O T T O B R E
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C O N T E N T S
009
2 0 0 8
PROGETTO EDITORIALE
federico res
COPERTINA
tommaso “gatsu” de benetti
GRAFICA E IMPAGINAZIONE
federico res
EDITING DEI TESTI
giovanni “giocattolamer” donda
SITO WEB
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BABEL È OSPITATO DA
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REDAZIONE
alvise “kintor” salice
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ferruccio cinquemani
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HANNO COLLABORATO
simone “karat45” tagliaferri
COPYRIGHT
2007/2008 Babel Edizioni
S P O R E
LOVE BUGS
016
002
FRAME
MGS4: niente compromessi 008
Io, Giappone 010
REVIEW
Spore 016
Wipeout HD 012
Super Robot Taisen Z 017
Lock’s Quest 014
Rhapsody 018
UNDERRATED
Lego Batman & Co. 019
012
WIPEOUT HD
THE NEW FIRESTARTER
Babel è un magazine gratuito. Può essere
letto, stampato, prestato a cugini e parenti
o inviato via fax in Alaska. E’ assolutamente proibita la distribuzione a pagamento, integrale o parziale. Se avete
pagato per leggere queste righe, significa
che qualcuno specula sulla passione nostra
e vostra. Fateci sapere chi è. Troverà giusta
punizione.
BABEL
IGNITION
Affinità elettive? 003
DAL VANGELO SECONDO TOMMASO
AAA cercasi architetto... 004
ODIO DI GOMITO
Io mi blocco, tu ti blocchi... 005
ESCO DI RADO
Morto un Papa... 006
LA TV CHE VIDEOGIOCA
Lisa sogna il Blues 024
GIOCHI DI MERDA
Dog’s life 022
ARS LUDICA
Fable 2 e l’mossessualità 023
023
FABLE 2
FANTASY E OMOSSESSUALITA’
1492
Simulando relazioni 020
NEXT MONTH
025
cover story
ritorno di fiamma
Feticcio tecnologico, icona pop,
concentrato di design artistico
e industriale. Nel 1995 Wipeout ha decretato il successo
di PlayStation sulla concorrenza, dando vita ad un dominio di mercato protrattosi per
dieci anni. Wipeout ha trasformato il videogioco in oggetto
di culto, giocattolo per adulti;
Wipeout ha impresso il brand
PlayStation sull’immaginario
mondiale; Wipeout ha soprattutto entusiasmato milioni di
videogiocatori sparsi ai quattro
angoli del globo. Wipeout HD è
un poderoso ritorno di fiamma.
Il nuovo ruggito di un motore
vecchio ma inossidabile, liberatosi dai limiti dell’hardware
PS2 e sfolgorante nella sua altissima risoluzione next-gen.
Wipeout HD è soprattutto il ritorno di un vecchio amore,
nuovamente pulsante nel cuore di milioni di videogiocatori
ai quattro angoli del globo...
iGniTion
009
CINEMA & VIDEOGIOCO: AFFINITA’ ELETTIVE?
el suo saggio Le affinità
elettive – il linguaggio del
cinema nei videogiochi1, il
compianto Bruno Fraschini
si avventurava in una appassionata e acuta analisi sui rapporti
sempre più stretti tra cinema e videogioco, in particolare ricercando l’influsso del primo sul secondo.
Attraverso l’esame approfondito di capolavori quali Resident Evil e Fatal
Frame e numerosi riferimenti a titoli
come Metal Gear Solid 2, Ico, Devil
May Cry e Onimusha, Bruno Fraschini
descrive con chiarezza le prime fasi di
un processo all’epoca evidente, attraverso cui l’ibridazione tra videogioco e
linguaggio cinematografico pareva destinata ad esiti decisamente entusiasmanti. Le peculiarità di entrambi i
media sembravano incontrarsi in una
forma in grado da un lato di assicurare l’unicità e le esigenze del videogioco, dall’altro le infinite capacità
comunicative del cinema.
È particolarmente interessante, a
questo proposito, l’estesa disamina di
uno specifico passaggio di Resident
Evil 2, più o meno all’inizio dell’avventura di Leon S. Kennedy [“Il giocatore
regista”, Cap.1.7, pp. 28-41]. Fraschini descrive con ricchezza di dettagli l’intera serie di movimenti che
portano l’eroe biondo, dopo aver guadagnato l’atrio della stazione di polizia
facendosi strada tra gli zombie, ad incontrare la prima minaccia concreta
della sua tremenda avventura: il disgustoso licker. È totalmente rilevante
la maniera in cui il regista del gioco
(Hideki Kamiya) punti a costruire una
tensione sempre crescente nei momenti immediatamente precedenti all’incontro con la creatura, tramite
N
l’uso sapiente e originale della grammatica cinematografica horror, applicata attraverso il sistema di
telecamere fisse del gioco. In una sequela di campi medi, lunghi, totali ed
affilati controcampi, Kamiya conduce il
giocatore metro dopo metro verso
l’orrore: ora occultando la scena, ora
schiacciando il protagonista dall’alto a
sottolinearne la debolezza, ora sgonfiando la tensione con un controcampo per poi riaccenderla
immediatamente dove al giocatore è
imposto di avanzare in campo lungo
verso una imperscrutabile svolta del
corridoio. Dal primo passo all’interno
della stazione fino all’incontro con il
licker, il linguaggio del cinema sostiene e amplifica le potenzialità dell’interazione, al contempo offrendo
totale soddisfazione all’istanza di leggibilità dell’ambiente propria del videogioco.
In maniera analoga, ma avvalendosi
di una “macchina da presa” mobile
permessa da un motore poligonale,
giochi come Fatal Frame, Dino Crisis e
Silent Hill insistono sulla via intrapresa da Resident Evil esplorandone
ulteriormente le possibilità. Carrelli,
zumate e panoramiche divengono
possibili, così come movimenti complessi e raffinati come quelli apprezzati nei vicoli dei primi momenti di
Silent Hill. Devil May Cry, coniugando
l’azione frenetica con un sistema di
camere dai movimenti precalcolati,
segna la definitiva ibridazione tra le
meccaniche del videogioco e la forma
– dunque la sostanza – del cinema.
Cut scene e FMV punteggiavano già
ognuno dei titoli qui citati, ma il fulcro
del discorso di Fraschini, nonché di
questo editoriale, sta ovviamente al-
trove: precisamente dove il cinema si
fonde col videogioco, invece di restare
se stesso e fare capolino in forma di
intermezzo tra una fase giocata e l’altra.
Oggi mi sembra che la via descritta
da Bruno, e sperimentata da tutti noi
videogiocatori nei primi anni del decennio, sia stata pressoché abbandonata. L’ibridazione – ma il termine è
fuorviante – tra cinema e videogioco è
rimasta un abbozzo, un rapporto eterogeneo di forme espressive differenti
e stridenti. Se in Devil May Cry il gameplay si sposava (quasi) perfettamente al linguaggio del cinema, oggi
l’unico punto di reale contatto tra i
due media sono i Quick Time Event riportati in auge dal successo di Resident Evil 4. Oggi il videogioco si
ripiega in se stesso e si affida agli
occhi del giocatore (riprodotti dalla
soggettiva degli FPS o dalla terza persona di Gears of War), abbandona l’espressività cinematografica e si adagia
sulla piattezza di una “estetica” puramente funzionale. Il videogioco cinematografico, oggi, non esiste più. Il
cinema è rimasto fuori dal videogioco.
È rimasto un banale premio per chi
gioca, un’appendice più o meno elaborata ma sempre ben scissa dall’esperienza videoludica sostanziale.
È ancora il caso, chiedo, di parlare
di “affinità elettive”?
- Federico Res
Le Affinità Elettive – il linguaggio del cinema
nei videogiochi con un’analisi di Project Zero, di
Bruno Fraschini, Ring 2004. Reperibile in allegato a Ring#12 su http://www.idv.splinder.com
(colonna dei link a destra)
1
003
Tommaso De Benetti
Uno che i VG preferisce discuterli
Tommaso De Benetti è stato membro
fondatore e colonna portante di Ring, la
rivista più amata dai videogiocatori
meno rincoglioniti. Qualche tempo fa,
esasperato dall’ignavia invincibile degli
ormai depressi ringhici, ha lanciato da
solo il progetto RingCast (reperibile su
iTunes), primo podcast italiano a tema
videoludico, a cui comunque la vecchia
guardia partecipa a corrente alternata.
Gatsu, secondo il nick con cui è solito
firmarsi su Internet, attualmente vive e
tromba ad Helsinki, tra frotte di bionde
ninfomani e sferzate di gelo più o meno
devastanti.
DAL VANGELO SECONDO TOMMASO
AAA cercasi architetto per mulino a vento
I
Voci non confermate mi dicono
che l’Homo Sapiens Idaltu si
sia estinto perchè le femmine
della specie preferivano accoppiarsi con i più piacenti maschi
del contemporaneo Homo Sapiens Sapiens. Non so se sia
vero, ma il succo è: cari critici
videoludici, diamoci una mossa
o qualcuno si fregherà le nostre donne (virtuali).
004
cinesi l’han sempre saputa
lunga. C’è un detto che fa:
“Quando il vento del cambiamento inizia a soffiare, alcuni costruiscono ripari, altri mulini a
vento”.
I videogiochi stanno mutando,
e chi segue il mercato sa che non
stiamo parlando dello stesso
passatempo di dieci anni fa. Bilance, multiplayer online,
marketplace e store, Imagine:
Dream Weddings che vende milioni di copie, telecomandi, demo
da scaricare, achievement e trofei, scena indie, freaking magic
window da centrare se si vuol far
parte della community (cfr. Il
Vangelo su Babel 002), giochi
console che escono incompleti
tanto c’è la patch, touchscreen,
campagne aggiuntive, tornei settimanali, titoli che dopo un’anno
dall’uscita sono un gioco completamente diverso. Da una parte
abbiamo soggetti di studio che
cambiano velocemente, dall’altra
degli strumenti di valutazione
che ci mettono anni ad adeguarsi. Chi si occupa di discutere
di videogiochi per lavoro o per
passione, si trova attualmente
nella stessa situazione di un falegname a cui viene chiesto un
consiglio sull’efficienza strutturale di una centrale nucleare.
Abbiamo già discusso in questo
spazio della necessità di trovare
un metro di valutazione più preciso del voto numerico. Ci sono
state alcune proposte, alcune
pessime, altre buone. Nessuna
ha però incontrato il favore collettivo, lasciando a Babel l’unica
opzione di rifugiarsi nei grandi
classici e perpetrare lo status
quo. Il salmo di oggi non vuole
ritornare sulla questione voto,
anche se il 10 di EDGE a un titolo
controverso e anomalo come Little Big Planet potrebbe essere un
buono spunto per riaccendere la
discussione. Quel 10, è per l’editor o per il gioco? Per quello che
c’è nel disco o per quello che arriverà – forse - online? Per quello
che possiamo toccare con mano
o per il potenziale? Lascio l’onere
della risposta al mio collega che
deciderà di giudicare il gioco sul
prossimo numero di Babel.
