Nicholas Sparks Un segreto nel cuore A Bend in the Road Presentazione Lui ha un passato da ricostruire. Lei un passato da dimenticare. Entrambi hanno un segreto nel cuore. Sarah credeva che il suo matrimonio fosse perfetto e invece, alla prima crisi, lo aveva visto crollare come un castello di sabbia. Miles amava Missy sin dal liceo, ma un pirata della strada gliel'aveva strappata per sempre. A Sarah è rimasta la speranza di un nuovo amore, a Miles solo il figlioletto, Jonah, che si sveglia piangendo di notte, mentre di giorno è tranquillo, troppo tranquillo. Per fortuna la sua nuova maestra è proprio Sarah, che sa riconoscere i silenziosi campanelli d'allarme dei piccoli. Ben presto tra lei e Miles nasce qualcosa che va oltre il comune affetto per il bimbo: è l'incontro di due anime tormentate, eppure sensibili allo sbocciare di un sentimento. Ma Miles sa che finché non avrà chiuso con il passato non potrà concedersi alla tenerezza. E anche la ragazza capisce di dover risolvere qualcosa che le impedisce di abbandonarsi al sogno di una nuova vita con chi è riuscito a riaccendere le sue emozioni... Un romanzo tenero e commovente, un delicato acquerello in cui ognuno può ritrovare le tinte preferite dal proprio cuore. L'autore Nicholas Sparks, autore americano della nuova generazione, è nato nel Nebraska e vive nel North Carolina con la moglie ed i figli. Ha già pubblicato con enorme successo vari romanzi, tra cui Le parole che non ti ho detto, Premio Selezione Bancarella 1999, da cui è stato tratto l'omonimo film con Kevin Costner. Questo romanzo è dedicato a Theresa Park e Jamie Raab. Loro sanno perché. Avvertenza Questo romanzo è opera della fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il prodotto dell'immaginazione dell'autore o sono usati in modo fittizio e qualsiasi riferimento a persone esistenti, o esistite, fatti o luoghi è puramente casuale. Ringraziamenti Come per tutti i miei romanzi, sarei irriconoscente se non ringraziassi mia moglie Cathy. Dopo dodici anni, è sempre come se fosse il primo giorno. Ti amo. Vorrei ringraziare anche i miei cinque figli: Miles, Ryan, Landon, Lexie e Savannah. Mi fanno stare con i piedi per terra e soprattutto sono molto divertenti. Larry Kirshbaum e Maureen Egen sono stati meravigliosi nel sostenermi durante tutta la mia carriera. Vi ringrazio entrambi. (P. S. Cercate i vostri nomi in questo romanzo!) Richard Green e Howie Sanders, i miei agenti di Hollywood, sono fantastici. Grazie, ragazzi! Denise Di Novi, che ha prodotto sia Le parole che non ti ho detto sia I passi dell'amore, non è solo eccelsa in quello che fa, ma è anche diventata una mia grande amica. Il mio avvocato Scott Schwimer merita i miei ringraziamenti e la mia riconoscenza, e li ha. Sei il migliore. A mio fratello Micah e a sua moglie Christine voglio dire: vi voglio bene. Vorrei ringraziare inoltre Jennifer Romanello, Emi Battaglia ed Edna Farley per la pubblicità, Flag, che disegna le copertine delle edizioni originali dei miei romanzi, Courtenay Valenti e Lorenzo Di Bonaventura della Warner Brothers, Hunt Lowry della Gaylord Films, Mark Johnson e Lynn Harris di New Line Cinema. Se sono arrivato fin qui, lo devo a voi. Prologo Dove comincia veramente una storia? Nella vita è difficile che si verifichino inizi netti, momenti precisi nei quali, a posteriori, possiamo dire che tutto sia cominciato. Tuttavia, esistono attimi in cui il destino incrocia la nostra esistenza quotidiana, mettendo in moto una serie di eventi assolutamente inaspettati e dall'esito imprevedibile. Sono quasi le due di notte e sono sveglio. Dopo essermi infilato a letto, ieri sera, mi sono rigirato per quasi un'ora prima di gettare la spugna. Adesso sono seduto alla scrivania, con la penna in mano, a riflettere sul mio personale incontro con il destino. Mi capita spesso. Ultimamente non riesco a pensare ad altro. La casa è immersa nel silenzio, a parte il regolare ticchettio di un orologio appoggiato sulla libreria. Mia moglie dorme di sopra e mentre fisso le righe del blocco davanti a me, mi rendo conto che non so da dove cominciare. Non perché non sia sicuro della mia storia, ma perché non riesco a capire la ragione che mi spinge a raccontarla. Che cosa si può ottenere dissotterrando il passato? Dopo tutto, i fatti che sto per raccontare accaddero tredici anni fa e credo si possa tranquillamente affermare che abbiano avuto inizio almeno due anni prima. Ma oggi, seduto qui, so con certezza che devo raccontarli, se non altro per gettarmi finalmente tutto alle spalle. I ricordi di quel periodo sono sostenuti da una manciata di cose: il diario che avevo l'abitudine di tenere fin da ragazzo, una cartelletta di articoli di giornale ingialliti, le mie indagini e, ovviamente, i rapporti ufficiali. C'è anche il fatto che ho rivissuto gli avvenimenti di questa storia centinaia di volte nella mia mente; ormai sono incisi nella memoria. Ma la storia sarebbe incompleta, se si basasse solo su questi elementi. Altre persone vi furono coinvolte e, pur essendo stato testimone diretto di alcuni fatti, non fui sempre presente. Mi rendo conto che è impossibile ricreare le emozioni o i pensieri di un'altra persona in ogni circostanza, ma è quello che cercherò di fare, nel bene e nel male. Questa è, prima di tutto, una storia d'amore e, come tante altre, quella di Miles Ryan e Sarah Andrews ha radici nella tragedia. Nel contempo è una storia di perdono e quando avrete finito di leggerla spero capirete le sfide che Miles e Sarah dovettero affrontare. Spero che capirete le loro decisioni, buone e cattive, come mi auguro che alla fine comprenderete anche le mie. Voglio essere chiaro, però: questa non è semplicemente la storia di Sarah Andrews e Miles Ryan. Se c'è un inizio da qualche parte, si trova in Missy Ryan, fidanzata fin dal liceo con Miles. Come lui, anche Missy era cresciuta a New Bern. Tutti la ricordano come una ragazza estroversa e gentile, con capelli castano scuro e occhi ancora più scuri. Mi è stato detto che parlava con un accento che faceva sciogliere il cuore degli uomini. Era pronta al riso, sapeva ascoltare e spesso toccava il braccio del suo interlocutore, quasi per invitarlo a far parte del suo mondo. Come per la maggior parte delle donne del Sud, la sua volontà era più forte di quanto apparisse al principio. Era lei, e non Miles, la padrona di casa; come regola generale, gli amici di Miles erano i mariti delle amiche di Missy e la loro vita ruotava attorno alla famiglia. Alle superiori Missy era una ragazza pompon. Era molto popolare e benvoluta e, pur conoscendo di nome Miles Ryan, non frequentavano le stesse lezioni, perché lui era di un anno più grande. Non aveva importanza. Presentati da amici comuni, cominciarono ad andare fuori a pranzo e a parlare dopo le partite, e alla fine si accordarono per partecipare insieme a una festa di fine anno. Ben presto diventarono inseparabili e quando lui la invitò al ballo scolastico qualche mese più tardi, si erano innamorati. So che alcuni storceranno il naso all'idea che il vero amore possa nascere quando si è così giovani. Per Miles e Missy, tuttavia, in un certo senso il loro legame era più forte di quello vissuto da persone più adulte, perché non era temperato dalle durezze della vita. Uscirono insieme per tutti gli anni delle superiori e quando Miles andò all'Università della North Carolina rimasero fedeli uno all'altra. L'anno seguente Missy lo raggiunse all'università e quando, tre anni dopo, una sera a cena Miles le chiese di sposarlo, lei pianse, rispose di sì e passò l'ora successiva al telefono per dare alla sua famiglia la notizia, mentre lui finiva di mangiare da solo. Miles rimase a Raleigh finché Missy non si laureò e al loro matrimonio a New Bern partecipò praticamente tutta la città. Missy trovò un impiego alla Wachovia Bank e Miles iniziò il tirocinio per diventare vicesceriffo. Lei era incinta di due mesi quando lui cominciò a lavorare per la contea di Craven, pattugliando strade che gli erano sempre state familiari. Come molte altre giovani coppie, acquistarono la loro prima casa e alla nascita di Jonah, nel gennaio dell'81, Missy diede un'occhiata al neonato e capì che la maternità era la cosa più bella che le fosse capitata. Sebbene Jonah non avesse dormito di notte fino a sei mesi e a volte le venisse voglia di mettersi a strillare come suo figlio, Missy lo amava più di quanto avrebbe mai creduto possibile. Era una madre meravigliosa. Lasciò il lavoro per dedicarsi completamente a Jonah; gli leggeva storie, giocava con lui e lo portava ai giardinetti per fargli incontrare altri bambini. Era capace di passare ore a guardarlo. Quando il piccolo compì cinque anni, Missy sentì il desiderio di un altro figlio e lei e Miles cominciarono a cercare di averlo. I sette anni di matrimonio furono il periodo più felice della loro vita. Ma nell'agosto del 1986, all'età di ventinove anni, Missy Ryan rimase uccisa. La sua morte spense la luce negli occhi di Jonah; ossessionò Miles per due anni. Preparò la strada a quanto sarebbe avvenuto in seguito. Come ho detto, questa è la storia di Missy, oltre che di Miles e di Sarah. Ed è anche la mia storia. Anch'io ho avuto parte in quello che accadde. Capitolo primo La mattina del 29 agosto 1988, a poco più di due anni dalla morte della moglie, Miles Ryan era nella veranda posteriore della casa a fumare, mentre osservava il sole nascente tingere d'arancio il cielo. Davanti a lui scorreva il fiume Trent, le acque melmose nascoste in parte dai cipressi che crescevano fitti sulle rive. Il fumo della sigaretta si alzava in spirali e Miles avvertiva già l'umidità che andava appesantendo l'aria. Poco dopo, gli uccelli intonarono il loro canto mattutino, diffondendo una melodia di striduli cinguettii. Una barchetta passò davanti alla casa, il pescatore lanciò a Miles un saluto con la mano a cui lui rispose con un lieve cenno del capo. Era il massimo che le sue energie gli consentivano. Aveva bisogno di una tazza di caffè. Poi sarebbe stato pronto ad affrontare la giornata: accompagnare Jonah a scuola, tenere a bada i trasgressori locali, consegnare lettere di sfratto in tutta la contea, oltre ad affrontare le altre grane che si sarebbero presentate, come incontrare l'insegnante di suo figlio nel pomeriggio. E questo solo per cominciare. Le serate sembravano anche più impegnative. C'era sempre tanto da sbrigare per mandare avanti la casa: conti da pagare, la dispensa da riempire, le pulizie, le piccole riparazioni domestiche. Persino nei rari momenti in cui si ritrovava con un po’ di tempo libero, Miles era indotto a sfruttarlo in qualche modo, altrimenti sarebbe andato sprecato. Presto, trova qualcosa da leggere. Sbrigati, hai solo pochi minuti per riposarti. Chiudi gli occhi, a breve non ce ne sarà più l'occasione. Alla lunga sarebbe bastato a sfinire chiunque, ma che poteva farci? Gli ci voleva assolutamente un caffè. La nicotina non gli faceva più effetto. Aveva pensato di smettere di fumare, ma, in fondo, era irrilevante. Era convinto di non essere un grande fumatore. Certo, qualche sigaretta nel corso della giornata, ma non era come far fuori un pacchetto al giorno e non era nemmeno un vizio che aveva da sempre; aveva cominciato alla morte di Missy e poteva smettere in qualsiasi momento. Quindi perché prendersela tanto? Che diamine, i suoi polmoni erano a posto... giusto la settimana prima aveva rincorso un ladro fuori da un negozio e non aveva avuto problemi ad acciuffare il ragazzo. Un fumatore non ci sarebbe riuscito. A dire la verità, non era stato facile come quando aveva ventidue anni. Ma ne erano passati dieci, da allora, e anche se non era certo decrepito, di sicuro stava invecchiando. E se lo sentiva addosso; all'università, lui e i suoi amici cominciavano la serata verso le undici e poi andavano avanti tutta la notte. Negli ultimi tempi, invece, a parte quando gli capitava di lavorare di sera, alle undici era già tardi e anche se faceva fatica ad addormentarsi, andava a letto lo stesso. Non riusciva a trovare un valido motivo per restare alzato. La stanchezza era diventata un elemento costante nella sua vita. Perfino durante le notti in cui Jonah non aveva incubi - quei brutti sogni così frequenti dopo la morte della madre - Miles si svegliava... stanco. Confuso. Intontito. In genere attribuiva quello sfinimento alla sua vita frenetica; ma a volte si chiedeva se non ci fosse qualcosa che non andava in lui. Aveva letto che uno dei sintomi della depressione è "un insolito stato letargico, senza causa né ragione". Certo, lui la causa ce l'aveva... Quello di cui in realtà aveva bisogno era qualche giorno di pace in una casetta sul mare, giù a Key West, un posto dove andare a pesca di halibut, oppure riposarsi dondolando pigramente su un'amaca con in mano una birra fredda, e con la prospettiva di dover decidere solo se infilarsi o meno i sandali per andare a passeggiare sulla sabbia in compagnia di una bella donna. C'era anche questo. La solitudine. Era stanco di essere solo, di svegliarsi in un letto vuoto, anche se quella sensazione lo coglieva ancora di sorpresa. Aveva cominciato a provarla di recente. Nel primo anno dopo la morte di Missy, non riusciva nemmeno a immaginare di amare un'altra donna. Mai. Era come se il desiderio, la passione e l'amore non fossero altro che possibilità teoriche senza nessun aggancio con la vita reale. Anche ora, dopo essere sopravvissuto a uno sgomento e un dolore tanto forti da farlo piangere tutte le notti, la sua vita continuava a sembrargli sbagliata, come se fosse uscita temporaneamente dai binari. Ma ben presto si sarebbe raddrizzata, perciò non c'era motivo di prendersela troppo. A pensarci bene, molte cose non erano cambiate dopo il funerale. Le bollette continuavano ad arrivare, Jonah aveva bisogno di mangiare, il prato andava tagliato. Lui aveva ancora un lavoro. Una volta, dopo troppe birre, Charlie, il suo migliore amico nonché il suo capo, gli aveva chiesto che cosa si provasse a perdere la moglie e Miles aveva risposto che non gli sembrava che Missy se ne fosse andata sul serio. Aveva piuttosto la sensazione che fosse partita per il weekend e lo avesse incaricato di occuparsi del figlio durante la sua assenza. Con il passare del tempo, anche lo stordimento a cui si era abituato era svanito. Al suo posto era subentrata la realtà. Per quanto si sforzasse di andare avanti, la mente di Miles era ancora attaccata a Missy. Sembrava che tutto gliela ricordasse, soprattutto Jonah, che le assomigliava ogni giorno di più. A volte, fermandosi sulla porta della sua cameretta dopo avergli rimboccato le coperte, rivedeva la moglie nei tratti infantili del figlio ed era costretto a voltarsi prima che il bambino si accorgesse delle sue lacrime. Ma quell'immagine restava con lui per ore; gli piaceva l'aspetto di Missy quando dormiva, i lunghi capelli castani sparsi sul cuscino, un braccio sempre abbandonato sopra la testa, le labbra socchiuse, il lieve movimento del petto mentre respirava. Non avrebbe mai dimenticato l'odore della sua pelle. La mattina del primo Natale dopo la sua morte, mentre era in chiesa, Miles aveva colto una lieve scia del profumo che Missy usava ed era rimasto aggrappato a quel dolore acuto come un naufrago al salvagente. Si aggrappava anche ad altri ricordi. Nei primi tempi del matrimonio, lui e Missy pranzavano da Fred & Clara s, un ristorantino nella via dov'era la banca in cui lei lavorava. Era appartato, tranquillo e quell'ambiente intimo e famigliare dava l'impressione che tra loro non sarebbe mai cambiato niente. Non ci erano più stati così spesso dalla nascita di Jonah, ma Miles ci tornò dopo che lei se n'era andata, quasi sperando di trovare attaccato alle pareti qualche brandello di quelle sensazioni. Anche a casa la sua vita scorreva secondo i ritmi impostati da lei. Dato che Missy andava al supermercato il giovedì pomeriggio, Miles faceva lo stesso. Missy riteneva che il Lysol fosse il detersivo migliore per la cucina e perciò lui non vedeva motivo di cambiarlo. In tutto quello che faceva, c'era sempre Missy. Ma ad un certo punto, la primavera precedente, qualcosa era cominciato a cambiare. Era successo senza preavviso e Miles lo aveva avvertito immediatamente. Mentre andava in macchina in centro, si era sorpreso a fissare una giovane coppia che camminava mano nella mano lungo il marciapiede. E per un attimo soltanto si era immaginato al posto dell'uomo, e che la donna fosse con lui. Oppure, se non lei, un'altra... qualcuno che amasse non soltanto lui, ma anche Jonah. Una donna che lo facesse ridere, con cui bere una bottiglia di vino durante una cena in allegria, una donna da stringere e da toccare, con la quale parlare piano dopo aver spento la luce. Una come Missy, aveva pensato, e la sua immagine aveva subito scatenato un senso di colpa e di tradimento che lo aveva sopraffatto, cancellando per sempre dalla sua mente quella giovane coppia. Almeno così credeva. Più tardi quella sera, dopo essersi infilato a letto, si era scoperto a pensare di nuovo a loro. E questa volta i sensi di colpa erano stati meno forti. In quel momento Miles si era reso conto di aver compiuto il primo passo, per quanto piccolo, verso la rassegnazione per la perdita subita. Cominciò a giustificare la sua nuova condizione dicendosi che adesso era vedovo, che era naturale provare simili sensazioni. Sapeva che nessuno l'avrebbe contraddetto. Nessuno si aspettava che trascorresse il resto della vita da solo; nei mesi precedenti gli amici si erano persino offerti di combinargli qualche appuntamento. Inoltre sapeva che Missy avrebbe voluto che si risposasse. Glielo aveva detto più di una volta... come la maggior parte delle coppie, avevano spesso fatto il gioco dell""e se", e pur non immaginando che potesse mai accadere davvero nulla di terribile, erano stati entrambi d'accordo che non sarebbe stato giusto per Jonah crescere con un genitore solo. Non sarebbe stato giusto neppure per il coniuge sopravvissuto. Però sembrava ancora troppo presto. Con il passare dell'estate, l'idea di trovare un'altra cominciò ad affiorare con maggiore frequenza e intensità. Missy c'era ancora, Missy ci sarebbe sempre stata... eppure Miles cominciava a pensare più seriamente a cercare una persona con cui condividere la vita. A notte fonda, mentre consolava Jonah sulla sedia a dondolo in veranda era l'unico modo per placare i suoi incubi - quei pensieri si rafforzavano e seguivano sempre il medesimo corso. Il potrei trovare qualcuno diventava vorrei e alla fine cambiava in dovrei. A questo punto però, per quanto desiderasse che fosse diversamente, i suoi pensieri tornavano indietro al non lo farò. La ragione era in camera da letto. Sul suo comodino, in una cartelletta rigonfia, c'era la pratica relativa alla morte di Missy, con il materiale che lui aveva raccolto per conto proprio nei mesi successivi al funerale. La teneva con sé per non dimenticare l'accaduto né il lavoro che gli restava ancora da fare. La teneva per ricordare il proprio fallimento. Pochi minuti più tardi, dopo aver spento la sigaretta sulla ringhiera ed essere tornato dentro, Miles si versò l'agognato caffè e si avviò lungo il corridoio. Jonah dormiva ancora quando socchiuse la porta e infilò dentro la testa. Bene, gli restava ancora un po’ di tempo. Si diresse verso il bagno. Dopo aver aperto il rubinetto, la doccia brontolò e sibilò per un momento prima che uscisse l'acqua. Miles si lavò e si rase. Passandosi il pettine tra i capelli, notò ancora una volta che gli sembravano diradati. Infilò velocemente l'uniforme, poi prese la fondina dalla cassetta di sicurezza sopra la porta della camera e se l'allacciò. Dal corridoio udì Jonah che si muoveva nel letto. Quando entrò in camera sua, il figlio lo guardò con occhi assonnati. Era seduto, i capelli arruffati. Era sveglio da poco. Miles sorrise. "Buon giorno, campione". Jonah alzò gli occhi, al rallentatore. "Ciao, papà". "Pronto per la colazione?" Il bambino stirò le braccia ai lati del corpo, sbadigliando. "Posso avere le frittelle?" "Che ne diresti delle cialde, invece? Siamo un po’ in ritardo". Jonah si allungò a prendere le mutande pulite che il padre gli aveva preparato la sera prima. "Lo dici tutte le mattine". Miles scrollò le spalle. "Sei in ritardo tutte le mattine". "Allora svegliami prima". "Ho un'idea migliore: perché non vai a letto quando te lo dico?" "Ma la sera non ho sonno. Sono stanco solo di mattina". "Benvenuto nel club". "Come?" "Niente, niente", rispose Miles. Poi indicò il bagno. "Non dimenticare di pettinarti dopo esserti vestito". "Va bene", disse Jonah. Le mattine seguivano quasi sempre la stessa routine. Miles metteva le cialde nel tostapane e si versava un'altra tazza di caffè. Quando Jonah arrivava in cucina, lavato e vestito, la cialda era pronta sul piatto con un bicchiere di latte. L'aveva già spalmata di burro, ma a suo figlio piaceva versarsi lo sciroppo da solo. Lui intanto preparava la propria e per qualche minuto restavano in silenzio. Jonah sembrava ancora immerso in un mondo tutto suo e anche se aveva bisogno di parlargli, il padre aspettava che fosse in grado di connettere. Dopo un po', Miles si schiarì la gola. "Allora, come va a scuola?" Jonah alzò le spalle. "Bene, credo". Anche questa domanda faceva parte della routine. Miles chiedeva sempre come andava a scuola; lui rispondeva sempre che andava bene. Ma quella mattina, mentre preparava la cartella di Jonah, aveva trovato un biglietto della maestra che lo pregava di passare da lei nel pomeriggio. Qualcosa in quel breve messaggio gli aveva dato la sensazione che si trattasse di una faccenda più seria di un semplice colloquio scolastico. "Ti trovi bene in classe?" Jonah alzò le spalle. "Uhhuh". "Ti piace la maestra?" Jonah annuì tra un boccone e l'altro e ripeté: "Uhhuh". Miles aspettò per vedere se volesse aggiungere qualcosa, ma lui rimase zitto. Allora gli si fece più vicino. "Allora perché non mi hai detto del biglietto che la maestra ti ha dato da portare a casa?" "Quale biglietto?" chiese Jonah in tono innocente. "Quello che avevi nello zaino... quello che la maestra voleva che io leggessi". Jonah scrollò le spalle, alzandole ed abbassandole come le cialde nel tostapane. "Devo essermene dimenticato". "Come hai potuto dimenticarti di una cosa del genere?" "Non so". "Sai perché mi vuole incontrare?" "No..." Jonah ebbe un'esitazione e Miles capì subito che il figlio non gli diceva la verità. "Ehi, hai qualche problema a scuola?" Jonah alzò lo sguardo dal piatto. Il padre lo chiamava così solo quando aveva fatto qualcosa di sbagliato. "No, papà. Non dico una bugia. Lo giuro". "Allora che cosa c'è?" "Non so". "Prova a pensarci". Jonah si agitava sulla sedia, sapendo di aver portato al limite la pazienza del padre. "Ecco, credo di avere qualche problema con i compiti". "Mi sembrava avessi detto che a scuola andavi bene". "La scuola va bene. La signorina Andrews è davvero simpatica. Mi piace". Fece una pausa. "Solo che a volte non capisco proprio tutto quello che facciamo in classe". "La scuola serve proprio a questo. A farti imparare". "Lo so", rispose Jonah, "ma non è come con la signora Hayes l'anno scorso. La nuova maestra ci dà dei compiti difficili. A volte non riesco a farli". Aveva un'espressione spaventata e imbarazzata allo stesso tempo. Miles posò una mano sulla spalla del figlio. "Perché non me lo hai detto prima, che avevi dei problemi?" Jonah impiegò molto tempo a rispondere. Alla fine disse: "Perché non volevo che ti arrabbiassi con me". Miles aiutò il figlio a infilare lo zaino e lo accompagnò alla porta. Il bambino non aveva parlato molto dopo la colazione. Lui si accovacciò e lo baciò sulla guancia. "Non preoccuparti per oggi pomeriggio. Andrà tutto bene, sai?" "Sì", borbottò Jonah. "E non dimenticare che passo a prenderti io, quindi non salire sullo scuolabus". "Sì". "Ti voglio bene, campione". "Anch'io ti voglio bene, papà". Miles lo guardò incamminarsi verso la fermata in fondo all'isolato. Sapeva che sua moglie non si sarebbe sorpresa di quanto era successo quella mattina. Lei di certo avrebbe già capito che Jonah aveva dei problemi a scuola. Era Missy a occuparsi di queste cose. Era lei a occuparsi di tutto. Capitolo secondo La sera prima del colloquio con il padre di Jonah, Sarah Andrews procedeva velocemente per il centro storico di New Bern, facendo del suo meglio per non perdere il passo. Anche se voleva tenersi in allenamento - da cinque anni era diventata un'accanita marciatrice - da quando si era trasferita lì le risultava difficile fare esercizio. Tutte le volte che usciva, trovava sempre qualcosa che attirava la sua attenzione, inducendola a fermarsi. New Bern, fondata nel 1710, sorgeva sulle rive dei fiumi Neuse e Trent nella parte orientale della North Carolina. Era la seconda città più vecchia dello stato, di cui un tempo era stata la capitale. Ospitava il palazzo Tryon, la residenza coloniale del governatore. Distrutto da un incendio nel 1798, il palazzo era stato ricostruito nel 1954 e dotato di un magnifico giardino. Tulipani e azalee fiorivano a profusione ogni primavera e in autunno sbocciavano i crisantemi. Sarah lo aveva visitato appena arrivata in città. Pur essendo una stagione morta, era uscita da lì con l'intenzione di trovare una casa nelle vicinanze, per poterci passare davanti tutti i giorni. Si era sistemata in un caratteristico appartamento in Middle Street, nel cuore della cittadina e vicino alla farmacia dove, nel 1898, Caleb Bradham aveva messo in commercio per la prima volta la bevanda Brad" s, destinata a diventare famosa in tutto il mondo con il nome di Pepsi-Cola. Dietro l'angolo c'era la chiesa episcopale, un imponente edificio settecentesco di mattoni ombreggiato da gigantesche magnolie. Quando usciva di casa per la sua passeggiata Sarah attraversava il centro diretta verso Front Street, dove sorgevano le dimore più vecchie ed eleganti della città. La maggior parte degli edifici storici era stata restaurata con cura nel corso degli ultimi cinquant'anni. E a differenza di Williamsburg, in Virginia, dove erano ricorsi a una sovvenzione della fondazione Rockefeller, New Bern si era appellata ai suoi cittadini per ottenere i fondi necessari. Il senso di appartenenza a quella comunità aveva spinto i suoi genitori a tornarci quattro anni prima; Sarah invece non sapeva nulla di New Bern finché non ci era venuta ad abitare nel giugno precedente. Mentre camminava, rifletteva sulle differenze tra New Bern e Baltimora, dov'era nata e vissuta fino a pochi mesi prima. Pur avendo una storia illustre, Baltimora era prima di tutto una metropoli. New Bern, al contrario, era una piccola città del Sud, abbastanza isolata e sostanzialmente poco incline a tenersi al passo con i ritmi di vita sempre più frenetici della società moderna. Lì la gente le rivolgeva sempre un cenno di saluto vedendola passare e dava alle sue domande una lunga, lenta risposta, in genere punteggiata di riferimenti a fatti e persone di cui lei era completamente all'oscuro, come se tutto e tutti fossero necessariamente collegati. Di solito quel modo di fare le piaceva, ma a volte le dava sui nervi. I suoi genitori si erano trasferiti lì dopo che il padre aveva accettato l'incarico di amministratore all'ospedale regionale di Craven. E una volta che la pratica di divorzio di Sarah si era conclusa, l'avevano spronata a raggiungerli. Conoscendo la madre, lei aveva tergiversato per un anno. Certo, le voleva bene... ma è che a volte riusciva ad essere così spossante. In ogni caso, alla fine aveva accettato il consiglio, per amor di pace, e finora, grazie al cielo, non se ne era pentita. Era esattamente quello che le serviva, ma per quanto la città fosse incantevole, non era certo un posto dove fermarsi a vivere per sempre. Aveva capito quasi subito che New Bern non era fatta per i single. Non c'erano molti luoghi d'incontro e tutti i coetanei che aveva conosciuto erano sposati con figli. Come in molte città del Sud, vigeva ancora un preciso ordine sociale che regolava la vita cittadina. Una donna sola difficilmente vi avrebbe trovato una collocazione. Specialmente se era divorziata e veniva da fuori. Tuttavia quello sembrava proprio il luogo ideale per allevare dei bambini e a volte, mentre marciava, Sarah indugiava ad immaginare per sé un destino diverso. Da ragazzina era sempre stata convinta che il futuro le avrebbe riservato una vita fatta di matrimonio, figli e una casa in un quartiere dove le famiglie si riunivano in giardino il venerdì sera al termine della settimana di lavoro. Era il tipo di vita che aveva sperimentato da bambina ed era quello che voleva da grande. Ma non era andata così, come spesso succede. Per un po’ aveva in effetti creduto che quella sarebbe stata la sua strada, specialmente dopo aver conosciuto Michael. Lei si stava diplomando in pedagogia mentre lui si era appena laureato in scienze economiche a Georgetown. La sua famiglia, una delle più illustri di Baltimora, aveva fatto fortuna con le banche ed era incredibilmente ricca e affiatata, il genere di famiglia i cui membri siedono nel consiglio di amministrazione di numerose società e prendono decisioni politiche nei più esclusivi country club. Michael, invece, sembrava un uomo dalle idee meno tradizionali ed era considerato una specie di pecora nera. Le teste si giravano quando entrava in una stanza e lui, consapevole dell'attenzione che suscitava, fingeva che l'opinione degli altri non gli importasse. "Fingeva", ovviamente, quella era la parola chiave. Come tutte le sue amiche, Sarah sapeva bene chi fosse, ed era rimasta sorpresa quando lui le si era avvicinato a una festa per presentarsi. Avevano legato subito. Un breve scambio di battute aveva portato a una conversazione più lunga in un bar il giorno successivo e quindi a una cena. Ben presto avevano cominciato a vedersi regolarmente, e lei si era innamorata. Dopo un anno Michael le aveva chiesto di sposarlo. La madre di Sarah era al settimo cielo quando le avevano comunicato la notizia, mentre il padre non si era sbilanciato troppo, dicendo soltanto che si augurava che lei fosse felice. Forse sospettava qualcosa, forse era vissuto abbastanza a lungo da sapere che le belle favole si avverano di rado. Al momento Sarah non si era soffermata a riflettere sul motivo delle sue riserve, tranne quando Michael le aveva chiesto di firmare un accordo prematrimoniale. Le aveva spiegato che era stata la sua famiglia ad insistere al riguardo, ma per quanto si sforzasse di gettare tutto il biasimo sui genitori, una parte di lei sospettava che, se non lo avessero fatto loro, lui lo avrebbe preteso lo stesso. Nonostante questo, aveva firmato i documenti. Quella sera i genitori di Michael avevano dato un fastoso ricevimento per annunciare ufficialmente il fidanzamento del figlio. Sarah e Michael si sposarono sette mesi dopo. Trascorsero la luna di miele in Grecia e in Turchia e, quando tornarono a Baltimora, si stabilirono in una casa a meno di due isolati da quella dei genitori di lui. Pur non avendo necessità di lavorare, lei iniziò a insegnare in una scuola elementare del centro. Michael aveva condiviso totalmente la sua decisione, ma allora succedeva sempre così. Nei primi due anni di matrimonio sembrava tutto perfetto: nei fine settimana trascorrevano ore ed ore a letto, a parlare ed a fare l'amore. Fu in una di quelle occasioni che lui le confidò il proprio sogno di entrare in politica. Avevano una larga cerchia di amicizie, quasi tutte persone che Michael conosceva da una vita, ed erano sempre invitati a qualche festa o a trascorrere il weekend fuori città. Il resto del tempo libero lo passavano a Washington, visitando musei, andando a teatro e passeggiando tra i monumenti di Capitol Mail. Proprio lì, mentre erano all'interno del Lincoln Memorial, Michael le comunicò di essere pronto a mettere su famiglia. Lei gli gettò le braccia al collo non appena udì quelle parole, niente avrebbe potuto renderla più felice. Chi può spiegare quello che accadde poi? Diversi mesi dopo il fatidico giorno al Lincoln Memorial, Sarah non era ancora incinta. Il dottore le disse di non preoccuparsi, che a volte occorreva un po’ di tempo dopo aver smesso la pillola, ma le consigliò di tornare a farsi visitare se avessero continuato a esserci delle difficoltà. Le difficoltà continuarono e a quel punto vennero fatte le analisi. Sarah e Michael andarono nello studio del medico per sapere l'esito degli esami e a lei bastò dare un'occhiata al ginecologo, mentre gli stava seduta di fronte, per capire che qualcosa non andava. In effetti, non avrebbe mai potuto avere figli. Una settimana dopo Sarah e Michael ebbero il primo scontro. Lui non era tornato a casa dal lavoro e lei lo aveva aspettato per ore, camminando su e giù, chiedendosi perché non avesse chiamato e immaginandosi già qualche tremenda sciagura. Quando arrivò, lei era fuori di sé e lui ubriaco. "Non sono una tua proprietà", fu tutto quello che le disse a mò di spiegazione. La discussione degenerò rapidamente e nell'impeto del momento si scambiarono frasi terribili. Più tardi Sarah se le rimangiò; e Michael si scusò. Ma, da allora, lui si mostrò più distante e riservato. Quando lo apostrofava, negava che fosse cambiato qualcosa. "Si sistemerà tutto", la rassicurava, "ce la faremo". E, invece, la situazione peggiorava costantemente. Con il passare dei mesi le discussioni si intensificarono, la distanza tra loro crebbe sempre di più. Una sera, quando lei tornò a proporre di adottare un bambino, Michael liquidò il suggerimento con un'alzata di spalle. "I miei non lo accetteranno mai". Lei intuì che quella notte il loro rapporto aveva compiuto una svolta irreversibile. Non erano state le sue parole a rivelarlo, né il fatto che Michael sembrasse prendere le parti dei genitori. Fu l'espressione della sua faccia a farle capire... che di colpo lui sembrava considerarlo un problema che non lo riguardava affatto. A meno di una settimana di distanza trovò Michael in salotto, con un bicchiere di bourbon in mano. Dal suo sguardo appannato era evidente che non era il primo. Voleva il divorzio, esordì; era sicuro che lei capisse. Quando smise di parlare, Sarah fu incapace di ribattere alcunché. Il matrimonio era finito. Era durato meno di tre anni. Lei ne aveva solo ventisette. Dei dodici mesi successivi aveva un ricordo indistinto. Tutti volevano sapere che cosa fosse successo; Sarah non disse a nessuno la verità, a eccezione dei suoi genitori. "Non ha funzionato", era l'unica spiegazione che dava a chi la interrogava sulle ragioni del fallimento. Non sapendo che altro fare, continuò a insegnare. Si incontrava anche due volte alla settimana con una psicologa, Sylvia. Quando poi Sylvia le consigliò di partecipare a un gruppo di sostegno, frequentò qualche riunione. In genere si limitava ad ascoltare gli altri in silenzio, illudendosi di stare meglio. Ma a volte, mentre era sola nel suo appartamentino, la realtà della situazione le crollava addosso, facendola piangere per ore. Durante uno dei periodi più neri arrivò addirittura a pensare al suicidio, ma non lo disse a nessuno. Fu allora che si rese conto di dover andarsene da Baltimora, in un luogo dove poter ricominciare. Un posto dove i ricordi non fossero tanto dolorosi, dove non fosse mai vissuta prima. Adesso, marciando per le strade di New Bern, faceva del suo meglio per sopravvivere. A volte era ancora penoso, ma molto meno di prima. I genitori le offrivano sostegno a modo loro - il padre non affrontava mai l'argomento, la madre ritagliava articoli di giornale sui progressi della medicina nella cura della sterilità - ma era stato suo fratello Brian la sua vera àncora di salvezza, prima che partisse per andare all'università. Come molti adolescenti, a volte era distante ed introverso, ma sapeva ascoltare con attenzione. Ogni volta che lei aveva avuto bisogno di parlare lui era stato disponibile e adesso che era partito Sarah sentiva molto la sua mancanza. Erano sempre stati affiatati; essendo la sorella maggiore, quando era piccolo gli aveva cambiato i pannolini e lo aveva imboccato non appena la madre glielo aveva permesso. In seguito, quando aveva iniziato la scuola, lei lo aveva aiutato con i compiti ed era stato proprio allora che si era resa conto di voler diventare maestra. Una decisione di cui non si era mai pentita. Le piaceva insegnare, lavorare con i bambini. Tutte le volte che entrava in una nuova classe e vedeva trenta faccine che la fissavano ansiose, sapeva di aver scelto la carriera giusta. Nei primi tempi, come tutte le giovani insegnanti, era stata un'idealista, convinta che qualunque bambino potesse risponderle se lei lo stimolava nel modo giusto. Purtroppo, con il passare degli anni aveva imparato che non era possibile. Alcuni bambini, per motivi diversi, si chiudevano e rifiutavano tutto quello che lei proponeva, nonostante i suoi sforzi. Era la parte peggiore del lavoro, l'unico aspetto che a volte la teneva sveglia di notte, anche se non rinunciava a riprovarci. Sarah si asciugò il sudore dalla fronte, grata che l'aria si stesse finalmente rinfrescando. Il sole stava tramontando all'orizzonte e le ombre si allungavano. Mentre passava davanti alla caserma dei vigili del fuoco, due pompieri seduti su sedie da giardino la salutarono con un cenno del capo. Sorrise. A quanto pareva, in quella città non scoppiava mai un incendio al tramonto, perché da quattro mesi li vedeva tutte le sere lì, alla stessa ora, seduti esattamente nello stesso punto. New Bern. Si rese conto che la sua vita aveva preso un ritmo semplice da quando si era trasferita lì. Anche se a volte rimpiangeva l'energia e la velocità metropolitane, doveva riconoscere che rallentare aveva i suoi vantaggi. Nel corso dell'estate aveva trascorso ore ed ore a curiosare tra i negozi di antiquariato del centro o semplicemente a osservare le barche a vela ormeggiate dietro lo Sheraton. Anche ora che era ricominciata la scuola, non andava mai di fretta. Lavorava e marciava e, a parte qualche visita ai genitori, trascorreva la maggior parte delle serate da sola, ad ascoltare musica classica e a preparare le lezioni consultando il materiale didattico che si era portata da Baltimora. E le andava bene così. Essendo nuova della scuola, i suoi programmi avevano bisogno ancora di qualche aggiustamento. Aveva scoperto che molti alunni della sua classe erano rimasti indietro in molte materie fondamentali ed era stata costretta a rallentare il proprio piano delle lezioni per inserire più ore di sostegno. Non era rimasta sorpresa; ogni scuola procedeva con un ritmo diverso. Ma era convinta che alla fine dell'anno gran parte degli alunni avrebbe terminato il programma. Però c'era uno scolaro che la preoccupava in modo particolare. Jonah Ryan. Era un bambino abbastanza simpatico: timido e tranquillo, del genere che non dà problemi di disciplina. Il primo giorno di scuola era rimasto seduto tranquillo in fondo all'aula e aveva risposto educatamente alle sue domande, ma gli anni di esperienza a Baltimora le avevano insegnato a prestare molta attenzione a soggetti come quello. A volte non significava niente; altre volte voleva dire che cercavano di nascondersi. Dopo aver chiesto alla classe di consegnare il primo compito fatto a casa, si era riproposta di valutare con attenzione il lavoro di Jonah. Non era stato necessario. Il compito - un breve resoconto di quello che avevano fatto durante l'estate - era un metodo molto rapido che permetteva a Sarah di giudicare come sapevano scrivere i bambini. La maggior parte dei temi conteneva il solito assortimento di errori di grammatica, pensieri incompleti e grafia incerta, ma quello di Jonah era diverso. Aveva messo correttamente il suo nome nell'angolo superiore del foglio, ma poi, invece di scrivere qualche paragrafo, aveva fatto un disegno di lui che pescava da una barchetta. Quando gli aveva chiesto perché non avesse svolto il compito, Jonah le aveva spiegato che la signora Hayes gli aveva sempre permesso di disegnare, perché "non so scrivere bene". Nella testa di Sarah era suonato subito un campanello d'allarme. Aveva sorriso e si era chinata, per essere più vicina al bambino. "Puoi farmi vedere?" gli aveva chiesto. Dopo una lunga esitazione Jonah aveva annuito riluttante. Mentre i compagni svolgevano un'altra attività, Sarah era rimasta seduta con lui, che cercava di fare del suo meglio. Fu subito evidente che era inutile: Jonah non sapeva scrivere. Più tardi, lo stesso giorno, Sarah scoprì che riusciva anche a leggere a stento e che in aritmetica le cose non andavano molto meglio. Se avesse dovuto indovinare il suo grado di alfabetizzazione, avrebbe pensato che fosse appena all'inizio della scuola elementare. Il suo primo pensiero fu che Jonah soffrisse di qualche disturbo dell'apprendimento, per esempio di dislessia. Ma dopo aver trascorso una settimana con lui, le sembrò che non fosse il suo caso. Non confondeva lettere e parole, capiva tutto quello che lei gli diceva e una volta che gli aveva mostrato qualcosa, da quel momento tendeva a farla correttamente. Secondo lei il suo problema derivava dal fatto che finora non era mai stato costretto a fare i compiti dalle insegnanti precedenti. Quando si era informata con