JÓZSEF NAGY IL RUOLO DELLA FILOSOFIA NELL’OPERA DI PETRARCA Nel presente lavoro cercherò di analizzare alcuni aspetti del pensiero di Petrarca che sono relazionati alla filosofia. Giacchè non sono uno specialista di Petrarca, le mie riflessioni – formulate per accentuare le connessioni filosofiche di alcuni testi in latino di Petrarca – si baseranno innanzitutto sulla ricostruzione parziale degli studi e delle interpretazioni di Ugo Dotti e di Marco Ariani, in più di quelli effettuati da Giovanni Gentile e da Hans Nachod. 1. Alcuni luoghi testuali petrarcheschi con riferimenti filosofici A mio parere nel pensiero di Petrarca la filosofia – diversamente dal caso di Dante – non è un elemento essenziale, dunque importante, innanzitutto in relazione alla conversione in un senso particolare.1 Nel volume The Renaissance Philosophy of Man (pubblicato nel 1948) troviamo una selezione di frammenti di lettere petrarchesche latine con rilevanti riferimenti filosofici; di queste tratterò brevemente due: quella su L’ascensione al Ventoso e quella su L’ignoranza mia e di tanti altri (inoltre citerò pure altri luoghi testuali petrarcheschi importanti dal punto di vista filosofico). Nella sua „Introduzione” ai testi sopramenzionati Hans Nachod accentua tra l’altro che Petrarca „non ha mai preteso di essere più di un ammiratore e propagatore degli insegnamenti morali che ha ritrovato nei lavori dei filosofi antichi, particolarmente in quelli dei pensatori latini, che popolarizzavano la filosofia greca nei secoli anteriori a e in quelli immediatamente susseguenti all’inizio dell’era cristiana” (Nachod 1956: 23). Nonostante la filosofia scolastica l’avesse influenzato profondamente, Petrarca sentiva forte avversione nei confronti dell’averroismo. È ben noto che Petrarca non ha approfondito i suoi studi in greco, di modo che le sue nozioni sulla filosofia antica erano 1 Sulla rilevanza filosofica dell’opera di Dante vedi: Kelemen 2002. 94 acquisite attraverso autori latini, specialmente Seneca e Cicerone, Lattanzio e Agostino. Possedeva la Metafisica e l’Etica Nicomachea di Aristotele in traduzioni latine del Duecento, ossia in una versione latina che lui disprezzava (e contenenti pure numerose „misinterpretazioni”): ciò è una delle ragioni per cui non conosceva in modo approfondito Aristotele (cfr. Nachod 1956: 26-27). Questo comunque non gli impediva di criticare in modo retorico (specialmente in alcune lettere) gli ammiratori ciechi di Aristotele e di Averroe, di diventare cioè – in modo simile a Coluccio Salutati – antiaristotelico (cfr. Nachod 1956: 31). Si deve aggiungere però che Petrarca in un luogo distingue Aristotele dagli aristoteliani: questi ultimi (secondo Petrarca) spesso abusano del nome del maestro e fanno uso in modo irresponsabile della dialettica. Come scrive Petrarca, i dialettici proteggono la loro setta con lo splendore del nome d’Aristotele; dicono infatti che egli soleva disputare alla loro maniera. In realtà è sempre una buona scusa quella d’essersi tenuti sulle orme dei grandi maestri […] ma costoro si ingannano. Aristotele […], uomo d’ingegno vivacissimo, scriveva o discorreva […] delle questioni più complesse. […] Ma costoro perché si allontanano tanto dal loro maestro? […] Niente di più dissimile da un così grande filosofo di persone che non scrivono nulla, capiscono poco […]. Come non ridere delle loro conclusioncelle con le quali questi bei letterati seccano sé e gli altri, in cui consumano tutta la vita, come uomini che, inetti a qualsiasi cosa, sono particolarmente dannosi proprio nel loro lavoro? (Petrarca 1970a: 152-154) Nella Senile scritta a padre L. Marsili, Petrarca utilizza delle formulazioni ancora più radicali nei confronti di Averroé e dei suoi seguaci. E perchè mai non ti fugga dalla memoria ciò che io bramo da te, lascia che qui sull’ultimo te lo rammenti. Non appena ti verrà fatto di giungere al segno cui miri […], scrivi un trattato contro quel rabbioso cane ch’è Averroe, il quale agitato da infernale furore […] oltraggia e lacera il santo nome di Cristo e la cattolica fede (Petrarca 1870: 425, corsivi miei, J.N.). 