In questa puntata mi preme
fare il punto della situazione
sulla critica e sollevare un paio di
questioni che mi stanno dando
qualche grattacapo. Come dovremmo approcciare titoli come
Burnout Paradise, che non la
smette di aggiornarsi e che non
è più il gioco che a gennaio 2008
totalizzò una valutazione media
di 88/100 su
Gamerankings.com? E se adesso
l’opera Criterion fosse un gioco
migliore, o peggiore? Quali sono
gli strumenti che abbiamo per
comunicarlo efficacemente?
Penso alla struttura delle recensioni, e mi sembra di essere il falegname di cui sopra, mentre
osserva stordito la sua cassetta
degli attrezzi di fronte a un esercito di barre di plutonio. Martello
in una mano, chiodi nell’altra, di
fronte a lui c’è un problema talmente complesso che non sa
nemmeno bene da che parte iniziare.
Little Big Planet e Fable 2,
usciranno - e saranno recensiti senza alcune importanti feature
abbondantemente sbandierate in
passato, che arriveranno successivamente tramite PlayStation
Network o LIVE. Ha senso dare
un voto a un gioco che esce in-
completo? O meglio, ha senso
dare un voto a un gioco che
forse non smetterà mai di aggiornarsi, e il cui valore dipenderà molto dai contributi della
community, in primo luogo, e dal
supporto futuro dello sviluppatore in seconda istanza? Se mi
avete seguito fino ad adesso, vi
apparirà chiaro che il modello-rivista a cui siamo abituati è destinato a morire, il nostro assieme
a tutti i filistei. Persino i siti web,
che teoricamente potrebbero seguire un gioco durante tutto il
suo ciclo vitale, faticano a stabilire una formula efficace con cui
farlo. Articoli sporadici focalizzati
sui cambiamenti? Recensione
preliminare accompagnata da
una serie di comunicazioni neutre sui nuovi add-on? Oppure gli
aggiornamenti di un gioco meritano un voto a parte? Perchè non
riproporre la recensione a cadenza periodica, aggiornandola a
seconda degli sviluppi?
Ci sono i forum, direte voi. Ma
parliamoci chiaro, sui forum ci
sto io e ci state voi, gli altri - e
nemmeno tutti - vogliono solo
sapere se un gioco vale i 60€ che
costa.
È un mondo difficile, come dicevano sia i cinesi che Tonino
Carotone. Mi guardo, vi guardo.
Sembriamo gli amministratori
della RAI, che danno l’OK a trasmettere una serie televisiva due
anni dopo che tutti se la sono già
vista scaricandola dal web. Costruiamo rifugi mentre dovremmo costruire mulini a vento.
C’è qualcuno là fuori con a portata di mano una nuova cassetta
degli attrezzi e una vaga idea di
come iniziare?
Giovanni Donda
Un uomo per due stagioni
Giovanni Donda, in arte Giocattolamer, è
italiano di nascita e inglese d’adozione.
“Scozzese, prego” aggiungerebbe lui. È
entrato a far parte dell'industria dei
videogiochi dalla porta di servizio, e lì è
rimasto. Oggi è a capo di una piccola
azienda indipendente di Quality Assurance e localizzazione, il cui nome e/o
prodotti qui non verranno mai men-
zionati. Questo ci ha costretti a scriverlo
lui. Va da sé che le sue opinioni siano appunto tali. Pure questo. La moglie, invece, gradirebbe che simili premure le
riservasse a lei, e alla figlia, non a quella
ditta del... Ma lo ama tanto. Fortuna che
non capisce l'italiano e crede ancora che
“Odio di Gomito” sia solo il romanzo che
gli pagherà il mutuo.
Odio di Gomito
Io mi blocco, tu ti blocchi, lui si blocca... noi molliamo.
S
e mia nonna avesse le
ruote - così, all’improvviso
– sarebbe un po’ uno
scherzo del cavolo, prima ancora
che una carriola. Al di là dell’improbabilità di una situazione simile, a indisporre non sarebbe
tanto il constatare come il tutto
non possa avere alcun senso,
piuttosto che proprio non te l’aspetti una nonna con le ruote. E
seppur simili, almeno a prima
vista, la distinzione fra queste
due reazioni è comunque importante. Non aspettarsi qualcosa è
molto più doloroso. Fatto. Ne dovrebbe sapere qualcosa chiunque
si sia mai bloccato nella vita, e
qui – a scanso di equivoci - non
mi riferisco al fastidioso spasmo
muscolare intercoscia, ma al
bloccarsi in un videogioco. Non
perché capiti, alle volte, di essere più vecchi della nonna di cui
sopra, ma perché quel blocco
rimbalzante proprio non ve lo
aspettavate.
Ci sono giochi in cui ‘bloccarsi’
fa parte dell’esperienza ludica
stessa, giochi che provi proprio
perché sai a priori che ti bloccherai, ed è quello di cui il tuo cervello ha bisogno dopo l’ennesimo
blip rosso che hai rispedito al codice creatore. Se avessi voglia di
farmi dare dello stupido, allora,
sono quegli stessi giochi che proverei anch’io. Nel frattempo, qui
in ufficio Mist lo uso al massimo
come screensaver, quando ci ricordiamo che le tette non sono
poi molto professional. In un
mondo perfetto – ovvero il mio
mondo perfetto - bloccarsi dovrebbe essere esclusiva di un genere ben preciso, a cui attingi se
ti senti in vena di farti del male.
Quando finalmente ti decidi, in-
vece, a giocare a ICO e a Prince
of Persia: The Sands of Time ti
aspetti degli enigmi, certo, ma di
finire a fare il verso ai protagonisti, no. Quello no.
Quando, ormai sfinito e con
l’autostima sotto i piedi, decidi di
gettare la spugna e - ringraziato
il cielo di non essere più nei preistorici anni ’90 – trovi infine l’agognata risposta online, lo shock
è tale che non riesci neanche a
gioire di un “Allora non sono io lo
stupido qui…”. Sei davvero tanto
incazzato. Perché hai perso
tempo a ripercorrere l’intero livello all’indietro portandoti dietro
una pallida zavorra, perché hai
girato in tondo davanti a porte
tutte uguali senza cavarci un
ragno. Perché la soluzione scopri
avere senso eccome, ma non te
l’aspettavi, e per un motivo ben
preciso. Dovevi semplicemente
compiere un’azione che non
avevi mai fatto prima. Quando?
Uno potrebbe obiettare, e sarebbe la domanda più legittima
del mondo, all’inizio dell’avventura, forse? No, alla fine. Perché
qualcuno ha visto bene di dimenticarsi il galateo del buon designer e i gomiti sul tavolo.
ICO ha un limitato numero di
carte con cui giocare, ovvero un
bastone, una bomba e un’amorevole – a tratti brusca - stretta di
mano. Prince of Persia ne ha ancora meno, salti e slow motion,
ma non per questo raggiungere
la ‘stanza’ successiva è qui meno
retributivo. Anzi, esistesse una
formula matematica a tal proposito, il numero di azioni da tenere a mente sarebbe
inversamente proporzionale al
divertimento che queste procurano. Dovrebbe andare da sé, al-
lora, che il design delle stanze di
cui sopra debba girare intorno ai
capisaldi di cui il titolo si fregia.
Non perché lo dica io - grazie
tante - ma perché questi sono gli
elementi che i designer hanno
esposto entro la prima metà del
gioco, entro la fine di un qualsivoglia tutorial. Introdurre un elemento nuovo dopo la metà non è
un’ottima idea per spezzare la
monotonia degli schemi, è una
presa per il culo. In secondo
luogo una cattiva scelta di design. Se lasciate il vostro bambino a giocare con le forme
geometriche da inserire negli appositi spazi, e poi vi presentate
con un tirannosaurus rex perché
vi sembra la cosa più figa del
mondo, capite bene che quel giocattolo dovrete essere disposti
pure a comprarglielo. Nota a sé
stesso: se arrivasse in ufficio un
titolo con anche solo un stralcio
di tutorial nell’ultimo livello,
prendere ferie.
Se, dicevamo, non sembra una
decisione molto intelligente il
fatto che a mia nonna, dopo che
da anni si è abituata a spostarsi
con le proprie gambe, cresca all’improvviso un paio di ruote,
perché mai l’introduzione di un
unico, isolato blocco rimbalzante
in ICO - così, all’improvviso… e
solo per la versione europea, per
giunta - lo dovrebbe essere?
Piuttosto, invece di imparare a
progettare videogiochi – o a convertirli per un mercato diverso con corsi universitari DeAgostini,
si impari da un maestro indiscusso. Se non altro, Dio dev’essere stato un gran game
designer.
Gli amici vanno e vengono, alcuni mai abbastanza velocemente. Specie quelli che,
dovendo studiare medicina, si
sono bevuti un intero libro di
anatomia umana e son convinti che esista un nervo nell’interno coscia che ti possa
immobilizzare. Bloccarsi fa
male. Fatto
005
Vincenzo Aversa
Professore Nerd
Ritenendosi da sempre uno dei cinque
migliori giocatori al mondo di Tetris, il Dr.
Vitoiuvara ha deciso di condividere con
il mondo le sue conoscenze e abilità portando avanti su youtube quel “Corso per
Videogiocatori Professionisti” che oltre a
renderlo famoso, lo ha definitivamente
consacrato al ruolo di pagliaccio. Vive
solo e abbandonato in compagnia del
suo fidato quaranta pollici ma, come ama
ripetere, risparmia un sacco sui preservativi. Nonostante attualmente passi
tutto il suo tempo libero a videogiocare, è
fermamente convinto che, nell’arco di
massimo cinque anni, sarà fuori da
questo ambiente di sfigati.
esco di rADo (ma gioco pure troppo)
Morto un Papa...
R
icordo un mondo senza
Winning Eleven, International Superstar Soccer Pro o
Pro Evolution Soccer, un mondo
con tanto FIFA e una manciata di
amici a sfidarsi a casa mia quattro contro quattro. Il gioco non
era perfetto, qualche intellettuale
gli preferiva il tamarrissimo
Actua Soccer, ma funzionava a
meraviglia nonostante le galoppate coast to coast e le scivolate
a manetta. Poi dal Giappone arrivò un giochino e dopo cinque
minuti mi ero già convinto. Lo
stesso non poté dirsi dei miei
amici, invece, troppo partigiani
per affacciarsi a qualcosa di
nuovo con tanta facilità.
Persino Console Mania purgò la
versione giapponese di Winning
Eleven - la prima di buon livello
ovviamente - con una disinteressata sufficienza. Federico, il rompicoglioni del gruppo, giurava sul
realismo di FIFA e schifava l’intraprendenza del popolo giapponese. Marco, quello che non lo
convincevi mai, ti rideva in faccia
se solo provavi a cambiare disco.
