tempo, come dimostra
l’aperta insostenibilità di frasi come:
(1) Aristotele non ha mai ambito a un poker d’assi.
(2) Plotino non ha mai pensato di fare gol.
(3) Proclo non tifava (o tifava) per il Chievo.
(4) Antistene non ha mai acceso un mutuo.
La morale è dunque che Reinach, che nel paragone con alberi e case istituisce una
equivalenza tra oggetti sociali e oggetti fisici, nella affermazione del loro essere
indipendente li equipara a oggetti ideali.
La ragione di queste insufficienze può essere motivata proprio a partire dalla
tripartizione di atto, contenuto e oggetto che abbiamo esposto in precedenza. Il rifiuto
del positivismo giuridico in Reinach, per motivato che sia, ha il difetto di fare di ogni
erba un fascio, ossia, nella fattispecie, di buttare via, insieme all’atto, anche il
contenuto (l’iscrizione), creando uno strano ibrido, di oggetti sociali che sarebbero
giuridicamente uguali agli oggetti ideali, ma poi dotati di una strana solidità, quasi di
impenetrabilità, che spetta soltanto agli oggetti fisici. Nella tripartizione di
Twardowski, Reinach si riferisce dunque soltanto all’oggetto, che costituisce a sua
volta un ircocervo ideal-reale:
Atto: processo psichico
Contenuto: iscrizione idiomatica
Oggetto: idea comune
Il risultato, dunque, è che il realismo forte non funziona.
Realismo forte
Gli oggetti sociali sono solidi
quanto gli oggetti fisici
Testualismo forte
Gli oggetti fisici sono
socialmente costruiti
Realismo debole
Gli oggetti sociali sono costruiti
su oggetti fisici
Testualismo debole
Gli oggetti sociali sono costruiti
su registrazioni (piccoli oggetti
fisici)
Può il suo fallimento dare fiato al Testualismo Forte dei postmoderni?
Fortunatamente, no.
20
Reid 1764.
3. Testualismo forte
“Una volta ho discusso con un famoso etnometodologo che pretendeva di aver
dimostrato che gli astronomi creano per davvero i quasar e altri fenomeni
astronomici tramite le loro ricerche e i loro discorsi. “Ascolta”, gli ho detto,
‘supponiamo che tu e io andiamo a fare una passeggiata al chiaro di luna e che io
dica ‘che splendida luna c’è questa notte’, e che tu sia d’accordo. Stiamo forse
creando la luna?” “Sì, mi ha risposto”.
Volontà di potenza. L’aneddoto riportato da Searle21 ci suggerisce una morale: il
bello del testualismo forte, dell’idea che la stessa realtà fisica sia socialmente costruita
attraverso la volontà di soggetti che non hanno limiti al di fuori della loro potenza è
che si contesta facilmente.
Nella sua formulazione letterale, quella che vuole che gli stessi oggetti fisici siano
socialmente costruiti, la dottrina appare manifestamente assurda, e nasce dalla
confusione tra le teorie e i loro oggetti, tra ontologia ed epistemologia, tra quello che
c’è (per esempio, la luna) e ciò che sappiamo (o non sappiamo) su quello che c’è22.
Uno potrebbe opporre che non c’è niente di male nel sostenere che gli oggetti
sociali sono socialmente costruiti, ma a questo punto abbiamo a che fare non con una
teoria, ma con una solida tautologia, che dunque non ha niente di interessante.
La tesi tornerebbe ad essere interessante, o quantomeno non tautologica, nel
momento in cui si asserisse che il carattere “socialmente costruito” equivale a
“soggettivamente costruito”, solo che, a questo punto, ci troveremmo di nuovo di
fronte a una aperta falsità, come può constatare chiunque decidesse soggettivamente
che il furto non è più un reato, o che il denaro non ha valore. Questo nonsenso palese
può diventare occulto quando si sostiene che “non esistono fatti, solo
interpretazioni”23; ma torna ad essere palese con un semplice esperimento mentale,
che consiste nell’immaginare un tribunale in cui, sopra allo scranno del giudice, stia
scritto per l’appunto “non esistono fatti, solo interpretazioni”.
Se la tesi del Testualismo Forte vuole essere meno che una tautologia (la realtà
sociale è socialmente costruita), allora è per l’appunto un asserto secondo cui la realtà
sociale è soggettivamente costruita (dire che è costruita “intersoggettivamente” non è
che un modo per mascherare il problema), e dunque nella tripartizione di Twardowski
abbiamo una valorizzazione esclusiva dell’atto, che corrisponde a una
psicologizzazione della intera realtà sociale.
Atto: processo psichico
Contenuto: iscrizione idiomatica
Oggetto: idea comune
Metabasis eis allo ghenos. Immagino che mi si chiederà chi, oltre
21
Searle 1998, p. 20.
Ferraris 2001 e 2004.
23
Nietzsche 1886-1887.
22
all’etnometodologo preso di mira da Searle, abbia mai professato una dottrina così
strampalata, ma la risposta è semplice, e la casistica è ampia24. In generale, gli
ingredienti sono per l’appunto una confusione tra ontologia ed epistemologia di
matrice kantiana, un soggettivismo di matrice cartesiana, e una teoria della volontà di
potenza di matrice nietzschiana. E la sua formulazione generale consiste in una
sistematica metabasis eis allo ghenos: si parte da una tesi che possiede una validità
molto circoscritta, e la si generalizza trasportandola in campi in cui non ha validità
alcuna.
Prendete Foucault, che sostiene25 che forse, se e quando saranno scomparse le
scienze umane, scomparirà anche l’uomo. Si tratta della generalizzazione di un caso
particolare con cui aveva iniziato le sue indagini, e che consisteva nell’assunto
secondo cui la follia è un esito della psichiatria26. Il che, in un senso, è ovvio: il nostro
specifico modo di affrontare quei comportamenti che chiamiamo “folli” è la
psichiatria, che ci parla di schizofrenici e paranoici là dove una volta si parlava di
indemoniati e di posseduti dagli dèi. Inoltre, la follia rappresenta indubbiamente un
oggetto epistemologico, nel senso che chiamare qualcosa “follia” invece che
“possessione divina” è sicuramente una scelta che ha a che fare con quello che
sappiamo.
Ma se riferito all’uomo, come genere naturale, questo discorso non tiene. Quel
bipede implume c’era prima e verosimilmente ci sarà dopo che le scienze dell’uomo,
se mai, spariranno. E pensare il contrario –a parte un eccesso metaforico analogo a
quello di Reinach, una sorta di trasporto lirico- significa per l’appunto (1) confondere
l’ontologia con l’epistemologia, (2) il sociale con l’individuale, e infine (3)
considerare l’individuale come la sfera di un soggettivismo assoluto ascrivibile, nella
migliore delle ipotesi, al solipsismo. Per cui quella del Testualismo Forte27 sarebbe al
massimo una associazione di solipsisti, cioè un rotondoquadrato.
Dunque perde il suo tempo il testualista forte, la cui dottrina non funziona,
proprio come quella del realista forte, senza peraltro condividerne il fascino
intellettuale.
Realismo forte
Gli oggetti sociali sono solidi
quanto gli oggetti fisici
Testualismo forte
Gli oggetti fisici sono
socialmente costruiti
Realismo debole
Gli oggetti sociali sono costruiti
su oggetti fisici
Testualismo debole
Gli oggetti sociali sono costruiti
su registrazioni (piccoli oggetti
fisici)
Lasciate da parte le esagerazioni, veniamo alle teorie papabili, ossia, per
l’appunto, il realismo e il testualismo deboli.
24
Ferraris 1988.
Foucault 1966.
26
Foucault 1961.
27
Che è anche quella di quel pensiero fortissimo, di quel fichtianesimo di ritorno, che del tutto
inesplicabilmente ha deciso di chiamarsi « Pensiero Debole », cfr. Vattimo 1983.
25
4. Realismo debole
Ho di fronte a me un pezzo di carta, ma potrebbe essere anche una carta di
credito o un pezzo di metallo. È indubbiamente un oggetto fisico, e sicuramente non è
socialmente costruito dal momento che le molecole che lo compongono. Solo, ha un
valore sociale, mi permette di comprare qualcosa, e questo non dipende
semplicemente da me, visto che la moneta vale anche per chi abbia idee e stati
d’animo completamente diversi da me, e continua a valere per me indipendentemente
dal mutare del mio credo e del mio umore. Come è possibile?
4.1. Atto e Oggetto
Realismo debole: come funziona. Il problema, prima di tutto, è sapere che cosa
tiene unito l’oggetto sociale e l’oggetto fisico, il prezzo e la birra, la banconota con
corso legale e il pezzo di carta di cui è fatta. L’idea di Searle è a grandi linee questa.
Per passare da un pezzo di carta colorato (un oggetto fisico) a una banconota (un
oggetto sociale), si assegna una funzione, applicando la regola “X (il pezzo di carta)
conta come Y (la banconota) in un contesto C (un determinato Stato in un determinato
tempo)”. L’assegnazione di funzione si esercita attraverso delle regole costitutive,
che, diversamente da quelle regolative, non pongono ordine in una situazione che
potrebbe esistere indipendentemente dalle regole (per esempio, l’obbligo di guidare
tenendo la destra), ma che viene ad esistere proprio in forza delle regole (qui il caso
tipico sono i giochi: non è che ci fossero scacchiere, pedoni e altri pezzi, e che per por
ordine sulle scacchiere si sia ricorso alle regole degli scacchi: sono quelle regole a far
sì che abbiano senso le scacchiere e i pezzi.)