95 Come si legge pure in un’altra Senile, indirizzata a Boccaccio: Ma quale scusa potran meritare gli uomini letterati che non potendo ignorare le cose antiche, vivon pur ciechi tra le tenebre de’medesimi errori? Mi viene, amico, la bile, e tutto mi sento rimescolare per ira il sangue, quando parlo di cotestoro, che a’giorni nostri si veggono venir fuora in parvenza di dialettici, […] branco di nere formiche vomitate da putrefatto tronco di vecchia quercia, [che] devastano i campi di ogni più eletta dottrina. Platone, Aristotele, Socrate, Pitagora, ad essi, son uomini degni di sprezzo e di derisione. (Petrarca 1869: 279) È peculiare che Petrarca criticava duramente Dante per lo stile del suo latino – mentre non lo criticava affatto per la sua adesione ad una certa interpretazione dell’averroismo: come è noto, Dante nella Monarchia esplicitamente condivideva la posizione – di radici averroistiche – dell’unità dell’intelletto, come anche la tesi secondo la quale le capacità potenziali umane possono attualizzarsi esclusivamente nel contesto sociale. È un fatto notorio che Petrarca possedeva un codice contente sedici dialoghi platonici in greco (e disponeva anche di altre opere platoniche in traduzione latina) – ragione per cui non leggeva direttamente neanche Platone. Quindi (come giustamente osserva Nachod) l’influenza filosofica più importante per Petrarca era l’opera di Agostino, che lui conosceva profondamente: apprezzava innanzittutto le sue Confessioni; Petrarca nei suoi Dialoghi sul disprezzo del mondo imitava perfettamente lo stile agostiniano (cfr. Nachod 1956: 27). Secondo Nachod per Petrarca (considerato anche per questo da molti studiosi il primo umanista e il primo pensatore moderno) la filosofia – in base all’insegnamento di Cicerone – significava essenzialmente una disciplina pratica, che insegna l’arte di vivere bene e felici (l’ars bene beateque vivendi); non ha aspirato a più di essere un filosofo morale che insegna tale arte: infatti è stato riconosciuto come philosophus moralis in un documento ufficiale veneto, quando ha donato la sua biblioteca alla Repubblica di Venezia (cfr. Nachod 1956:24). E si conosce bene quel luogo comune, ormai forse discutibile, secondo il quale in Petrarca si 96 annuncia la costante del successivo pensiero umanistico, il tentativo di conciliare Agostino, Cicerone, Platone, il tentativo cioè di tenere uniti pensiero cristiano, humanae litterae latine e filosofia classica greca. Vediamo dunque un brano della Lettera a Dionigi da Borgo San Sepolcro, intitolato anche L’ascensione al Ventoso (da Le Familiari), in cui troviamo – in seguito ad un’esplicita allusione – una citazione da Agostino. Mentre ammiravo questo spettacolo in ogni suo aspetto ed ora pensavo a cose terrene ed ora, invece, come avevo fatto con il corpo, levavo più in alto l’anima, credetti giusto dare uno sguardo alle Confessioni di Agostino, dono del tuo affetto, libro che in memoria dell’autore e di chi me l’ha donato io porto sempre con me: libretto di piccola mole ma d’infinita dolcezza. Lo apro per leggere quello che mi cadesse sott’occhio: quale pagina poteva capitarmi che non fosse pia e devota? Era il decimo libro. Mio fratello [Gherardo], che attendeva per mia bocca di udire una parola di Agostino, era attentissimo. Lo chiamo con Dio a testimonio che dove dapprima gettai lo sguardo, vi lessi: „E vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri, e trascurano se stessi”2 (Petrarca 1970b: 494-496)3 Sembra ovvio che l’ascesa sul monte rappresenti innanzittutto – in un determinato senso, con connessione morale – l’allegorìa della conversione. Infatti, secondo il commento di Nachod nel caso in questione „Petrarca è riuscito a mescolare eccellentemente il senso letterale con quello allegorico. In ogni frase del suo racconto su quello che gli è accaduto in quel giorno fatale del 26 aprile 1336 registra pure le fasi della lunga lotta della sua coscienza che alla fine l’ha portato a un certo tipo di conversione ed elevazione, ad uno stato mentale più elevato” (Nachod 1956: 28). 