CARD. SILVANO PIOVANELLI: DON MILANI PRETE
FAENZA, 4 APRILE 2008
INTRODUZIONE DI DON MICHELE MORANDI:
Dicevo all’inizio che gli incontri che abbiamo proposto, a partire dallo scorso anno, prendendo temi
come Don Milani maestro e Don Milani e i problemi sociali, sono stati un po’ l’introduzione a questo che vuole essere l’incontro conclusivo. Anche perché ci troviamo di fronte sì ad un maestro e ad
un uomo attento alle problematiche sociali, ma soprattutto riusciamo a comprenderlo se ci rendiamo
conto che Don Lorenzo è come se lavorasse ad una nuova grammatica di segni e di parole cristiane,
per poter raggiungere realmente tutti i destinatari del vangelo. La sua attenzione all’insegnamento,
alle problematiche concrete degli uomini erano proprio questa scoperta di un nuovo linguaggio per
arrivare a tutti.
Per raccordare le nostre tre conferenze, volevo semplicemente leggere tre piccoli passi che ci mostrano come don Milani avesse cercato di applicare attraverso il metodo della scuola, dell’attenzione
ai più deboli, nient’altro che un modo, un linguaggio nuovo per annunciare il vangelo. Dice in una
sua lettera: “Di fatto si può amare solo un numero limitato di persone, forse qualche decina, forse
qualche centinaia. E siccome l’esperienza ci dice che all’uomo è possibile solo questo, mi pare evidente che Dio non ci chiede di più. Quando avrai perso la testa come l’ho persa io, dietro poche
decine di creature, troverai Dio come un premio. Ti toccherà trovarlo, per forza, perché non si può
far scuola senza una fede sicura.”
“La gente pretende giustamente da noi preti che si sia sempre presenti alla loro tragedia. Ci vogliono magari male, ma hanno ancora una così alta stima del sacerdozio, che quando arrivano col
loro problema, interno o esterno che sia, non possono sentirsi dire: “è a tavola” o “è a letto” o “è
in ferie”, senza sentirsi offesi del contrasto con la gravità, per loro, del loro problema. Io sono sereno solo quando sono sempre intonato con ogni evenienza, quando il mio pensiero o attività non
stona con nulla d’altrui che possa accadere. Io smisi di fare il pittore solamente per questo.”
“È tanto difficile che uno cerchi Dio se non ha sete di conoscere. Quando con la scuola avremo risvegliato nei nostri giovani, operai e contadini, quella sete sopra ogni altra sete e passione umana,
portarli poi porsi il problema religioso, sarà un giochetto: saranno simili a noi, potranno vibrare
di tutto ciò che fa noi vibrare. Tutto il problema si riduce qui, perché non si può dare che quel che
si ha. Ma quando si ha, il dare viene da sé, senza cercarlo, purché non si perda tempo, purché si
avvicini la gente ad un livello nuovo, ad un livello di Parola e non di gioco.”
Sono alcuni passi scelti per introdurci e comprendere che il cuore di don Milani, pur nelle questioni
pratiche, era lì, nel cercare di evangelizzare, portare gli uomini ad un livello superiore, spirituali, per
poterli aprire alla Chiesa, alla ricerca di Dio.
Ringrazio sua Eminenza il card. Silvano Piovanelli che ha dato la disponibilità ad essere presente a
questo incontro. Ho chiesto a lui se potevo dare qualche piccola nota biografica.
Il cardinale ha compiuto gli studi nel seminario fiorentino dal 1935 al 1947, proprio negli anni di
Don Milani, che gli fu compagno di classe, ricevendo l’ordinazione sacerdotale dal servo di Dio,
cardinale Dalla Costa, arcivescovo di Firenze. Il suo primo incarico pastorale fu quello di cooperatore di un altro Servo di Dio, mons. Facibene, fondatore dell’Opera della Divina Provvidenza “Madonnina del Grappa”. Nell’ottobre del 1948 viene chiamato ad assolvere un incarico che avrebbe segnato profondamente la sua vita di educatore e di pastore, a fianco di mons. Enrico Bartoletti, per
12 anni come vice rettore del seminario minore. Dopo, mons. Bartoletti viene trasferito a Lucca, e
nel 1960 il card. Piovanelli viene nominato parroco di Castel Fiorentino dove rimane sino al 1979.
Nel 1982 viene eletto vescovo della chiesa titolare di Tugune in Mauritania e nominato nel contempo vescovo ausiliare di Firenze. Dopo la morte improvvisa del card. Benelli, avvenuta nell’autunno
del 1982, assume l’incarico di amministratore apostolico della diocesi e governa l’archidiocesi. Il
18 marzo del 1983 Giovanni Paolo II lo nomina arcivescovo di Firenze. Da Giovanni Paolo II viene
poi creato cardinale nel concistoro del 1985. Per l’età rassegna le dimissioni da arcivescovo di Firenze nel 2001. E adesso è qui ancora a compiere la sua attività di pastore e testimone nella Chiesa.
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Non ha detto la mia età. Ma stasera un sacerdote che ho ricevuto, mi ha detto: Io sono nato il giorno
in cui è nato Newman, vale a dire il 21 di febbraio, solo che Newman è nato due secoli fa, mentre io
nel secolo scorso, nel 1924. Per questo insieme con don Lorenzo Milani siamo stati ordinati preti
nel 1947. Sono qui rispondendo ad un invito, e sono felice di salutare Mons. Vescovo, l’assessore, e
di rallegrarmi con voi per questa iniziativa che avete messo in piedi e per il fatto che la celebrate
qui, in questa aula consigliare che è un po’ il cuore della città.