Sin qui, tutto chiaro. Le regole che presiedono a una assegnazione di funzione
costruiscono, sopra un insieme di oggetti fisici (poniamo, appunto, pezzi di legno o
uomini) degli oggetti sociali (pedoni degli scacchi o professori di filosofia.) Searle
osserva anche che le funzioni che vengono assegnate, sebbene sorgano da regole, non
risultano convenzionali. E in effetti è un errore pensare che ci sussista una
equivalenza tra “seguire una regola” e “seguire una convenzione”, perché altrimenti,
come aveva notato Wittgenstein28, non ci sarebbe differenza tra seguire una regola e
credere di seguirla, tra giocare a scacchi e credere di giocare a scacchi, e in fin dei
conti (per fare l’esempio di una regola regolativa) tra guardare l’orologio per sapere
che ora è e immaginarne uno, sempre per sapere l’ora. In concreto, posso benissimo,
se ho smarrito un pezzo degli scacchi, poniamo un alfiere, sostituirlo con un tappo di
birra, perché il pezzo è convenzionale, ma non la funzione: il tappo di birra dovrà
comunque muoversi in diagonale come l’alfiere, se voglio davvero giocare a scacchi e
non semplicemente credere di giocare a scacchi.
Vantaggi e problemi. Il primo vantaggio è che, in questo modo, si è eliminata la
visione convenzionale degli oggetti sociali, che è vecchia almeno quanto il contratto
sociale di Rousseau che, alla faccia del suo vagheggiamento della natura, sosteneva
che non solo il contratto sociale, ma persino il linguaggio in cui questo contratto
dovrebbe essere stipulato è convenzionale.
28
Wittgenstein 1953.
In secondo luogo, come ho detto, si sono radicati gli oggetti sociali non solo nelle
regole che li costituiscono, ma anche negli oggetti fisici che li supportano in qualità di
inferiora. Ora, posto che l’intenzionalità collettiva svolga, nella teoria di Searle, la
stessa funzione che ha l’atto nella terminologia di Twardowski-Meinong, e che
l’oggetto fisico sia il supporto dell’oggetto sociale, con due funzioni che vengono a
ricoprire quella dell’oggetto, sempre nella terminologia Twardowski-Meinong, allora
l’ontologia sociale di Searle avrebbe una struttura di questo tipo:
Oggetto fisicoÆintenzionalità collettivaÆOggetto sociale
Dunque (vale la pena di notarlo preliminarmente, visto che tornerà molto utile nel
seguito del mio discorso) la tricotomia Atto/Contenuto/Oggetto si semplifica qui in
una dicotomia Atto/Oggetto. Nella teoria della intenzionalità collettiva, per l’appunto,
si privilegia l’atto, in quella dell’oggetto sociale come sopravveniente rispetto a quello
fisico, si privilegia l’oggetto. Diversamente che nelle due teorie precedenti, abbiamo
dunque due termini invece che uno solo:
Atto: processo psichico
Contenuto: iscrizione idiomatica
Oggetto: oggetto fisico
Alla luce della regola costitutiva degli oggetti sociali “X conta come Y in C”
l’atto è rappresentato dalla intenzionalità collettiva, l’oggetto da X e Y, che sono
rispettivamente l’oggetto fisico e quello sociale che funge da oggetto di ordine
superiore grazie alla intenzionalità collettiva.
Sin qui tutto bene. Tutto bene? Nei prossimi paragrafi vorrei sottolineare due
difficoltà che limitano seriamente la portata euristica della teoria di Searle. Si tratta,
in primo luogo, di problemi con l’atto, e in secondo luogo di problemi con l’oggetto.
4.2. Problemi con l’atto
I problemi con l’atto richiederebbero un lungo discorso, e mi limito a una
osservazione concisa, considerando come, d’altra parte, anche se questa parte della
teoria di Searle non risultasse problematica, basterebbero i problemi con l’oggetto a
suscitare delle serie difficoltà, come vedremo tra un istante. Per limitarsi comunque
alle evidenze maggiori, vorrei far notare un punto.
L’atto che trasforma un oggetto fisico in un oggetto sociale ha l’aria di un colpo
di bacchetta magica, come si verifica facilmente (ci torneremo tra poco) tutte le volte
che ci si provi a far ritorno dall’oggetto sociale all’oggetto fisico. La bacchetta magica
si chiama “intenzionalità collettiva”. Scrive Searle “[C’è una] linea continua che va
dalle molecole e dalle montagne ai cacciavite, alle leve e ai tramonti incantevoli, e poi
alle leggi, al denaro e agli stati-nazione. La campata centrale del ponte che va dalla
fisica alla società è l’intenzionalità collettiva, e la mossa decisiva su quel ponte nella
creazione della realtà sociale è l’imposizione intenzionale collettiva di funzione su
entità che non possono svolgere quelle funzioni senza quell’imposizione”
Che cosa sia l’intenzionalità collettiva, tuttavia, è tutto tranne che evidente, e per
chi abbia un passato da ermeneutico non è difficile ritrovarci una vecchia idea, quella
che la buonanima di Dilthey, sulla scia di Hegel, chiamava “spirito oggettivo”. Se poi
la chiamassimo “superanima” il problema, da occulto che è, diventerebbe subito
palese.
4.3. Problemi con l’oggetto
Dal fisico al sociale e ritorno? Lasciando insoluto (o anche semplicemente in
sospeso, tanto non è decisivo) il primo problema, vengo adesso al secondo, quello
della teoria dell’oggetto sociale come oggetto di ordine superiore rispetto a un oggetto
fisico.
A questo proposito, il problema è duplice. In primo luogo, non è per niente chiaro
(a meno per l’appunto che si ricorra alla ipotesi mistica della intenzionalità collettiva)
come, dall’oggetto fisico, si riesca ad arrivare all’oggetto sociale. In secondo luogo,
anche a voler dar credito alla intenzionalità collettiva, non è per niente chiaro come,
dall’oggetto sociale, si riesca a individuare regolarmente un oggetto fisico che gli
corrisponda. La teoria di Searle, insomma, soffre di un problema che potremmo
chiamare “gestaltistico”: spera di poter spiegare come dall’oggetto di ordine inferiore
si passa all’oggetto di ordine superiore, ma cade nel momento in cui dall’oggetto di
ordine superiore ci si trova a dover tornare all’oggetto di ordine superiore. Insomma,
per dirla alla buona, non tiene alla prova del nove.
Dal fisico al sociale. Le difficoltà della transizione dal fisico al sociale si possono
illustrare considerando tre esempi di Searle (uno dei quali, significativamente, è stato
scartato in un secondo momento).
1. Il muro. Come abbiamo visto, Searle spiega il passaggio con l’esempio
del muro. L’idea è che prima c’è un oggetto fisico, un muro che separa
l’interno dall’esterno e difende una comunità. Poi poco alla volta il muro
si sgretola, non resta che una fila di pietre, inutili come riparo fisico, e
che definiscono un oggetto sociale, un confine: quello stesso che, più
avanti, sarà la linea gialla che negli uffici postali e negli aeroporti ci
indica un limite che non può essere valicato29. Ora, si capisce come un
muro, sgretolandosi, possa, in determinate circostanze, diventare un
confine. Ma non è affatto chiaro come, sulla base di quella semplice
analogia -una circostanza fortuita che non si sa quante volte possa essersi
verificata- sia sorta la linea gialla o la mezzeria nelle strade. La questione
si complica ulteriormente sulla base di un’altra considerazione. Se
davvero un oggetto fisico potesse essere l’origine di un oggetto sociale,
allora ogni oggetto fisico sarebbe un oggetto sociale, ogni muro
costituirebbe un divieto. Ma chiaramente non è così, come può verificare
chiunque decida di abbattere un muro a casa propria: purché il fatto non
contraddica normative che non necessariamente hanno a che fare con la
solidità fisica del muro, ebbene, può abbatterlo come e quando vuole.
2. Marcare il territorio. Sempre sulla questione del passaggio dal fisico al
sociale, anticipiamo un punto che diventerà importante nel seguito del
nostro discorso. Prima di fare l’esempio del muro, ricorda Searle, aveva
proposto l’esempio degli animali che marcano il territorio; ma poi, spiega,
aveva deciso di abbandonarlo perché non gli sembrava adeguato. Perché
inadeguato? Non in assoluto, visto che è proprio un bell’esempio; ma
29
O meglio : che non deve essere valicato, diversamente dal muro che non può venire
oltrepassato. Il che, se vogliamo, è un altro problema che Searle non mette sufficientemente a fuoco.
certo inadatto per la teoria di Searle. In effetti, non c’è un solo momento
in cui la traccia costistuisca un limite fisico. La traccia è un odore, e un
limite olfattivo –invisibile proprio come l’ontologia catturata da Searlenon equivale mai a impenetrabilità. È, sin dall’inizio, qualcosa che non
nasce come oggetto fisico per trasformarsi in oggetto sociale, ma, per
l’appunto, nasce come segno, che è blandamente fisico e fortemente
sociale nella sua essenza. Sembrava davvero un buon esempio. E se Searle
lo avesse seguito invece di privilegiare quello del denaro e del muro si
sarebbe risparmiato un bel po’ di difficoltà, in particolare quella, su cui ci
concentreremo tra poco, di come si spieghino, con la teoria di Searle, gli
oggetti sociali che, come i debiti, non possiedono una controparte fisica
(visto che il debito è una entità negativa). Perché in questa formulazione
tra un muro e un debito intercorre un abisso: il primo è la presenza di
qualcosa, il secondo è l’assenza di qualcosa. Mentre la traccia del marcare
il territorio potrebbe stabilire un tramite, essendo presente (come dato
olfattivo, per esempio), ma rinviando a una assenza (l’animale che ha
marcato il territorio). In questo senso, costituisce una struttura
sopraordinata sia al muro sia al debito30.