le altre maestre, era venuta a sapere della mamma di Jonah e, pur provando compassione per lui, capì che non era nell'interesse di nessuno - e tantomeno del bambino - lasciar correre. Nel contempo, però, non poteva dedicargli tutte le attenzioni di cui aveva bisogno perché doveva occuparsi anche degli altri alunni. Alla fine aveva deciso di convocare il padre di Jonah per spiegargli la situazione, nella speranza di trovare insieme una soluzione al problema. Aveva già sentito parlare di Miles Ryan. Non molto, però sapeva che era benvoluto e rispettato da tutti e, soprattutto, che voleva bene al figlio. Era un buon inizio. Nella sua breve esperienza di insegnamento aveva conosciuto genitori che non si occupavano dei figli, reputandoli più una scocciatura che una benedizione, e altri che sembravano convinti che i loro rampolli non potessero mai sbagliare. Era impossibile trattare con quel genere di persone. Ma sembrava che Miles Ryan non fosse così. Raggiunto l'angolo, Sarah rallentò l'andatura, poi si fermò per lasciar passare due macchine. Attraversò la strada, fece un saluto al commesso dietro il bancone della farmacia, poi ritirò la posta prima di salire nel suo appartamento. Dopo aver aperto la porta, diede una scorsa veloce alla posta e la posò sul tavolino d'ingresso. In cucina si versò un bicchiere d'acqua gelata che portò in camera da letto. Cominciò a svestirsi, desiderava infilarsi sotto la doccia, quando vide la luce della segreteria che lampeggiava. Schiacciò il pulsante d'ascolto dei messaggi e udì la voce della madre, come al solito leggermente ansiosa, che le proponeva di passare da loro più tardi se non aveva altro da fare. Sul comodino, accanto alla segreteria, c'era una foto di famiglia: Maureen e Larry Andrews al centro, Sarah e Brian ai due lati. La segreteria scattò di nuovo, facendo partire un secondo messaggio della madre. "Oh, pensavo che fossi a casa a quest'ora..." diceva. "Spero che vada tutto bene..." Che fare? Andare o no? Era dell'umore giusto? E perché no? si disse infine. Tanto, non ho altro da fare. Miles Ryan percorreva Madame Moorè s Lane, una stradina stretta e tortuosa che seguiva il corso del Trent e del torrente Brices e andava dal centro di New Bern a Pollocksville, una frazione a una ventina di chilometri a sud. La strada, che aveva preso il nome della donna che un tempo gestiva il bordello più famoso della North Carolina, passava accanto alla casa di campagna dov'era sepolto Richard Dobbs Spaight, un eroe sudista che aveva firmato la dichiarazione d'Indipendenza. Durante la guerra civile, i soldati dell'Unione ne avevano riesumato il corpo infilandone il teschio su un cancello di ferro come ammonimento ai cittadini perché non opponessero resistenza all'occupazione. Da bambino quella storia aveva impedito a Miles di avvicinarsi troppo a quel luogo. Nonostante la sua bellezza e il relativo isolamento, quella su cui stava viaggiando era una strada pericolosa. Giorno e notte era percorsa da pesanti autocarri e i guidatori tendevano a sottovalutarne le curve. Dato che la sua casa era in una zona adiacente alla via, Miles aveva cercato per anni di far abbassare il limite di velocità. Nessuno gli aveva dato ascolto, tranne Missy. Questa strada gli faceva pensare a lei. Tirò fuori un'altra sigaretta, l'accese ed abbassò il finestrino. Mentre l'aria calda entrava in macchina, si affacciarono alla sua mente semplici istantanee della loro vita in comune che, come sempre, lo condussero inevitabilmente al loro ultimo giorno trascorso insieme. Per ironia della sorte, quella domenica lui era andato a pesca con Charlie Curtis ed era stato via a lungo. Era uscito presto e il fatto che fosse tornato con molto pesce non era bastato a pacificare l'animo di sua moglie. Missy, il viso sporco, le mani sui fianchi, lo aveva fissato con aria tetra non appena aveva messo piede in casa. Non aveva aperto bocca, ma le parole non erano necessarie: il suo sguardo era più che eloquente. Il giorno dopo sarebbero arrivati da Atlanta il fratello e la cognata e lei si era data da fare per preparare la casa per l'arrivo degli ospiti. Jonah era a letto con l'influenza, il che non facilitava le cose, dato che lei doveva occuparsi anche del figlio. Ma non era questo il motivo della sua arrabbiatura. Il motivo era proprio Miles. Pur non avendogli detto espressamente di non andare a pesca quella domenica, gli aveva chiesto di sistemare il giardino il sabato, in modo che non dovesse farlo lei. Miles era stato trattenuto tutto il giorno al lavoro e il sabato sera, invece di chiamare Charlie per disdire l'appuntamento, aveva deciso di andare a pesca lo stesso. Il suo amico lo aveva preso in giro tutto il giorno per questo: "Stanotte dormirai sul divano". Ma le faccende domestiche erano una cosa, la pesca tutt'altra e Miles era assolutamente convinto che né il fratello di Missy né sua moglie si sarebbero scandalizzati se in giardino c'erano troppe erbacce. E poi, si era detto, avrebbe sistemato tutto al ritorno, e intendeva farlo sul serio. Non era stata sua intenzione stare via tutto il giorno, ma come capitava sempre andando a pesca, una cosa tirava l'altra e ben presto si perdeva la cognizione del tempo. In ogni caso, aveva preparato un discorsetto: Non ti preoccupare, ci penso io, anche se dovessi lavorare tutta la notte con la torcia. Forse avrebbe funzionato, se le avesse comunicato le sue intenzioni prima di uscire. Ma non l'aveva fatto e, al suo ritorno, Missy aveva già sbrigato gran parte del lavoro. L'erba era stata tosata, la siepe potata e lei aveva piantato anche delle violette intorno alla cassetta delle lettere. Doveva averci impiegato ore e dire che fosse arrabbiata era un eufemismo. Nemmeno furiosa era la parola giusta. Era di un umore perfido, e lui lo sapeva. Quell'espressione l'aveva vista solo pochissime volte da quando erano sposati. Deglutì a fatica, pensieroso. "Ciao, tesoro", disse infine con aria colpevole, "mi spiace di essere così in ritardo. Il tempo è volato". Proprio mentre si accingeva ad iniziare il suo discorso, Missy gli voltò le spalle e parlò senza guardarlo. "Vado a fare una corsa. Ci puoi pensare tu qui, vero?" Restava da soffiare via l'erba dal vialetto; l'apparecchio era posato sul prato. Miles capì che non era il caso di rispondere. Dopo che lei fu entrata in casa a cambiarsi, tirò fuori la borsa frigorifera dal bagagliaio dell'auto e la portò in cucina. Stava riponendo il pesce quando Missy uscì dalla camera da letto. "Stavo mettendo via il pesce..." cominciò lui e Missy digrignò i denti. "Perché non fai quello che ti ho chiesto?" "Lo farò... lasciami solo finire qui, altrimenti il pesce si rovina". Missy alzò gli occhi al cielo. "Non fa niente. Ci penserò io quando torno". Il tono da martire. Miles non poteva sopportarlo. "Lo farò io", disse. "Ti ho detto che lo farò, no?" "Come avevi detto che avresti sistemato il prato prima di andare a pesca?" Si sarebbe dovuto mordere la lingua per stare zitto. Era vero, aveva passato tutta la giornata fuori a pesca, invece di aiutarla in casa; era vero, l'aveva abbandonata. Ma in fondo non era poi una tragedia così grave, giusto? Si trattava solo del fratello e della cognata, dopo tutto. Non aspettavano mica la visita del Presidente. Non c'era bisogno di essere così irrazionali. Accidenti, avrebbe fatto meglio a tacere. A giudicare dall'occhiata che Missy gli lanciò uscendo, sì, sarebbe stato decisamente meglio tenere la bocca chiusa. Quando lei sbatté la porta d'ingresso, Miles sentì vibrare i vetri alle finestre. Dopo che se n'era andata da un po', lui capì di aver sbagliato e si pentì. Era stato un irresponsabile e lei aveva ragione di farglielo rimarcare. Purtroppo, non ebbe più occasione di dirle che gli spiaceva. "Fumi ancora, eh?" Charlie Curtis, lo sceriffo della contea, guardò l'amico che si sedeva a tavola davanti a lui. "Io non sono un fumatore", si affrettò a rispondere Miles. L'altro alzò le mani in segno di resa. "Lo so, lo so, me l'hai già detto. Ehi, se vuoi illuderti, mi sta bene. Comunque continuerò a tirare fuori il portacenere quando arrivi". Miles rise. Charlie era una delle poche persone in città a trattarlo ancora come aveva sempre fatto. Erano amici da anni; era stato lui a suggerirgli la carriera di vicesceriffo e lo aveva preso sotto la sua ala protettiva non appena aveva terminato l'addestramento. Aveva quasi sessantacinque anni e i capelli striati di grigio. Negli ultimi tempi aveva messo su una decina di chili, quasi tutti intorno alla vita. Non era il genere di sceriffo che intimidisce le persone a prima vista, ma era sensibile e sapeva come ottenere le risposte che voleva. Nelle ultime tre elezioni nessuno si era azzardato a competere con lui. "E io non verrò più a trovarti", disse Miles, "se non la pianti con queste ridicole accuse". Erano seduti in un angolo e la cameriera, indaffarata perché era ora di pranzo, lasciò sul tavolo una brocca di tè zuccherato e due bicchieri con ghiaccio prima di dirigersi al tavolo vicino. Miles versò il tè e spinse un bicchiere verso l'amico. "Brenda ne rimarrebbe delusa", disse Charlie. "Sai che va in crisi se non le porti Jonah di tanto in tanto". Bevve un sorso di tè. "Allora, sei curioso di conoscere Sarah oggi?" Miles alzò gli occhi dal bicchiere. "Chi?" "La maestra di Jonah". "Te lo ha detto tua moglie?" Charlie fece una smorfia. Sua moglie Brenda lavorava nell'ufficio del preside ed era al corrente di tutto quello che succedeva a scuola. "Ovvio". "Com'è che si chiama?" "Brenda", rispose Charlie serio. Miles gli lanciò un'occhiataccia e lui prese un'aria innocente. "Ah, ti riferisci alla maestra? Sarah. Sarah Andrews". Miles mandò giù un sorso. "È una brava insegnante?" "Credo di sì. Brenda dice che è fantastica e che i bambini l'adorano, ma d'altronde è quello che mia moglie pensa di tutti". Fece una pausa, poi si protese in avanti, come se fosse in procinto di rivelare un segreto. "Ha anche detto che Sarah è molto carina. Uno schianto, se mi capisci". "E questo che c'entra?" "Brenda ha anche detto che è single". "E allora?" "Niente". Charlie strappò una bustina di zucchero e lo versò nel tè. Poi scrollò le spalle. "Ti ho soltanto riferito quello che mi ha detto Brenda". "Bene", replicò Miles. "Te ne sono grato. Non so come avrei fatto senza le sue valutazioni". "Dai, non prendertela. Sai che lei ti vuole bene e le piacerebbe vederti sistemato". "Dille che sto bene così". "Questo lo vedo. È Brenda che si preoccupa per te. Sa anche che fumi". "Senti un po', ci siamo visti solo perché tu potessi farmi la predica, oppure c'è un altro motivo?" "In effetti c'è. Però dovevo metterti nello stato d'animo giusto per reggere il colpo". "Di che cosa stai parlando?" Mentre faceva questa domanda, la cameriera portò due piatti di carne alla griglia con insalata di cavolo e purè, la loro solita ordinazione, e Charlie ne approfittò per raccogliere le idee. Aggiunse dell'altro condimento alla grigliata e del pepe ai cavoli e, dopo aver capito che non esisteva un modo facile per presentare la cosa, la disse come gli veniva. "Wellman ha deciso di far cadere le accuse contro Otis Timson". Harvey Wellman era il procuratore distrettuale della contea di Craven. Aveva parlato con Charlie quella mattina e si era offerto di dirlo lui a Miles, ma lo sceriffo aveva preferito riferirglielo personalmente. Miles lo guardò. "Come?" "Non ci sono prove. Beck Swanson d'improvviso dice di aver avuto un'amnesia sull'accaduto". "Ma io c'ero..." "Tu sei arrivato dopo. Non hai visto il fatto". "Ma ho visto il sangue. E la sedia e il tavolo rotti in mezzo al bar. Ho visto la folla che si era radunata". "Lo so, lo so. Ma cosa dovrebbe fare Harvey? Beck ha giurato e spergiurato di essere caduto e che Otis non lo ha mai nemmeno sfiorato. Ha detto che quella notte era in stato confusionale, ma adesso che la sua mente è tornata lucida si è ricordato tutto". Miles perse di colpo l'appetito e spinse di lato il piatto. "Se tornassi là, sono sicuro che potrei trovare un testimone". Charlie scrollò il capo. "So che ti rode, ma a che servirebbe? Sai quanti fratelli di Otis erano lì quella sera. Sosterrebbero che non è successo niente... e chissà, magari sono loro i veri colpevoli. Senza la testimonianza di Beck, che scelta aveva Harvey? E poi conosci Otis. Combinerà qualcos'altro, dagli tempo". " È questo che mi preoccupa". Lui e Otis Timson avevano una questione aperta da tempo. L'attrito tra di loro era iniziato quando Miles era stato nominato vicesceriffo otto anni prima e aveva arrestato Clyde, il padre di Otis, per aggressione: aveva lanciato la moglie oltre la porta a rete della roulotte dove vivevano. Il vecchio Clyde era stato per un po’ in prigione - anche se non a lungo come meritava - e nel corso degli anni ben cinque dei suoi sei figli erano stati al fresco con accuse che andavano dallo spaccio di droga all'aggressione, al furto d'auto. Per Miles, comunque, era Otis a rappresentare il pericolo maggiore, perché era il più astuto. Non era soltanto un piccolo delinquente, come il resto della famiglia. A differenza dei fratelli, aborriva i tatuaggi e teneva i capelli corti; in certi periodi aveva fatto anche lavori regolari, come il manovale. Non aveva l'aspetto di un delinquente, ma le apparenze ingannano. Il suo nome era collegato a diversi crimini e la gente in città mormorava che fosse lui a dirigere il traffico di droga nella contea, anche se non c'erano prove per dimostrarlo. Tutte le incursioni finora si erano rivelate un buco nell'acqua. Inoltre, Otis era un tipo vendicativo. Miles non l'aveva capito del tutto fino alla nascita di Jonah. In quel periodo aveva arrestato tre dei fratelli Timson dopo una rissa scoppiata durante una loro animata "riunione di famiglia"; una settimana dopo, mentre Missy cullava Jonah, che aveva quattro mesi, qualcuno aveva gettato in casa un mattone dalla finestra del salotto dove loro si trovavano. Per fortuna il mattone non li aveva colpiti, ma una scheggia di vetro aveva ferito Jonah sulla guancia. Anche se non poteva provarlo, Miles sospettava che Otis fosse il responsabile di quel gesto d'intimidazione e si era presentato a casa Timson - una serie di decrepite roulotte accampate alla periferia della città -, accompagnato da tre agenti con le armi in pugno. I Timson erano usciti dalle roulotte pacificamente e, senza dire una parola, si erano lasciati ammanettare e condurre in prigione. Alla fine non erano state formulate accuse contro di loro per mancanza di prove. Miles era furioso e, dopo il rilascio dei Timson, aveva affrontato il procuratore Harvey Wellman fuori dal suo ufficio. Avevano discusso ed erano quasi venuti alle mani prima che gli agenti li separassero. Negli anni successivi c'erano stati altri episodi inquietanti: colpi di fucile sparati nelle vicinanze, un misterioso incendio nel garage di casa sua, incidenti molto simili a bravate giovanili. Ma ancora una volta, in mancanza di testimoni, Miles non aveva potuto farci niente. Dopo la morte di Missy la situazione si era un po’ calmata. Fino all'ultimo arresto. Charlie alzò lo sguardo dal piatto con espressione seria. "Ascolta, tu e io sappiamo che è colpevole, ma non pensare nemmeno di sistemare la faccenda a modo tuo. Bisogna evitare che la cosa degeneri come in passato. Adesso devi pensare a Jonah e tu non sei sempre presente per sorvegliarlo di persona". Miles guardò fuori della finestra mentre Charlie parlava. "Senti... appena commetterà un'altra stupidaggine, sarò il primo a saltargli addosso. Lo sai. Ma non andare in cerca di guai: quello è un poco di buono. Stagli lontano". Miles non rispose. "Lascialo perdere, hai capito?" Charlie adesso non parlava più soltanto come amico, ma anche come suo superiore. "Perché mi dici questo?" "Te l'ho appena spiegato". Miles lo guardò intensamente. "Ma c'è dell'altro, non è vero?" Charlie sostenne il suo sguardo. "Senti... Otis ha detto che sei stato un po’ rude quando lo hai arrestato, e ha sporto denuncia..." Miles diede un pugno al tavolo e il rumore riecheggiò per il ristorante. Gli altri clienti sussultarono e si voltarono a guardarlo. "Che farabutto..." Charlie alzò le mani per fermarlo. "Cribbio, lo so anch'io ed è quello che ho sostenuto con Harvey, ma voi due non siete proprio amici per la pelle ed il procuratore sa come diventi quando sei arrabbiato. Anche se non darà seguito alla denuncia, ritiene possibile che Otis dica la verità e vuole che tu ne stia fuori". "Allora che cosa dovrei fare, se vedo che Otis commette un crimine? Girarmi dall'altra parte?" "Certo che no... non essere stupido. Stagli solo lontano per un po', finché la faccenda non si sgonfia. Te lo dico per il tuo bene, capisci?" Miles impiegò un momento prima di rispondere. "D'accordo". Ma mentre parlava, sapeva benissimo che la guerra tra lui e Otis non era ancora finita. Capitolo terzo Tre ore dopo l'incontro con Charlie, Miles parcheggiò davanti alla scuola elementare Grayton proprio mentre la campanella annunciava la fine delle lezioni. Erano già arrivati gli scuolabus e gli alunni si incamminavano verso la fermata. Miles scorse Jonah, che agitò la mano e corse felice verso l'auto; suo padre sapeva che entro qualche anno, una volta diventato adolescente, non si sarebbe più dimostrato tanto entusiasta di vederlo. Il bambino gli si gettò tra le braccia e Miles lo strinse forte, godendosi quel trasporto d'affetto finché durava. "Ehi, campione, com'è andata oggi?" Jonah si staccò da lui. "Bene. E il lavoro come va?" "Adesso che ho finito, molto meglio". "Hai arrestato qualcuno, oggi?" Miles scrollò il capo. "No. Chissà, magari domani. Ascolta, ti va un gelato prima di andare a casa?" Jonah annuì con vigore e lui lo depose a terra. "Allora siamo d'accordo". Si accovacciò e guardò il figlio negli occhi. "Vuoi stare qui in giardino mentre parlo con la maestra o preferisci aspettarmi dentro?" "Non sono più un bambino piccolo, papà. E poi deve fermarsi anche Mark. La sua mamma è dal preside". Miles alzò lo sguardo e vide l'amico del cuore di Jonah che aspettava impaziente accanto al canestro da basket. Riassettò la maglia al figlio. "Va bene, ma restate insieme, eh? E non allontanatevi, per nessun motivo". "D'accordo". "Bene, allora... ma stai attento". Jonah gli allungò lo zaino e corse via. Miles lo gettò sul sedile anteriore e si incamminò tra le auto nel parcheggio salutando con la mano. I bambini risposero al saluto mentre saltellavano al fianco delle madri che erano venute a prenderli. Lui si fermò a parlare con qualcuna di loro, in attesa che la confusione dell'uscita si calmasse. Una volta che gli scuolabus e la maggior parte delle auto furono partiti, le maestre tornarono dentro. Miles lanciò un'ultima occhiata a Jonah prima di seguirle. Come mise piede nell'edificio, venne colpito da una ventata d'aria calda. La costruzione risaliva ad una quarantina d'anni prima, e sebbene l'impianto di condizionamento fosse stato ammodernato più di una volta, non era sufficiente a garantire il fresco nelle prime settimane di scuola, quando fuori c'erano ancora temperature estive. Miles cominciò a sudare all'istante ed agitò il davanti della camicia per farsi vento, mentre percorreva il corridoio. La classe di Jonah era l'ultima in fondo. Quando vi entrò, la trovò vuota. Per un attimo pensò di avere sbagliato aula, ma i nomi dei bambini scritti sul foglio delle presenze corrispondevano. Controllò l'ora: era in anticipo di qualche minuto, così si mise a curiosare per la classe. Osservò le scritte sulla lavagna, notò le file ordinate di banchi, un tavolo rettangolare ingombro di cartoncino da costruzione e barattoli di colla. Lungo la parete di fondo erano appese alcune brevi composizioni e stava cercando quella di Jonah, quando udì una voce alle sue spalle. "Scusi il ritardo. Ero andata a posare delle carte in sala professori". Fu allora che Miles vide per la prima volta Sarah Andrews. In quel momento non provò brividi lungo la schiena, nessuna premonizione gli esplose dentro come un fuoco d'artificio; non ebbe alcun presentimento e a ripensarci - visto come sarebbero andate le cose - quel fatto non finiva di sorprenderlo. Avrebbe però sempre ricordato lo stupore provato nel constatare che Charlie aveva detto la verità: Sarah era attraente. Non aveva un fascino sofisticato, ma di sicuro era un tipo che faceva girare la testa agli uomini per strada. I capelli biondi le arrivavano appena sopra le spalle, con un taglio al tempo stesso pratico ed elegante. Indossava una gonna lunga e una camicetta gialla e, nonostante il viso accaldato, i suoi occhi azzurri emanavano un senso di freschezza, come se avesse passato la giornata a rilassarsi in spiaggia. "Non si preoccupi", rispose infine. "Sono io in anticipo". Le tese la mano. "Piacere, Miles Ryan". Mentre lui parlava, gli occhi di Sarah si posarono fugacemente sulla fondina. Miles conosceva quello sguardo pieno di apprensione, ma prima che potesse giustificare la presenza di un'arma, lei tornò a fissarlo negli occhi e sorrise. Gli strinse la mano schiettamente. "Sarah Andrews. Sono contenta che sia potuto venire. Dopo averle mandato l'avviso a casa, mi sono ricordata di non averle proposto un appuntamento alternativo, se oggi non fosse stato libero". "Nessun problema. Il mio capo ha sistemato i turni". Lei annuì senza smettere di guardarlo. "È Charlie Curtis, vero? Ho conosciuto sua moglie Brenda. Mi aiuta a districarmi tra le novità della scuola". "Stia attenta... potrebbe intontirla di chiacchiere, se appena gliene dà l'occasione". Sarah rise. "Me ne sono accorta. Ma è stata fantastica, davvero. Ci si sente sempre un po’ intimiditi quando si arriva in un posto nuovo, ma lei si è data da fare per farmi sentire subito a casa". "È una cara donna". Per un attimo nessuno dei due parlò, mentre stavano in piedi uno di fronte all'altra, e Miles intuì immediatamente che Sarah non era più tanto a suo agio adesso che avevano concluso i convenevoli. Si era avvicinata alla cattedra e aveva cominciato a sfogliare carte e quaderni, alla ricerca di quello che le serviva. Fuori il sole era spuntato da dietro una nuvola, e ora entrava di traverso dalle finestre inondandoli di luce. La temperatura sembrò salire all'istante e Miles ricominciò a farsi vento con i lembi della camicia. Sarah lo guardò. "Fa caldo, lo so... Volevo portare un ventilatore, ma non ne ho ancora avuto il tempo". "Non importa". Mentre lo diceva, sentiva il sudore gocciolargli sul petto e sulla schiena. "Senta, le propongo un'alternativa. Possiamo prendere una sedia e metterci a parlare qui, così magari schiattiamo tutt'e due, oppure possiamo andare fuori, dove fa un po’ più fresco. Ci sono dei tavoli da picnic all'ombra degli alberi". "Voto per la seconda soluzione. E poi c'è Jonah, fuori in giardino. Così potrei tenerlo meglio d'occhio". Lei annuì. "Mi faccia controllare di aver preso tutto..." Un minuto dopo uscirono dalla classe, imboccarono il corridoio e aprirono la porta che dava all'esterno. "Da quanto tempo è in città?" chiese infine Miles. "Da giugno". "Le piace stare qui?" Lei lo guardò girando la testa. "È piuttosto tranquillo, però è piacevole". "E da dove viene?" "Baltimora. Sono cresciuta lì..." Fece una pausa. "Ma volevo cambiare". Miles annuì. "La capisco. A volte anch'io ho il desiderio di andarmene". Il viso di lei assunse un'espressione di simpatia e lui capì che aveva saputo di Missy. Sarah però non disse nulla. Quando si furono seduti al tavolo da picnic, le diede un'occhiata più approfondita. Vista da vicino, con il sole che filtrava tra le chiome degli alberi, la sua pelle appariva liscia, quasi luminescente. "Bene..." disse lui. "Devo chiamarla signorina Andrews?" "No, Sarah va benissimo". "D'accordo, Sarah..." Si fermò, esitante. "Si chiede il motivo di questo colloquio?" disse allora lei. "In effetti mi era passato per la mente". Sarah guardò la cartelletta che aveva davanti e poi alzò di nuovo gli occhi. "Ecco, tanto per cominciare voglio dirle che avere Jonah tra i miei alunni mi dà grande gioia. È un bambino magnifico... è sempre il primo a offrirsi volontario, se mi serve qualcosa, ed è anche molto bravo con i compagni. Inoltre è educato ed estremamente maturo per la sua età". Miles la guardò sospettoso. "Perché ho l'impressione che mi stia preparando a qualche brutta notizia?" "Sono così ovvia?" "Ma... in un certo senso", ammise Miles e Sarah sorrise imbarazzata. "Mi spiace, ma volevo farle capire che non va tutto male. Mi dica, Jonah le ha forse parlato della situazione?" "Solo stamattina. Quando gli ho chiesto perché lei mi aveva fatto chiamare, mi ha risposto che ha un po’ di problemi con una parte del programma". "Capisco". Sarah tacque come per raccogliere le idee. "Senta, se fa così, mi innervosisce", disse infine Miles. "Lei non pensa che ci sia qualche problema serio, vero?" "Ecco..." esitò. "Mi rincresce davvero dirglielo, ma temo di sì. Jonah non è in difficoltà solo con una parte del programma. Ha problemi con tutto il programma". Miles si accigliò. "Cioè?" "Jonah è indietro in lettura, scrittura, ortografia e aritmetica... in pratica in tutto. A essere sincera, non credo che fosse pronto per la seconda". Rimase a fissarla in silenzio, senza sapere che cosa rispondere. Sarah proseguì. "So che non è piacevole sentirselo dire. Mi creda, non ne sarei contenta neanch'io, se fosse mio figlio. È per questo che ho voluto essere ben sicura, prima di parlargliene. Tenga..." Aprì la cartelletta e gli porse un plico di carte, i compiti di Jonah. Miles esaminò i fogli: due compiti di matematica senza una risposta giusta, un paio di composizioni (in cui suo figlio era riuscito a scarabocchiare qualche parola illeggibile) e tre esercizi di lettura che rivelavano una scarsa capacità di comprensione. Dopo un po', Sarah fece scivolare anche la cartelletta verso di lui. "Può tenersi tutto. A me non servono più". "Non sono sicuro di volerlo", disse Miles, ancora scioccato. Lei si chinò leggermente in avanti. "Le insegnanti precedenti non le hanno mai detto che aveva dei problemi?" "No, mai". "Niente?" Miles distolse lo sguardo. Dall'altra parte del giardino, Jonah saliva e scendeva incessantemente dallo scivolo del parco giochi, seguito da Mark. "La mamma di Jonah è morta appena prima che iniziasse l'ultimo anno di asilo. Sapevo che mio figlio a volte posava la testa sul banco e si metteva a piangere, ed eravamo tutti preoccupati per questo. Ma le maestre non mi hanno mai parlato del suo rendimento. Le schede di valutazione erano positive. Anche l'anno scorso". "Controllava i compiti che portava a casa da scuola?" "Non ne aveva mai. Tranne i disegni". Adesso, ovviamente, gli suonava ridicolo. Ma perché non ci aveva mai fatto caso prima? Un po’ troppo preso dalla tua vita, eh? rispose una vocina dentro di lui. Miles sospirò, arrabbiato con se stesso, arrabbiato con la scuola. Sarah sembrò leggergli nel pensiero. "So che si sta chiedendo come sia potuto accadere, ed ha tutte le ragioni di essere adirato. Le insegnanti di Jonah avevano il dovere di istruirlo, ma non l'hanno fatto. Sono sicura che non erano animate da cattive intenzioni... probabilmente non volevano stargli troppo addosso". Miles rimase a riflettere a lungo. "Fantastico risultato, davvero", borbottò. "Senta", proseguì Sarah, "non l'ho fatta venire qui solo per darle cattive notizie. Se così fosse, allora trascurerei le mie responsabilità. Desideravo discutere con lei del metodo migliore per aiutare Jonah. Non voglio bocciarlo quest'anno e, con un piccolo sforzo in più da parte sua, credo che non ce ne sarà bisogno. Può ancora farcela". Gli ci volle un po’ per capire il senso di quelle parole e quando alzò gli occhi, Sarah annuì. "Jonah è molto intelligente. Una volta imparato qualcosa, la ricorda bene. Ha solo bisogno di un sostegno maggiore di quello che posso dargli io in classe". "Che cosa significa?" "Gli servono delle ore di sostegno". "Lezioni private?" Sarah si lisciò la gonna. "Trovare un insegnante privato sarebbe un'idea, ma forse inutilmente costosa, visto che Jonah ha bisogno di aiuto solo per imparare le nozioni fondamentali. Non stiamo parlando di algebra... adesso in classe stiamo facendo ancora le addizioni semplici, come tre più due. E per quanto riguarda la lettura, gli basterebbe esercitarsi di più. Lo stesso vale per la scrittura. A meno che non abbia soldi da buttare via, sarebbe meglio che lo facesse lei direttamente". "Io?" "Non è difficile. Deve leggere dei brani con lui, farlo leggere a voce alta, aiutarlo nei compiti e cose del genere. Non credo che avrà problemi con i compiti che assegno". "Non ha visto le mie pagelle da piccolo". Sarah sorrise. "Sarebbe utile anche un orario fisso. Ho visto che molti bambini imparano meglio se fanno i compiti in modo regolare. Inoltre, la routine dà loro un senso di continuità e di sicurezza, che è la cosa di cui Jonah ha più bisogno". Miles si agitò sulla panca. "Non è facile come sembra. Il mio orario di lavoro è molto flessibile. A volte torno a casa alle quattro, altre invece la sera tardi, quando Jonah è già a letto". "Chi si prende cura di lui dopo la scuola?" "La signora Knowlson, la nostra vicina. È molto brava, ma non so se sarebbe in grado di fargli fare i compiti tutti i giorni. Ha un'ottantina d'anni". "E trovare un parente che possa farlo? Magari un nonno?" Miles scrollò il capo. "I genitori di Missy si sono trasferiti in Florida e mia madre è morta quando ero al liceo. Quanto a mio padre, se n'è andato appena ho iniziato l'università. Non so dove sia. Negli ultimi due anni Jonah e io siamo stati piuttosto soli. Non mi fraintenda... è un bambino stupendo e a volte mi sento fortunato ad averlo tutto per me. Ma certi giorni non posso fare a meno di pensare che sarebbe più facile se i genitori di Missy fossero rimasti in città, o se mio padre si dimostrasse un po’ più disponibile". "Per questo genere di cose, intende?" "Esatto", rispose lui e Sarah rise di nuovo. Gli piaceva il suono della sua risata. Era... innocente, gli ricordava la risata dei bambini che ancora credono che il mondo sia un parco dei divertimenti. "Se non altro, lei prende la questione seriamente", disse Sarah. "Non si immagina quante volte ho incontrato genitori che, di fronte a un discorso del genere, si rifiutavano di crederci, oppure davano la colpa a me". "Succede spesso?" "Sì. Prima di scriverle il biglietto, ne ho persino parlato con Brenda, per trovare il modo migliore di riferirglielo". "E che cosa le ha detto Brenda?" "Di non preoccuparmi, che lei avrebbe avuto una reazione equilibrata. Che il suo primo pensiero sarebbe stato per Jonah, e avrebbe accolto le mie proposte. Mi ha detto che non dovevo spaventarmi, anche se si sarebbe presentato qui armato". "Non posso crederci". "Sono state le sue esatte parole". "Devo fare un discorsetto a quella donna". "No, la prego... si capisce subito che le vuole bene. Mi ha detto anche questo". "Brenda vuole bene a tutti". In quel momento Miles udì Jonah che gridava a Mark di inseguirlo. Nonostante il caldo soffocante, i due ragazzini correvano all'impazzata attraverso il cortile, poi girarono intorno a dei pali prima di partire per un'altra direzione. "Non riesco a capire dove trovino tutta quella energia", commentò Sarah, ammirata. "Hanno fatto lo stesso nell'intervallo". "È l'età. Io non ricordo più l'ultima volta che mi sono sentito in quel modo". "Avanti, adesso, non è poi così vecchio. Che cos'ha, quaranta... quarantacinque anni?" Miles la guardò male e Sarah gli fece l'occhiolino. "Scherzavo", aggiunse. Lui si asciugò la fronte in un gesto di finto sollievo, sorpreso da quanto lo divertisse parlare con Sarah Andrews. Per qualche motivo, sembrava quasi che lei stesse flirtando, e la cosa gli piaceva più di quanto volesse ammettere. "Grazie... credo". "Di niente", rispose Sarah, con un sorriso malizioso. "Ma torniamo a noi..." Fece una pausa. "Dov'eravamo rimasti?" "Mi stava dicendo che non sono invecchiato bene". "No, prima... ah, sì, stavamo parlando del suo lavoro e del fatto che le risulta impossibile mantenere degli orari regolari con Jonah". "Non ho detto che è impossibile. Soltanto che non sarà facile". "Quali pomeriggi ha liberi?" "In genere il mercoledì e il venerdì". Mentre Miles cercava di trovare la soluzione, Sarah prese una decisione. "Senta, di solito non lo faccio... ma le propongo un patto", disse lentamente. La guardò, perplesso. "Che patto?" "Seguirò io Jonah dopo la scuola negli altri tre giorni, se lei mi promette di fare lo stesso nei due pomeriggi in cui è libero". Lui non riuscì a nascondere la sorpresa. "Lo farebbe... sul serio?" "Non per tutti gli alunni. Ma come le ho detto, Jonah è molto tenero e ha passato due anni difficili. Sarò felice di aiutarlo". "Davvero?" "Non sia così sorpreso. Anche se non sembra, noi insegnanti amiamo molto il nostro lavoro. E poi in genere rimango qui a scuola fino alle quattro, perciò non sarà un grosso sacrificio". Miles era riluttante ad accettare e Sarah rimase in silenzio. "Glielo offrirò una volta soltanto, quindi prendere o lasciare", disse infine. Lui era quasi imbarazzato. "La ringrazio", rispose serio. "Non so dirle quanto le sia riconoscente". "È un piacere. Però ho bisogno di una cosa da lei. Lo consideri il mio compenso". "Che cosa sarebbe?" "Un ventilatore... e che funzioni bene". Indicò la scuola. "Là dentro è un forno". "Affare fatto". Venti minuti più tardi, dopo averli salutati, Sarah tornò in classe. Mentre radunava le sue cose, si mise a pensare a Jonah. Aveva fatto bene a offrirsi di aiutarlo, si disse. Sì, certo, l'impegno implicava del lavoro straordinario, ma era la cosa migliore per il bambino E lei aveva deciso d'impulso. Continuava a non sapersi spiegare perché l'avesse fatto. Suo malgrado, pensava anche a Miles. Di sicuro non era come se lo aspettava. Quando Brenda le aveva detto che era uno sceriffo, le era subito venuta in mente la caricatura di un poliziotto del Sud: obeso, con i calzoni bassi in vita, gli occhiali da sole a specchio, la bocca piena di tabacco da masticare. Se lo era immaginato entrare con tracotanza nella classe, infilare i pollici nella cintura dei pantaloni e chiedere in tono strascicato: "Allora, di che cosa voleva parlarmi, bella signorina?" Miles, invece, era un tipo educato, e anche un bell'uomo. Non come Michael - bruno e affascinante, sempre impeccabilmente vestito - ma attraente in modo più naturale e spontaneo. Il suo viso aveva un che di rude, come se da ragazzo avesse passato molte ore all'aria aperta. E nonostante quello che gli aveva detto, non dimostrava affatto quarant'anni. Ne era rimasta sorpresa. Chissà poi perché. Dopo tutto Jonah aveva solo sette anni e lei sapeva che sua madre era morta giovane. Forse aveva pensato che Miles Ryan fosse più vecchio perché era vedovo. Non riusciva ad immaginare che una simile tragedia potesse accadere a un suo coetaneo... Ancora immersa in quei pensieri, lanciò un'ultima occhiata all'aula per accertarsi di non aver dimenticato niente. Tirò fuori la borsa dal cassetto della cattedra e se la mise a tracolla. Poi infilò le carte sotto il braccio e spense le luci, uscendo. Avviandosi alla macchina, provò un vago senso di delusione nel vedere che Miles se n'era già andato. Si rimproverò, ricordando a se stessa che un vedovo come lui non poteva certo accarezzare idee romantiche sulla giovane insegnante del figlio. Ma si sbagliava. Capitolo quarto Alla luce fioca dello scrittoio, i ritagli di giornale sembrano più vecchi di quanto non siano. Anche se ingialliti e spiegazzati, appaiono stranamente pesanti, come gravati del mio fardello di allora. Nella vita ci sono alcune semplici verità, e per me questa è una: quando qualcuno ancora giovane muore tragicamente, la sua storia suscita sempre grande interesse, soprattutto in una piccola città dove tutti si conoscono. La notizia della morte di Missy Ryan fu messa in prima pagina, e nelle cucine di New Bern si udirono sussulti di sgomento quando i giornali vennero aperti il mattino dopo la disgrazia. L'articolo centrale era corredato da tre fotografie, la prima del luogo dell'incidente, le altre due di Missy com'era stata: sorridente, giovane e bella. Nei giorni successivi due lunghi articoli avevano dato ulteriori ragguagli sull'accaduto e da principio tutti erano convinti che il caso sarebbe stato presto risolto. All'incirca un mese dopo, apparve un annuncio in prima pagina: il consiglio comunale offriva una ricompensa a chiunque fosse in grado di fornire informazioni sull'accaduto; a questo punto la convinzione generale cominciò a vacillare. E come accade per tutti i fatti di cronaca, anche l'interesse cominciò a scemare. Gli abitanti della città smisero di parlarne con la stessa frequenza e il nome di Missy venne fatto sempre più di rado. Qualche tempo dopo venne pubblicato un altro articolo, stavolta in terza pagina, che riassumeva il contenuto dei precedenti e chiedeva di nuovo a chi avesse notizie inerenti al caso di presentarsi alle autorità. Poi, più niente. Gli articoli seguivano sempre lo stesso schema, citando i dati certi ed esponendo i fatti in maniera semplice e lineare: una calda sera estiva del 1986, Missy Ryan - moglie del vicesceriffo locale e madre di un bambino ancora piccolo - era uscita di casa a piedi proprio mentre cominciava a fare buio. Pochi minuti dopo era stata vista correre lungo Madame Moorè s Lane da due testimoni, successivamente interrogati dalla polizia stradale. Il resto degli articoli riguardava gli avvenimenti di quella notte, ma non ci si soffermava a descrivere come avesse trascorso Miles le ultime ore prima di sapere della tragedia. Sono sicuro che lui invece avrebbe sempre ricordato quei momenti, dato che furono le ultime ore di normalità della sua vita. Aveva spazzato il vialetto, come la moglie gli aveva chiesto di fare, ed era rientrato in casa. Aveva riordinato i locali, giocato un po' con Jonah e infine lo aveva messo a letto. È probabile che avesse guardato l'ora ripetutamente, rendendosi conto che Missy tardava a rincasare. All'inizio, per rassicurarsi, doveva aver pensato che si fosse fermata a chiacchierare con qualcuno incontrato per strada, come le capitava a volte. I minuti erano diventati un'ora, poi due, e Missy non era ancora tornata. Ormai Miles era in ansia al punto da decidersi a chiamare Charlie. Gli aveva chiesto se poteva andare a cercarla lungo il percorso che lei di solito seguiva, dal momento che Jonah dormiva già e non voleva lasciarlo solo. L'amico si era mostrato subito disponibile. Un'ora più tardi - tempo a quanto pare trascorso da Miles a telefonare a tutti i conoscenti per avere notizie - Charlie aveva suonato alla porta. Assieme a lui c'era Brenda, venuta per badare a Jonah. Stava alle spalle del marito e aveva gli occhi rossi. "Meglio che tu venga con me", esordì Charlie a bassa voce. "C'è stato un incidente". Sono sicuro che Miles, dall'espressione del suo viso, abbia capito subito che cosa stava cercando di dirgli l'amico. Il resto della notte trascorse in una straziante frenesia. Quello che né Miles né Charlie potevano sapere al momento, e che sarebbe emerso dalle indagini successive, era che non c'era nessun testimone dell'incidente che era costato la vita a Missy. E che nessuno si sarebbe presentato spontaneamente a confessare. Per tutto il mese successivo la polizia stradale interrogò gli abitanti della zona; cercò indizi che potessero suggerire una pista, frugando tra i cespugli, perlustrando il luogo dove la donna era stata investita da qualcuno che era scappato senza prestarle soccorso, chiedendo nei bar e nei ristoranti vicini se quella sera un cliente ubriaco fosse uscito dal locale all'ora dell'incidente. Alla fine, il dossier del caso era ormai diventato spesso e pesante per tutte le informazioni raccolte... che non dicevano niente di più di quello che Miles aveva intuito quando aveva aperto la porta e si era trovato davanti Charlie. Miles Ryan era diventato vedovo all'età di trent'anni. E questo era tutto. Capitolo quinto Mentre era in macchina, Miles ripensava al giorno in cui sua moglie era morta e i ricordi gli affioravano alla memoria un po’ alla volta, com'era successo quella mattina, quando aveva percorso Madame Moorè s Lane per andare a pranzo con Charlie. Ma adesso, invece di girare all'infinito intorno alla medesima sequenza - dalla sua giornata di pesca alla discussione con Missy e a tutto quello che ne era seguito - erano interrotti da altri pensieri su Jonah e Sarah Andrews. Con la mente occupata, guidava in silenzio. Mentre aspettava che il padre si decidesse a rivolgergli la parola, Jonah era nervoso: si immaginava tutti i castighi che avrebbe potuto ricevere, e uno era peggio dell'altro. Continuava ad aprire e chiudere la cerniera dello zaino e Miles alla fine gli posò la mano sulla sua per farlo smettere. Ma a parte quel gesto, sembrava ancora ignorarlo e, dopo aver raccolto tutto il suo coraggio, Jonah lo guardò con gli occhi pieni di lacrime. "Sono nei guai, papà?" "No". "Ti ha tenuto molto tempo la signorina Andrews". "Avevamo un sacco di cose da dirci". Jonah deglutì. "Avete parlato della scuola?" Miles annuì e il bambino riabbassò lo sguardo sullo zaino, assalito dalla nausea e ansioso di tenere le mani occupate. "Sono proprio nei