CARD. PIOVANELLI
Io sono qui per un dovere di riconoscenza. Non finirò mai di ringraziare Dio per le molte persone
che mi ha fatto incontrare nella mia vita. Alcune sono state citate, e tra le altre, una persona con cui
sono vissuto abbastanza a lungo, è appunto don Lorenzo Milani. Il primo incontro è avvenuto nel
novembre del 1943, eravamo in guerra. Lui è entrato in seminario insieme con altri che giovani che
allora venivano chiamate vocazioni adulte perché venivano in seminario dopo aver fatto le Medie
Superiori, mentre noi eravamo ragazzini entrati in seminario con il ginnasio (oggi si direbbe con la
media). Mi ricordo che fra i 3 che ci presentarono lui ci fece subito una grande impressione. Prima
di tutto perché era molto deciso nelle cose, molto sereno, felice. Ci meravigliò perché ricercava assolutamente di essere povero. Dico la verità: noi eravamo tutti figli di poveri, contadini, operai, difficilmente fra noi erano persone che appartenevano – diciamo così – alla borghesia alta. E lui, che
proveniva da una famiglia non nobile, ma sicuramente molto ricca e molto acculturata, aveva una
gran voglia di essere più povero di noi. Voi non avete immagine di come fossimo poveri. Ciascuno
di noi aveva la sua cameretta con il letto, la sedia, l’armadio, la scansia per i libri e stop. Ma lui trovò una branda, non volle il letto. E quella branda poi se l’è sempre portata dietro. Mi diceva un giovane di quelli che poi lui ha avuto a san Donato a Calenzano: Era la sua caratteristica. Dove lui dormiva, c’era quella branda. E non volle neppure la scansia dei libri, che noi avevamo. Se la fece da
sé, però con gusto. Anche le scarpe se le fece da sé, da alcuni copertoni di bicicletta e con legacci di
cuoio, peraltro abbastanza eleganti, francescani. Noi si sorrideva un pochino, dico la verità, con affetto, come si fa tra amici. Ma si è capito dopo, come la sua ricerca di uno stile di vita veramente
povero, nascesse da una sua esigenza profonda. Una volta, proprio nell’anno in cui era entrato in seminario, stava facendo uno schizzo su un cavalletto come pittore, e nel frattempo stava mangiando
un pezzo di pane. Pitturava e mangiava pane. Ma il pane era un bel pane bianco, mentre tutti allora
mangiavano il pane nero, che era quello che veniva dato a tessera, un pane con le vecce, integrale. E
una donna gli disse: “La si ricordi, che non si mangia il pane dei ricchi nelle strade dei poveri” perché quel pane veniva appunto dalla sua fattoria. E questo lo guiderà poi in tanti momenti della sua
vita.
Ci colpì subito anche il suo modo di studiare. L’impegno nello studio c’era in molto di noi, ma noi
eravamo dei liceali: tu stai attento alla lezione, tu ci hai il libro di testo, e basta. Ma lui no, lui faceva la ricerca e su un determinato argomento lui cercava, anche all’estero, se c’erano dei libri da poter consultare in modo da farsi un’idea più piena, più profonda dell’argomento. E poi era così attento alla cultura che riuscì ad avere fra mano – e non so come – un libro intitolato La France pays de
mission di Henry Godin. Lo ricordo bene perché ne parlò con tanto entusiasmo, e poi ci propose di
tradurlo. Non riuscimmo a finire il compito che ci aveva dato, assegnando a ciascuno di noi un capitolo perché lo traducessimo, e poi lui avrebbe rivisto tutto… Questo per indicare come lui fosse già
diverso da noi. Era poi di una sincerità sconcertante. Ve lo immaginate all’esame di fine prima teologia? Dinanzi ai due esaminatori, di fianco c’era il docente, e lui seduto dinanzi. I due docenti gli
fanno la domanda, mi pare sull’esilio di Babilonia, (la materia doveva essere Introduzione alla Sacra Scrittura) e lui non sa rispondere. Il professore docente si china verso di lui e gli suggerisce. “Il
professore mi ha detto di rispondere così”, dice lui. Vi posso anche dire che eravamo tutti dei sognatori, giovani a 18-20 anni come si fa a non sognare? – e dicevamo: Ma perché non dobbiamo vivere come la Chiesa primitiva che metteva tutto in comune e fra di loro nessuno aveva bisogno. Chi
vuole, liberamente, metta in comune…” Che cosa voleva dire concretamente? Le nostre famiglie ci
aiutavano, perché in seminario si tirava la cinghia, ci portavano qualcosa una volta alla settimana.
Eravamo 18-19 e solo uno rifiutò. E noi eravamo felici quando a lui arrivavano i pani grossi dalla
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sua fattoria, bel pane bianco… E anche lui era uno degli animatori della cooperativa, si chiamava
così. Naturalmente i superiori arricciarono un po’ il naso, perché a quei tempi la parola ‘cooperativa’ indicava una realtà di sapore comunista. Don Lorenzo non parlava di sé. Dopo un po’ per volta
abbiamo conosciuto tante cose. Per esempio, abbiamo conosciuto dopo che lui era un convertito. Un
convertito di punto in bianco. Lui veniva a Firenze da Milano. Era stato battezzato insieme con il
fratello e la sorella, mentre i genitori si erano sposati religiosamente, data la piega antisemita che il
fascismo stava prendendo. Ed erano a Milano. Da Milano son venuti a Firenze. Lui ha finito nel
1942 la maturità classica, però non ha voluto iscriversi all’Università. Si è iscritto all’Accademia di
Brera, appunto per fare il pittore, e forse questa è stata la via che l’ha portato a pensare al problema
religioso. Il pittore, suo maestro, non era un credente, ma era un uomo che considerava le cose e lo
esortava ad imparare nelle chiese come si fanno gli ornamenti, come si rappresentano le cose… e
forse questo ha influito, perché quando lui, vestito con la tonaca, è andato a salutare il pittore suo
maestro, questi gli ha detto: “Questo non me l’aspettavo!” e Milani gli ha risposto: “È colpa anche
sua, se io sono così.”