3. La moneta. Da tutto questo emerge una considerazione ancora più
generale. L’esempio del denaro, addotto da Searle come se fosse la norma
degli oggetti sociali, è in effetti una eccezione. Perché è relativamente
facile trasformare un bottone in una moneta per ingannare un cieco, e poi
riadoperare una moneta come bottone in un abito tirolese. Ma nella
stragrande maggioranza dei casi
l’operazione appare molto più
complessa, quando non impossibile. E questo è obiettivamente un limite
grave, che compromette la paradigmaticità dell’esempio addotto. Perché è
semplice sostenere che incidendo delle scritte su un pezzo di metallo
otterremo un oggetto sociale, e che, una volta che l’uso avrà cancellato le
iscrizioni, avremo di nuovo un oggetto fisico. Ma questa, per l’appunto,
non costituisce una regola, bensì una eccezione.
Dal sociale al fisico. Veniamo al secondo aspetto del problema, quello che
riguarda la reversibilità dal sociale al fisico. È abbastanza semplice sostenere che una
banconota è anche un pezzo di carta, o che un presidente è anche una persona. Così
come non c’è problema sul fatto che –d’accordo con l’esempio di Searle- quando
Searle è solo in una stanza d’albergo c’è un solo oggetto fisico ma più oggetti sociali
(un marito, un dipendente dello stato della California, un cittadino americano, il
titolare di una patente…). In questo caso, il ritorno da Y (sociale) a X (fisico) non
presenta eccessivi problemi. Le cose, tuttavia, cambiano in una situazione un po’
diversa, ma tutt’altro che rara, suscitando difficoltà che sono state riconosciute molto
prima della nascita della teoria sociale di Searle, e che riguardano sia gli oggetti, sia
gli eventi. Esaminiamo tre casi paradigmatici.
1. Lo Stato di Heidegger. È l’esempio di un oggetto sociale molto grande.
30
Vorrei inoltre far notare, richiamandomi alla tripartizione Atto Contenuto Oggetto, che la
traccia ricopre perfettamente il ruolo del Contenuto, essendo la manifestazione di una intenzione
psicologica dell’animale (vuole marcare il territorio) che si riferisce a un oggetto (la proprietà), in quel
modo di presentazione specifico. Tornerò estesamente su questo punto parlando del testualismo debole.
Nella Introduzione alla metafisica Heidegger si chiede a un certo punto:
“dov’è l’essere nello Stato? Non è né proprietà enumerabili, né cosa
localizzabile, ma ciò di cui partecipano l’una e l’altra. Dov’è l’Essere
dello Stato? Nell’operazione di polizia in corso, nelle macchine da
scrivere della segreteria, nella comunicazione del capo dello Stato a un
ambasciatore?”31. È tutt’altro che facile indicare quali oggetti fisici
costituiscano l’essere dello Stato: i confini, probabilmente, l’esercito e
l’amministrazione pubblica, l’apparato politico… Ma, per esempio, la
dotazione di sigari toscani a disposizione dei senatori italiani è ancora
parte dell’essere dello Stato? E, se no, perché?
2. L’Università di Ryle. Il problema che emerge è proprio quello che Ryle32
aveva isolato come “il mito dello spettro nella macchina”, riferendolo al
dualismo cartesiano (come nasce la res cogitans dalla res extensa? Non è
una semplice aggiunta miracolosa?), ma esemplificandolo proprio con il
rapporto tra un oggetto sociale, l’Università, e gli oggetti fisici su cui
sembra fondarsi. Sarebbe vagamente sorprendente, sosteneva Ryle,
l’atteggiamento di chi, dopo aver visto le biblioteche, i dipartimenti, le
aule e il rettorato chiedesse dov’è l’Università: l’oggetto sociale
“Università” è il risultato di una composizione di oggetti, che vanno
analizzati nella loro struttura formale e nei vincoli che ne derivano, e non
scartati impegnandosi nella ricerca di un Essenziale evanescente che
starebbe dietro le biblioteche e il rettorato. Con questo, però, abbiamo
solo una indicazione negativa. Non è bene invocare spettri che stanno
dietro, dentro o sopra gli oggetti, sarebbe più o meno come sostenere che i
computer pensano davvero, e che una macchina che abbia passato il test di
Turing debba essere dotata di diritti civili.
3. La battaglia di Merleau-Ponty. Veniamo al caso degli eventi, che sono di
per sé meno facili da catturare di quanto non lo siano gli oggetti. In uno
dei suoi ultimi corsi al Collège de France, Merleau-Ponty33, che
commenta il passo di Heidegger, aggiunge, con tocco meno teutonico, una
allusione alla Certosa di Parma di Stendhal “Cfr. Fabrizio dov’è la
battaglia di Waterloo? È in tutto ciò che si vede e al di là.” Il punto è
interessante, perché ci ricorda che tra gli oggetti sociali ci sono per
l’appunto anche degli eventi sociali, come le battaglie, i matrimoni, le
partite di calcio e le feste di compleanno. Al punto che si potrebbe dire
che, in una percentuale importante, gli oggetti sociali, le istituzioni
(l’istituto del matrimonio, per esempio) sono types i cui tokens sono
costituiti da eventi. E con gli eventi le difficoltà crescono ancora di più,
perché i loro confini, diversamente da quello che accade per gli oggetti,
risultano estremamente labili34. Ma, anche restando agli oggetti, la
31
Heidegger 1935.
Ryle 1949.
33
Merleau-Ponty 1958-59.
34
Per esempio, quando è iniziata esattamente la battaglia di Waterloo? il 18 giugno 1815, quando
Napoleone avanza all’attacco nella direzione di Bruxelles, o il 17, quando Grouchy tenta di riprendere
il contatto con Blücher e Ney cerca Wellington? o il 16, quando Grouchy batte effettivamente i
prussiani, ma ha il torto di non inseguirli? o quando Napoleone invade il Belgio meridionale, o
addirittura torna dall’Elba (e in questo caso la battaglia inizierebbe forse a Borodino, col risultato che
Pierre Bezuchov e Fabrizio del Dongo avrebbero assistito alla stessa battaglia, del resto capendoci a
32
psicologia della Gestalt, quella con cui Merleau-Ponty si era misurato
all’inizio della sua carriera, aveva visto bene il punto enunciando la legge
della trascendenza del tutto rispetto alle sue componenti. Ma la
trascendenza non significa indifferenza rispetto alle parti. E nel caso dello
Stato o della battaglia non si capisce proprio come si riesca a ritornare a
una essenza fisica semplice partendo da un oggetto sociale complesso. E
asserire che c’è qualcosa “al di là” del fisico che costituisce l’oggetto
sociale è proprio invocare un colpo di bacchetta magica.
Riduzioni. Ci sono soluzioni alternative? L’idea, non troppo peregrina, potrebbe
essere di compiere degli esperimenti volti a ridurre gli oggetti sociali troppo grandi.
La espongo a titolo di esperimento mentale giacché non è difficile capire che non
funziona.
1. Il Bunker di Hitler. Nel 1453, l’Impero Romano di Occidente si era
ridotto al perimetro urbano di Costantinopoli. E non è il solo caso. Per
esempio, ci fu un momento, dieci anni dopo l’Introduzione alla
metafisica, in cui l’Essere dello Stato tedesco si concentrò nel Bunker
della Cancelleria circondato dall’Armata Rossa, ossia in cui la totalità
venne a trovarsi in un solo luogo. Un perimetro di non più di 100 metri di
lato, alla fine, quando, suicidandosi, Hitler declinò dal suo titolo.
2. Little Big Horn. Visto che quella era anche una battaglia, la battaglia di
Berlino, possiamo forse trovare una risposta all’interrogativo di MerleauPonty rispetto agli eventi. Funziona anche meglio nella battaglia di Little
Big Horn ridotta al Generale Custer circondato dagli Indiani. Il momento
in cui, se stiamo ai resoconti cinematografici, il capo della coalizione
indiana colpisce Custer, costituisce il limite temporale preciso della
battaglia.
3. Napoleone a Sant’Elena. L’argomento sembra rafforzato dal fatto che, per
esempio, diversamente da Hitler nel Bunker, Napoleone a Sant’Elena non
rappresenta affatto lo Stato Francese, bensì un personaggio storico in
disgrazia e un cinquantenne malato.
Per quanta simpatia possa suscitare, la riduzione –fisica e non eidetica- non
funziona. E questo, banalmente, perché l’identità dell’oggetto sociale non dipende
dalle molecole del suo corrispettivo fisico, perché la realtà sociale costituisce un nesso
teleologico che si adatta male alle spiegazioni causali che intervengono nell’analisi
degli oggetti fisici. Per chi trovasse circolare questa considerazione, basterà osservare
che, per l’appunto, c’è un gran numero di oggetti sociali che non possiedono un
corrispettivo fisico evidente, o che addirittura sono privi di controparti fisiche.
4.4. Entità Y indipendenti
Sembrerebbe infatti, come ha sottolineato Barry Smith, che in moltissimi casi,
nell’analisi della realtà sociale, abbiamo a che fare con entità Y indipendenti, cioè con
oggetti che non possiedono una controparte fisica, sia palese (come nel caso di uno
Stato, di una corporation, di una università) sia in assoluto (come nel caso di entità
negative come i debiti). Come la mettiamo?
giusto titolo ben poco)?
L’idea di Smith è che esistono termini Y-indipendenti, ossia “entità che (a
differenza del Presidente Clinton, della cattedrale di Canterbury e del denaro nella
mia tasca) non coincidono ontologicamente con alcuna parte della realtà fisica.”
Ossia, nella terminologia di Smith, con “rappresentazioni”, che –teniamolo presente,
visto che è un punto che andrà discusso nel dettaglio- “non coincidono
ontologicamente con alcuna parte della realtà fisica”, giacché –sostiene Smith- “I
segnali nei computer della banca si limitano a rappresentare il denaro, esattamente
come i documenti giuridici relativi ai beni di vostra proprietà si limitano a
memorizzare e registrare ufficialmente l’esistenza dei vostri diritti di proprietà. Scrive
ancora Smith: “Riformulando le proprie idee in questo ambito [della dipendenza di Y
rispetto a X] Searle è dunque costretto a riconoscere una nuova dimensione
dell’impalcatura della realtà sociale, la dimensione delle rappresentazioni. Le tracce
[blips] nei computer della banca si limitano a rappresentare il denaro ..”“ 35
Introducendo la dimensione delle rappresentazioni, Smith riformula la teoria di
Searle con una variante significativa quanto alla tripartizione Atto Contenuto Oggetto.
