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Ciclicità
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L’età della pietra
nell’era
tecnologica
di Massimiliano
Forgione
Ogni
epoca
ha i
suoi
intelle
ttuali
asser
viti, i
suoi dissenzienti, i
suoi nicchianti. La
nostra non ne è
esente. Gli ultimi
costituiscono una
categoria spregevole
quanto i primi,
guardano tutti
dall’alto della loro
torre d’avorio,
trattano tutti da
imbecilli, come i
padri di una volta, si
sentono gli unici
depositari della
verità. pag. 1
foto
Intervista a Fabrizio
Gifuni
di Marcello Masneri e
Massimiliano Forgione
Cosa
muove
l'artist
a
Gifuni
a
portar
e in
scena lo spettacolo
Gli Indifferenti in
cui nomi e cognomi,
azioni di
intellettuali del
ventennio fascista
che subdolamente
asservirono la loro
arte all'ideologia
del regime,
vengono trattati
con estremo rigore
filologico?.pag. 2
Economia
n°20
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Intervista a Paolo
Dal Bon
di Marco Giardina e
Massimiliano
Forgione
Gior
gio
Gab
er, ci
man
ca
tanti
ssim
o la sua presenza,
la sua riflessione
sulla realtà che
viviamo. Qual è il
ricordo più
immediato di
Paolo Dal Bon che
artisticamente lo
ha accompagnato
per parecchi anni?
Quando penso a
Gaber non riesco a
scindere l’artista
dalla persona, le due
dimensioni si
fondono tanto da
farne una presenza
assolutamente
eccezionale. pag.3
Dove puoi trovare Il Mattatoio
Questo giornale è possibile anche grazie a coloro
che ci sostengono e che potrete conoscere
andando a trovarli. Pag. 5
Se vuoi puoi contattarci a: [email protected]
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NEW
Conversazione con
Alberto Patrucco
di Massimiliano Forgione
Quali sono
le ragioni
che
portano
Alberto
Patrucco a
fare un
intervento
comico per Banca Etica?
Perché significa mettere la
comicità al servizio di temi
importantissimi, in questo
caso quello di una finanza
etica, legata al territorio,
alla gente e non
speculativa. Io ho sempre
trattato, in comico, una
materia piuttosto lontana
dalla comicità di slancio,
immediata; il genere mi dà
la possibilità di parlare di
ciò che mi sta a cuore, che
realmente mi interessa e
come oggi cavalco il tema
della morte attraverso
l’ironia per
sdrammatizzarla, in
passato ho parlato di
ecologia, di ambiente, di
guerra. pag. 4
L’età della pietra
nell’era
tecnologica
di Massimiliano Forgione
Ogni
epoca
ha i
suoi
intellet
tuali
asserv
iti, i
suoi
dissen
zienti,
i suoi nicchianti. La nostra non
ne è esente. Gli ultimi
costituiscono una categoria
spregevole quanto i primi,
guardano tutti dall’alto della
loro torre d’avorio, trattano
tutti da imbecilli, come i padri
di una volta, si sentono gli
unici depositari della verità.
Loro, non si schierano se non
per la piccola personale teoria,
sempre pronti a manganellare
tutti, spiegando senza mai
farsi capire, tenendosi ben
lontani dalle domande chiare
e, dalla loro setta, trarre
quella linfa vitale di assenso
che li farà essere dei
sempiterni bastian contrari,
sempre più di nicchia
nicchianti. Un vitalizio un po’
alternativo e pseudo
intellettuale che esercita
sempre il proprio fascino.
Il parlar chiaro non appartiene
a quest’epoca, essa esige
menzogna e falsità,
l’asservimento a questa
ributtante prassi ci rende
carne che puzza, mefitica
massa corporea sulla quale
volano in circolo gli avvoltoi;
avvertiamo la loro presenza
ma la verità è cosa dura da
vivere.
Chi non si rassegna a questo
stato di cose viene visto
sbiecamente, con sospetto e,
proprio come i vecchi padri nei
confronti del figlio che trova il
coraggio di affrancarsi, gli
asfittici vivono l’attesa del
ritorno del figliol prodigo,
pregustando il momento in cui
cadranno. Ma certi figli son
destinati a non tornare mai,
loro, l’elastico della possibile
redenzione ortodossa l’hanno
per sempre spezzato.