2 Agostino, Confessioni, X. 8. 15 Come ci rivela Nachod, il destinatario della lettera, Francesco Dionigi de’Roberti da Borgo San Sepolcro, professore di teologia all’Università di Parigi e in seguito vescovo del Regno di Napoli, era colui che aveva condotto Petrarca ad Agostino (cfr. Nachod 1956: 28). 3 97 Nel De sui ipsius et multorum ignorantia (dalle Invective), che quasi un secolo più tardi probabilmente ha ispirato Cusano nella stesura del proprio capolavoro, il De docta ignorantia, troviamo tra l’altro un’interessante allusione ad Aristotele: Tu sai, o Signore, innanzi al quale viene ogni mio desiderio e ogni mio sospiro, che alla cultura, dato che l’ho usata con sobrietà, non ho chiesto altro che di diventare buono. Non perché avessi fiducia che, al di fuori di te solo, tale potesse rendere la cultura o chicchesia, sebbene lo promettano Aristotile e molti altri; ma perché stimavo che attraverso la cultura, sotto la guida di te non d’altri, la strada verso il mio scopo sarebbe stata più onesta, più sicura, e al tempo stesso più divertente (Petrarca 1955b: 717). Poi Petrarca continua la sua riflessione sulla distinzione tra la fede cristiana e il presunto sapere filosofico come segue. E non ti chiedo soltanto il «nome di bontà» […], ma la reale sostanza, in modo da essere buono, da amarti, da meritare l’amor tuo (perché nessuno contraccambia chi lo ama, come tu), da pensare a te, da esserti ossequiente, da sperare in te, da parlare di te. […] e uno di questi tapini che credono in te è molto più felice di Platone, di Aristotile, di Varrone, di Cicerone, che con tutta la loro cultura non arrivarono a conoscerti (Petrarca 1955b: 717-719). La dura critica di Petrarca nei confronti di Aristotele è manifesta in diverse altre occasioni, quando per esempio afferma che Aristotele sia stato assolutamente incapace di comprendere due cose: fede e immortalità – ragione per cui non ha potuto in assoluto raggiungere la beatitudine (cfr. Petrarca 1955b: 721-725). Petrarca suggerisce a coloro che vogliono comprendere l’inadequatezza della filosofia e allo stesso tempo comprendere il carattere appropriato della fede cristiana (dal punto di vista della beatitudine) di leggere il libro tredicesimo del De trinitate di Agostino (cfr. Petrarca 1955b: 721-723). 98 Un altro luogo molto interessante e rilevante è quello in cui Petrarca formula la domanda retorica: qual’è il più grande filosofo, Platone o Aristotele? Come afferma Petrarca, bisogna evitare di dare una risposta frettolosa, a tale domanda (cfr. Petrarca 1955b: 755). Secondo Petrarca I lodatori di Platone sono più grandi, quelli di Aristotele più numerosi; ambedue peraltro meritano di essere lodati da personaggi elevati e da molti, anzi da tutti. Quando si tratta dell’uomo e della natura, l’uno e l’altro giunsero infatti là dove si può arrivare con l’intelligenza e l’applicazione terrena. Platone e i platonici sono arrivati più in alto per quel che riguarda le cose divine […] e di questo non c’è lettore devoto delle opere dei cristiani, e particolarmente di Agostino, che possa dubitarne (Petrarca 1955b: 755), infatti i greci (contemporanei di Petrarca) considerano a Platone „divino” e ad Aristotele „demoniaco”. L’attribuzione di supremazia ad Aristotele nell’epoca della scolastica secondo Petrarca è riconducibile innanzittutto al rispetto della scolastica nei confronti di Averroe, che commentando le opere di Aristotele, semplicemente le considerava sue proprie (cfr. Petrarca 1955b: 751-753). Petrarca accentua il proprio apprezzamento nei confronti di Cicerone, che (analogamente al caso di Platone, secondo Agostino) avrebbe potuto diventare un cristiano, se avesse potuto conoscere il cristianesimo (cfr. Petrarca 1955b: 761). Al caso – dal punto di vista di Petrarca – straordinario di Cicerone (e in questo caso di Catone) si può trovare un’allusione pure nella previamente citata Senile scritta a L. Marsili: Come dunque presso Marco