Lo schema di Smith, rispetto a quello di Searle, funziona così:
Atto: processo psichico
Contenuto: iscrizione idiomatica
Oggetto: idea comune
Al posto dell’oggetto fisico abbiamo l’idea comune. Smith non si avventura sul
terreno paludoso della intenzionalità collettiva e del passaggio dal fisico al sociale:
assume semplicemente che noi possediamo delle rappresentazioni, che è un punto
difficile da contestare, senza tuttavia impelagarsi nella spiegazione di come quelle
rappresentazioni spieghino il transito dal fisico al sociale. Questa Aufhebung non gli è
necessaria, visto che Smith assume che le rappresentazioni non si riferiscono a oggetti
fisici, bensì a oggetti ideali, più o meno come, malgrado tutto, accadeva in Reinach,
un autore che sta nel background di Smith36 e non in quello di Searle.
Il Capitale di De Soto. Per capire meglio la prospettiva di Smith, conviene rifarsi
a un brano dell’economista sudamericano Hernando De Soto, che gioca un ruolo
centrale nella sua proposta teorica. È anzitutto De Soto che propone di considerare gli
oggetti sociali come “rappresentazioni”. La sua tesi è: “Il capitale nasce
rappresentando per iscritto – in un titolo, in una garanzia, in un contratto o in altri
record di questo tipo – le qualità più utili dal punto di vista economico e sociale. Nel
momento in cui rivolgete la vostra attenzione al documento di proprietà di una casa,
per esempio, e non alla casa in se stessa, avete fatto automaticamente un passo dal
mondo materiale verso il mondo concettuale in cui vivono i capitali37.”
In questo modo, spostando l’attenzione dal paradigma della moneta a quello del
capitale, e dall’oggetto fisico al concetto, Smith ritiene di aver riparato la falla
maggiore nella nave di Searle. L’idea di fondo è che se gli oggetti sociali sono
intenzionali (ossia sono un bene comune che però sta nella nostra testa prima che nel
35
Smith 2003b p. 145.
Smith 1997.
37
De Soto 2000 : 49, corsivi miei.
36
mondo, e non a titolo di mero atto psicologico) allora l’ambito in cui conviene
trattarne è per l’appunto la sfera delle rappresentazioni, che sono poi i nostri contenuti
intenzionali, sottratti a un valore puramente soggettivo attraverso il riferimento a
oggetti ideali.
Gli scacchi di Smith. Per meglio definire la nozione di “rappresentazione”, che
gioca un ruolo centrale nella sua revisione della teoria di Searle, Smith la qualifica
come “entità quasi-astratta”, facendo l’esempio degli scacchi giocati alla cieca. L’idea
è che gli scacchi, paradigma di regola costitutiva in Searle, possono essere giocati in
assenza di qualunque supporto fisico. Si può giocare anche per internet, dove la
scacchiera non è “presente” allo stesso titolo una scacchiera fisica (per esempio, ha
due localizzazioni, corrispondenti ai due computer). Si può altresì, se si è molto
esercitati, giocare a memoria, senza che ci sia nulla fuori della nostra mente.
Soprattutto in questa versione, è facile osservare come la scacchiera pensata, che non
corrisponde ad alcuna delle rappresentazioni psicologiche (intese come “atti”) dei due
giocatori, costituisca un oggetto ideale, il terzo regno del pensiero di Frege, di cui è
anzi una buona figurazione di tipo non mistico.
Smith estende il modello allo stesso paradigma del denaro in Searle. Anche in
quel caso, da un certo punto in avanti (e con l’evoluzione tecnologica sempre più),
non abbiamo delle controparti fisiche, bensì semplicemente dei blips, delle tracce sul
computer. Anche qui c’è un oggetto sociale, a cui non corrisponde un oggetto fisico,
bensì una rappresentazione, che tuttavia è oggettiva visto che non corrisponde ai
semplici atti mentali dei due giocatori di scacchi, delle migliaia di risparmiatori
truffati dalla Parmalat, della moltitudine dei giocatori in borsa, e della turma ancora
più vasta, anche se in gran parte squattrinata, di quelli che hanno a che fare con il
denaro.
I 100 talleri. La soluzione è affascinante nella sua semplicità, ma proprio
l’assimilazione delle rappresentazioni a oggetti ideali, che costituisce la sua forza, ne
è anche il limite essenziale. Come abbiamo visto, le rappresentazioni sono gli oggetti
comuni di Frege, per esempio l’Equatore, che non è una linea immaginaria visto che
non è creata dal pensiero, che si limita a riconoscerla ed afferrarla. Ma già questo è un
problema, perché un presidente del consiglio o l’Euro non assomigliano affatto
all’Equatore, e in particolare non potrebbero esistere se non ci fosse qualcuno che
crede che esistono, diversamente da ciò che accade per l’Equatore.
Inoltre, e in base a questo ragionamento, l’Equatore c’è da sempre, mentre,
poniamo, la Polonia o la Parmalat hanno un inizio nel tempo. Il che può non essere un
male, ma trascura una circostanza cruciale, il fatto cioè che è essenziale per gli oggetti
sociali, proprio nella misura in cui hanno un inizio, il fatto di avere una forma di
registrazione. È il punto su cui ci concentreremo tra poco trattando del Testualismo
Debole. Per esempio, è difficile sostenere che, nel caso del denaro trasformato in
tracce sul computer, ci siano solo rappresentazioni e non qualcosa di fisico che
sostiene queste rappresentazioni, sebbene la sua fisicità non sia imponente. E se per
l’Equatore o per il teorema di Pitagora la forma di registrazione risulta secondaria, dal
momento che è immanente alla definizione dell’oggetto ideale il fatto di non
possedere un inizio nel tempo, per un oggetto sociale le cose vanno differentemente:
perché un oggetto sociale sia tale, è necessario un inizio temporale, e dunque la forma
della registrazione appare costitutiva dell’oggetto sociale.
L’importanza di questa osservazione è facilmente verificabile. Infatti, trascurando
questa circostanza, Smith va a urtare proprio con quel postmodernismo che avversa
come la peste. Perché a questo punto non c’è alcun modo di rispondere alla domanda:
come si distinguono di diritto 100 talleri reali da 100 talleri ideali? In fin dei conti,
c’è una differenza tra una azione Parmalat e un’altra azione, come si sono accorti in
molti, eppure in entrambi i casi, nella teoria De Soto-Smith, si tratterebbe di
rappresentazioni. Tuttavia, che cosa rende veridiche le azioni IBM e truffaldine le
azioni Parmalat, un assegno coperto da un assegno scoperto? Il fatto che registrino
qualcosa, non il fatto di essere rappresentazioni, ed è per questo che Searle aveva
dovuto impelagarsi nell’eroica vicenda degli oggetti fisici che si trasformano in
oggetti sociali. Il rappresentare qualcosa, che differenzia 100 talleri ideali da 100
talleri reali, le azioni IBM dalle azioni Parmalat, un cavallo da un centauro, è una
circostanza di cui la teoria di Smith non rende conto. D’altra parte, come abbiamo
visto, la teoria di Searle non tiene. Ed ecco il risultato:
Realismo forte
Gli oggetti sociali sono solidi
quanto gli oggetti fisici
Testualismo forte
Gli oggetti fisici sono
socialmente costruiti
Realismo debole
Gli oggetti sociali sono costruiti
su oggetti fisici
Testualismo debole
Gli oggetti sociali sono costruiti
su registrazioni (piccoli oggetti
fisici)
5. Testualismo debole
Il 31 gennaio compro una camicia a un saldo. Non ho contante (“moneta” in
senso tradizionale) e inoltre temo di avere esaurito la disponibilità del bancomat (è
l’ultimo giorno del mese), per cui alla domanda “carta o bancomat?” rispondo
“carta”.
La cassiera introduce la carta (che fisicamente coincide con il bancomat) in una
macchinetta, attiva tutta una rete di dimensioni gigantesche (in effetti, in certi casi
posso anche pagare con il telefonino, per esempio fare offerte per le vittime dello
Tsunami), e a un certo punto esce un pezzo di carta stampato.
Anche qui una scena normalissima, ma che implica una immensa ontologia
invisibile, e inoltre un singolare arcaismo. Perché sul foglio di carta devo mettere un
vetusto scarabocchio che è la mia firma (e che non coincide necessariamente con il
mio nome più di quanto un codice del bancomat coincida con la somma in Euro che,
per ipotesi, ho in banca nel momento in cui lo digito). È una stranezza, a ben
pensarci. E, per l’appunto, se avessi usato il bancomat avrei dovuto, sebbene in
forma più tecnologica, adoperare una stessa iscrizione idiomatica.
Avrei potuto farlo anche in piena assenza di tecnologia. Poniamo che io il 31
gennaio mi fossi sposato. Anche lì, avrei dovuto apporre la mia firma, insieme a
quella di mia moglie e dei testimoni, su un registro. Tutto questo in conformità a un
rito e a una formulazione idiomatica (se invece di dire “sì” dicessi “certamente”,
esprimerei lo stesso oggetto, ma non lo stesso contenuto, e il matrimonio non sarebbe
valido; così come ci sarebbe motivo di impugnare una promessa in cui promettessi in
falsetto, o toscaneggiando, o imitando il dialetto napoletano o bergamasco).