Così è la società. La maggior
parte dell’umanità cuoce nel
pentolone della menzogna
collettiva, del grande inganno
di chi ci vuole stupidi, mentre
la parte minoritaria non si
rassegna, tiene duro, ricerca,
anche nella follia, vie di fuga,
alternative possibili pur di non
vivere una vita da morti.
Con questo numero si chiude
una stagione giornalistica
ricca. Abbiamo incontrato
persone eccezionali che hanno
reso il nostro percorso
imprescindibile, da ora in poi,
ogni ritorno è impossibile. Li
mettiamo nella pagina internet
con cui questo giornale si
presenta perché da qui dovrà
ripartire l’analisi del presente,
fuori dal chiacchiericcio inutile
e dalla rincorsa spasmodica
della notizia sterile. Si
conclude una stagione difficile,
affrontata con la passione di
chi non vuole raccontarsi balle
ma si ostina alla verità, perché
nel disfacimento delle
costruzioni lusinghiere e di
comodo, la base deve avere
fondamenta ben solide. Tante
illusioni sono crollate,
l’evidenza dei fatti è
drammatica. Abbiamo la
sensazione che da qui in poi
potrà succedere di tutto, ma il
nostro cruccio, fino a quando
non individueremo un ‘noi’
plausibile, sarà quello di
puntellare costantemente l’‘io’
che risiede prima di ogni
possibile senso di
appartenenza.
Gli ultimi amici del nostro
viaggio sono: Fabrizio Gifuni,
Paolo Dal Bon e Alberto
Patrucco. Attore eccezionale il
primo che, con il suo ultimo
spettacolo Gli Indifferenti ci
consegna riflessioni preziose
sull’asservimento dell’uomo
artista al potere;
organizzatore degli spettacoli
di Giorgio Gaber il secondo,
conversare con lui ci ha aiutati
a mantenere vivo il lascito di
un uomo vero, appassionato,
sincero; ‘pessimista comico’ il
terzo; che piacere averlo
incontrato nuovamente dopo
dieci anni e vederlo agganciato
con il suo riso amaro ai nostri
tempi bui.
Avremmo voluto riportare il
punto di vista dell’economista
Alberto Bagnai ma, facendo
questi parte della schiera dei
nicchianti, non si è concesso.
Egli individua un punto focale
nella grande truffa dell’euro e
della crisi; ci dice che, dal
1996, anno in cui la lira fu
rivalutata nei confronti
dell’ECU (futuro Euro), la linea
economica delle esportazioni
italiane arresta la sua ascesa e
segna il suo andamento piatto.
In buona sostanza, riconosce
nella sopravvalutazione
dell’euro la causa principale
della crisi e annuncia il suo
probabile fallimento in un
futuro non lontano. Sulle
ragioni di un cambio lira/euro
così svantaggioso per l’Italia fa
accenni a progetti culturali e
ideologici precisi ma, a nostro
avviso, senza pagare i diritti
d’autore ad altri che ci hanno
già pensato prima di lui.
In questo ritorno all’età della
pietra supportata dal rigurgito
tecnologico, in cui ci si
ammazza con picconi e
bastoni, spranghe e clave, in
cui si bruciano corpi, ad
esprimere un linguaggio
corporale non diverso
dall’afasia che ci caratterizza,
riteniamo che il ruolo della
classe dirigente è fortemente
responsabile e non ci piace
inneggiare allo spauracchio di
una nuova possibile
Norimberga ma additare i
colpevoli è operazione sana e
giusta, non per creare capri
espiatori ma perché la
consapevolezza che, una
classe intellettuale
volutamente distratta, crea il
vuoto dove ogni bruttura è
resa possibile e ogni ignavia
giustificata.
“(…) il saggio critico,
l’articolo di giornale,
l’informazione politica etc.
1
Insomma il 90% di quanto
si scrive, esula dal campo
della fantasia pura: ed ha
per fine l’orientamento del
pubblico, la diffusione di
principi, di idee, di opinioni
che formano la cultura
media di una nazione. Gli
scrittori hanno per gran
parte tradito questo loro
compito e han mostrato
quale terribile arma di
diseducazione politica può
essere la penna. Sono stati
servi pagati per diffondere
la menzogna, obbedirla con
la più sporca retorica,
insinuarla con le arti
mezzane così potenti
presso gli ingenui.” Raffaello
Ramat, 1943.
Per gli animi sensibili l’auspicio
è quello, in un percorso
sempre più verso se stessi, di
trovare una comunanza per
non esaurire i propri aneliti in
un’implosione del proprio
mondo.
Ognuno ha le sue prigioni,
mentali, fisiche.