Dunque, Milani venne a Firenze, ed aveva un’ansia dentro, provocata – oltre che dal mistero della
grazia di Dio – dal fatto di mettersi a contatto con le chiese e gli istituti religiosi, per via dei suoi
studi di pittura. Chiede d’incontrarsi con un prete e gli consigliano Don Raffaele Bensi, il confessore della città di Firenze. Tutti andavano da lui: preti, professori, alunni. Un vecchio insegnante – ora
in pensione (faceva scuola al Galileo)- che oltre la scuola, continuava il suo lavoro a casa, tanto che
per la sua piccola parrocchia (1500 anime) aveva un cappellano che faceva tutto, perché lui stava
nel suo studio da mattina a sera, ad ascoltare. Lorenzo Milani è andato da lui. Lo racconta lo stesso
Don Bensi:
"E' stato sotto un bombardamento che l'anima di don Milani mi si è spalancata la prima volta. Era
il luglio 1943. Stavo togliendomi i paramenti dopo aver celebrato messa, vidi che un giovane mi
aveva seguito in sacrestia. Feci cenni al nuovo venuto di accomodarsi in confessionale. I ragazzi
che mi venivano a cercare in genere desideravano confessarsi . Ma lui mi disse: "Mi chiamo Lorenzo Milani, ricorda? ci siamo conosciuti l'anno scorso, davanti alla prefettura. Non voglio confessarmi. Non sono nemmeno cristiano, anche se, come figlio di un'ebrea, ho ricevuto il battesimo
per salvarmi il corpo. Ora è l'anima che mi vorrei salvare. Desidero parlare con lei." Allora gli risposi che non avevo molto tempo. Dovevo correre subito a San Quirico Marinolle, fuori città, dove
un giovane prete, mio alunno, era morto lo stesso giorno. " Se permette," mi disse il giovane "l'accompagno." Andammo così, sotto il bombardamento, fino in campagna. La sua anima mi si spalancò tutta. Capii di aver davanti un uomo molto diverso da tutti quelli conosciuti fino allora. Quel ragazzo, anche se stava ancora cercando la verità, era già pieno di Spirito Santo. Poi, quando fummo
davanti al letto del giovane prete morto, don Dario Rossi, a San Quirico, egli mi disse, semplicemente: "Io prenderò il suo posto”. Da quel giorno d'agosto fino all'autunno, si ingozzò letteralmente di Vangelo e di Cristo. Quel ragazzo partì subito per l'assoluto, senza vie di mezzo. Voleva salvarsi e salvare, ad ogni costo”
Un fatto misterioso, si direbbe, sconvolgente una vita. Si è convertito, facendosi prete. Il primo approccio col suo Cristo lo ebbe in un messale che trovò in una cappellina della sua fattoria a Gigliola.
Il messale allora conteneva tutto, preghiere e letture. E lui l’ha letto. Poi ha scritto ad un amico: Sai,
in una cappella di proprietà della mia famiglia ho trovato un messale. Ho letto la messa. Ma sai che
è più interessante del romanzo “Sei personaggi in cerca d’autore?”…
In seminario da una parte è vissuto bene. La sua mamma dice: “I primi tempi fu un ragazzo molto
felice. Felice come l’avevo visto poche volte. Solo in seminario Lorenzo trovò subito ciò che istintivamente cercava con tutto se stesso: una ragione assoluta per vivere, una disciplina costante. Dopo
vennero i primi urti, le incomprensioni da parte dei superiori. Lui era docile, obbediente come del
resto era sempre stato; ma la sua personalità, così singolare; netta, unica nel suo genere, dovette
trovare impreparati quelli che dovevano educarlo. Però non fu solo un conflitto di uomini: fu soprattutto uno scontro fra concezioni del tutto diverse. La laicità di mio figlio prima della "conversione" era sempre stata rigorosa e coerente quanto fu la sua religiosità dopo: non poteva venire a
patti col mondo, accettare compromessi, con nessuno, per nessun motivo.
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Appunto. Lui ci colpì subito per la radicalità delle sue scelte. Voglio aiutarmi ed aiutarvi con le sue
stesse parole. La mamma era preoccupata perché lui, che era sempre stato libero, è costretto a domandare il permesso anche per … andare in bagno. E lui scrive: Io per esempio mi son preso tutte
le libertà possibili immaginabili e poi mi sono accorto che c'era una grande cosa (la più grande)
che non potevo fare. Prima di morire mi voglio prendere anche questa libertà di dir Messa. Se ti dicono: « Oh il suo povero figliolo non può neanche andare al cinematografo o prender moglie o
prendere il sole e deve avere delle buffissime gambe bianche », gli devi dire: «No, non è che non
può, non vuole. Non è libero di non volere?». Gliel'ho anche dovuto dichiarare per scritto e firmare al Cardinale che è con «volontà affatto libera e spontanea che desidero consacrarmi al Culto divino e al servizio della Chiesa». Ma insomma, scrive alla mamma, tutti questi discorsi forse non
sono quelli che intendevi te, forse tu vuoi sapere se seguiterò tutta la vita a volere così… Io ti rispondo… che è di fede: Concilio Tridentino: che nessuno può essere sicuro della sua perseveranza,
ma ciò che non possiamo sperare dalle nostre forze, lo possiamo sperare dal Signore che in fondo
vuole così. Ma chi ti dice che il Signore vuole così? Me lo dice la chiamata del mio vescovo, il permesso del mio direttore spirituale di rispondere. E se non ti basta, me lo dice anche questa vita e la
mia convinzione la quale, invece di raffreddarsi al contatto di questa vita, si riscalda ogni giorno.
È così. Io l’ho conosciuto in questa maniera. Certo che lui, anche rispetto a noi, lui era severamente
disciplinato (sono parole sue). Può fare un certo effetto pensare che queste sono sue parole, ma è
così. Ormai ammalato e prossimo alla fine, con gioia e fierezza cristiana, scriveva: Severamente disciplinato ed ortodosso e nello stesso tempo appassionatamente attento al presente e al futuro. Nessuno può accusarmi di eresia o di indisciplina. Nessuno d’aver fatto carriera. Ho 42 anni e sono
parroco di 42 anime! In un certo senso lui diceva di essere un fanatico dell’obbedienza. Mi piace
sottolinearlo perché a suo tempo la Libreria Editrice Fiorentina pubblicò un libretto dal titolo:
“L’obbedienza non è più una virtù”. Che bello! Potete immaginare come i giornali presero subito in
mano questa frase e se ne fecero tanti paladini. Solo che la frase va collocata nel contesto. Il libretto
conteneva la Lettera ai giudici e la Lettera ai cappellani militari. E Don Milani diceva che quando i
soldati al tribunale di Gerusalemme si sono difesi dicendo che ‘avevano ubbidito’ agli ordini, è stato
riconosciuto che a certi ordini non si deve obbedienza. E dunque: l’obbedienza non è più una virtù.
Ma lui diceva: io sono un fanatico dell’obbedienza e lo sarò fino in fondo in maniera ineccepibile.
E proprio questo mi tira addosso tanto odio impotente da parte di quelli che non avendo seri argomenti da oppormi, sperano invano di potermi cogliere in flagrante disobbedienza o deviazione dottrinale. Io spero che Dio mi aiuti come mi ha aiutato fino ad oggi, a non dar loro mai questa soddisfazione. Questo è il prezzo da pagare se si vuol influire dal profondo sulla società e sulla Chiesa.
Da 22 anni vivo nella più severa ortodossia e disciplina.