Morale: perché ci sia un oggetto sociale, dall’acquisto di una camicia ai saldi a
un matrimonio, ci vuole una iscrizione, e bisogna che sia idiomatica. È qui che può
trovare risposta l’enigma di Searle. Ma per farlo bisogna cambiare prospettiva, con
una piccola rivoluzione copernicana, che riporti in auge quel terzo termine della
partizione di Twardowski, il contenuto, che sinora è stato trascurato.
5.1. Dall’Oggetto al Contenuto
Come? È presto detto. Come abbiamo visto, la difficoltà del Realismo Debole
consisteva nel fatto che o ancoriamo gli oggetti sociali agli oggetti fisici, e ci troviamo
di fronte allo scoglio degli oggetti sociali che non possiedono un corrispettivo fisico;
oppure consideriamo che gli oggetti sociali sono “rappresentazioni”, e allora
ricadiamo nel postmoderno, nella impossibilità di distinguere di diritto 100 talleri reali
da 100 talleri ideali. Bisogna trovare una soluzione, e una indicazione viene proprio
da un passo di Searle, che a un certo punto38 scrive: “Spesso i fatti bruti non si
manifesteranno come oggetti fisici, ma come suoni provenienti dalla bocca della gente
o come segni sulla carta (o anche come pensieri nella loro testa)”.
Perché è così importante questo passaggio? Suoni, segni, pensieri, non sono
oggetti fisici imponenti come Stati o persone. Possiedono meno molecole. Tuttavia,
non sono semplicemente privi di spessore fisico: un suono comporta delle vibrazioni,
un pensiero comporta una attività elettrica cerebrale, e questo vale anche per i segni
sulla carta. Quest’ultima circostanza, a ben pensarci, è più rivelativa di quanto non si
38
Searle 1995, p. 44.
creda, perché “segni sulla carta” sono, per l’appunto, le banconote, il paradigma
dell’oggetto sociale standard per Searle. Che dunque è sì un oggetto, ma con poche
molecole, prova ne sia che l’aspetto davvero decisivo, in una banconota, quello che la
trasforma da un oggetto fisico, poniamo un disegno, in un oggetto sociale, sono le
poche molecole della firma del governatore che ne sancisce la validità. Quelle poche
molecole, inoltre, non sono troppo diverse dai blip sul computer della banca, e dunque
la circostanza che creava tanti problemi a Searle, il fatto cioè che sussistesse una
differenza di principio tra una banconota e una traccia sul computer, vien meno: si
tratta di oggetti dello stesso genere, che hanno delle caratteristiche comuni.
Quali? Essenzialmente, due, quelle che ho ricordato un po’ enigmaticamente
nell’esempio del saldo e del matrimonio.
1. L’oggetto sociale, in questa versione, è iscritto. Cioè, ha poche molecole,
meno di quanto accada a un oggetto fisico imponente del tipo di quelli che
stanno alla base della teoria standard di Searle. Al tempo stesso, per poche
che siano, quelle molecole sono qualcosa, non sono una semplice
rappresentazione, come potrebbe accadere per un oggetto ideale che
possiede il suo essere indipendentemente da qualunque individuo che lo
pensi. E dunque quelle poche molecole rendono conto della espressione
un po’ sibillina usata da Smith, “entità quasi-astratta”: l’entità deve essere
registrata da qualche parte nello spazio-tempo attuale, e questo richiede un
minimo di molecole.
2. La localizzazione ci fornisce anche un altro elemento dell’oggetto sociale,
che è idiomatico, cioè registrato in un modo peculiare. Il califfo arabo
pagava il suo tributo all’imperatore bizantino Giustiniano II in copie di
nomismata, la moneta bizantina. Nel 692 l’imperatore incominciò a
coniare nomismata contrassegnati dal busto di Cristo; il califfo versò
l’ammontare d’oro in monete prive del ritratto di Cristo, e Giustiniano
dichiarò guerra39. Morale: la materia, fosse pure l’oro, è un eccipiente,
mentre il principio attivo è per l’appunto l’iscrizione idiomatica. Una
banconota da 50 euro possiede una determinata forma e colore, se fosse
diversa non basterebbe la scritta “50 euro” a determinarne la validità, non
più di quanto “50 euro” ottenuti, per ipotesi, con una banconota da 37
euro e con un’altra da 13 euro siano davvero 50 euro, poiché quelle
banconote non esistono (mentre il numero 50 si può effettivamente
ottenere, e resta lo stesso, sia che si sommi 13 a 37, sia che si sommi 49 a
1, sia che si sommi 25 a 25). Si osserverà che gli assegni sono
effettivamente differenti a seconda delle banche. Ma, a parte il fatto che
devono essere uguali all’interno della stessa banca, a rendere idiomatico e
dunque valido l’assegno è la firma del titolare del conto. Poche molecole,
di nuovo, tracciate in un modo peculiare (una firma non è semplicemente
un nome), che garantiscono la presenza spazio-temporale del firmatario
nel momento in cui ha staccato l’assegno.
Queste due considerazioni ci permettono di rileggere con occhi diversi anche il
passo di De Soto citato poco fa, sottolineando un gerundio, “rappresentando”.
Rileggiamo il passo, sottolineando quello che viene immediatamente dopo: “Il
capitale nasce rappresentando per iscritto – in un titolo, in una garanzia, in un
contratto o in altri records di questo tipo – le qualità più utili dal punto di vista
39
Treadgold 2001, p. 135.
economico e sociale [associate a un asset dato]. Nel momento in cui rivolgete la
vostra attenzione al documento di proprietà di una casa, per esempio, e non alla casa
in se stessa, avete fatto automaticamente un passo dal mondo materiale verso il
mondo concettuale in cui vivono i capitali”. Ecco fatto. L’elemento cruciale che
costituisce il capitale è lo scritto, non la semplice rappresentazione (che potrebbe
valere per un oggetto ideale ma non determina un oggetto sociale). E non si tratta di
uno scritto qualsiasi, bensì di uno scritto idiomatico, che contiene qualcosa come una
firma.
Tenendo conto di queste due coordinate, il testualismo di Derrida fonda la
consistenza specifica degli oggetti sociali non sull’atto né sull’oggetto (fisico o
ideale), bensì sul modo di presentazione e di registrazione idiomatico dell’oggetto. E
dunque, rispetto a tutte le formulazioni sin qui incontrate, Derrida pone l’accento,
nella tripartizione di Twardowski, proprio sul contenuto, ossia sul modo di
presentazione idiomatico. Nel nostro schemino, funziona così:
Atto: processo psichico
Contenuto: iscrizione idiomatica
Oggetto: idea comune
Vorrei in breve chiarire che cosa intendo con “idiomatico” e con “iscrizione”. Il
primo punto si può illustrare parlando di “firme”, il secondo di “registrazioni”.
5.2. Firme
Che cosa è una firma? Derrida non ha mai parlato di “contenuto” nel senso di
Twardowski, sebbene abbia dedicato moltissima attenzione al problema dello stile,
che gli è valso un costante rimprovero di estetismo. In effetti, sembra difficile dire che
cosa sia uno stile, ma le cose divengono più semplici se ci concentriamo su un
fenomeno usuale e prosaico come la firma, quello strano arcaismo che sembra così
importante nella sfera degli oggetti sociali. Una firma, come una grafia, può essere
bella o brutta, ma questa è una faccenda del tutto diversa dal fatto che una firma sia
falsa. Dunque, l’estetismo non c’entra per niente.
È questione di idiomaticità: perché in una società in cui in pratica non si scrive
più a mano, e su carta, atti decisivi richiedono l’intervento di un nome scritto a mano,
e che è valido solo, in un modo di presentazione specifico? Qui tocchiamo un punto
decisivo quanto all’essenza degli oggetti sociali40, e non è un caso che il saggio in cui
Derrida si è impegnato più nettamente nella definizione della natura degli oggetti
sociali41, e che ha suscitato le ire di Searle42. Cercando di formalizzare al di là degli
esempi.
1. La firma non corrisponde all’atto. Pensare di firmare non è firmare. Ma
firmare è per l’appunto manifestare una intenzione individuale.
2. La firma non corrisponde all’oggetto. All’oggetto corrisponde il nome,
40
In tedesco, che non è necessariamente una lingua filosofica ma è sicuramente una lingua come
tutte le altre, “ditta”, “corporation”, si dice “Firma”, con un italianismo che si riferisce presumibilmente
al diritto di firma che sta alla base, per l’appunto, di quelle azioni che costituiscono l’identità di una
azienda.
41
Derrida 1971.
42
Searle 1977.
mentre al contenuto corrisponde, per l’appunto, la firma, che può essere
anche identica al nome (come quando si truffa un contadino che non vuol
firmare dicendogli di scrivere semplicemente il suo nome) o del tutto
differente (come quando un analfabeta scrive una croce), ma che, quanto a
essenza, non gli corrisponde, come si può verificare facilmente.
Io posso scrivere:
Maurizio Ferraris
Maurizio Ferraris
Maurizio Ferraris
Maurizio Ferraris
Si tratta sempre di un nome, lo stesso, e non di quattro nomi.
Posso anche scrivere:
Maurizio Ferraris
Maurizio Ferraris
Maurizio Ferraris
Maurizio Ferraris
In tutti questi casi, continua a essere un nome (scritto in corsivo), ma non è mai
una firma. E se volessi considerarlo una firma, allora sarebbe una firma falsa.
Si può anche dare il caso in cui, sullo stesso supporto fisico, ci sono, per esempio,
quattro nomi, ma solo tre firme. Prendiamo questa cartolina destinata a Gadamer e
firmata da Derrida, da Vattimo e da me (che poi mi sono dimenticato di spedire). È
per l’appunto il caso della compresenza di 4 nomi a cui corrispondono 3 firme (non
c’è la firma di Gadamer, ma il suo indirizzo, che sarebbe rimasto lo stesso anche se
fosse stato scritto con la grafia di Vattimo o di Derrida).