Attilio lo provò quel Winning Eleven, e in due fu più facile convincere tutti gli altri. Fu un
passaggio epocale quello dei giochi di calcio digitale, un passaggio che ha richiesto del tempo,
ma dal quale non si è più tornati
indietro.
E ora mi vedo FIFA 09, e prima
di lui FIFA 08, e capisco che
un’altra epoca è finita. E oggi
come allora, la resistenza al
cambiamento è forte e innaturale. Qualcuno piange sulle differenze di pad, qualcuno non
riesce ad abituarsi alle nuove difese, qualcuno continua a sostenere la credibilità di PES, ma
006
qualcun altro, dopo quindici anni
di religioso acquisto, è passato
all’altra sponda. Xbox Magazine
Ufficiale stringe i pugni e lascia il
margine di un punto decimale al
gioco Konami. Come a voler ribadire che sì, FIFA è un buon gioco,
ma PES è sempre meglio. Perché
con PES siamo cresciuti, perché
con PES abbiamo perso amici,
perché sembra impossibile dover
voltare pagina. Ma se l’anno
scorso eravamo in quattro a ballare l’hully gully, adesso siamo in
tanti e non son poche le riviste
che hanno fatto una scelta diversa. E le riviste, che vi piaccia
o meno crederlo, guidano le
masse come nemmeno l’unità
guida i comunisti.
E voglio dirlo senza troppi giri
di parole: non è una questione di
gusti, è un problema di estremismo religioso. L’anno scorso Seabass dichiarava che PES era
riuscito male, quest’anno dichiara che sogna il motore grafico di FIFA. Seabass, non io,
parla del suo gioco e del suo lavoro. E mentre lui spinge a comprare alto, gli affezionati
difendono gli scatti, i soliti difetti,
il ritmo eccessivo e i problemi di
lag online così come in passato
difendevano le maglie disegnate,
i campionati farlocchi e le coppe
dell’amicizia. Non c’è una ragione
oggettiva per preferire l’ultimo
PES all’ultimo FIFA, c’è solo l’ostinata ottusità di chi non sa
guardare oltre la punta delle proprie scarpe. E capiamoci, non c’è
nulla di male a non voler ripartire
da zero. FIFA chiede al giocatore
di PES di rifarsi pippa, di perdere
partite, di umiliarsi ai bassi livelli
di difficoltà. Non tutti possono
accettarne le conseguenze. Ma
diamo alle cose il loro giusto
nome: pigrizia, mancanza di
tempo, abitudine, amici torcibudella. Tutto quello che volete, ma
non è mai una questione ludica.
La stessa ostinazione ha impedito ai videogiochi di evolversi
con il giusto ritmo. La mancanza
di novità di questo settore è figlio della volontà degli acquirenti
più che della scarsa attitudine al
nuovo dei programmatori. Il coraggio di un Resident Evil 4 ha
pochi precedenti nell’industria videoludica. Non puoi toccare una
saga dalle fondamenta senza
scontentare qualcuno e rischi
meno se confezioni seguiti in
serie. Il giocatore medio vuole
quello che ha già giocato, solo
quello, ed è restio alle novità
come un tartufo alle giornate di
sole. È pigro, svogliato, ottuso
e… innamorato. E se PES è la sua
donna, lo è stata per anni, non la
lascerà andare nemmeno con i
chili di troppo e un amante sul
cellulare.
E invece la concorrenza fa
bene, migliora, perfeziona, aumenta l’offerta. Sogno un PES
tutto nuovo che si sforzi di contrastare il nuovo FIFA. Sogno un
gioco di calcio che mi faccia gridare al miracolo ogni anno,
sogno una serie che mi faccia
tornare a litigare con i miei
amici. Perché Federico, il rompicoglioni del gruppo, giura ora sul
realismo di PES. Marco, quello
che non lo convinci mai, mi ride
in faccia se provo a cambiare
disco. Ma Attilio si è comprato
FIFA, e un giorno mi aiuterà a
convincere tutti gli altri.
di ferruccio cinquemani
METAL GEAR SOLID 4
merda e cioccolato: niente compromessi
allire è facile. Ci riescono in molti. Ogni
mezzasega è capace di
fallire nell’imbarazzo
generale. Ma fallire in
maniera spettacolare è tutta
un’altra cosa. E Kojima (Productions) è riuscito a partorire un
gioco in parte deludente e, allo
stesso tempo, sfregiare, martellare e far scoppiare come un
brufolo una delle più rispettate
serie di videogiochi della storia.
Metal Gear Solid 4 parte col botto,
si assesta, e finisce inciampando,
tuffandosi a faccia in giù in una
pozza di piscio.
Partiamo dal meglio: se MGS4
non è una totale delusione è perché la parte giocata è semplicemente fantastica. In teoria, il
concetto stesso di meccaniche di
gioco basate sull’agire furtivamente, si presta a delle critiche.
Lo scopo di ogni designer che progetti un gioco stealth è rendere il
non fare più divertente del fare.
Ovvero, bisogna convincere il giocatore che evitare gli ostacoli sia
più divertente che distruggerli.
Non proprio un obiettivo semplicissimo.
Metal Gear Solid è sempre stata
F
008
una serie sottovalutata, in questo
aspetto. Mentre si lodano altre
serie per la libertà concessa e per
la possibilità di ritagliarsi un personale stile di gioco, si dimentica
sempre che MGS ti dà arsenali da
Rambo e riesce pure a convincerti
che è meglio nascondersi in una
scatola di cartone che fare saltare
in aria soldati a colpi di lanciagranate. MGS4 ha una tale confidenza da prendere tutti gli
elementi di gioco ed espanderli in
ogni direzione. Oltre alla benedizione di un sistema di controllo finalmente intuitivo, è aumentato il
numero di armi, è aumentato il
numero di gadget per mimetizzarsi o ostacolare temporaneamente i nemici, ed è stata pure
praticamente eliminata la possibilità di nascondersi.
Lo slogan “no place to hide” va
preso in parola. Non ci sono nascondigli sicuri in cui rifugiarsi:
quando si viene scoperti ci si deve
inventare qualcosa. Così un soldato finisce a terra con una mossa
di krav maga, un altro con un
colpo di fucile a pompa, mentre si
impedisce che altri vedano Snake
piazzando una mina di gas soporifero. E così via. I momenti mi-
gliori di MGS4 nascono dall’improvvisazione. Come accadeva già
in MGS3, il colpo di genio di
Kojima sta nel dare vera possibilità di scelta. Nonostante tutte le
aree di gioco siano ancora, in
fondo, grandi stanze con un’entrata e un’uscita, la libertà di
azione è travolgente. Se si sceglie
di ‘rambizzare’ il campo di battaglia, lo si può fare. Armi e munizioni non mancano: dalle pistole
ai lanciarazzi, passando per praticamente qualsiasi tipo di arma da
fuoco esistente. Se si vuole finire
il gioco senza uccidere nessuno (o
quasi), è ancora possibile, e non è
meno divertente. È sempre possibile farsi delle gran corse verso
l’obiettivo del livello e andare
avanti così; ma perché giocare, a
quel punto?
Il gioco Metal Gear Solid 4 è
semplicemente la migliore applicazione delle meccaniche stealth
mai creata, e merita ripetute visite da diverse prospettive. Questo atteggiamento viene premiato
da un sistema di ‘medaglie’ e
bonus da sbloccare a seconda di
come si gioca. In linea con lo spirito cocciutamente vecchio del titolo, però, mancano i trofei, o
anche solo una schermata accessibile in ogni momento che ci dica
cosa fare per sbloccare i bonus.
Ed è da questi particolari che si
nota quello che MGS4, in fondo,
è: una vecchia macchina modificata e ridipinta. O una vecchia
battona con troppo trucco. In
molti aspetti manca, insomma,
quell’attenzione a chi giocherà
che ormai è uno standard dei titoli
migliori degli ultimi anni. In un
certo senso, c’è una vaga e costante mancanza di rispetto nei
confronti del giocatore, a favore di
un autore-padrone incontinente. E
se questo vale per le parti migliori
di MGS4, è altrettanto vero per il
peggio di MGS4.
In breve, Metal Gear Solid 4 ha
una concezione del rapporto fra
cut-scenes e parte giocata da anni
‘90. Da una parte c’è il gioco e
dall’altra le cut-scenes, e difficilmente i due elementi hanno un
qualche tipo di contatto. La storia
è totalmente slegata dal gioco,
tanto che è difficile anche solo capire il motivo degli spostamenti
del protagonista. Da una parte
sembra che la trama imponga di
visitare certi luoghi solo perché il
level o game design lo richiedono.
D’altra parte la trama si svolge indipendentemente dal gioco: sono tantissime le occasioni in cui una
cut-scene mostra qualcosa che sarebbe possibile fare nel gioco, ma
avviene invece come filmato, comprese situazioni potenzialmente interessanti da giocare. Kojima vuole
raccontarti la sua storia ma, invece
di farti entrare in questa storia, ti
lega alla sedia e ti dà una bella razione di cura Lodovico.
Almeno ne valesse la pena. Ma
purtroppo la trama di MGS4 è un disastro. Prendete un telefilm a basso
o bassissimo budget (non so, Xena,
o il telefilm di Mortal Kombat), imbottitelo delle caratteristiche più demenziali e idiote degli anime
giapponesi, ed espandetelo all’infinito. Dopo aver visto, con giochi
come Grand Theft Auto 4, cosa può
fare il videogioco in materia di
trama, è quasi doloroso assistere ai
buchi di sceneggiatura, alla lunghezza e all’inutilità esasperante di
gran parte dello svolgimento. E Agli
infantilismi, ai dialoghi scritti male e
recitati peggio, a scenette comiche
che ti fanno sperare che nessuno ti
sorprenda a guardare una tale idiozia. Kojima vorrebbe fare il regista,
forse. E come regista (nel senso di
persona che cura la coordinazione,
gli angoli di ripresa e la messa in
scena) sarebbe davvero valido. Ma
Kojima ha anche un disperato bisogno di uno sceneggiatore che butti
nel cesso le sue innumerevoli idee
strambe, e di un editor che riduca
della metà la trama, sforbiciando le
ripetizioni, i luoghi comuni e i combattimenti fra ninja transessuali e
vampiri bisessuali.
Della trama di MGS4 si salva molto
poco. Non mancheranno analisi del
sottotesto vagamente nicciano rintracciabile negli attacchi di diarrea di
Akiba, o della critica alla politica
estera russa rappresentata dalla
scimmia col pannolino metallico. Ma
la trama di MGS4 è - e resta - pes-
sima, anche solo da un punto di
vista tecnico: motivazioni dei
personaggi, ritmo dell’esposizione, rapporto fra testo e immagini.
Eppure, alla fine qualcosa
resta. Resta un autore che nonostante tutto continua a fare
quello che pochissimi nel mondo
dei videogiochi possono o vogliono: prendere delle decisioni,
osare e sbagliare fino in fondo.