Era vero, tanto che quando il Santo Uffizio ha ritenuto inopportuna la pubblicazione di Esperienze
pastorali (1957), lui è rimasto tranquillo, non ha reagito. Anzi, c’è una lettera in cui scrive a Padre
Reginaldo Santilli colui che ha fatto la recensione ed è perciò responsabile dell’imprimatur dato dal
card. Dalla Costa. A quei tempi un prete per scrivere doveva avere l’imprimatur del vescovo. Lui ce
l’aveva, dal Dalla Costa. Solo che il Dalla Costa glielo aveva dato perché questo revisore dei libri
aveva dato il suo okay. E questo rimase male del giudizio del Sant’Uffizio. E allora don Milani gli
scrisse una lettera:
Mi metto nei suoi panni e capisco la sua preoccupazione… In quanto a me le cose sono invece, se
non erro, diverse... Se poi il libro fosse messo all’Indice, chiederei al Cardinale il permesso di tenerne una copia per mio uso, per potermela rileggere quando sarò vecchio e sorridere bonariamente sui miei affetti giovanili…Scrupolo interiore d’aver fatto immenso male alle anime e alla
Chiesa non riusciranno ad infondermelo e non solo per le tante testimonianze contrarie che ho qui
sott’occhio, ma soprattutto per un semplicissimo motivo che si legge anche nella Dottrina: quando
accuso un peccato in confessione mi sento sempre domandare se l’ho fatto con piena coscienza e
deliberata volontà. So che non è possibile far del male in questo mondo se non si sia adempiuto
queste due condizioni essenziali...
Scrupolo canonico non ho. Sono perfettamente in regola: ho consegnato un manoscritto al mio Padre Spirituale ed egli me l’ha reso con l'imprimatur del mio Vescovo e con la prefazione impegna4
tissima di un altro Vescovo… Additarmi all’infamia non possono perché io mi piegherò subito a
qualsiasi provvedimento e dunque infame non sono… Di farmi perdere l’affetto dei miei vecchi scolari [3] non hanno potere. Dicono che la scuola sia il mio feticcio. Non è vero. Ma creda però che
la gratitudine di quei ragazzi e delle loro famiglie è a prova di bomba. E allora mi colpiranno con
un provvedimento? Se mi togliessero Barbiana mi toglierebbero poco… Un'altra parrocchia adatta
per me non l’hanno e del resto non la prenderei. Di cambiamenti me ne è bastato uno. Se non sarò
giudicato capace di fare il parroco di Barbiana vorrà dire che Dio mi chiama a lasciare l’apostolato e cercare una via di maggior raccoglimento. Questo è il patto che abbiamo fatto tra me e lui.
Mi lasceranno a Barbiana e mi costringeranno a mutare mezzi di apostolato? Non lo credo. Sarà
forse eresia dire che la scuola è mezzo migliore che non il flipper. Ma non sarà peccato stare, come
sto, quassù sul Monte Giovi senza dar noia a nessuno a far scuola a sei poveri bambini…
Mi scusi il tono scherzoso che forse stona con la sua preoccupazione, ma creda che non ho motivo
di allarme per me, né velleità riformiste o ereticali. Sono ormai allenato a prender quel che mi
danno senza far tragedie e tentando piuttosto di leggerci dentro quale sia il modo più semplice di
sortirne in grazia di Dio e salvarsi l’anima.
Insomma io spero di averla tranquillizzata. Comunque per scrupolo verso di lei, alla prossima occasione in cui capiterò a Firenze, vedrò don Bensi e sentirò da lui se è del parere di fare come lei
dice oppure (come sempre mi ha detto) di seguitare a stare in pace.
Obbediente, dunque.
Ma una cosa che forse non sempre si sottolinea e che appartiene al suo ministero presbiterale, e alla
sua pratica personale, è la confessione. Uno dei motivi del suo restare nella chiesa è la confessione:
chi mi perdona i peccati? Diceva. E sentite cosa scrive ad un confratello: L’unico vero problema è
quello di stare in grazia di Dio e l’impegno del prete dev’essere quello di accrescerla sempre di
più, in modo che l’intimità vitale con il suo Cristo diventi sempre più grande, per poter meglio operare la salvezza delle anime. Poiché l’avere metodi migliori è inefficace quando si ha meno grazia,
ma è appunto qui che anche i metodi acquistano una loro importanza. L’efficacia dell’azione di
Cristo dipende anche dai metodi usati nell’apostolato, ma la cosa più importante è la grazia di
Dio.
E in un’intervista lui dice: tra le tante cose, importantissimo, fondamentale, c’è il sacramento della
confessione dei peccati, per il quale, quasi per quello solo, sono cattolico. Per avere continuamente
il perdono dei miei peccati. Averlo e darlo.
Interessante poi quello che scrive alla sua mamma dopo che ha letto un romanzo di Cesbron: Les
Saints vont en enfer?”I santi vanno all’inferno (ricordo che era un libro che non si leggeva
volentieri): Il libro mi è piaciuto molto nel senso che mi piacerebbe molto averlo in italiano per
farlo leggere a tutti questi ragazzi perché il romanzo è la forma più efficace per loro di diffusione
di idee del genere. Sarebbe bello per loro trovare qualcuno che lo traducesse. In tal caso mi piacerebbe però chiedere all’autore che correggesse nella traduzione italiana un imperdonabile errore.
L’errore è che quel prete non si confessa e se ne vanta. Ora, mentre è esatto che i preti che si preoccupano degli operai sento l’urgenza di far cadere un’entità di cose (parrocchia, piedistallo, obbligo per gli altri lontani dei sacramenti, messa ecc.), è certamente inesatto che non cerchino i sacramenti per se stessi. Sembra una piccola cosa, ma falsa tutto il significato del libro. Sono quasi
matematicamente sicuro che l’autore sarebbe pronto a cancellare le due frasi incriminate se appena uno glielo facesse osservare. Perché penso che ce le abbia messe per svista e non per programma.
Voi capite la serietà con cui lui ha impostato la sua vita. Come appare molto chiaramente da questa
parola: La fede quando si trova va tenuta stretta per non perderla. Io penso che non si possa tenerla stretta altro che col confessarsi spesso. È chiaro che questo ci mostra come l’impostazione della
sua vita fosse quella di un vero prete. Lui stesso scrive: Dicono che la scuola sia il mio feticcio. E
lui risponde così: Quei due preti mi domandavano se il mio scopo finale nel far scuola fosse portarli alla Chiesa o no e cosa altro mi potesse interessare al mondo nel far scuola se non questo. E io
come potevo spiegare a loro così pii e così puliti che io i miei figli li amo e che ho perso la testa
per loro, che non vivo che per farli crescere, per farli aprire, per farli sbocciare, per farli fruttare?
