2 Santino mirabella …e distillando sogni L'alchimia dei cantautori e la poetica di Stefano Rosso Copyright © MMXIII ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it www.narrativaracne.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133/A-B 00173 Roma (06) 93781065 isbn 978-88-548-6677-5 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: novembre 2013 The Wind di Claudio Lolli Siamo alla fine, meravigliosa, dei Sessanta e si annunciano gli ancora più meravigliosi Settanta. C’è del vento in giro e infatti arrivano dei dischi carichi di vento. Donovan, Catch the wind: acchiappa il vento, non fartelo scappare. Bob: “The answer is blowing in the wind”. Allora non può non venire in mente la Ode to the west wind di P.B. Shelley e l’idea romantica dell’arpa eolica, una specie di costruzione materica che il vento fa suonare o risuonare (pochi anni fa ho sperimentato personalmente presso Pinuccio Sciola, scultore sardo, che mi ha fatto suonare delle pietre con le mani). Allora l’idea è questa: il mondo ha un suono, ha una voce che bisogna ascoltare (anzi: è un piacere ascoltarla) e a questa voce, a volte declinata in parole, è meraviglioso unirsi, è meraviglioso far parte di essa. Facciamo suonare il mondo, facciamo noi la funzione dell’arpa eolica che lo fa risuonare e cantare. Romantico finché volete, ma vero. Poi si faceva notte a litigare coi professori, si faceva notte a litigare coi genitori, si faceva notte nelle camere di sicurezza della polizia perché c’era questa voglia di interpretare il vento, che spesso ha, anzi meglio, fa il suo giro. 5 Introduzione “Camelopardi”, direbbe Guccini, ispirandosi al Fisiologo, testo parascientifico e appena post-cristiano, che definiva e descriveva animali inventati nei quali dovevano esplicitarsi le qualità etiche prescritte dai testi sacri. Come “cantautori”, una specie strana e inventata a soddisfare un bisogno di poesia (popolare) e anche un sogno di poesia (tutti gli uomini ne hanno assoluto bisogno) che non si riusciva più a trovare nella poesia “alta”, ancora oggi troppo autoreferenziale. Solo questo, inseguire il vento, cercando, dentro di lui, di ricercare e ritrovare e riesprimere i desideri di una generazione, di più generazioni, toccando il tasto semplice del cuore, della vita reale e vissuta, con i suoi amori e i suoi grandi dolori. Raccontarla, se spiegarla è troppo. Poi le voci circolano, è il rumore del mondo, il suo fruscio, l’arpa eolica, e tutto questo è diventato meravigliosamente pubblico e condiviso. Dei ragazzini ribelli che hanno imbracciato solo una chitarra, non una pistola, e hanno raccontato delle storie di vita, appassionate disperate e felici. I “camelopardi” per me sono questo. 6 Come nasce un cantautore di Franco Battiato Ho cominciato a lavorare negli anni Sessanta al Cab64 di Milano di Tinin e Velia Mantegazza. Il primo cabaret italiano, dove si esibivano tutti gli artisti che sarebbero diventati famosi: Enzo Jannacci, Bruno Lauzi, Cochi e Renato, Lino Toffolo, i Gufi, Herbert Pagani ecc. Al provino mi presentai con la mia chitarra e feci ascoltare un paio di canzoni in siciliano, spacciandole per musica barocca. In realtà avevo musicato dei proverbi che mi avevano insegnato i miei nonni. Poi mi capitò l’occasione di conoscere Giorgio Gaber. Una sera venne come spettatore. Mi raggiunse nel camerino mi diede il suo indirizzo e mi disse “vienimi a trovare”. L’indomani, dopo lo spettacolo, andai a casa sua. Giorgio andava a letto sempre intorno alle sette del mattino. Produsse il mio primo 45giri, e per qualche anno collaborai con lui, e divenni anche il chitarrista di Ombretta Colli. Mettemmo su un gruppo, suonavamo nelle balere del Nord, e ci siamo divertiti parecchio. Questo fu il mio inizio. Una grande determinazione e pochi soldi in tasca. 7 Introduzione 8 Quale viatico migliore per un ragazzo di vent’anni che veniva dal Sud? Premessa Anni Sessanta? Anni Settanta? Quando sono nati i cantautori? E chi ha coniato questa parola, che per alcuni è oro allo stato puro, per altri è riduttiva, per altri addirittura incomprensibile? In realtà l’espressione in sé è veramente neutra, perché esprime (o meglio: dovrebbe letteralmente esprimere) solo la situazione di una persona che canta ciò che ha scritto, cioè che propone direttamente – e musicalmente – le proprie “cose” senza affidarle a nessun altro. Questo non vuol significare per ciò stesso un giudizio di valore, perché – fino a prova contraria – uno può scrivere anche stupidaggini e il fatto di cantarle direttamente certo non le nobilita; così come può capitare di scrivere delle bellissime canzoni ma di non saperle cantare (o per l’incapacità di essere un valido interprete oppure, ancora, per semplice scelta, magari associata al timore di non essere adeguatamente capace). Molti componenti della categoria “storica” dei cantautori italiani di vecchio stampo nacquero proprio in questo modo, anche, a volte, per la mancanza di coraggio da parte delle case discografiche (malgrado fossero 9 Santino Mirabella paradossalmente più audaci di adesso1). Così molti dei nostri grandi cantautori “storici” vennero fuori dal guscio solo dopo aver dato in locazione i loro brani, dopo, cioè, aver scritto canzoni per altri interpreti. Oppure dopo aver “solo” suonato accanto ad altri artisti (o tra di loro) e aver così meditato con attenzione e lungimiranza la propria futura strada. Franco Battiato, per esempio, intraprese i primi passi nel mondo della musica come chitarrista, scoperto e aiutato da Giorgio Gaber – che a sua volta agli esordi era stato il chitarrista del gruppo di Adriano Celentano, i Rock Boys, dove suonava come pianista Enzo Jannacci (e ore a suonare nelle cantine e nei garage di via Gluck e via Frescobaldi di Milano…). Roberto Vecchioni scrisse per I nuovi Angeli (Donna Felicità è sua…) o per cantanti all’epoca in voga come Giuliana Valci (vedi il successo del 1968 della canzone Sera); di Roberto Vecchioni è addirittura la colonna sonora della saga televisiva dei Barbapapà. Francesco Guccini scrisse per i Nomadi; Paolo Conte scriveva per svariati interpreti (per esempio Azzurro di Adriano Celentano nasce dalle sue note e dal suo pianoforte); Fabrizio De André vinse a fatica la ritrosia a esporsi in prima persona e, mentre qualche suo pezzo lo incideva direttamente, alcuni brani li affidava ad altri interpreti (come, per esempio, i New Trolls). Molti, però, vollero fin dall’inizio (anche se non necessariamente in forma esclusiva) cantare le proprie “cose”: per esempio, Francesco De Gregori, Lucio Dalla (anche se per i primi anni Lucio scriveva solo la musica), Claudio Lolli, Edoardo Bennato (che inizialmente collaborò anche 1. …e con modalità spesso originali, e oggi assolutamente impensabili, utilizzate per veicolare la musica: per esempio, la rivista di enigmistica Nuova Enigmistica Tascabile proponeva come allegati dischi di canzoni celebri interpretate da cantanti poco conosciuti. Tra essi vi fu anche il giovanissimo Franco (all’epoca ancora Francesco) Battiato, che incise un brano presentato al Festival di Sanremo 1965 da Beppe Cardile e Anita Harris: L’amore è partito, e una canzone già portata al successo da Alain Barrière: …e più ti amo (che molti anni dopo, nel 2008, lo stesso Battiato riproporrà nel disco di cover Fleur 2). 