guai", borbottò. Mezz'ora dopo, Jonah era seduto a un tavolo all'aperto del Dairy Queen a mangiare un gelato con il braccio di Miles sulle spalle. Alla fine avevano parlato per un po’ e, dal suo punto di vista, la situazione non era disastrosa nemmeno la metà di quanto aveva temuto. Il padre non aveva alzato la voce, non lo aveva rimproverato e soprattutto non lo aveva castigato. Gli aveva chiesto soltanto di spiegargli che cosa gli avevano - o non gli avevano - fatto fare le sue maestre precedenti; Jonah aveva ammesso che, una volta rimasto indietro, si era vergognato troppo per chiedere aiuto. Aveva parlato delle materie che gli risultavano difficili - come aveva detto Sarah, praticamente tutte - e aveva promesso di impegnarsi per recuperare. Miles gli aveva detto che l'avrebbe aiutato e che, se tutto andava bene, si sarebbe rimesso in pari in fretta. Tutto sommato, non era andata per niente male. Ma non si rendeva conto che il padre non aveva ancora finito. "Visto che sei così indietro", proseguì Miles con calma, "dovrai restare a scuola dopo le lezioni qualche pomeriggio la settimana, in modo che la signorina Andrews possa aiutarti". Jonah impiegò qualche secondo a registrare le sue parole, poi lo guardò, perplesso. "Dopo la scuola?" Miles annuì. "La signorina Andrews ha detto che così recupererai più velocemente". "Io credevo che mi avresti aiutato tu". "Infatti, ma non posso farlo tutti i giorni. Devo lavorare, e la tua maestra si è offerta di sostituirmi quando non ci sono". "Ma... dopo la scuola?" ripeté Jonah, con voce lamentosa. "Tre giorni la settimana". "Ma... papà..." Gettò nel cestino quello che restava del cono. "Io non voglio fermarmi dopo la scuola". "Non ho chiesto il tuo parere. E poi, potevi dirmelo prima che avevi dei problemi, così magari ti saresti risparmiato questa fatica". Jonah corrugò la fronte. "Ma papà..." "Senti, lo so che non è divertente, ma per un po’ dovrai farlo. Non hai scelta e poi pensa che poteva andarti peggio". "E cooomeee?" chiese Jonah in tono cantilenante, com'era solito fare quando voleva mostrarsi scettico. "Ecco, lei poteva decidere di aiutarti anche nei fine settimana. Così non avresti più potuto andare a giocare a pallone". Jonah si chinò in avanti, appoggiando il mento tra le mani. "E va bene", cedette infine con aria tetra. "Lo farò". Miles sorrise, pensando: Tanto non avevi altra scelta. "Sono orgoglioso di te, campione". Più tardi, quella sera, Miles era chino sul letto del figlio per rimboccargli le coperte. Jonah stava crollando dal sonno; gli passò una mano tra i capelli e lo baciò sulla guancia. "È tardi. Dormi". Era così piccolo, lì nel suo lettino, così fiducioso. Miles si assicurò che la luce da notte fosse accesa, poi allungò la mano verso la lampada sul comodino. Jonah si sforzò di aprire gli occhi per guardarlo. "Papà?" "Sì?" "Grazie di non esserti arrabbiato troppo con me, oggi". Miles sorrise. "Non c'è di che". "E... papà?" "Sì?" Jonah si mise a sedere per soffiarsi il naso. Vicino al cuscino c'era l'orsacchiotto che la mamma gli aveva regalato quando aveva compiuto tre anni. Era ancora il suo compagno inseparabile. "Sono contento di farmi aiutare dalla signorina Andrews". "Davvero?" chiese il padre, sorpreso. "È carina". Miles spense la luce. "Hai ragione. Adesso però dormi, va bene?" "Sì. E... papà?" "Sì?" "Ti voglio bene". Miles sentì un groppo in gola. "Anch'io ti voglio bene, Jonah". Ore dopo, intorno alle quattro di notte, Jonah ebbe di nuovo uno dei suoi incubi. Strazianti come l'urlo di chi precipita da un dirupo, le grida del figlio svegliarono Miles di soprassalto. A tentoni, si precipitò fuori dalla sua camera al buio, inciampando in un giocattolo per terra e, ancora mezzo intontito, arrancò fino al letto del figlio addormentato, prendendolo in braccio. Si mise a sussurrargli parole confortanti mentre lo portava verso la veranda posteriore. In pochi istanti i singhiozzi disperati del bambino si placarono trasformandosi in un pianto sommesso e Miles per l'ennesima volta fu grato del fatto che la sua vicina, la signora Knowlson, fosse dura d'orecchi. Nell'aria calda e umida, l'uomo rimase seduto a cullare Jonah avanti e indietro, senza smettere di parlargli. La luna si specchiava sull'acqua del fiume che scorreva lenta, come un sentiero di luce riflessa. Le querce con le fronde protese ed i tronchi chiari dei cipressi che crescevano sulla riva creavano uno spettacolo di quieta e immortale bellezza. I morbidi drappeggi di edera e il muschio sui fusti accrescevano la sensazione che quel paesaggio fosse rimasto immutato da migliaia di anni. Jonah impiegò quasi un'ora per tornare a un sonno tranquillo, dal respiro regolare. Ormai erano le cinque e Miles sapeva che non sarebbe più riuscito a dormire. Dopo aver rimesso a letto il figlio, andò in cucina a prepararsi un caffè. Seduto al tavolo, si strofinò gli occhi e la faccia per stimolare la circolazione, poi guardò fuori dalla finestra. Il cielo cominciava a schiarire all'orizzonte e schegge di luce dell'alba filtravano attraverso gli alberi. Miles pensò ancora a Sarah Andrews. Era attratto da lei, questo era sicuro. Non ricordava più nemmeno quand'era stata l'ultima volta che una donna gli aveva fatto quell'effetto. Si era sentito affascinato da Missy, naturalmente, ma era successo quindici anni prima. Era passata una vita. Anche negli ultimi tempi del matrimonio aveva continuato a desiderare sua moglie, ma era un'emozione diversa. L'infatuazione iniziale che aveva provato quando l'aveva conosciuta per la prima volta - il disperato anelito adolescenziale a sapere tutto di lei - con il passare degli anni era stata sostituita da un sentimento più profondo, maturo. Con Missy non c'erano sorprese. Conosceva bene il suo aspetto quando si svegliava la mattina, aveva visto la spossatezza sul suo volto dopo che aveva dato alla luce Jonah. La conosceva... conosceva i suoi sentimenti, le sue paure, i suoi gusti. L'attrazione per Sarah, invece, era... sconosciuta e lo faceva sentire di nuovo vivo, se ciò era possibile. Non si era reso conto fino a che punto gli fosse mancata quella sensazione. Ma ci sarebbero state delle conseguenze? Non ne era sicuro. Non poteva prevedere quando e se mai sarebbe accaduto qualcosa con Sarah. Non sapeva niente di lei; alla fine magari sarebbe saltato fuori che erano del tutto incompatibili. C'erano migliaia di ostacoli che potevano far naufragare una relazione, da questo punto di vista lui non era certo un ingenuo. Eppure, mi sono sentito attratto da lei... Miles scrollò il capo per scacciare l'idea. Non c'era motivo di rimuginarci sopra, quell'improvvisa attrazione gli aveva solo ricordato che voleva ricominciare da capo. Voleva trovare di nuovo una compagna; non gli andava di trascorrere il resto della vita da solo. Certi erano in grado di farlo, lo sapeva. C'erano dei suoi conoscenti, lì in città, che una volta rimasti vedovi non si erano mai risposati, ma lui non era quel genere di persona. Non aveva mai avuto la sensazione di perdere qualcosa, quando si era sposato. Non era mai stato invidioso della vita dei suoi amici ancora scapoli... appuntamenti, corteggiamenti, storie che duravano una stagione. Non faceva per lui. Amava essere un marito e un padre, amava la stabilità che deriva dagli affetti consolidati e voleva riaverla. Ma probabilmente non sarà così. Con un sospiro, tornò a guardare fuori dalla finestra. Il cielo all'orizzonte era più luminoso, mentre l'oscurità indugiava in alto. Si alzò dal tavolo, andò a dare un'occhiata a Jonah, che dormiva tranquillo, poi aprì la porta della sua camera. Nella penombra scorse le fotografie posate sul cassettone e sul comodino. Anche se non riusciva a vederle chiaramente, conosceva a memoria le immagini incorniciate: Missy seduta in veranda con in mano un mazzo di fiori di campo; Missy e Jonah, il viso vicino all'obiettivo, che ridevano felici; Missy e Miles in chiesa il giorno del matrimonio... Entrò e si sedette sul letto. Accanto alle foto c'era la cartelletta gialla con le informazioni che lui aveva raccolto di sua iniziativa. Dato che gli sceriffi non avevano giurisdizione sugli incidenti stradali - e comunque in ogni caso non gli avrebbero permesso di indagare -, Miles aveva seguito le orme della polizia stradale, interrogando le stesse persone, facendo le stesse domande ed esaminando gli stessi dati. Conoscendo la sua storia, nessuno si era rifiutato di collaborare, ma alla fine non aveva ottenuto maggiori informazioni degli investigatori ufficiali. Per questo il dossier era ancora lì sul comodino, per sfidarlo a scoprire chi aveva provocato l'incidente quella notte. Ma non sembrava possibile, almeno non più, per quanto lui desiderasse punire il disgraziato che gli aveva distrutto la vita. Punire, era esattamente quello che voleva fare. Voleva che il colpevole pagasse a caro prezzo per il suo delitto; era suo dovere assicurarsi che succedesse, come marito e come tutore della legge. Occhio per occhio... non stava scritto così nella Bibbia? Come ogni mattina, Miles fissava il fascicolo senza aprirlo e di nuovo cercò di immaginare chi fosse il colpevole, ripercorrendo sempre lo stesso scenario, a partire dalla solita domanda. Se si è trattato di un incidente, perché scappare, quando sai di non aver commesso volontariamente un reato? L'unica spiegazione era che l'autista fosse ubriaco: magari era appena stato a una festa, oppure aveva l'abitudine di bere troppo nei fine settimana. Probabilmente era un uomo, fra i trenta e i quarant'anni. Anche in mancanza di prove, lui se lo immaginava così. Con gli occhi della mente, Miles lo vedeva procedere zigzagando sulla strada, a velocità sostenuta, con brusche sterzate, e seguiva i suoi gesti al rallentatore. Forse era intento ad afferrare la lattina di birra, che teneva tra le gambe, e si era accorto di Missy all'ultimo istante. Oppure non l'aveva vista affatto. Forse aveva solo udito un tonfo e avvertito l'impatto sulla macchina. L'autista non si era fatto prendere dal panico. Non c'erano segni di sbandata sull'asfalto, anche se si era fermato a guardare che cosa era successo. Il dettaglio non era arrivato ai giornali, ma i rilievi fatti lo dimostravano. Nessuno aveva visto niente. Su quella strada, al momento, niente auto, non c'erano luci accese, nessuno a spasso con il cane o fuori in giardino a spegnere gli irrigatori. Nonostante lo stato di ebbrezza, l'autista aveva capito subito che Missy era morta e che, come minimo, si sarebbe beccato un'accusa di omicidio colposo, magari omicidio di secondo grado, se non era incensurato. Accuse penali. Carcere. Sbarre alle finestre. Nella sua mente dovevano essere passati questi pensieri spaventosi, che lo avevano indotto a sparire prima che qualcuno lo notasse. E così aveva fatto, senza fermarsi a considerare il dolore che aveva lasciato dietro di sé. Doveva essere andata così... oppure Missy era stata investita di proposito. Da qualche psicopatico che uccideva per il gusto di farlo. Miles aveva sentito parlare di gente del genere. O qualcuno aveva ucciso per vendicarsi su Miles Ryan? Lui era uno sceriffo; aveva dei nemici. Aveva arrestato molte persone e testimoniato contro di loro. Aveva contribuito a mandare in prigione un sacco di gente. L'elenco era infinito, un esercizio di paranoia. Si decise ad aprire il fascicolo e strinse in mano i fogli. C'era un particolare nel rapporto della polizia che sembrava incongruo e con il passare degli anni Miles lo aveva evidenziato con una serie di punti interrogativi. Ne era venuto a conoscenza quella sera, quando era stato portato sulla scena dell'incidente. Stranamente, chi l'aveva investita aveva steso una coperta sul corpo di Missy. Anche questo particolare non era mai arrivato ai giornali. Per un po’ gli investigatori avevano sperato che quel pezzo di tessuto fornisse indizi per identificare l'autista. Ma era una coperta tipica dei kit di pronto soccorso venduti in quasi tutti i negozi di ricambi per auto e i supermercati, e non erano riusciti a risalire a chi l'aveva acquistata. Ma... perché? Era questo che continuava a tormentarlo. Perché coprire il corpo e poi scappare? Non aveva senso. Quando aveva sottoposto la questione a Charlie, l'amico gli aveva risposto con una frase che ancora lo ossessionava: "Come qualcuno che volesse chiedere scusa". Oppure depistarci? Miles non sapeva che cosa pensare. Ma prima o poi avrebbe trovato quel tizio, perché non intendeva mollare. Solo allora avrebbe potuto ricominciare a vivere. Capitolo sesto Venerdì sera, tre giorni dopo l'incontro con Miles Ryan, Sarah era da sola in salotto, a coccolare il suo secondo bicchiere di vino con il morale sotto le scarpe. Sapeva che l'alcol non l'avrebbe aiutata, ma sapeva anche che si sarebbe versata un terzo bicchiere non appena avesse finito quello che aveva in mano. Non le era mai piaciuto bere, però era stata una giornata d'inferno. In quel preciso momento voleva soltanto scappare. Stranamente, non era cominciata male, ma subito dopo colazione la situazione era precipitata vertiginosamente. Quella notte il boiler aveva smesso di funzionare e lei si era dovuta fare la doccia fredda. Arrivata in classe, tre dei quattro alunni dei primi banchi erano raffreddati e avevano passato la mattina a tossire e starnutire verso la cattedra, quando non disturbavano. I compagni ne avevano seguito l'esempio e in breve aveva regnato il caos. Dopo le lezioni lei si era fermata a scuola ad aggiornare i registri, ma quando finalmente era stata pronta ad andarsene, aveva scoperto che la sua macchina aveva una gomma a terra. Aveva dovuto chiamare il meccanico e aspettare quasi un'ora prima che arrivasse; quando era tornata a casa, tutti i parcheggi erano occupati ed era stata costretta a posteggiare a tre isolati di distanza. E poi, come ciliegina sulla torta, aveva appena aperto la porta quando una tizia le aveva telefonato da Baltimora per informarla che Michael si sarebbe risposato a dicembre. Era stato allora che aveva deciso di stappare il vino. Adesso, mentre finalmente avvertiva i primi effetti dell'alcol, rimpiangeva che il meccanico non avesse impiegato un po’ di più a cambiarle la gomma, così non avrebbe risposto al telefono. Non conosceva bene la donna che aveva chiamato - era un'amica di famiglia di Michael - e non riusciva a capire come mai si fosse sentita in dovere di informarla della novità. E pur avendole dato la notizia con l'appropriata miscela di compassione e incredulità, Sarah non poteva fare a meno di pensare che, non appena messo giù il telefono, la donna sarebbe corsa a riferire a Michael la sua reazione. Grazie al cielo aveva mantenuto un certo distacco. Ma questo era accaduto due bicchieri di vino prima, e adesso non era più così facile. Non voleva sapere niente del suo ex marito. Erano divorziati, separati dalla legge e per scelta e, a differenza di altre coppie nella loro condizione, non si erano più parlati da un anno, dopo il loro ultimo incontro dall'avvocato. A quel punto lei si riteneva fortunata di essersi sbarazzata di Michael e aveva firmato i documenti senza dire una parola. Il dolore e la rabbia iniziali erano stati sostituiti da una specie di apatia, radicata nell'agghiacciante consapevolezza di non averlo mai conosciuto veramente. In seguito non si erano più sentiti né scritti. Aveva perso tutti i contatti con la famiglia di lui e con i suoi amici; Michael aveva fatto altrettanto. Per molti versi sembrava quasi che non fossero mai stati sposati. Per lo meno, era quello che diceva a se stessa. E lui adesso si risposava. Che poteva importargliene? Non doveva nemmeno pensarci. E invece lo faceva e le importava, eccome. Se non altro la turbava di più l'imminenza del matrimonio dell'idea in sé. Aveva sempre saputo che Michael si sarebbe risposato; gliel'aveva detto lui stesso. Era stata la prima volta che aveva odiato davvero qualcuno. Ma l'odio autentico, quello che ti fa aggrovigliare lo stomaco, non era possibile senza un coinvolgimento emotivo. Non avrebbe odiato Michael in quel modo se prima non lo avesse amato. Forse era stata un'ingenua, a pensare che avrebbero formato una coppia felice per sempre. Si erano scambiati i voti e la promessa di amore eterno, dopo tutto, e lei discendeva da una lunga linea di famiglie che avevano fatto proprio così. I suoi genitori erano sposati da più di trentacinque anni; i nonni erano vicini ai sessant'anni di matrimonio. Anche dopo che tra di loro erano nati dei problemi, Sarah era convinta che lei e Michael avrebbero seguito le stesse orme. Sapeva che non sarebbe stato facile, ma quando lui aveva scelto di piegarsi alle convinzioni della sua famiglia, ignorando la promessa fatta a lei, non si era mai sentita tanto insignificante. Adesso però non sarei così sconvolta, se lo avessi dimenticato davvero... Sarah svuotò il bicchiere e si alzò dal divano, rifiutandosi di crederci. Era finita con Michael. Fosse anche tornato strisciando e implorando perdono, lo avrebbe respinto. Non c'era nulla che potesse dire o fare per indurla ad amarlo di nuovo. Poteva sposare chi gli pareva, tanto per lei non faceva differenza. In cucina si versò il terzo bicchiere di vino. Michael sta per risposarsi. Suo malgrado, sentì le lacrime salirle agli occhi. Non voleva più piangere, ma i vecchi sogni sono duri a morire. La vista appannata dal pianto, posò il bicchiere troppo vicino al bordo del lavandino, facendolo cadere in mille pezzi sul pavimento. Mentre raccoglieva le schegge di vetro, si tagliò il dito. Un altro tassello da aggiungere a una giornata da dimenticare. Fece un profondo respiro e si premette il dorso della mano sugli occhi. Non servì a trattenere le lacrime. "Sei sicura di stare bene?" In mezzo alla folla che le schiacciava da tutte le parti, le parole sembravano andare e venire, come se Sarah stesse ascoltando una voce lontana. "Per la terza volta, mamma, sto bene. Sul serio". Maureen alzò una mano per scostarle i capelli dal viso. "Mi sembri un po’ pallida, sai, non vorrei che stessi covando l'influenza". "Sono solo stanca. Ieri sono rimasta alzata fino a tardi a lavorare". Anche se non le piaceva mentire alla madre, non aveva voglia di dirle della bottiglia di vino che si era scolata la notte prima. Maureen non riusciva a capire perché la gente bevesse, in particolare le donne, e se Sarah le avesse spiegato di sentirsi sola, si sarebbe morsa il labbro, ansiosa, prima di spararle una raffica di domande alle quali lei non intendeva rispondere. Era un magnifico sabato di sole e il centro era gremito di gente. La festa dei crisantemi era in pieno svolgimento e Maureen desiderava trascorrere la giornata a curiosare tra le bancarelle ed i negozi di antiquariato di Middle Street. Dato che Larry voleva restare a casa a guardare la partita di football tra il North Carolina e il Michigan State, Sarah si era offerta di tenerle compagnia. Aveva pensato che si sarebbe divertita e probabilmente era vero, se non fosse stato per quella micidiale emicrania che nemmeno l'aspirina riusciva ad alleviare. Mentre parlavano, si soffermò a esaminare una cornice antica restaurata con cura, ma non abbastanza da giustificarne il prezzo esorbitante. "Di venerdì?" le chiese la madre. "Ero rimasta indietro, e ieri era una sera come un'altra". La madre si avvicinò, fingendo di ammirare la cornice. "Sei rimasta in casa tutta la sera?" "Sì, perché?" "Ho provato a chiamarti un paio di volte, ma suonava sempre libero". "Avevo staccato il telefono". "Ah. Per un po’ ho pensato che fossi uscita con qualcuno". "E chi?" Maureen scrollò le spalle. "Ma, non so... qualcuno". Sarah la guardò da sopra gli occhiali da sole. "Mamma, ti prego, non ricominciare". "Non voglio ricominciare proprio niente", rispose lei sulla difensiva. E poi, abbassando la voce come se parlasse tra sé, riprese: "Pensavo che tu avessi deciso di uscire. Una volta lo facevi spesso, sai..." Oltre a sguazzare in un pozzo di ansia senza fondo, sua madre sapeva impersonare alla perfezione il genitore tormentato dai sensi di colpa. Certe volte Sarah ne aveva bisogno - un po’ di compassione non ha mai fatto male a nessuno - ma adesso non era uno di quei momenti. Corrugando la fronte, rimise a posto la cornice. La proprietaria della bancarella, una donna anziana seduta sotto un ombrellone bianco, le stava osservando, chiaramente divertita dalla scenetta. L'espressione di Sarah si fece ancora più grave. Si allontanò mentre la madre continuava a parlare nel vuoto. Dopo un attimo, Maureen la seguì. "Che cosa c'è?" chiese. Il suo tono di voce fece arrestare Sarah, che si girò a fronteggiarla. "Niente. Solo che non sono dell'umore adatto per sentirmi dire quanto sei preoccupata per me. Alla lunga la tua sollecitudine mi sfinisce". Maureen strinse le labbra, offesa. Alla vista dell'espressione cupa della madre, Sarah si pentì subito delle sue parole, ma non poteva farci niente. Di sicuro non oggi. "Senti, mamma, mi dispiace. Non avrei dovuto risponderti così". Maureen la prese per mano. "Che succede, Sarah? Dimmi la verità, questa volta... ti conosco troppo bene. È successo qualcosa, vero?" Le strinse leggermente le dita e Sarah distolse lo sguardo. Tutt'intorno la gente badava ai propri affari, nessuno faceva caso a loro. "Michael si risposa", disse in tono neutro. Dopo essersi accertata di aver capito bene, Maureen cinse lentamente la figlia in un caldo abbraccio. "Oh, Sarah... mi dispiace", mormorò. Non c'era altro da dire. Qualche minuto dopo erano su una panchina affacciata sulla darsena, in fondo alla strada ancora affollata. Si erano dirette lì inconsciamente; avevano continuato a camminare finché non era più stato possibile proseguire e lì avevano cercato un posto per sedersi. Parlarono a lungo su quella panchina, o meglio, fu Sarah a sfogarsi. Maureen si limitò ad ascoltare, senza riuscire a mascherare l'ansia. Gli occhi, sgranati, in certi momenti le si riempivano di lacrime e continuava a stringerle ripetutamente la mano. "Oh... ma è terribile", ripeté forse per la centesima volta. "Che giornata infernale". "L'ho pensato anch'io". "Senti... ti aiuterebbe provare a guardare il lato positivo della faccenda?" "Non c'è nessun lato positivo, mamma". "Ma certo che c'è". Sarah la guardò, scettica. "Ovvero?" "Ecco, puoi stare sicura che non verranno a vivere qui, dopo sposati. Tuo padre li metterebbe alla gogna". Nonostante lo sconforto, la figlia si mise a ridere. "Grazie molte. Se dovessi rivedere Michael, non mancherò di informarlo". Maureen fece una pausa. "Non pensi di farlo, vero? Voglio dire, rivederlo". Sarah scrollò il capo. "No, se posso evitarlo". "Bene. Dopo quello che ti ha fatto, devi cancellarlo dalla tua vita". Sarah annuì, poi si appoggiò allo schienale della panchina riprendendo fiato. "Hai avuto notizie di Brian, ultimamente?" chiese per cambiare argomento. "Non c'è mai quando lo chiamo". Maureen abboccò. "Gli ho parlato un paio di giorni fa, ma sai com'è. A volte l'ultima cosa che hai voglia di fare è parlare con i tuoi genitori. Non sta molto al telefono". "Si è fatto degli amici?" "Sono sicura di sì". Sarah fissò l'acqua per un momento, con la mente rivolta al fratello. E poi: "Papà come sta?" "Come al solito. Ha fatto un checkup all'inizio di questa settimana e pare vada tutto bene. E non si sente più stanco come prima". "Continua a fare esercizio?" "Non quanto dovrebbe, ma continua a promettermi che si impegnerà di più". "Devi dirgli che è importante". "Sì, ma sai quant'è testardo. Sarebbe meglio se glielo dicessi tu. Se lo faccio io, pensa che gli stia troppo addosso". "Ed è così?" "Certo che no", si affrettò a rispondere la madre. "Mi preoccupo per lui, tutto qui". Nella darsena, una barca a vela si dirigeva lentamente verso il fiume Neuse e le due donne rimasero a fissarla in silenzio. Ancora un minuto, poi il ponte si sarebbe aperto ruotando per permettere il passaggio dell'imbarcazione e le macchine sarebbero rimaste incolonnate ai due lati sulla strada. Sarah osservava la scena divertita: aveva imparato che, quando arrivava tardi a un appuntamento, poteva sempre dire di essere rimasta "intrappolata sul ponte". Chiunque in città, dai medici ai giudici, accoglieva quella scusa senza obiettare, perché la usavano tutti. "È bello sentirti ridere di nuovo", mormorò Maureen un momento dopo. Sarah le lanciò un'occhiata di sbieco. "Non essere tanto sorpresa. Era un bel po’ che non lo facevi". Sfiorò affettuosamente il ginocchio della figlia. "Non permettere a Michael di ferirti ancora. Ricordati che lo hai superato... d'accordo?" Sarah annuì in modo impercettibile e la madre proseguì nel suo monologo che lei ormai conosceva a memoria. "E devi continuare a vivere. Un giorno troverai qualcuno che ti ama per come sei..." "Maaamma..." la interruppe Sarah, trascinando le sillabe e scrollando il capo. Tutte le volte che parlavano, finivano immancabilmente per cascare su quell'argomento. Una volta tanto Maureen si fermò, ma si allungò per prendere di nuovo la mano a Sarah che, sia pur di malavoglia, fu costretta a cedere. "Non posso farci niente se voglio che tu sia felice", disse la madre. "Riesci a capirlo?" Sarah si sforzò di sorridere, sperando di sembrare convincente. "Certo, mamma. Capisco". Capitolo settimo Quel lunedì Jonah inaugurò la routine che avrebbe dominato gran parte della sua vita nei mesi successivi. Al suono della campanella che segnalava la fine delle lezioni, uscì con i compagni, ma lasciò lo zaino in classe. Anche Sarah, come le altre insegnanti, uscì a controllare che gli scolari salissero sulle auto e gli scuolabus giusti. E una volta che tutti furono a bordo, si avvicinò a Jonah, che fissava con aria malinconica i compagni. "Scommetto che preferiresti non doverti fermare, vero?" Il bambino annuì. "Non sarà tanto male, vedrai. Ho portato dei biscotti da casa per rendere meno amare le cose". Jonah rimase un attimo pensieroso. "Che tipo di biscotti?" domandò scettico. "I wafer. Da piccola la mamma me ne dava sempre un paio quando tornavo da scuola. Diceva che era la ricompensa per il lavoro svolto". "La signora Knowlson mi dà sempre delle fette di mela". "Preferisci quelle, domani?" "Assolutamente no", disse lui serio. "I wafer sono molto meglio". Lei fece un cenno in direzione della scuola. "Andiamo. Sei pronto a cominciare?" "Credo di sì", borbottò Jonah. Sarah gli offrì la mano. Il bambino la guardò. "Aspetti... ce l'ha del latte?" "Se vuoi, possiamo farcelo portare dal bar". Jonah prese la sua mano e le rivolse un breve sorriso prima di tornare in classe con lei. Mentre Sarah e Jonah si tenevano per mano camminando verso la classe, Miles si era accucciato dietro la sua macchina e aveva tirato fuori la pistola prima ancora che l'eco dell'ultimo sparo si fosse spenta. Intendeva restare lì finché non avesse capito che cosa diavolo stava succedendo. Non c'era niente come una sparatoria per rimettere in moto il vecchio orologio... l'istinto di conservazione lo sorprendeva sempre, per intensità e la rapidità con cui scattava. L'adrenalina gli entrava in circolo a fiotti, come se fosse attaccato a una gigantesca flebo invisibile. Sentiva il cuore battergli forte ed aveva il palmo delle mani madido di sudore. In caso di bisogno, avrebbe potuto chiamare la centrale per chiedere rinforzi, in una manciata di minuti il luogo sarebbe stato circondato da tutti gli agenti della contea... ma per il momento preferiva aspettare. Tanto per cominciare era convinto che gli spari non fossero diretti contro di lui. Era sicuro di averli sentiti, il suono però era attutito, come se provenissero da dentro la casa. Si trovava davanti al Gregory, un edificio di legno pericolante e completamente ricoperto di rampicanti alla periferia di New Bern. Era stato lasciato andare nel corso degli anni ed era abbandonato, fin da quando Miles era bambino. Nessuno se ne occupava più: i pavimenti erano così vecchi e marci che minacciavano di cedere da un momento all'altro e la pioggia entrava dal tetto sfondato. La costruzione inoltre era lievemente inclinata e dava l'impressione che bastasse una raffica di vento forte a buttarla giù. Anche i pochi vagabondi della zona se ne tenevano alla larga, perché consideravano pericoloso rifugiarsi lì. Ma in quel momento, e per di più in pieno giorno, gli spari ricominciarono e Miles sospettò che ci fosse una semplice spiegazione. A ogni modo non era così stupido da correre rischi inutili. Aprì la portiera dell'auto, scivolò lungo il sedile anteriore e schiacciò il pulsante della radio che amplificava la voce. "Parla lo sceriffo", disse scandendo le parole. "Se voi ragazzi lì dentro avete finito, vorrei che usciste per scambiare quattro chiacchiere. E prima fatemi il favore di posare a terra i fucili". A questo punto gli spari cessarono. Dopo qualche minuto, Miles vide una testa spuntare da una finestra della facciata. Era un ragazzino che avrà avuto al massimo dodici anni. "Non ci sparerà, vero?" gridò l'adolescente, evidentemente spaventato. "No, non sparerò. Posate le armi accanto alla porta e avvicinatevi, così possiamo parlare". Non udì risposta per un minuto, come se i ragazzi stessero valutando se ubbidire o cercare di scappare. Non erano cattivi soggetti, Miles lo sapeva, solo un po’ troppo esuberanti per la società moderna. Era sicuro che avrebbero preferito scappare, piuttosto che farsi accompagnare a casa ad affrontare i genitori. "Avanti, uscite", disse Miles al microfono. "Voglio soltanto parlare". Alla fine vide due ragazzini affacciarsi all'apertura dove un tempo c'era stata la porta... e il secondo era addirittura più giovane del primo. Muovendosi con esagerata lentezza, posarono a terra i fucili e uscirono con le mani in alto. Il vicesceriffo trattenne una risata. Scossi e pallidi, avevano tutta l'aria di temere di poter diventare un bersaglio da un momento all'altro. Una volta che ebbero sceso i gradini sfondati, Miles si alzò da dietro la macchina e rinfoderò la pistola. Quando lo videro, esitarono per un istante, poi continuarono ad avanzare. Portavano jeans stinti e scarpe da tennis consunte ed erano tutti sporchi. Ragazzi di campagna. Avanzavano con le braccia alzate sopra la testa. Avevano visto troppi film. Quando gli furono più vicini, Miles si accorse che stavano praticamente piangendo tutti e due. Si appoggiò alla macchina con le braccia conserte. "Ehi, ragazzi, stavate cacciando?" Il più giovane - Miles stimò che avesse dieci anni - guardò il maggiore, che ricambiò l'occhiata. Si capiva che erano fratelli. "Sì, signore", dissero in coro. "E che cosa c'è dentro la casa?" Di nuovo uno scambio di occhiate. "Passeri", risposero infine, e Miles annuì. "Potete abbassare le mani". Altra occhiata prima di abbassare le braccia. "Sicuri che non stavate dando la caccia a qualche gufo?" "No, signore", si affrettò a rispondere il maggiore. "Soltanto passeri. Ce ne sono un sacco là dentro". Miles annuì di nuovo. "Passeri, eh?" "Sì, signore". Lui fece un cenno verso i fucili. "Sono calibro ventidue?" "Sì, signore". "E non sono un po’ troppo potenti per dei passeri?" I due assunsero un'aria colpevole. Miles li fissò con severità. "Sentite... se stavate cacciando un gufo, io non sono per niente contento. I gufi mi piacciono. Mangiano topi, ratti, persino serpenti, e li preferisco di gran lunga a quelle bestie, soprattutto nel mio giardino. Ma da tutti i vostri spari sono sicuro che non siete riusciti a prenderlo, giusto?" Dopo un attimo di esitazione il più piccolo scrollò la testa. "Allora non riprovateci più, d'accordo?" intimò loro con voce che non ammetteva repliche. "Non è sicuro sparare così vicino alla strada. Inoltre è contro la legge. E questo non è un posto per ragazzini, la casa è pericolante e potreste farvi del male là dentro. Bene, scommetto che non volete che vi accompagni dai vostri genitori. Giusto?" "No, signore". "Allora non darete più la caccia ai gufi, vero? Se vi lascio andare, intendo". "No, signore". Miles li fissò serio, per assicurarsi che gli credessero, poi fece un cenno verso le case più vicine. "Abitate laggiù?" "Sì, signore". "Siete venuti a piedi o in bicicletta?" "A piedi". "Allora sentitemi... io prendo i fucili e voi salite dietro. Vi do un passaggio fino a casa e vi lascio sulla strada. Per questa volta passi, ma se vi ribecco là dentro, dirò ai vostri genitori che vi avevo già sorpreso e avvertito, e che ora devo portarvi dentro, d'accordo?" Annuirono entrambi riconoscenti, seppur con gli occhi sgranati per la minaccia. Dopo averli riaccompagnati, Miles si diresse verso la scuola, impaziente di incontrare Jonah. Di sicuro suo figlio sarebbe stato ansioso di farsi raccontare l'accaduto e lui voleva sapere com'era andata con le ripetizioni. Suo malgrado, non riuscì a trattenere un brivido di eccitazione al pensiero di rivedere Sarah Andrews. "Papà!" esclamò Jonah correndogli incontro. Miles si abbassò, pronto a prenderlo tra le braccia. Con la coda dell'occhio vide che Sarah lo aveva seguito fuori in cortile e stava camminando verso di loro. "Hai arrestato qualcuno oggi?" gli chiese il figlio, scostandosi per guardarlo. Miles sorrise scuotendo il capo. "Per il momento no, ma non ho ancora finito. E com'è andata a scuola oggi?" "Bene. La signorina Andrews mi ha dato anche i biscotti". "Davvero?" fece Miles, sforzandosi di mantenere un atteggiamento disinvolto mentre lei si avvicinava. "Wafer. Quelli buoni... doppia farcitura". "Oh, bè, non c'è niente di meglio", disse Miles. "Ma com'è andato il sostegno?" Jonah corrugò la fronte. "Il che?" "L'aiuto che ti ha dato la signorina Andrews per fare i compiti". "È stato divertente... abbiamo giocato". "Giocato?" "Le spiegherò poi", disse Sarah fermandosi vicino a lui. "Comunque abbiamo cominciato bene". Nel sentire la sua voce, Miles si girò a guardarla e fu piacevolmente sorpreso. Anche quel giorno lei indossava una gonna lunga e una camicia, niente di speciale, ma quando la vide sorridere, provò lo stesso batticuore della prima volta. Si rese conto che era ancora più carina di quanto ricordasse. Sì, aveva visto subito che era attraente - i capelli biondi, il viso delicato, gli occhi turchesi - ma ora la sua espressione gli appariva più dolce, calda, un volto quasi familiare. Mise a terra Jonah. "Vai ad aspettarmi in macchina, mentre parlo un attimo con la signorina Andrews", gli disse. "Va bene", rispose il bambino e, con sua grande sorpresa, si avvicinò a Sarah abbracciandola. Lei ricambiò il gesto, poi Jonah si allontanò. Una volta rimasti soli, Miles la guardò incuriosito. "Pare che voi due andiate d'amore e d'accordo". "Siamo stati bene insieme". "Sembra anche a me. Se avessi saputo che eravate qui a mangiare biscotti e a giocare, non mi sarei preoccupato tanto per lui". "Ehi... si fa quel che si può", si schermì Sarah. "Ma prima che dubiti del mio metodo, voglio dirle che il gioco riguardava la lettura". "Immaginavo ci fosse dell'altro. E com'è andata?" "Bene. Jonah ha ancora molto da recuperare, però siamo sulla buona strada". Fece una pausa. "È un bambino fantastico... dico sul serio. So che mi ripeto, ma non voglio che se lo dimentichi a causa delle sue temporanee difficoltà. E poi, è evidente che l'adora". "Grazie", rispose lui, sincero. "Di niente". Quando sorrise di nuovo, Miles si girò dall'altra parte, quasi timoroso che lei intuisse i suoi pensieri. "A proposito, grazie per il ventilatore", proseguì Sarah dopo una pausa. Quella mattina lui aveva portato in classe un efficientissimo ventilatore industriale. "Si figuri", mormorò Miles, combattuto tra il desiderio di stare lì con lei e l'impulso di sfuggire a quella ondata di nervosismo che lo aveva assalito all'improvviso. Per un istante nessuno dei due parlò. Il silenzio imbarazzato si prolungò, finché lui si dondolò sui piedi, borbottando: "Bene... sarà meglio che ora porti a casa Jonah". "Certo". "Abbiamo da fare". "Certo", ripeté lei. "C'è qualcos'altro che dovrei sapere?" "Non mi viene in mente niente". "Allora, bene". Fece una pausa e si infilò le mani in tasca. "Sarà meglio che porti a casa Jonah". Lei annuì, seria. "Questo l'ha già detto". "Davvero?" "Sì". Sarah si tirò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Per qualche inspiegabile motivo, trovava adorabile il suo modo goffo di salutarla. Lui era molto diverso dagli uomini che aveva conosciuto a Baltimora, quelli che si vestivano nei negozi alla moda ed erano sempre in grado di trovare la battuta giusta. Nei mesi successivi al divorzio erano cominciati a sembrarle intercambiabili, come sagome di cartone dell'uomo perfetto. "Bene, allora", ripeté Miles, ormai in preda alla frenesia di allontanarsi. "Grazie ancora". Con questo, si incamminò verso la macchina, chiamando ad alta voce Jonah. L'ultima immagine che gli rimase impressa fu quella di lei che li salutava dal cortile della scuola con un sorriso leggermente deluso. Nelle settimane seguenti Miles cominciò ad attendere i periodici incontri con Sarah con un entusiasmo incontrollabile che lo faceva sentire un adolescente. Pensava spesso a lei, nelle situazioni più assurde: mentre era al supermercato a scegliere una confezione di braciole di maiale, fermo a un semaforo, quando tosava il prato. Un paio di volte, mentre faceva la doccia al mattino, si sorprese a chiedersi se lei a colazione mangiava cereali o pane e marmellata. Beveva caffè o preferiva gli infusi di erbe? E dopo la doccia, si avvolgeva in testa una salvietta per truccarsi davanti allo specchio, oppure si asciugava subito i capelli? Cercava anche di immaginarsela in classe, in piedi davanti agli alunni con in mano un gessetto, e si domandava come trascorresse il tempo libero. Nonostante le chiacchiere scambiate quando si incontravano, non sapeva niente di lei, ed era sempre più curioso. A volte avrebbe voluto farle qualche domanda, ma si tratteneva, perché non sapeva da che parte cominciare. "Oggi abbiamo lavorato sulla sillabazione e Jonah è stato bravissimo", diceva lei per esempio, e allora lui che cosa avrebbe dovuto dire? Mi fa piacere. A proposito di sillabazione... per caso lei si avvolge una salvietta intorno alla testa, dopo la doccia? Altri uomini sapevano come affrontare quelle situazioni, ma accidenti a lui se ci riusciva. Una sera, in un momento di coraggio frutto di un paio di birre, era stato vicino a telefonarle. Non aveva nessuna scusa per chiamarla e non aveva ancora deciso che cosa le avrebbe detto, ma sperava gli venisse in mente un'idea, un lampo dal cielo che lo riempisse di spirito e carisma. Se la immaginava ridere alle sue battute, positivamente impressionata dal suo fascino. Era arrivato fino al punto di cercare il suo nome sull'elenco e comporre i primi tre numeri, prima che l'ansia avesse il sopravvento, costringendolo a mettere giù la cornetta. E se non fosse stata a casa? Non poteva certo abbagliarla con il suo fascino se non rispondeva al telefono e di sicuro non era il caso di lasciare le sue farneticazioni registrate per i posteri sulla segreteria. Forse avrebbe potuto riattaccare, se fosse partita la segreteria, ma era un gesto troppo infantile, no? E che cosa sarebbe successo, Dio ce ne scampi, se fosse stata a casa, ma in compagnia di qualcun altro? Era una seria possibilità, si disse. Aveva sentito qualche battuta al commissariato, da parte di colleghi scapoli che avevano saputo che lei non era sposata e, se lo sapevano loro, di certo ne erano a conoscenza anche altri maschi in città. La voce si stava spargendo e ben presto i pretendenti sarebbero calati su di lei, pronti a sfoderare le loro armi di seduzione, se non l'avevano già fatto. Per la miseria, gli restava poco tempo. Prese di nuovo in mano la cornetta e arrivò fino a comporre il sesto numero prima di riattaccare. Quella notte, sdraiato a letto, si chiese che diavolo ci fosse che non andava in lui. Un sabato mattina di fine settembre, circa un mese dopo aver conosciuto Sarah Andrews, Miles era seduto in tribuna in un campo sportivo della scuola H. J. McDonald. Jonah amava giocare a calcio più di ogni altra cosa al mondo, fatta eccezione forse per la pesca, ed era anche bravo. Missy era sempre stata atletica e suo figlio aveva ereditato da lei agilità e coordinazione. Da lui invece, diceva Miles in tono casuale a chi glielo chiedeva, aveva preso la velocità. Di conseguenza Jonah era il terrore degli avversari in campo. Alla sua età, giocava solo metà partita, dato che tutti i membri della squadra dovevano partecipare per lo stesso di tempo. In genere, però, era lui a segnare la maggior parte dei gol, se non tutti. Nelle prime quattro partite aveva mandato la palla in porta ben ventisette volte. Certo, era vero che la squadra era composta solo da tre giocatori, non c'era portiere e la metà dei bambini non sapeva nemmeno in che direzione calciare il pallone, ma ventisette gol erano un risultato notevole. Miles provava un impeto d'orgoglio tutte le volte che assisteva alle partite. Era felice ed esultava tra sé quando Jonah segnava, anche se sapeva che era soltanto un fenomeno temporaneo ed era troppo presto per nutrire ambizioni per il suo futuro. I bambini avevano tempi di maturazione diversi e alcuni si allenavano con maggior costanza. Suo figlio era maturo dal punto di vista fisico, ma non gli piaceva allenarsi; in breve gli altri l'avrebbero raggiunto. In quella partita, alla fine del