Tullio [Cicerone] diceva Catone io dico a te: segui la tua natura qual se fosse ella Dio […], segui Dio stesso della natura e di tutte le cose Signore sovrano, che non dal cielo soltanto, ma da quella croce ove coronato di spine e tutto nudo volle morire per noi (Petrarca 1870: 423). Il parallelo Socrate–Cicerone–Agostino appare particolarmente accentuato nel seguente brano: 99 Se […] brami conoscere breve e sicura la via, che alla virtù e alla santità ti conduca, segui il precetto di Socrate: «Fa di esser tale quale tu brami che altri stimi». Avvi di molti che pessimi essendo vorrebbero esser tenuti ottimi, quasi che come altrui, così potessero ingannare sè medesimi e Dio. E l’una e l’altra via fu da molti battuta: ma in ambedue predarissimo esempio a te si porge il tuo Agostino, che […] i vizi e gli errori di cui fu macchiata la prima parte della sua vita, estirpò e corresse nella seconda. Ai vizi dette bando l’esercizio della virtù; gli errori furono di sua mano distrutti con un dottissimo libro; per modo che non vi è strada cui seguire si possa con maggior sicurezza che la sua vita e la sua dottrina (Petrarca 1870: 424-425). 2. Elementi filosofici in Petrarca: l’interpretazione di Gentile Nel suo saggio sulla filosofia di Petrarca Gentile, tra l’altro, fa allusione alle analogie e alle differenze sussistenti tra Dante e Petrarca, quando con riferimento a quest’ultimo scrive: „[N]on si cerchi nella sua poesia […] quello che ci dà la Divina Commedia. Qui, nel poema divino, c’è Dio e il mondo che Dio governa […]. Nelle Rime invece c’è un uomo […] coltissimo e pur vivente in un suo mondo elementare […] in cui ogni uomo naturalmente si trova, la natura; e nella natura che gli […] riempie il cuore, egli col suo sentimento proteso verso di lei, e segnatamente verso quell’essere che nel massimo ardore del suo sentire egli vede come l’essere che […] personifica tutta la natura: la donna […] del suo cuore” (Gentile 1934:9). Inoltre, nonostante pure Petrarca fosse stato interessato nei problemi politici contemporanei, secondo Gentile quest’interesse non ha la stessa intensità che nel caso di Dante: „la sua passione non si riversa, come quella dell’Alighieri, fuori dell’individuo, sulla società, sulle sue leggi, che sono dottrine e istituzioni, forze politiche e religiose […]. E perciò il Pertarca non cerca l’azione e la lotta: la lotta anche per raggiungere Dio, che, essendo Dio non dell’uomo singolo nel suo segreto, ma di tutti nella Chiesa, dev’essere raggiunto da chi a lui aspiri sinceramente” (Gentile 1934:5). Gentile cerca di chiarire il modo in cui Petrarca si relaziona ad Agostino, nel modo seguente: 100 [L]’accento del dialogo petrarchesco con Sant’Agostino non è quello che egli, lettore del De civitate Dei, si fa insegnare contro la città terrena e ripetere contro la vanità d’ogni cosa mondana, a cominciare dalla natura dell’uomo […]. L’accento è […] nelle parole con cui il primo [Francesco] risponde al rimprovero che il secondo [Agostino] gli muove, di desiderare piú del dovere la gloria degli uomini e l’immortalità del nome. (Gentile 1934:7) Gentile cerca di affrontare pure il problema della relazione di Petrarca con la filosofia in senso generico, affermando che „Petrarca si può dire non abbia una sua filosofia; cioè non abbia un sistema di idee in cui trovino la loro soluzione problemi intorno ai quali ogni filosofo che metodicamente rifletta su questo mondo a cui s’intreccia la sua esistenza si travaglia. In lui né un’etica, né un’estetica; né una filosofia della natura, né propriamente una filosofia della storia; né un concetto logicamente dedotto dell’uomo, né un concetto di Dio. Ma in lui è una conversione totale del pensiero su se stesso, e quindi una radicale esigenza filosofica […]. Non c’è la filosofia, ma c’è il problema della filosofia” (Gentile 1934: 13, corsivi miei, J.N.). Gentile condivide inoltre l’opinione largamente diffusa (ma ai giorni nostri discussa), secondo la quale Petrarca fosse stato il più importante precursore della concezione antropologica