Resta un gioco capace di deragliare e lanciare nel ridicolo una
delle più grandi serie mai
create. Eppure, Kojima potrà
sempre dire: “quel gioco è mio,
quelle sono le mie idee”. Nel bene e
nel male.
Le mani sul serpente
Il sistema di controllo di MGS, in passato,
è stato un tipico caso di cocciutaggine del
game design nipponico, ma i fan ci si
erano abituati e la rigidità del sistema
veniva sopportata. In MGS4 Konami è
andata dritta al problema, rivoluzionando
il sistema di controllo. Parzialmente.
Anche se le basi sono le stesse, Snake è
ora più reattivo. Ma, nonostante tutto, c'è
ancora la necessità di qualche contorsione e di qualche strana sequenza di
tasti. Il risultato, insomma, è un sistema
di controllo più occidentale ma ancora in
qualche modo legato alla legnosità del
passato. Come il resto del gioco, anche i
controlli vanno per la loro, originale,
strada.
009
di cristiano “amano76” ghigi
IO, GIAPPONE
primo capitolo: fondazione
ualche mese fa è stato
portato alla mia attenzione un articolo di Koji
Aizawa su Edge, dove
veniva segnalata la
crescente penetrazione dei giochi
occidentali nel mercato giapponese, un segno che con il tempo i
gusti dei nippocosi stanno mutando. Non essendo abituato a
leggere la rivista e in particolare
la colonna di Aizawa, mi è impossibile stabilire se l’esimio abbia
sparato questa fesseria in buona
fede, ma vi assicuro che tutto ciò
è assolutamente falso. Non solo:
l’immondizia occidentale non penetrerà mai il mercato giapponese, e oggi vi spiegherò perché.
Come già fatto qualche numero
addietro ricorrerò nuovamente
alle parole del profeta: Umberto
Eco. Quanto riportato qui sotto
segue di poche righe la teoria
dell’intreccio stipulata da Aristotele, che è stata citata nel precedente Arte Definitiva (vedi Babel
007): “Aristotele sapeva bene
che il parametro dell’accettabilità
o inaccettabilità di un intreccio
non risiede nell’intreccio stesso,
ma nel sistema di opinioni che regolano la vita sociale. L’intreccio
Q
010
deve dunque essere, per risultare
accettabile, verosimile, e il verosimile altro non è che l’aderenza ad
un sistema di aspettative condiviso abitualmente dall’udienza“.
L’impenetrabilità del mercato
nipponico non è dovuta alla qualità dei prodotti americani ed europei, ma all’intrinseca stonatura
della visione del mondo dell’Occidente con quella del Giappone.
Capite bene che, se già un giovanotto occidentale si ritrova malvolentieri a giocare con protagonisti
che somigliano a 50cent o The
Undertaker - perché i produttori
di videogiochi sono fermamente
convinti che chiunque tra i 15 e i
20 anni voglia identificarsi con un
rapper o un wrestler - un giapponese non deve sentirsi particolarmente entusiasta di vestire i
panni di due cerebrolesi le cui attitudini vanno contro tutto ciò che
nella società del Sol Levante è
considerato sacro.
Il che ci porta a un altro punto
nodale della questione: cosa è
‘sacro’ in Giappone. Sicuramente
tutti avrete sentito l’espressione
“I giapponesi nascono shintoisti,
si sposano cristiani, muoiono buddisti“. La diffusione di questa sar-
castica massima ha portato un
mucchio di gente a pensare che
l’identità sociale di un giapponese
sia indissolubilmente legata a
quella spirituale, come se i giapponesi fossero degli inguaribili superstiziosi che ci tengono a
tenersi aperte tutte le porte di
tutti i possibili paradisi. Ciò è clamorosamente falso: è una concezione erronea fondata su un
retroterra culturale di stampo occidentale, dove i valori morali
della società sono considerati
delle emanazioni di quelli religiosi
e non sono due entità distinte.
Ora, prima che questo articolo
venga scambiato per un’apologia
del comunismo - e qui mi gratto
le palle - ci tengo a precisare che
non ho nulla contro i
valori delle religioni più diffuse, ma
sto semplicemente additando l’incapacità della classe politica europea e
americana di tenere le redini dei rispettivi paesi, senza evitare di farsi
dare una mano dalle più potenti istituzioni ecclesiastiche. È anche vero
che ultimamente ho giocato troppo a
Bioshock...
In Cina, in Vietnam, in Corea e in
Giappone, ciò non è successo perché
questi paesi sono stati profondamente influenzati dalla dottrina confuciana, che ha fatto da matrice dei
valori sociali per duemila anni. In
questi paesi il potere ecclesiastico
non è mai stato considerato un alleato in modo permanente. Quando
la Cina non vuole riconoscere il Tibet
come stato sovrano lo fa per un ottimo motivo, non tanto dal punto di
vista umano, quanto da quello politico: il Dalai Lama non è solo il capo
della chiesa buddista tibetana, ma è
anche il re del Tibet. Nessun politico
sano di mente accetterebbe l’idea di
uno stato nello stato, in grado di minare la sicurezza e la stabilità del
paese in qualsiasi momento, a meno
che non si tratti di un politico italiano
e lo stato sia quello del Vaticano.
Di conseguenza, nei paesi estremo
orientali nessuno alza un dito se a
un ricercatore coreano viene in
mente di clonare una pecora o un
essere umano: gli scienziati, gli organi statali, e persino i privati, non
devono rendere conto delle loro intraprendenti iniziative a qualche tedesco vestito di bianco. Che questo
sia un bene o un male è da dibattersi
altrove, l’importante è che ormai sia
chiaro quanto siano divaricate le
concezioni del mondo di un americano o un europeo da quella di un
orientale in fatto di valori sociali.
Nel caso del Giappone, oltre alla
matrice confuciana, c’è da considerare l’incidenza dei quattrocento anni
di dittatura militare, che hanno comportato l’isolamento politico ed economico dell’arcipelago fino al 19°
secolo e che hanno consolidato i rituali, i valori morali e il gusto estetico della classe dei samurai, al
punto di trasformarli in una vera e
propria tradizione di usi e costumi
abbracciata da tutte
le altre classi.
Pertanto più che
chiedersi cosa sia
sacro in Giappone,
occorre chiedersi
cosa sia profano.
Questo, però, è un
argomento che affronteremo la prossima volta.
011
playstation3
WIPEOUT HD
Nose-bleeding speed
console ps3 sviluppatore studio liverpool produttore scee versione pal provenienza uk
a cura di Ferruccio Cinquemani
lla fine degli anni novanta ancora esisteva
un futuro, ed era
fatto di loghi, pioggia
e navicelle a levitazione magnetica. Il cyberpunk restava
fantascienza e non era ancora
diventato il presente. L’impatto
di WipEout sulle menti impressionabili di noi tutti al punto di
passaggio fra 2D e poligono è
difficile da concepire oggi, a più
di dieci anni di distanza e con
addosso tanta disillusione da
nerd in più. WipEout, e il seguito WipEout 2097, erano fra
quei titoli che definiscono una
generazione (ludica e non).
C’erano già stati giochi di corse
poligonali e c’erano già stati
giochi di corse futuristici, ma
WipEout era un oggetto alieno,
uno dei primi videogiochi
adulti, nella migliore accezione
possibile. Sopratutto, WipEout
è stato uno dei primi giochi ad
abbattere decisamente le distinzioni fra arcade e simulazione. Il modello di guida era
tanto immediato quanto punitivo e profondo. E su queste
basi si ergeva una delle più
maestose opere di design grafico della storia dei videogiochi.
Le speranze poste su WipEout HD non erano molte.
Troppi seguiti diluiti, troppa
poca innovazione. Eppure Studio Liverpool ha creato un
gioco incredibilmente affascinante, divertente e, per quanto
inaspettato, innovativo. Inutile
girarci attorno: WipEout HD è
WipEout in HD. E nonostante
tutto, reinterpreta anche lo spirito più profondo della serie,
adattandolo a dieci anni di progressi nel campo del game design. La prima cosa che
colpisce è la grafica. Pulita,
dettagliatissima, veloce, fluida,
sobria e psichedelica. Pochissimi giochi possono rivaleggiare con un tale splendore. Le
piste regalano scorci mozza-
REVIEW
A
012
fiato, dettagli che probabilmente un centesimo dei giocatori noterà mai e una modalità
1080p che giustifica qualsiasi
cifra folle spesa per comprare
una TV HD. Ma qui non si tratta
solo di pura competenza tecnica e tempo dedicato alla modellazione. C’è di più. C’è uno
stile grafico quasi ai livelli del
secondo episodio della serie.
Ancora una volta si trova quella
strana commistione di umano e
non umano, di navicelle quasi
aliene che gareggiano in piste
piazzate in vecchi complessi industriali o bizzarre località esotiche. L’atmosfera straniante
data da questo equilibrio fra
realismo e fantascienza viene
coraggiosamente distrutta nella
modalità Zone, in cui piste e
navicelle diventano oggetti
astratti, pulsanti al ritmo della
musica e immersi in colorazioni
lisergiche. In pratica, se REZ
fosse un racing game, sarebbe
la modalità Zone di WipEout
HD.
Se grafica e design comples-
sivo appaiono come vere novità, le meccaniche di gioco e il
modello di guida sembrano inizialmente avere più il sapore di
remake che di innovazione. Navicelle e piste sono riedizioni di
quelle viste nei passati episodi,
e la progressione è quasi del
tutto uguale a quella pedante
degli episodi per PlayStation
Portable. Rispetto a questi,
anzi, manca addirittura una
modalità (la poco riuscita Eliminator). Ed è proprio nella progressione che risiede l’unico
vero problema di WipEout HD.
Ci sono quasi troppe gare: in
pratica esiste una gara per ogni
combinazione fra pista, classe
di velocità e modalità di gioco.
Sarebbe stato preferibile vedere più coraggio e sintesi da
parte di Studio Liverpool, al
posto di questo approccio bulimico, soprattutto considerando
la poco stimolante classe di velocità più bassa.
Anche quando si mette mano
ai comandi la situazione sembra invariata in una decade di
Miss Wipeout 2097
La modalità fotografica di
WipEout HD è candidata ad
essere lo strumento preferito di chi non c’ha un
cazzo da fare tutto il
giorno. Versione pompata
di quella delle versioni PSP,
questa funzionalità non
permette soltanto di decidere angolo, distanza e
momento della foto, ma
fornisce completo controllo
di parametri come messa a
fuoco ed esposizione, nonché la regolazione di contrasto, luminosità e simili.