A cosa serve? Ora, come dicevo, l’attenzione al contenuto ha suscitato molti
sospetti nei confronti di Derrida, e in particolare l’accusa di estetismo, perché in
effetti il modo standard per spiegare che cos’è il contenuto è riferirsi allo stile, alla
maniera idiomatica di un artista. Ma non è solo questione di arte, e poi l’arte ha delle
implicazioni tutt’altro che futili, come possiamo verificare facilmente. Lasciamo pure
da parte l’atto, il processo psichico, dove tutta la questione si risolve nel detto per cui
l’arte non è questione di buone intenzioni, e pensare una poesia non è scriverne una,
come ha sottolineato Croce43 con la dottrina della espressione. E concentriamoci sugli
oggetti e sui contenuti.
A parità di oggetti, i contenuti possono risultare differenti: si pensi alla differenza
tra Madame Bovary e la stessa storia (lo stesso oggetto) raccontata da un altro
scrittore (questo effettivamente avviene, per esempio nelle tragedie, o nei romanzi
storici che hanno lo stesso oggetto, poniamo lo sbarco in Normandia). Così pure, due
quadri che possiedono lo stesso oggetto, poniamo Antonio e Cleopatra, o la fuga in
Egitto, possono risultare completamente differenti. Mentre questo non accade per gli
oggetti ideali: il teorema di Pitagora resta uguale indipendentemente dal supporto, dal
gesso o pennarello con cui si disegnano le figure, dai colori, dalla precisione della
esecuzione, dalle dimensioni della rappresentazione.
Tutto questo, si dirà, è per l’appunto puro estetismo, una esperienza marginale
che può diventare interessante dal punto di vista degli oggetti sociali solo quando, per
esempio, l’arte diventa mercato, diritto d’autore ecc. ecc. Certo, ammettiamolo pure,
anche se non si capisce per quale motivo, allora, uno si lasci guidare così
potentemente, nella vita sociale che è ciò che ci interessa qui, dalle forme e dagli stili,
cioè da ciò che nella nostra terminologia sono i contenuti. Perché, insomma, le
segreterie delle aziende e dei telefonini hanno dei messaggi registrati con una voce
femminile? Non andrebbe altrettanto bene una voce maschile rauca e dialettale, o
quella di Marlon Brando nel Padrino? Perché la gente vuole dei vestiti firmati?
Ipotizziamo comunque –vasto disegno!- una società che sappia dove incomincia e
dove finisce l’estetismo. Sarebbe forse una società che si regola solo sulla base
dell’atto e dell’oggetto, confinando il contenuto a quella che un tempo si chiamava la
domenica della vita? Niente affatto. Un signore va a un vernissage, apprezza il
contenuto, cioè lo stile dell’artista. Può farlo perché è in una galleria d’arte e non in
un tribunale o in un ufficio: nessuno gli potrà rimproverare il suo deplorevole
penchant per il contenuto dal momento che si trova proprio in un luogo deputato alla
esibizione di contenuti. Tutto a posto, dunque, siamo per l’appunto alla domenica
della vita.
Ora però succede qualcosa di abbastanza imbarazzante per una teoria della
circoscrivibilità del contenuto. Se un quadro gli piace molto, e se il suo conto in banca
glielo permette, il signore estrarrà un libretto degli assegni, scriverà una cifra (che è
indubbiamente un oggetto), poi il nome dell’artista (che è indubbiamente un oggetto:
non importa come sia tracciato, purché sia leggibile, proprio come il teorema di
Pitagora), e a questo punto, in basso a destra, scriverà il proprio nome, ma non in un
modo qualsiasi: scriverà una firma, che è il suo nome tracciato in un modo peculiare
(in taluni casi, assomiglierà pochissimo al nome, sarà uno scarabocchio, basta che la
banca lo riconosca, e questo indica la parziale irrazionalità della richiesta che viene
talora avanzata di apporre una “firma leggibile”). Da quel momento, diventerà
proprietario dell’opera, cioè di un contenuto idiomatico, che il più delle volte viene
convalidato dal fatto che l’autore, a sua volta, ha apposto in basso a destra, nel
quadro, la propria firma.
Il momento decisivo della transazione non è consistito né nell’atto (pensare di
comprare un quadro non è comprare un quadro più di quanto pensare di dipingere un
quadro equivalga a dipingerlo), né nell’oggetto (tranne che nell’arte concettuale,
quella che per l’appunto ha enfatizzato l’oggetto, appropriarsi di un quadro non è
43
Croce 1902.
appropriarsi dell’oggetto rappresentato, altrimenti una mostra di quadri equivarrebbe a
una lezione di geometria), bensì nel contenuto: lo stile dell’artista, la firma
sull’assegno, la firma sul quadro. E questo contenuto è talmente decisivo che un
conoscitore potrà contestare l’attribuzione di un quadro in cui la firma dell’artista sia
vera, ma lo stile non corrisponda esattamente. Si potrà andare in tribunale, e si
discuterà della faccenda, che avrà due aspetti, uno considerato come estetico (lo stile
del pittore) l’altro no (la sua firma), ma in entrambi i casi si parlerà di contenuto.
In effetti, le firme non sono affatto opere d’arte, questo è poco ma sicuro, né si
adibiscono semplicemente a funzioni estetiche. Si possono apporre firme per pagare
un conto al ristorante di un albergo, per convalidare la ricevuta di una carta di credito
(che dunque diventa denaro proprio all’atto della firma), per comprarsi una casa o un
biglietto di treno. In taluni casi la firma potrà essere sostituita da un codice, per
esempio quello del bancomat, ma, di nuovo, quel codice non ha altro significato che
la rappresentazione idiomatica.
Inoltre, le firme non sono neppure, necessariamente, delle iscrizioni cartacee,
come abbiamo appena visto a proposito dei codici dei bancomat. Possono anche
indicare semplicemente un modus operandi. Si dice talvolta che il ladro ha lasciato la
sua firma, che non è ovviamente un bigliettino, a meno che sia Arsenio Lupin, né le
impronte digitali, bensì per l’appunto un certo stile che si ripete, anche con il variare
degli oggetti legali implicati (rapina, furto con scasso, furto con destrezza ecc.). E
questa circostanza, che rivela la separazione della nozione di “contenuto” da quella di
“estetismo” si può ritrovare in un campo come quello della proprietà intellettuale,
dove, vale la pena di notarlo, il problema è proprio di assegnare una idea (un oggetto
comune) a un soggetto (il portatore di un atto), e la soluzione viene solitamente
apportata precisamente dal ricorso al contenuto.
Proprietà intellettuale44. Da questo punto di vista, il caso della proprietà
intellettuale appare paradigmatico. La proprietà intellettuale si esercita su tre tipi di
oggetti sociali:
1. Le espressioni (per esempio, i romanzi), garantite dallo stile.
2. I trade mark, ossia i marchi depositati, che sono semplicemente dei nomi
trasformati in firme, spesso legandosi a un logo peculiare. Coca Cola,
Fiat, Microsoft sono nomi propri trasformati, attraverso una iscrizione
idiomatica, in firme; a questo fine, può bastare semplicemente il ©, vale a
dire il segno del copyright, che tutela la riproducibilità di ciò che, a questo
punto, viene assimilato a una firma.
3. I brevetti, che risultano i più difficili da tutelare proprio perché sembrano
riferirsi piuttosto a delle idee (ossia a ciò che, nella nostra partizione,
corrisponde all’oggetto).
Ovviamente, gli atti non rientrano nella nostra partizione perché nessuno può
sognarsi di far brevettare una idea che semplicemente ha avuto, per l’appunto, in
sogno, senza preoccuparsi di farla registrare da qualche parte. Sicché, disponendo i
tre fenomeni della proprietà intellettuale nella tripartizione usuale, otteniamo
questo schema:
Atto: processo psichico
Contenuto:
iscrizione Espressioni, Trade Mark
44
Ferraris 2003.
idiomatica
Oggetto: idea comune
Brevetti
Lasciati da parte gli atti per il motivo che ho appena ricordato, vorrei far notare in
primo luogo come funziona il contenuto nella tutela delle espressioni (visto che il suo
funzionamento è ovvio nei Trade Mark, attraverso l’assimilazione alla firma) e in
secondo luogo come la tutela dei brevetti, che corrispondono agli oggetti, può avere
successo attraverso l’assimilazione al contenuto, che, come stiamo notando, diviene
qualcosa di sempre meno futile ed estetistico.
Espressioni. Qui, per l’appunto, non ci sono grossi problemi. “Quel ramo del lago
di Como” è di Manzoni; non è di Manzoni la storia di due fidanzati perseguitati da un
signorotto di campagna (in effetti, potrebbe essere di Walter Scott, che è tra i modelli
di Manzoni). L’espressione viene tutelata nelle diverse lingue in cui può essere
tradotto il libro, e indipendentemente dal medium di diffusione: libro (in qualunque
carattere o tipo di stampa), radio, CD, e ovviamente anche cinema e televisione (dove
si suppone che a venire diffusa non sia solo la storia, ma anche i caratteri dei
personaggi, la forma dei dialoghi ecc.: una edizione televisiva dei Promessi sposi in
cui Lucia fosse una gigantessa, Renzo un nano, Padre Cristoforo un ubriacone con i
capelli verdi ecc., sarebbe una parodia).
Rispetto alla teoria di Searle, c’è una osservazione da fare. Viene tutelata
l’espressione individuale, ma a livello di type, non di token. Chi ha comprato un libro
può distruggerlo sotto gli occhi dell’autore45, ma non può appropriarsi
dell’espressione letterale delle sue idee, indipendentemente dalla lingua in cui
vengono scritte. Il che significa, contrariamente alla tesi di Searle, che la base fisica è
irrilevante rispetto alla costituzione della identità dell’oggetto sociale.