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Come facevo a spiegare che amo i miei parrocchiani molto più che la Chiesa e il Papa? E che se
un rischio corro per l’anima mia non è certo quello di aver poco amato, ma piuttosto d’ amare
troppo ( cioè di portarmeli anche aletto!). E chi non farà scuola così non farà mai vera scuola ed è
inutile che disquisisca tra scuola confessionale e non confessionale e inutile che si preoccupi di
riempire la sua scuola di immaginette sacre e di discorsi edificanti perché la gente non crede a chi
non ama e è inutile che tenti di allontanare dalla scuola i professori atei perché anche loro non
sono creduti dai ragazzi se non li adorano. E chi potrà mai amare i ragazzi fino all’ osso … se non
il maestro che insieme a loro ami anche dio e tema l’ Inferno e desideri il paradiso? Eccoti dunque
il mio pensiero: la scuola non può che essere aconfessionale e non può essere fatta che da un cattolico e non può essere fatta che per amore ( cioè non dallo stato).
In altre parole la scuola come io la vorrei non esisterà mai altro che in qualche minuscola parrocchietta di montagna oppure nel piccolo di una famiglia dove il babbo e la mamma fanno scuola ai
loro bambini.
Io per grazia di Dio ( grazia di cui non finirò di ringraziarlo perché non me la meritavo) la scuola
così l’ho avuta a S. Donato e l’ ho qui e l’avrò spero finché campo e non mi passa neanche per la
mente il pensiero di estenderla o di cambiarla con una più grande così come il marito che ama la
moglie e è felice di lei non cerca un’ altra cinquantina di mogli nella speranza di moltiplicare la
propria felicità.
È questo discorso sull’amore è molto importante e anche nella citazione fatta viene fuori che non si
può amare tutto il mondo. Perché amare vuol dire avere una persona dinanzi, vuol dire – secondo il
vangelo - diventar prossimi. E allora mentre si accetta tutti in genere, si ama qualcuno. Le persone
che abbiamo dinanzi, che incontriamo per la strada, per le quali si può spendere la vita, con cui si può condividere un’esperienza. Ed è così importante l’amore che se non c’è, non si raggiunge lo scopo.
In Esperienze pastorali dice: Come potremo pretendere che i giovani vengano su con in mente una
chiara gerarchia di valori. Non si rimedia con le parole- dal pulpito, dall’altare – ciò che si è male
insegnato con i fatti. Saranno simili a noi, potranno vibrare di tutto ciò che ci fa vibrare. Ed ecco il
tasto più dolente: vibrare noi per cose alte. Tutto il problema si riduce qui perché non si può dare
ciò che quel che si ha. Ma quando si ha, il dare viene da sé, senza neanche cercarlo, purché non si
perda tempo. Purché si avvicini la gente su un livello da uomo, cioè a dir poco un livello di parole
e non di gioco. E non una parola qualsiasi di conversazione banale, di quelle che non impegna nulla di chi la dice e non serve a nulla in chi l’ascolta. Una parola come riempitivo di tempo, ma parola scuola, parola che arricchisce.
E se in cuore al prete c'erano cose alte, avrà dato cose alte e se c'erano mediocri le avrà date mediocri. E se c'era fede avrà dato fede.
In sette anni di scuola popolare non ho mai giudicato che ci fosse bisogno di farci anche dottrina.
E neanche mi son preoccupato di far discorsi particolarmente pii o edificanti. Ho badato solo a
non dir stupidaggini, a non lasciarle dire e a non perder tempo. Poi ho badato a edificare me stesso, a essere io come avrei voluto che diventassero loro, ad avere io un pensiero impregnato di religione.
Quando ci si affanna a cercare apposta l'occasione di infilare la fede nei discorsi, si mostra di
averne poca, di pensare che la fede sia qualcosa di artificiale aggiunto alla vita e non invece modo
di vivere e di pensare. Ma quando questa funzione non si cerca, purché si faccia scuola e scuola severa si presenterà da sé, sarà anzi sempre presente e nei modi più impensati e meno coscienti. Lungo l’anno i giovani ci vedranno agire, reagire, pensare, rispondere in mille maniere diverse, sempre uguali a noi stessi, sempre e senza sforzo presenti alla nostra visione di vita.
Si capisce allora come veramente quella scuola fosse una scuola di formazione della persona. Non è
trasmettere delle nozioni, è donare la vita, la propria impostazione di vita. Per questo la scuola è
dalla mattina alla sera, di 365 giorni all’anno. E per questo egli dirà quell’esagerazione, nella Lettera ad una professoressa, che il maestro dovrebbe essere celibe, cioè a dire, dev’esser donato tutto
intero alla scuola. Era la sua esperienza. Lui viveva per questo. I ragazzi erano i suoi figlioli. E difatti, parlando con alcuni dei suoi alunni, in particolare quelli di San Donato in Calenzano che ho
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visto ultimamente, dicevano: Era il nostro babbo, lui. Per cui la scuola, la preghiera, la confessione,
facevano parte di una trasmissione di vita.
Il rifiuto di certi mezzi – lui era molto polemico… C’era ad esempio un nostro compagno che era
bravissimo ad andare in bicicletta. Andava a seguire le corse e poi aveva sempre con sé la Gazzetta
dello Sport. E don Milani, tutte le volte che lo trovava dietro a queste cose, gli dice: Ma che stai
perder tempo? Ma perché non ti metti a studiare?. E quando lui rispondeva: Ma fa comodo, per parlare con la gente, lui rispondeva: Macché, tempo perduto. Un altro stava spesso con i giovani nel
campo del calcio e lui questo non lo poteva sopportare perché, diceva, è la scuola che conta. E lo diceva in un modo molto bello, riassunto in questa frase: Ma io devo stare in concorrenza coi ministri
del mondo?Ecco l’ultima amarezza: quei pochi e insignificanti ragazzi era difficile tenerli. Ogni
poco compariva in paese qualche attrazione più grande, e allora bisognava buttarsi alla concorrenza: magline loro? Magline e scarpe noi. Tesserino in tasca loro? Tesserino e distintivo noi. Cinema, televisione, biliardo loro?…Ho voluto solo indicare lo sdrucciolo in cui stavo per infilarmi,
in cui si sono infilati tanti miei compagni. (Io non mi ci sono infilato semplicemente perché mi hanno infilato in seminario…). Io per grazia di Dio mi fermai in tempo. Intesi, già al primo gioco sfiorito, dove sarei andato a finire. E non fu una virtù, ma un vizio che mi salvò. Fu l’amor proprio. Io,
il sacerdote di Cristo, dovevo stare in concorrenza e sullo stesso piano coi ministri del mondo? E io
dunque m’ero fatto prete per correre verso il male sulla stessa strada e un passo indietro a quel poverino di Giovanni, capo comunista del paese?. Se io correrò ancora con lui, vorrò stargli sempre
un passo avanti. Sarà meglio dunque che io non corra con lui, voglio andare su un’altra strada.