Anche se non si ha il minimo talento artistico è
possibile riuscire, con un
po’ di ostinazione, a tirar
fuori delle immagini decenti, proprio come nel
mondo della fotografia
reale. Naturalmente basta
fare una ricerca sui soliti
forum per vedere le proprie
splendide creazioni umiliate
dal confronto con le foto di
gente che non ha un cazzo
da fare tutto il giorno.
seguiti. Eppure basta poco per
accorgersi che questo è il WipEout ideale, la migliore realizzazione di dieci anni di idee. La
levitazione magnetica dà una
sensazione quasi tattile, mai
così realistica e così controllabile. E, come sempre, lo stile di
guida imposto dal gioco è diverso da qualsiasi altro gioco di
guida. Tagliare le curve senza
rallentare è l’obbligo, e gli acceleratori sulla pista rendono i
giri da record dei balletti fatti di
calcoli al millimetro, continui
compromessi fra la migliore
linea percorribile sul tracciato e
la maggiore quantità possibile
di acceleratori da sfruttare. Raramente un sistema fisico e dei
controlli hanno avuto un tale
impatto sulla qualità complessiva di un gioco. La voglia di
tornare ancora e ancora sulle
piste di WipEout HD dura a
lungo. E per un attimo sembra
che ci sia ancora un futuro, ed
è ancora fatto di loghi, pioggia
e navicelle a levitazione magnetica.
9
Tunz Tunz generescion
Una funzione semplice semplice come la possibilità di avere colonne sonore personalizzate si può rivelare, a seconda del gioco,
una delle caratteristiche più eccitanti, nonché uno strano modo
di stimolare la creatività degli utenti. Caricare sull’HDD della
PlayStation 3 la colonna sonora di WipEout 2097 è tanto consigliato quanto banale. Molto più interessante assistere alla gare di
compilation amatoriali scatenate sui forum. Fra le decine di compilation personali schiaffate su Rapidshare (d’obbligo l’inclusione
di almeno un brano dei Chemical Brothers), non mancano
espressioni più particolari, come la colonna sonora creata con
brani originali degli utenti di NeoGAF. A volte per vantarsi di dare
vita a contenuti creati dagli utenti basta poco...
013
DS
LOCK’S QUEST
Costruisco e demolisco
console ds sviluppatore 5th cell produttore thq versione usa provenienza usa
a cura di Michele “Guren no kishi” Zanetti
ock’s Quest è il titolo
che non ti aspetti sul
portatile Nintendo. Almeno, non alla fine di
un’estate troppo vuota di uscite
significative e alle porte di un autunno intasato all’inverosimile di
JRPG. A una prima e veloce occhiata LQ può passare inosservato o anche essere scambiato
per l’ennesimo strategico nipponico, sbagliando clamorosamente
valutazione. È un gioco di produzione americana, sottolineato fino
alla nausea dagli artwork a dir
poco terribili. Tutto il resto, invece, è fatto di ben altra pasta.
In un villaggio piccolo piccolo,
Lock vive insieme alla sorellina e
al nonno. Fratello e sorella sono
figli di una famosa coppia di Archneer che servirono piuttosto
bene il loro regno durante la
grande guerra di molti anni
prima. Presto Lock si troverà a
soccorrere un Archneer, venendo
così coinvolto nella guerra contro
i Clockwork e il loro signore.
All’inizio di ognuna delle cento
missioni avremo a disposizione
qualche minuto per costruire le
nostre difese del caso, trascinando col pennino – tramite una
semplice interfaccia - mura di
varie fogge e disponendole sugli
spazi consentiti. Ogni muro posato costa una certa cifra di
Source (il ‘mana’ del gioco, ottenibile dai resti dei nemici) e può
essere ruotato a piacere di novanta gradi in novanta gradi. La
visuale isometrica e l’incapacità
di ruotare l’inquadratura o di zoomare verso l’esterno, rendono
alle volte la posa delle proprie difese non proprio semplice e immediata.
Inoltre, più il muro è fatto di
materiale resistente e più costa:
un muro di legno sarà più debole
ma piuttosto economico rispetto
a uno più solido ricoperto di
spuntoni. Oltre alle mura è possibile installare mezzi di offesa,
come vari tipi di torrette: per colpire i nemici, per rallentarli, per
aumentare gli effetti di eventuali
trappole nelle vicinanze e così
via. Le trappole sono uno dei
REVIEW
L
014
mezzi più devastanti e strategici
del gioco. Piazzando quelle corrosive nei giusti punti sarà possibile
indebolire di parecchio le orde avversarie, massacrandole poi –
una volta a tiro – con le vostre
torrette, magari mentre si ritrovano bloccate per qualche secondo da trappole congelanti.
Ultima categoria di strumenti a
disposizione è quella degli aiutanti. Alcuni aumentano la forza
dei colpi esplosi dalle torrette,
altri la gittata, altri ancora fanno
da contraerea per i pericolosi nemici volanti. Una menzione d’onore spetta all’utilissimo
Revealer, capace di materializzare
i nemici invisibili, permettendo
così ai propri cannoni di colpirli.
Ovviamente anche le torrette, gli
aiutanti e le trappole costano
Source, con le prime che alle
volte raggiungono costi davvero
elevati e le trappole che, invece,
sono super economiche. Questo è
dovuto al fatto che le trappole
spariscono dopo ogni missione,
mentre tutte le altre installazioni
rimangono al loro posto, a patto
che i nemici non le abbiano rase
al suolo.
Ogni installazione ha la sua
bella barra di energia e uno dei
maggiori compiti di Lock è quello
di fare manutenzione riparandole.
Conclusa la fase di preparazione
alla battaglia si passa allo scontro
vero e proprio: di media viene richiesto di resistere per tre minuti
agli assalti avversari proteggendo
il proprio obiettivo, che può essere un pozzo di Source o un personaggio non giocante. Alle volte
capita di fare da scorta, uccidere
un particolare avversario, sterminare un boss, conquistare i pozzi
nemici e altro ancora.
Il vostro compito è quello di
muovere Lock gestendolo sapientemente tra la manutenzione
delle proprie installazioni e gli attacchi diretti contro i nemici. Durante il corso del gioco, però, le
statistiche di Lock non progrediranno affatto. I danni causati dai
suoi pugni restano sempre
uguali, la sua difesa è sempre abbastanza scarsa e i punti ferita
non aumentano. Forza e resi-
Gli autori di Drawn to
Life tornano a dimostrarci che non servono
team mastodontici per
produrre giochi divertenti, accattivanti… ottimi, insomma. Lock’s
Quest vi catturerà con la
sua semplice presentazione e l’immediatezza
dell’impianto di gioco
Ottimo per giocarci durante brevi pause vista la durata delle
missioni e i salvataggi
omni presenti - il gioco
si mantiene fresco e
non annoia fino alla
sua conclusione, proponendo nuove sfide e
nuovi elementi costantemente. Una piccola
perla d’occidente in un
mare di JRPG portatili
stenza degli avversari, invece, aumentano. Eccome. Il gioco propone di continuo nuovi avversari o
potenziamenti di quelli vecchi.
Oltre alle semplici truppe dalla difesa discreta, abbiamo i Brute,
specificamente pensati per radere
al suolo le vostre difese; i Sapper,
dei fantasmi invisibili che viaggiano sottoterra per poi sbucare
dietro alle vostre mura; dei nemici
volanti in grado di sorvolare le difese e distruggere le trappole se
lasciati fare; infine maghi e arcieri
debolissimi, ma in grado di colpire
dalla lunga distanza e causare
danni mostruosi se in gruppi consistenti. La vostra priorità sarà
quindi quella di eliminare i nemici
in maniera ragionata, onde ritrovarvi un intero esercito alle porte
e non sapere che pesci pigliare.
Durante il gioco, Lock impara
vari colpi speciali e varie abilità. Le
abilità selezionate vengono tutte
potenziate agendo col pennino
sulle rispettive interfacce grafiche
durante la loro esecuzione. L’abilità per applicare dell’acido corrosivo ai nemici è di un’utilità
spaventosa contro i boss: se com-
binate con le trappole della medesima tipologia, avrete il doppio
dell’effetto. Ancora meglio se il
boss di turno viene rallentato,
congelato e investito da raffiche di
proietti da qualche torretta messa
appositamente sul suo cammino
per fare da esca sacrificale. Un ottimo modo per indebolire avversari decisamente fuori scala per il
piccolo Lock, che si ritrova a dare
qualche colpo per poi scappare in
un cantuccio sicuro aspettando
che i propri punti ferita si ricarichino. Piuttosto velocemente, per
fortuna.
Le strategie applicabili in battaglia sono molteplici e il gioco fa di
tutto per mantenere viva e fresca
l’esperienza aggiungendo poco alla
volta - e fino alla fine - nuovi elementi da sperimentare e nuovi nemici a cui far fronte. A rincarare la
dose vi è anche la storia: parte
lentissima e senza grandi spunti o chissà cosa - per poi iniziare a
svilupparsi velocemente, aumentando d’interesse e infittendo i misteri appena accennati all’inizio,
proponendo poi colpi di scena a
raffica - alcuni inaspettati - fin
dopo i crediti del gioco.
Il tutto scorre via liscio e fluido,
raramente infatti dovrete rifare
qualche missione. Le uniche critiche possono essere rivolte all’IA,
che a volte agisce in modo piuttosto inatteso riguardo a Lock: capita di selezionare una torretta o
un muro da riparare e vedere Lock
farsi mezzo chilometro per raggiungere la parte posteriore dell’installazione, invece di
‘fiondarvisi’ subito di fronte. Lock,
inoltre, non riesce a farsi spazio
tra i nemici. Se un guaritore si
trova dietro due o tre arcieri, una
volta selezionato questo continuerà a correre contro gli arcieri
senza passargli in mezzo e raggiungere l’obiettivo. Non resta
altro che far piazza pulita dell’arciere più vicino, piuttosto frustrante considerando l’eccessiva
velocità con cui i guaritori usano le
proprie magie di ricarica. Infine,
ne avrete solo per venticinque ore.
La modalità versus contro un vostro amico potrebbe aumentarne
un po’ la longevità, ma non più di
tanto.
8
015
pc
SPORE
Tool Creator con animaletti
formato pc sviluppatore maxis produttore ea games versione pal provenienza usa
a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa
E il settimo giorno Dio
giocò a Spore, perché
non c’erano le partite
che la nazionale aveva
giocato il sabato, e pensò non
fosse così tanto innovativo.”
Se avessi avuto tre testicoli fumanti, al posto dei miei onorevoli
due, Spore mi sarebbe probabilmente piaciuto. Perché uno di
quelli buoni è esploso a metà
della terza fase, con il gioco ancora lontano dal decollo e la noia
a mordermi la voglia di vedere un
domani. Eppure inizia bene
Spore, con una fase cellula che
inorgoglisce le schede video e
ben tratteggia lo spirito combattivo di una nuova forma di vita.