dell’Umanesimo: „col Petrarca incomincia questo ideale dell’uomo quasi Dio che Ficino e Pico un secolo piú tardi teorizzeranno” (Gentile 1934:20). In certa misura si percepisce l’attivismo immanente nell’attualismo di Gentile, quando afferma (interpretando Petrarca) che secondo la concezione petrarchesca „ogni sapere od agire è dell’uomo, e questo è il principio da cui perciò fa d’uopo iniziare il cammino. […] In tal senso, il Petrarca è cristiano; cioè in quanto per lui il mondo è il mondo dello spirito, quale all’uomo si rivela soltanto se egli ne cerca il principio in se stesso […]. L’uomo insomma è l’artefice, non lo spettatore del mondo” (Gentile 1934: 18). 101 3. La filosofia nel pensiero di Petrarca: l’interpretazione di Dotti e di Ariani Analogamente all’interpretazione gentiliana, pure secondo l’analisi di Dotti nel pensiero di Petrarca si può identificare l’interesse per la politica, anche se in un modo del tutto diverso – come si è detto – che nel caso di Dante, e anche se la vita di Petrarca „non fu certo quella di Socrate, che non uscì mai dalle mura di Atene. Le agitate vicende politiche di Firenze contribuirono a fare di lui un cosmopolìta, fiorentino per nascita ma cittadino del mondo per elezione” (Dotti 1992: 453). Dotti nel corso della sua analisi accentua l’importanza dell’incontro di Petrarca con le Confessioni di Agostino, di cui si può leggere dettagliatamente in un passo del De otio religioso: è stato il già accennato Dionigi da Borgo San Sepolcro (attorno al 1333) a donare a Petrarca una copia del libro (cfr. Dotti 1992: 36). La lettura delle Confessioni „agì come la mano salvatrice di Dio” (Dotti 1992: 37), e – come lo testimoniano tra l’altro alcuni passi del De otio, del De vita solitaria e del De ignorantia – Petrarca descrive come la prefigurazione della propria conversione l’effetto che ha causato la lettura dell’Hortensius ciceroniano in Agostino, portandolo alla conversione. Dotti accentua che „per quanto si sia fatto [Petrarca] promotore degli studi agostiniani […], sembra più corrispondente alla realtà vedere in Petrarca il lettore simultaneo di testi sacri e profani” (Dotti 1992: 40, corisivi miei, J.N.). In seguito alla conversione „lo scientismo averroistico sembra […] indicato da Petrarca come il nemico da abbattere […] giacché egli intendeva l’estrema e arida specializzazione tecnicistica di tale filosofia come l’esatto opposto del suo sapere «universale»” (Dotti 1992: 429). Inoltre, „all’abbandono dei grandi e santi maestri dell’antichità era succeduta la miserevole infatuazione per i caposcuola moderni […] che Petrarca disprezzava al punto da non volerne fare il nome”, ci rivela Dotti, aggiungendo che nonostante ciò tali personaggi sono facilmente identificabili: „prima vengono i dialettici, che il Garin ha acutamente individuato nei logici terministi 102 di Oxford e nei fisici parigini; quindi gli scolastici, gli spregiatori di Virgilio e di Cicerone […]; infine i «nuovi teologi»” (Dotti 1992: 428), cui capo appunto è Averroe. Come Dotti spiega, secondo una tradizione interpretativa, tra il 1342-43 Petrarca avrebbe sofferto di una profonda crisi morale e religiosa, che fosse originata già nel 1333 all’incontro con Dionigi, e che avesse avuto per risultato tra l’altro la stesura del Secretum (Dotti 1992: 154). É nota la condanna da parte di Agostino della tendenza dell’uomo ad allontanarsi da Dio mediante l’eccessivo amore per le creature; secondo l’osservazione di Dotti a ciò si può aggiungere „il rifiuto agostiniano per la poesia, quanto meno per le esercitazioni letterarie, quale ad esempio si trova ad apertura delle Confessioni […]. La condanna del creato […] amato in sé e non in Dio, finisce quindi per divenire condanna dei valori estetici, condanna dell’arte e della poesia. Qualcosa di simile, anche al di là del Secretum, si trova talora in Petrarca quand’egli mostra in alcune sue lettere di «pentirsi» degli studi profani” (Dotti 1992: 461). Ariani fa riferimento agli elementi filosofici ritrovabili nei testi petrarcheschi