Certo la sua sincerità e la sua dirittura si possono scoprire bene anche in questa lettera molto conosciuta, la lettera a Pipetta. Pipetta era un giovane comunista di San Donato: Ma dimmi Pipetta,
m'hai inteso davvero?È un caso, sai, che tu mi trovi a lottare con te contro i signori…Pipetta, tutto
passa. Per chi muore piagato sull'uscio dei ricchi, di là c'è il Pane di Dio. È solo questo che il mio
Signore m'aveva detto di dirti. È la storia che mi s'è buttata contro. Ora che il ricco t'ha vinto, mi
tocca scendere accanto a te a combattere il ricco. Hai ragione, sì, hai ragione, tra te e i ricchi sarai sempre te povero a aver ragione. Anche quando avrai il torto di impugnare le armi ti darò ragione. Ma come è poca parola questa che tu m'hai fatto dire. Come è poco capace di aprirti il Paradiso questa frase giusta che tu m'hai fatto dire. Ma il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene
Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò
nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso. Quando
tu non avrai più né fame né sete, ricordatene, Pipetta, quel giorno ti tradirò. Quel giorno, finalmente, potrò cantare l’unico grido di vittoria degno di un sacerdote di Cristo: Beati i poveri, beati
quelli che hanno fame e sete di giustizia.
Certo, bisogna riconoscere che don Lorenzo Milani aveva un modo di parlare e di scrivere che era
tagliente. C’è una lettera, inviata a suo tempo, a Nicola Pistelli, responsabile della Democrazia Cristiana a Firenze, perché fosse pubblicata, ma che Pistelli non ebbe il coraggio di pubblicare. In essa
scrive: Vivremo nella gioia della nostra libertà di cristiani. Criticheremo vescovi e cardinali serenamente visto che nelle leggi della Chiesa non c’è scritto che non si possa fare. Il peggio che ci potrà succedere sarà d’essere combattuti da fratelli piccini con armi piccine, di quelle che tagliano la
carriera. Ma son armi che non taglian la Grazia né la Comunione con la Chiesa. Il resto tenteremo
di non contarlo… Ed ora facciamo un altro passo avanti. Abbiamo mostrato che la critica ai cardinali e ai vescovi è lecita (Preciso che il motivo di questa lettera è legato al rientro in Italia del card.
Ruffini dal Congresso Eucaristico di Spagna, dove ‘regnava’ Franco di cui il cardinale faceva grandi elogi). Diciamo ora che è doverosa. È un preciso dovere di pietà filiale, è un nobile dovere anche, proprio perché adempirlo costa caro. Criticheremo i nostri vescovi, perché vogliamo loro
bene, vogliamo il loro bene. Cioè che diventino migliori, più informati. Nessun vescovo può vantarsi di non aver nulla da imparare. Ne ha bisogno come tutti noi. Forse più di tutti per la responsabilità maggiore che porta e per l’isolamento in cui la carica stessa lo costringe. E non è superbia voler insegnare al vescovo perché cercheremo ognuno di parlargli di quelle cose di cui abbiamo
esperienza diretta e lui nessuna. L’ultimo parroco di montagna conosce il proprio popolo, il vesco7
vo quel popolo non lo conosce. L’ultimo garzone di pecoraio può dar notizie sulla condizione operaia da far rabbrividire dieci vescovi e non uno. L’ultimo converso della Certosa può aver più rapporto con Dio che non il vescovo indaffaratissimo. E il vescovo, a sua volta, ha un campo in cui
può trattarci tutti come scolaretti. Ed è il Sacramento che porta e quelli che può dare. In questo
campo non possiamo presentarci a lui che in ginocchio. In tutti gli altri ci presenteremo in piedi.
Vedi, dunque, che non è sdegno per i vescovi che occorre, ma per i loro stessi figlioli, vili ed egoisti, che abbiamo amato più la nostra pace che il bene del nostro padre e della nostra Chiesa. Fermiamoci dunque un poco in esame di coscienza. Il vescovo che organizza una manifestazione mariana con elicotteri, non ha modo di valutare se questa forma di devozione sdegna o commuove. Va
in visita e non incontra che cattolici o comunisti travestiti da cattolici: gente comune che non lo
critica, che non si permette di insegnargli nulla. Lo dico senza malanimo, siamo tutti eguali. Anch’io faccio così, nove volte su dieci. Non vien voglia di dire al vescovo ciò che si pensa, è più comodo trattarlo coi soliti, dorati guanti di menzogna e dare modo a lui e a noi di vivere senza seccature. Ed egli intanto cresce, ma pure invecchia, senza crescere , né maturare né invecchiare. Il rispetto?Tacere non è rispetto. Disinteressarsi del prossimo è egoismo. Disinteressarsi dell’educazione dei fratelli che hanno in mano tanta parte della chiesa è disinteressarsi della Chiesa! Meglio
essere irrispettosi che indifferenti davanti a un fatto così' serio.
Si può capire, vero, come quel giornalista non abbia avuto il coraggio di pubblicarla… Ma ha una
profondità, se ci pensate, che si rifà al vangelo, al vangelo di Matteo che dice: Se tuo fratello ….