10 …e distillando sogni con Herbert Pagani2), Ivan della Mea (che aveva iniziato nel Nuovo Canzoniere Italiano) e Luigi Tenco, anche se caratterialmente e/o musicalmente spesso lontani anni luce gli uni dagli altri (Dalla e Tenco, per esempio, erano amici, ma si fatica a immaginare due persone più diverse, tra intrecci di funamboleria e riservatezza), con assoluta dignità artistica decisero tutti fin da subito di “metterci la faccia”. Pian piano, come un inesorabile tsunami che spazzava via tante convenzioni e convinzioni, iniziava a modellarsi così una categoria a sé, che si caratterizzava per qualcosa di più (di molto di più) che una semplice e passeggera moda musicale, acquisendo tutti i requisiti anche culturali per permeare di sé un’intera generazione3, per modellarsi e apparire come una vera e propria corrente di pensiero, come un’anticonformistica rivoluzione. A dispetto delle cerimoniosità o delle orchestrazioni sviolinanti, ecco quindi entrare in scena qualcuno che si accompagnava magari solo con la sua chitarra, con un abbigliamento molto più informale di quel che il periodo richiedeva4, e magari parlava… parlava… parlava… Declamava forse, a volte (“lingue allenate a battere il tamburo”, come canterà anni dopo Fabrizio De André). Perché aveva tanto da raccontare e ci teneva a raccontarlo a qualcuno che avesse veramente voglia di ascoltarlo. Quindi essere cantautori era “parlare molto” oltre che suonare? 2. Cin cin con gli occhiali, Ahi le Hawai tra le altre, nonché un brano scritto sempre con Pagani per Bobby Solo: L’amore con la grande A, pubblicato solo in… Giappone (?). 3. “Fino a quando l’uomo resterà tale, ogni generazione troverà nella sua musica una parola di conforto” sostiene del resto il Maestro Riccardo Muti. 4. Nel libro La commedia dei cantautori italiani (Editrice Effequ), Guido Michelone così commenta: “La cravatta (era) la metafora dei tanti ‘ismi’ nocivi per gli allora giovani cantautori: perbenismo, conformismo, passatismo, tradizionalismo, sentimentalismo, patriottismo eccetera eccetera. Tutti ‘ismi’ che i cantautori vogliono combattere a suon di canzoni scravattate”. 11 Santino Mirabella Affrontare discorsi diversi dai soliti, affrontare con sguardo laico tante tematiche diverse? Portare avanti un certo discorso (come si amava dire in quegli anni)? Bastava insomma questo, bastava scriversi le canzoni da soli e quindi, come irrideva Bruno Lauzi, far risparmiare al discografico di turno la fatica (e i soldi) di trovare e mettere insieme il compositore e il paroliere? In realtà non si può dire qualcosa di definitivo, fare punto e tornare a capo, convinti e contenti di avere finalmente, in qualche modo, definito l’indefinibile. Perché indefinibile fu veramente quel momento storico che creò, o almeno pose le basi per creare, un fenomeno dai confini abbastanza chiari dentro la testa e il cuore del fruitore, ma difficili, assolutamente difficili da delineare con parole altrettanto nette e chiare. Perché, all’epoca, si era creata un’alchimia che vide ricomporsi, come un big bang, situazioni sociali, culturali e musicali che non si sono ripetute e non si ripeteranno mai più in quel modo, in quei contesti ormai inimmaginabili, con quelle dinamiche che sembravano magiche e che oggi possiamo solo ricordare, o ricostruire, forse con nostalgia ma non solo. I giovani, anche se non solo i giovani5, scoprivano che i loro pensieri, le loro insofferenze, le loro speranze venivano messe in versi e musica da persone che le capivano perché le rivivevano in contemporanea, in contestualità assoluta. Quei cantautori certamente davano voce a tutti coloro che, citando Ungaretti, erano forse stanchi di “urlare senza voce”; offrivano versi alle emozioni, offrivano parole ponendosi come cartina di tornasole di una pluralità di persone che non riuscivano a descriversi altrettanto bene. 5. 12 Tutti gli “zingari felici”, per richiamarci alla felice immagine di Claudio Lolli. …e distillando sogni Ma è anche vero che questi artisti avevano veramente qualcosa di più, e qualcosa in più riuscivano certamente a darla: non erano solo una “voce” o una “emozione” che li precedeva e che loro mettevano in scena e basta, essi riuscivano a porre e proporre quel quid che permetteva di “vedere” le emozioni, leggerle su parole che sembravano normali, universali, mentre invece fuoriuscivano da un universo molto più ampio e parallelo, permettendo di regalare vere e proprie forme architettoniche ai pensieri stessi6. Francesco Guccini anni dopo si definì “burattinaio di parole”7; certo erano essenzialmente proprio l’uso e l’attenzione per le parole a caratterizzare il fenomeno: parole “prime”, che riuscivano a riprodursi in una diversa veste mischiandosi tra loro, come i colori. Un arcobaleno in versi. E conseguenzialmente, non a caso, una delle accuse più diffuse dell’epoca riguardava proprio il fatto che, per molti, appariva eccessivamente trascurata la musica a vantaggio delle parole stesse, in una sperequazione inversa rispetto a quanto si era fino ad allora ritenuto; nel 1982 era sempre Bruno Lauzi a scrivere (pur con il suo gusto del paradosso provocatorio) che la presenza onnipotente del fenomeno cantautorale – “divismo puro, peggiore perché più organico” – avrebbe addirittura compromesso la crescita di musicisti meno presuntuosi e il dialogo culturale (?). Ma, lasciando perdere le provocazioni di una persona comunque intelligente come Bruno Lauzi – assolutamente mai inquadrabile né nella categoria storica di cantautori “puri” né in altre (e anche politicamente, oltre che musicalmente, la sua strada ondivaga non si inquadrò mai in maniera consona agli altri suoi colleghi) –, bisogna 6. Lucio Battisti e Pasquale Panella: “e poi il discorso prende una piega architettonica / nell’aria con le mani, / si collega ai pianti rampicanti / all’euforia da giardino / ai pensili eccitanti. / All’ornamentale destino” (A portata di mano, dall’lp L’apparenza, 1988). 7. Samantha, dall’lp Parnassius Guccini, 1993. 13 Santino Mirabella riconoscere, e non viceversa disconoscere pur di fare il bastian contrario, come solo con “loro” (almeno in Italia) le parole delle canzoni iniziarono (o ripresero) a divenire protagoniste assolute. Prima si cantava (legittimamente, per carità) alla mamma cui si ritornava tanto felice, e l’unico problema era inserire parole innocue dentro melodie estremamente orecchiabili; poi iniziarono a scoppiare le bombe musicali: dapprima vennero gli “urlatori” come Tony Dallara o il Modugno di Volare, che in qualche modo cercarono di spostare un po’ più in là l’asticella della rassicurazione e di dare una sveglia. E Modugno fu un antesignano fondamentale, basti pensare alla struttura del suo brano Vecchio frack, scritto dopo aver letto su un giornale la notizia del suicidio del principe Raimondo Lanza di Trabia. Poi vennero loro: i cantautori8. Cantautore: parole e musica, diverse, e diverse nella loro commistione. Parole non più corollario di un motivetto consolatorio. Parole con un’anima propria, e con un cuore, una testa, mille sogni. L’importanza delle parole era una rivoluzione; parole “sussurate, zitte e poi gridate”, come canterà nel 2003 la rimpianta Giuni Russo9, parole che però dovevano essere accompagnate dalla musica, per creare metafisicamente qualcosa di più rispetto alla semplice associazione sonora. 