Che si sia scelta la via della carne
o quella delle verdure, la sopravvivenza è un diritto che si guadagna con i denti. Velocità, fortuna
e destrezza sono gli ingredienti
necessari per progredire a essere
con gambe. Velocità, fortuna e
destrezza servono a ben poco, a
dirla con franchezza, in una fase
che prevede la morte con respawn. Si passeggia nella brodaglia primordiale, quindi, con due
regole due nella testa e un pensiero fisso nelle cellule: “da
grande voglio fare il pompiere o
Flavia Vento?”.
Poi le regole si fanno tre, poi
quattro, poi cinque, lo Spore primordiale si trasforma in qualcosa
di via via più complesso attraverso cinque fasi distinte che raggiungono l’iperspazio. Cinque
fasi, appunto, che viaggiano
mano nella mano con altrettanti
tutorial sconclusionati e poco efficaci. Tutto quello che si impara in
Spore lo si impara sul campo,
provando, giocando e infine morendo. E funziona, perché spesso
tutto quello che c’è da imparare
nel titolo Maxis è poca roba. Due
cosette, forse tre, da ripetere all’infinito fino al raggiungimento
della fase successiva. Qualche
volta, quando va bene, le operazioni sono divertenti. Altre volte,
quasi sempre, quello che il gioco
richiede è di torturarsi nella depressione di meccaniche rigide e
poco appaganti.
REVIEW
“
016
Spore è come l’arte impressionista: son quadri belli, se non li
guardi uno dietro l’altro o troppo
da vicino. Le piccole cose sembrano funzionare a perfezione finché non ci si ritrova impantanati
in una routine priva di soddisfazioni. Ma intanto tutto si muove,
tutto si supera, e una fase diventa quella successiva prima ancora di averne afferrato il
regolamento. Ingarbugliato in
spiegazioni che non chiariscono
nulla, il giocatore supera le avversità con la forza della sperimentazione, ma raramente
accarezza davvero il controllo
della situazione. Perché quando ci
si avvicina, dopo un tempo
spesso troppo lungo, è già tempo
di muovere le tende.
Ma se Spore trascura la sua natura più strettamente ludica, lo
stesso non può certo dirsi del suo
cuore di pandoro. Le masse vedove di The Sims troveranno una
sfilza esagerata di tool a riempire
la loro voglia di videogioco. Tool
per creare la propria mostruosità;
tool per costruire casette, per pitturare macchinine, per edificare
fabbriche e discoteche; tool per
tutti i gusti e tutte le
necessità, non per
me. Me che sono
troppo uomo per innamorarmi di
tanta futilità, me che ho ucciso
troppo sgorbi per farmene amico
qualcuno.
La collezione primavera-estate
di questi strumenti di tortura legalizzati può però intrattenere più
- e meglio - del gioco vero e proprio. Perché son fatti bene, sono
vari e permettono una libertà
sconosciuta al resto dell’esperienza. Certo, vogliamoci pure
tutti bene, ma il videogioco corre
su un altro pianeta. E infine stupisce l’assenza di una vera e propria modalità online. Aggiunta
che non avrebbe reso giustizia
alle promesse di Will e al clamore
pubblicitario, ma che avrebbe
permesso una componente sociale di ampio respiro.
Spore non innova un bel
niente, dispiace ammetterlo con
tanta sicurezza, e diverte solo se
gustato a piccoli morsi. Spore è
poco, troppo poco.
5
Spore viaggia in compagnia
del discusso sistema di protezione anti-pirateria di EA. Il
DRM non ha impedito al gioco
di presentarsi crackato sugli
scaffali dei pirati, ma ha tormentato l’installazione di parecchi compratori onesti
playstation2
SUPER ROBOT TAISEN Z
Che il bullone sia con te
console ps2 sviluppatore banpresto produttore bandai versione jap provenienza giappone
l nuovo capitolo della
serie Super Robot Taisen rompe con il passato e vira nella
direzione di un cast più al passo
coi tempi. Fuori Combattler, Vultus, Gundam, Reideen e dentro
Eureka Seven, Big O, Aquarion e
Gravion. Lo scambio di consegne
non ha sortito gli effetti sperati:
le vendite si sono assestate per
l’ennesima volta intorno alle cinquecentomila copie, incapaci di
replicare il successo di Super
Robot Taisen Alpha su PSOne con
le sue ottocentocinquantamila
copie. Il numero è comunque
consistente, considerato che il
mercato di PlayStation 2 non ha
conosciuto i picchi di vendita
della scorsa generazione di console, e rende chiaro come la serie
sia diventata ormai uno dei franchise più noti e inamovibili.
In questo nuovo capitolo è
stato introdotto un sistema di
raggruppamento in squadre da
tre unità, simile a quello degli
episodi precedenti, ma con la differenza che ora la scelta del tipo
di formazione influisce sulla potenza degli attacchi. C’è la formazione Wide, efficiente nei
combattimenti con i boss, la formazione Center, che serve a concentrare il fuoco sugli avversari
con HP più alti, e la formazione
Tri-charge, che serve ad attaccare gli avversari equipaggiati
con barriere che diminuiscono o
annullano i danni inflitti. Ognuna
di queste tre formazioni è avvantaggiata o svantaggiata rispetto a
un altra in base a un sistema in
stile sasso, carta, forbici. Grazie
all’introduzione di questo sistema, finalmente anche Super
Robot Taisen può vantare lo spessore strategico di prodotti più
proibitivi, come quelli Nippon
Ichi. Per fortuna gli autori non si
sono spinti fino agli estremismi di
titoli come Fire Emblem, dove le
unità distrutte in combattimento
restano definitivamente perse.
Il livello di sfida resta comunque piuttosto alto, soprattutto se
si considera l’eventualità di prendere i punti abilità: si tratta di
I
punti che vengono distribuiti
quando si portano a termine le
missioni con rapidità o quando si
abbattono avversari particolarmente tosti. In base alla quantità
di punti che si riesce a ottenere la
difficoltà cresce, aumentando il
numero di unità nemiche e la potenza dei boss.
Le animazioni sono assolutamente fenomenali. Oltre a una
quantità maggiore di dynamic kill
(animazioni speciali che si attivano quando un robot sconfigge
un’unità nemica con il suo attacco
più potente), la produzione ha lavorato ai movimenti dei personaggi fin nei minimi dettagli: una
stessa arma sarà visualizzata con
animazioni specifiche a seconda
che l’attacco sia terra-terra o
terra-aria, e i robot esplodono
ognuno in modo diverso quando
vengono abbattuti. C’è da aggiungere inoltre che le musiche di
sottofondo possono essere tranquillamente cambiate e il giocatore può ‘customizzare’ la
colonna sonora del gioco con le
sigle e i temi musicali che preferisce.
Il numero di missioni è enorme
e la struttura a bivi ha permesso
di ricreare situazioni tanto fedeli
alle opere originali, quanto allo
stile narrativo. Dei due protagonisti principali ognuno segue vicende ben diverse: la trama del
personaggio femminile, la timorosa Setsuko, è molto cupa e angosciante; mentre quella del
personaggio maschile, il nerboruto Rand, è leggera e ricca di
umorismo.
Purtroppo resta sempre lo scoglio della barriera linguistica, che
non permetterà di apprezzare né
la trama, né la quantità esorbitante di doppiaggio che è stato
campionato appositamente per il
gioco. Finché il giapponese non
diventerà una materia obbligatoria nelle scuole occidentali, il
resto del mondo sarà condannato
a vivere nell’ignoranza di questa
magnifica produzione.
8
REVIEW
a cura di Cristiano “Amano76” Ghigi
(in alto a sinistra) Rand
in versione decisamente
nagaiana. Questo personaggio è stato accolto in
modo estremamente negativo dall’utenza giapponese, per via dei suoi
comportamenti da bullo
e da cafone
017
ds
RHAPSODY
A MUSICAL ADVENTURE
Puppet Princess
console ds sviluppatore nippon ichi produttore nis america versione usa provenienza giappone
a cura di Michele “Guren no kishi” Zanetti
n un villaggio piccinopicciò vive Cornet, una
ragazzina come tante
se non fosse che ha la
particolare dote di poter comunicare con oggetti inanimati come
burattini, bambole e pupazzi. Suonando il suo strumento musicale
riuscirà a portare dalla propria
parte i suddetti personaggi e ad
aggiungerli al proprio nutritissimo
party composto da sedici comprimari. Avrete l’imbarazzo della
scelta su chi usare in battaglia.
Cornet ha un’amica preziosa di
nome Kururu, un burattino dalle
forme di fatina capace di parlare
come se fosse viva. Non poteva
poi mancare tra le conoscenze
della protagonista un’amica d’infanzia. Bellissima, ricchissima,
spocchiosissima, antipaticissima e
con tanto di guardie del corpo al
seguito. Etoille Rosenqueen, un
nome che dovrebbe dire qualcosa
ai fedelissimi di Nippon Ichi.
La trama sembrerebbe non
avanzare se non fosse che un incontro fortuito porterà Cornet a incontrare il principe del regno, che
di lì a poco cercherà moglie. Fast
forward e il principe viene pietrificato da una maga pazza furiosa,
nonché rapito. Starà a Cornet trovare cinque pietre magiche con cui
rompere l’incantesimo etc. La storia rompe alcuni canoni classici e
risulta molto divertente e ben
scritta. Semplice, con pochi colpi
di scena, ma buoni. La ripulitura
da parte di NISA della vecchia traduzione di Atlus è stata fatta con
cognizione di causa - impreziosendo ciò che già prima era un
buon lavoro - anche se permangono una manciata di sviste.
Stupisce, invece, la cura fin
troppo profusa in certi dettagli che
difficilmente noterete a una prima
tornata nel gioco e che probabilmente non noterete neanche alla
seconda, a meno di cercare il pelo
nell’uovo. Ovvero rivisitando scenari dove non tornereste mai più,
portando certi burattini a determinati livelli e così via. Anche il compendio dove esaminare ogni
personaggio e mostro incontrato con tanto di descrizione simpatica
di Kururu - o i diversi ritratti dei
personaggi durante i dialoghi,
REVIEW
I
018
emanano cura e pucciosità a profusione. Un gioco per ragazze? Ma
anche no.
Graficamente Rhapsody è molto
curato, buone le animazioni e gli
effetti speciali; in generale è un
2D che solletica gli occhi senza lasciarli scontenti. Musicalmente
parlando Satō Tenpei compone
una buona partitura che si affianca
ai numerosi pezzi cantati che
fanno da intermezzo a vari momenti della storia. In questa versione sono solo in Giapponese con
sottotitoli.
Le modifiche apportate alla versione DS sono troppe da elencare,
ma alcune sono degne di menzione. È sparita la scelta del livello
di difficoltà, rendendo l’avventura
estremamente facile. Sono sparite
anche le illustrazioni da collezionare e tutta la parte dei mostri da
catturare. Quasi azzerati, invece, i
tempi di caricamento, una vera
manna dal cielo che rende Rhapsody veloce e agile da usufruire.
Infine, sempre sul fatto della velocità, i combattimenti sono stati totalmente stravolti.