Va’ e diglielo, a tu per tu… Certo il modo con cui Don Lorenzo Milani parlava, era di una precisione estrema, ma anche graffiante. Lui stesso lo riconosce, scrivendo alla mamma: Nemmeno un amico come Don Bensi su di me ha le idee chiare. Don Bensi e forse anche te mi preferivate stupido
perché gli stupidi ingrassano e attirano l’affetto dei migliori. Ma se io non avessi usato un paio di
note stonate, nessuno mi avrebbe preso sul serio e Don Bensi mi avrebbe ripropinato una pasticca
di bugie barbituriche per rinchiudermi là dove non potessi nuocere né agli altri né a me. Certo,
queste note stonate sono anche benedette… Cara mamma, ti copio la lettera di Don Bensi che come
puoi immaginare mi ha fatto molto piacere. Carissimo Lorenzo ho letto la tua lettera all’arcivescovo molto attentamente e ne sono rimasto commosso. Mi è sembrata rigurgitante di amore, anche se
espresso con un linguaggio fiero senza diaframmi e non facilmente accettabile da persone non abituate. Ma l’arcivescovo è a Roma e la settimana ventura ho la benedizione delle case, e dopo è la
Settimana Santa perciò mi sarà difficile andare a leggerla io all’Arcivescovo. Se tu intanto ritieni
che deve essere inviata subito, fammelo sapere ma mi sembra che certe tue dure espressioni andrebbero tradotte in linguaggio corrente. Tu lo capisci… E difatti diremmo che la lettera non era
semplice.
Per nove anni ho badato solo a salvarmi l’anima (è del 1964) ad accettare in silenzio le crudeltà
puerili, sadiche, religiose, incoscienti con cui Mons. Tirapani e Mons. Bianchi e quindi automaticamente anche tutti quei sacerdoti che ruotano nel vostro ambiente calpestavate in me un uomo, un
neofita, un cristiano, un sacerdote, un parroco, in cui in 17 anni di sacerdozio non avevate saputo
trovare neanche il più piccolo appiglio per un richiamo, un consiglio, un rimprovero. Da due anni
in qua i medici e alcuni segni mi hanno detto che è l’ora di prepararsi alla morte. E allora ho voluto riesaminare freddamente questi 17 anni di vita sacerdotale, anzi i loro frutti. E mi è improvvisamente saltato all’occhio che la santità non è così semplice come io credevo. Lasciarsi calpestare
può essere santo, ma nel calpestare me voi calpestavate anche i miei poveri, li allontanavate dalla
chiesa e da Dio. E poi a che serve amare e tacere, porgere la guancia ai soprusi e alle calunnie,
quando chi li compie è il capo della chiesa fiorentina? Don Bensi aveva ragione a dire “rigurgitante
d’amore, ma questo tuo modo di parlare non è che sia facilmente accettabile…
L’Osservatore Romano, nel marzo dello scorso anno, in occasione del quarantesimo dalla morte, ha
intitolato l’articolo su di lui così: “Innamorato di Dio e della Chiesa”. Sì, questo si può davvero
dire con tutta forza. Il televisore e il pallone, scrive ad un sacerdote, non sono metodi per raggiungere gli altri, ma modi di essere e di vivere. Che l’operaio stanco e disperato si trovi a braccetto di
una ragazza, o intento al pallone, o al televisore, o in confessionale, o in ginocchioni, o imbullettato su una croce, è quasi lo stesso per lui. Perché lui può farsi santo per il disgusto provato incon8
trando un prete dalla Gina (una prostituta) o per l’edificazione di averlo trovato invece prostrato
all’altare. E viceversa, può dannarsi imbullettato sulla croce accanto a Gesù, a differenza dell’altro ladrone che si salvò. Ma non è lo stesso per l’anima nostra. Non è per lo scandalo che si dà che
non si devono usare metodi indegni della veste che portiamo, non è per gli occhi del povero che
giustamente ci giudicano e ci disprezzano, ma per gli occhi di Dio che vuole noi all’altezza della
nostra vocazione sia che si sia sul pulpito davanti a diecimila persone che ci guardano, sia che si
sia soli, nel nostro letto, al buio, con l’angelo custode che ci guarda. Son cose così elementari che
mi vergogno a doverle ridire.
Certo questa coerenza da diamante che taglia tutto e certo ferisce è una cosa ammirevole. Lui dice
che la povertà è la cattedra ineccepibile per parlare alla gente, unica cattedra da cui si potrebbe
ancora dire al mondo sociale e politico qualche parola ancora nostra, in cui nessuno ci abbia preceduto, né ci potrebbe precedere. E anche a proposito del celibato, dal momento che come prete ha
vissuto il celibato e con fedeltà assoluta (pensate che nemmeno la Eda poteva entrare nella sua camera… le diceva: Se io volevo che una donna entrasse in camera mia, mi sarei sposato. Alla mia camera ci penso da me”. E le voleva un bene dell’anima). Scriveva: Non rimpiansi mai di essere celibe anzi sentii il privilegio altissimo del celibato e ne fui gelosissimo. Non si mimetizzò mai neppure
nel suo vestito. Portò sempre la sua tonaca come una bandiera di cui gloriarsi, perché lo segnalava a
tutti come ministro di quella chiesa che amò sino allo spasimo, anche quando dovette soffrire per lei
e da lei. Anzi l’amò ancora di più per questo. E un giorno ha scritto questa lettera a Michele Gesualdi che da Milano gli scrive accusandolo di essere fuori del mondo e di non conoscere la vita: Cosa
ti è successo? La tua fissazione di chiuderti nel tuo guscio e tenere per te i tuoi problemi è davvero
una malattia. Che fai? Vai allo stadio, discuti di sport, vai a ballare, fumi, vai a donna, giochi a
carte, leggi fumetti, compri canzonette, bevi, leggi giornali cosiddetti indipendenti? Oppure consideri queste cose come prima e quando vedi un operaio, un’operaia che si perde in queste cose ti fa
pena e vorresti che ne uscisse, che prendesse coscienza della sua dignità di uomo, di cittadino, di
cristiano, di intelligenza capace di apprendere cose alte e donare agli altri cose alte? Se la vita ti
ha insegnato cose che ignoro perché non me le insegni?Ma non in un momento d’ira, come se tu ti
divertissi a farmi sapere che questi ultimi anni della mia vita li ho sprecati a preparare ragazzi non
adatti alla vita in un sogno tutto fantastico tutto irreale, parto di una povera fantasia malata d’un
povero borghese educato sotto serra e poi esiliato in un deserto a ripetere vecchi luoghi comuni
che non significano più nulla, o peggio che non hanno mai significato nulla, perché la vita in quarant’anni, lui non l’ha mai conosciuta? So bene che molti aspetti della vita moderna mi possono
sfuggire, ma questa è colpa anche tua. Informami meglio, parlami delle ore quando sei qui, raccontami esattamente come sono e come vivono queste tue attiviste, in che rapporti siete, quali sono
le mode di oggi alle quali ritieni giusto piegarti e che io, troppo illuso, non riesco a capire. Il matrimonio? Certo è un errore, è una resa: addio Sicilia, addio Algeria, addio uguaglianza, libertà
fraternità per i poveri. I momenti di delusione non si riempiono con la moglie e i figlioli, ma con la
preghiera e lo studio di che cosa si potrà inventare di nuovo domattina. Cosa ti è cambiato di tutto
questo? In che cosa ti avevo ingannato o ti avevo illuso?neanche un attimo della mia vita da che
sono cristiano, l’ho persa a desiderare una famiglia mia in cui sfogare i dispiaceri dell’apostolato
o del cozzare degli ideali contro il muro della realtà. Io sono vecchio, ormai e devo prepararmi
solo a morire e a lasciar vivere. Ma non sono ancora morto. Tu sei grande ormai e devi far quasi
tutto da te, ma forse non tutto ancora. E poi l’amicizia si deve conservare sempre. E l’amicizia è
fatta di comunione, di interessi, delle conoscenze, d’affetti, non di idee.