8. Anche se Umberto Eco pone il primo scalino altrove, ancora più a monte, sostenendo che se non ci fosse stata l’esperienza dei cantacronache torinesi – come Fausto Amodei, Sergio Liberovici, Margot e Michele Straniero – la storia della canzone italiana sarebbe stata diversa: “Poi, Michele non è stato famoso come De André o Guccini, ma dietro questa rivoluzione c’è stata l’opera di Michele”. Quella fu una breve esperienza torinese, a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, con artisti che recuperavano la tradizione della musica popolare italiana ma incidevano anche nuove canzoni, in collaborazione anche con intellettuali come lo stesso Umberto Eco e Italo Calvino, trattando tematiche che divenivano tristemente attuali, come le morti sul lavoro (La zolfara) l’opposizione alla guerra (Dove vola l’avvoltoio) le lotte operaie (Per i morti di Reggio Emilia). Da non dimenticare, poi, l’esperienza del Nuovo Canzoniere Italiano, con Giovanna Marini e Ivan della Mea, con il loro “quasi” folk sindacale. 9. Nel brano Morirò d’amore, presentato a Sanremo durante l’ultima apparizione della già malata Giuni, purtroppo deceduta l’anno dopo. 14 …e distillando sogni Ma parole anche protagoniste altere, come i refrain surreali dell’immenso Enzo Jannacci, fotografie ma al tempo stesso elementi propulsivi che diverranno un vero e proprio patrimonio comune, nazionale o anche solo locale. E a tal proposito bisogna ricordare come si sia sempre parlato di “scuole” legate alle origini del gruppo di cantautori. La scuola milanese produsse un gruppo compatto di artisti-amici che, tra l’altro, non si limitò alla sola musica d'Autore: così accanto a Enzo Jannacci, Adriano Celentano, Giorgio Gaber e (la sua fidanzata di allora) Maria Monti, ecco anche i vari Cochi e Renato (con le loro stralunate incursioni anche musicali guidate per lo più dallo stesso Jannacci), Massimo Boldi, Teo Teocoli, Felice Andreasi. La consistente scuola genovese era rappresentata da un altro gruppo di artisti-amici10 come Gino Paoli, Luigi Tenco, Fabrizio De André, Umberto Bindi, Bruno Lauzi, ai quali si accostava il non convenzionale Paolo Villaggio, presenza fondamentale per i primi passi di Fabrizio De André11. La scuola romana era caratterizzata ovviamente da Antonello Venditti, Francesco De Gregori, Giorgio Lo Cascio e Ernesto Bassignano (i quattro ragazzi “con la chitarra e un pianoforte sulla spalla” cantati dallo stesso Antonello Venditti anni dopo nel brano Notte prima degli esami), 10. L’amicizia fu certamente un fattore propulsivo del fenomeno, perché spesso fu proprio da un ambiente, da un locale (il Derby a Milano, il Folkstudio a Roma) o da un gruppo i cui appartenenti si contaminavano a vicenda che nacquero vere scuole di pensiero che colorirono in maniera determinate il nascente mondo cantautorale. Altre volte, bisogna aggiungere, così come l’amicizia fu spunto trainante, il venir meno della stessa creò divisioni anche artistiche spesso molto traumatiche: per rimanere ai periodi di cui si parla, si può ricordare l’originale esperienza del Clan di Adriano Celentano, che nacque ufficialmente il 19 dicembre 1961, con sede in via Zuretti a Milano e capitale sociale di novecentomila lire. Celentano voleva svincolarsi dalla casa discografica Jolly (che gli intentò una causa civile chiedendo quasi mezzo miliardo di lire) e chiamò a raccolta amici e parenti: il nipote Gino Santercole, la fidanzata Milena Cantù, Miki Del Prete, Ricky Gianco, Mariano Detto, Don Backy. La rottura, causata da vari motivi che crearono insofferenze e aspre critiche verso il “boss” del Clan, portò con sé liti, scontri di avvocati e odi perenni. Giorgio Gaber nel 1968 pubblicò anche una canzone riferita a questa vicenda: C’era una volta il Clan. 11. C’era Paolo Villaggio nell’episodio reale che ispirò Via del Campo (malgrado il pezzo sia poi stato scritto da Faber insieme a Enzo Jannacci) ed è ancora Paolo Villaggio a scrivere il testo di Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers. 15 Santino Mirabella nonché Luigi Grechi (fratello di Francesco De Gregori), Rino Gaetano, Mimmo Locasciulli, Edoardo De Angelis e, ovviamente, Stefano Rosso (che però in seguito negherà in radice che vi fosse qualcosa definibile come “scuola romana”). Fabrizio De André, nel corso del famoso concerto del 1975 alla Bussola di Sergio Bernardini, disse che i testi non vanno separati dalla musica, nemmeno per inserirli nelle antologie, perché “se uno sceglie di fare il cantautore sceglie di fare musica e parole insieme, che hanno un senso se sentite e ascoltate insieme”12. L’importanza delle parole diveniva una novità e un vantaggio insieme, ma in fondo, per certi versi, addirittura un rischio perché, quando ufficialmente si mettevano in primo piano le parole, esse stesse a quel punto dovevano sottostare a un’analisi esegetica molto maggiore rispetto al passato, con dei giudici severissimi e pronti a bocciare senza appello quello che poteva apparentemente spostarsi da una preoccupante necessaria approvabilità “a prescindere”. Iniziarono a proliferare in maniera sempre più consistente i tribunali di “purezza”, con delle valutazioni che via via posero storicamente in evidenza anche il ruolo ben preciso che avevano e dovevano necessariamente avere coloro che quelle parole le usavano. Roberto Vecchioni, nella sua Vaudeville (dall’album Samarcanda del 1977) aveva già capito il rischio: 12. E aggiungeva, schernendosi: “Se fossi stato un poeta avrei tirato al Nobel intorno agli ottantasette anni e avrei continuato a scrivere poesie; se fossi stato un musicista avrei scritto musiche per dei film tipo La cassuola, Ringo o roba del genere e a quest’ora sarei anche ricco. Ero un cantautore! Eppure qualcuno ha detto che, tutto sommato, le mie parole andavano bene anche da sole, mettendole in queste antologie facendo un torto a me e, soprattutto, a questi bambini (che magari se le devono anche studiare a memoria). Frustrando soprattutto così un tentativo di cercarmi un mestiere che, oltre a divertire me, è stato anche un grosso colpo di fortuna”. Eppure, pur comprendendo il punto di vista del grande Faber, devo dire che in fin dei conti, laddove le parole “riescono” ad avere una loro vita autonoma rispetto anche alla loro mogliemusica (o viceversa), non possa e non debba ascriversi a errore legittimarne l’incursione in altre dimensioni (come quando gli innamorati si scrivono frasi d’amore tratte dalle canzoni: è un’emozione in più, non in meno, rispetto alla canzone). Un’ulteriore vita parallela non ne uccide le dimensioni ma probabilmente le amplifica a raggiera. 16 …e distillando sogni E spararono al cantautore in una notte di gioventù, gli spararono per amore per non farlo cantare più; gli spararono perché era bello ricordarselo com’era prima, alternativo, autoridotto, fuori dall’ottica del sistema Scemo, scemo. Mentre cadeva giù dalle tasche gli rotolavan di qua e di là soldi di Giuda, bucce di pesche e tante altre curiosità, mentre cadeva, buono tra i buoni e si annebbiava vieppiù la vista fece di getto due o tre canzoni, segno che era grande artista. (…) E con il mento fra le due assi, steso sul palco con gli occhi blu, sentì gridare dietro quei passi “Se lo mangiamo siam come lui”. I “veri” cantautori si resero presto conto del ruolo assunto e delle aspettative presenti; ma da esse si sentivano via via restringere i muri della stanza della loro creatività. Fin da subito Edoardo Bennato, con l’ironia che sempre lo ha accompagnato fin dagli esordi, non a caso rideva (e irrideva) della sua stessa “categoria”, e così, parlando al “Cantautore”, lo avvolgeva con gli occhi dell’“acritico” della prima ora: Tu sei forte tu sei bello tu sei imbattibile tu sei incorruttibile tu sei un cantautore tu sei saggio tu porti la verità tu non sei un comune mortale a te non è concesso barare tu sei un cantautore 17 Santino Mirabella tu sei un’anima eletta tu non accetti compromessi tu non puoi sbagliare tu non devi lasciarti andare tu