nel corso di un’analisi filologico-intertestuale molto approfondita. Secondo la sua spiegazione, all’inizio del Secretum („Non molto tempo fa ero assorto e pensavo con sgomento […] in che modo fossi entrato in questa vita e come ne sarei dovuto uscire”), per mezzo „dell’aggancio citazionale agli attacchi dei Soliloquia agostiniana e della Consolatio Philosophiae di Boezio, ambedue, a loro volta, marcati dal comune rinvio a Cicerone […], Petrarca ha affidato il compito di segnalare al lettore le coordinate ideologiche e culturali del dialogo, la confessio e la sua alta conformazione retorica, a correggere , in senso umanistico, la presenza di moduli e formulari medievali, la tipologia del contemptus mundi” (Ariani 1999: 115). Tuttavia – continua Ariani – Petrarca ha sostituito „se stesso, come agens, alle personificazioni (Ratio e Filosofia) dei modelli, inventando una terza dramatis persona (la Veritas) che corregge la dicotomia dialogica in una struttura triadica perfetta”, giacchè lo stesso Petrarca ritiene che il numero tre sia quello più appropriato alla sfera del divino, „e al tempo stesso asimmetrica, per il silenzio di Verità 103 giudice imparziale. In tal senso – accentua Ariani – , Petrarca ha profondamente innovato il codice della confessio sostituendo un agens autobiografico all’io narrante delle Confessiones agostiniane e garantendosi cosí un’oggettività storicizzante che lascia impregiudicati i termini dialettici del soliloquium, ma senza celarne, sotto velamina allusivi, la veridicità di testimonianza in factis” (Ariani 1999: 115). Nel terzo libro del Secretum, secondo l’interpretazione di Ariani, ci sono „due ferite intrattabili e profondamente incise nell’intimo […]: due catene che non consentono di meditare né sulla morte né sulla vita […], «amor et gloria» […], per Francesco sentimenti nobilissimi […], per Agostino la peggiore di tutte le pazzie […]” (Ariani 1999: 119). Contro la concezione dell’amore formulata da Petrarca in questo luogo del Secretum „Agostino aggredisce il mito di Laura […], nella cui contemplazione Francesco ha smarrito la sua «nativa virtus», perché ha allontanato l’animo dall’amore celeste e ne ha deviato il desiderio dal Creatore alla creatura” (Ariani 1999: 119). Come ci rivela Ariani, in senso generale nella concezione filosofica del poeta „la riconsiderazione globale della propria esperienza ha indotto Petrarca a contrapporre, in una struttura dialetticamente chiara, due culture di fatto conflittuali: l’ascetismo medievale, tradotto nei termini della «celestis doctrina Platonis», e l’etica classica della virtus contrapposta a Fortuna, di fatto inconciliabili anche se costrette a convivere in un sincretismo duttile e assorbente. […] [I]l Secretum offre, rispetto alle altre opere coeve e succedanee, una piú forte densità filosofica – scrive Ariani – , che Petrarca contrassegna con certe immagini-metafore che tracciano una sorta di accidentata mappa interiore, abitata da simboli che devono a Platone, a Cicerone, a Seneca la loro funzionalità psicagogica, ossia un immaginario «terapeutico» che cura i morbi dell’anima” (Ariani 1999: 121). Di tutto ciò fornisce un esempio paradigmatico il seguente luogo testuale del Secretum, in cui Agostino „terapeuta” rivolge le seguenti parole (della curatio per raggiungere il remedium) a Petrarca: 104 Scaccia le puerili frivolezze; estingui gli ardori dell’adolescienza; non star sempre a pensare quel che sii stato; talvolta guardati d’attorno per vedere ciò che tu sia. […] Vergognati […] che non ti si muti mai l’animo, mentre il corpo si muta continuamente. E questo è quanto il tempo mi permetteva di dire intorno al pudore. Del resto poiché, come piace a Cicerone, è assai sconveniente che il pudore subentri a tener le veci della ragione, imploriamo l’aiuto dalla fonte prima dei rimedi, cioè dalla ragione stessa. […] Medita […] sulla nobiltà dell’animo […]. Medita […] sulla fragilità e sozzura dei corpi […]. Medita sulla brevità della vita […]. Medita sulla fuga del tempo […]. Pensa alla morte