Rhapsody passa da strategico
con griglia su cui muovere gli
sprite a JRPG normale. A sinistra
gli avversari, a destra
voi con altri tre comprimari e via di attacchi fisici a go go. Le
magie sarebbero
anche una mezza tonnellata, ma ne userete pochissime
perché la funzione
‘auto’ si rivelerà ben
più che efficace nel
togliere di mezzo i nemici. Vero e
proprio stress reliever per quando
l’elevato encounter rate si farà più
sentire. Menzione di disonore, invece, per il riciclo indiscriminato di
sfondi, sia durante l’esplorazione
che durante i combattimenti, un
mero cambio di palette grafica.
Rhapsody è un remake migliore
della sua vecchia controparte per
PSone. Durante lo sviluppo molte
sono le cose andate perse per
strada e molte altre le aggiunte e
gli stravolgimenti. Ben più giocabile e immediato di un tempo,
sempre zuccheroso e carinissimo,
breve e intenso come una volta,
ma senza la possibilità di renderlo
più difficile. Se lo trovate usato a
un buon prezzo, fateci decisamente un pensierino.
7
‘Marl ookoku no ningyō hime: tenshi ga
kanaderu ai no uta’ arriva di nuovo
sulle sponde d’occidente col titolo più
conosciuto - da una nicchia di appassionati - di ‘Rhapsody: A Musical Adventure’ e sotto le spoglie di remake.
Meglio della versione PSone di dieci
anni fa?
playstation2
LEGO BATMAN & CO
The Lego therapy
console ps2-ds-pc-ps3-psp-wii-360 sviluppatore traveller’s talesproduttore warner bros versione pal provenienza usa anno 2005-2008
a cura di Cristiano “Amano76” Ghigi
on credo di ricordare
una singola confezione
di Lego di cui non
abbia perso almeno un
pezzo. Un minuscolo, maledetto,
microscopico pezzo che mandava
tutto all’aria.
Di conseguenza la cosa che più
in assoluto preferisco dei videogiochi della serie Lego, è che
questo non accade mai. Tutto
quello che bisogna fare è distruggere ogni cosa e raccogliere ogni
cosa: lo trovo mille volte più rigenerante di una sessione a un sanguinolento FPS. Quanti traumi
infantili mi sono stati sanati!
È vero che da un punto di vista
grafico viene da chiedersi come
sia possibile affibbiare un prezzo
di sessanta euro a un motore del
genere, quando c’è gente che tira
fuori le città di Assassin’s Creed
per la stessa cifra, ma il valore di
questo gioco non è né ludico né
tecnico. La serie è venuta alla ribalta con il primo titolo, Lego
Star Wars (dedicato agli ultimi tre
capitoli cinematografici), seguito
da Lego Star Wars II: The Original Trilogy, Lego Indiana Jones:
The Original Adventures, fino al
recente Lego Batman.
La formula è stata riciclata con
buoni risultati, ma con qualche
passo falso: i puzzle sono cresciuti in difficoltà, nonostante il
target del gioco sia infantile, e il
level design non sempre è aderente all’iconografia dell’immaginario originale. Lego Indiana
Jones ricorda più Pitfall che le
pellicole spielberghiane, e Lego
Batman sfrutta ben poco la caratterizzazione architettonica dei
film burtoniani a cui timidamente
si ispira.
Anche le meccaniche di gioco
soffrono il peso di questa discendenza: nei due Star Wars sia
spaccare oggetti che costruirli era
compito del tasto della Forza, e
non ci si stancava mai nel vedere
i poteri Jedi all’opera con dei
mattoncini Lego mentre formavano un X-Wing a mezz’aria. In
Lego Indiana Jones si deve ricorrere costantemente a personaggi
secondari che permettono di ef-
024
UNDERRA TED
N
fettuare azioni contestuali, mentre in Batman bisogna rintracciare le postazioni in cui
indossare costumi mai visti nel
fumetto (tute subacque, tute volanti, tute da ghostbuster) e
quindi sbloccare relative abilità
d’esplorazione.
Quello che riscatta la serie nel
suo complesso sono gli achievement presenti nelle versioni
Xbox360, e assenti in quelle PlayStation 3 (niente trofei neanche
in Batman, nonostante il titolo sia
uscito a ottobre) PS2 e PSP. Per
tanti altri titoli gli achievement
non sono che un vezzo di autocompiacimento ludico: nessuno
comprerebbe Bioshock al solo
scopo di sbloccare achievement.
Nel caso dei titoli Lego è esattamente il contrario: privi di sfida
(fatta salva quella offerta dal talvolta insensato puzzle design),
immediati da giocare con chiunque in co-op, e resi molto longevi
da un consistente numero di livelli che vanno affrontati più
volte per sbloccare tutti i segreti.
Questa serie di titoli è il sogno
erotico di chi compra titoli come
Prey pur di guadagnare 200
achievement points in più. Proba-
bilmente si tratta dei
punti più facili e più
divertenti da collezionare dai tempi del
King Kong di Ubisoft.
Quindi questo
gioco vale eccome
sessanta euro, ma
solo su 360 e solo
per quei malati di
mente che fanno
dello sbloccare
achievement una
questione di autostima personale.
Tutti gli altri diano
un’occhiata agli
screenshot e si facciano due risate nel
vedere i personaggi
e i luoghi delle pellicole originali
ricostruite con blocchi di Lego.
Dopodiché se ne tengano alla
larga.
I giochi Lego sono corredati di spassosi siparietti
animati che sfruttano la comicità leggera e infantile
dei pupazzi gialli, con dialoghi ridotti a mugugni e risatine, dove l’umorismo è
tutto basato sulla mimica e
le situazioni. Notevole. E
almeno in questi casi, l’aderenza alle fonti originali
è assoluta
019
1492
a cura di
Marco “Il Pupazzo Gnawd” Barbero
alla scoperta delle ‘indie’
P
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zi
on
i
uò
la persona al timone del franchise più
serializzato degli ultimi anni essere anche una delle bandiere del videogioco artistico indipendente? Ecco a
voi Rod Humble, responsabile dell’etichetta The Sims di giorno e visionario
vessillo del minimalismo applicato al videogioco di notte. Un Dottor Jekyll e Mr
Hyde che ha trovato un trait d’union tra
lavoro e verve artistica: riportare le
relazioni all’interno dello spazio ludico. Spazio a The Marriage,
dunque, e alle sue ambizioni
pedagogiche sulla vita
di coppia.
do
n
a
ul
sim
Scaricate The Marriage al seguente indirizzo:
http://www.rodvik.com/rodgames/marriage.html
È naturale che un progetto che si autodefinisce arte e con una
cassa di risonanza quale The Marriage sia oggetto di parodie.
The Divorce, dello stacanovista Petri Phuro, è la massima percolazione del progetto di Humble e non manca di tirare qualche
stoccata a Jason Roher. Nella pagina di download, infatti, è
presente una dichiarazione di intenti dai toni familiari. “Le regole significano come mi sentii quando i miei divorziarono. Le
racchette sono naturalmente i miei genitori. I miei genitori
sono alti e magri e questo è rappresentato dalla dimensione
dei rettangoli. La palla è il frutto non voluto del loro matrimonio. Ero abbastanza piccolo quando i miei divorziarono, ciò è
rappresentato dalla grandezza della pallina. Lo scopo del gioco
è totalizzare 10 punti nel processo in modo da assicurarsi di
non avere la custodia del figlio”. Il gioco? Pong. Geniale.
020
THE MARRIAGE
Se c’è un’area in cui i videogiochi
hanno spesso fallito o dove addirittura
hanno evitato il confronto diretto è
quella delle relazioni umane. Più facile
premere il grilletto. Colpito, non colpito. 1 o 0. Grattacapi balistici, fisica
spicciola, niente che qualche calcolo
non possa risolvere. Non stupisce che
anche il mondo indie abbia trovato
difficoltà nel convogliare in dati gli
aspetti più comuni del vivere. L’interactive fiction è l’unica ad aver esplorato questo territorio vergine, ma il
suo approccio, anche se sempre più
efficace, rimane blindato. Façade è, a
quattro anni dal suo debutto, uno
degli unici, pregevoli esempi ad aver
realizzato una visione in cui i risvolti
delle relazioni umane prendono una
forma e una sostanza verosimile.
Humble compie un passo indietro, o
meglio di lato, scegliendo un approccio meccanico, quasi arcade.
Da lontano The Marriage pare uscito
da un Vic 20. Una sorta di Omega
Race senza proiettili. L’impatto è
spiazzante, perché non latitano solamente missili ed esplosioni, manca
all’appello il sonoro, mentre il design
generale è sfuggevole, oscuro. Uno
dei limiti dell’opera di Humble è proprio quello di non suscitare alcuna
emozione se non contestualizzata.
Senza conoscerne il titolo ci si perde
tra forme geometriche prive di significato, disorientati. Ma se l’appellativo
di un’opera è parte integrante della
stessa ‘Il Matrimonio’ è sufficiente a
mettere a fuoco alcuni dei concetti
veicolati.
Due quadrati, uno rosa e uno azzurro. Abbastanza autoesplicativo.
Cerchi di diversi colori sono gli altri
attori all’interno dell’area ‘di gioco’. Il
contatto tra i quadrati o la collisione
di questi ultimi coi cerchi ne muta la
dimensione o la trasparenza. Relazioni, ostacoli. Ma per andare oltre si
necessita dell’aiuto dell’autore, perché
se le collisioni possono in qualche
modo essere decifrate, l’intero sistema non si piega a facili deduzioni.
Così come Roher prima di lui, Humble
ha sentito il bisogno di diradare la
nebbia intorno al suo progetto. Se nel
caso di Passage le precisazioni pote-
the divorce
vano risultare accessorie, in The Marriage sono essenziali.
È lo stesso Humble a riconoscere
che questo sia un fallimento nella ricerca di trasmettere una visione artistica attraverso un videogioco puro:
dove cioè siano le meccaniche sotto i
riflettori e non forme espressive come
la musica o la narrazione, proprie di
altre arti.
Con il ‘libretto di istruzioni’ in mano,
l’obiettivo è più chiaro, anche se è
solo quando The Marriage è spiegato
nei dettagli che il tutto fa click. Ed è
un momento rivelatorio perché, a discapito della sua iniziale impenetrabilità, l’opera di Humble scava nel
vissuto di ognuno, inscenando la vita
e le problematiche di coppia in maniera intima ed efficace. I sacrifici, la
prevaricazione di un partner sull’altro
si estrinsecano attraverso le semplici
interazioni tra forme geometriche.
Anche il metodo di controllo fa la sua
parte sottendendo il mantenimento
dei fragili equilibri attraverso delicati
movimenti del mouse. Click e moti
bruschi resettano l’esperienza o non
hanno effetto.