sei un cantautore. (…) Tu sei buono tu sei vero tu sei onesto tu sei modesto tu sei un cantautore tu sei semplice tu sei sicuro tu sei generoso tu sei valoroso tu sei un cantautore tu sei senza macchia tu sei senza peccato tu sei intoccabile tu sei inattaccabile tu sei un cantautore. E già immaginandosi come sarebbe andata a finire, immedesimandosi nei “critici astiosi” (e invidiosi) della seconda ora: Ma non è giusto che tu hai tutto e noi invece no! Tu sei perfetto tu non hai un difetto che rabbia che ci fa! A tal proposito si può anche ricordare il giornalista di Penna a sfera di Antonello Venditti, mandato a realizzare un articolo scandalistico su un cantautore, ricercato nei migliori alberghi “pensando che stesse bevendo ancora una coppa di champagne”13. Vi fu certamente chi acquisì (molto) più facilmente le sembianze adatte a quel ruolo, e di certe raffigurazioni 13. Tra l’altro, a quanto dicono le cronache, il discorso non era solo generale, ma anche particolare e specifico: infatti il brano sarebbe collegato a un’intervista che Venditti e De Gregori avevano rilasciato a Enzo Caffarelli. Nel pezzo vi era una critica verso i due cantautori, i quali, secondo il giornalista, da una parte professavano impegno con le loro canzoni e dall’altra soggiornavano, durante la tournée, in alberghi di lusso bevendo (appunto) champagne. 18 …e distillando sogni incensanti magari iniziò a pensare di non poter fare a meno (sempre il “Cantautore” di Edoardo Bennato: “Sì è vero, sono io il più bravo / sì è vero, sono io il più bravo, nessuno è bravo come me. / Sì è vero, sono io il più saggio / sono io il più intelligente / e poi sentite come canto beeeene”). E a quello stesso stereotipo di cantautore si rivolge in tono irridente Francesco Guccini nella sua celebre Avvelenata: Colleghi cantautori, eletta schiera, che si vende alla sera per un po’ di milioni, voi che siete capaci fate bene ad aver le tasche piene e non solo i coglioni… Che cosa posso dirvi? Andate, fate…14 Ma molti non volevano essere classificati, ingabbiati; Lucio Battisti, pur nel suo guscio di “corpo estraneo”, imponeva un’orgogliosa presa di posizione a favore del suo “canto libero” che volava sulle accuse della gente a tutti i suoi retaggi indifferente. Paradossalmente (o non tanto) negli anni andò perdendosi molto più facilmente il primo tipo di cantautore (quello che inseguiva il ruolo) piuttosto che il secondo… E sempre il solito caustico Lauzi si spinse a profetizzare che la categoria rischiava di divenir presto monumento di se stessa, dimenticando che sui monumenti i cani ci fanno la pipì… Della loro capacità e decisione di incidere realmente nella società si è molto parlato. 14. E ripeterà concetti simili – seppur parafrasando Rostand e seppur scagliandosi non esclusivamente verso la “propria categoria” – nella meravigliosa Cyrano del 1996, inserita nell’album D’amore, di morte e di altre sciocchezze: “Venite pure avanti poeti sgangherati, inutili cantanti di giorni sciagurati, / buffoni che campate di versi senza forza avrete soldi e gloria, ma non avete scorza; / godetevi il successo, godete finché dura, che il pubblico è ammaestrato e non vi fa paura / e andate chissà dove per non pagar le tasse col ghigno e l’ignoranza dei primi della classe”. 19 Santino Mirabella Diversi anni dopo, ragionando sul potere culturale che (volente o nolente) “quel” gruppo di cantautori – promossi al ruolo di maître à penser – riuscì comunque ad avere (e forse a non saper, o voler, sfruttare), Fabrizio De André regalò, nella sua La domenica delle salme15, una lucida riflessione autocritica sull’inadeguatezza storica e politica nel creare o favorire non solo semplici movimenti di pensiero ma vere e proprie “svolte” di pensiero: Gli ultimi viandanti si ritirarono nelle catacombe accesero la televisione e ci guardarono cantare per una mezz’oretta poi ci mandarono a cagare voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio coi pianoforti a tracolla travestiti da Pinocchio voi che avete cantato per i longobardi e per i centralisti per l’Amazzonia e per la pecunia nei palastilisti e dai padri Maristi voi avevate voci potenti lingue allenate a battere il tamburo voi avevate voci potenti adatte per il vaffanculo. Ma, all’altezza o meno delle aspettative, consapevoli o meno, di fatto quei cantautori riuscirono comunque a segnare un’epoca e a incidere sulla maturazione di una generazione (che forse avrà anche perso, come cantò molti anni dopo – nel 2001 – Giorgio Gaber nell’lp omonimo, ma alla quale deve comunque riconoscersi l’onore delle armi). Quelle persone in tempo reale vivevano e (ri)cantavano le loro emozioni per certi versi assolutamente tradizionali, da un lato, ma certo non convenzionali (per l’approccio diverso) dall’altro, con l’apporto di una sensibilità innovativa anche nella sua stessa capacità descrittiva: basti pensare, per esempio, alla descrizione dello 15.Dall’lp: Le nuvole, 1990. 20 …e distillando sogni stato d’animo del protagonista del brano Son s’cioppàa di Enzo Jannacci: “hai presente un canotto mordicchiato da un dobermann?”. Un’immagine perfetta e spiazzante insieme. L’operazione fu esplicita, e non subliminale, a significare un vero e proprio svecchiamento, o quanto meno rinnovamento, delle categorie di pensiero e del loro modo di esprimerle. E non solo di emozioni si parlava; o meglio, non solo di emozioni private e/o sentimentali, perché era anche una nuova coscienza sociale, e di massa, a risvegliarsi bruscamente, ritrovando – o pretendendo di ritrovare – in quelle canzoni (ufficialmente post-sessantottine) i suoi slogan, la sua rabbia. O quegli slogan e quella rabbia che quella generazione non sapeva di covare in maniera così forte; un po’ come cantava (seppur per altri e diversi contesti, ma con parole che possono essere “prestate”) Fabrizio De André ne La bomba in testa nel 197316: …e io contavo i denti ai francobolli dicevo “grazie a Dio” “buon Natale” mi sentivo normale eppure i miei trent’anni erano pochi più dei loro ma non importa adesso torno al lavoro. Cantavano il disordine dei sogni gli ingrati del benessere francese e non davan l’idea di denunciare uomini al balcone di un solo maggio, di un unico paese. E io ho la faccia usata dal buonsenso ripeto “Non vogliamoci del male” e non mi sento normale e mi sorprendo ancora a misurarmi su di loro e adesso è tardi, adesso torno al lavoro. (…) 16.Dall’lp Storia di un impiegato, 1973. 21 Santino Mirabella Chissà cosa si trova a liberare la fiducia nelle proprie tentazioni, allontanare gli intrusi dalle nostre emozioni, allontanarli in tempo e prima di trovarsi solo con la paura di non tornare al lavoro. (…) per il coraggio insieme non so le regole del gioco senza la mia paura mi fido poco. Ed ecco introdursi in parole e musica anche le storie del sottobosco sociale, di prostitute, operai, emarginati. Ecco le storie dell’idroscalo e le scarpe da tennis cantate da Jannacci, con i suoi protagonisti di tutti i giorni, i suoi Armando, Vincenzina, Silvano, Mario. Una nuova coscienza che partiva da altre prospettive e da altre inquadrature. Perché era, insomma, il livello di consapevolezza anche politica a lievitare, lo abbiamo visto; in tal senso, per esempio, il troppo presto dimenticato Alfredo Bandelli scriveva canzoni di protesta, con pochi accordi, firmando ogni sua canzone con la dicitura “Parole e musica del proletariato”. Oppure, possiamo ancora ricordare il Gualtiero Bertelli del Canzoniere Popolare Veneto; o Paolo Pietrangeli, che, prima di divenire regista Mediaset, dava voce prepotente alla ribellione sociale e la sua Contessa divenne un inno del Movimento. La critica sociale e la presa di posizione convinta e coerente trovavano il loro miglior domicilio permeando anche la maggior parte della produzione (artisticamente più completa e universale) di Claudio Lolli. Queste dinamiche si sovrapponevano e alla consapevolezza politica si affiancava una presa di coscienza anche individuale: ricordiamo infatti la tendenza ossessiva di ricondurre tutto a una valenza politica e sociale che permetteva – anzi obbligava quasi – di creare un’inscindibile crasi tra “politico” e “personale”, tra “privato” e “pubblico”. 