primo quarto, Jonah aveva già segnato quattro reti. Nel secondo quarto, mentre era rimasto in panchina, la squadra avversaria era passata in vantaggio di un punto. Nel terzo quarto c'erano stati due gol di Jonah e uno di un suo compagno, e ora il punteggio era 8 a 7 per gli avversari. Miles incrociò le braccia, tutto concentrato nel vedere come sarebbe andata a finire. Jonah, come al solito, farà la differenza... Era perso nei suoi pensieri e impiegò qualche istante a riconoscere la voce che udì al suo fianco. "...Ha forse scommesso su questa partita, sceriffo Ryan?" chiese Sarah mentre gli si avvicinava con un sorriso smagliante. "Ha l'aria un po’ nervosa". "No... nessuna scommessa. Mi divertivo solo a guardare il gioco", rispose lui. "Bè, faccia attenzione. Ormai è rimasto senza unghie. Non vorrei che si mordesse i polpastrelli". "Non mi stavo mangiando le unghie". "In questo momento no, ma prima sì", disse lei. "Secondo me è una sua immaginazione", replicò Miles, chiedendosi se lei stesse flirtando di nuovo. "Allora..." Alzò la visiera del berretto da baseball. "Non mi aspettavo di vederla qui". Con i bermuda e gli occhiali da sole, sembrava più giovane del solito. "Jonah mi ha chiesto di venire a fare il tifo per lui". "Ma davvero?" chiese Miles, sorpreso. "Sì, giovedì. Ha detto che mi sarei divertita, ma ho avuto l'impressione che volesse farmi vedere qualcosa in cui riusciva bene". Che Dio ti benedica, Jonah. "Ormai è quasi finita. Si è persa gran parte dello spettacolo". "Non riuscivo a trovare il campo giusto. Non sapevo che ci fossero in corso tante partite. E da lontano i bambini sembrano tutti uguali". "Lo so. A volte fatichiamo anche noi a capire in quale campo giochiamo". L'arbitro fischiò e Jonah tirò il pallone a un compagno. La palla però lo superò, finendo fuori campo. Un avversario andò a riprenderla e Jonah guardò verso il padre. Quando vide Sarah, la salutò con la mano e lei ricambiò con entusiasmo. Poi, mettendosi in posizione con espressione decisa, Jonah aspettò che la palla fosse rimessa in campo. Un attimo dopo, lui e gli altri giocatori erano lanciati all'inseguimento del pallone. "Come se la cava?" domandò Sarah. "Sta giocando bene". "Mark dice che è il migliore". "Ma, veramente..." fece Miles, sforzandosi di apparire modesto. Sarah scoppiò a ridere. "Mark non parlava di lei. In campo c'è Jonah". "Lo so", rispose Miles. "Ma secondo lei ha preso tutto dal padre, vero?" "Veramente..." ripeté Miles, a corto di una risposta più brillante. Ma dov'è finito il carisma con cui volevi far colpo su di lei? Sarah era chiaramente divertita. "Mi dica... anche lei giocava a calcio da bambino?" si informò. "Quando ero piccolo, non sapevamo nemmeno che cosa fosse il calcio. Ci dedicavano alle attività americane tradizionali: football, basket, baseball. Ma comunque non credo che ci avrei giocato. Sono prevenuto contro gli sport che prevedono di far rimbalzare la palla anche con la testa". "Ma per Jonah invece va bene, giusto?" "Certo, e finché gli piace, può continuare. Lei ci ha mai provato?" "No. Non sono mai stata molto sportiva, ma quando ero all'università ho cominciato a marciare. È stata la mia compagna di stanza a convincermi". Lui la guardò, perplesso. "Marciare?" "È più difficile di quanto sembri, se vuol mantenere un'andatura sostenuta". "Lo fa ancora?" "Tutti i giorni. Seguo un percorso di cinque chilometri. È un ottimo esercizio, molto rilassante. Dovrebbe provarci anche lei". "Certo, con tutto il tempo libero che ho". "E perché no?" "Se marciassi per cinque chilometri, sarei così distrutto che il giorno dopo non riuscirei più ad alzarmi dal letto". Lei lo scrutò con aria esperta. "Può farcela", decretò. "Anche se forse, sceriffo, dovrebbe proprio smettere di fumare". "Io non fumo", protestò lui. "Lo so, Brenda me l'ha detto". Sorrise maliziosa e dopo un attimo lui non poté fare a meno di ricambiare il sorriso. Un boato tra la folla li fece girare verso il campo: videro Jonah che si staccava dal gruppo, raggiungeva la porta e segnava l'ennesimo gol, quello del pareggio. Mentre i compagni di squadra lo attorniavano per festeggiarlo, Miles e Sarah balzarono in piedi, applaudendo ed esultando. "Ti sei divertita?" chiese Miles. Finalmente era riuscito a recuperare una certa disinvoltura e stava accompagnando Sarah alla macchina mentre il figlio faceva la fila al bar con i compagni. Jonah aveva portato la sua squadra alla vittoria e, alla fine della partita, era corso da Sarah per chiederle se avesse visto il suo gol. Lei gli aveva fatto i complimenti e il bambino l'aveva abbracciata raggiante prima di tornare dagli amici. Stranamente non aveva degnato di uno sguardo il padre, che era comunque piuttosto soddisfatto della piega che stavano prendendo gli eventi. "Sì, molto", rispose lei. "Peccato che non sia riuscita ad arrivare prima". Nel sole del primo pomeriggio, la sua pelle luminosa ardeva sotto l'abbronzatura estiva. "Non importa. Jonah è felicissimo che tu sia venuta". Miles le lanciò un'occhiata di sbieco. "Allora, che programmi hai per la giornata?" "Ho appuntamento in centro con mia madre, andiamo fuori a pranzo insieme". "Dove?" "Da Fred & Clara s, lo conosci? È un piccolo locale vicino a casa mia". "Certo che lo conosco. È un buon ristorante". Arrivati alla sua Nissan rossa, Sarah si mise a frugare nella borsetta alla ricerca delle chiavi e Miles si ritrovò a fissarla. Con gli occhiali da sole, assomigliava di più alla ragazza di città che era, piuttosto che a una campagnola. Se poi si aggiungevano i bermuda di jeans scoloriti e le gambe lunghe e snelle, non era paragonabile a nessuna insegnante che lui avesse avuto ai suoi tempi. Dietro di loro, un pick-up bianco cominciò a fare retromarcia. Il guidatore salutò Miles, che ricambiò il gesto proprio mentre Sarah alzava gli occhi. "Lo conosci?" "La città è piccola. Ci si conosce tutti". "Dev'essere tranquillizzante". "A volte sì e a volte no. Se hai dei segreti, non è il posto per te, questo è sicuro". Sarah si chiese se si riferisse a se stesso. "Senti, volevo ringraziarti ancora per quello che stai facendo per Jonah", proseguì lui. "Non devi ringraziarmi tutte le volte che ci vediamo". "Lo so. Ma ho notato un grande cambiamento in mio figlio in queste ultime settimane". "Anch'io. Sta recuperando in fretta, più di quanto avessi previsto. Questa settimana ha iniziato addirittura a leggere a voce alta in classe". "I suoi progressi non mi sorprendono. Ha un'ottima insegnante". Sarah arrossì. "Ha anche un ottimo padre". Quelle parole gli piacquero. E gli piacque l'occhiata che lei gli lanciò mentre le pronunciava. Sarah si mise a giocherellare con le chiavi dell'auto, come in attesa. Poi ne prese una e fece scattare la serratura. Mentre apriva la portiera, Miles indietreggiò leggermente. "Secondo te, per quanto tempo ancora dovrà fermarsi dopo la scuola?" chiese. Continua a parlare. Non lasciarla andare via. "Non so dirlo. Perché? Vuoi cominciare a diminuire la frequenza delle ripetizioni?" "No", rispose lui. "Ero solo curioso". Lei annuì, aspettando di vedere se lui voleva aggiungere qualcosa, ma non lo fece. "Bene, allora", disse. "Continueremo così e vedremo a che punto saremo tra un mese. Che ne pensi?" Un mese ancora. Avrebbe continuato a vederla per almeno un mese. Bene. "Mi sembra un'ottima idea". Per un po’ rimasero entrambi in silenzio e Sarah guardò l'ora. "Senti, sono un po’ in ritardo", annunciò in tono di scusa e Miles assentì. "Lo so... tua madre ti aspetta", disse, ma non voleva ancora lasciarla andare. Voleva continuare a parlarle. Voleva... sapere tutto di lei. Il che significa che è giunto il momento di invitarla fuori. E niente perplessità stavolta, si ammonì. Niente tentennamenti al telefono, niente esitazioni. Spara il colpo! Sii uomo! Attacca! Si diede una scossa, sapendo di essere pronto... ma... ma... come fare? Santo cielo, era da una vita che non si trovava in una situazione del genere. Doveva proporle di uscire a pranzo o a cena? Oppure era meglio il cinema? O...? Mentre Sarah saliva in macchina, la sua mente vagliava freneticamente le alternative, cercando un modo per trattenerla quel tanto che gli desse il tempo di decidere. "Aspetta... prima di andare... posso farti una domanda?" "Certo". Lei lo guardò incuriosita. Miles infilò le mani in tasca, sentendosi dentro uno strano formicolio, sentendosi di nuovo adolescente. Deglutì. "Ecco..." cominciò. La sua mente vorticava, le rotelle giravano alla massima velocità. "Sì?" Sarah capì istintivamente quello che stava per succedere. Miles fece un profondo respiro e buttò fuori la prima e unica frase che gli veniva. "Come va il ventilatore?" Lei lo fissò, perplessa. "Il ventilatore?" ripeté. Miles ora si sentiva come se avesse appena inghiottito una tonnellata di piombo. Il ventilatore? Ma che accidenti ti è venuto in mente? IL VENTILATORE? È tutto quello che hai saputo tirare fuori? Era come se il suo cervello si fosse improvvisamente disconnesso, ma ormai non riusciva più a fermarsi, proprio non ce la faceva. "Sì. Sai... quello che ti ho portato in classe". "Va bene", disse lei confusa. "Perché posso portartene un altro, se non ti soddisfa". Lei gli posò una mano sul braccio, con espressione preoccupata. "Ti senti bene?" "Sì, sì", rispose lui serio. "Volevo solo essere sicuro che fosse di tuo gradimento". "È perfetto". "Bene", concluse Miles, augurandosi che in quel momento una saetta dal cielo lo incenerisse sul posto. Il ventilatore? Dopo che lei fu uscita dal parcheggio, Miles rimase immobile lì dov'era, desiderando di poter far tornare indietro il tempo per cambiare quello che era appena successo. Avrebbe voluto scavare una buca per seppellirsi, trovare un posto buio dove nascondersi per sempre dal mondo. Per fortuna non lo aveva sentito nessuno! Tranne Sarah. L'esito della loro conversazione continuò a tormentarlo per il resto della giornata, girandogli in mente come il ritornello di una canzone. Come va il ventilatore?... Perché posso portartene un altro... Volevo solo essere sicuro che fosse di tuo gradimento... Ripensarci gli provocava un dolore fisico. Qualunque cosa facesse quel pomeriggio, il ricordo restava in agguato sotto la superficie, pronto ad affiorare per umiliarlo. E il giorno successivo, la stessa musica. Si svegliò con una sensazione sgradevole... che cosa... e bum! Di nuovo quel ricordo era lì a tormentarlo. Fece una smorfia, con un senso di oppressione allo stomaco, poi si gettò il cuscino sopra la testa. Capitolo ottavo "Allora, come va?" domandò Brenda. Era lunedì, e lei e Sarah erano sedute al tavolo da picnic nel cortile della scuola. Brenda aveva fatto un salto alla rosticceria di Pollock Street, che a suo parere preparava i migliori panini della città. "Così potremo scambiare due chiacchiere mentre pranziamo", aveva detto strizzandole l'occhio. Sebbene non fosse la prima volta che "scambiavano due chiacchiere", i loro incontri fino a quel momento erano stati piuttosto brevi e impersonali. Brenda le aveva spiegato dove trovare le scorte di cancelleria, a chi chiedere per ottenere dei banchi nuovi e altre cose che riguardavano l'insegnamento. Ovviamente era stata la prima a cui Sarah si era rivolta per chiedere informazioni su Jonah e Miles e, sapendo che Brenda era un'amica di famiglia, ora sospettava che la donna volesse scoprire che cosa bolliva in pentola. "Ti riferisci al lavoro? Qui è diverso dalla scuola dove insegnavo a Baltimora, però mi piace". "Là insegnavi in centro, giusto?" "Sì, ho insegnato in un vecchio quartiere popolare per quattro anni". "E com'era?" Sarah scartò il panino. "Non così terribile come forse tu immagini. I bambini sono uguali dappertutto, quale che sia la loro provenienza sociale, soprattutto quando sono piccoli. Per quanto riguarda i genitori, l'ambiente era un po’ difficile, ma dopo un po’ ci fai l'abitudine ed impàri a essere prudente. Non ho mai avuto problemi. E i miei colleghi erano fantastici. È facile guardare le pagelle e pensare che gli insegnanti non si impegnino abbastanza, ma lì c'erano davvero un sacco di persone che facevano del loro meglio e che io stimavo e ammiravo". "Come mai hai deciso di lavorare in quella scuola? Anche il tuo ex marito era insegnante?" "No", rispose lei laconica. Brenda notò l'espressione triste dei suoi occhi, che però scomparve immediatamente. Sarah aprì una lattina di Diet Pepsi. "È un agente di borsa. O almeno lo era... non so che cosa faccia adesso. Dopo il divorzio non siamo rimasti in rapporti molto amichevoli, se mi capisci". "Mi spiace molto", disse Brenda. "E mi spiace ancora di più aver tirato in ballo l'argomento". "Non importa. Non potevi saperlo". Fece una pausa e poi sorrise con aria sorniona. "Oppure sì?" Brenda sgranò gli occhi. "No, non lo sapevo". Sarah la fissò. "Davvero", confermò Brenda. "Proprio niente?" Brenda si agitò sulla panca, imbarazzata. "Bè, forse avevo sentito dire qualcosa", ammise impacciata, e Sarah scoppiò a ridere. "Lo immaginavo. Appena arrivata, mi hanno subito informata che tu eri al corrente di tutto quello che succedeva qui". "Tutto mi sembra un po’ esagerato", precisò Brenda, fingendosi offesa. "E nonostante le malignità, non vado certo in giro a spifferare. Se qualcuno mi dice di mantenere un segreto, lo faccio". Si toccò l'orecchio con un dito e abbassò la voce. "Sulla gente di qui so certe cose che ti farebbero girare la testa come se fossi in preda al demonio", annunciò, "ma quando si tratta di confidenze, divento una tomba". "Vuoi dire che devo fidarmi di te?" "Naturale", rispose Brenda. Si guardò in giro e poi si chinò in avanti sul tavolo. "E adesso, spara". Sarah sorrise e l'altra proseguì agitando una mano. "Scherzo, è ovvio. E in futuro, dato che lavoriamo insieme, ricorda che non mi offenderò se mi dirai che mi sono intromessa troppo. A volte faccio domande senza pensarci, ma non è mia intenzione ferire nessuno. Sul serio". "Va bene, ho capito", disse Sarah soddisfatta. Brenda prese un panino. "E poi, visto che sei nuova in città e non ci conosciamo ancora bene, non ti chiederò nulla di troppo personale". "Te ne sono grata". "Inoltre, non sono cose che mi riguardano". "Giusto". Brenda addentò il panino. "Ma se hai domande da fare su qualcuno, chiedi pure liberamente", disse poi. "D'accordo", rispose Sarah schietta. "Voglio dire, io so come ci si sente in un ambiente sconosciuto, quando si ha come l'impressione di guardare tutto da fuori". "Non lo metto in dubbio". Per un istante rimasero in silenzio. "Allora..." disse Brenda in tono interrogativo. "Allora..." le fece eco Sarah, che sapeva esattamente dove la donna voleva arrivare. Altro momento di silenzio. "Allora... hai qualche domanda su... qualcuno?" buttò lì Brenda. "Mmm..." fece Sarah con aria pensierosa. E poi, scrollando la testa: "A dire il vero, no". "Oh", fece Brenda, senza riuscire a nascondere la delusione. Sarah sorrise. "Però, a pensarci bene, forse ci sarebbe una persona di cui vorrei sapere qualcosa", disse. Il viso di Brenda si illuminò all'istante. "Questo sì che è parlare", esclamò. "Che cosa vorresti sapere?" "Ecco, mi stavo chiedendo..." Sarah esitò e Brenda la guardò con l'avidità di un bambino che scarta un regalo di Natale. "Sì?" bisbigliò, in tono quasi disperato. "Ecco..." Sarah si guardò intorno. "Che cosa mi sai dire di... Bob Bostrum?" Brenda rimase a bocca aperta. "Bob... il bidello?" Sarah annuì. "Lo trovo interessante". "Ma ha settantaquattro anni". Brenda era allibita. "È sposato?" "Da cinquant'anni e ha nove figli". "Che peccato", disse Sarah scrollando il capo, mentre l'altra la fissava sconvolta. Dopo un momento, alzò la testa e guardò Brenda con una luce maliziosa negli occhi. "A questo punto non resta che Miles Ryan, allora. Che sai dirmi di lui?" Brenda la fissò con aria sospettosa. "Se non ti conoscessi, penserei che mi hai preso in giro". Sarah le strizzò l'occhio. "Hai ragione, lo ammetto. Prendere in giro la gente è una delle mie debolezze". "E ci riesci bene". Brenda ci pensò su un istante, poi sorrise. "Ma già che siamo entrate in argomento... ho sentito dire che tu e Miles Ryan vi vedete spesso. Non solo dopo la scuola, anche nel fine settimana". "Sai che do ripetizioni a Jonah, e lui mi ha chiesto di andare a vederlo giocare a calcio, sabato". "Tutto qui?" Sarah non rispose ed allora Brenda proseguì, con aria complice: "D'accordo, ti parlerò di Miles. Ha perso la moglie un paio di anni fa in un incidente stradale. È stata investita da un pirata della strada. Una storia molto triste, lui l'amava davvero e per molto tempo dopo l'incidente è stato devastato dal dolore. Erano insieme dai tempi del liceo". Fece una pausa e posò il panino sul tavolo. "L'autista non è mai stato individuato". Sarah annuì. Aveva già sentito brandelli di quella storia. "Per Miles fu un colpo molto duro. Soprattutto come sceriffo. Lo visse come un fallimento personale. Non solo il caso non venne mai risolto, ma lui se ne dava la colpa. Da allora si è come chiuso in se stesso". Brenda si strinse le mani vedendo l'espressione di Sarah. "Ma ultimamente è tornato a essere in parte quello di una volta, sta uscendo di nuovo dal guscio... e non so dirti quanto questo mi renda felice. È davvero un uomo meraviglioso. Gentile, paziente, farebbe qualsiasi cosa per gli amici. E soprattutto ama molto suo figlio..." Ebbe un'esitazione. "Ma?" le chiese Sarah dopo un po'. Brenda scrollò le spalle. "Non ci sono ma, non con lui. È un bravo ragazzo e non lo dico solo perché gli voglio bene. Lo conosco da sempre. È uno di quei rari uomini che, quando amano, lo fanno con tutto il cuore". Sarah annuì. "È una dote molto rara", commentò, seria. "Infatti. E cerca di ricordartelo, se mai tu e Miles doveste iniziare a frequentarvi". "Perché?" Brenda distolse lo sguardo. "Perché", rispose semplicemente, "non sopporterei proprio di vederlo soffrire ancora". Più tardi quel giorno Sarah si soffermò a pensare a Miles. Era commossa dal fatto che ci fossero tante persone sinceramente affezionate a lui. Non quelli di famiglia, ma degli amici. Aveva capito che Miles avrebbe voluto invitarla ad uscire dopo la partita di pallone. Il modo in cui le ronzava intorno era un segnale inequivocabile. Ma, alla fine, non gliel'aveva chiesto. Sul momento le era parso buffo. Ci aveva riso su, mentre si allontanava in macchina... ma non rideva di lui, trovava comica la sua incapacità di rendere semplici le cose. Ci aveva provato, Dio sa se l'aveva fatto, ma per qualche motivo le parole giuste non gli erano uscite di bocca. E adesso, dopo la conversazione con Brenda, Sarah credeva di sapere il perché. Miles non le aveva chiesto di uscire perché non sapeva come fare. In tutta la sua vita adulta, probabilmente non aveva mai chiesto un appuntamento a una donna... era stato assieme alla moglie dai tempi della scuola. A Baltimora non aveva mai incontrato un uomo così timido e riservato. Stranamente, lo trovava tenero. E forse, ammise con se stessa, era anche rassicurante, perché lei non era poi tanto diversa. Si era messa con Michael a ventitré anni e quando avevano divorziato ne aveva ventisette. Da allora era uscita pochissime volte, l'ultima con un tizio un po’ troppo esuberante. Dopo quell'esperienza si era convinta di non essere pronta. E forse era così, ma trascorrere del tempo assieme a Miles Ryan ultimamente le aveva ricordato che i suoi due ultimi anni erano stati solitari. In classe, di solito, le riusciva facile accantonare questi pensieri. Quand'era in piedi davanti alla lavagna, in genere riusciva a concentrarsi completamente sugli alunni, sulle loro faccine che la fissavano piene di meraviglia. Aveva finito per considerarli i suoi bambini e voleva fornire loro gli strumenti per avere successo nella vita. Quella mattina, invece, era stata piuttosto distratta e dopo la fine delle lezioni era rimasta fuori in cortile, soprappensiero, finché Jonah non la raggiunse prendendola per mano. "Si sente bene, signorina Andrews?" le chiese. "Sì, sto bene", rispose lei assente. "A vederla non sembrerebbe". Lei sorrise. "Hai parlato con mia madre?" "Come?" "Non importa. Sei pronto a cominciare?" "Ce l'ha i biscotti?" "Naturale". "Allora andiamo", disse lui. Mentre si avviavano verso la classe, Sarah notò che Jonah non voleva lasciarle la mano. Quando lei gliela stringeva, lui faceva altrettanto. Vedere quella piccola mano racchiusa nella sua le dava l'impressione che la vita avesse quasi un senso. Quasi. Quando uscirono dalla scuola dopo l'ora di sostegno, Miles era appoggiato alla macchina, come al solito, ma non degnò di un'occhiata Sarah, mentre Jonah gli correva incontro per abbracciarlo. Dopo che si erano scambiati le battute di rito - com'è andata la scuola e com'è andato il lavoro, oggi? - suo figlio era salito in macchina senza farselo dire. Sarah si avvicinò e lui distolse lo sguardo. "Stai pensando a come offrire sicurezza ai cittadini, agente Ryan? Hai l'aria di chi vuole salvare il mondo", disse lei in tono amabile. "No, sono solo un po’ preoccupato", disse Miles. "Lo vedo". A dire il vero, la giornata non era stata tanto negativa. Fino al momento di dover incontrare Sarah. In macchina, aveva pregato che si fosse dimenticata della figura ridicola che lui aveva fatto due giorni prima, dopo la partita. "Come va con Jonah?" si sforzò di chiedere. "È stato bravissimo. Domani ti darò dei libri di esercizi che mi sembrano utili. Metterò un segno nelle pagine". "Bene", rispose laconico. Lei gli sorrise e Miles dondolò da un piede all'altro, trovandola irresistibile. Chissà che cosa doveva pensare di lui. Si infilò le mani in tasca. "Mi sono divertita alla partita", disse Sarah. "Ne sono contento". "Jonah mi ha chiesto di venire anche alla prossima. Ti spiace?" "Niente affatto", rispose Miles. "Però non so a che ora giochi. L'orario ce l'ho a casa attaccato al frigorifero". Lei lo guardò con attenzione, chiedendosi il motivo di quell'improvvisa freddezza. "Se non ti va, basta che lo dica". "No, no", rispose lui. "Se Jonah ti ha chiesto di venire, devi assolutamente farlo". "Ne sei sicuro?" "Sì. Domani ti farò sapere a che ora gioca". Prima di riuscire a trattenersi, aggiunse: "E poi farebbe piacere anche a me". Gli era uscito di bocca senza volerlo. Certo, intendeva dire qualcosa del genere, ma eccolo lì di nuovo, a blaterare incontrollabilmente... "Davvero ti farebbe piacere?" chiese lei. Miles deglutì. "Certo", disse, cercando di non rovinare tutto. Sarah sorrise, felice. "Allora ci sarò di sicuro. Però, c'è una cosa..." Oh, no... "Che cosa?" Lo guardò dritto negli occhi. "Ti ricordi quando mi hai chiesto del ventilatore?" Alla parola ventilatore, tutte le stressanti emozioni che aveva provato nel fine settimana tornarono ad assalirlo. "Sì?" disse cauto. "Venerdì sera sono libera, se ti interessa ancora". Lui impiegò qualche istante a connettere. "Mi interessa", rispose infine con un sorriso. Capitolo nono La sera di giovedì - mancava solo un giorno al DDay, come aveva cominciato a chiamarlo mentalmente - Miles era nel lettone con Jonah e stavano leggendo un libro. Erano appoggiati ai cuscini, con le coperte rimboccate ai loro piedi. Il bambino aveva ancora i capelli bagnati e odorava di bagnoschiuma. La sua pelle emanava un profumo dolce ed innocente. Erano a metà di una pagina, quando all'improvviso Jonah alzò lo sguardo verso di lui. "Ti manca la mamma?" Miles posò il libro, poi cinse il figlio con il braccio. Erano passati diversi mesi dall'ultima volta che aveva menzionato la madre di sua volontà. "Sì, molto", disse. Jonah giocherellava con il tessuto del suo pigiama, facendo scontrare due piccoli camion dei pompieri. "Pensi a lei?" "In continuazione". "Anch'io ci penso", disse piano Jonah. "A volte, quando sono a letto..." Guardò Miles con aria corrucciata. "Ho delle immagini nella testa..." Tacque. "Una specie di film?" "Sì, ma assomiglia di più a una fotografia. Però non riesco a vederla sempre". Miles lo strinse forte. "E ti mette tristezza?" "Non so. A volte". "È giusto essere tristi. Tutti sono tristi, di tanto in tanto. Persino io". "Ma tu sei grande". "Anche i grandi possono sentirsi tristi". Jonah rimase assorto a pensare mentre faceva scontrare di nuovo i camion dei pompieri. La sottile flanella strusciava avanti e indietro. "Papà?" "Sì?" "Sposerai la signorina Andrews?" Miles era stupito. "In realtà non ci avevo pensato", rispose sincero. "Ma avete un appuntamento, giusto? Questo non significa che vi sposerete?" Miles sorrise. "Chi te l'ha detto?" "Dei ragazzi più grandi, a scuola. Hanno detto che prima ti incontri e poi ti sposi". "Vedi", disse il padre, "in effetti hanno ragione, però si sbagliano anche. Il fatto che io vada a cena con la signorina Andrews non significa che ci sposeremo, ma soltanto che vogliamo stare un po’ insieme per conoscerci meglio. A volte ai grandi piace farlo". "Perché?" Credimi, figliolo, lo capirai tra qualche anno. "Perché sì. È come... ecco, pensa a quando giochi con i tuoi amici e ridi e ti diverti. Per noi grandi è lo stesso". "Oh", fece Jonah. Aveva l'aria più seria della sua età. "E parlerete di me?" "È probabile. Ma non ti preoccupare. Diremo solo cose belle". "E quali?" "Chissà, magari parleremo della partita. Oppure le dirò quanto sei bravo a pescare. E parleremo di come sei intelligente..." Jonah scrollò la testa, corrugando la fronte. "Io non sono intelligente". "Ma certo che lo sei. Sei molto intelligente, e lo pensa anche la signorina Andrews". "Ma sono l'unico della mia classe che deve fermarsi a scuola di pomeriggio". "Sì, bè... non vuol dire niente. Anch'io da bambino dovevo fermarmi a scuola dopo le lezioni". Jonah ora sembrava molto interessato. "Davvero?" "Sì. E non l'ho fatto solo per qualche mese. Ho dovuto fermarmi per due anni". "Due anni?" Miles assentì con enfasi. "Tutti i giorni". "Uau", esclamò Jonah, "allora dovevi essere proprio stupido, se hai dovuto farlo per due anni". Non era quello che volevo dire, ma se ti fa sentire meglio, va bene così. "Tu invece sei un ragazzino sveglio, non dimenticarlo mai, d'accordo?" "La signorina Andrews ha detto davvero che sono intelligente?" "Me lo ripete tutti i giorni". Jonah sorrise. "È una brava maestra". Si concentrò sul gioco e i camion dei pompieri ricominciarono a scontrarsi. "La trovi carina?" chiese dopo un po’ in tono innocente. Oddio, e questa da dove salta fuori? "Ecco..." "Per me è carina", dichiarò Jonah. Piegò le ginocchia e si allungò a prendere il libro per ricominciare a leggere. "A volte mi fa pensare alla mamma". A queste parole Miles non trovò nulla da replicare. Anche Sarah era rimasta senza parole, seduta nel salotto di casa sua. Dovette fermarsi a riflettere un istante prima di ritrovare la voce. "Non ne ho idea, mamma. Non gliel'ho chiesto". "Ma è un poliziotto, giusto?" "Sì... ma non è mai venuto fuori un argomento del genere". La madre le aveva domandato se Miles avesse mai sparato a qualcuno. "La mia era soltanto curiosità, va bene? Si vedono di quelle storie in televisione e poi, con le notizie che si leggono sui giornali, non mi sorprenderebbe affatto. È un lavoro pericoloso". Sarah chiuse gli occhi, esasperata. Da quando le era sfuggito di bocca che sarebbe uscita a cena con Miles, la madre aveva cominciato a telefonarle due volte al giorno, facendole un sacco di domande, alle quali non era in grado di rispondere. "Glielo chiederò da parte tua, va bene?" La madre trattenne il fiato. "Non provarci nemmeno! Non vorrei rovinare le cose fin dal principio". "Non c'è niente da rovinare, mamma. Non siamo ancora nemmeno usciti". "Però hai detto che è attraente, giusto?" Sarah si strofinò gli occhi, sfinita. "Sì, mamma. È un bel tipo". "Bene, allora ricorda che la prima impressione è quella che conta". "Lo so, mamma". "E mi raccomando, vestiti bene. Non mi importa che cosa c'è scritto sulle riviste di moda; bisogna avere l'aspetto di una vera signora quando si va ad un appuntamento. Quello che indossano le donne oggigiorno..." Mentre Maureen proseguiva instancabile, Sarah si immaginò di riattaccare, invece si limitò a sfogliare la posta. Bollette, lettere varie, un invito a sottoscrivere una carta di credito. Presa da quell'attività, non si era accorta che la madre aveva smesso di parlare e stava aspettando una risposta. "Sì, mamma", rispose automaticamente. "Ma mi stai ascoltando?" "Certo che ti ascolto". "Allora, passerete di qui?" Credevo che stessimo parlando di abbigliamento... Sarah si sforzò di ricostruire le fila del discorso. "Vuoi dire che devo presentarvelo?" chiese infine. "Sono sicura che a tuo padre farebbe piacere conoscerlo". "Ma... veramente non so se ne avremo il tempo". "Mi hai appena detto che non avete ancora un programma preciso". "Vedremo, mamma. Ma non contarci troppo". Ci fu una lunga pausa all'altro capo del filo. "Oh", disse la madre. E poi, provando con un approccio diverso: "Sai, mi sarebbe piaciuto almeno farvi un saluto". Sarah ricominciò a guardare la posta. "Non posso assicurarti che passeremo da voi. Come hai detto tu, non vorrei rovinare suoi eventuali progetti per la serata. Mi capisci, vero?" "Certo, certo", rispose la madre, chiaramente delusa. "Ma anche se non ce la farete, mi chiamerai per raccontarmi com'è andata, d'accordo?" "Sì, mamma, ti chiamerò". "E spero che tu ti diverta". "Lo farò". "Ma non troppo..." "Capisco", rispose Sarah, prevenendola. "Voglio dire, è il vostro primo appuntamento..." "Ho capito, mamma", ripeté Sarah con maggiore enfasi. "Bene, allora, ci siamo capite. Adesso ti lascio. A meno che tu non voglia parlarmi d'altro". "No, penso che non sia rimasto più nulla da dire". Chissà poi perché, ma dopo questo scambio di battute, la conversazione durò ancora una decina di minuti. Più tardi quella sera, dopo che il bambino si era addormentato, Miles infilò una vecchia cassetta nel videoregistratore e si mise comodo a guardare Missy e Jonah sulla spiaggia nei pressi di Fort Macon. Jonah all'epoca aveva circa tre anni e si divertiva moltissimo a giocare con i camioncini sulle strade di sabbia spianate dalla madre con le mani. Missy aveva ventisei anni... con il bikini azzurro sembrava ancora una giovane studentessa universitaria. Nel filmino faceva segno a Miles di mettere via la telecamera per giocare con loro, ma quel mattino a lui interessava soprattutto restare a guardare la sua famiglia. Gli piaceva osservarli insieme; gli piaceva la sensazione che gli dava sapere che Missy amava Jonah come a lui da bambino non era successo. I suoi genitori non erano stati così espansivi. Erano delle brave persone, solo che non avevano l'abitudine di manifestare i propri sentimenti, nemmeno con il figlio; e ora che sua madre era morta e il padre in giro per il mondo, gli sembrava quasi di non averli mai conosciuti. A volte Miles si chiedeva come sarebbe diventato, se non avesse incontrato Missy sulla sua strada. Sua moglie si mise a scavare una buca con la paletta di plastica a pochi centimetri dall'acqua, poi usò le mani per fare più in fretta. In ginocchio era alta quanto Jonah, che le stava vicino, indicando e dirigendo, come un architetto nelle prime fasi di una costruzione. Missy sorrideva e gli parlava... le sue parole, però, erano coperte dal frastuono incessante delle onde e Miles non poteva udirle. La sabbia si ammucchiava intorno, a mano a mano che scavava, e dopo un po’ fece segno a Jonah di infilarsi nella buca. Con le ginocchia raccolte sul petto ci entrava giusto giusto, e Missy cominciò a riempire la buca, spingendo e livellando la sabbia intorno al corpo del figlio. In pochi minuti era coperto fino al collo; una tartaruga di sabbia con la testa di bambino. Missy aggiunse altra sabbia qua e là, per nascondergli anche le braccia. Jonah muoveva le dita, facendo cadere un po’ di sabbia e lei ricominciava l'opera. Mentre sistemava le ultime manciate, il bambino si mosse di nuovo e Missy scoppiò a ridere. Gli posò un mucchietto di sabbia bagnata sulla testa e Jonah rimase immobile. Poi si chinò su di lui per baciarlo e Miles lesse sulle labbra del figlio le parole "Ti voglio bene, mamma". "Anch'io", rispose lei. A quel punto si girò verso il marito. Miles le aveva detto qualcosa e lei aveva sorriso... ma anche questa volta le parole erano andate perdute. Sullo sfondo, alle sue spalle, si vedevano poche persone. Era maggio, mancava ancora una settimana all'arrivo della folla dei bagnanti ed era un giorno infrasettimanale, se ricordava bene. Missy diede un'occhiata in giro e si alzò. Si mise una mano sul fianco, alzò l'altra dietro la testa e lo guardò con le palpebre socchiuse, l'espressione sensuale ed invitante. Poi abbandonò quella posa provocante, rise come se fosse imbarazzata e gli andò incontro, baciando l'obiettivo della telecamera. Il filmino terminava lì. Quei nastri erano molto preziosi per Miles. Li custodiva in una scatola ignifuga che aveva comperato dopo il funerale; li aveva già guardati una decina di volte. Lì Missy tornava ad essere viva; la vedeva muoversi, ascoltava il suono della sua voce. Lì poteva sentirla di nuovo ridere. Jonah non li aveva mai visti. Forse non sapeva neppure che esistessero, perché era troppo piccolo quando le scene erano state girate. Miles non aveva più ripreso in mano la telecamera dopo la morte di Missy, per lo stesso motivo che lo aveva spinto a smettere di fare un sacco di altre cose. Gli costava troppo sforzo. Non voleva più registrare nulla. Non sapeva che cosa ora l'avesse spinto a guardare quella cassetta. Forse erano state le parole che Jonah gli aveva detto, forse il fatto che l'indomani avrebbe portato una novità nella sua vita per la prima volta da quella che gli sembrava un'eternità. Comunque fosse andata con Sarah, le cose stavano cambiando. Lui stava cambiando. Perché aveva tanta paura? La risposta arrivò dallo sfarfallio sullo schermo. Forse, sembrava dire, era perché non aveva mai scoperto che cosa fosse davvero accaduto a Missy. Capitolo decimo Il funerale di Missy Ryan venne celebrato mercoledì mattina nella chiesa episcopale del centro di New Bern. La navata poteva ospitare quasi cinquecento persone, ma non era abbastanza grande. C'era molta gente in piedi e la folla si era raccolta anche intorno alla soglia, per renderle omaggio dal punto più vicino possibile. Ricordo che quella mattina aveva cominciato a piovere. Era una pioggia leggera ma insistente, di quelle che rinfrescano la terra e tolgono l'umidità dall'aria di fine estate. Dal terreno si alzava una nebbiolina, eterea e spettrale; sulla strada si erano formate piccole pozzanghere. Io osservavo un corteo di ombrelli neri, tenuti da persone vestite di nero, che avanzava lentamente, come se la gente camminasse sulla neve. Vidi Miles Ryan seduto dritto sul primo banco davanti all'altare. Stringeva la mano di Jonah, che all'epoca aveva solo cinque anni. Era abbastanza grande da capire che la madre era morta, ma non ancora abbastanza per realizzare che non l'avrebbe mai rivista. Sembrava più frastornato che triste. Il padre sedeva pallido e a labbra serrate, mentre i conoscenti gli sfilavano davanti a uno a uno, offrendogli la mano o un abbraccio. Sembrava che facesse fatica a guardare la gente negli occhi, ma non piangeva né tremava. Mi voltai e tornai in fondo alla navata. Non gli dissi nulla. Non dimenticherò mai l'odore di legno stagionato e di candele accese, mentre stavo lì nell'ultima fila. Vicino all'altare una chitarra suonava piano. Accanto a me venne a sedersi una signora, seguita subito dal marito. Teneva in mano un pacchetto di fazzoletti di carta, con cui si tamponava gli angoli degli occhi. Il marito le teneva una mano sul ginocchio per cercare di confortarla. A differenza dell'atrio, dove la gente continuava ad affluire, in chiesa c'era silenzio, rotto soltanto dai singhiozzi dei presenti. Nessuno parlava; nessuno sembrava sapere che cosa dire. Fu allora che mi venne da vomitare. Ricacciai indietro la nausea, mentre la fronte mi si imperlava di sudore. Avevo le mani appiccicose. Non volevo essere lì, non avrei dovuto partecipare. Più di ogni altra cosa, desideravo alzarmi e andarmene. Restai. Una volta iniziata la cerimonia, ebbi difficoltà a concentrarmi. Se mi chiedeste oggi che cosa disse il reverendo, oppure il fratello di Missy nell'elegia, non saprei rispondervi. Ricordo però che le parole non mi consolarono. L'unico pensiero che avevo in testa era che Missy Ryan non sarebbe dovuta morire. Dopo la messa ci fu una lunga processione fino al cimitero di Cedar Grove; vi presero parte, credo, tutti gli agenti di polizia e gli sceriffi della contea. Attesi che fossero saliti in macchina e poi mi accodai, seguendo l'auto che avevo davanti. Tutti tenevano i fari accesi e, come un automa, accesi anche i miei. Mentre avanzavamo, la pioggia s'infittì. I tergicristalli la spazzavano ritmicamente da una parte all'altra. Il cimitero distava solo pochi minuti. Le auto vennero parcheggiate, la gente aprì gli ombrelli e camminò nelle pozzanghere, convergendo da ogni direzione. Io la seguii alla cieca e rimasi in fondo, a mano a mano che la folla si raccoglieva intorno alla fossa. Rividi Miles e Jonah; stavano in piedi a testa china, fradici di pioggia. Gli addetti delle pompe funebri trasportarono il feretro verso la tomba, circondata da centinaia di corone di fiori. Pensai di nuovo che non volevo essere lì. Non sarei dovuto venire. Non era quello il mio posto. Però ero presente. Spinto da un impulso irrefrenabile, non avevo avuto scelta. Dovevo vedere Miles, dovevo vedere Jonah. Anche allora, sapevo già che le nostre vite sarebbero state intrecciate per sempre. Dovevo essere lì, capite. Dopo tutto, c'ero io alla guida dell'auto. Capitolo undicesimo Il venerdì portò la prima aria frizzante. La mattina presto, i ciuffi d'erba erano ricoperti da un sottile strato di brina e il respiro si condensava in nuvolette di vapore. Le querce ed i castagni dovevano ancora cominciare la loro lenta trasformazione verso le tinte autunnali e, con il passare delle ore, Sarah osservava il sole filtrare tra le foglie ancora verdi. Miles sarebbe presto arrivato e lei aveva continuato a pensarci per tutta la giornata. Dai tre messaggi lasciati in segreteria dedusse che anche la madre ci stava pensando... tre erano un po’ troppo per i suoi gusti. "A proposito di stasera, non dimenticare la giacca. Non vorrai mica prenderti una polmonite. Con questo freddo, bisogna essere prudenti", esordiva il primo messaggio, e da lì Maureen proseguiva offrendo una serie di interessanti consigli che andavano dal non esibire un trucco troppo pesante o gioielli vistosi, "per non dargli un'impressione sbagliata", all'assicurarsi di non avere le calze smagliate. "Non c'è niente di peggio, sai". Il secondo aveva un tono un po’ più ansioso, come se la madre fosse consapevole di avere poco tempo per dispensare tutta la sua esperienza mondana accumulata negli anni. "Quando dicevo giacca, mi riferivo a qualcosa di elegante. Di chiaro. So che potresti avere freddo, ma l'aspetto viene prima di tutto. E per amor del cielo, non metterti la giacca verde, quella lunga che ti piace tanto. Terrà anche caldo, ma è brutta come il peccato..." Nell'udire la sua voce che nel terzo messaggio le spiegava in tono concitato l'importanza di leggere il giornale "per avere argomenti di cui parlare", Sarah perse la pazienza e spense la segreteria. Doveva prepararsi per l'appuntamento. Un'ora più tardi, da dietro la finestra, vide Miles svoltare l'angolo con una lunga scatola sottobraccio. Si fermò un attimo, come per controllare di essere nel posto giusto, poi aprì la porta dell'atrio e scomparve all'interno dell'edificio. Mentre sentiva i suoi passi risuonare lungo le scale, Sarah si lisciò l'abitino nero che aveva indossato dopo un'estenuante selezione ed aprì l'uscio di casa. "Ehi, ciao... sono in ritardo?" Sarah sorrise. "No, sei in perfetto orario. Ti ho visto arrivare". Miles fece un profondo respiro. "Sei molto bella", disse. "Grazie". Lei fece un cenno verso la scatola. "È per me?" Lui annuì e le porse la scatola. Conteneva sei rose gialle. "Una per ogni settimana che hai lavorato con Jonah". "Che pensiero gentile", disse lei sincera. "Mia mamma ne rimarrebbe impressionata". "Tua madre?" Sarah sorrise. "Ti spiegherò dopo. Accomodati pure, mentre cerco un vaso". Miles entrò e lanciò una rapida occhiata all'appartamento. Era grazioso... più piccolo di quanto pensasse, ma molto accogliente ed arredato con gusto. C'erano un comodo divano imbottito, con i tavolini laterali in tinta, una sedia a dondolo di legno intagliato in un angolo, vicino a una lampada a stelo che sembrava antica. In cucina, Sarah aprì lo sportello sopra il lavandino, scostò qualche ciotola e tirò fuori un vaso di cristallo che riempì d'acqua. "Hai una bella casetta", osservò Miles, comparendo sulla soglia. Sarah alzò lo sguardo. "Grazie. A me piace molto". "L'hai arredata da sola?" "In gran parte, sì. Avevo portato dei mobili da Baltimora, ma dopo aver visto i negozi di antiquariato qui, ho deciso di sostituire quasi tutto. Si trova della roba molto interessante a New Bern". Miles passò la mano su un vecchio secrétaire collocato vicino alla finestra, poi scostò le tende per guardare fuori. "Ti piace abitare in centro?" Sarah prese un paio di forbici dal cassetto e cominciò a spuntare gli steli delle