Brevetti. Come dicevo, questa tutela diviene molto più difficile qualora si debba
applicare alle idee, cioè a quanto, nella tripartizione di Twardowski, corrisponde
all’oggetto. Già sul piano delle espressioni-contenuti, risulta che espressioni troppo
ovvie sono difficili da tutelare: una volta un impiegato della birra Queen coniò lo
slogan “The Queen of the Beer”, ma non riuscì a tutelarlo perché la corte gli fece
notare che “chiunque avrebbe potuto coniare uno slogan del genere”. Sembra che
questa situazione sia la norma nella tutela delle idee, perché appare immanente alla
nozione di idea che chiunque possa averne una, ossia proprio quella idea: chiunque
avrebbe potuto scoprire il teorema di Pitagora o le leggi di Newton, altrimenti non
sarebbero quello che sono, cioè idee, mentre nessuno tranne Cervantes avrebbe potuto
scrivere il Chisciotte, che infatti diventa una cosa radicalmente diversa da quella che è
nel momento in cui Pierre Ménard, nel racconto di Borges46, lo riscrive alla lettera.
D’accordo con Frege47, infatti, le idee vere sono diverse dalla rappresentazione
individuale che ne abbiamo, e dunque –a rigore- le sole idee di cui qualcuno potrebbe
legittimamente rivendicare la proprietà sono quelle completamente false, o magari
vagamente insulse (quelle che rinfacciavano a Platone per chiedergli malignamente se
esistessero: l’idea del grasso, dello sporco sotto le unghie, delle squame dei pesci).
Una simile concezione delle idee si presta male alla disciplina dei brevetti, o
45
Kant 1785
Borges 1984.
47
Frege 1918.
46
meglio si può applicare solo in circostanze molto specifiche, quelle in cui una idea
sbagliata si riveli, in modo imprevisto, una buona idea, come nel caso del post-it, nato
dal fallimento di un tecnico della 3m che aveva inventato una colla che attaccava
male. Come risultato, sembra proprio che, di nuovo, anche nel caso dei brevetti la sola
via per garantire una proprietà consista nel ricondurre l’idea (impersonale: oggetto)
all’espressione (personale: contenuto). La strategia è in due mosse.
La prima consiste nel chiarire quale sia il tipo di idea con cui si ha a che fare
quando si parla di “proprietà delle idee”. Non si tratta di una idea oggettiva e separata,
appartenente a un ipotetico intelletto unico averroista, bensì di un esempio, come tale
generalizzabile anche al di là della prima realizzazione, ma non a prescindere da essa.
Prendiamo il Tetrapak. L’idea è quella di un parallelepipedo, dunque non è tutelata.
Ma neppure l’espressione è fissa: può essere grande, piccolo, di colore diverso.
Eppure, la tutela è possibile, giacché si applica all’espressione sensibile (il primo
esempio) e alle generalizzazioni che se ne possono trarre. (Dipende probabilmente da
questa circostanza il fatto che certi succhi di frutta abbiano dei modi di apertura
barocchi e balordi, per aggirare il brevetto.)
E’ qui che interviene la seconda mossa. Proprio la rappresentazione individuale,
che per Frege non fa parte dell’idea, è ciò che permette di personalizzarla. Le idee
vere possono venire a chiunque, però ognuno ne ha una peculiare rappresentazione,
proprio come ognuno ha una immagine diversa quando viene invitato a pensare a
qualcosa. Ora, è precisamente quella rappresentazione individuale che, accedendo al
livello di espressione, ossia di contenuto, può essere sottoposta a tutela, diventando un
oggetto sociale. Pensiamo al caso della invenzione della macchina per cucire così
come ci viene raccontata da Freud nella Interpretazione dei sogni. Il proprietario
dell’idea aveva sognato ciò che, nella lettura freudiana, andava interpretato come una
fantasia sessuale; poi ne aveva tratto l’applicazione esemplare nella macchina per
cucire, che costituisce, per l’appunto, l’immagine interna soggettiva nel senso di
Frege, e che appare come strettamente individuale, giacché in effetti nessun sogno
erotico aveva sino ad allora suggerito una espressione di quel tipo.
Iscrizioni. Un’ultima considerazione. Quanto si è detto della disciplina dei
brevetti non sempre funziona, eppure, si potrebbe osservare, i brevetti esistono. Come
è possibile?
Semplicemente perché, non diversamente dai Trade Mark che non posseggono un
logo, e ricorrono alla formula ©, si procede a una registrazione, che fissa spaziotemporalmente, in un atto pubblico, la personalizzazione di una idea. In altri termini,
se fosse esistito il diritto d’autore all’epoca di Pitagora, ebbene, Pitagora avrebbe
potuto brevettare il proprio teorema riservandosi dei diritti per ogni suo sfruttamento
pratico, pur restando inteso che si trattava della socializzazione di un oggetto ideale,
che come tale esiste indipendentemente dal suo scopritore. Viceversa, nel caso
dell’inventore della macchina per cucire, avevamo a che fare con la socializzazione di
un atto psicologico del tutto idiomatico. Eppure, la registrazione, in entrambi i casi (la
scrittura del teorema, il deposito dell’invenzione) assicura la costituzione di un
oggetto sociale superando le rilevantissime differenze che intercorrono tra il primo e il
secondo caso.
Questa considerazione ci introduce al secondo elemento centrale del Testualismo
Debole, ossia alle registrazioni, che, caratteristicamente, non sono assolutamente
prese in considerazione nella teoria di Searle, evidentemente spaventato dalle
conseguenze postmoderne del principio “nulla esiste al di fuori del testo”. Un
principio che, insensato nel caso degli oggetti fisici, e valido molto limitatamente in
quello degli oggetti ideali, appare viceversa decisivo e del tutto pertinente in quello
degli oggetti sociali.
5.3. Registrazioni
Il carattere quasi mistico della trasformazione di un oggetto fisico in un oggetto
sociale, che Searle imputa alla “intenzionalità collettiva” senza chiarire a sufficienza
la natura di un pezzo così importante della sua teoria si può chiarire attraverso la
registrazione, quello che, in Bergson, unisce materia e memoria 48. Invece di
appellarsi a una funzione occulta come l’intenzionalità collettiva, la costituzione degli
oggetti sociali può essere più utilmente spiegata attraverso una funzione nota e palese
come la memoria. È il fenomeno della registrazione (nella memoria così come in atti e
in documenti) il fondamento della realtà sociale, che può trasformare oggetti fisici in
oggetti sociali, ma anche –ed è un aspetto non meno rilevante- ci permette di rendere
conto anche di quegli oggetti sociali a cui non corrisponde, in apparenza, una entità
fisica.
Di uno Stato o di una multinazionale non sarà facile trovare una controparte fisica
evidente, se si guarda, poniamo, al puro territorio (che può cambiare), o ad altri
oggetti fisici come edifici o dipendenti. Ma sarà sempre possibile trovare degli atti e
dei documenti scritti, che sono qualcosa di fisico, anche se non dotato della fisicità
imponente a cui pensa inizialmente Searle.
2.5.4. La soluzione delle aporie di Searle
Cerco conclusivamente di mostrare come questa teoria, che si appoggia sulla
firma e sulla registrazione, permette di rendere conto di tutte le entità sociali
problematiche in Searle, senza cadere nel rappresentazionalismo di Smith. Per farlo,
esaminerò una serie di oggetti sociali la cui controparte fisica è caratterizzata da un
numero decrescente di molecole: uno Stato, come la Polonia; una industria pesante,
come la Fiat; una industria leggera, come la Telecom; una compagnia di telefonia
cellulare, come la Vodafone; e infine una entità negativa, come il debito della
Parmalat.
Dov’è l’essere della Polonia? “dov’è l’essere dello Stato?”, si chiedeva
Heidegger, come abbiamo visto. E proseguiva dicendo che “Non è né proprietà
enumerabili, né cosa localizzabile, ma ciò di cui partecipano l’una e l’altra.” Sì, ma di
cosa si tratta?
Certo, Heidegger aveva ragione (contro Searle), non è una questione di oggetti
fisici. La Germania di cui parlava Heidegger nel 1935 si era trasformata, quando il
libro venne pubblicato in Bundesrepublik Deutschland, DDR, Polonia,
Cecoslovacchia, Unione Sovietica, e successivamente alcune di queste entità sono
scomparse. Inoltre, anche nel momento di massima concentrazione che avevo
indicato con l’esempio del Bunker della Cancelleria, lo Stato tedesco non era tutto lì,
c’erano truppe e autorità concentrate sul confine danese, dove si svolse la
capitolazione. Solo allora ebbe fine lo Stato tedesco, grazie a una firma. E quando
Berlino era già occupata dai Russi, a Praga (che geograficamente non era in
48
Ferraris 1997.
Germania) c’era lo Stato tedesco.
La migliore dimostrazione del fatto che l’identità di un oggetto sociale come uno
Stato non è garantita dall’oggetto fisico soggiacente è data dalla Polonia. Guardate
come si sposta Varsavia, a oriente e a occidente, a nord e a sud, nelle diverse
trasformazioni della tormentata storia polacca.
Ecco la Polonia di oggi, con Varsavia abbastanza spostata a oriente, per via delle
acquisizioni territoriali postbelliche avvenute in gran parte a spese della Germania.
Ed ecco la Polonia del 1941, sotto il controllo tedesco. Varsavia è all’estremo
occidente, quasi sul confine.
Ecco invece la Polonia degli anni Venti, molto estesa territorialmente giacché i
due vicini, la Germania e l’Unione Sovietica, avevano avuto problemi (una guerra
persa e la rivoluzione russa). Varsavia è al centro di un territorio molto vasto, ed è un
po’ spostata verso occidente.
Questa è invece la Polonia dell’età napoleonica. Varsavia è al confine orientale.
Può essere interessante notare che invece, nel 1772, Varsavia era al confine
settentrionale.