22 …e distillando sogni Francesco Guccini all’epoca si scherniva dicendo che le sue canzoni erano politiche solo perché tutto quello che si fa è in un certo senso politico; ma nel frattempo le sue canzoni divenivano slogan… e tutti a cantare “trionfi la giustizia proletaria”17. Le canzoni di Claudio Lolli diventavano così una boccata di aria liberatrice, una vera e propria bandiera dura e pura, da impugnare orgogliosamente contro la “vecchia-e-piccola-borghesia” che tutti erano certi che “il-vento-un-giorno” avrebbe “spazzato-via”18. Tutti cantavano per strada l’operaio Pablo19, antesignano (dal punto di vista della presa di coscienza) dei morti sul lavoro, ammazzati dall’indifferenza del padrone (che magari non è “così cattivo”), ma sempre vivi accanto a noi (il grido “Hanno ammazzato Pablo, Pablo è vivo” iniziò a essere scritto sui muri delle città). Ed ecco ancora La locomotiva di Francesco Guccini, che, come una cosa viva, viene lanciata a tutta velocità contro le ingiustizie. Ecco irrompere la scimmietta di Jodi20, del primo Antonello Venditti, che uccideva il presidente e tirava fuori i tesori del papa “rubati al cuore della gente”. Ecco i nuovi-vecchi fascisti cantati da Francesco De Gregori21, fascisti con “la faccia serena22 e la cravatta 17.La locomotiva, dall’lp Radici del 1972. 18. Borghesia, dall’lp Aspettando Godot del 1972; da notare che anni dopo, nei cd Dalla parte del torto del 2000 e La terra, la luna e l’abbondanza (raccolta) del 2002, Lolli, con caustica ironia, riprenderà la canzone aggiungendo un significativo “forse” (“Il vento un giorno – forse – ti spazzerà via”). Lui stesso, in un’intervista rilasciata a Massimo Longo, dichiarerà: “Certo, c’era una sorta di ottimismo, decisamente strano in me, rivelatosi poi fallace. Ma no, non è stata assolutamente spazzata via, anzi. Ero sicuro che accadesse all’epoca, sai, leggevo Marx, Hegel, e dicevo che non c’è futuro per questa classe sociale. La prossima volta che scriverò una nuova Borghesia, starò più attento!”. 19. Pablo, di Francesco De Gregori, dall’lp Rimmel del 1975. 20. Jodi e la scimmietta, dall’lp Ullàlla del 1976. 21. Le storie di ieri, dall’lp Rimmel del 1975 e incisa anche da Fabrizio De André nello stesso anno nell’lp Volume VIII. 22. Nel testo originario, scartato e censurato dalla casa discografica RCA, era esplicitamente Almirante ad avere la faccia serena. 23 Santino Mirabella intonata alla camicia” (e quindi mimetizzati dietro un doppiopetto che non ne nobilita il petto). La canzone, insomma, andava riappropriandosi come un fatto normale del suo ruolo anche storicamente sociale; si faceva, con forza e parole nuove, portatrice di un sistema di valori che trovava uno sbocco quasi improvviso in una breccia imprevista, condizionando in maniera netta il contesto a cui si rivolgeva e chiudendo così il cerchio. Il rischio certamente fu quello di pretendere da questi nuovi “poeti”23 che divenissero, per cooptazione obbligatoria, menestrelli di qualsiasi ipotesi rivoluzionaria, anche la più inebetita e acefala che passasse per la testa in quel preciso momento, hic et nunc. I cantautori dovevano allora, come già detto prima, trasformarsi in “cantori” del Movimento, quasi obbligati a non discostarsi da una qualche “linea” (dettata da chi?) afferente alle esigenze di una lotta di classe che spesso, pur nelle piene e reali necessità di fondo, confondeva i sogni con i bisogni e perdeva di vista la dimensione e l’ottica delle cose. Se, insomma, bisognava essere “duri e puri”, se bisognava dare “voce solo alla voce di chi li voleva portavoce”, ecco allora che qualsiasi tentativo di divincolarsi dai compartimenti stagni diveniva un gravissimo voltafaccia. Per cui Buonanotte Fiorellino24 di De Gregori venne da più parti vissuta veramente come un tradimento, uno sforamento gravissimo dall’obbligo istituzionalizzato dell’impegno, un cedimento al sentimentalismo, come se i sentimenti non fossero degni e non potesse essere rivoluzionario anche un amore. Ecco allora che anche il capolavoro La buona novella di Fabrizio De André, uscito nel 1970 in piena lotta studentesca, sembrò a qualcuno un ulteriore 23. Che per De Gregori, nell’appena citata canzone Le storie di ieri, sono in realtà delle “brutte creature: ogni volta che parlano è una truffa”. 24. 24 Dal riferito lp Rimmel. …e distillando sogni tradimento, l’abbandono delle tematiche “vere”, dimenticando, come raccontava nei suoi concerti Fabrizio stesso, che Gesù fu veramente il primo vero rivoluzionario della storia25. Questo gruppo di cantanti-intellettuali doveva essere insomma “a servizio”: per cui ecco la fase storica delle irruzioni nei concerti, quando, al grido “la musica è gratuita ed è nostra”, tutti dovevano limitarsi a cantare gratis le cose che volevano alcuni (ricordiamo il famoso processo-farsa subito da De Gregori il 3 aprile 1976 al Palalido di Milano, a seguito del quale gli Autonomi lo invitarono “affettuosamente” a suicidarsi26, oppure l’altra inquisizione subita nello stesso luogo qualche mese dopo da Antonello Venditti; ricordiamo le contestazioni degli Autonomi a Salerno contro Edoardo Bennato, che nel 1987 inciderà27 la canzone Era una festa rievocando proprio quei periodi e quelle situazioni paradossali28). A pensarci, tutto si poteva risolvere facendo in modo che gli autoriduttori dell’epoca si organizzassero i loro 25. De André: "Si era quindi in piena rivolta studentesca; e le persone meno attente – che poi sono sempre la maggioranza di noi –, compagni, amici, coetanei, consideravano quel disco come anacronistico. Mi dicevano: ‘Cosa stai a raccontare della predicazione di Cristo, che noi stiamo sbattendoci perché non ci buttino il libretto nelle gambe con scritto sopra sedici; noi facciamo a botte per cercare di difenderci dall’autoritarismo del potere, dagli abusi, dai soprusi’. Non avevano capito – almeno la parte meno attenta di loro, la maggioranza – che La buona novella è un’allegoria. Paragonavo le istanze migliori e più ragionevoli del Movimento sessantottino, cui io stesso ho partecipato, con quelle, molto più vaste spiritualmente, di un uomo di 1968 anni prima, che proprio per contrastare gli abusi del potere, i soprusi dell’autorità si era fatto inchiodare su una croce, in nome di una fratellanza e di un egualitarismo universali”. 26. E il giornalista Salvo Taranto, nel suo articolo Nascita della canzone d’Autore (su Gocce di inchiostro) ricorda come l’ex senatore sassarese Luigi Manconi, sotto lo pseudonimo di Simone Dessì, scrivesse curiosamente: “Esiste, oggi, un movimento di massa che non abbandona la cultura musicale a se stessa ma vi interviene attivamente e ha la possibilità di esercitarvi la propria egemonia. [… ] Se la classe operaia, oggi, fa cadere i governi e si prepara a dare l’assalto al cielo, perché non dovrebbe essere in grado, attraverso molte e complesse mediazioni, di egemonizzare Francesco De Gregori? […] Il movimento di massa del proletariato giovanile, d’altra parte, vuole utilizzare Francesco De Gregori per i propri fini. Mah!”