rose. "Sì, anche se devo ammettere che la confusione per strada mi tiene sveglia tutta la notte. Tutto quel viavai di gente, le urla, le risse, la gazzarra che continua fino all'alba. È sorprendente che riesca a dormire qualche ora". "Ho capito. Qui è molto tranquillo, vero?" Lei infilò i fiori nel vaso, disponendoli con cura a uno a uno. "È il primo posto dove abito in cui tutti sembrano essere già a letto alle nove di sera. Appena tramonta il sole, New Bern si trasforma in una città fantasma, ma suppongo che questo renda il tuo lavoro più facile, vero?" "A essere sinceri, la cosa non mi riguarda. A parte le multe, la mia giurisdizione finisce ai confini della città. In genere lavoro fuori nella contea". "A preparare quelle trappole per gli automobilisti spericolati per cui è tanto famoso il Sud?" chiese lei ridendo. Miles scrollò il capo. "No, non faccio nemmeno quello. È compito della polizia stradale". "Allora mi stai dicendo che in realtà non fai molto..." "Esattamente", confermò lui. "A parte l'insegnamento, non mi viene in mente un lavoro più facile e meno faticoso del mio". Con una risata Sarah sistemò il vaso al centro del bancone. "Sono stupende. Grazie". Si diresse verso l'ingresso e prese la borsa. "Allora, dove andiamo?" "Proprio qui dietro l'angolo, all" Harvey Mansion. Senti, fa un po’ freschino fuori, forse è meglio se metti una giacca", disse, guardando il suo vestito senza maniche. Sarah aprì l'armadio, ricordando le parole della madre e rimpiangendo di non averle ascoltate. Detestava il freddo, ma invece di prendere "la giacca verde, quella lunga" che sarebbe stata più adatta al clima, ne scelse una leggera intonata al vestito e che avrebbe ottenuto l'approvazione di Maureen. Elegante. Quando se la infilò, Miles le lanciò una strana occhiata. "Qualcosa non va?" gli chiese. "Ecco... Sei sicura di non volerti mettere qualcosa di più pesante?" "Non ti spiacerebbe?" "E perché?" Sarah fu ben lieta di poter indossare la sua amata giacca verde. Poi chiuse a chiave la porta di casa e scesero insieme le scale. Non appena uscì, l'aria fredda e frizzante le pizzicò le guance ed istintivamente lei affondò le mani dentro le tasche. "Vedi che è stato meglio mettere questa giacca?" "Lo so", rispose lei sorridendo. "Ma non si intona al vestito". "Preferisco che tu stia comoda. E poi, ti sta bene". Quelle parole la riempirono di gratitudine. Béccati questa, mamma! Si avviarono lungo il marciapiede e dopo pochi passi Sarah sorprendendo se stessa quanto lui - tirò fuori una mano di tasca e lo prese sottobraccio. "Bene", disse, "lascia che ti parli di mia madre". Erano seduti a tavola e Miles fece una sonora risata. "Dev'essere una donna fantastica". "È facile per te dirlo. Non è mica tua madre!" "È un modo per dimostrarti il suo affetto". "Lo so. Ma sarebbe meglio se non fosse sempre così in ansia. A volte penso che lo faccia apposta per darmi sui nervi". Miles notò che Sarah, nonostante la sua evidente esasperazione, aveva un aspetto davvero raggiante al lume di candela. L" Harvey Mansion era uno dei migliori locali della città. Era un ambiente molto romantico al primo piano di una casa privata costruita nel 1790. I proprietari avevano deciso di aprire un ristorante in quella che un tempo era la biblioteca, una stanza di media grandezza, dalla luce soffusa, con il pavimento di quercia rossa e il soffitto affrescato. Lungo due pareti correvano scaffali di mogano che ospitavano ancora centinaia di libri; la terza parete era occupata da un caminetto acceso. Sarah e Miles erano seduti in un angolo, c'erano solo altri cinque tavoli nella sala e i clienti chiacchieravano discretamente producendo un brusio sommesso. "Mmm... credo che tu abbia ragione", commentò Miles. "Penso che tua madre stia sveglia di notte a escogitare nuovi metodi per darti il tormento". "Ero convinta che non l'avessi mai conosciuta". Miles rise. "Se non altro, lei è presente nella tua vita. Come devo averti già detto, mio padre e io ormai non ci parliamo quasi più". "Adesso lui dove si trova?" "Non ne ho idea. Un paio di mesi fa mi ha mandato una cartolina da Charleston, ma non è detto che sia ancora lì. In genere non si ferma a lungo in un posto, non telefona mai e torna in città molto di rado. Sono anni che non ci vediamo". "Non capisco come possa essere tanto indifferente". "È fatto così. Ma del resto non è mai stato un padre modello, nemmeno quando ero piccolo. Mi dava l'impressione che gli desse fastidio avere sempre noi tra i piedi". "Noi?" "La mamma e io". "Non l'amava?" "Non ne ho idea". "Dai, non è possibile". "Te lo giuro. Lei era incinta quando si sposarono e sinceramente non posso dire che fossero fatti l'uno per l'altra. Il loro era un rapporto difficile... un giorno sembravano pazzamente innamorati e il giorno dopo mia madre buttava in giardino i suoi vestiti dicendogli di non farsi più vedere. Quando lei morì, lui fece le valigie e se ne andò il più in fretta possibile. Lasciò il lavoro, vendette la casa, si comprò una barca e mi comunicò che partiva per andare a vedere il mondo. Non capiva un'acca di navigazione, ma dichiarò che avrebbe imparato poco per volta quello che gli serviva. E immagino che l'abbia fatto". Sarah si accigliò. "Certo che è strano". "Non per lui. A essere sincero, non rimasi molto sorpreso, ma dovresti conoscerlo per capire che cosa voglio dire". Scrollò lievemente la testa, come se provasse disgusto. "Com'è morta tua madre?" chiese allora Sarah. Sul viso di lui comparve un'espressione desolata, facendola pentire all'istante di quella domanda. "Scusa... non ho mostrato grande sensibilità". "Non fa niente", mormorò Miles, "non preoccuparti. È successo molto tempo fa, perciò non mi è difficile parlarne. Solo che... erano anni che nessuno mi chiedeva più di mia madre". Cominciò a tamburellare distrattamente le dita sulla tavola, poi raddrizzò la schiena. Parlò in tono neutro, come se riferisse la vicenda di un estraneo. Sarah riconobbe quel tono: era lo stesso che lei usava quando raccontava di Michael. "La mamma cominciò a soffrire di forti dolori di stomaco. A volte non riusciva più nemmeno a dormire la notte. Credo che in fondo sapesse che era qualcosa di grave, ma quando alla fine si decise ad andare dal dottore, il cancro ormai si era diffuso anche al pancreas e al fegato. Non c'era più niente da fare. Morì tre settimane dopo". "Mi spiace", disse Sarah senza sapere che altro aggiungere. "Anche a me", fece lui. "Avresti dovuto conoscerla". Vennero interrotti dal cameriere che si avvicinò al tavolo per chiedere che cosa volevano da bere. Miles e Sarah fecero le ordinazioni, poi aprirono il menu e gli diedero una rapida occhiata. "Che cosa c'è di buono?" chiese lei. "A dire il vero, tutto". "Nessun piatto speciale della casa?" "Io probabilmente opterò per una bistecca". "Chissà perché la cosa non mi stupisce". Lui la guardò. "Hai qualcosa contro la carne?" "Per niente. In effetti non mi sembravi tipo da tofu e insalata". Mise giù il menu. "D'altro canto io, invece, devo badare alla mia linea da ragazzina". "E allora che cosa prendi?" Lei sorrise. "Bistecca". Miles chiuse il menu e lo appoggiò di lato sopra l'altro. "Bene, adesso che abbiamo parlato di me, perché non mi racconti un po’ della tua vita? Com'è stato crescere nella tua famiglia?" Sarah lo guardò pensierosa. "Diversamente dai tuoi, i miei genitori erano la coppia perfetta. Abitavamo alla periferia di Baltimora in una classica villetta: quattro stanze, due bagni e poi veranda, giardino e staccionata bianca. Andavo a scuola in autobus con i miei vicini di casa, giocavo in giardino durante il fine settimana e avevo la collezione di Barbie più grande di tutto l'isolato. Papà lavorava in ufficio e indossava sempre giacca e cravatta; la mamma stava a casa e credo di non averla mai vista senza grembiule. Era un'ottima cuoca, tutti i giorni preparava i biscotti per me e mio fratello e noi li mangiavamo in cucina, mentre le raccontavamo quello che avevamo imparato a scuola". "Sembra davvero perfetto". "E lo era. La mamma era stupenda quando eravamo piccoli. Era il genere di donna a cui si rivolgevano anche gli altri bambini del vicinato, se si facevano male o si mettevano nei pasticci. Solo quando mio fratello e io siamo cresciuti ha cominciato a diventare paranoica". Miles la guardò scettico. "Ma è cambiata lei, oppure era sempre stata paranoica e voi non ve n'eravate mai accorti?" "Una tipica domanda da Sylvia, questa". "Sylvia?" "È... una mia cara amica", rispose lei evasiva. Miles non diede segno di aver notato il suo imbarazzo. In quel momento arrivò da bere ed il cameriere prese le ordinazioni. Non appena si fu allontanato, Miles si chinò in avanti, avvicinando il viso a quello di lei. "Che tipo è tuo fratello?" "Brian? Un bravo ragazzo. Ti giuro che è più maturo di molte persone con cui lavoro, ma è timido e non sa stare in mezzo alla gente. Tende a essere un po’ troppo introverso, però, quando siamo insieme, andiamo d'amore e d'accordo. Lui è uno dei motivi principali che mi hanno spinto a tornare qui. Volevo trascorrere un po’ di tempo assieme prima che andasse all'università. È partito da poco". Miles annuì. "Allora è molto più giovane di te", disse, e Sarah lo guardò un po’ seccata. "Non molto più giovane". "Bè... abbastanza. Tu cos'hai, quaranta? Quarantacinque anni?" chiese lui, vendicandosi per quello che lei gli aveva detto la prima volta che si erano visti. Sarah rise. "Una ragazza deve stare molto attenta con te". "Scommetto che lo dici a tutti quelli con cui esci". "A dire il vero sono un po’ fuori esercizio", ribatté lei. "Non sono uscita spesso da quando ho divorziato". Miles abbassò il bicchiere. "Stai scherzando, vero?" "No". "Una ragazza come te? Sono sicuro che avrai ricevuto una montagna di inviti". "Questo non significa che abbia accettato". "Fai la difficile, eh?" la canzonò Miles. "No", rispose lei. "Però non voglio ferire nessuno". "Sei una rubacuori, allora?" Lei tenne lo sguardo abbassato sulla tavola. "No", disse infine. "Sono un cuore infranto". Quelle parole lo sorpresero. Miles cercò di trovare una battuta spiritosa, ma dopo aver visto la sua espressione, preferì non dire nulla. Per qualche istante lei sembrò immersa in un mondo tutto suo. Alla fine gli si rivolse con un sorriso quasi imbarazzato. "Scusami. Ho rovinato l'atmosfera, vero?" "Niente affatto", rispose Miles prontamente. Le prese la mano e gliela strinse con delicatezza. "E poi, dovresti sapere che il mio umore non si guasta tanto facilmente", proseguì. "Certo, se mi avessi gettato in faccia il tuo bicchiere di vino rosso, dandomi del mascalzone..." Nonostante la tensione che l'animava, Sarah rise. "Sarebbe un problema per te?" chiese, tornando a rilassarsi. "È probabile", rispose lui con una strizzatina d'occhi. "Ma anche in quel caso, visto e considerato che è il nostro primo appuntamento, potrei lasciar correre". Quando uscirono dal ristorante alle dieci e mezzo, Sarah non sapeva come continuare la serata. La cena e la conversazione erano state molto piacevoli, non voleva separarsi da Miles, ma non era ancora pronta ad invitarlo a casa sua. Alle loro spalle, a poca distanza, il motore di una macchina si raffreddava emettendo sporadici ticchettii. "Che ne diresti di fare un salto al Tavern?" propose Miles. "È poco lontano da qui". Sarah annuì e si strinse nella giacca mentre si avviavano lentamente lungo il marciapiede, camminando vicini. Le strade erano deserte e passarono davanti alle vetrine chiuse di gallerie d'arte e negozi di antiquariato, poi di un'agenzia immobiliare, una pasticceria e una libreria... "Ma dov'è esattamente questo posto?" "Da questa parte", rispose Miles indicando con il braccio. "Appena svoltato l'angolo". "Non ne ho mai sentito parlare". "È naturale", disse lui. "È un ritrovo appartato: il proprietario è convinto che, se non lo conosci, non fa per te". "Ma come fanno a restare aperti?" "Se la cavano", rispose lui laconico. Un attimo dopo giravano l'angolo. Lungo la via erano parcheggiate varie macchine, ma non c'era segno di vita. L'atmosfera era quasi spettrale. A metà isolato, Miles si fermò all'imbocco di un vicolo stretto tra due edifici, uno dei quali aveva l'aria abbandonata. In fondo, a una decina di metri, c'era una lampadina solitaria appesa storta. "Ci siamo", disse lui. Sarah esitava e lui la prese per mano guidandola lungo il vicolo per poi fermarsi sotto la lampadina. Il nome del locale era scritto a lettere fosforescenti sopra la porta deformata. Da dentro proveniva la musica. "Incredibile", commentò lei. "Solo il meglio, per te". "Sbaglio o sento una nota di sarcasmo?" Miles rise, poi aprì la porta e la precedette dentro. Ricavato all'interno di quello che sembrava un edificio abbandonato, il Tavern era un ambiente buio e con un vago sentore di legno ammuffito, ma incredibilmente grande. Da una parte erano collocati quattro tavoli da biliardo sotto le lampade con la pubblicità di marche di birra; sulla parete di fondo correva un lungo bancone da bar. Accanto alla porta stava un vecchio jukebox e il resto dello spazio era occupato da una decina di tavoli messi alla rinfusa. Il pavimento era di cemento e le sedie scompagnate. Il locale era gremito. C'era gente al bar, ai tavoli e altra che si accalcava intorno ai biliardi. Due donne, con un trucco vistoso, erano appoggiate al jukebox e ancheggiavano a ritmo della musica con il corpo fasciato nei vestiti stretti mentre leggevano i titoli delle canzoni. Miles la guardò divertito. "Sorprendente, vero?" "Se non l'avessi visto con i miei occhi, non ci avrei creduto. Quanta gente". "È normale nei fine settimana". Diede una rapida occhiata in giro per la sala, alla ricerca di un posto per sedersi. "Ci sono dei posti là in fondo..." propose lei. "Quelli sono per i giocatori di biliardo". "Bè, che ne dici di fare una partita?" "A biliardo?" "E perché no? C'è un tavolo libero. E poi là dev'esserci meno fracasso". "Mi hai convinto. Vado a dirlo al barista. Prendi qualcosa?" "Una Coors Light, se ce l'hanno". "Credo di sì. Ci vediamo al biliardo". Detto questo, Miles si diresse al banco, facendosi largo tra la gente. Bilanciandosi tra due sgabelli, alzò la mano per richiamare l'attenzione del barista. A giudicare dalla folla in attesa, non sarebbe stato facile. Faceva caldo lì dentro e Sarah si tolse la giacca. Mentre se la metteva sottobraccio, udì una porta aprirsi alle sue spalle. Si girò, facendosi da parte per lasciar entrare due uomini. Il primo, tatuato e con i capelli lunghi, aveva un aspetto decisamente minaccioso; il secondo, in jeans e polo, non poteva essere più diverso. Sarah si chiese che cosa mai avessero in comune. Ma guardandoli meglio, concluse che il secondo metteva più paura del primo. Qualcosa nella sua espressione, nel suo portamento, gli dava un'aria inquietante. Fu grata che il primo le passasse accanto senza nemmeno notarla. L'altro, però, si fermò e lei si sentì addosso il suo sguardo. "Non ti avevo mai visto da queste parti. Come ti chiami?" le chiese. Sarah avvertì con un brivido il suo gelido apprezzamento. "Sylvia", mentì. "Posso offrirti da bere?" "No, grazie", rispose scrollando il capo. "Allora vuoi venire a sederti con me e mio fratello?" "Non sono sola", disse lei. "Io non vedo nessuno". "Lui è al bar". "Avanti, Otis!" gridò il tatuato. L'altro non gli badò, gli occhi ancora incollati su Sarah. "Sicura di non volere niente da bere, Sylvia?" "Sicura", rispose lei. "Perché no?" Per qualche motivo, anche se quelle parole furono pronunciate in tono calmo, persino educato, lei avvertì una corrente sotterranea di collera. "Te l'ho detto... non sono sola", ripeté lei facendo un passo indietro. "E dai, Otis! Ho voglia di bere!" Otis Timson guardò il fratello, poi tornò a fissare Sarah, sorridendole come se fossero a un ricevimento. "Sarò qui in giro, se dovessi cambiare idea, Sylvia", disse in tono sicuro. Non appena se ne fu andato, lei tirò un sospiro di sollievo e si gettò tra la folla, dirigendosi verso i biliardi. Quando li raggiunse, mise la giacca su uno sgabello libero e poco dopo arrivò Miles con le birre. Gli bastò un'occhiata per capire che era successo qualcosa. "Che cosa c'è?" le chiese, porgendole la bottiglia di Coors. "Un tizio voleva rimorchiarmi. Non so perché, ma mi dava i brividi. Mi ero dimenticata che in posti come questo può succedere". L'espressione di Miles si incupì lievemente. "Ti ha fatto qualcosa?" "Niente che non abbia potuto gestire". Lui sembrò valutare quella risposta. "Ne sei sicura?" Sarah esitò. "Sì, certo", rispose alla fine. E poi, commossa dalla sua sincera preoccupazione, toccò la sua bottiglia con la propria, strizzandogli l'occhio. Aveva deciso di scacciare dalla mente lo sgradevole incidente di poco prima. "Allora, vogliamo giocare?" Miles si sfilò la giacca e si arrotolò le maniche, poi prese due stecche da una rastrelliera sul muro. "Le regole sono semplici", spiegò. "Le palle dall'uno al sette sono di un solo colore, quelle dal nove al quindici sono a strisce". "Lo so", rispose lei con un cenno della mano. Lui la guardò sorpreso. "Hai già giocato?" "Credo che tutti ci abbiano provato almeno una volta". Miles le porse la stecca. "Allora siamo pronti. Rompi tu? Oppure io?" "Comincia pure tu". Sarah guardò Miles andare alla testa del tavolo mentre ingessava la stecca. Poi si protese in avanti, piazzò la mano, tirò indietro la stecca e colpì perfettamente la palla. Ci fu un tonfo sonoro, le palle si sparsero ovunque e la numero quattro rotolò verso la buca, finendoci dentro. Lui alzò gli occhi. "Io prendo quelle monocolore". "Non ne dubitavo", replicò Sarah. Miles esaminò la situazione, valutando il colpo successivo e ancora una volta lei rimase colpita dalla sua diversità rispetto a Michael. Il suo ex marito non giocava a biliardo e di sicuro non l'avrebbe mai portata in un posto del genere. Non si sarebbe sentito a suo agio e in effetti sarebbe stato fuori posto... esattamente come Miles non armonizzava con il mondo che lei un tempo frequentava. Adesso che ce l'aveva davanti senza giacca, con le maniche della camicia arrotolate sulle braccia muscolose, Sarah non poté negare di provare attrazione per lui. A differenza di molti uomini che bevevano troppa birra, Miles aveva un fisico asciutto. Non poteva vantare l'aspetto impeccabile di un attore, ma aveva la vita stretta, il ventre piatto e le spalle ampie e solide. E non era solo quello. Qualcosa in fondo ai suoi occhi tradiva le traversie affrontate negli ultimi due anni, ed era un'espressione che lei riconosceva guardandosi allo specchio. Il jukebox tacque per un istante e poi riattaccò con Born in the USA di Bruce Springsteen. Nell'aria stagnava il fumo delle sigarette, nonostante i ventilatori a soffitto che giravano a tutta velocità. Sarah sentiva il suono confuso delle risa e delle voci della gente intorno a loro, ma quando guardava Miles, le sembrava quasi che fossero soli. Lui fece un altro tiro. Con occhio esperto seguì il percorso delle palle sul tavolo. Si spostò sull'altro lato e tirò di nuovo, ma stavolta mancò il bersaglio. Sarah posò la birra e afferrò la stecca, ora toccava a lei. Miles prese il gesso e glielo porse. "Puoi fare un bel tiro sulla nove", disse, indicando l'angolo del tavolo. "È proprio sul bordo della buca". "L'ho vista", rispose lei, ingessando la stecca. Guardò il tavolo, ma non si mise subito in posizione e Miles, intuendo la sua incertezza, posò la stecca accanto a uno sgabello. "Vuoi che ti mostri come tenere la mano sul tavolo?" le propose. "Sicuro". "Bene", disse lui. "Piega l'indice in questo modo tenendo le altre tre dita appoggiate al tappeto". Le mostrò come si faceva. "Così?" chiese lei, imitandolo. "Quasi..." Si avvicinò e non appena si allungò per prenderle la mano, lei ebbe un sussulto avvertendo una piccola scossa che partiva dal ventre. Le sue mani erano calde mentre le sistemava le dita. Nonostante il fumo e l'aria pesante, sentì l'odore del suo dopobarba, fresco e maschile. "No... stringi un po’ il dito. Non deve restare troppo spazio, altrimenti perdi il controllo del tiro". "Come va così?" chiese lei, pensando a quanto era piacevole sentirselo accanto. "Meglio", rispose lui serio, senza rendersi conto di niente. Arretrò di un passo per permetterle di giocare. "Adesso, quando tiri indietro la stecca, fallo lentamente e cerca di tenerla dritta e ben salda quando colpisci la palla. Ricorda che non c'è bisogno di colpire troppo forte. La palla è proprio sul bordo, non devi rischiare un rimbalzo". Sarah fece come le aveva detto. Il colpo fu preciso e, come previsto, la nove cadde in buca. La palla bianca rotolò sino a fermarsi al centro del tavolo. "Magnifico", disse lui. "Adesso hai un buon colpo con la quattordici". "Davvero?" chiese lei. "Sì, proprio lì. Allineati bene e fà come prima". Lei lo fece, muovendosi con calma. Dopo che la quattordici fu in buca, la palla bianca sembrò posizionarsi alla perfezione per il colpo successivo. Miles sgranò gli occhi. Sarah lo guardò, lo voleva ancora vicino a sé. "Non è andata bene come la prima", disse. "Ti spiacerebbe farmi vedere di nuovo?" "Niente affatto", rispose lui prontamente. Si avvicinò e le sistemò la mano sul tavolo; lei avvertì ancora il profumo del suo dopobarba. Il momento era di nuovo carico di tensione, ma stavolta anche Miles sembrò accorgersene, e indugiò più a lungo del necessario premendosi contro di lei. Era inebriante ed ardito il modo in cui si toccavano, era... sconvolgente. Miles fece un profondo respiro. "Bene, adesso tira", disse, staccandosi, come se avesse bisogno di un po’ di spazio. Con un colpo netto, anche la undici finì in buca. "Penso che tu abbia capito adesso", disse Miles prendendo la birra. Sarah girò intorno al tavolo, preparandosi al colpo successivo. Lui la guardò. Osservò ogni particolare: la sua camminata aggraziata, le curve morbide del suo corpo mentre si rimetteva in posizione, la pelle così liscia da sembrare irreale. Quando Sarah si passò una mano tra i capelli, per portarseli dietro l'orecchio, Miles bevve un sorso di birra, chiedendosi come mai l'ex marito se la fosse lasciata scappare. Doveva essere cieco od idiota. Un attimo dopo la dodici fu in buca. Un bel ritmo, pensò lui, cercando di tornare a concentrarsi sulla partita. Nei minuti successivi Sarah continuò a giocare con disinvoltura. Colpì la dieci, che finì in buca rotolando contro la sponda. Appoggiato al muro, con le gambe accavallate, Miles si rigirava la stecca tra le mani, in attesa. Anche la palla numero tredici finì in buca senza problemi. A questo punto Miles si accigliò leggermente. Strano che finora non abbia sbagliato un tiro... La quindici, per quello che poteva definirsi solo un colpo di fortuna, seguì ben presto la tredici e lui dovette lottare contro l'impulso di prendere il pacchetto di sigarette dalla giacca. Restava solo la palla numero otto e Sarah, rialzandosi per ingessare la stecca, chiese: "Provo con la otto, giusto?" Miles cambiò posizione. "Sì, ma devi dichiarare la buca". "Bene", rispose lei. Girò intorno al tavolo fino a voltargli le spalle. Usò la stecca per indicare. "La buca d'angolo". Un tiro lungo, un po’ angolato. Fattibile ma non facile. Sarah si chinò sul tavolo. "Stai attenta a non sbagliare", le disse Miles. "Altrimenti vinco io". "Non sbaglierò", mormorò lei. Tirò. Un attimo dopo la otto finì in buca e Sarah si girò verso di lui con un sorriso smagliante. "Uau... chi l'avrebbe mai detto?" Miles stava ancora fissando la buca d'angolo. "Bel colpo", disse quasi incredulo. "La fortuna del principiante", replicò lei modesta. "Facciamo un'altra partita?" "Sì... penso di sì", disse lui un po’ incerto. "Hai fatto qualche bel tiro davvero". "Grazie", rispose lei. Miles terminò la birra, poi radunò di nuovo le palle. Tirò per primo, mandando in buca una palla, ma sbagliò il colpo successivo. Con una scrollata di spalle per manifestare la propria solidarietà, Sarah si impegnò a mandare le palle in buca senza sbagliare un colpo. Quando ebbe finito, Miles la guardava a bocca aperta. Aveva messo da parte la stecca a metà partita e aveva ordinato altre due birre a una cameriera di passaggio. "Sono stato proprio battuto", ammise. "Credo anch'io", replicò lei, avvicinandosi. "Ma almeno non abbiamo scommesso, altrimenti non l'avrei fatta sembrare così facile". Miles scrollò il capo, meravigliato. "Dove hai imparato a giocare?" "Da mio padre. Avevamo un biliardo a casa e giocavamo sempre". "Ma allora perché non mi hai impedito di mostrarti la posizione di tiro prima di farmi fare la figura dello scemo?" "Ecco... mi sembravi così impegnato ad aiutarmi, che non volevo offenderti". "Oh, grazie tante". Le porse una birra e quando lei la prese, le loro dita si sfiorarono. Miles deglutì. Accidenti, se è carina. E da vicino ancora di più. Prima che potesse dire altro, un leggero trambusto alle sue spalle lo fece voltare. "Allora, come va, vice Ryan?" Lui si irrigidì immediatamente nel sentire la voce di Otis Timson. Il fratello gli stava proprio dietro, con in mano una birra e lo sguardo appannato. Otis rivolse a Sarah un beffardo cenno di saluto e lei fece un passo indietro, avvicinandosi a Miles. "E tu come stai? È bello rivederti". Miles guardò Sarah. "È il tizio di cui ti ho parlato prima", sussurrò lei. Otis rimase immobile in silenzio. "Che cosa vuoi, Otis?" chiese Miles guardingo, ricordandosi degli avvertimenti di Charlie. "Non voglio niente", fu la risposta. "Solo farti un saluto". Miles si voltò. "Andiamo al bar?" chiese a Sarah. "Certo", rispose lei. "Ma sì, andate. Non voglio trattenervi", disse Otis. E poi: "È proprio una bella pollastra", aggiunse. "Sembra che tu ne abbia trovata una nuova". Miles trasalì, ferito da quel commento. Aprì bocca per rispondere, ma non ne uscì niente. Strinse i pugni e fece un profondo respiro, voltandosi di nuovo verso Sarah. "Andiamo", disse con voce piena di rabbia. "A proposito", intervenne Otis, "per la storia con Harvey non ti devi preoccupare. Gli ho chiesto di lasciar perdere". La gente si stava già radunando intorno a loro. Miles fissò duramente Otis, che gli restituì l'occhiata senza muoversi. Suo fratello sembrava pronto a intervenire. "Andiamocene", disse Sarah con decisione, prima che la situazione precipitasse. Prese Miles per un braccio e gli diede uno strattone. "Avanti... ti prego", lo implorò. Questo bastò a richiamare la sua attenzione. Sarah recuperò le giacche, se le mise sottobraccio e si avviò tra la folla, che si allargò per lasciarli passare. Un attimo dopo erano fuori. Miles si scrollò dal braccio la mano di lei, arrabbiato con Otis e con se stesso per aver rischiato di perdere il controllo, e si incamminò a lunghi passi nel vicolo. Sarah si era rimasta indietro a infilarsi la giacca. "Miles... aspetta..." Alla fine lui si fermò, con lo sguardo a terra. Lei gli si avvicinò, tendendogli la sua giacca. "Mi spiace per prima", disse, senza riuscire a guardarla. "Non è stata colpa tua, Miles". Vedendo che non le rispondeva, gli andò più vicino. "Tutto a posto?" chiese piano. "Sì... tutto a posto". La sua voce era un sussurro appena udibile. Per un istante fece l'espressione di Jonah quando lei gli dava troppi compiti. "Non mi sembra", obiettò Sarah. "Hai un'aria terribile, adire il vero". Nonostante la collera, era riuscita a farlo ridere. "Grazie tante". Sulla via passò un'auto in cerca di un parcheggio. Una sigaretta volò fuori dal finestrino, finendo nel tombino. La temperatura si era abbassata, faceva troppo freddo per stare fermi e Miles si infilò la giacca. Senza dire una parola, si rimisero in cammino. Una volta raggiunto l'angolo, Sarah ruppe il silenzio. "Posso chiederti la ragione di quella provocazione?" Miles scrollò le spalle. "È una lunga storia". "Lo sono sempre". L'unico rumore ora era quello dei loro passi nella notte. "Ci conosciamo da tempo", spiegò infine Miles. "E non siamo in buoni rapporti". "Fin qui c'ero arrivata anch'io", replicò lei. "Non sono così ottusa". Miles non rispose. "Senti, se preferisci non parlarne..." Era una via d'uscita e lui fu tentato di approfittarne. Ma poi si mise le mani in tasca e serrò gli occhi per un momento. Cominciò a raccontare tutto a Sarah - i ripetuti arresti avvenuti nel corso degli anni, gli atti di vandalismo intorno a casa sua, la ferita di Jonah sulla guancia - per finire con l'ultimo arresto e con l'avvertimento di Charlie. Continuò a parlare mentre percorrevano a piedi le vie del centro, e quando ebbe finito, lei lo guardò con aria seria. "A questo punto mi spiace di averti fermato", gli disse. "Avrei dovuto lasciare che lo riducessi a pezzi". "No, invece sono contento che tu lo abbia fatto. Non ne valeva proprio la pena". Passarono davanti al circolo femminile per la terza età, da molto tempo ormai abbandonato, e le rovine dell'edificio sembrarono invitarli al silenzio, come se si trovassero nelle vicinanze di un cimitero. Le inondazioni del Neuse lo avevano reso del tutto inabitabile, e ora era diventato il rifugio degli uccelli e di altri animali selvatici. Giunti alla riva del fiume, Miles e Sarah si fermarono a fissare l'acqua scura che scorreva lenta davanti a loro. Le onde sciabordavano con ritmo regolare contro i blocchi di pietra dell'argine. "Parlami di Missy", disse lei infine, rompendo il silenzio. "Missy?" "Mi piacerebbe sapere com'era", spiegò Sarah con semplicità. "Lei è una parte fondamentale della tua vita, di cui io non so nulla". "Non saprei da dove cominciare". "Ma... che cosa ti manca di più?" Sull'altra sponda, a circa un chilometro di distanza, tremolavano le luci delle verande, sospese nell'aria come lucciole in una calda notte estiva. "Mi manca la sua presenza", cominciò lui. "Il fatto di trovarla a casa al ritorno dal lavoro, di svegliarmi accanto a lei, di vederla lì in cucina o in giardino... dovunque. Anche se non avevamo molto tempo per noi, sapevo sempre che sarebbe stata al mio fianco in caso di necessità. Avevamo superato le varie fasi che scandiscono la vita matrimoniale - l'entusiasmo iniziale, la crisi, il conflitto - e avevamo raggiunto un equilibrio che funzionava per entrambi. Eravamo due ragazzini quando cominciammo a stare insieme, come molti nostri compagni. Dopo sette anni, un sacco di amici avevano divorziato e certi si erano già risposati". Girò la testa per guardarla. "Ma noi ce l'avevamo fatta, capisci? A ripensarci, è una conquista di cui vado fiero, perché so che è raro che succeda. Non mi sono mai pentito di averla sposata, neppure per un istante". Miles si schiarì la voce. "Passavamo ore a parlare di tutto e di niente. A lei piaceva leggere e mi raccontava le storie che l'appassionavano nei libri. Ricordo che a volte mi svegliavo nel cuore della notte e la trovavo addormentata con il libro in mano e la lampada sul comodino ancora accesa. Dovevo scendere dal letto per spegnerla senza svegliarla. Succedeva soprattutto dopo la nascita di Jonah... lei era sempre stanca, anche se si comportava in modo da non darlo a vedere. Era meravigliosa con lui. Quando aveva sette mesi Jonah non sapeva ancora gattonare, ma voleva già camminare. Allora lei passò settimane a girare per casa con la schiena curva, per permettergli di muovere i primi passi afferrandosi alle sue dita. La sera aveva la schiena a pezzi e dovevo farle un massaggio, altrimenti il giorno dopo non riusciva a muoversi. Però, sai..." Si fermò, fissando Sarah negli occhi. "Non si lamentava mai. Credo che quella di madre fosse la sua missione. Mi ripeteva che voleva avere quattro figli, ma dopo la nascita di Jonah io continuai ad accampare scuse, dicendo che non era il momento giusto, finché lei si impuntò. Voleva che suo figlio avesse dei fratelli e delle sorelle. Alla fine mi ero convinto anch'io, so per esperienza quanto sia difficile crescere come figli unici e adesso rimpiango di non averle dato ascolto prima... per il bene di Jonah". Sarah, commossa, lo prese istintivamente sottobraccio. "Capisco perché ti manca tanto". Sul fiume, una chiatta si avvicinava al canale e si udì il sordo brontolio del motore. Quando la brezza girò nella sua direzione, Miles sentì il profumo dello shampoo al gelsomino di Sarah. Rimasero in silenzio, confortati dalla presenza reciproca, che li proteggeva come una coperta calda nell'oscurità. Ma si stava facendo tardi. La signora Knowlson aspettava Miles per mezzanotte. "È ora di andare", disse lui. Cinque minuti dopo, davanti al portone di casa, Sarah sfilò il braccio dal suo per cercare le chiavi nella borsetta. "È stata una magnifica serata", disse. "Anche per me". "Ci vediamo domani, allora?" Lui si ricordò della partita di calcio di Jonah. "Sì, e non dimenticare... comincia alle nove". "Sai in che campo giocano?" "Non ne ho idea, ma ci troverai lì. Ti cercherò". Sarah pensò che ora Miles avrebbe cercato di baciarla, ma lui fece un passo indietro. "Senti... devo proprio andare..." "Lo so", rispose lei, contenta e delusa che non ci avesse provato. "Guida piano, mi raccomando". Lo guardò incamminarsi verso un pick-up argento metallizzato, aprire la portiera e sedersi al volante. Le rivolse un ultimo cenno di saluto prima di avviare il motore. Lei rimase sul marciapiede a fissare i fari posteriori del pick-up per parecchio tempo dopo che fu partito. Capitolo dodicesimo Il mattino seguente Sarah riuscì ad arrivare al campo pochi minuti prima dell'inizio della partita. Vestita con jeans e stivali, un girocollo di lana grezza e occhiali da sole, si distingueva subito dalla folla dei genitori. Miles si stupiva sempre di come riuscisse a sembrare sportiva ed elegante nello stesso tempo. Jonah, che si stava allenando con un gruppo di amici, la vide da lontano e corse da lei per abbracciarla. La prese per mano e la trascinò verso Miles. "Guarda chi ho trovato, papà", esclamò. "La signorina Andrews". "Lo vedo", rispose Miles, passandogli una mano tra i capelli. "Sembrava persa", spiegò Jonah. "Così sono andato a prenderla". "Cosa farei senza di te, campione?" Miles guardò Sarah. "Sei bella, affascinante, e non riesco a smettere di pensare a ieri sera". No, non disse così. Non esattamente. Quello che lei udì fu: "Ciao... come stai?" "Bene", rispose. "Anche se per i miei gusti è un po’ presto per dare inizio al fine settimana. Mi dà quasi l'impressione di essermi alzata per andare al lavoro". Guardando oltre la sua spalla, Miles si accorse che la squadra si stava radunando. "Jonah, credo che sia arrivato l'allenatore". Il bambino girò la testa di scatto e cominciò ad armeggiare con la felpa, finché Miles non l'aiutò a togliersela. "Dov'è la palla?" "Non ci stavi giocando poco fa?" "Sì". "E allora dov'è?" "Non lo so". Miles si inginocchiò e cominciò a infilare la maglietta nei calzoni a Jonah. "La cercheremo dopo. Non credo che ti serva adesso". "Ma l'allenatore aveva detto di portarla per il riscaldamento..." "Te ne farai prestare una da qualcun altro". "E lui che cosa userà?" La voce di Jonah suonava allarmata. "Non preoccuparti. Adesso và, che l'allenatore ti aspetta". "Sei sicuro?" "Fìdati". "Ma..." "Vai. Ti stanno aspettando". Jonah alla fine si convinse e corse a raggiungere la squadra. Sarah aveva seguito la scena, divertita dal loro scambio di battute. Miles indicò la borsa che aveva con sé. "Vuoi una tazza di caffè? Ho portato il thermos". "No, grazie. Ho bevuto il tè prima di venire". "Che tipo di tè?" "Earl Grey". "Con pane e marmellata?" "No, mangio i cereali. Perché?" Miles scrollò le spalle. "Pura curiosità". Ci fu un fischio e le squadre si diressero verso il centrocampo, pronte a dare inizio alla sfida. "Posso farti una domanda?" "Basta che non riguardi la mia colazione", replicò lei. "Forse ti sembrerà strana". "Chissà perché, ma la cosa non mi sorprende". Miles si schiarì la voce. "Ecco, mi chiedevo se ti avvolgi una salvietta intorno alla testa dopo aver fatto la doccia". Lei sgranò gli occhi. "Come, scusa?" "Sai, dopo la doccia. Tieni in testa una salvietta, oppure ti pettini subito i capelli?" Lei lo guardò attentamente. "Sei buffo". "È quello che dicono". Un altro fischio e la partita ebbe inizio. "Allora... mi rispondi?" insistette lui. "Sì", disse lei con una risata perplessa. "Mi avvolgo una salvietta intorno alla testa". Lui annuì, soddisfatto. "Lo immaginavo". "Hai mai pensato di diminuire il consumo di caffeina?" Miles scrollò la testa. "No, mai". "Dovresti farlo". Lui bevve un altro sorso di caffè per nascondere la sua contentezza. "L'ho sentito dire". Quaranta minuti dopo la partita era finita e, nonostante gli sforzi di Jonah, la sua squadra aveva perso. Ma lui non se l'era presa troppo; dopo aver salutato gli altri giocatori corse verso il padre, seguito dal suo amico Mark. "Avete giocato bene", si complimentò Miles con i due piccoli calciatori. I bambini lo ringraziarono borbottando qualche parola distratta, poi Jonah gli tirò la manica. "Ehi, papà?" "Sì?" "Mark mi ha chiesto se posso andare a dormire a casa sua". Miles guardò il suo amichetto per avere conferma. "Davvero?" Mark annuì. "La mia mamma è d'accordo, ma può parlarci lei, se vuole. È laggiù. Viene anche Zach". "Dai, papà, ti prego. Posso? Farò tutti i compiti non appena torno a casa", insistette Jonah. "Ne farò anche di più". Miles esitò. Era d'accordo... ma nello stesso tempo era contrariato. Gli piaceva averlo con sé. Senza di lui la casa era vuota. "E va bene, se proprio vuoi..." Il figlio sorrise tutto eccitato, senza lasciarlo finire. "Grazie, papà. Sei il migliore". "Grazie, signor Ryan", disse Mark. "Vieni, Jonah. Andiamo a dirlo alla mamma". Si allontanarono di corsa, spintonandosi e schivando le persone senza smettere di ridere. Miles si voltò verso Sarah. "Sembra molto addolorato dal fatto di non stare con me stanotte". "Assolutamente affranto", concordò lei con un cenno del capo. "Sai, avevamo in programma di noleggiare una cassetta da vedere insieme". Sarah scrollò le spalle. "Dev'essere terribile sentirsi dimenticati tanto in fretta". Miles rise. Era infatuato di lei, non c'erano dubbi. Seriamente infatuato. "Senti, dato che sono solo e..." "Sì?" "Ecco... volevo dire..." Lei gli lanciò una lunga occhiata. "Vuoi chiedermi ancora del ventilatore?" Lui sorrise. Non gliel'avrebbe mai perdonata quella storia. "Se non hai niente di meglio da fare", disse con un'aria di finta disinvoltura. "Che cosa avevi in mente?" "Di sicuro non una partita a biliardo". Sarah rise. "Che ne dici se ti preparo la cena a casa mia?" "Tè e cereali?" chiese lui. Lei annuì. "Certo. E prometto di mettermi la salvietta in testa". Miles rise di nuovo. Non si meritava questo. Di sicuro non se lo meritava. "Ehi, papà?" Miles si alzò leggermente il berretto da baseball sulla fronte e guardò il figlio. Erano in giardino, a rastrellare le prime foglie autunnali. "Sì?" "Mi spiace di non restare con te a vedere la cassetta stasera. Me ne sono ricordato solo adesso. Sei arrabbiato con me?" Miles sorrise. "No, per niente". "La noleggerai lo stesso?" Miles scrollò la testa. "Non credo". "E allora che cosa farai?" Miles posò il rastrello, si tolse il berretto e si asciugò la fronte con il dorso della mano. "A dire il vero, penso che mi vedrò con la signorina Andrews stasera". "Di nuovo?" Miles ponderò le parole. "Siamo stati bene ieri sera". "Che cosa avete fatto?" "Abbiamo cenato. Parlato. Passeggiato". "Tutto qui?" "Grosso modo, sì". "A me pare molto noioso". "Forse perché non c'eri". Jonah rimase un attimo pensieroso. "È un appuntamento anche questo?" "Una specie". "Oh". Annuì e distolse lo sguardo. "Allora vuol dire che lei ti piace, eh?" Miles si avvicinò al figlio e si accovacciò per guardarlo negli occhi. "Per adesso lei e io siamo soltanto amici. Niente di più". Il bambino considerò a lungo quella risposta. Miles lo strinse forte tra le braccia. "Ti voglio bene, Jonah". "Anch'io, papà". "Sei un bravo bambino". "Lo so". Miles rise e si alzò, afferrando di nuovo il rastrello. "Ehi, papà?" "Sì?" "Mi è venuta un po’ di fame". "Che cosa vuoi mangiare?" "Possiamo andare da McDonald" s?" "Certo. È da parecchio che non lo facciamo". "Posso prendere un Happy Meal?" "Non credi di essere un po’ troppo grande ormai?" "Ma papà, ho solo sette anni". "Ah, è vero", disse Miles, come se se lo fosse scordato. "Vieni, entriamo a lavarci". Si incamminarono verso casa e lui mise un braccio sulle spalle del figlio. Fatti pochi passi, Jonah lo guardò. "Ehi, papà?" "Sì?" Il bambino camminò in silenzio per qualche istante. "Sai, va bene se ti piace la signorina Andrews". Miles lo guardò sorpreso. "Ah, sì?" "Sì", ripeté Jonah serio. "Perché penso che tu piaccia a lei". Quel sentimento non fece che rafforzarsi con il passare del tempo. In ottobre Miles e Sarah uscirono insieme cinque o sei volte, oltre a incontrarsi a scuola quando lui andava a prendere il figlio. Parlavano per ore, si tenevano per mano mentre passeggiavano e, sebbene la loro relazione fosse ancora platonica, le loro conversazioni erano animate da una intensa corrente sensuale sotterranea che nessuno dei due poteva più negare. Pochi giorni prima di Halloween, al termine dell'ultima partita della stagione, Miles chiese a Sarah se le sarebbe piaciuto partecipare con lui alla caccia ai fantasmi organizzata per quella sera. Era il compleanno di Mark, e Jonah si fermava a dormire a casa dell'amico. "E che cos'è?" chiese