Ognuno ci convive.
Ma quando le pareti
cominciano a restringersi,
le facce diventano
anonime.
Quando lo specchio
comincia a darti del tu
quando i marciapiedi ti
provocano vertigini e la
strada sembra il tuo
tappeto rosso
metti insieme il tuo
bagaglio.
Riempilo di ricordi,
speranze, parole, storie
vissute e storie da vivere
riempilo di emozioni,
musiche, liti, illusioni
d’epoca, domande e
risposte.
Trovati un amico e
comincia la condivisione,
l’esplorazione.
Vai a caso, lascia le tue
lacrime sul cuscino,
incontrati con la vita,
scontrati con il dolore ruba
l’amore.
Non avere una meta ma
cento, prova a ritornare
perché il ritorno dà senso
al viaggio.
Pensa a Polifemo e alla sua
solitudine e rispetta la
solitudine altrui.
Gira intorno al mondo non
girare con lui.
Affrancati da te stesso e
dall’attesa.
Per amare la vita bisogna
tradire le aspettative.
Guardati intorno e guardati
da chi si professa libero.
Il sapore della libertà è la
paura.
Solo chi ha paura della
libertà ha il coraggio di
inseguirla. Vincenzo
Costantino Chinaski, Le cento
città
Intervista a
Fabrizio Gifuni
di Marcello Masneri
e Massimiliano Forgione
Cosa
muov
e
l'artis
ta
Gifuni
a
portar
e in
scena
lo spettacolo Gli
Indifferenti in cui nomi e
cognomi, azioni di
intellettuali del ventennio
fascista che subdolamente
asservirono la loro arte
all'ideologia del regime,
vengono trattati con
estremo rigore filologico?
Il tema di questo spettacoloconcerto, che ho ideato e
condiviso interamente con
Monica Bacelli e Luisa Prayer,
è in realtà una riflessione più
generale sull’eterno rapporto
Arte/Potere. Un tema che è
sempre esistito a ogni
latitudine e sotto ogni forma di
sistema, dittatoriale o
democratico. Noi ci siamo
soffermati su uno dei Ventenni
della storia del nostro Paese,
tragicamente emblematico in
rapporto al carattere degli
italiani, cercando di capire
cosa abbia mosso artisti
straordinari a condividere, a
vari livelli, un regime come
quello fascista che si è
macchiato di crimini orrendi.
Quello che emerge è un
quadro composito di
motivazioni. Convinzione,
quieto vivere, paura,
opportunismo, vana gloria o
sfrenato narcisismo. Un
intreccio non sempre
districabile di ragioni
psicologiche e personali che
sembrano decisamente
prevalere sulle ragioni
politiche. Ci interessava anche
approfondire il tema della
autonomia dell’arte e fino a
che punto in nome di
quest’ultima si possa essere
totalmente indifferenti rispetto
a ciò che ci circonda.
L'operazione richiama
quella manzoniana di
spostare il tempo del
racconto a eventi del
passato per tracciare un
quadro contingente della
realtà. Era nei tuoi intenti
stimolare la riflessione sul
presente attraverso questa
operazione?
Il tema, ripeto, è senza tempo
e dunque per questo ‘sempre’
nel nostro tempo. Credo che la
Storia possa avere un valore
solo nella misura in cui riesca
a parlarci
contemporaneamente del
passato, del presente e del
futuro. Altrimenti si riduce a
un insieme di date e di azioni,
che personalmente, in quanto
tali non mi appassionano.
Continui a portare nei
teatri l'opera di Gadda e
Pasolini. La responsabilità
dell'intellettuale sembra
essere il fulcro della tua
ricerca artistica. Dal tuo
osservatorio che idea ti sei
fatto del grado di
consapevolezza e di
indifferenza di chi vive
questi tempi rispetto a ciò
che accade?
E’ vero che il mio lavoro degli
ultimi dieci-quindici anni,
soprattutto in teatro, ha
attraversato buona parte della
2
storia del Novecento italiano
con l’idea di cercare di capire
un po’ meglio “cosa eravamo,
cosa siamo diventati o cosa in
fondo siamo sempre stati”.
Attraverso un’esperienza di
condivisione che passa
attraverso i corpi vivi delle
persone, che è ciò che può
rendere davvero unico un
accadimento teatrale. Se
questo è stato il mio teatro di
questi anni è stato anche
perché ciò che mi circondava
mi ha ‘costretto’ a occuparmi
di questo invece che di altro,
di cui magari mi occuperò in
futuro.