. 27.Dall’album Ok Italia del 1987. 28. “Tutti al concerto, transenne per terra / e la musica non si farà!… / Niente canzoni, stasera è di scena / un processo alla celebrità! / Chi sta sul palco è un istrione o un poeta, / smascheriamo la sua vanità!”. 25 Santino Mirabella concerti cantando loro stessi con la voce (e il cervello) che si ritrovavano… Scherzi a parte, ovviamente su queste basi tutto veniva riletto con un’ottica centripeta e claustrofobica, e questo rischiò veramente di far perdere di vista il valore culturale di quella generazione di poeti-in-musica. Del resto, io ho sempre sostenuto che non bisognerebbe puntare sulla distinzione aprioristica tra “canzoni impegnate” e “canzoni d’amore”, bensì distinguere tra canzoni belle e canzoni brutte; ma l’orizzonte non dava ampi segni e, per esempio, i tanti futuri ed entusiasti cantori di Lucio Battisti, tra i quali possiamo anche annoverare l’attento e preparatissimo Gino Castaldo, all’epoca lo bollavano spietatamente non perché scrivesse canzoni brutte in sé, ma perché non era adeguatamente impegnato e, soprattutto, adeguatamente impegnato a sinistra29. Ma allora abbiamo gli strumenti, dopo questa serie di considerazioni, per definire chi era il cantautore? Forse per cercare una definizione occorre posizionarsi da un’altra visuale: il principale punto di arrivo e anche di partenza (chiudendo il famoso cerchio) deve forse essere la canzone che veniva fuori e non tanto (o non solo) “chi” la proponeva; quindi definire cantautore colui che scriveva e cantava (scrive e canta) le “canzoni d’Autore”. Il termine “cantautore” sembrerebbe essere ufficialmente nato per opera di Ennio Melis e Vincenzo Micocci nel 1959 in relazione a Gianni Meccia, nell’ambito della casa discografica RCA; l’anno dopo un programma della RAI venne intitolato Il cantautore e la parola iniziò a girare sempre più. Successivamente il termine proseguì a definirsi in maniera sempre più completa. Il 13 dicembre 1969 un 29. Eppure, paradossalmente, possiamo ricordare come tra le poche cose “borghesi” che vennero trovate in un covo delle Brigate Rosse, venne rinvenuta l’intera collezione dei dischi di Lucio Battisti; e proprio Battisti fu l’unico cantante addirittura direttamente citato in un comunicato ufficiale dei terroristi, allorquando indicarono la necessità di effettuare “discese ardite e risalite”. 26 Canzone d’Autore, quindi, intendendo la parola autore nel senso di massima nobilitazione, con la A maiuscola31, e quindi la canzone come il frutto di un artista consapevole di un proprio ruolo nell’arte (e non solo), e che correlativamente lo mette in scena con la coscienza e la volontà di “fare” qualcosa di importante, qualcosa di “intelligente”32 attraverso la comunicazione immediata che solo una canzone, nei suoi tre-quattro minuti può dare. Tre-quattro minuti? Non a caso anche la durata stessa delle canzoni venne via via rivoluzionata e si acconsentì a una dilatazione figlia della necessità di comunicare senza le barriere aprioristicamente imposte dalle case discografiche (per le quali storicamente la canzone doveva entrare in uno spazio predefinito, per essere trasmessa alla radio, per un passaggio televisivo etc.). E, sulla scia delle suite dei grandi gruppi rock33, ecco allora gli audaci otto minuti de La locomotiva34 di Francesco Guccini, gli otto minuti e mezzo de L’ultimo …e distillando sogni giovane giornalista, Enrico De Angelis, propose al giornale L’Arena di Verona, una rubrica sui cantautori e il titolo del primo articolo fu: La canzone d’autore. Luigi Tenco: un utile ritorno30. 30. E il già citato Salvo Taranto commenta: “Parlando di sofferenza e travaglio interiore del cantautore, non può non essere ricordato Luigi Tenco. La sua morte, avvenuta nel 1967, è un evento che rivoluziona la storia della canzone italiana. Un lutto che, trasformandosi in un ‘trauma culturale’ collettivo, permise infatti alla canzone d’autore di ricevere un riconoscimento di carattere sociale e intellettuale, di legittimarsi”. 31. autore… Perché in fondo, sottolineava Francesco Guccini, tutte le canzoni hanno un 32. E ricordiamo la meravigliosa autoirrisione di Enzo Jannacci nel brano affidato a Cochi e Renato come sigla del programma Il poeta e il contadino: La canzone intelligente; una presa in giro dell’intero sistema che poteva rischiare di divenire autoreferenziale, un riferimento alla canzone “intelligente” che parli “un po’ di tutto e un po’ di niente”, affinché la “casa discografica adiacente” possa prendere l’artista e, “come un deficiente”, lanciarlo “nel mercato sottostante”. 33. Come i Pink Floyd o i Genesis. 34.Dall’album Radici del 1972. 27 Santino Mirabella spettacolo35 di Roberto Vecchioni, i quasi dieci minuti de Lo stambecco ferito36 di Antonello Venditti e di Via della Povertà37 di Fabrizio De André; i nove minuti e mezzo di Morire di leva38 di Claudio Lolli e così via… A sua volta, ecco le estemporanee incursioni di brani brevissimi, di poco più di un minuto, come S’i’ fosse foco di Fabrizio De André39, Vaudeville di Roberto Vecchioni40. La canzone finalmente e definitivamente nobilitata come mezzo espressivo di serie A, senza confini temporali o tematici, senza muri. E Paolo Conte nel 1982 beffardamente scriverà che “canzone d’autore e liceo classico vanno ancora a braccetto; questo vuol dire che il maneggio della lingua italiana è ancora affidato al tecnico”. Non a caso tuttora quando si legge un testo di particolare pregio si dice che “è una poesia”, con ciò intendendo ovviamente fare un complimento ma, automaticamente, riconoscendo che comunque la forma espressiva canzone debba essere considerata pur sempre alla stregua di una sorella minore che, per essere nobilitata, deve essere rapportata alla sorella maggiore. E sempre il caustico Fabrizio De André ricordava Benedetto Croce, che affermava che fino a diciotto anni tutti scrivono poesie, mentre poi continuano solo due categorie: i poeti e i cretini; per questo Faber preferiva definirsi “prudenzialmente” un cantautore. [Però deve qui ricordarsi lo struggente racconto che Paolo Villaggio fece, nel corso di un suo intervento al Salone internazionale del libro di Torino nel 2010, relativamente al suo 35.Dall’album Samarcanda del 1977. 36.Dall’album Lilly del 1975. 37.Dall’album Canzoni del 1974. 38.Dall’album Un uomo in crisi. Canzoni di morte, canzoni di vita del 1973. 39. 1968. Dall’omonimo sonetto di Cecco Angiolieri, inserito nell’album Volume III del 40.Dall’album Samarcanda del 1977. 28 …e distillando sogni ultimo incontro con Fabrizio De André ormai morente: Villaggio narra che Faber, dopo avergli detto di “smontare” la faccia di circostanza che Paolo aveva assunto, gli aveva raccomandato che tutte le volte che in futuro avrebbe parlato di lui in pubblico, doveva dire che lui non era stato un semplice “menestrello” ma un grande poeta41. Ecco che inaspettatamente Fabrizio, proprio in punto di morte, volle riappropriarsi di un titolo e di un significato che in quel momento sentiva finalmente suo, senza i disincantati schermi che in vita gli avevano suggerito timida prudenza.] Comunque, anche il bravo Gino Castaldo all’epoca sosteneva che: “La canzone (…) vive di questo intreccio profondo e indissolubile. Separare parole e testo di una canzone sarebbe come separare le forme di un dipinto dai suoi colori”. Ma, ciò detto, era poi lo stesso Castaldo che parallelamente si domandava comunque se bisognasse considerarli “poeti in musica” o “musicisti che usavano le parole”; forse quindi, come detto, bisognerebbe veramente parlare di un tertium genus, di una metafisica composizione per cui, come l’ossigeno e l’idrogeno riescono a formare l’acqua, così le parole (con una raffinata attenzione sia al contenuto che alla sonorità) e un certo tipo di musica hanno prodotto quel che comunemente è considerato il cantautorato nostrano. Infatti è certamente vero che molti testi – come già osservato in precedenza – possono realmente prescindere dalla musica e pertanto essere letti “anche” come vera e propria (e autonoma) poesia42, ma è altrettanto vero che l’alchimia parole-musica di cui si è detto doveva (e deve) avere la sua assoluta dignità artistica autonoma. 