Sarah. "Facciamo il giro delle vecchie dimore ed ascoltiamo storie di fantasmi". "È questo che fa la gente nelle piccole città?" "Puoi scegliere di andare in cerca di fantasmi, oppure stare seduta sulla mia veranda a masticare tabacco e suonare il banjo". Lei rise. "Penso che opterò per la prima proposta". "Lo immaginavo. Passo a prenderti alle sette?" "Ti aspetto con il fiato sospeso. Cena da me dopo?" "Magnifico. Ma guarda che, se continui a prepararmi la cena, alla fine mi vizierai". "Non importa", replicò lei ammiccando. "Essere un po’ viziati non fa male a nessuno". Capitolo tredicesimo "Dimmi", chiese Miles a Sarah dopo che erano usciti dalla casa di lei quella sera, "che cosa ti manca della grande città?" "Le gallerie, i musei, i concerti. I ristoranti che restano aperti dopo le nove di sera". Lui rise. "Sì, ma cos'è che ti manca di più?" Sarah lo prese sottobraccio. "I bistrò, quei caffè dove si sta seduti all'aperto a bere il tè e leggere il giornale la domenica. Era bello poterlo fare nel cuore della città. Era come una piccola oasi di tranquillità, perché tutti quelli che passavano per strada avevano sempre l'aria di correre da qualche parte". Camminarono in silenzio per qualche minuto. "Sai, puoi farlo anche qui, se vuoi", disse Miles dopo un po'. "Sul serio?" "Certo. C'è un posto del genere in Broad Street". "Non l'ho mai visto". "Ecco, non è esattamente un caffè alla parigina. È una stazione di servizio, però ha una bella panca davanti e sono sicuro che, se ti porti la bustina di tè, il benzinaio sarà contento di offrirti una tazza di acqua calda". Lei rise. "Sembra perfetto". Attraversarono la strada e si accodarono alla gente che partecipava alla festa. Vestiti in costume, sembravano tutti usciti dal diciottesimo secolo: gonne spesse e corpetti per le donne, pantaloni neri e stivali per gli uomini, colletti alti, cappelli a tesa larga. All'angolo si separarono in due gruppi e Miles e Sarah seguirono quello più piccolo. "Tu sei sempre vissuto qui, vero?" chiese Sarah. "Tranne gli anni dell'università, sì". "Non ti è mai venuta voglia di andartene? Di sperimentare qualcosa di nuovo?" "Come i bistrò?" Lei gli diede un colpetto con il gomito. "No, non solo. Nelle grandi città c'è un'eccitazione, una vitalità che non trovi nei posti più piccoli". "Non ne dubito. Ma ad essere sincero, non ho bisogno di quello per essere felice. Un posticino tranquillo dove rilassarmi a fine giornata, bei panorami, qualche buon amico. Che altro si può volere?" "Com'è stato crescere qui?" "Mah, direi molto tranquillo. Pur essendo una cittadina, a New Bern si fa la vita di paese, capisci? È un posto dove ti senti al sicuro. Ricordo che da piccolo, avrò avuto sette od otto anni, andavo a pesca con i miei amici, oppure a esplorare i dintorni e non tornavo prima di cena. E i miei genitori non si preoccupavano affatto, perché non ce n'era motivo. Altre volte ci accampavamo in riva al fiume e dormivamo lì, il pensiero che potesse accaderci qualcosa di brutto non ci sfiorava neanche. È un bel mondo dove crescere e voglio che anche Jonah abbia questa possibilità". "Permetteresti a Jonah di dormire accampato in riva al fiume?" "Assolutamente no", disse lui. "Le cose sono cambiate, anche a New Bern". In fondo alla via capannelli di persone andavano avanti e indietro sui vialetti delle case. "Siamo amici, giusto?" chiese all'improvviso Miles. "Mi piace pensarlo". "Ti spiace se ti faccio una domanda?" "Dipende dalla domanda". "Com'era il tuo ex marito?" Lei lo guardò, sorpresa. "Il mio ex?" "Me lo sono chiesto spesso. Finora non ne hai mai accennato". Sarah non rispose, lo sguardo fisso sul marciapiede che aveva davanti. "Se preferisci non rispondermi, non sei obbligata", disse Miles. "Sono sicuro che tanto non cambierei opinione su di lui". "E quale sarebbe la tua opinione?" "Non mi piace". Sarah rise. "E perché?" "Perché non piace a te". "Sei molto perspicace". "Non a caso faccio lo sceriffo". Si toccò la fronte con un dito e le strizzò l'occhio. "Sono in grado di individuare indizi che alla gente comune sfuggirebbero". Lei gli sorrise, stringendogli il braccio. "E va bene... il mio ex marito. Si chiama Michael King e ci siamo conosciuti subito dopo che lui aveva preso il master in economia. Siamo stati sposati per tre anni. Era ricco, istruito e di bell'aspetto..." Contò queste qualità sulla punta delle dita e poi tacque. Miles annuì. "Mmm... credo di capire perché non ti piace". "Non mi hai lasciato finire". "C'è dell'altro?" "Vuoi ascoltare o no?" "Scusa. Continua". Lei esitò prima di decidersi a proseguire. "Ecco, nei primi due anni siamo stati molto felici. Almeno io. Avevamo una bella casa, trascorrevamo insieme tutto il tempo libero... e credevo di conoscerlo bene. Invece non era così. Non fino in fondo. Alla fine ci siamo ritrovati a litigare in continuazione, a non parlarci quasi più e... insomma, non ha funzionato", tagliò corto. "Senza un motivo?" chiese lui. "Sì, senza un motivo", rispose lei. "Lo hai più rivisto?" "No". "Vorresti rivederlo?" "No". "È così negativo?" "Peggio". "Scusa se ho tirato fuori l'argomento", disse lui. "Non fa niente. Sto meglio da sola". "Quando hai capito che era finita?" "Quando mi ha consegnato i documenti per il divorzio". "Non sapevi che voleva divorziare?" "No". "Te l'avevo detto che non mi piaceva". Miles aveva anche intuito che non gli aveva raccontato tutto. Sarah sorrise. "Forse è per questo che noi due andiamo d'accordo. Abbiamo lo stesso modo di vedere le cose". "Tranne che sulle meraviglie della vita di provincia, vero?" "Non ho mai detto che non mi piaccia stare qui". "Ma riusciresti a pensare di vivere in un posto così?" "Vuoi dire per sempre?" "Dai, devi ammettere che è carino". "Infatti. L'ho già detto". "Ma non fa per te, giusto? Non sul lungo periodo". "Dipende". "Da cosa?" Lei gli sorrise. "Dai motivi che mi indurrebbero a restare". Fissandola, Miles ebbe la sensazione che quelle parole fossero un invito, oppure una promessa. La luna iniziò la sua lenta ascesa nel cielo notturno, dapprima gialla, poi arancione mentre sovrastava il tetto di casa Travis Banner, la prima tappa della caccia ai fantasmi. Era un vecchio edificio vittoriano a due piani, circondato da grandi verande che avevano il disperato bisogno di una mano di pittura. Si era radunata una piccola folla sul portico intorno a due donne che, vestite da streghe, armeggiavano intorno a un paiolo, servendo sidro e pronunciando frasi misteriose per evocare il primo proprietario della dimora, che si diceva fosse rimasto decapitato accidentalmente durante il taglio dei boschi. La porta d'ingresso era aperta e dall'interno si udivano i rumori di una casa degli orrori da luna-park: grida di terrore, cigolio di porte, tonfi misteriosi e risate sgangherate. All'improvviso le due streghe chinarono il capo, le luci sul portico si spensero e nell'ingresso alle loro spalle fece la sua drammatica apparizione un fantasma senza testa: una sagoma scura con la tunica, le braccia stese in avanti e le mani scheletriche. Una donna lanciò un grido e lasciò cadere la coppa di sidro. Sarah fece istintivamente un balzo verso Miles, stringendogli il braccio con una forza che lo lasciò sorpreso. Così da vicino sentì l'odore dei suoi capelli e gli venne voglia di passarci dentro le dita, come faceva con Missy quando erano a letto la sera. Un attimo dopo, mentre le streghe pronunciavano le formule magiche di rito, il fantasma svanì e le luci si riaccesero. Il pubblico si disperse tra risatine nervose. Nelle due ore successive Miles e Sarah visitarono altre vecchie dimore. In alcune vennero invitati a entrare; in altre si fermarono nell'ingresso, oppure in giardino, dove ascoltavano curiosi aneddoti che riguardavano il passato. Mentre andavano di casa in casa, Miles le segnalava i luoghi di interesse e le raccontava la storia delle dimore che non erano comprese nel giro quell'anno. Camminavano lungo i marciapiedi di cemento crepati, parlando sottovoce, immersi nella strana atmosfera della serata. A mano a mano la folla cominciò a diradarsi e alcune case vennero chiuse. Quando Sarah gli chiese se fosse pronto per la cena, lui scrollò il capo. "C'è ancora una tappa", disse. La condusse lungo la via, tenendole stretta la mano e accarezzandogliela dolcemente con il pollice. Dall'alto degli alberi che fiancheggiavano la strada udirono l'acuto richiamo di una civetta. Più avanti, alcune persone vestite da fantasmi stavano salendo su una station wagon. Arrivati all'angolo, Miles indicò una grande casa a due piani, che sembrava deserta. Le finestre erano buie, come se fossero state schermate dall'interno. L'unica luce proveniva dalle candele allineate sulla ringhiera della veranda e su una panca accanto alla porta d'ingresso. Seduta su una sedia a dondolo vicino alla panca, c'era una vecchia con una coperta sulle gambe. Alla luce spettrale sembrava quasi un manichino; aveva i capelli bianchi e sottili, il corpo fragile ed ossuto. La pelle appariva traslucida alla fiamma delle candele ed il viso percorso da rughe profonde, come una vecchia tazza di porcellana crepata. Miles e Sarah si sedettero sul dondolo in veranda, mentre la vecchia li esaminava. "Salve, signora Harkins", disse Miles lentamente, "c'è stata molta gente stasera?" "Come sempre", rispose la donna. Aveva la voce roca, da fumatrice incallita. "Sai com'è". Socchiuse gli occhi fissandolo come se cercasse di metterlo a fuoco da lontano. "Siete venuti per sentire la storia di Harris e Kathryn Presser, non è vero?" "Volevo che la conoscesse anche lei", rispose Miles solenne, indicando Sarah con il capo. Per un attimo gli occhi della signora Harkins lampeggiarono, mentre prendeva la tazza di tè che aveva appoggiato sul tavolino. Miles cinse le spalle di Sarah con un braccio, avvicinandola a sé. Lei si sentì protetta e al sicuro. "Ti piacerà", bisbigliò Miles. Il suo respiro sull'orecchio le fece venire i brividi sottopelle. Mi piace già, pensò lei. La signora Harkins mise giù la tazza di tè e cominciò a parlare in un sussurro. Ci sono i fantasmi e c'è l'amore, e li troverete qui uniti. A chi vorrà ascoltare, questa storia narrerà la verità dell'amore, e se è vicino. Sarah lanciò un'occhiata furtiva a Miles. "Harris Presser", spiegò la signora Harkins, "era nato nel 1843 ed era figlio dei proprietari di un piccolo negozio di candele di New Bern. Come molti giovani di allora, allo scoppio della guerra civile voleva arruolarsi per combattere per la Confederazione degli stati del Sud. Essendo figlio unico, però, i genitori lo implorarono di non partire e lui, esaudendo il loro desiderio, segnò irrevocabilmente il proprio destino". La signora Harkins fece una pausa ad effetto. "Si innamorò", disse poi sottovoce. Per un attimo, Sarah si chiese se la donna non stesse parlando anche di loro. La vecchia la fissò per un attimo, come se le avesse letto nel pensiero, e lei distolse lo sguardo. "Kathryn Purdy aveva diciassette anni e, come Harris, era figlia unica. I genitori erano proprietari dell'albergo e della segheria della città ed erano molto ricchi. Nel 1862 New Bern venne conquistata dalle forze dell'Unione e, nonostante la guerra e l'occupazione militare, Harris e Kathryn cominciarono a incontrarsi sulle rive del Neuse nelle sere di inizio estate, finché i genitori di lei non vennero a saperlo. Dato che consideravano i Presser degli umili bottegai, vietarono alla figlia di frequentare ancora quel giovane. "Allora i due innamorati escogitarono un piano. Harris la sera andava al negozio e aspettava il segnale. Quando i genitori di Kathryn dormivano, lei metteva una candela accesa sul davanzale della sua camera e lui la raggiungeva di nascosto. Si arrampicava su una grande quercia che cresceva nel giardino dei Purdy ed entrava dalla finestra in camera della ragazza. In questo modo si vedevano il più spesso possibile e con il passare dei mesi il loro amore crebbe". La signora Harkins bevve un altro sorso di tè, poi socchiuse gli occhi. La sua voce assunse un tono carico di presagi. "In quel periodo le forze dell'Unione stavano stringendo il Sud in una morsa... le notizie provenienti dalla Virginia erano preoccupanti e si mormorava che il generale Lee si accingesse a tornare indietro con l'esercito confederato dalla Virginia settentrionale per riappropriarsi della North Carolina orientale. Nella città occupata dai nordisti venne così ordinato il coprifuoco e chiunque fosse stato sorpreso fuori di casa la sera, specialmente i giovani, rischiava di essere fucilato. Harris non poteva più vedere Kathryn, ma rimaneva fino a tardi a lavorare nel negozio dei genitori, tenendo una candela accesa in vetrina per far sapere all'amata che pensava a lei. E un giorno, con l'aiuto di un prete comprensivo, riuscì a farle arrivare un messaggio in cui le chiedeva di sposarlo. Se la sua risposta era sì, doveva mettere due candele alla finestra... una per indicare il suo consenso, l'altra per avvertirlo di quando poteva passare a prenderla. Le candele vennero accese quella notte stessa e, nonostante le difficoltà, i due ragazzi vennero uniti in matrimonio poco dopo, al chiaro di luna, dallo stesso prete che aveva consegnato il messaggio. Tutti e tre avevano rischiato la vita per far trionfare l'amore. "Purtroppo, però, i genitori di Kathryn in seguito scoprirono una lettera scritta da Harris e andarono dalla figlia a esigere spiegazioni. Lei ammise la verità, rispondendo che tanto ormai loro non potevano fare più nulla. Ma si sbagliava. "Pochi giorni dopo, il padre di Kathryn, che era un fornitore del colonnello dell'Unione di stanza a New Bern, contattò l'ufficiale e lo informò che in città c'era una Spia confederata, che aveva l'incarico di passare informazioni al generale Lee sulle difese cittadine. Harris Presser fu arrestato e prima di essere giustiziato espresse un ultimo desiderio, che venisse accesa una candela nella vetrina del negozio dei suoi genitori. Quella notte stessa venne impiccato ai rami della grande quercia davanti alla finestra di Kathryn. La ragazza aveva il cuore infranto, e sapeva che il responsabile di quell'atto iniquo era suo padre. "Si recò dai genitori di Harris a chiedere che le dessero la candela che era nella vetrina la notte in cui lui era morto, spiegò che la voleva in ricordo di quel "giovane gentile che era stato sempre tanto cortese con lei". Quella sera la tenne accesa assieme alla sua sul davanzale della finestra. I genitori la trovarono morta il mattino dopo: si era suicidata impiccandosi a un ramo della grande quercia". Miles strinse Sarah. "Ti piace questa storia?" le chiese sottovoce. "Shhh", rispose lei. "Credo che stiamo arrivando alla parte con i fantasmi". "Le due candele arsero per tutta la notte ed il giorno successivo, finché non furono ridotte a mozziconi di cera. Però continuarono a bruciare per tre giorni, quanto era durato il matrimonio di Kathryn e Harris, poi si spensero. L'anno successivo, nel loro anniversario, la camera di Kathryn prese fuoco misteriosamente, ma la casa si salvò. La sfortuna, però, continuò a perseguitare i Purdy: l'albergo venne distrutto da un'inondazione e la segheria fu venduta per pagare i debiti. Ormai impoveriti, i genitori di Kathryn si trasferirono altrove...". La signora Harkins si chinò in avanti, con una luce maliziosa negli occhi. La sua voce era solo un bisbiglio. "Ma di tanto in tanto, qualcuno giurava di aver visto due candele accese sul davanzale della stanza al primo piano. Altri affermavano che ne era apparsa solo una... e che un'altra era accesa in una casa abbandonata lungo la strada. Ancora oggi, a più di cento anni di distanza, c'è chi sostiene che ci sono candele che ardono alle finestre delle vecchie dimore della zona. E la cosa strana è che tutti quelli che le vedono sono giovani innamorati. Anche a voi potrebbe capitare; dipende dall'intensità dei sentimenti che nutrite l'uno per l'altra". La signora Harkins chiuse gli occhi, come se quel racconto l'avesse sfinita. Rimase immobile per un po’ e loro due restarono seduti in silenzio temendo di rompere l'incantesimo. Poi lei riaprì gli occhi e prese la sua tazza di tè. Dopo averla salutata, Miles e Sarah scesero i gradini del portico e tornarono sul vialetto di ghiaia. Si avviarono per mano lungo la strada, ancora sotto l'effetto della storia di Miss Harkins. "Allora che ne dici? Ti è piaciuta?" chiese lui. "Molto. Tutte le donne vanno pazze per le storie romantiche". Svoltarono l'angolo raggiungendo Front Street; davanti a loro, tra le case, si scorgeva il fiume che scorreva silenzioso, con le acque nere che brillavano alla luce della luna. "Ora sei pronto a mangiare un boccone?" "Ancora un momento", rispose lui, fermandosi. Le falene svolazzavano intorno al lampione. Miles guardava lontano, verso il fiume e Sarah seguì il suo sguardo, senza tuttavia scorgere nulla di strano. "Che cosa c'è?" gli chiese piano. Lui scrollò la testa, per schiarirsi le idee. Avrebbe voluto proseguire, ma una forza misteriosa lo spingeva verso Sarah. L'attirò a sé e lei si arrese docilmente, provando una stretta allo stomaco. Chiuse gli occhi mentre i loro visi si avvicinavano. Il bacio durò a lungo e, quando infine si staccarono, Miles l'abbracciò. Affondò il viso nel suo collo e poi le sfiorò con le labbra l'incavo della spalla. La carezza umida della sua lingua sulla pelle la fece rabbrividire... si abbandonò contro di lui, al sicuro nel rifugio avvolgente delle sue braccia, mentre il mondo intorno a loro continuava la sua folle corsa. Pochi minuti dopo entrarono nell'appartamento di Sarah. In salotto, Miles appoggiò la giacca alla spalliera di una sedia, mentre lei si dirigeva in cucina. "Che cosa c'è per cena?" le chiese. Sarah aprì il frigo e tirò fuori una grande teglia, coperta con un foglio di alluminio. "Lasagne e poi un'insalata mista. Va bene?" "Ottimo. Posso aiutarti?" "È già tutto pronto", rispose lei infilando la teglia nel forno. "Devo solo riscaldare le lasagne per una mezz'ora. Ma se vuoi, intanto tu puoi accendere il fuoco. E aprire il vino... è sul bancone". "D'accordo". "Ti raggiungo subito", gridò Sarah, mentre andava in camera da letto. In piedi davanti allo specchio, prese la spazzola e cominciò a passarsela tra i capelli. Per quanto cercasse di mostrarsi disinvolta, il bacio che si erano appena scambiati l'aveva lasciata piuttosto scossa. Intuiva che quella sera avrebbe segnato una svolta nella loro relazione ed aveva paura. Si sentiva in dovere di far sapere a Miles la vera ragione del fallimento del suo matrimonio, però non era facile parlarne. Soprattutto con un uomo a cui teneva. Anche se era certa che lui le fosse affezionato, non era possibile prevedere la sua reazione di fronte a una rivelazione del genere. Non aveva forse detto che sperava che Jonah avesse dei fratelli? E sarebbe stato disposto a rinunciarci? Si guardò allo specchio. No, non ne aveva nessuna voglia, ma se voleva che il loro rapporto iniziasse nel modo giusto, doveva dirglielo. E, soprattutto, non voleva che la storia si ripetesse, che Miles l'abbandonasse all'improvviso come aveva fatto Michael. Non avrebbe sopportato di rivivere quel trauma. Finì di spazzolarsi i capelli, controllò il trucco per la forza dell'abitudine e fece per uscire dalla camera, decisa ad affrontare Miles, a dirgli la verità. Ma fu sopraffatta dall'ansia e dovette sedersi per un momento sul letto. Era davvero pronta? In quel momento la risposta a quella domanda la impauriva più di quanto fosse disposta ad ammettere. Quando infine si era decisa ad uscire dalla camera, un bel fuoco ardeva nel caminetto. Miles era sulla soglia della cucina con la bottiglia di vino in mano. "Pensavo che potremmo bere un bicchiere come aperitivo", propose. "Sì... buona idea", concordò Sarah. Lo disse in tono un po’ distaccato e Miles rimase perplesso. Sarah si mise comoda sul divano e, dopo qualche istante, lui posò la bottiglia sul tavolino e le si sedette accanto. Lei rimase a lungo in silenzio, sorseggiando il vino. Alla fine lui le prese la mano. "Tutto a posto?" chiese. Sarah, pensierosa, fece girare lentamente il vino nel bicchiere. "C'è una cosa che non ti ho ancora detto", la sua voce era un filo sottile. Miles udì il rombo delle macchine che passavano per strada. I ciocchi nel camino crollarono, spargendo scintille dorate, mentre le ombre danzavano sulle pareti. Sarah si tolse le scarpe e ripiegò una gamba sotto di sé. Intuendo che stava raccogliendo le idee, lui rimase a osservarla in silenzio, poi le diede una stretta di incoraggiamento alla mano. Quel gesto sembrò riportarla al presente. Miles vide le fiamme che si riflettevano nei suoi occhi. "Tu sei un brav'uomo", cominciò Sarah, "e queste ultime settimane sono state davvero importanti per me". Si fermò. Lui aveva un presentimento negativo e si chiese che cosa mai fosse successo nei pochi minuti in cui era rimasta in camera sua. La guardò con un crescente senso di oppressione allo stomaco. "Ti ricordi quando mi hai chiesto del mio ex marito?" Miles annuì. "Non ti ho raccontato tutta la storia. C'era dell'altro, però... non so come dirtelo". "Perché?" Lei fissò il fuoco. "Perché ho paura di quello che tu potresti pensare". La sua mente di sceriffo formulò varie ipotesi... che il suo ex marito avesse abusato di lei, che le avesse fatto del male, che fosse uscita in qualche modo ferita da quel rapporto. Il divorzio era sempre doloroso, ma dall'espressione del suo viso si capiva che non si trattava solo della sofferenza causata da una separazione. Le sorrise, aspettando una risposta che non venne. "Senti, Sarah", disse allora, "non devi raccontarmi tutto, se non vuoi. Non ti chiederò più niente. Sono affari tuoi e in queste settimane ti ho già conosciuto abbastanza da capire che tipo di persona sei, non mi interessa altro. Non ho bisogno di sapere tutto di te... e comunque, a essere sinceri, dubito che qualunque cosa tu possa dire ora, cambierebbe i miei sentimenti". Sarah sorrise, senza ancora riuscire a guardarlo. "Ricordi quando ti ho chiesto di Missy?" "Sì". "E ricordi quello che hai detto?" Miles annuì. "Anch'io". Per la prima volta, lo guardò dritto negli occhi. "Voglio che tu sappia che non potrò mai essere come lei". Miles corrugò la fronte. "Questo lo so", rispose. "E non mi aspetto certo che...". Lei alzò le mani per fermarlo. "No, Miles... mi hai frainteso. Non penso che tu sia attratto da me perché assomiglio a Missy. Lo so che non è così. Non mi sono spiegata bene". "Allora che cos'è?" chiese lui, perplesso. "Ricordi quando mi hai detto che era una bravissima madre? E che desideravate entrambi dare dei fratelli a Jonah?" Fece una pausa, per trovare il coraggio. "Io non potrò mai essere così. È questa la ragione per cui Michael mi ha lasciato". I suoi occhi ora sembravano sfidarlo. "Non riuscivo a rimanere incinta. Ma non dipendeva da lui, Michael era a posto. Ero io". E poi, come per centrare il bersaglio, nel caso lui ancora non avesse capito, lo disse nella maniera più chiara possibile. "Non posso avere figli". Miles non disse nulla e Sarah proseguì. "Non puoi immaginarti che cosa ho provato quando l'ho saputo. Che ironia, avevo trascorso tanti anni a cercare di non rimanere incinta! Mi facevo prendere dal panico tutte le volte che dimenticavo di prendere la pillola. Non avevo mai neppure considerato l'eventualità di essere sterile". "Come lo hai scoperto?" "Nel solito modo. Dopo un po’ abbiamo fatto degli esami medici". "Mi spiace", fu tutto quello che riuscì a dire lui. "Anche a me". Sarah fece un rapido sospiro, come se stentasse ancora a crederci. "E pure a Michael. Lui però non riusciva a farsene una ragione. Gli ho detto che potevamo ricorrere all'adozione, che ne sarei stata felicissima, ma si è rifiutato persino di prendere in considerazione l'idea. .. per via della sua famiglia". "Vuoi scherzare...". Sarah scrollò il capo. "Mi piacerebbe. A ripensarci adesso, forse non mi sarei dovuta sorprendere. Quando cominciammo a uscire insieme, lui mi ripeteva sempre che ero la donna più perfetta che avesse mai conosciuto. E non appena accadde qualcosa che dimostrava il contrario, fu pronto a gettare al vento il nostro rapporto". Abbassò lo sguardo sul bicchiere di vino, come se parlasse da sola. "Chiese il divorzio e io me ne andai una settimana dopo". Miles le prese la mano e le fece segno con la testa di continuare. "In seguito... certo, non è stato facile. Non è il genere di storia che puoi raccontare in giro, sai. La mia famiglia ne è al corrente e ne ho parlato con Sylvia. Era la mia psicoterapeuta e mi ha aiutato molto, ma a parte loro, non lo sa nessun altro. E adesso anche tu...". Lasciò la frase a metà. Alla luce del fuoco, Miles la trovava incantevole. I suoi capelli morbidi catturavano frammenti di luce e li riflettevano come un'aureola. "Perché proprio io?" chiese alla fine. "Non è ovvio?" "Per niente". "Pensavo che dovessi saperlo. Voglio dire, prima... Non sopporterei che mi succedesse di nuovo". Distolse lo sguardo. Miles la costrinse dolcemente a girare la testa verso di lui. "Credi davvero che lo farei?" Sarah lo guardò, triste. "Oh, Miles... è facile per te dire che non ti importa in questo momento. Quello che mi preoccupa è come ti sentirai dopo che avrai avuto modo di rifletterci. Mettiamo che la nostra relazione continui nel tempo. Potrai affermare ancora sinceramente che non ti interessa? Che il fatto di non poter avere degli altri figli, di non poter dare dei fratelli a Jonah, non conta?" Si schiarì la voce. "So che sto correndo un po’ troppo... e non credere che io pensi già di sposarti. Ma dovevo dirti la verità, in modo che tu sapessi a che cosa vai incontro... prima che la nostra storia cominci. Io preferisco aspettare di essere sicura che tu non ci ripenserai e non ti comporterai come Michael. Se tra noi non funzionerà per un'altra ragione, mi sta bene. Posso accettarlo. Ma non voglio più dover affrontare quello che ho già passato". Miles guardò nel bicchiere, dove si rifletteva la danza delle fiamme. Ne percorse il bordo di cristallo con un dito. "Anche tu allora dovresti sapere qualcosa di me", disse. "È stata davvero dura dopo la morte di Missy, e non solo perché sentivo disperatamente la sua mancanza... è che non ho mai scoperto chi guidasse l'auto che l'ha investita quella sera. Ed era mio dovere farlo, sia come marito sia come sceriffo. Per parecchio tempo non sono riuscito a pensare ad altro che a trovare il colpevole. Ho fatto indagini per mio conto, ho parlato con la gente, ma niente, quel tizio era scomparso senza lasciare tracce e questo mi rodeva dentro come non puoi nemmeno immaginare. Per molto tempo mi è sembrato di impazzire, anche se ultimamente...". La sua voce si intenerì mentre la guardava negli occhi. "Quello che voglio dire è che non ho bisogno di tempo, Sarah... come spiegarti... so solo che in tutto questo periodo mi stavo perdendo qualcosa e che prima di incontrarti non sapevo che cosa fosse. Se tu vuoi che mi prenda una pausa per rifletterci, lo farò, in modo che tu sia sicura. Ma io non ne ho bisogno. Non hai detto nulla che possa cambiare i miei sentimenti per te. Io non sono Michael, non potrei mai essere come lui". Il timer del forno suonò e si voltarono verso la cucina. Le lasagne erano pronte, ma nessuno dei due si mosse. Sarah si sentiva di colpo più leggera, anche se non sapeva se era per via del vino o delle parole di Miles. Posò il bicchiere sul tavolino e si decise ad alzarsi dal divano facendo un respiro profondo. "Tiro fuori le lasagne prima che brucino". In cucina, si appoggiò brevemente al bancone, ripetendosi le frasi che lui le aveva detto. Non ho bisogno di tempo, Sarah. Non hai detto nulla che possa cambiare i miei sentimenti per te. Per lui non aveva importanza. E, soprattutto, lei gli credeva. Come le aveva parlato, il modo in cui l'aveva guardata. .. Da quando aveva divorziato lei aveva quasi finito per credere che nessuno avrebbe mai potuto capirla. Posò la teglia sui fornelli spenti. Quando tornò in salotto, Miles era seduto sul divano a fissare il fuoco. Gli sedette vicino, posò la testa sulla sua spalla e lasciò che lui l'abbracciasse. Stretti insieme, rimasero a guardare le fiamme mentre lei sentiva sotto la guancia il lieve movimento del suo torace. La stava accarezzando ritmicamente e la sua pelle vibrava ad ogni carezza. Sarah si rannicchiò contro di lui e ascoltò il battito del cuore. "Grazie per esserti fidata di me", disse Miles. "Non avevo scelta". "C'è sempre una scelta". "Non questa volta. Non con te". Sollevò la testa e lo baciò, sfiorandogli le labbra con le sue per stuzzicarlo. Lui le cinse la schiena con le braccia mentre catturava la sua bocca, poi le loro lingue si incontrarono, inebriandoli di piacere. Lei gli accarezzò la guancia ruvida di barba con la punta delle dita, poi con le labbra. Miles allora spostò la bocca sul suo collo, mordicchiandola e baciandola, eccitandola con il suo respiro caldo sulla pelle sensibile. Fecero l'amore a lungo; il fuoco alla fine si spense, gettando la stanza nell'ombra. Per molto tempo Miles le sussurrò dolci frasi nell'oscurità, accarezzandola e toccandola in continuazione, come per convincersi che fosse vera. Poi si alzò a mettere altri ciocchi nel camino. Lei andò a prendere una coperta in camera da letto e, verso le prime ore del mattino, finalmente si accorsero di avere una fame da lupi. Divorarono le lasagne davanti al fuoco, mangiando dallo stesso piatto, nudi sotto la coperta, e per qualche motivo quello fu il momento più tenero e sensuale della notte. Poco prima dell'alba Sarah si addormentò e Miles la trasportò tra le braccia in camera da letto, chiuse le tende e si coricò accanto a lei. Il cielo era coperto di nubi, piovigginava e loro due dormirono fin quasi a mezzogiorno, per la prima volta da tanto tempo. Sarah si svegliò per prima; sentì il corpo caldo di Miles rannicchiato contro il suo e rabbrividì. Bastò questo a svegliarlo, sollevò la testa dal cuscino e lei si girò su un fianco a guardarlo. Miles le accarezzò i lineamenti delicati del viso con un dito, cercando di ingoiare il groppo che gli si era formato in gola. "Ti amo", disse, tutte le sue resistenze travolte dalla commozione. Lei gli prese la mano e se la portò sul cuore. "Oh, Miles", mormorò. "Anch'io, anch'io... ti amo". Capitolo quattordicesimo Nei giorni successivi Sarah e Miles passarono insieme più tempo possibile e lei andava spesso a casa di lui. Jonah non fece domande in proposito. Seduto nella sua cameretta, mostrava a Sarah la sua preziosa collezione di figurine di baseball, oppure le rivelava i segreti della pesca spiegandole come tirare la lenza. A volte, la conduceva per mano da una stanza all'altra per farle vedere qualcosa. Miles osservava tutto con discrezione, sapeva che Jonah doveva ancora capire che posto riservare a Sarah nella sua vita e quali sentimenti provava per lei. Il fatto che non fosse del tutto un'estranea rendeva le cose più facili e nel complesso, con suo grande sollievo, i due sembravano andare molto d'accordo. Per il giorno di Halloween si recarono in macchina al mare e passarono il pomeriggio a raccogliere conchiglie sulla spiaggia, poi girarono per il vicinato bussando alle porte con la domanda di rito: "Dolcetto o scherzetto?" Jonah era assieme a un gruppo di amici, Miles e Sarah lo seguivano con gli altri genitori. Brenda, ovviamente, a scuola tormentava Sarah di domande ed una volta che si fu sparsa la voce, anche suo marito affrontò l'argomento. "Io l'amo, Charlie", fu la semplice risposta di Miles e il suo capo che, essendo della vecchia scuola, si chiedeva se l'amico non fosse stato un po’ troppo precipitoso, gli diede una pacca sulla schiena e invitò a cena i due fidanzati. Per quanto riguardava Sarah e Miles, il loro legame cresceva con un'intensità da sogno. Quando erano divisi, anelavano a rivedersi; quando erano insieme, desideravano non separarsi più. Si vedevano a pranzo, si sentivano al telefono, facevano l'amore tutte le volte che ne avevano occasione. Miles cercava comunque di passare molto tempo anche con Jonah, e lei stava attenta a non turbare la sensibilità del bambino. Quando era con lui in classe lo trattava come aveva sempre fatto e se aveva l'impressione che ogni tanto rimanesse a fissarla con aria assorta, faceva finta di niente e non gli chiedeva spiegazioni. A metà novembre Sarah ridusse i pomeriggi che Jonah doveva trascorrere a scuola a prendere ripetizioni da tre a uno alla settimana. Ormai il bambino aveva recuperato quasi tutte le materie; era a pari con la lettura e la sillabazione ed aveva bisogno ancora di qualche aiuto solo in aritmetica. Quella sera lo portarono fuori a mangiare la pizza per festeggiare. Tornati a casa, mentre gli rimboccava le coperte Miles notò che il figlio era più taciturno del solito. "Cos'è quel muso lungo, campione?" "Sono un po’ triste". "Perché?" "Perché non devo più fermarmi a scuola tre pomeriggi come prima", rispose Jonah. "Credevo non ti piacesse restare a scuola". "All'inizio no, ma adesso mi piace". "Davvero?" Jonah annuì. "Sì, la signorina Andrews mi fa sentire speciale". "Ha detto così?" Miles annuì. Lui e Sarah erano seduti sui gradini d'ingresso della casa a guardare Jonah e Mark arrampicarsi in bicicletta su una rampa di legno sistemata nel vialetto. Sarah teneva le gambe raccolte con le braccia strette intorno alle ginocchia. "Proprio così". Jonah e il suo amico passarono davanti a loro zigzagando, diretti nel punto sull'erba dove giravano e prendevano la rincorsa. "A essere sincero, a volte mi sono chiesto come mio figlio avrebbe reagito al fatto di vederci sempre insieme, ma pare che per lui non ci siano problemi". "Sono contenta". "E a scuola cosa succede?" "Bah. Nei primi giorni, credo che qualche compagno gli abbia rivolto delle domande su di noi, ma sembra che poi l'abbiano lasciato in pace". Jonah e Mark passarono un'altra volta senza badare a loro. "Vuoi trascorrere il giorno del Ringraziamento con noi?" chiese Miles. "Quella sera sono di pattuglia, ma possiamo mangiare presto, se non hai altri programmi". "Mi spiace, ma non posso. Mio fratello torna dall'università e mia madre prepara il pranzo per tutta la famiglia. Ha invitato un sacco di gente: zii, cugini e nonni. Non credo mi perdonerebbe mai se le dicessi che non ci sarò". "Già, lo credo anch'io". "Però vuole assolutamente conoscerti. Continua a ripetermi di invitarti a casa loro". "E perché non me l'hai detto?" "Pensavo che non fossi ancora pronto". Gli strizzò l'occhio. "Non volevo spaventarti". "Non può essere così terribile". "Non esserne troppo sicuro. Però, se ti va, puoi venire per il Ringraziamento. Così lo passeremo insieme". "Sei sicura? Hai appena detto che a casa tua ci sarà già un sacco di gente". "Vuoi scherzare. Due posti in più non faranno differenza. E poi così conoscerai tutto il clan in una volta. A meno che tu non ti senta ancora pronto ad affrontare questo calvario". "Sono pronto". "Allora verrai?" "Contaci". "Bene. Ma ascolta, se la mamma comincia a fare strane domande, ricordati che io ho preso tutto da mio padre, va bene?" Quella sera Jonah andò a dormire da Mark. Erano rimasti soli e Sarah seguì Miles in camera da letto. Era la prima volta: fino ad allora avevano sempre passato insieme la notte a casa di lei e il fatto di ritrovarsi nel letto matrimoniale che lui aveva condiviso con Missy li turbò entrambi. Fecero l'amore abbandonandosi a una passione sfrenata, con un'urgenza che li lasciò ansimanti. Dopo, non parlarono molto; Sarah rimase sdraiata con la testa posata sul suo petto mentre lui le accarezzava i capelli. Intuiva che Miles voleva restare solo con i suoi pensieri. Guardandosi in giro per la stanza, si rese conto di essere circondata dalle foto di sua moglie, compresa quella sul comodino. Assalita da un improvviso senso di disagio, notò anche la cartelletta di cui lui le aveva parlato, quella che conteneva le informazioni raccolte dopo la morte di Missy. Era posata lì vicino al letto, come un monito, poteva vederla mentre la sua testa si alzava e si abbassava lentamente al ritmo del respiro di Miles. Quando alla fine il silenzio cominciò a farsi opprimente, spostò la testa sul cuscino e si girò verso di lui. "Tutto a posto?" chiese. "Sì", rispose Miles senza guardarla. "Sei silenzioso". "Stavo pensando", mormorò lui. "A qualcosa di bello, spero". "Solo alle cose migliori". Le passò un dito sul braccio. "Ti amo", sussurrò. "Anch'io". "Vuoi restare qui con me tutta la notte?" "Se ti fa piacere...". "Moltissimo". "Ne sei sicuro?" "Assolutamente". Nonostante l'inquietudine, lasciò che Miles l'abbracciasse. La baciò ancora e poi la tenne stretta finché non si addormentarono. La mattina, al risveglio, Sarah impiegò qualche istante a capire dove si trovasse. Lui le accarezzò la schiena e il suo corpo reagì immediatamente a quel tocco. C'era qualcosa di diverso nel loro amplesso, ora, una calma e una naturalezza che le ricordavano la prima volta in cui avevano fatto l'amore. E non era tanto il modo in cui lui la baciava e le sussurrava teneramente all'orecchio, ma piuttosto il suo sguardo, mentre si muoveva sopra di lei, a farle capire quanto fosse diventato serio il loro rapporto. E poi, mentre Sarah dormiva, Miles aveva tolto dalla stanza le fotografie e la cartelletta che avevano gettato un'ombra su di loro la notte prima. Capitolo quindicesimo "Non riesco proprio a capire perché tu non me l'abbia ancora presentato". Maureen e Sarah erano al supermercato con il carrello già pieno fino all'orlo. Sarah aveva l'impressione che la madre intendesse sfamare un esercito di persone per una settimana almeno. "Lo conoscerai tra poco, mamma. Come ti ho detto, lui e Jonah verranno al pranzo del Ringraziamento". "Ma non sarebbe meglio se venisse prima, in modo da poterci conoscere con tranquillità?" "Avrai un sacco di tempo per parlargli, mamma, lo sai. I festeggiamenti a casa nostra durano a lungo". "Ma con i vari parenti, non potrò dedicargli tutte le mie attenzioni, come desideravo". "Sono sicura che capirà". "E poi, non hai detto che deve andare via presto?" "Deve essere al lavoro per le quattro". "In un giorno di festa?" "Lavora quel giorno in modo da essere libero a Natale. È uno sceriffo. Non è che i poliziotti possano starsene tutti in vacanza". "E chi si occuperà di Jonah?" "Ci penserò io. Sai com'è papà... per le sei sarà bell'e addormentato e allora io riporterò a casa Jonah". "Così presto?" "Non preoccuparti. Passeremo insieme tutto il pomeriggio". "Hai ragione", disse Maureen. "È solo che sono un po’ in ansia per la festa". "Non preoccuparti, mamma. Andrà benone". "Ci saranno altri bambini?" chiese Jonah. "Non so", rispose Miles. "Forse". "Maschi o femmine?" "Non lo so". "E... quanti anni hanno?" Miles scrollò la testa. "Ti ho già detto che non lo so. A essere sincero, non so nemmeno se ci siano altri bambini. Mi sono dimenticato di chiederlo". Jonah corrugò la fronte. "Ma se sono l'unico bambino, che cosa farò?" "Guarderai la partita alla televisione con me?" "Che noia". Miles allungò il braccio e strinse a sé il figlio sul sedile anteriore della macchina. "Non staremo lì tutto il giorno, perché io poi devo andare al lavoro. Però dobbiamo fermarci almeno per un po'. Voglio dire, quelle persone sono state tanto gentili da invitarci, e non sarebbe educato andarcene via subito dopo mangiato. Però magari possiamo fare una passeggiata". "Con la signorina Andrews?" "Se vuoi che venga anche lei". "D'accordo". Jonah tacque, la testa girata verso il finestrino. Stavano passando accanto a un boschetto di pini. "Papà... credi che mangeremo il tacchino?" "Quasi sicuramente. Perché?" "Avrà un sapore strano? Come l'anno scorso?" "Vuoi forse dire che non ti piace come cucino io?" "Aveva un sapore strano". "Non è vero". "Sì, invece". "Forse loro cucinano meglio". "Lo spero". "Ce l'hai con me?" Jonah sorrise. "Ma no, papà. Però il tuo tacchino aveva un sapore strano". Si fermarono davanti a una casa di mattoni a due piani e parcheggiarono vicino alla cassetta delle lettere. Il prato ben curato indicava chiaramente che chi abitava lì amava il giardinaggio. Lungo il vialetto erano state piantate delle violette ed intorno agli alberi erano sparsi aghi di pino, mentre le uniche foglie a terra erano quelle cadute la notte prima. Sarah scostò la tendina e li salutò da dietro la finestra. Un attimo dopo, aprì la porta d'ingresso. "Uau, complimenti!" esclamò. Miles si toccò distrattamente la cravatta. "Grazie". "Mi riferivo a Jonah", replicò lei strizzando l'occhio e il bambino lanciò al padre un'occhiata di soddisfazione. Aveva i calzoni lunghi blu e una camicia bianca immacolata. Diede a Sarah un rapido abbraccio. Lei tirò fuori da dietro la schiena una scatola di macchinine e gliela porse. "Perché me le dai?" chiese lui. "Volevo che avessi qualcosa con cui giocare mentre sei qui", rispose lei. "Ti piacciono?" Jonah esaminò la scatola. "Sono forti! Papà... guarda". Alzò la scatola verso il padre. "Lo vedo. Hai ringraziato?" "Grazie, signorina Andrews". "Non c'è di che". Miles fece un passo verso di lei, che si rialzò e lo salutò con un bacio. "Scherzavo, sai. Anche tu stai bene. Non ti ho mai visto in giacca e cravatta di giorno". Gli sfiorò il bavero. "Però potrei farci l'abitudine". "Grazie, signorina