Le analogie con il lavori di Roher
sono molte. In The Marriage non esiste un punteggio e ogni messaggio è
veicolato attraverso la struttura di
gioco. Se il videogioco deve forgiarsi
in forma artistica, se deve validare il
suo status come medium, non può
utilizzare facili scappatoie. Esperimenti come The Graveyard di Tale of
Tales colpiscono nel segno ma, come
già discusso, sfruttano in minima
parte le peculiarità del nuovo medium. Le scelte di Roher, e soprattutto
di Humble, sono probabilmente eccessive nel senso opposto, perché fotografano il videogioco in un brodo
primordiale, legandosi a forme estetiche e ludiche di decenni fa. Grazie a
questo approccio, però, riescono nell’impresa di plasmare qualcosa di
nuovo. Non intrattengono in maniera
classica e, in particolare nel caso di
The Marriage, sono ampiamente perfettibili nel loro impatto emotivo. La
strada è tracciata. Da qui in poi il movimento può solo crescere e diversificarsi.
Scaricate The Divorce al seguente indirizzo:
http://www.kloonigames.com/blog/games/divorce
BABEL010
n e x t
m o n t h
giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda
giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda
dog’s life
U
n videogame in cui
si maneggia la propria cacca non poteva mancare tra i Giochi
di Merda. Ci si può sforzare di ricordare il frisbee
allegato alla confezione, il
buon doppiaggio o la discreta struttura zeldiana,
ma non si scappa dal fatto
che il titolo di Braben è da
ricordare come “quello in
cui puoi lanciare la pupù
addosso alla gente”. Un
gioco scatologico, pur non
volgarmente tale. Naturalistico, forse, ma in maniera profondamente
disneyana. Per quanto si
sforzi di riprodurre una
vita da cani sfruttandone
furbescamente alcuni dettagli, la risultante manca
di deviare l’attenzione da
una semplicità di fondo
sin troppo evidente. Si
scorgono i fili, insomma,
sullo sfondo di un meccanismo blando, ripetitivo,
aderente più del dovuto
agli stilemi dell’action adventure. Una struttura ‘bipede’, dove il quadrupede
Jake (il protagonista) si
innesta talvolta forzatamente.
Eppure Dog’s Life
merita di essere ripescato
dal cestone delle offerte.
Design derivativo non significa necessariamente
noioso e il titolo Frontier
lo dimostra in più di una
occasione. Questo perché
le problematiche da affrontare vengono restituite sotto prospettive
inusuali, sfruttando, ad
esempio, la capacità canina di seguire odori e
tracce per scovare un indumento perduto. La costante ricerca del cibo
viene poi inscenata con
ilare genuinità, e a tratti
pedante costanza, costringendo Jake a soddisfare le
richieste del proprio stomaco (pena la perdita
progressiva delle forze),
col giocatore che si ritrova
così a far grufolare il
quattro zampe tra i bidoni
della spazzatura, a fargli
rubare dalle ciotole di altri
cani oppure a improvvisarlo buffone circense di
fronte agli esseri umani.
Sempre che si sia provveduto alla toelettatura, altrimenti Jake risulterà
repellente.
Dog’s Life scorre via liscio, tra una gara di demarcazione del territorio
(a forza di fiotti di pipì),
una di escavazione forsennata, altre di tiro alla
fune (pestando sui tasti
come in Track n’ Field) o
di imitazioni funamboliche
(ricreate con meccaniche
parappiane); e ancora il
recupero di oggetti, gare
di corsa o di tiro al bersaglio… Una varietà invero
omologata. Un misto
agrodolce tra intrigo del
nuovo e constatazione che
questo ‘nuovo’ è spesso
più formale che sostanziale, frenato da un’intrinseca ripetitività che si
ripercuote su un design
che non lascia pienamente soddisfatti.
scee
frontier developments
ps2
2003
david braben
Dove Braben centra in
pieno il bersaglio è nel
veicolare un prodotto di
qualità ad un target d’utenza preadolescenziale,
senza tralasciare chi la
barba se la fa già da un
po’. Buoni valori di produzione (le animazioni dei
cani sono qualitativamente elevate) e la capacità di creare un mondo
carismatico, permettono
al titolo Frontier di appropriarsi di parte di quella
magia nintendiana e disneyana capace di ecumenizzare prodotti
all’apparenza rivolti a
classi di età blindate e
ben definite. Il cambio di
prospettiva, poi, dà il La a
situazioni piacevolmente
demenziali: ritraendo la
realtà dagli occhi di un
non umano, Dog’s Life colora con una patina di
pungente ironia e gag à la
Shrek l’intera avventura.
Ciò in cui fallisce è edificare uno struttura multilivello, dove, a fronte di
una via facile e filante al
completamento dell’avventura, non si contrappongono sfide addizionali
a latere, nelle quali testare ingegno e destrezza.
Il tipico lettore di Babel,
quindi, non mancherà di
sbadigliare a un certo
punto dell’avventura, flagellato dell’ennesimo minigioco fotocopia. Ma per
lui, e altri come lui, c’è
sempre la cacca con cui
sollazzarsi.
di marco barbero
GIOCHI DI MERDA!
giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda
022
022
w w w. a r s l u d i c a . o r g
a cura di Simone “Karat45” Tagliaferri
FAB
LE2
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LITA’
zione sia moralmente accettabile
o meno. Ovvero, nella maggior
parte dei casi non c’è molto da
discutere sulle scelte degli sviluppatori riguardanti l’assegnazione
dei punti moralità e, per fare un
esempio, diamo tutti per scontato
che aiutare una donzella in pericolo sia un gesto degno di lode,
così come salvare un villaggio di
poveri contadini da qualche mostro pelato e bavoso. Posso affermare senza tema di smentita
che, generalmente, ciò che è moralmente accettabile o meno
viene deciso in base a una serie
di valori condivisi dalla cultura di
riferimento a cui andrà venduto il
gioco. Non si tratta di valori assoluti e, anzi, ragionandoci sopra e
partendo da un minimo di conoscenze culturali esterne ai videogiochi stessi, ci si accorge di
quanto siano ‘moderni’ i valori del
medioevo fantasy di ultima geneUna dei meriti di Richard Garriott,
razione (ad esempio una certa
oltre a quello di aver speso un
emancipazione femminile) e di
sacco di soldi per andare nello
quanto, invece, siano relativaspazio - beato lui! - è di aver inmente ‘antichi’ quelli dei giochi di
trodotto nei videogiochi il confantascienza (in cui le razze
cetto di scelta morale. Uno dei
aliene sembrano più delle alterademeriti dell’industria è che in
zioni, in positivo o in negativo, di
trent’anni non è riuscita ad anquella terrestre che dei popoli
dare molto oltre il sistema introcresciuti in un ‘altrove’ completadotto dal buon Lord British in
mente diverso dal nostro). OvUltima IV.
vero di quanto siano simili
Molti giochi di ruolo occidentali
nonostante le differenze di gepermettono di compiere delle
nere.
scelte (solitamente di tipo azione
Tutta questa manfrina serve
buona, azione malvagia e azione
per parlare di un gioco uscito di
neutra) che influenzano la morarecente. Anzi, di una missione di
lità del protagonista, cambiando
un gioco uscito di recente - dovrò
di conseguenza i feedback dei
raccontarla nel dettaglio, siete
Personaggi Non Giocanti inconavvisati. Il gioco è Fable II e la
trabili per il mondo gioco. Sei un
missione riguarda un contadino
cattivo? Terrorizzerai tutti gli abiche vuole trovare una moglie al
tanti di un piccolo villaggio monfiglio per farlo riprodurre, pardon,
tano, ma non otterrai alcuno
per fargli mettere su famiglia. La
sconto dal commerciante locale.
missione prenderà una piega
Sei buono? I cattivi tenderanno a
molto diversa parlando con il ratrattarti come carta igienica
gazzo, che non è semplicemente
usata, ma otterrai frasi amorevoli
timido e di gusti difficili come
dai PNG. Ovviamente il sistema è
detto dal padre, ma è gay. A quespesso più complesso di così e le
sto punto il giocatore sarà chiascelte morali determinano modifimato a compiere una scelta
che ad altri elementi del gameprecisa tra il trovargli un fidanplay, come i personaggi inseribili
zato, andando contro la volontà
nel party (Baldur’s Gate 2) piutdel figlio (azione che viene consitosto che le missioni ottenibili e
derata moralmente positiva) opcosì via.
pure seguire le volontà del padre
Comunque, il nodo di questo
e farlo uscire con una donna
articolo non è parlare dell’in(azione che viene considerata
fluenza delle scelte morali sul gamoralmente negativa). Ovviameplay, quanto chiedersi in base
mente nel primo caso si otterrà
a cosa venga deciso che un’a-
un lieto fine, con il ragazzo felicemente accoppiato con un uomo,
mentre nel secondo la conclusione sarà leggermente più
amara, ma non è questo il punto.
Non ricordo un gioco mainstream che abbia trattato il tema
dell’omosessualità in modo così
diretto, ponendolo addirittura all’interno di una scelta binaria con
implicazioni morali precise. Ovvero non ricordo una presa di posizione così netta da parte di un
videogioco. Svolgendo questa
missione capisco che chi l’ha
‘scritta’ non è una fan della Binetti. Personalmente la trovo
condivisibile e anche particolarmente gradevole - che bello non
dover decidere soltanto se un
drago è buono o cattivo - ma
debbo fare uno sforzo e mettermi
nei panni di un giocatore dai valori ‘differenti’, ovvero devo immaginare che, purtroppo, non per
tutti certi valori (la libertà sessuale, in primo luogo e la possibilità che due omosessuali si
sposino, in secondo luogo) proposti dal Fable II come moralmente
positivi, siano tali. In questo
senso il videogioco può svolgere
una funzione pedagogica e aiutare a formare la tolleranza di
quelli che ancora non sanno come
orientarsi rispetto a certe problematiche, ma quelli che hanno
Per capire come cambino i
valori nel tempo e nello spazio, mi fa piacere citare il
Moriz von Craûn, un poemetto medievale tedesco in
cui lo stupro finale di una
dama sposata, reticente a
darla all’eroe protagonista,
che tanto si è impegnato per
portarsela a letto, viene
visto come un atto di giustizia di cui l’unica colpevole è
la donna.
un’idea già formata? Accetteranno di essere considerati moralmente riprovevoli nel caso in
cui non volessero favorire le tendenze sessuali del ragazzo? Accetteranno che il gioco li giudichi
negativamente per un azione
che, secondo loro, è moralmente
ineccepibile? Ancora meglio: potranno questi giocatori rifiutare il
sistema ‘etico’ proposto dal
gioco?
Non si tratta di questioni da
poco, che oltretutto ci consentono di capire meglio come funzioni il videogioco a livello di
linguaggio, come veicoli i suoi significati e, nonostante le prese di
posizione possibili, come questo
apra degli interessanti scenari di
discussione, soprattutto sulla
connotazione ‘autoriale’ dei prodotti videoludici.
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009
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