41. Questo racconto struggente l’ho videoripreso io stesso e “postato” su YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=Ih6Ae7iC_U0. 42. Consiglio di provare, per esempio, a leggere tutta La buona novella proprio di Fabrizio De André senza ascoltare la musica; o centinaia di altri testi di De André, di Vecchioni, di Lolli, di Battiato e così via… 29 Santino Mirabella Francesco Guccini sosteneva, per esempio, che “le canzoni non sono né poesia né musica, sono canzoni, hanno cioè una loro specificità artistica e una loro precisa dignità”; e anche Francesco De Gregori sosteneva di essere “sempre stato convinto che la musica non è poesia, che le canzoni non sono poesie e che quindi non vanno lette, bensì ascoltate”. Eppure il valore “anche” letterario di quel tipo di canzoni ha trovato l’imprimatur delle candidature al Premio Nobel per la Letteratura di Bob Dylan, Leonard Cohen e, soprattutto – per quel che ci riguarda –, Roberto Vecchioni nell’autunno del 2013, a riscontro del rilievo che non solo ha ormai acquisito la “semplice” canzone, ma la canzone d’Autore italiana in particolare. E se su questo i nostri cantautori hanno avuto un merito storico, bisogna ricordare che con loro, infatti, si modificò finanche la costruzione stessa del brano: nella fase precedente, come detto, la musica aveva le chiavi di casa e sull’onda di un suono venivano cucite le parole43, mentre storicamente la maggior parte delle canzoni dei cantautori nasceva da una suggestione soprattutto poetica o, comunque, verbale. La musica, quindi, come una calda coperta alle parole, come del resto avveniva in passato nell’ambito della musica lirica, ove il “libretto” precedeva totalmente la musica. La distinzione di metodo e di significato viene ben illustrata da una citazione che Andrea Camilleri riporta – ma senza indicarne l’autore – nell’introduzione al video di Paolo Conte Parole e Musica44: “Il ritmo musicale obbedisce esclusivamente alle leggi della ritmica sillabica, la melodia risponde strettamente alla struttura poetica”. Parlavo di merito storico, ma è pur vero che molti cantautori amavano (aristocraticamente?) schernirsi, 43. Come continuò a lavorare la coppia Mogol-Battisti, del resto, non a caso, quasi corpo estraneo alla “storica” categoria dei cantautori. 44. 30 A cura di Vincenzo Mollica, per Einaudi, 2003. …e distillando sogni come le belle donne che dicono agli astanti attoniti di non essere veramente belle perché hanno le doppie punte nei capelli o simili. Ed ecco allora che per Francesco De Gregori le canzoni erano solamente “una serie di parole su un’incastellatura armonica e ritmica adeguata”. Per De André, invece, la canzone era sempre stata una bellissima fidanzata con la quale passare ancora tanto tempo45. Francesco Guccini scriveva che una canzone “può far pensare, non far decidere; può creare una base, un fermento che può spingere a scelte più ragionate, più mature. E allora uno si lascia alle spalle la canzone e fa e cerca altre cose”. Claudio Lolli raccontava che “le canzoni nascono da allucinazioni” e aggiungeva: “difficilmente riesco a spiegarmi quello che sta succedendo con gli strumenti della razionalità, ma probabilmente il cuore è già oltre l’ostacolo. E allora ciò che riesce almeno a intravederlo da lontano è il gioco della parola. Le storie nella loro libertà fantastica sono sempre un po’ più avanti”. Per Edoardo Bennato, in fondo, “sono solo canzonette”. Ma tutti lo sapevano benissimo che non erano solo canzonette, e che come canzonette non sarebbero state recepite. Nella trasmissione di Fabio Fazio Quello che non ho del 15 maggio 2012 Francesco Guccini, studiando una definizione di cantautore (un intreccio di melodista-paroliere-cantante), disse che il cantautore non è uno chansonnier (tradizione francese), non è un cantastorie (cosa che forse sarebbe all’epoca suonata come un’offesa), non è un cantore (termine troppo aulico), ma un ibrido: è un “cammellopardo”, come gli antichi romani, non sapendo cosa fossero, chiamarono le giraffe, per il corpo da cammello e i colori da leopardo. 45. Anche se il tempo si stava già organizzando contro di lui… 31 Santino Mirabella Illuminante. Qualcosa che ti sta davanti, la vedi, la senti, la percepisci e non riesci a dar parole ai tuoi sensi. E forse, ancora più di riferirsi agli chansonniers, potrebbe addirittura recuperarsi la romantica immagine dei trovatori46, di origine ugualmente francese, i quali, poco dopo l’anno mille, diedero uno scossone alla musica profana. Furono certamente poeti d’amore che trasferivano (rivestivano) in musica i loro versi e andavano in giro di corte in corte per cantarli e per dare visione ai loro sogni non solo musicali. Allora cos’è la canzone d'Autore? Come ricorda ancora il già citato giornalista Salvo Taranto, sulla rivista Musica e Dischi nel giugno del 1976, in un manifesto programmatico intitolato Organizzare le forme per promuovere la qualità il Comitato italiano per la diffusione della canzone d'Autore così definiva la canzone d'Autore in questione: “genere musicale/letterario in cui l’opera, per forma e contenuto, sia fruibile sotto l’aspetto artistico, in contrapposizione ai prodotti, realizzati con intenti esclusivamente consumistici, che hanno finora costituito la parte prevalente della produzione fonografica”. Ma, al di là di una caratterizzazione soprattutto in termini politici e/o di scontro, Roberto Vecchioni sostiene invece che: “Pur partendo da due sistemi semantici preesistenti (il linguaggio poetico e quello musicale), la canzone d'Autore costituisce un’unità narrativa e metrica inscindibile. Non è infatti possibile separare musica e testo, così come non si può prescindere dall’interpretazione, che diventa un terzo elemento semantico essenziale: essa può dunque essere considerata una forma d’arte, e più specificamente un genere nuovo e autonomo”. 46. Trovatori o trovieri, a seconda della zona in cui operavano: i primi nel Sud della Francia (adoperando la lingua provenzale), i secondi nel Nord (utilizzando la lingua d’oil, che poi diventerà il francese moderno). Si trattava comunque, in quel caso, di nobili, feudatari, cavalieri e, in ogni caso, personaggi della corte che non facevano i musicisti di mestiere ma componevano canzoni da cantare durante qualche festa. 