che è certissima, all’ora della morte che è dubbia, in ogni tempo e in ogni luogo imminente. (Petrarca 1955a: 185-187) Tra i trattati ascetici e morali nel De otio religioso appaiono alcuni temi analoghi a quelli del Secretum. Come scrive Ariani, nel De otio „l’umana fragilitas […] è assediata soprattutto dalla cupiditas e dalla libido […], «mundi pestes» acuita dalla «curiositas pestifera» […], alla quale Petrarca contrappone la vanità delle apparenze […] e delle cose temporali, la «fluctuatio vite» […] minacciata dalla corruzione corporale e dal precipizio verso il nulla […]. Sapienza pagana e sapienza cristiana «consonant» dunque nell’identificazione della voluptas corporis […] come quella distruttiva, continua gara con la carne […] che impedisce la meditatio mortis e vulnera ogni intento contemplativo. Solo l’abbandono del mondo apre la via al fons vite […] e salva l’homo angelicus dalle insidie demoniache dei sette peccati capitali, di cui la lussuria è il piú devastante” (Ariani 1999: 140). Le considerazioni di Petrarca sulla fragilitas universale lo inducono a una delle sue incursioni „nell’ambito teologico: qui un’adesione alla mistica negativa dell’ineffabile che, su base agostiniana e paolina […], sembra avvicinarlo all’apofasia neoplatonica […] e alla tradizione teofanica che discende dallo Pseudo Dionigi Aeropagita […] e giunge alla metafisica della luce contemplata dal Dante paradisiaco”.4 4 Ariani 1999:142. (Teofania: visione di Dio. Apofasia [αποϕασις]: negazione. Ariani qui evidentemente allude alla „teologia negativa” di Pseudo Dionigi Aeropagita, secondo la quale la definizione di Dio è necessariamente un’infinita moltitudine di affermazioni negative; cfr.: Lexicon Plotinianum, Leuven Un. Press, Leuven 1980, 135.) 105 4. Osservazioni conclusive Nell’analisi di Dotti, Ariani, Nachod e Gentile – inoltre in base ai testi petrarcheschi citati – si rivela chiaramente che per Petrarca la filosofia è rilevante innanzitutto se contribuisce al processo della conversione in senso autentico, ossia morale. Secondo Petrarca se la filosofia (o la teologia filosofica) cade nell’eccesso delle speculazioni teoriche sulla logica o sulla dialettica, perde il suo vigore: nella filosofia contemporanea Petrarca vede esattamente questa distorsione, per lui assolutamente inaccettabile. Proprio per questo, nella concezione filosofica di Petrarca Agostino risulta di essere una figura centrale, giacchè la vita e il pensiero di Agostino costituisce il paradigma della conversione. Bibliografia Ariani 1999 M. Ariani, Petrarca, Roma Dotti 1992 U. Dotti, Vita di Petrarca, Roma–Bari Gentile 1934 G. Gentile, La filosofia del Petrarca, Firenze Kelemen 2002 J. Kelemen, A filozófus Dante, Budapest Nachod 1956 H. Nachod, „Introduction”, in AA.VV., The Renaissance Philosophy of Man (a cura di Cassirer–Kristeller–Randall), Chicago, pp. 23-33 Petrarca 1869 F. Petrarca, Lettera II. a G. Boccaccio, in Lettere senili di F. Petrarca (Vol. I., Libro V.), Firenze, pp. 269-284 106 Petrarca 1870 F. Petrarca, Lettera VI al Padre L. Marsili, in Lettere senili di F. Petrarca (Vol. II., Libro XV.), Firenze, pp. 417-425 Petrarca 1955a F. Petrarca, Il mio segreto [Secretum], in F. Petrarca, Prose (a cura di Martellotti–Ricci– Carrara–Bianchi), Milano–Napoli, pp. 21-215 Petrarca 1955b F. Petrarca, L’ignoranza mia e di tanti altri [Francisci Petrarce de sui ipsius et multorum ignorantia liber incipit], in F. Petrarca, Prose (a cura di Martellotti–Ricci–Carrara–Bianchi), Milano–Napoli, pp. 710-767 Petrarca 1970a F. Petrarca, A Tommaso da Messina. Contro i vecchi dialettici [Ad Thomam Messanensem, contra senes dialecticos], in F. Petrarca, Le Familiari (Libri I-IV.), Urbino, pp. 150-159 Petrarca 1970b F. Petrarca, A Dionigi da Borgo San Sepolcro dell’ordine di Sant’Agostino e professore della sacra pagina. Intorno alle proprie angoscie [Ad Dyonisium de Burgo Sancti Sepulcri ordinis sancti Augustini et sacre pagine professorem, de curis propriis], in F. Petrarca, Le Familiari (Libri I-IV.), Urbino, pp. 482-501 107