A questo punto non ci si stupisce più di nulla, per esempio del fatto che, nel 1300,
non riusciamo a determinare la posizione di Varsavia in Polonia, semplicemente
perché c’è la Polonia (che peraltro abbiamo visto ruotare vorticosamente intorno a
Varsavia), ma non c’è Varsavia.
È poco ma sicuro: l’identità della Polonia non viene dalle sue molecole. E
sostenere che viene da una intenzionalità collettiva resta una affermazione abbastanza
vaga e mistica, soprattutto per un uomo con i piedi per terra come Searle. Di fatto, è
ovvio, l’identità della Polonia viene da trattati, da registrazioni scritte, da accordi, che
hanno tutti l’interessante proprietà di recare delle firme a piè di pagina.
Dov’è l’essere della Fiat? Prendiamo ora il caso di un oggetto sociale il cui
supporto fisico, sia pure ingente, consiste in un numero di molecole molto inferiore
rispetto a uno Stato, ossia una industria pesante come la Fiat. Prendiamo il caso della
Fiat degli anni Trenta. Il suo essere fisico consisteva nello stabilimento del Lingotto,
negli operai, negli impiegati e dirigenti, nel vecchio senatore Agnelli, nelle
automobili. Ma è proprio così?
Ovviamente no. Come nel caso della Polonia, il Lingotto può diventare un museo,
un albergo e un palazzo di congressi che non appartiene più alla Fiat, gli operai
possono (quasi) scomparire, Agnelli (non solo il vecchio senatore, ma anche suo
nipote) può non esserci più, eppure la Fiat continua ad esserci, e le sue difficoltà non
sono di tipo identitario.
Si noti anche questo: le automobili, che ci sono sempre state e ci sono ancora
adesso, costituiscono l’essere della Fiat solo fino a quando sono vendute, dopo
rientrano nei possessi privati dell’acquirente. Ovviamente, Searle spiegherebbe tutto
questo con l’intenzionalità collettiva, ma non sarebbe meglio dire che l’operazione
magica per cui un’auto non è più della Fiat ma mia è un contratto, una forma di
registrazione, caratterizzata anche qui, guarda un po’, da due firme, quella di chi
vende e quella di chi compra. E contratti del genere sono alla base (insieme a libri
contabili, pacchetti azionari, comunicazioni, lettere con carta intestata, fax, buste paga
ecc.) della identità della Fiat, che, proprio come la Polonia, non dipende dalle sue
molecole fisiche (tutto sommato, le firme che definiscono l’identità della Fiat saranno
poco di meno di quelle che definiscono l’identità della Polonia).
Dov’è l’essere della Telecom? Adesso lasciamo l’industria pesante e veniamo a
una compagnia di servizi, per esempio la Telecom di una trentina di anni fa, all’epoca
in cui si chiamava Sip (e prima Stipel). Quali sono le molecole fisiche che ne
definiscono l’identità? Anche qui, un certo numero di operatori, dei palazzi per uffici,
ma, molto caratteristicamente, anche gli apparecchi telefonici (di cui la compagnia
rimase a lungo proprietaria) e le linee telefoniche.
Ma molti ricorderanno che quindici anni fa ognuno ha potuto comprarsi i telefoni
che voleva, sicché i telefoni Telecom non sono più stati gli unici telefoni in casa, e
oggi costituiscono una minoranza. Inoltre, la Telecom ha perso progressivamente il
monopolio delle linee telefoniche. Bisogna concludere che la Telecom è diventata una
cosa diversa? In un senso, sì, non è più la compagnia monopolistica in Italia con quel
che ne segue. Ma, come la sua identità nel passaggio dalla Stipel alla Sip alla Telecom
non dipendeva dagli apparecchi e dai fili, così ora –come sempre- la sua identità
consiste in firme.
Morale: apparecchi e linee telefoniche possono sparire o cambiare proprietà,
questo non comporta necessariamente la scomparsa di Telecom. Basta che non
scompaiano le firme, se ciò avvenisse sarebbe un vero guaio.
Dov’è l’essere della Vodafone? Quest’ultimo interrogativo ha il vantaggio di
togliere di mezzo moltissime molecole –molte più che la Polonia, la Fiat, e persino la
Telecom. Perché in effetti la Vodafone non ha mai posseduto telefoni o fili, essendo
una compagnia di telefonia mobile. Uno può comprarsi il telefonino che vuole ecc. E
allora dov’è l’essere della Vodafone? In quali molecole consiste?
Uno sarebbe tentato di rispondere che quell’essere consiste in Megan Gale, ma
chiaramente non è così. Megan Gale rappresenta la Vodafone, non è la Vodafone.
Non è neanche di proprietà della Vodafone (si può affittare una macchina, non una
persona)
Dov’è, dunque, l’essere della Vodafone? Semplice: nella Sim (indipendentemente
dal supporto); in atti depositati in tribunale indipendentemente dal supporto); in azioni
(indipendentemente dal supporto). Che sono altrettanti tipi di firme (il codice
depositato nella Sim è l’essenza di una firma, che stabilisce l’unità concettuale tra i
blip del computer della banca, il codice genetico, il tratto di inchiostro sulla carta).
Dov’è l’essere del debito Parmalat? Sempre più difficile. Veniamo a una
situazione in cui le molecole sono davvero pochissime, anzi, a rigore non ce ne sono,
visto che si tratta di una entità negativa, quella che poneva tanti problemi a Searle: il
debito. Un debito non dovrebbe avere una sola molecola, dunque dovrebbe essere
infinitamente meno denso della Polonia, della Fiat, della Telecom, e persino della
Vodafone. Invece non è così. Più o meno, un debito ha lo stesso numero di molecole
di tutti e quattro gli altri oggetti sociali che ho citato.
“Non nelle casse del comune, nel suo cuore era l’ammanco”, scriveva Vittorio
Sereni nella Intervista a un suicida, racconto lirico di un contabile di Luino uccisosi
per un buco. Nei tempi della Parmalat (e del suo vertice riunito a San Vittore, come
ricordava Il manifesto), il buco torna di attualità. Come si è arrivati al buco?
Su Repubblica del 4 gennaio 2004 leggevamo, in un articolo dedicato al buco:
“Secondo i progetti originali dovevano essere nascosti, come un cadavere
ingombrante, in una buca scavata nella notte nel bel mezzo della pianura padana,
proprio alle spalle della sede Parmalat. E invece sono finiti nelle mani sbagliate,
quelle dei magistrati di Milano, e hanno dato il via al gran valzer delle manette. Sono
tre foglietti in cui i contabili Parmalat, poche ore prima dell’esplosione del caso,
avevano riassunto il bilancio della società discarica del gruppo, quella destinata a
raccogliere tutti i debiti (e con questi buona parte dei segreti) di Tanzi e soci: la
Bonlat. Tre foglietti, di cui Repubblica rivela il contenuto.”
Sarà che si trattava, come abbiamo appena letto, di una società-discarica, però è
anche vero che quello di scavare un buco per seppellire tre foglietti era un progetto
davvero originale. Bruciarli, inghiottirli, farli a pezzettini e disperderli nell’ambiente,
alla peggio buttarli nel gabinetto, come si impara anche al cinema, sembrano modi
molto più pratici per far sparire tre foglietti. E invece, no. I vertici della Parmalat
hanno voluto strafare: un altro buco, dietro l’azienda: che richiede tempo, notti senza
luna, e alla fine può essere scoperto. Con il risultato che i tre foglietti li hanno trovati
prima i magistrati, poi Repubblica. Perché? Perché restavano, appunto, delle tracce.
Funziona anche con la Enron, a dimostrazione del fatto che non si tratta di una
mera questione locale o parrocchiale. Tra i commenti che accompagnarono il crack,
un quotidiano finanziario metteva al primo posto delle dieci cose che si potevano fare
con una azione Enron: “Use it for sanitary disposal and other bathroom activities.”
Questo, rispetto alla teoria di Searle, costituisce un duplice insegnamento: primo,
anche una entità negativa possiede una controparte fisica, le azioni divenute prive di
valore; secondo, a perdere valore non è la controparte fisica (che recupera il suo
valore d’uso), ma la firma che ne garantisce il valore di scambio, e che costituisce la
vera essenza dell’oggetto sociale.
Un problema e una soluzione. Quest’ultima considerazione pone un problema
molto serio. La firma non vale più. Quanto dire che in tutta la teoria c’è una
circolarità: uso le firme per giustificare la nascita degli oggetti sociali, ma ci sono
oggetti sociali che non valgono più niente pur avendo delle firme, come per l’appunto
i titoli della Enron. Siamo apparentemente nella stessa situazione in cui si trovava
Smith: come fai a distinguere 100 talleri ideali da 100 talleri ideali? Sei un
postmodernista anche tu, ti piaccia o meno. E a questo punto anche l’ultima teoria va
a farsi benedire.
Realismo forte
Gli oggetti sociali sono solidi
quanto gli oggetti fisici
Testualismo forte
Gli oggetti fisici sono
socialmente costruiti
Realismo debole
Gli oggetti sociali sono costruiti
su oggetti fisici
Testualismo debole
Gli oggetti sociali sono costruiti
su registrazioni (piccoli oggetti
fisici)
Tranquilli, non è così. Nella teoria di Smith risultava impossibile distinguere di
diritto 100 talleri reali da 100 talleri reali. Qui invece può succedere che di fatto 100
talleri reali si rivelino 100 talleri ideali. Insomma, esistono degli assegni scoperti. È
triste, è problematico, ma non riguarda la teoria, perché un assegno scoperto, o un
titolo della Enron o della Parmalat, resta un oggetto sociale, anche se preferiremmo
poterlo scambiare con un oggetto reale, fosse pure un pezzo di parmigiano, e non
possiamo farlo.
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Lineamenti di una teoria degli oggetti sociali