32 •testo (attenzione al testo: significato; centralità – e a volte anche predominio – delle parole; sonorità, assonanze e omofonie non scontate e non convenzionali; metafore imprevedibili); •musica assolutamente “non tradizionale” (almeno nelle originarie forme in cui si manifestò il fenomeno cantautorale, cioè senza seguire moduli convenzionali per strizzare l’occhio a un mercato che già era assuefatto a un determinato tipo di prodotto; e inoltre, nei primi anni: un arrangiamento spesso scarno – troppo? – ed essenziale); •esigenza artistica (che descrive in maniera evidente la miccia che accese il fuoco: l’impellente necessità di una generazione di “esprimersi” in maniera diversa47); •interpretazione vocale (assolutamente innovativa: tonalità spesso più basse e confidenziali, perché l’interprete sta parlando “proprio a te”); •contesto di riferimento (“quel” momento storico: nessun altro avrebbe potuto produrre quel tipo di movimento musicale e di pensiero assieme). …e distillando sogni È quindi “questa” canzone d’Autore a fare il cantautore? Bisogna forse ipotizzare un mosaico vincente: Ma, detto questo… Un elenco, un’equazione, una catalogazione è certamente ciò che di più impensabile e inadeguato si possa tentare per descrivere e raccontare un fenomeno culturale che parzialmente appartiene certo al passato ma che non è passato ancora e le cui (anche indotte) conseguenze positive hanno lasciato un segno indelebile. La matematica può (forse) essere (anche) un’arte, ma certamente l’arte non può essere mera matematica, mai un’equazione; non la si può spiegare, l’arte, né si può spiegare un’emozione. Non si può. 47. Anche se molti anni dopo Francesco De Gregori, intervistato ancora da Fabio Fazio, ma per la trasmissione Che tempo che fa, dirà orgogliosamente: “Alice non l’ha scritta la mia generazione, l’ho scritta io”. 33 Santino Mirabella Semmai si può cercare di rendere partecipi gli altri di quello che ci nasce dentro e ci emoziona. Partecipare un’emozione, che possa fondersi in una sua dimensione che dal particolare voli al generale (e viceversa). Nello stesso modo, non si possono spiegare i cantautori, ma ascoltarli e raccontarli, soprattutto con le loro parole, con la loro musica. Curiosamente il fenomeno fu essenzialmente “maschile”; nessuna donna riuscì mai a essere ritenuta degna di assurgere all’Olimpo ricco di “padri” storici del cantautorato italiano, conseguenzialmente privo quindi di “madri” storiche. E non che manchino figure di valore nell’ambito femminile, anche con grandissime artiste, ma sempre vi furono soprattutto grandi interpreti, come Mina (che lanciò, come detto, La canzone di Marinella, divenendo fondamentale nella carriera di Fabrizio De André), Milva (interprete d’eccezione, da Brecht a Franco Battiato), Ornella Vanoni (musa e interprete soprattutto, nella prima fase, di Gino Paoli), Patty Pravo, la meravigliosa Mia Martini, Anna Identici, Gigliola Cinquetti, Nada… Nada, per esempio, nacque artisticamente come una “qualsiasi” brava e timida cantante, dall’affascinante e intrigante voce nasale, ma soprattutto in seguito, e dopo aver inciso anche composizioni di Paolo Conte e Piero Ciampi, approderà certamente a una dimensione prettamente cantautorale, scrivendo da sé apprezzate e apprezzabili canzoni. Nessuna donna, però, come detto, è mai stata inquadrata nella categoria (un po’ maschilista?) dei cantautori. Eppure vi sono state anche giganti, come Giovanna Marini, essenzialmente inseribile però in altre tradizioni, espressione soprattutto del canto popolare con valenza prettamente politica. 34 …e distillando sogni Nel 1976 Jenny Sorrenti48, dopo l’esperienza con il rivoluzionario gruppo dei Saint Just (terzetto formato da lei, Tony Verde e Robert Fix, e che aveva inciso gli album: Saint Just e La casa del lago), incide un disco più che interessante, Suspiro, dove suonano alcuni giovani promettenti: Pino Daniele, Lucio Fabbri e Peter Kaukonen. Le esperienze, però, quasi mai vanno oltre determinati ambiti, soprattutto temporali. Altre artiste donne meritano di essere ricordate, come la dolce Marisa Sannia, detta “la gazzella di Cagliari”, nata artisticamente su palcoscenici nazional-popolari nel senso più tradizionale e via via sempre più immersa in un mondo cantautorale, da lei intrapreso soprattutto nella sua lingua sarda; oppure, ancora, Donatella Bardi (A puddara è un vulcano), Maria Monti (che, tra l’altro, nel 1975 partecipa anche a un concerto inciso nello storico, e raro, 33giri live Bologna 2 settembre 1974, con Francesco De Gregori, Lucio Dalla e Antonello Venditti) e Antonella Bottazzi (anche lei inizialmente destinata a palcoscenici tradizionali, con il semplice nome Antonella, e poi via via indirizzatasi verso interpretazioni di maggior spessore, arrivando infine a scrivere bellissime canzoni per i bambini – vedasi il suo Canzoni di muccalle, pecodrilli, cignatte, scimpechi, porchigli & C. del 1979). Un posto particolare merita anche Roberta D’Angelo, artista molto preparata (anche diplomata al conservatorio in pianoforte) che nel 1975 per la RCA incise insieme a Silvia Draghi, Nicoletta Bauce e il duo Simo e Susi un album intitolato Le cantautori – con una linguistica dimostrazione di come il patrimonio della canzone d'Autore venisse ancora considerato in un’ottica propriamente maschile –. La D’Angelo all’epoca aveva solo lo spazio di apertura dei concerti di Antonello Venditti e Francesco De Gregori. Successivamente Roberta incise 48. Sorella del più noto Alan Sorrenti, che a sua volta, dopo alcuni dischi di ricerca – Aria, Come un vecchio incensiere all’alba di un villaggio deserto, Sienteme, It’s time to land – crollerà nel genere mieloso. 35 Santino Mirabella altri tre lp; il terzo, Casablanca, sorprese i suoi ammiratori in quanto lei, sempre particolarmente impegnata e anche esteticamente sobria e non appariscente, adesso, fin dalla copertina – così come nelle sue esibizioni dal vivo o televisive – era travestita da vamp, con movenze da oca tradizionalmente (e ironicamente) bamboleggianti. La sua prorompente carica ironica non venne capita e la sua stessa carriera subì, anche per propria scelta, una definitiva interruzione immeritata. La musica d'Autore femminile è riuscita col tempo a ricavarsi ugualmente un suo spazio, seppur non classificato. Non può comunque non notarsi come, soprattutto all’inizio di questa acquisizione di spazi, spesso dietro a ognuna delle prime cantautrici della seconda epoca continuasse ad agire un’ingombrante figura maschile già affermata: per esempio, Franco Battiato collaborò ai dischi di Alice e Giuni Russo (Capo Nord ed Energie), Roberto Vecchioni collaborò con Gianna Nannini (che negli anni diverrà una figura di primissimo piano del cantautorato rosa, con bellissime composizioni a sua firma e interpretazione) all’intera stesura (soprattutto dei testi) di California, mentre Eugenio Bennato guidò Teresa De Sio nei suoi primi passi che porteranno poi alla pubblicazione del disco d’esordio Sulla Terra sulla Luna. Negli anni più recenti, infine, si affacceranno altre artiste di valore come Noemi, mentre una delle più grandi interpreti italiane, e cioè Fiorella Mannoia, sarà essenzialmente la voce dei grandi cantautori, ma nulla scriverà direttamente, fermandosi un momento prima del passo decisivo in tal senso. La musica d’Autore, senza etichette e senza distinzioni sociali e sessiste. La musica d’Autore come Arte “alta”. In questo ambito, ai grandi cantautori si affiancava un grande musicista, un grande “poeta”, un grande 36 …e distillando sogni chitarrista, un grande performer che aveva anch’egli intrapreso la strada iniziale di cui si è detto, segnandola anche per qualche anno e poi via via inspiegabilmente (anche e soprattutto per sua scelta) ritiratosi in un’incongrua ombra; dalla quale però tutti potevano vederlo, se avessero voluto. Se lui stesso avesse forse voluto. Insomma, in questo fenomeno del cantautorato italiano, come si colloca un certo Stefano Rossi, in arte Stefano Rosso? 37