Andrews", rispose lui, imitando il figlio. "Anche tu sei molto carina". Ed era vero. Anzi, più la conosceva, più gli sembrava diventare carina, qualunque vestito indossasse. "Pronto a entrare nella fossa dei leoni?" chiese lei. "Quando vuoi", fu la risposta. "E tu, Jonah?" "Ci sono altri bambini?" "Purtroppo no. Soltanto adulti. Ma sono molto simpatici e non vedono l'ora di conoscerti". Jonah annuì, poi tornò a fissare la scatola delle macchinine. "Posso aprirla adesso?" "Come vuoi. È tua, quindi puoi farci quello che ti pare". "E posso giocare fuori?" "Certo", rispose Sarah. "Te l'ho regalata apposta...". "Ma adesso", intervenne Miles, "devi entrare a salutare tutti in modo educato. E se torni fuori a giocare, non voglio che ti sporchi prima di sederti a tavola". "Stai tranquillo", rispose Jonah, convinto. Miles, però, non si faceva illusioni. Un bambino di sette anni che giocava nel prato? C'era solo da augurarsi che non si infangasse dalla testa ai piedi. "Benissimo, allora", concluse Sarah. "Andiamo. Ah, un ultimo avvertimento...". "Riguarda tua madre?" chiese Miles. Lei sorrise. "Come fai a saperlo?" "Non preoccuparti. Sfodererò le mie maniere migliori, e anche Jonah, vero?" Jonah annuì, senza alzare gli occhi. Sarah prese Miles per mano e gli sussurrò all'orecchio: "Non era di voi due che mi preoccupavo". "Eccovi qua!" esclamò Maureen saltando fuori dalla cucina. Sarah guardò significativamente Miles, che rimase subito colpito dalla differenza tra madre e figlia. Mentre Sarah era bionda, alta e sottile, Maureen aveva i capelli scuri striati di grigio e un aspetto decisamente matronale. E mentre Sarah camminava con la grazia di un angelo, sua madre dava quasi l'impressione di rimbalzare quando si muoveva. Portava un grembiule bianco sopra l'abito blu e protese le mani mentre si avvicinava, come se salutasse degli amici che non vedeva da tempo. "Ho sentito parlare tanto di voi!" Maureen stritolò Miles in un abbraccio e poi fece lo stesso con Jonah prima ancora che Sarah avesse modo di fare le presentazioni. "Sono davvero felice che siate venuti! Siamo in tanti oggi, come vedete, ma voi due siete gli ospiti d'onore". Sembrava quasi esaltata. "Che cosa significa?" chiese Jonah. "Vuol dire che tutti vi stavano aspettando". "Davvero?" "Sissignore". "Ma non mi conoscono nemmeno", osservò Jonah candidamente, guardandosi intorno e sentendosi addosso gli occhi di tutti. Miles gli posò una mano sulla spalla per tranquillizzarlo. "È un piacere conoscerla, Maureen. E grazie dell'invito". "Oh, il piacere è mio", rispose lei ridendo. "Siamo davvero felici che siate venuti. E so che lo è anche Sarah". "Mamma...". "Bè, è così. Non si può negare". Tornò a rivolgere l'attenzione a Miles e a Jonah, chiacchierando vivacemente ancora per qualche minuto. Poi li presentò ai vari parenti, in tutto una decina di persone. Miles strinse la mano a ognuno di loro e Jonah lo imitò, mentre Sarah scrollava la testa, esasperata. "È un amico di mia figlia con il suo bambino", diceva Maureen, ma il suo tono, un misto di orgoglio e di approvazione materna, non lasciava dubbi su ciò che intendeva veramente. Finite le presentazioni, fece una pausa, sfinita dall'impresa. Poi si rivolse a Miles e gli chiese se voleva qualcosa da bere. "Gradirei una birra, se possibile". "Una birra, benissimo. E tu, Jonah? Puoi scegliere tra succo di frutta o Seven-Up". "Un succo". "Vengo con te, mamma", disse Sarah, prendendola per un braccio. "Ho sete anch'io". Mentre si dirigevano in cucina, Maureen era raggiante. "Oh, Sarah... Sono tanto felice per te". "Grazie". "Sembra un uomo fantastico. E che sorriso. Dà l'impressione di potersi fidare di lui". "Lo so". "E suo figlio, poi, un vero tesoro". "Sì, mamma". "Dov'è papà?" chiese Sarah qualche minuto più tardi. La madre finalmente si era calmata abbastanza da poter tornare a occuparsi dei preparativi per il pranzo. "L'ho mandato al supermercato con Brian", rispose Maureen. "Mi serviva del pane, una bottiglia di vino e... qualcos'altro". "Così Brian si è deciso ad alzarsi?" Sarah aprì il forno e controllò il tacchino; l'aroma dell'arrosto si diffuse per la cucina. "Era molto stanco, è arrivato dopo mezzanotte. Aveva un esame mercoledì pomeriggio e quindi non è potuto partire prima". In quel momento si aprì la porta di servizio e Larry e Brian entrarono con due pesanti borse della spesa che appoggiarono sul bancone. Suo fratello, che era partito nell'agosto precedente, sembrava più alto e più maturo, e abbracciò Sarah non appena la vide. "Allora, come vanno gli studi? È un sacco di tempo che non ci parliamo", gli disse lei. "Vanno... tu sai com'è. E il tuo lavoro?" "Benissimo. Mi piace". Sarah guardò oltre la spalla del fratello. "Ciao, papà". "Ciao, tesoro", disse Larry. "Che profumino delizioso". Mentre mettevano via la spesa continuarono a chiacchierare, finché Sarah annunciò che voleva presentare loro un amico. "Lo so, la mamma mi ha detto che avevi un fidanzato", rispose Brian guardandola con aria complice. "Mi fa piacere. È una brava persona?" "Credo di sì". "È una storia seria?" Sarah si accorse che la madre aveva smesso di sbucciare le patate ed aspettava di sentire la sua risposta. "Ancora non lo so", disse. "Adesso posso presentartelo?" Brian scrollò le spalle. "Va bene". Sarah gli posò una mano sul braccio. "Non preoccuparti. Ti piacerà". Brian annuì. "Vieni anche tu, papà?" "Tra un minuto. Tua madre vuole che le trovi le altre zuppiere. Devono essere da qualche parte nella dispensa". Sarah e Brian uscirono dalla cucina e si diressero in salotto, dove però non c'era traccia di Miles o di Jonah. La nonna spiegò che erano andati un attimo in giardino, ma quando Sarah si affacciò fuori, non li vide. "Devono essere sul retro...". Girato l'angolo della casa, scorsero Miles con Jonah, che aveva trovato un mucchietto di terra e spingeva le macchinine su e giù per strade immaginarie. "Che cosa fa lui? È un insegnante?" le chiese Brian. "No, ma l'ho conosciuto a scuola, suo figlio è nella mia classe. Lui è vicesceriffo. Ehi, Miles!" chiamò. "Jonah!" Quando loro si voltarono, lei indicò il fratello. "Vorrei presentarvi una persona". Jonah si alzò da terra per venirle incontro con il padre e Sarah si accorse che aveva i ginocchi dei calzoni tutti sporchi di fango. "Miles, suo figlio Jonah, e questo è mio fratello, Brian". Miles gli tese la mano. "Ciao. Sono Miles Ryan. Piacere di conoscerti". Brian gliela strinse, con aria un po’ rigida. "Piacere". "Ho saputo che vai all'università". Brian annuì. "Sissignore". Sarah scoppiò a ridere. "Non devi essere così formale, Miles ha solo un paio di anni più di me". Suo fratello abbozzò un sorriso senza replicare e Jonah alzò la testa per guardarlo. Brian fece un passettino indietro, come se non sapesse bene come rivolgersi a un bambino. "Ciao", disse Jonah. "Ciao", rispose Brian. "Tu sei il fratello della signorina Andrews?" Brian annuì, muto. "Lei è la mia maestra". "Lo so. Me l'ha detto". "Oh...". Jonah d'improvviso sembrava annoiato e cominciò a giocherellare con le macchinine. Per un po’ nessuno di loro parlò. "Non volevo essere maleducato con la tua famiglia", spiegò Miles qualche minuto dopo. "Jonah mi aveva chiesto di uscire per vedere se poteva giocare in giardino e io gli ho detto di sì... spero non ci siano problemi". "Va benissimo", rispose Sarah. "Basta che si diverta". Larry li raggiunse fuori e chiese a Brian se poteva cercare le zuppiere di portata in garage, perché lui non le aveva trovate. Il ragazzo si allontanò e scomparve dentro la rimessa. Anche Larry era un tipo taciturno, pur se in maniera più riflessiva di Brian. Sembrò esaminare Miles con occhio critico, mentre si scambiavano le solite frasi di cortesia. Ma il suo atteggiamento cambiò ben presto, quando i due uomini scoprirono di avere interessi in comune, come l'imminente partita tra i Dallas Cowboys e i Miami Dolphins. Dopo pochi minuti conversavano amabilmente. Poi Larry rientrò in casa e Jonah tornò alla sua montagnola di terra. Sarah e Miles rimasero soli. "Tuo padre deve avere un carattere forte. Appena ci siamo visti, ho avuto la netta impressione che volesse cercare di capire se eravamo già stati a letto insieme". Sarah rise. "È probabile. Per lui sono ancora la sua bambina, sai". "Già. Da quanto tempo sono sposati i tuoi?" "Quasi trentacinque anni". "Complimenti". "A volte penso che dovrebbero farlo santo". "Dai, andiamo, non essere così dura con tua madre. A me è piaciuta". "Credo che anche tu le piaccia. A un certo punto ho temuto sul serio che si offrisse di adottarti". "Come ti ho già detto, lei vuole soltanto la tua felicità". "Se ti sente, non ti lascia più andare via. Ha bisogno di qualcuno di cui occuparsi, ora che Brian è all'università. Ah, senti... non prendertela per la sua timidezza. Mio fratello è sempre molto riservato di fronte agli estranei. Una volta che ti avrà conosciuto meglio, uscirà dal guscio". Miles scrollò il capo, per fugare le sue ansie. "Non preoccuparti. E poi, per certi versi, mi ricorda me stesso alla sua età. Che tu ci creda o no, a volte anch'io, in certe situazioni, non so cosa dire". Sarah sgranò gli occhi. "Non posso crederci! E io che ti facevo un tipo dalla parlantina sciolta. Non lo avrei mai sospettato". "Pensi davvero che il sarcasmo si addica ad una giornata di festa come questa? Un giorno fatto per stare in famiglia e ringraziare Dio dei doni che ci sono stati dati?" "Ma certo". La strinse tra le braccia. "E va bene. A mia discolpa, però, bisogna dire che qualunque cosa abbia fatto, alla fine ha funzionato, no?" Lei sospirò. "Suppongo di sì". "Supponi?" "Vorresti una medaglia, forse?" "Tanto per cominciare. Anche un trofeo andrebbe bene". Lei sorrise. "E che cosa credi di stare stringendo tra le braccia in questo momento?" Il resto della giornata fu tranquillo. Dopo mangiato, alcuni si misero a guardare la partita mentre gli altri aiutavano la padrona di casa a riordinare e mettere via le montagne di avanzi. Il pomeriggio trascorreva lento e persino Jonah, rimpinzatosi con due fette di torta giganti, sembrava godere dell'atmosfera rilassata. Larry e Miles parlavano della storia di New Bern. Sarah andava avanti e indietro dalla cucina, dove Maureen continuava a ripetere che giovanotto fantastico fosse Miles. E Brian, da bravo figlio, passò gran parte del tempo a lavare e ad asciugare i piatti di porcellana del servizio buono della madre. Un po’ prima di dover andare via Miles propose di fare una passeggiata. Si diressero in fondo all'isolato e poi si inoltrarono nel bosco. Jonah prese per mano Sarah e la guidò tra gli alberi, ridendo felice, e mentre li osservava camminare davanti a lui, Miles cominciò a poco a poco a figurarsi un futuro insieme. Era certo di amarla ed era rimasto colpito dal fatto che lei avesse voluto presentarlo alla famiglia. Gli piaceva quel senso di affiatamento, l'atmosfera festiva e rilassata, la maniera spigliata e disinvolta con cui lo trattavano i parenti, e si era trovato bene con loro. Fu allora che gli balenò per la prima volta l'idea di chiedere a Sarah di sposarlo e, una volta partorito, questo pensiero sembrò non volere più abbandonarlo. Sarah e Jonah stavano lanciando sassi in un ruscello, poi lo attraversarono con un salto. "Vieni, dai!" lo invitò lei. "Andiamo in esplorazione!" "Sì, papà, sbrigati!" "Arrivo... non aspettatemi, tanto vi raggiungo!" Ma non accelerò il passo. Camminava perso nei suoi pensieri, mentre loro si allontanavano sempre di più, sino a scomparire oltre un folto d'alberi. Miles si infilò le mani in tasca. Sposarsi. Stavano insieme da poco, certo, e non aveva intenzione di inginocchiarsi lì davanti a lei per farle la proposta. Ma sapeva che sarebbe venuto presto il momento di farlo. Lei era la donna giusta; non c'erano dubbi. Ed era fantastica anche con Jonah. Suo figlio le voleva bene e questo era importante... in caso contrario, lui non avrebbe neppure preso in considerazione l'idea di sistemarsi con Sarah. A questo punto, ci fu uno scatto dentro di lui, come se avesse finalmente trovato la chiave giusta. Senza che ne avesse la piena consapevolezza, la domanda "e se" si era trasformata in "quando". Presa la decisione, Miles inconsciamente si rilassò. Non vedeva più Sarah e Jonah quando attraversò il ruscello, ma proseguì nella loro direzione. Un attimo dopo li scorse e in pochi passi li raggiunse: non si era sentito così felice da anni. Da quel giorno fino a metà dicembre, il rapporto tra Miles e Sarah si fece ancora più intenso, sia come amici sia come amanti, e sbocciò in un legame più stabile e profondo. Miles cominciò ad accennare a un loro eventuale futuro insieme. Sarah capiva benissimo che cosa intendesse e prese a fare le sue osservazioni. Si trattava di piccole cose... quando erano a letto, per esempio, lui diceva che i muri avevano bisogno di una tinteggiatura, lei proponeva una tonalità giallo chiaro per rallegrare l'ambiente ed alla fine sceglievano insieme il colore. Oppure Miles affermava che il giardino aveva bisogno di qualche albero e lei diceva che aveva sempre amato le camelie e che le avrebbe piantate, se quella fosse stata casa sua. Quel fine settimana Miles piantò cinque camelie. La cartelletta era chiusa nell'armadio e, per la prima volta da molto tempo, Miles aveva la sensazione che il presente fosse più vivo del passato. Ma quello che nessuno dei due sapeva era che, pur essendo pronti a lasciarsi il passato alle spalle, il destino stava già cospirando per ostacolare i loro piani. Capitolo sedicesimo Ho trascorso un'altra notte insonne e, per quanto ora desìderi dormire, so che non posso. Non finché non vi avrò raccontato com'è andata. L'incidente non si verificò come probabilmente voi immaginerete, né come si immaginava Miles. Quella sera non avevo bevuto, come sospettava lui, e non ero neanche sotto l'influsso di qualche droga. Ero del tutto lucido. Quello che accadde quella sera con Missy fu, semplicemente, un incidente. L'ho rivissuto migliaia di volte nella mente. Nei quindici anni passati da allora, mi è capitato di provare un déjàvu nei momenti più strani - mentre trasportavo delle scatole verso un furgoncino un paio di anni fa, per esempio - e quella sensazione ancora mi paralizza, magari solo per un attimo, riportandomi indietro nel tempo. Quel giorno avevo lavorato sodo, scaricando casse sui pallet in un magazzino, e avrei dovuto staccare alle sei. Ma poco prima della chiusura arrivò un carico di tubi di plastica e il proprietario mi chiese di fermarmi ancora per un'oretta. A me non spiaceva; era un'ora di straordinario, ben pagata, e rappresentava un modo veloce per guadagnare qualche soldo in più. Quello che non avevo calcolato era quanto fosse pieno il camion e che avrei dovuto fare quasi tutto da solo. In genere eravamo in quattro a lavorare nel magazzino, ma un mio collega era a casa in malattia, un altro non si era potuto trattenere perché il figlio aveva una partita di baseball a cui lui non voleva mancare. Rimanevamo in due, e ce l'avremmo fatta, ma appena cominciammo a scaricare l'altro magazziniere si storse una caviglia e rimasi solo io. Faceva caldo. Fuori dovevano esserci di sicuro più di trenta gradi e dentro almeno trentasette, con un tasso di umidità altissimo. Avevo lavorato già otto ore e me ne restavano ancora almeno tre. A me, poi, toccava sempre la fatica peggiore. Gli altri tre magazzinieri usavano a turno il carrello elevatore, in modo da potersi riposare di tanto in tanto. Io no. Il mio compito era suddividere le casse e poi trasportarle dal camion allo scivolo d'ingresso del magazzino, e lì caricarle sui pallet, in modo che il carrello potesse sollevarle e portarle dentro. E alla fine di quella giornata, avevo dovuto fare tutto da solo. Quando terminai, ero stremato. Non riuscivo quasi più a muovere le braccia, sentivo le fitte alla schiena ed ero anche affamato. Così decisi di fermarmi per strada al Rhett Barbecuè s, invece di tornare subito a casa. A quel punto per riprendermi non c'era niente di meglio di una bella grigliata e di una birra, pensai mentre mi dirigevo verso l'auto. La mia macchina, una Pontiac Bonneville vecchia di una decina d'anni, era una vera carretta, tutta ammaccata e arrugginita. L'avevo comprata usata l'estate prima per trecento dollari. Ma nonostante l'aspetto malandato, faceva il suo dovere e non mi aveva mai dato problemi. Quando salii in macchina era il tramonto. A quell'ora il sole a volte provoca strani fenomeni, scendendo verso occidente. Il cielo cambiava colore praticamente da un momento all'altro, le ombre si allungavano sull'asfalto come lunghe dita spettrali e, non essendoci una nuvola, il riverbero sul parabrezza mi accecava, costringendomi a socchiudere gli occhi per vedere dove andavo. Davanti a me, un altro guidatore sembrava avere difficoltà a restare in carreggiata. Continuava ad accelerare e rallentare, pigiando il freno quando era disturbato dalla luce del sole ed invadendo spesso la corsia opposta. Dopo un po’ mi stancai di stargli dietro, la strada era troppo stretta per sorpassare, così rallentai sperando che si allontanasse. Ma lui rallentò a sua volta e quando fummo di nuovo vicini, vidi le luci degli stop davanti a me accendersi e spegnersi a intermittenza come quelle dell'albero di Natale. Frenai anch'io bruscamente , facendo fischiare le gomme, e mi fermai a pochi centimetri dal suo paraurti. Fu in quel momento che il fato intervenne. Rimpiango di non aver tamponato quella maledetta macchina, così Missy si sarebbe salvata. Invece, per togliermi dai piedi l'autista imbranato, svoltai alla prima a destra, in Camelia Road, anche se così avrei allungato un po’ il tragitto. La strada che avevo scelto attraversava la parte vecchia della città ed era fiancheggiata da querce. Il sole ormai si era abbassato sull'orizzonte e cominciava a scendere la sera, così accesi i fari. Quella via immersa nel verde era tutta una curva, ma la conoscevo bene. Ben presto le case cominciarono a diradarsi, i giardini erano più spaziosi, c'era meno gente in giro. Dopo un paio di minuti svoltai di nuovo, in Madame Moorè s Lane. Mi consolai con il pensiero che in un paio di chilometri sarei finalmente arrivato da Rhett" s. Ricordo che accesi la radio e cercai la mia stazione preferita, ma senza togliere gli occhi dalla strada. Poi la spensi. Vi giuro che la mia mente era tutta concentrata sulla guida. Frenai automaticamente all'imbocco di un'ennesima curva e fu allora che la vidi... sono quasi sicuro di aver rallentato ancora. Non posso giurarlo, però, dato che accadde tutto così in fretta. Mi avvicinavo alla donna da dietro. Lei correva sul ciglio erboso e ricordo che portava una maglietta bianca e i calzoncini blu; avanzava con un'andatura sciolta e rilassata. In quella zona della città le case sono in posizione arretrata rispetto alla strada e non c'era in giro un abitante. Lei mi aveva sentito arrivare ...la vidi voltarsi indietro per guardare la macchina con la coda dell'occhio, poi si allontanò ancora di più dal bordo. Io tenevo tutte e due le mani sul volante, facevo attenzione alla guida e credevo di essere prudente. Lei era tranquilla. Nessuno dei due, però, si accorse del cane. Come se fosse appostato lì ad aspettarla, balzò fuori all'improvviso da un buco nella siepe quando lei era a meno di sei metri da me. Era un grosso cane nero e udii il suo latrato minaccioso mentre le si scagliava contro. La colse di sorpresa, e lei schizzò di lato verso la strada. Proprio in quel momento i centocinquanta quintali della mia macchina le piombarono addosso. Capitolo diciassettesimo A quarant'anni Sims Addison assomigliava ad un ratto; naso affilato, fronte sfuggente ed un mento che sembrava aver smesso di crescere prima del resto del corpo. Teneva i capelli lisciati all'indietro, con l'aiuto di un pettine a denti larghi che portava sempre con sé. Sims era anche un alcolizzato, ma non di quelli che si ubriacano tutte le sere. Era il genere di alcolizzato a cui tremano le mani già di mattina, prima di bere il primo bicchiere della giornata, scolato quando la maggior parte delle persone non era ancora uscita di casa per andare al lavoro. Sebbene amasse il bourbon, in genere aveva soldi sufficienti solo a comprarsi il vino più scadente, che tracannava a litri. Non gli piaceva spiegare come si procurasse il denaro necessario, ma del resto, a parte l'affitto e il bere, non aveva altre esigenze. Se c'era un lato della sua personalità che poteva redimerlo, era forse la capacità di rendersi invisibile e, in questo modo, di venire a sapere molte cose sulla gente. Quando aveva bevuto non diventava chiassoso, né molesto, ma la sua espressione abituale - palpebre abbassate, bocca socchiusa - lo faceva sembrare più ubriaco di quanto fosse realmente. E per questo motivo tutti parlavano liberamente in sua presenza. Svelando fatti che avrebbero dovuto rimanere nascosti. Sims si guadagnava da vivere passando informazioni alla polizia. Non tutte, però. Soltanto quelle che gli assicuravano l'anonimato e la ricompensa. Solo nei casi in cui non era richiesta la sua pubblica testimonianza. Sapeva bene che i criminali sono vendicativi e non era tanto stupido da pensare che, se avessero scoperto chi li aveva traditi, ci sarebbero passati sopra senza reagire. Sims era stato in prigione una volta a vent'anni, per furto, e altre due intorno ai trenta, per possesso di marijuana. Il terzo soggiorno dietro le sbarre lo aveva cambiato. Era già un alcolizzato cronico e nella prima settimana di reclusione aveva sofferto di una terribile crisi di astinenza. Tremava, vomitava e, se chiudeva gli occhi, vedeva mostri. Rischiò anche di morire, ma non per l'astinenza. Dopo aver sopportato quelle grida e quei lamenti per qualche giorno, il suo compagno di cella lo aveva picchiato fino a tramortirlo per poter avere qualche ora di tranquillità. Sims aveva passato tre settimane in infermeria e infine gli era stata concessa la libertà vigilata, con l'obbligo di riferire a un agente di vigilanza. E con l'ammonimento che, se avesse ricominciato a bere o a drogarsi, lo avrebbero riportato dentro. L'eventualità di patire una nuova crisi di astinenza, oltre alle botte ricevute, faceva vivere Sims nel terrore di tornare in carcere. Ma per lui non era possibile affrontare la vita da sobrio. All'inizio usò grande cautela, ubriacandosi soltanto dentro le mura di casa. Con il passare del tempo, però, si concesse una maggiore libertà d'azione. Cominciò a incontrarsi con qualche amico per bere in compagnia, pur cercando di essere discreto. E dopo un po’ diede per scontata la sua fortuna e si mise a bere anche lungo il tragitto per raggiungere gli amici, con la bottiglia nascosta dentro il classico sacchetto di carta marrone. Ben presto tornò a essere costantemente ubriaco e la sua mente ormai era troppo annebbiata per udire il campanello di allarme che a volte gli risuonava nel cervello. Ma forse sarebbe andato tutto bene, se una sera non gli fosse venuto in mente di prendere in prestito la macchina della madre. Non aveva più la patente, però guidò lo stesso fino a uno squallido bar alla periferia della città. Lì rimase fino a mezzanotte, poi se ne andò dal locale barcollando. Riuscì a stento a uscire dal parcheggio senza tamponare le altre macchine ed in qualche modo imboccò la strada in direzione di casa. Fatti pochi chilometri, scorse nello specchietto retrovisore i lampeggianti rossi e blu della polizia. L'agente che gli faceva segno di fermarsi era Miles Ryan. "Sei tu, Sims?" gridò Miles, avvicinandosi lentamente. Come la maggior parte degli agenti, conosceva quell'uomo di persona, tuttavia aveva preso la torcia per illuminare l'interno dell'abitacolo alla ricerca di eventuali segni di pericolo. "Oh, salve, vicesceriffo Ryan", biascicò Sims. "Hai bevuto?" chiese Miles. "No... no". Sims lo fissò con lo sguardo velato. "Sono stato da amici". "Sei proprio sicuro? Nemmeno una birra?" "No, signore". "Magari un bicchiere di vino a cena?" "No, signore, no". "La tua auto sbandava". "Sono stanco". Come a sottolineare questa dichiarazione, Sims si portò una mano alla bocca e sbadigliò. Miles avvertì l'odore di alcol nel suo alito. "Hmm, dai, avanti... nemmeno un goccetto? In tutta la serata?" "No, signore". "Fammi vedere patente e libretto". "Ecco... sa... la patente non ce l'ho con me. Devo averla lasciata a casa". Miles si allontanò di un passo dalla macchina, tenendo la torcia puntata su di lui. "Scendi dall'auto". Sims sembrava sorpreso che il poliziotto non gli credesse. "Perché?" "Scendi e basta, per favore". "Non mi vorrà arrestare, vero?" "Avanti, non peggiorare le cose". Sims parve riflettere sul da farsi, ma quella sera ci aveva dato dentro un po’ troppo, anche per un tipo come lui. Invece di muoversi, rimase a fissare il parabrezza, finché Miles non aprì la portiera. "Scendi". Miles gli porse una mano, ma Sims scrollò il capo, come per dire che stava bene, poteva farcela da solo. Scendere dalla macchina, tuttavia, risultò più difficile di quanto avesse pensato e invece di ritrovarsi in piedi faccia a faccia con Miles Ryan, per supplicarlo di avere pietà, Sims stramazzò a terra e svenne subito dopo. Il mattino seguente, Sims si svegliò in preda ai brividi, senza ricordare più nulla. Capì soltanto di essere dietro le sbarre e questa consapevolezza lo paralizzò dal terrore. Lentamente, gli ritornarono alla memoria brandelli confusi della serata precedente. Era andato al bar, aveva bevuto con gli amici... e poi il resto era piuttosto offuscato, finché non riapparvero le luci lampeggianti. Dagli anfratti più reconditi della sua mente affiorò anche la circostanza che era stato Miles Ryan a portarlo dentro. Sims pensò subito al modo migliore per evitare la prigione. L'idea della cella lo faceva sudare copiosamente. Non poteva tornare dentro. Per nessun motivo. Sarebbe morto. Lo sapeva con assoluta certezza. E invece sarebbe tornato dentro. La paura gli schiarì le idee e nei minuti successivi gli sfilarono davanti tutti i tormenti che non sarebbe stato in grado di sopportare di nuovo. Carcere. Pestaggi. Incubi. Tremito e vomito. Morte. Si alzò a fatica dalla brandina e si appoggiò al muro per tenersi in equilibrio. Avanzò vacillando fino alle sbarre e guardò fuori nel corridoio. C'erano altre tre celle occupate, ma nessuno sembrava sapere dove fosse il vicesceriffo Ryan. Quando lo chiese, due detenuti gli intimarono di chiudere la bocca e il terzo non si degnò di rispondere. Questa sarà la tua vita per i prossimi due anni. Non era tanto ingenuo da credere che l'avrebbero rilasciato, né si faceva troppe illusioni sulle capacità del suo avvocato di ufficio. I termini della libertà vigilata stabilivano chiaramente che qualsiasi violazione avrebbe comportato l'immediato ritorno in carcere e, a causa delle condanne precedenti e del fatto che era alla guida senza patente, stavolta non gliel'avrebbero fatta passare liscia. Non c'erano dubbi. Chiedere la grazia non avrebbe funzionato, chiedere il perdono sarebbe stato come parlare al vento. Sarebbe rimasto a marcire in prigione fino al riesame del suo caso e poi, una volta che avesse perso il ricorso, avrebbero buttato via la chiave. Si asciugò la fronte con la mano e capì di dover agire subito. Qualunque cosa, pur di evitare il destino certo che lo attendeva. La sua mente cominciò a girare con maggiore alacrità, zoppicando e sussultando, ma pur sempre più veloce. La sua unica speranza di salvezza era riuscire a riportare indietro il tempo per evitare l'arresto avvenuto la notte prima. Ma come riuscirci, per la miseria? Tu hai delle informazioni, rispose una vocina. Miles era appena uscito dalla doccia, quando sentì squillare il telefono. Quella mattina aveva preparato la colazione a Jonah e lo aveva mandato a scuola, poi, invece di mettersi a riordinare la casa, era tornato a letto sperando di dormire ancora un paio d'ore. Non ci era riuscito, però si era appisolato per un po'. Doveva lavorare da mezzogiorno alle otto e aveva in programma una seratina tranquilla. Jonah andava al cinema con Mark e Sarah veniva a cena da lui. Non sapeva ancora che quella telefonata avrebbe cambiato tutto. Miles afferrò una salvietta e se l'avvolse intorno alla vita, alzando la cornetta all'ultimo squillo prima che partisse la segreteria. Era Charlie che, dopo un breve saluto, passò subito al sodo. "Meglio che tu venga subito", gli disse. "Perché? Che succede?" "Ieri notte hai portato dentro Sims Addison, giusto?" "Sì". "Non riesco a trovare il rapporto". "Oh... è per questo. Era arrivata un'altra chiamata e sono dovuto uscire di corsa. Pensavo di finire di scriverlo oggi, prima dell'inizio del turno. C'è qualche problema?" "Non ne sono ancora sicuro. Quando puoi arrivare?" Miles non sapeva bene come interpretare l'atteggiamento e il tono concitato del suo capo. "Sono appena uscito dalla doccia. Una mezz'ora va bene?" "Appena arrivi, vieni subito nel mio ufficio. Ti aspetto". "Non puoi almeno dirmi il motivo di tutta questa fretta?" Ci fu una lunga pausa all'altro capo del filo. "Sbrigati a venire. Ti spiegherò di persona". "Allora, che succede?" chiese Miles. Non appena era arrivato, Charlie lo aveva tirato dentro nel suo ufficio e aveva richiuso la porta. "Raccontami di ieri notte". "Ti riferisci a Sims Addison?" "Comincia dal principio". "Vediamo... era poco dopo mezzanotte ed ero parcheggiato di fronte a Beckers... sai quel bar vicino a Vanceboro?" Charlie annuì e incrociò le braccia. "Ero lì che aspettavo. Non era successo niente e sapevo che il locale stava per chiudere. Poco dopo, ho visto qualcuno uscire dal bar e ho seguito la macchina per istinto. Ho fatto bene. L'auto sbandava paurosamente, così l'ho fermata per fare un test alcolico al guidatore ed è stato allora che ho scoperto che si trattava di Sims Addison. Come mi sono avvicinato al finestrino, ho sentito puzza di alcol. Quando gli ho chiesto di scendere dall'auto, è caduto per terra ed è svenuto. Io l'ho caricato sulla mia auto e l'ho portato qui. A quel punto si era ripreso quel tanto da camminare da solo, anche se ho dovuto sostenerlo fino in cella. Stavo per scrivere il rapporto, ma come ti ho detto ho ricevuto un'altra chiamata e sono uscito subito. Sono rientrato solo quando il mio turno era già finito e, dato che oggi sostituisco Tommie, pensavo di farlo appena arrivato in ufficio, prima di ricominciare il turno". Charlie lo aveva lasciato parlare, ma i suoi occhi non lo avevano abbandonato per un secondo. "Nient'altro?" "No. Forse è ferito o roba del genere? Io non l'ho nemmeno toccato... è caduto da solo. Era completamente andato, Charlie. Proprio fuori...". "No, non è questo". "E allora che cos'è?" "Prima devo essere sicuro di una cosa... ieri notte lui non ti ha detto proprio nulla, giusto?" Miles rimase un momento a pensarci. "No. Sapeva chi ero e mi ha chiamato per nome". Si fermò, cercando di ricordare i dettagli. "Si comportava in modo strano?" "Non mi sembrava... era soltanto ubriaco, tutto qui". "Hmm", commentò lo sceriffo, di nuovo assorto nei pensieri. "Dai, Charlie, dimmi che cosa sta succedendo". Charlie sospirò. "Ha detto che vuole parlarti". Miles aspettò, sapendo che c'era dell'altro. "A te soltanto. Ha detto di avere delle informazioni". Miles conosceva bene la storia di Sims. "E?" "Con me non vuole parlare. Ma sostiene che è una questione di vita o di morte". Miles osservò Sims da dietro le sbarre e gli sembrò che fosse conciato male. Come molti alcolizzati cronici, aveva un colorito giallastro, le mani che tremavano e la fronte imperlata di sudore. Seduto sulla brandina, aveva passato ore a grattarsi le braccia senza rendersene conto e ora era pieno di graffi sanguinanti, simili a strisce di rossetto applicate da un bambino. Miles prese una sedia e si sedette, proteso in avanti con i gomiti appoggiati alle ginocchia. "Volevi parlare con me?" Sims si voltò al suono della sua voce. Non si era accorto dell'arrivo di Ryan e impiegò qualche istante a metterlo a fuoco. Si asciugò il labbro superiore ed annuì. "Vicesceriffo". "Che cosa mi devi dire, Sims? Hai fatto innervosire parecchio il mio capo di sopra. Mi ha detto che hai delle informazioni per me". "Perché mi ha arrestato ieri notte?" chiese l'uomo con voce supplichevole. "Non ho fatto del male a nessuno". "Eri ubriaco, Sims. E stavi guidando. È un crimine". "Allora perché non mi ha ancora incriminato?" Miles valutò quale fosse la risposta migliore, cercando di capire dove volesse andare a parare Sims. "Non ne ho avuto il tempo", disse sinceramente. "Ma secondo le leggi di questo stato, non ero obbligato a farlo subito ieri notte. E se è di questo che mi volevi parlare, allora ti saluto". Miles si alzò dalla sedia e fece per avviarsi lungo il corridoio. "Aspetti", disse Sims. Miles si fermò, girandosi verso di lui. "Sì?" "Devo dirle una cosa importante". "Hai detto a Charlie che era questione di vita o di morte". Sims si asciugò di nuovo il labbro. "Non posso tornare in prigione. Se mi denuncia, ci finirò di sicuro. Sono in libertà vigilata". "Le cose stanno così. Hai infranto la legge e finisci in prigione. Non lo sapevi, forse?" "Non posso tornare dentro", ripeté lui. "Dovevi pensarci prima". Miles si voltò di nuovo e Sims si alzò dalla branda, con espressione terrorizzata. "Non mi faccia questo". Miles esitò. "Mi spiace, Sims. Non posso aiutarti". "Può lasciarmi andare. Non ho fatto male a nessuno. E se torno in prigione, morirò di sicuro. Lo so come so che il cielo è azzurro". "Non posso farlo". "Certo che può. Può dichiarare di essersi sbagliato, dire che mi sono addormentato al volante e che è per questo che ho sbandato...". Miles provò compassione per quell'uomo, ma il suo dovere era chiaro. "Mi spiace", ripeté e si avviò per il corridoio. Sims si avvicinò alle sbarre e le afferrò. "Ho delle informazioni". "Me le darai dopo, quando ti porterò di sopra per stendere il rapporto". "Aspetti!" Il suo tono di voce indusse Miles a fermarsi di nuovo. "SI?" Sims si schiarì la gola. I tre detenuti delle celle adiacenti erano stati condotti di sopra, ma lui si guardò intorno per accertarsi che nessun altro lo ascoltasse. Gli fece segno di avvicinarsi, ma Miles rimase dov'era e incrociò le braccia. "Se avessi delle informazioni importanti, ritirerebbe le accuse?" Miles sorrise tra sé. Adesso sì che ci intendiamo. "Non dipende soltanto da me, e lo sai. Devo parlarne con il procuratore". "No. Non così. Sa come lavoro. Io non mi presento a testimoniare, voglio restare anonimo". Miles non rispose. Sims si guardò di nuovo intorno, per accertarsi di essere sempre solo. "Non ci sono prove di quello che sto per dirle, ma è tutto vero e la riguarda da vicino". Abbassò la voce, come per confidare un segreto. "So chi è stato quella notte. Lo so". Il tono che usò e le implicazioni evidenti nella sua dichiarazione fecero accapponare la pelle a Miles. "Ma di che cosa parli?" Sims si asciugò il labbro, sapendo di essersi conquistato la sua attenzione. "Non posso dirle altro, se non è disposto a lasciarmi andare". Miles avanzò verso la cella con un senso di vertigine. Fissò Sims finché questi indietreggiò, staccandosi dalle sbarre. "Dirmi che cosa?" "Prima dobbiamo fare un patto. Lei deve promettere di rilasciarmi. Può semplicemente dire che non ha prove per trattenermi in quanto non mi ha fatto il test per stabilire il grado alcolico". "Te l'ho detto... non posso scendere a patti". "Niente patti, niente informazioni. Io non posso assolutamente tornare in prigione". Erano uno di fronte all'altro e si guardavano negli occhi. "Lei ha capito bene a che cosa mi riferisco, vero?" chiese Sims alla fine. "Non vuole sapere chi è stato?" Il cuore di Miles si mise a battere forte e lui strinse involontariamente i pugni lungo i fianchi. La sua mente vorticava di pensieri. "Glielo dirò se mi lascia andare", insistette Sims. Miles aprì bocca, poi la richiuse, mentre tutto quanto, tutti i ricordi gli riaffioravano alla mente, rovesciandosi su di lui come l'acqua che trabocca da un lavandino troppo pieno. Sembrava incredibile, assurdo. Eppure... che Sims stesse dicendo la verità? E se sa davvero chi ha ucciso Missy? "Dovrai testimoniare", fu l'unica frase che gli uscì. Sims alzò le mani. "Impossibile. Non ho visto, ho solo ascoltato certi discorsi. E se loro scoprono che sono stato io a riferirli, sono bell'e che morto. Non posso testimoniare. Non lo farò. Giurerò di non ricordarmi di averle mai detto niente. E nemmeno lei può rivelare da chi ha avuto l'informazione. Deve restare tra di noi. Ma...". Sims scrollò le spalle, socchiuse gli occhi, lo scrutò con attenzione "adesso tutto questo non le importa, vero? Quello che le interessa è sapere chi è stato e io posso dirglielo. E che Dio mi fulmini se non è la verità". Miles afferrò le sbarre, stringendole fino a farsi diventare le nocche bianche. "Parla!" gridò. "Mi faccia uscire di qui", rispose Sims, riuscendo a mantenersi freddo nonostante la sua furia, "e lo farò". Miles rimase per parecchio tempo a fissarlo in silenzio. "Ero al Rebel", cominciò Sims, dopo che Miles aveva accettato le sue richieste. "Lo conosce, vero?" Sims non si aspettava una risposta. Si lisciò i capelli unti con il palmo della mano e proseguì. "Sarà stato all'incirca un paio di anni fa, non ricordo con precisione, e io avevo bevuto qualche bicchiere, sa com'è? Dietro di me notai Earl Getlin seduto a un tavolo. Lo conosce?" Miles annuì. Un altro nome nel lungo elenco di individui ben noti al dipartimento. Alto e magro, faccia butterata, tatuaggi sulle braccia... da una parte una scena di linciaggio, dall'altra un teschio con un coltello. Era stato arrestato per aggressione, furto con scasso, traffico di merci rubate. Era sospettato di spaccio di stupefacenti. Un anno e mezzo prima, dopo essere stato sorpreso mentre rubava un'auto, era stato mandato alla prigione di stato di Hailey. Doveva scontare ancora quattro anni. "Earl era nervoso, giocherellava con il bicchiere come se aspettasse qualcuno. Fu allora che li vidi arrivare. I Timson. Rimasero sulla porta qualche secondo, guardandosi intorno finché non lo trovarono. Poi gli si sedettero di fronte. Parlavano a voce molto bassa, quasi un bisbiglio, ma da dov'ero io, si riusciva a sentire ogni parola". Il racconto di Sims aveva fatto irrigidire Miles. Aveva la bocca secca, come se fosse rimasto fuori al caldo per ore. "Stavano minacciandolo, ma lui continuava a ripetere che ancora non ce li aveva. Fu allora che intervenne Otis... fino a quel momento aveva lasciato parlare i fratelli. Disse a Earl che, se non si procurava i soldi entro il fine settimana, faceva meglio a stare in guardia, perché nessuno poteva prenderlo in giro impunemente". Sims sbatté gli occhi. Era sbiancato in viso. "Lo avvertì che gli sarebbe capitata la stessa cosa che era accaduta a Missy Ryan. Solo che in questo caso sarebbero tornati indietro per passargli sopra un'altra volta. Capitolo diciottesimo Ricordo che mi misi a urlare prima ancora di riuscire a fermare l'auto. Rammento l'impatto, certo... il lieve strappo allo sterzo e quel tonfo agghiacciante. Ma quello che ricordo meglio sono le mie urla nella macchina. Erano assordanti, riecheggiavano fuori dai finestrini chiusi, e continuarono finché non spensi il motore e riuscii infine ad aprire la portiera. Allora le mie grida si trasformarono in un'implorazione terrorizzata. "No, no, no...". ricordo di aver ripetuto. Con il respiro affannoso, corsi davanti all'auto. Non c'erano danni. Come ho detto, era un vecchio modello, progettato per sopportare gli urti meglio delle carrozzerie moderne. Però non vidi il corpo. Mi balenò l'idea di esserle passato sopra, che fosse rimasta incastrata sotto la lamiera, e alla mia mente si affacciò un'immagine raccapricciante, che mi fece venire la nausea. Non sono il genere di persona che perde la testa facilmente, anzi, spesso la gente si complimenta con me per il mio autocontrollo, ma confesso che in quel momento mi misi le mani sulle ginocchia e fui lì lì per vomitare. Quando la nausea si calmò, mi costrinsi a guardare sotto. Non vidi nulla. Allora iniziai a muovermi da una parte all'altra, cercando il corpo. Ebbi la strana sensazione di essermi sbagliato e che si fosse trattato solo di un brutto scherzo della mia immaginazione. Mi misi a correre, controllando prima un lato della strada, poi l'altro, sperando contro ogni logica di averla soltanto sfiorata, di averla solo tramortita. Guardai dietro la macchina ma non la trovai neppure lì e allora compresi dove doveva essere finita. Mentre lo stomaco ricominciava ad agitarsi, scrutai l'area davanti alla macchina. Avevo ancora i fari accesi. Mossi qualche passo esitante e a quel punto la scorsi nel fosso, a una ventina di metri di distanza. Per un attimo rimasi indeciso se precipitarmi nella casa più vicina per chiamare un'ambulanza, oppure andare a soccorrerla. La seconda ipotesi mi parve la migliore e a mano a mano che mi avvicinavo, rallentavo il passo, come se in quel modo potessi cambiare il corso degli eventi. Mi accorsi subito che giaceva in una posizione innaturale. Una gamba piegata, come accavallata sull'altra all'altezza della coscia, con il ginocchio girato con un angolo strano e il piede voltato dalla parte sbagliata. Un braccio era sotto il