Gli spettacoli si fanno per e
insieme al pubblico. E il
pubblico non è un’entità
astratta, rappresenta ogni
sera un campione della
comunità, della polis. Per
quello che mi riguarda cerco
sempre di capire innanzitutto
cosa ho voglia o necessità di
condividere con la comunità a
cui appartengo.
Per il teatro: Gadda,
Pasolini, Pavese; per il
cinema: le figure di
Basaglia, Moro (per citarne
alcuni); l'opera o il profilo
di quale figura
d'intellettuale può trovare
spazio nel percorso
artistico di Gifuni?
Non mi interessano gli
intellettuali mi interessano gli
uomini. E’ la curiosità per i
miei simili che continua ad
emozionarmi, chiunque essi
siano. Per quel che riguarda il
teatro poi, credo che questo
non sia un fatto intellettuale.
Può anche esserlo (e
personalmente mi piace molto
che lo sia), ma questa
dimensione da sola può non
produrre nulla. Il teatro è
essenzialmente Rito e solo il
Rito è in grado di creare una
fascinazione misteriosa, che
non passa da canali
intellettuali.
Intervista a Paolo
Dal Bon
di Marco Giardina
e Massimiliano Forgione
Giorgio
Gaber,
ci
manca
tantissi
mo la
sua
presen
za, la
sua
riflessione sulla realtà che
viviamo. Qual è il ricordo
più immediato di Paolo Dal
Bon che artisticamente lo
ha accompagnato per
parecchi anni?
Quando penso a Gaber non
riesco a scindere l’artista dalla
persona, le due dimensioni si
fondono tanto da farne una
presenza assolutamente
eccezionale. Credo che una
persona così lucida manchi a
tutti, sai, individui così
autorevoli sono rari ed è un
vero peccato che ci abbia
lasciati a soli 64 anni, la sua
presenza ci sarebbe stata
ancora di tanta utilità.
Il presente mi porta
immediatamente ad un
senso di
deresponsabilizzazione che
Gaber aveva individuato in
maniera netta in ognuno di
noi; ossia, la mancanza di
potere su noi stessi che ci
porta a riversare sul
prossimo, anche il più
vicino, la colpa della nostra
infelicità.
Sì, lui insisteva tanto sul fatto
che l’unico vero potere che
possiamo esercitare è quello
su noi stessi. E’ molto
interessante quanto dici,
Gaber non dava mai la colpa al
mondo e il presupposto della
riflessione è che quando non
siamo capaci di riconoscere i
nostri difetti, immediatamente
attacchiamo il prossimo;
cerchiamo la colpa all’esterno
nel momento in cui non
riusciamo ad individuarla
interiormente, e la colpa è
sempre dentro di noi. Gaber
ciò lo sapeva e lo condivideva,
non se la prendeva mai col
mondo ma piuttosto si
chiedeva: dove sbaglio io? Per
lui è fondamentale che ognuno
conosca il proprio libretto
d’istruzioni, che indaghi sul chi
è, sul cosa muove le proprie
azioni in modo da non creare
conflitti con il prossimo.
Non si lamentava del
mondo ma diceva: “Mi fa
male il mondo”.
Certo, ma la lucidità di questa
affermazione gioca tutta sul
piano individuale, sulla
necessità del conflitto
individuale per evitare quello
con il prossimo.
Parliamo un po’ del tuo
lavoro con Gaber, qual era
la genesi dei suoi
spettacoli?
Nascevano dalla sua urgenza
di confrontarsi con Sandro
Luporini e di intervenire sulla
realtà. Gaber era in continua
percezione di qualcosa, era
fortemente stimolato dalla
realtà che poi doveva
elaborare a modo suo. I suoi
spettacoli erano sempre molto
partecipati anche nel dopo,
proprio perché sentiva forte la
necessità di recepire nuovi
stimoli per elaborare nuove
riflessioni e proporle al
pubblico con la sua
caratteristica umiltà.
Perché nasce la Fondazione
Gaber e quali sono le sue
finalità?
E’ stata una scelta immediata
di tutti i suoi collaboratori, si è
sentita subito l’esigenza di
portare avanti il discorso di
Gaber, di creare un archivio,
di completare editorialmente il
percorso di Gaber. E’ un punto
di riferimento per tutti coloro
che vogliono avvicinarsi a
Gaber.
Hai accompagnato Gaber
per tanti anni e ritengo che
la frequentazione ti abbia
portato ad acquisire tratti e
specificità del suo pensiero.