Il tempo sta correndo e mi limito a questo punto a leggervi qualche parola su una cosa molto importante: la gioia. Perché un prete dev’essere un uomo di gioia. Così scrive ad un ragazzo: Caro Bruno,
ho ricevuto ieri la tua lettera. Capisco benissimo quello che mi dici e cioè che nel campo non si impara nulla. Se appena un giorno potrai ne uscirai, ma ora che ci sei la cosa più importante è di
starci senza broncio, cioè sereno. Se stai lì a roderti dalla rabbia non solo non impari, ma neanche
pensi e preghi, che son due cose che si fanno bene solo a mente serena. Si può fare dei programmi
per l’ avvenire e prendere delle decisioni e non essere contenti della vita che si conduce, ma nel
frattempo bisogna saper vivere con gioia le cose che capitano giorno giorno e allora s’ acquista
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per noi una serenità e per quelli che ci stanno intorno ancora di più perché una persona serena
porta pace in tutta la famiglia e anche più lontano.
E alla zia Silvia, molto malata, prossima a morire: Passare tante ore a pensare mi pare una bellissima cosa. Spero però che non siano tutti pensieri tetri. Se la memoria è onesta deve richiamare alla
mente in parti uguali cose liete e cose tristi. E se la memoria è furba, racconta solo le cose liete. E
questo vale per il passato, per il presente e per il futuro. Io per esempio me la godo. Centinaia di figlioli carissimi si son persi malamente. Ma non me ne ricordo mai. La memoria è tappezzata di figlioli generosi, buoni, o almeno figliuoli perduti che sono tornati pentiti. Per esempio: vedo dei
giovani preti e chierici di sinistra che han perduto l’equilibrio dalla parte dell’amarezza. Leggono,
ascoltano, raccontano dalla mattina alla sera i fatti, gli episodi, le situazioni in cui la chiesa e i
cattolici si disonorano. Fatti che per la chiesa sono veri, anzi spesso non sono neanche il peggio
vero. Eppure, questa loro dignità di fatti veri, che è pure migliore di fatti che ci offre certa stampa,
è viziata dall’essere stati scelti e dall’essere troppo presenti al pensiero. Se la scoperta del male
deve prendere tanto posto nella nostra vita, da non saper guardare con un sorriso divertito affettuoso tutte le cose buone che pure esistono nel mondo e nella chiesa, allora meritava non scoprirlo. Rovistiamo dunque negli errori di casa nostra, solo quel tanto che basta per non ripeterli noi,
quel tanto che basta per contribuire anche noi, senza falsa umiltà, all’educazione e istruzione dei
nostri confratelli superiori, compresi i vescovi e il papa, che hanno bisogno come tutti e forse più
di tutti. Ma dopo aver ottenuto questi due scopi, basta, non ne parliamo più. Ci si può far sopra
una risata divertita. Se prendiamo il volto tragico della catastrofe, vuol dire che non crediamo in
Dio e nella Provvidenza, vuol dire che non siamo in grazia di Dio.
E in un’altra lettera: Combattivi fino all’ultimo sangue, e a costo di farsi relegare in una parrocchia di 90 anime, in montagna e di farsi ritirare libri dal commercio. Sì, tutto. MA senza perdere il
sorriso sulle labbra e nel cuore e senza un attimo di disperazione, o di malinconia, o di tristezza, o
di scoraggiamento. Prima di tutto c’è Dio. E poi la vita eterna.
Finisco con una parola di sua madre. Don Lorenzo Milani si avvia alla fine della sua vita, siamo nel
1967: le sue frasi sono piccole frasi scritte su foglietti di carta, perché non può più parlare. Don Lorenzo vuole che la sua mamma, ebrea, sappia come muore un prete cristiano. Racconta don Bensi:
come poteva mostrare come muore un prete cristiano, senza offendere il suo dolore e la sua disperazione di madre? Fece leggere a uno dei ragazzi a turno la passione di Cristo, in ognuno dei vangeli,
in un angolo della stanza, lentamente e a bassa voce, senza interruzione. E la mamma scrive alla figlia: Assisterlo 24 ore al giorno è molto peggio che saperlo malato lontano. Ha sofferenze terribili.
Ha una forza d’animo incredibile, tanto che chi lo vede mezz’ora dopo dice che sta benino. Ma poi
dopo ore e ore di bestiale sofferenza (sono i dolori delle ossa dei leucemici) che non ne può più e
piange e si lamenta. È serenissimo. E dice di essere felice, spiritualmente. Ieri mi ha detto: Devi
essere felice di avere un figlio arrivato in porto. Il sabato 24 giugno don Lorenzo avvertendo che
oramai il calvario si stava per conchiudere, chiamò i suoi ragazzi per l’ultima lezione: Un grande
miracolo sta avvenendo in questa stanza. Un cammello passa per la cruna di un ago.
Nel testamento aveva scritto: Caro Michele, caro Francoccio, cari ragazzi, non è vero che non ho
debiti verso di voi, l’ho scritto per dare forza al discorso! Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma
ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto.
L’elogio più bello di Lorenzo l’ha fatto sua madre, scrivendo ad un amico dopo la morte del figlio:
La ringrazio delle Sue parole. Mi ricordo di Lei e so che Lorenzo le voleva bene. Lorenzo mancherà a molti amici - a cui ha lasciato un gran vuoto ma senza amarezza - tutto è stato bello nella sua
vita e nella sua morte.
E davvero tutto è stato bello, se dopo quarant’anni ancora si parla di lui, della sua vita e dei messaggi che ci ha lasciato.
Card. Silvano Piovanelli
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Scarica il testo della conferenza di S. Em. Card. Piovanelli