Avrei potuto osare di più, mi
sento sempre in difetto
rispetto a ciò, avrei potuto
3
metabolizzare certamente di
più.
Quale atteggiamento, quale
riflessione avrebbe avuto
Gaber alla luce della
situazione politica
presente. Sappiamo che
era amico di Beppe Grillo,
come avrebbe vissuto il
fenomeno del Movimento
da lui creato? Oltre che
divertito, a tuo parere, vi
avrebbe anche trovato
elementi interessanti di
rottura di un sistema?
Sarebbe rimasto coinvolto e
allo stesso tempo distaccato,
avrebbe atteso l’evolversi degli
eventi. Sicuramente avrebbe
fatto il tifo per una tale
iniziativa, perché finalmente si
torni ad una dimensione
collettiva del modo di
intendere la politica, a un
nuovo senso di appartenenza,
ma avrebbe anche espresso
diffidenza sulla scorta di un
vissuto che ha visto nascere
altri movimenti e partiti di
rottura che poi hanno tradito
le aspettative. Però,
sicuramente questa spinta che
Grillo è riuscito a mettere in
atto l’avrebbe molto
appassionato.
Conversazione con
Alberto Patrucco
di Massimiliano Forgione
Quali
sono le
ragioni
che
portan
o
Albert
o
Patruc
co a
fare un
interve
nto comico per Banca
Etica?
Perché significa mettere la
comicità al servizio di temi
importantissimi, in questo
caso quello di una finanza
etica, legata al territorio, alla
gente e non speculativa. Io ho
sempre trattato, in comico,
una materia piuttosto lontana
dalla comicità di slancio,
immediata; il genere mi dà la
possibilità di parlare di ciò che
mi sta a cuore, che realmente
mi interessa e come oggi
cavalco il tema della morte
attraverso l’ironia per
sdrammatizzarla, in passato
ho parlato di ecologia, di
ambiente, di guerra.
Personalmente il paradigma è:
trattare argomenti pregnanti
cercando di far ridere e non
far ridere inframmezzando il
discorso comico con cose
anche serie. Quindi direi che
l’intento è sempre: cercare di
far ridere sul serio.
Anni fa presentavi il tuo
libro Vedo buio, l’euro era
ancora agli albori, la
situazione economica
conosceva già la parola
crisi ma non in termini così
gravosi come oggi. A
distanza di più di un lustro,
come vede Patrucco la
realtà?
Io sono un pessimista da
sempre, tanto da aver dato
vita a una branca della satira
che è quella del pessimismo
comico; lo sono per due
ottimistiche ragioni: una
perché ci azzecchi quasi
sempre e l’altra perché, se mai
ti sbagliassi, vai incontro a una
piacevole sorpresa. Detto ciò,
confermo che continuo a
vedere buio ed ho la vaga
certezza che, usciti dal tunnel
che l’umanità tutta di questi
tempi sembra aver imboccato,
se ci andrà bene,
riemergeremo in una zona
d’ombra.
I politici offrono tanta
materia da trattare ai
comici, mai come di questi
tempi la politica
rappresenta una fonte di
ispirazione fantastica.
Allora, qui ci facciamo
semiseri, perché io credo che
sia necessario uscire
dall’equivoco del
riconoscimento di quello che è
il tratto satirico. Io amo la
satira ma non quella a tutti i
costi e, nello specifico, ritengo
che ricamare aggiungendo
battute su modi,
atteggiamenti, discorsi che già
di per sé sono ridicoli sia
ridondante tanto da generare,
attraverso il comico, ciò che è
buffo e inutile. Quindi, più che
continuare a parlare del
politico e del portaborse di
turno, penso sia importante
ricominciare a occuparsi di
temi sociali attraverso la
chiave della satira. Quando il
comico è al potere la satira è
in crisi, tant’è che una delle
mode del momento è tornata
ad essere quella delle
imitazioni per cui basta
semplicemente ricordare un
determinato soggetto, una
tratto, un vezzo che lo
caratterizzi che già si suscita il
senso del comico senza aver
aggiunto nulla a grave
detrimento della creatività di
attori e autori.
Il titolo di un altro tuo libro
precedente al già citato è
Tempi bastardi, oggi, con
quale aggettivo
accompagneresti questi
tempi?
Sono ancora tempi bastardi
perché non c’è nulla da ridere
e, nello stesso tempo, si può
ridere di tutto.
4
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