corpo, l'altro gettato sopra la testa. Era supina e aveva gli occhi aperti. Al primo istante non mi colpì il pensiero che fosse morta. Ma ricordo che mi ci vollero pochi secondi per rendermi conto che qualcosa nel suo sguardo non andava. Gli occhi erano appannati, non sembravano veri... erano quasi una caricatura di occhi umani, come quelli di un manichino in vetrina. Credo che sia stata la loro fissità a farmi capire la verità. Per tutto il tempo che rimasi a guardarla, non batté le palpebre neanche una volta. Fu allora che mi accorsi del sangue che le usciva da dietro la testa e all'improvviso tutto andò al suo posto: gli occhi, la posizione del corpo, il sangue... Per la prima volta seppi con certezza che era morta. Fu a quel punto che crollai. Non ricordo di aver deciso consciamente di farlo, ma un attimo dopo ero vicino a lei. Le posai un orecchio sul petto, sulla bocca, cercai il battito del cuore. La esaminai alla ricerca di un movimento, di un fremito di vita, di qualche segnale che potesse indurmi all'azione. Niente. In seguito l'autopsia stabilì- così riferirono i giornali- che era morta sul colpo. Riporto questa notizia in modo che sappiate che sto dicendo la verità. Missy Ryan non aveva alcuna possibilità di cavarsela, qualsiasi cosa io avessi fatto dopo l'incidente. Non so per quanto tempo rimasi lì, ma probabilmente non molto. Ricordo di essere tornato alla macchina barcollando e di aver aperto il bagagliaio; ricordo anche di aver trovato la coperta e di averla stesa sul suo corpo. In quel momento mi parve giusto farlo. Charlie suppose che fosse un modo per dirle che mi spiaceva e, a ripensarci, forse in parte era vero. Ma in parte la ragione era anche che non volevo che altri la trovassero come l'avevo vista io. Così la coprii, come per coprire il mio stesso peccato. I ricordi successivi sono confusi. A un certo punto mi ritrovai in macchina, diretto a casa. Non so spiegarmelo, se non per il fatto che non riuscivo più a pensare lucidamente. Se l'incidente fosse accaduto adesso... se allora avessi saputo le cose che so adesso, non avrei agito così. Sarei corso alla casa più vicina per chiamare la polizia. Per qualche motivo, quella notte, non lo feci. Non credo che volessi scappare, sottrarmi alle conseguenze di ciò che avevo fatto. Di sicuro non in quel momento. A ripensarci ora, se c'è una possibile spiegazione, è che avevo bisogno di rifugiarmi nella mia casa. Come una falena con la luce, vi ero attratto irresistibilmente. Fu una reazione istintiva. Nemmeno una volta giunto a casa feci la cosa giusta. Ricordo solo che ero sfinito e che, invece di telefonare alla polizia, mi infilai a letto e piombai nel sonno. Mi risvegliai che era già mattina. Non appena aprii gli occhi mi assalì la vaga consapevolezza che doveva essere successo qualcosa di terribile. Mi sentivo oppresso, facevo fatica a respirare, come se mi fosse stata risucchiata via l'aria, ma quando inalai tutto tornò di colpo chiaro nella mente. La strada. L'urto. Il corpo di Missy rovesciato nel fosso. Mi coprii il viso con le mani, non volevo crederci. Pregai con fervore che quello fosse solo un brutto sogno. Mi era già capitato di fare sogni così vividi che mi occorreva qualche minuto al risveglio prima di accorgermi dell'errore. Questa volta, però, la realtà non mollava la presa. Anzi, mi venne incontro come un iceberg gigantesco e mi sembrò di naufragare, di affogare nel mio oceano privato. Più tardi quella mattina lessi l'articolo sul giornale. E fu in quel momento che commisi il mio vero delitto. Guardai le foto, lessi il resoconto dell'accaduto. La polizia dichiarava che avrebbe trovato il colpevole, a qualunque costo. E così mi resi conto con raccapriccio che quello che era accaduto- quel terribile incidente- non era considerato tale. Per qualche motivo era ritenuto un crimine. Omissione di soccorso, diceva l'articolo. Un reato. Il telefono sul bancone sembrava invitarmi a chiamare. Io ero scappato... ero un pirata della strada. Ai loro occhi ero colpevole, indipendentemente dalle circostanze. Vi ripeto che quella notte non avevo deciso razionalmente di fuggire. Non avevo la mente abbastanza lucida per farlo. No, il mio crimine non era stato commesso in strada la notte prima. Ma lì in cucina, quando guardai il telefono e non alzai la cornetta. L'articolo mi aveva turbato, però in quel momento riuscivo a pensare con lucidità. Non voglio accampare scuse, non ce ne sono. Soppesai le mie paure con le convinzioni morali e le prime ebbero la meglio. L'idea di finire in prigione per quello che in cuor mio sapevo essere stato un incidente, e non un crimine commesso volontariamente, mi terrorizzava, così cominciai a trovare delle giustificazioni. Mi dissi che avrei telefonato dopo; ma non lo feci. Che avrei aspettato qualche giorno, finché le acque si fossero calmate. Poi decisi di chiamare dopo il funerale. E a quel punto capii che ormai era troppo tardi. Capitolo diciannovesimo A bordo della macchina di servizio pochi minuti dopo il colloquio con Sims, con le sirene spiegate ed i lampeggianti accesi, Miles tagliò bruscamente una curva, rischiando di perdere il controllo dell'auto, poi schiacciò il pedale dell'acceleratore. Aveva trascinato Sims fuori dalla cella e su per le scale, raggiungendo l'uscita senza badare alle occhiate interrogative dei colleghi. Charlie era al telefono e quando Miles era passato come un ciclone davanti al suo ufficio, cereo in volto, aveva riagganciato subito, ma non abbastanza in fretta da riuscire a fermarlo. Si era precipitato fuori e aveva visto che Miles e Sims stavano prendendo direzioni opposte. Aveva gridato all'amico di fermarsi, ma lui era balzato sulla sua macchina. Charlie lo aveva raggiunto mentre stava accendendo il motore ed aveva battuto le dita sul finestrino. "Che succede?" chiese. Miles gli aveva fatto segno di scostarsi e Charlie era rimasto allibito. Invece di abbassare il finestrino, aveva acceso la sirena ed era uscito dal parcheggio sgommando. Qualche minuto dopo l'aveva chiamato alla radio, esigendo di sapere che cosa diavolo stesse combinando, ma non si era degnato di rispondergli. Dal dipartimento di polizia alle roulotte dei Timson in macchina ci voleva circa un quarto d'ora. Miles impiegò otto minuti... era già a metà strada quando Charlie lo contattò per radio. Sulla superstrada aveva corso come un pazzo e quando raggiunse l'uscita aveva l'adrenalina a mille. Stringeva il volante convulsamente, anche se nelle sue condizioni di spirito non se ne rendeva conto. Era in preda ad una rabbia cieca. Otis Timson aveva ferito suo figlio con un mattone. Otis Timson aveva ucciso sua moglie. Otis Timson se l'era quasi cavata. Sulla strada sterrata l'auto sbandò, mentre Miles riprendeva velocità. Gli alberi gli sfrecciavano accanto in una macchia confusa, lui aveva gli occhi fissi davanti a sé. Alla prima curva a destra, alzò il piede dall'acceleratore e cominciò a rallentare. Era quasi arrivato. Erano due anni che aspettava quel momento. Erano due anni che si torturava per il proprio fallimento. Otis. Un attimo dopo, Miles fermò la macchina di scatto al centro della piazzola e aprì la portiera. Scese ed esaminò l'area circostante restando accanto all'auto, alla ricerca di segni di movimento, di qualsiasi segnale. Stringeva la mascella, nello sforzo di calmarsi. Slacciò la fondina e tastò la pistola. Otis Timson aveva ucciso sua moglie. L'aveva investita di proposito. Tutt'intorno regnava un silenzio sinistro, a parte il ticchettio del motore che si raffreddava. Gli alberi erano immobili, i rami perfettamente fermi. Nessun uccellino che cinguettava appollaiato sulla staccionata. Gli unici rumori che Miles udiva erano il fruscio della pistola che usciva dalla fondina e il suo respiro affannoso. Faceva freddo, l'aria era frizzante ed il cielo sereno, una giornata primaverile in inverno. Miles attese. Una porta di rete si aprì di uno spiraglio cigolando sui cardini arrugginiti. "Che cosa vuoi?" gridò una voce. Era aspra, arrochita da anni e anni di sigarette senza filtro. Il vecchio Clyde Timson. Miles si abbassò, avrebbe usato la portiera come scudo, se si fosse scatenata una sparatoria. "Sono venuto per Otis. Fallo uscire". La mano che teneva socchiusa la porta sparì e l'uscio si richiuse. Miles tolse la sicura e appoggiò il dito sul grilletto, con il cuore che gli martellava nelle orecchie. Dopo i secondi più lunghi della sua vita, la porta tornò a socchiudersi, spinta dalla stessa mano. "Di che cosa è accusato?" domandò la voce. "Portamelo qui. SUBITO!" "Perché?" "È in arresto! Adesso fallo uscire! Con le mani alzate!" La porta si richiuse di scatto e Miles si accorse d'un tratto della precarietà della sua posizione. La fretta di agire lo aveva messo in una situazione di pericolo. C'erano quattro roulotte- due davanti e una su ciascun lato della piazzola- e pur non avendo visto nessuno, sapeva che erano tutte occupate. C'erano anche diverse carcasse di macchine, sparse in giro, e si chiese se i Timson non volessero guadagnare tempo per accerchiarlo. Lui sapeva che avrebbe dovuto presentarsi lì con i rinforzi; poteva ancora chiamarli. Ma non lo fece. Era fuori discussione. Dopo un po', la porta si riaprì e Clyde comparve sulla soglia. Reggeva in una mano una tazza di caffè, come niente fosse. Vedendo Miles che gli puntava addosso la pistola indietreggiò di un passo. "Che cosa vuoi, Ryan? Otis non ha fatto niente". "Devo portarlo dentro, Clyde". "Non hai ancora detto con quali accuse". "Verrà accusato formalmente una volta arrivati al dipartimento". "Dove ce l'hai il mandato?" "Non mi occorre un mandato! È in arresto". "Un uomo hai i suoi diritti! Non puoi piombare qui a dare ordini. Anch'io ho i miei diritti! E se non hai un mandato, allora fammi il piacere di andartene! Ne abbiamo abbastanza di te e delle tue continue accuse!" "Non sto scherzando, Clyde. Fallo uscire, altrimenti farò arrivare qui tutti gli sceriffi della contea e anche tu finirai dentro per aver tenuto nascosto un ricercato". Era un bluff, però, per qualche motivo, funzionò. Un attimo dopo Otis spuntò da dietro il padre e gli batté la mano sulla spalla. Miles spostò la pistola su di lui. Come il padre, nemmeno Otis sembrava granché preoccupato. "Spòstati, papà", disse calmo. Alla vista della sua brutta faccia, Miles ebbe la tentazione di premere il grilletto. Ricacciando indietro l'impeto di rabbia cieca, si alzò da dietro la portiera, sempre tenendolo di mira, e si spostò davanti alla macchina. "Vieni qui! Allontanati dalla roulotte!" Otis si spostò davanti al padre, ma rimase lì, incrociando le braccia. "Qual è l'accusa, vicesceriffo?" "Lo sai benissimo! Adesso alza le mani!" "Temo di non saperlo, invece". Nonostante il possibile pericolo- che all'improvviso sembrava non avere più importanza- Miles continuò ad avvicinarsi, con la pistola puntata su Otis. Teneva il dito sul grilletto ed era teso allo spasimo. Fai un movimento... provaci soltanto... "Ti ho detto di scendere!" Otis lanciò un'occhiata al padre, ma quando tornò a girarsi verso Miles, vide l'ira nel suo sguardo e si decise a scendere i gradini senza altri indugi. "D'accordo, d'accordo... arrivo". "Mani in alto! Devo vederle bene". Nel frattempo, altre teste si erano affacciate alle roulotte e seguivano la scena. Sebbene i Timson non fossero quasi mai dalla parte della legge, nessuno pensò di impugnare le armi. Avevano visto anche loro l'espressione di Miles, ed era chiaro che il poliziotto non aspettava altro che una scusa per sparare. "Inginocchio! SUBITO!" Otis ubbidì, ma Miles non abbassò la pistola, continuando a tenergliela puntata contro. Guardandosi intorno per accertarsi che nessuno tentasse di fermarlo, avanzò ancora fino a raggiungerlo. Otis aveva ucciso sua moglie. Mentre si avvicinava, il resto del mondo sembrò svanire. C'erano solo loro, adesso. Leggeva paura e diffidenza nello sguardo di Otis, che però non disse niente. Miles si fermò e i due si guardarono negli occhi, poi riprese a muoversi e gli si mise alle spalle. Appoggiò la pistola alla testa di Otis, come un giustiziere. Sentiva il grilletto freddo sotto il dito. Un lieve scatto e tutto sarebbe finito. Dio, se voleva sparargli, se voleva mettere fine a quella sofferenza. Lo doveva a Missy, lo doveva a Jonah. Jonah... L'immagine del figlio lo fece tornare di colpo alla realtà. No... Rimase incerto ancora per qualche secondo, prima di fare un profondo respiro. Prese le manette dal cinturone e, con gesti esperti, ne chiuse una intorno al polso dell'uomo inginocchiato, rigirandogli il braccio dietro la schiena. Dopo aver rinfoderato la pistola, gli ammanettò anche l'altro polso e costrinse Otis ad alzarsi. "Hai il diritto di non parlare..." cominciò, e Clyde, che era rimasto fermo a osservare la scena, sbottò d'improvviso, inarrestabile come un formicaio che è stato calpestato. "Non è giusto! Chiamerò il mio avvocato! Non hai il diritto di piombare qui e di puntare la pistola in questo modo! Te la faremo pagare..." Stava ancora gridando a pieni polmoni quando Miles aveva finito di informare Otis dei suoi diritti, lo aveva caricato in macchina ed era ripartito verso la superstrada. In macchina, Miles e Otis rimasero in un gelido silenzio. Miles teneva lo sguardo inchiodato sulla strada. Nonostante Otis ora fosse sotto la sua custodia, non voleva nemmeno vedere la sua faccia nello specchietto retrovisore, per paura di perdere di nuovo il controllo. Avrebbe voluto sparargli. E c'era mancato poco. Una mossa falsa, da parte di uno dei suoi parenti, e l'avrebbe fatto, quant'era vero Iddio. E avresti sbagliato. Come hai sbagliato nell'affrontare tutta la situazione. Quante volte aveva infranto il regolamento quel giorno? Aveva lasciato libero Sims di sua iniziativa, non si era procurato un mandato, non aveva informato il capo, non aveva chiesto rinforzi, aveva estratto subito la pistola, l'aveva puntata alla testa di Otis... Gliel'avrebbero fatta pagare cara, e non soltanto Charlie. Anche il procuratore Harvey Wellman. La riga gialla tratteggiata sull'asfalto gli passava accanto a intervalli regolari per scomparire dietro di lui. Non me ne frega niente. Otis finirà in prigione. Marcirà in galera, dopo avermi fatto impazzire per due anni. "Allora, qual è il motivo dell'arresto, stavolta?" chiese Otis in tono distaccato. "Chiudi la bocca", rispose lui. "Ho il diritto di sapere di che cosa mi si accusa". Miles non rispose, trattenendo la rabbia che montava al sentire quella voce. Otis proseguì, tranquillo: "Ora ti rivelo un piccolo segreto. Sapevo che non avresti sparato. Non potevi farlo". Miles si morse un labbro, avvampando in viso. Resta calmo. Resta calmo... Otis, però, non voleva cedere. "Dimmi, ti vedi ancora con quella ragazza del Tavern? Te lo chiedo perché..." Miles frenò bruscamente, facendo stridere le gomme e lasciando due segni neri sull'asfalto. Otis non aveva la cintura e finì a sbattere contro la rete di protezione. Poi Miles partì di nuovo a tutto gas e Otis, come uno yoyo, venne catapultato all'indietro contro il sedile. Per il resto del viaggio non disse più una parola. Capitolo ventesimo "Allora, vuoi dirmi che diavolo succede?" domandò Charlie. Miles si era presentato al commissariato con Otis e lo aveva sbattuto in una cella, lasciandolo lì a protestare che voleva vedere il suo avvocato. Poi era salito dal capo, era entrato nel suo ufficio e aveva chiuso la porta, mentre gli altri agenti lanciavano occhiate curiose al di là della vetrata. "Mi sembra abbastanza ovvio, no?" "Non è né il tempo né il luogo per scherzare, Miles. Mi servono delle risposte, e subito, a cominciare da Sims. Voglio vedere il rapporto, voglio sapere perché lo hai lasciato libero e che cosa cavolo significava quella questione di vita o di morte. E voglio sapere anche perché te ne sei andato da qui come una furia e per quale motivo Otis è rinchiuso di sotto". Charlie incrociò le braccia e si appoggiò alla scrivania. Nei quindici minuti successivi, Miles gli raccontò tutto. Charlie lo ascoltava a bocca aperta e alla fine cominciò a camminare su e giù per l'ufficio. "E quando sarebbe successo?" "Un paio d'anni fa. Sims non ricorda bene". "Ma tu gli hai creduto?" Miles annuì. "Sì. Dev'essere la verità, oppure Sims è l'attore più bravo del mondo". Adesso che il tasso di adrenalina nel sangue si stava abbassando, si sentiva sfinito. "Così l'hai lasciato libero". Un'affermazione e non una domanda. "Per forza". Lo sceriffo scrollò la testa, chiudendo gli occhi per un istante. "Non spettava a te decidere. Avresti dovuto parlarne con me, prima". "Avresti dovuto vederlo, Charlie. Non avrebbe detto niente se io fossi venuto di sopra a consultare te ed Harvey per fare un patto. Ho agito come ritenevo più giusto. Forse penserai che ho sbagliato, ma alla fine ho ottenuto la risposta che cercavo". Charlie guardò fuori dalla finestra, assorto. Quella faccenda non gli piaceva. Neanche un po'. E non solo perché Miles aveva ignorato i regolamenti... "Certo, hai ottenuto una risposta", disse alla fine. "E questo che cosa significa?" "Che non mi pare corretto, tutto qui. Lui sa che tornerà in prigione, a meno che non riesca a strappare un accordo, e all'improvviso si ricorda di avere delle informazioni sul caso di Missy?" Si voltò a guardare Miles. "E dov'era in questi due anni? Era stata offerta una ricompensa e sai bene come si guadagna da vivere Sims. Perché non è venuto a dircelo prima?" Miles non ci aveva pensato. "Non so. Forse aveva paura". Charlie abbassò lo sguardo a terra. Oppure mente adesso. Miles sembrò leggergli nel pensiero. "Senti, andremo a parlare con Earl Getlin. Se lui conferma la storia, possiamo proporgli un accordo per farlo testimoniare". Lo sceriffo non disse niente. Cristo, che casino. "Charlie, Otis ha ammazzato mia moglie..." "Sims dice che Otis ha detto di aver investito tua moglie. C'è una bella differenza, Miles". "Tu conosci la storia tra me ed Otis". Charlie si voltò, alzando le braccia esasperato. "Certo che la conosco, nei minimi particolari. Ed è per questo che abbiamo controllato subito il suo alibi, o non te lo ricordi più? Diversi testimoni hanno dichiarato che lui era a casa la sera dell'incidente". "Erano i suoi fratelli..." Charlie scrollò il capo, contrariato. "Tu sai quante ricerche abbiamo fatto. Noi della polizia non siamo un branco di perditempo incompetenti e non lo sono neanche gli agenti della stradale. Abbiamo parlato con le persone giuste, abbiamo mandato tutti i reperti ai laboratori della scientifica. Ma non c'era niente che collegasse Otis all'incidente... assolutamente niente". "Non puoi esserne sicuro". "Ne sono molto più sicuro di quanto sia disposto a credere alle affermazioni di Sims", rispose Charlie. Poi fece un profondo respiro. "So che questa faccenda irrisolta ti rode dall'inizio e sai una cosa? Ti capisco. Se fosse successo a me, avrei agito esattamente come hai fatto tu. Ma..." Si fermò per accertarsi che Miles lo stesse ascoltando. "Non avrei creduto alla prima storia che mi raccontavano e che prometteva una risposta, specie se veniva da uno come Sims Addison. Hai presente chi è? Quel tipo venderebbe la madre se pensasse di guadagnarci qualcosa". "La moralità di Sims non c'entra". "Invece sì. Non voleva tornare in prigione e quindi ha agito di conseguenza. Non ti sembra una spiegazione plausibile?" "Non mi avrebbe mai mentito a questo proposito". Charlie lo guardò dritto negli occhi. "E perché? Hai mai pensato che lui sapeva esattamente che cosa doveva dirti per fare in modo che tu lo lasciassi libero? Non è stupido, anche se alcolizzato. Avrebbe detto qualunque cosa, pur di cavarsi dai guai, ed è proprio quello che ha fatto". "Tu non c'eri quando me l'ha raccontato. Non l'hai visto in faccia". "No? A essere sincero, non era necessario, posso immaginarmi esattamente com'è andata. Ma ammettiamo che tu abbia ragione, che Sims abbia detto la verità... senza considerare il fatto che hai sbagliato a lasciarlo libero senza prima consultare me o il procuratore. E allora? Lui ha detto di aver ascoltato i discorsi di altre persone. Che non è stato un testimone diretto". "È sufficiente per..." "Ma andiamo, Miles. Conosci le regole. In tribunale non vale il sentito dire". "Earl Getlin può testimoniare". "Earl Getlin? E chi gli crederebbe? Un'occhiata ai suoi tatuaggi e alla sua fedina penale, e metà della giuria è persa. Se poi tira in ballo l'accordo, come farà di sicuro, anche l'altra metà dei giurati è andata". Fece una pausa. "E poi dimentichi una cosa importante, Miles". "Che cosa?" "E se Earl non confermasse?" "Lo farà". "Ma se non lo facesse?" "Allora dovremo costringere Otis a confessare". "E pensi di riuscirci?" "Ti dico che confesserà". "Certo, se gli farai pressione abbastanza da..." Miles si alzò, deciso a non ascoltare oltre. "Senti, Charlie... Otis ha ucciso Missy, questa è la pura e semplice verità. Potrai anche non crederci, ma forse durante le indagini avete tralasciato qualcosa e che io sia dannato se me lo lascerò sfuggire adesso". Si avviò alla porta. "Ho un detenuto da interrogare..." Con una mossa fulminea, Charlie richiuse la porta. "Non credo proprio, Miles. In questo momento penso sia meglio che tu ne resti fuori per un po’ . "Restarne fuori?" "Sì. Stanne fuori. È un ordine. Da questo momento prendo in mano io la situazione". "Charlie, stiamo parlando di Missy". "No. Parliamo di un vicesceriffo che ha oltrepassato i limiti della legalità e che non avrebbe dovuto essere coinvolto fin da principio". Rimasero lì in piedi a fissarsi negli occhi per un po'. "Senti, Miles, so quello che stai passando. Parlerò con Otis, troverò Sims e parlerò anche con lui. E poi farò una visita a Earl. Per quanto riguarda te, invece, faresti meglio ad andare a casa. Prenditi la giornata libera". "Ma ho appena cominciato il turno..." "E l'hai già finito". Charlie afferrò la maniglia della porta. "Adesso su, a casa. Lascia che ci pensi io, d'accordo?" Quella storia non gli andava giù. Erano passati venti minuti, ma Charlie non era ancora convinto. Era sceriffo da quasi trent'anni ormai e aveva imparato a fidarsi dell'istinto. E adesso il suo istinto lampeggiava come una luce stroboscopica, avvisandolo di muoversi con cautela. In quel momento non sapeva neppure da che parte cominciare. Da Otis Timson, probabilmente, dato che era rinchiuso di sotto, ma prima voleva parlare con Sims. Miles era convinto che avesse detto la pura e semplice verità, ma per lui non era così semplice. Quando si trattava di Missy, il suo amico perdeva il lume della ragione. Charlie aveva assistito in prima persona alla lotta affrontata da Miles dopo la morte della moglie. Dio, se erano stati innamorati! Sembravano due ragazzini: baci, abbracci, sguardi complici... sembrava che nessuno si fosse preoccupato di informarli che il matrimonio non era sempre rose e fiori. Non era cambiato nulla nemmeno dopo la nascita di Jonah, per la miseria. Brenda diceva che avrebbero continuato così anche all'ospizio, di lì a cinquant'anni. E quando Missy era morta? Se non fosse stato per Jonah, è probabile che Miles l'avrebbe seguita nella tomba. Comunque aveva cominciato a bere troppo, fumare troppo, dormire troppo poco. Per molto tempo era stato ossessionato da quel delitto. Il delitto, non l'incidente. Nella mente di Miles era sempre stato tale. Charlie tamburellò con la matita sulla scrivania. E rieccoci. Lui sapeva tutto delle indagini svolte da Miles e, contro ogni buon senso, aveva fatto finta di niente. Il procuratore Harvey Wellman era andato su tutte le furie quando ne era venuto a conoscenza, ma tanto sapevano entrambi che non c'era modo di fermarlo. Se avessero tentato di impedirglielo, Miles avrebbe consegnato il distintivo e avrebbe continuato a indagare. Almeno lui era riuscito a tenerlo lontano da Otis Timson. Per fortuna. C'era qualcosa tra quei due che andava al di là della normale tensione tra buoni e cattivi. Certo, tutte le provocazioni lanciate dai TimsonCharlie non aveva bisogno di prove per sapere chi era stato- contribuivano in larga misura ad aumentare l'attrito. Ma la tendenza di Miles ad arrestare i Timson alla prima occasione creava una miscela davvero esplosiva. Possibile che Otis Timson avesse davvero investito Missy? Charlie ci pensò su. Possibile... anche se Otis, pur avendo preso parte a qualche rissa, non aveva mai oltrepassato il limite. Finora. Almeno per quanto ne sapevano loro. E poi avevano già verificato più volte il suo alibi. Si erano lasciati sfuggire qualcosa? Charlie prese un blocco e, com'era sua abitudine, cominciò a buttare giù qualche appunto per mettere ordine nei pensieri. Sims Addison - Sta mentendo? In passato quell'uomo aveva fornito informazioni attendibili. Sempre. Ma stavolta era diverso. Adesso non lo faceva per soldi, la posta era molto più alta. Voleva salvare la pelle. Questo fatto lo rendeva più o meno incline a dire la verità? Doveva assolutamente parlargli. Oggi stesso, se possibile. Al massimo domani. Annotò un altro nome sul foglio. Earl Getlin - Che cosa potrebbe dire? Se non confermava la versione di Sims, la storia finiva lì. Bisognava rilasciare Otis e passare un anno a convincere Miles che lui era innocente... perlomeno in questo caso. E se invece Earl confermava? Con la sua fedina penale, non era esattamente il testimone più attendibile del mondo. E di sicuro avrebbe voluto qualcosa in cambio, una procedura che non era mai ben vista dalla giuria. In ogni caso, doveva parlargli quanto prima. Charlie spostò Earl in cima alla lista e scrisse un terzo nome. Otis Timson - Colpevole o innocente? Se era stato lui a investire Missy, la storia di Sims quadrava... ma poi? Bisognava tenerlo dentro, o lasciarlo andare, mentre venivano riaperte le indagini per trovare ulteriori prove? Il procuratore non avrebbe visto di buon occhio un caso basato soltanto sulle testimonianze di Sims Addison ed Earl Getlin. Ma dopo due anni che cosa potevano sperare di trovare? Doveva comunque provarci, non c'erano dubbi. Per quanto fosse convinto che non sarebbero arrivati a nulla, doveva ricominciare a investigare. Per Miles. Per se stesso. Charlie rilesse gli appunti e poi proseguì. Bene, supponendo che Sims avesse detto la verità e che Earl lo confermasse - un'ipotesi azzardata ma da non escludere -, perché mai Otis avrebbe dovuto pronunciare quella frase? La risposta più ovvia era che era stato lui a commettere il delitto. Se era così, bisognava tornare ai problemi relativi alla riapertura del caso. Ma... La mente di Charlie si sforzò di esprimere l'idea in forma di domanda. Ma se Sims avesse detto la verità e fosse stato invece Otis a mentire quella sera? Era plausibile? Charlie chiuse gli occhi per pensare meglio. Ma perché avrebbe dovuto farlo? Per mantenere alta la sua cattiva reputazione? Guarda quello che ho fatto, eppure sono riuscito a cavarmela. Per spaventare Earl e convincerlo a dargli i soldi? Succederà anche a te questa cosa terribile, a meno che... Oppure intendeva soltanto dire che aveva organizzato l'incidente, senza sporcarsi le mani di persona? I suoi pensieri vorticavano spostandosi da un estremo all'altro mentre valutava le varie ipotesi. Ma come diavolo avrebbe potuto sapere che Missy sarebbe uscita a correre proprio quella sera? Mah, era tutto un gran casino. Visto che non arrivava a capo di nulla, Charlie posò la penna e si massaggiò le tempie, sapendo che non doveva pensare solo a quei tre. C'era anche Miles, il suo amico. Il suo vice. Che fare con lui? Aveva fatto un patto con Sims senza consultare i superiori. Lo aveva semplicemente lasciato andare. E poi si era comportato come se vivesse nel selvaggio West e aveva portato dentro Otis senza nemmeno preoccuparsi di parlare prima con Earl Getlin per avere una conferma. Harvey non era un uomo cattivo, ma questa volta il procuratore si sarebbe incazzato. E non soltanto con Miles. Charlie sospirò. "Ehi, Madge?" chiamò. La segretaria infilò la testa nell'ufficio. Grassoccia e con la chioma grigia, lavorava lì da molto tempo ed era al corrente di tutto quello che accadeva al dipartimento. Charlie si chiese che cosa avesse sentito del colloquio con Miles. "Chi è il direttore ad Hailey? Sempre Joe Hendricks?" "Credo che adesso sia Tom Vernon". "È vero", disse lui, ricordandosi di averlo letto da qualche parte. "Puoi cercarmi il suo numero?" "Certo. Ce l'ho nella mia rubrica". Tornò dopo meno di un minuto con un foglietto. Charlie lo prese e lei rimase lì in piedi un istante, preoccupata per l'espressione che leggeva sul viso del capo. Poi, vedendo che lui non aveva altro da dirle, se ne andò. Impiegò quasi dieci minuti per mettersi in comunicazione con Tom Vernon. "Earl Getlin? Sì, è ancora qui", gli disse infine Vernon. Charlie stava scarabocchiando un foglio. "Ho bisogno di parlargli". "Una questione ufficiale?" "Diciamo di sì". "Da parte mia non ci sono problemi. Quando ha intenzione di venire?" "Sarebbe possibile oggi pomeriggio?" "Quanta fretta. Dev'essere una faccenda seria". "Infatti". "Va bene. Avvertirò del suo arrivo. A che ora pensa di essere qui?" Charlie guardò l'orologio. Erano passate da poco le undici. Saltando il pranzo ce l'avrebbe fatta in meno di tre ore. "Intorno alle due". "Bene. Immagino che le servirà un posto per parlare in tranquillità". "Se fosse possibile". "Nessun problema. A dopo". Charlie riattaccò e prese la giacca, preparandosi a uscire. In quel momento Madge entrò nell'ufficio. "Devi andare fin là?" "Per forza", rispose lui. "Senti, mentre eri al telefono ha chiamato Thurman Jones. Ha bisogno di parlarti". L'avvocato di Otis Timson. Charlie scrollò il capo. "Se richiama, digli che tornerò per le sei e che mi troverà allora". Madge dondolò da un piede all'altro. "Ha detto che era importante. Che non può aspettare". Gli avvocati. Quando volevano parlare, era sempre importante. Quando lui li cercava, era tutta un'altra storia. "Ti ha detto di che cosa si trattava?" "No. Però sembrava arrabbiato". Naturale che lo fosse. Il suo cliente era dietro le sbarre senza un'imputazione. Non aveva importanza... per il momento aveva il diritto di trattenerlo. Ma il tempo passava. "Non posso occuparmene ora. Digli di chiamare più tardi". Madge annuì, serrando le labbra. Sembrava volesse aggiungere qualcosa. "C'è altro?" "Poco dopo ha chiamato Harvey. Anche lui ti cercava e ha detto che è urgente". Charlie si infilò la giacca, pensieroso. Naturale. In una giornata così, che altro poteva capitarmi? "Se richiama, dagli lo stesso messaggio". "Ma..." "Fallo e basta, Madge. Non ho tempo per discutere". E dopo un attimo: "Fai venire qui Harris. Devo affidargli un incarico". L'espressione di Madge tradiva chiaramente la sua contrarietà, ma fece come gli aveva detto. Poco dopo l'agente Harris Young entrò in ufficio. "Devi trovare Sims Addison. E sorvegliarlo". Harris lo guardò con aria perplessa, come se avesse dei dubbi sull'incarico ricevuto. "Vuole che lo porti dentro?" "No", rispose Charlie. "Trovalo e basta. E diventa la sua babysitter. Ma senza farti scoprire". "Per quanto tempo?" "Tornerò verso le sei... almeno fino a quell'ora". "Ma è quasi tutto il mio turno". "Lo so". "Che succede se ricevo una chiamata e devo lasciarlo?" "Non lo farai. Oggi devi occuparti di Sims. Farò venire qui un altro agente per sostituirti". "Per tutta la giornata, allora?" Charlie gli strizzò l'occhio, sapendo che Harris si sarebbe annoiato a morte. "Esatto, agente. Non è eccitante lavorare nella polizia?" Dopo aver lasciato il dipartimento Miles non tornò a casa. Se ne andò in macchina in giro per la città, svoltando a caso per le vie urbane, senza una meta. Ma ben presto l'istinto lo guidò nei pressi dell'ingresso monumentale del cimitero di Cedar Grove. Parcheggiò, entrò e poi si incamminò in un vialetto, verso la tomba di Missy. Appoggiato alla piccola lapide di marmo c'era un mazzo di fiori, secchi e avvizziti come se risalissero a qualche settimana prima. C'erano sempre dei fiori sulla sua tomba, tutte le volte che ci andava. Erano senza biglietto, ma Miles sapeva che non c'era bisogno di un messaggio. Missy era amata anche da morta. Capitolo ventunesimo Due settimane dopo il funerale di Missy, una mattina, mentre ero a letto, udii un cinguettio fuori della finestra. L'avevo lasciata aperta la sera prima, nella speranza di avere un po’ di refrigerio dall'afa. Dal giorno dell'incidente avevo il sonno agitato; più di una volta mi ero svegliato tutto sudato, con le lenzuola umide ed il guanciale fradicio. Anche quella mattina, mentre ascoltavo il canto dell'uccello, ero circondato dall'odore acre del sudore. Cercai di ignorarlo, di ignorare il fatto che quell'uccellino fosse sull'albero, il fatto che io fossi ancora vivo e Missy Ryan no. Ma non mi riuscì. Era proprio fuori della mia finestra, su un ramo che si protendeva verso la mia camera, il suo canto era acuto e penetrante. So chi sei, sembrava dire, e so quello che hai fatto. Mi chiedevo quando la polizia sarebbe venuta a prendermi. Non importava che si fosse trattato di un incidente; l'uccellino sapeva che sarebbero venuti e mi avvertiva del loro imminente arrivo. Avrebbero scoperto quale auto era passata quella sera; avrebbero scoperto a chi apparteneva. Avrebbero bussato alla porta e sarebbero entrati; avrebbero sentito l'uccellino e capito che ero colpevole. Era assurdo, lo so, ma nella mia condizione semiallucinata ci credevo. Sapevo che sarebbero venuti. Conservavo, tra le pagine di un libro chiuso nel cassetto del comodino, il necrologio ritagliato dal giornale. Avevo anche messo via gli articoli sull'incidente, che avevo ripiegato con cura e infilato nello stesso libro. Ero stato incauto a farlo. Chiunque avesse aperto il libro li avrebbe trovati e avrebbe capito quello che avevo fatto, ma li tenevo lì lo stesso, perché ne avevo bisogno. Ero attratto da quelle parole, non alla ricerca di consolazione, ma per capire meglio che cosa avevo portato via. C'era vita nelle parole che erano state scritte, c'era vita nelle fotografie. Nella mia camera, quel mattino con l'uccellino fuori della finestra, c'era soltanto morte. Avevo avuto incubi dal giorno del funerale. Una volta sognai di essere smascherato dal prete. A metà della cerimonia il pastore si era zittito, aveva guardato verso i banchi e poi aveva puntato il dito lentamente verso di me. "Ecco", aveva detto, "quell'uomo è il colpevole". Vedevo le facce che si voltavano nella mia direzione, una dopo l'altra, come quando si forma l'onda in uno stadio affollato, e mi fissavano con sguardi carichi di stupore e di rabbia. Tuttavia né Miles né Jonah si mossero. Nella chiesa regnava il silenzio e tutti gli occhi erano sgranati; io restavo seduto immobile, aspettando di vedere se alla fine Miles e Jonah si sarebbero girati a guardare chi l'aveva uccisa. Ma non lo fecero. In un altro incubo sognavo che Missy era ancora viva nel fosso quando l'avevo trovata, che respirava a fatica e gemeva, ma io mi ero allontanato, lasciandola lì a morire. Mi svegliavo ogni volta con il fiato corto, balzavo giù dal letto e camminavo per la stanza, parlando tra me, fino a convincermi che si era trattato solo di un brutto sogno. Missy era morta per trauma cranico. L'avevo letto sul giornale. Emorragia cerebrale. Come ho detto, non andavo forte, ma l'articolo spiegava che nella caduta lei aveva battuto la testa contro una roccia sporgente. Era stata una disgrazia, un caso su un milione. Non sapevo se crederci o no. Mi chiedevo se Miles potesse identificarmi a vista, se, in un lampo d'ispirazione divina, potesse indovinare che ero io il colpevole. Mi chiedevo che cosa gli avrei detto, se mi avesse affrontato. Gli sarebbe importato sapere che mi piace guardare le partite di baseball, oppure che il mio colore preferito è l'azzurro o ancora che a sette anni uscivo di nascosto la notte a guardare le stelle? Gli sarebbe interessato sapere che fino al momento in cui avevo investito Missy con l'auto, ero stato sicuro che sarei diventato qualcuno nella vita? No, non avrebbe badato a queste sottigliezze. Quello che gli stava a cuore erano le cose più ovvie: sapere che l'omicida ha i capelli castani, gli occhi verdi ed è alto uno e ottanta. Voleva sapere dove trovarmi. E voleva sapere com'era successo. Chissà però se avrebbe accettato di sentirsi dire che era stato un incidente. Che addirittura era stata più colpa sua che mia. Che se quella sera Missy non avesse deciso di mettersi a correre su una strada pericolosa, molto probabilmente sarebbe tornata a casa sana e salva. Che mi era letteralmente saltata davanti alla macchina. Mi accorsi che fuori l'uccellino aveva smesso di cantare. Gli alberi erano immobili e da lontano mi arrivava il fruscio di una macchina che passava. Stava tornando il caldo. Sapevo che da qualche parte Miles Ryan era sveglio, lo immaginavo seduto nella sua cucina. Immaginai Jonah accanto a lui, che mangiava una tazza di cereali. Cercai di immaginare il loro dialogo. Ma l'unica cosa che riuscivo a sentire era il loro respiro regolare, rotto dal tintinnio del cucchiaio contro la tazza. Mi portai le mani alle tempie, cercando di scacciare il dolore. Era come una pulsazione che veniva da dentro e mi trafiggeva spietata ad ogni battito del cuore. Con gli occhi della mente rividi Missy sulla strada, gli occhi aperti, che mi fissava. Che fissava il nulla. Capitolo ventiduesimo Charlie riuscì ad arrivare alla prigione di Hailey un po’ prima delle due, con lo stomaco che brontolava, gli occhi stanchi, le gambe intorpidite per le tre ore passate dietro il volante. Stava diventando troppo vecchio per viaggiare a lungo senza interruzioni. Sarebbe dovuto andare in pensione l'anno prima, quando gliel'aveva detto Brenda, così avrebbe potuto passare il tempo a fare qualcosa di produttivo. Come pescare. Tom Vernon lo accolse al cancello. Con indosso l'abito scuro, somigliava più a un funzionario di banca che al direttore di una delle prigioni più toste dello stato. Aveva i capelli brizzolati, pettinati con la riga di lato. Stava dritto come un fuso e quando allungò la mano, Charlie non poté fare a meno di notare le unghie perfettamente curate. Vernon gli fece strada all'interno. Come tutte le prigioni anche quella era grigia, fredda... cemento e acciaio ovunque, il tutto inondato di luce fluorescente. Percorsero un lungo corridoio, superarono una piccola zona di ricevimento e raggiunsero l'ufficio del direttore. A prima vista, appariva grigio e freddo come il resto del carcere. L'arredamento era tipicamente statale, dalla scrivania alle luci, allo schedario in un angolo. Una finestrella sbarrata si affacciava sul cortile. Charlie vide i detenuti che passavano il tempo fuori; alcuni alzavano pesi, altri sedevano in cerchio od a gruppetti. Quasi tutti avevano la sigaretta in mano. Ma perché mai Vernon portava giacca e cravatta in un luogo simile? "Deve compilare una scheda", spiegò lui. "Sa com'è la procedura". "Ma certo". Charlie si tastò il petto, alla ricerca di una penna. Vernon gli porse subito la sua. "Ha informato Earl Getlin del mio arrivo?" "No. Pensavo che lei preferisse così". "È pronto?" "Una volta che lei sarà nella stanza, lo manderemo a prendere". "Grazie". "Volevo parlarle un secondo del detenuto. In modo che non rimanga sorpreso". "Ah". "Dovrebbe sapere una cosa". "E cioè?" "La primavera scorsa Earl è rimasto coinvolto in una zuffa. Non sono mai riuscito a stabilire fino in fondo come sia successo. Sa come vanno le cose qui. Nessuno vede niente, nessuno sa niente. Comunque..." Charlie alzò lo sguardo quando Vernon sospirò. "Earl Getlin ha perso un occhio. È successo giù in cortile. Da allora ha presentato cinque o sei ricorsi, dichiarando che in qualche modo è stata colpa nostra". Il direttore fece una pausa. Perché mi dice queste cose? si chiese Charlie. "Il fatto è che lui continua a sostenere che non dovrebbe trovarsi in carcere, che lo hanno incastrato". Vernon alzò le braccia. "Lo so, lo so... qui dentro tutti affermano di essere innocenti. È un vecchio ritornello e l'abbiamo sentito un milione di volte. Ma il punto è che, se lei è venuto per ottenere delle informazioni, io non ci spererei troppo, a meno che Getlin non sia indotto a pensare che possiate tirarlo fuori da qui. E anche in quel caso, potrebbe mentire". Charlie guardò Vernon con occhi diversi. Nonostante gli abiti curati, quell'uomo sembrava avere le idee piuttosto chiare su come funzionava la sua prigione. Il direttore gli porse il questionario e Charlie lo esaminò un istante. Lo stesso di sempre. "Qualche idea su chi secondo lui lo avrebbe incastrato?" chiese. "Aspetti", disse Vernon, alzando un dito, "glielo dico subito". Sollevò la cornetta, compose un numero e aspettò che rispondessero. Fece la domanda, ascoltò, poi ringraziò. "Da quanto ne sappiamo, dice che si è trattato di un certo Otis Timson". Charlie non sapeva se ridere o piangere. Era ovvio che Earl accusasse Otis. Questo rendeva parte del lavoro molto più semplice. Ma l'altra diventava di colpo assai più difficile. Anche se non avesse perso l'occhio, la prigione non era stata clemente con Earl Getlin. Il detenuto aveva i capelli più lunghi in certi punti e più corti in altri, come se se li tagliasse da solo con delle forbici arrugginite, e il colorito grigiastro. Era sempre stato piuttosto magro, ma adesso aveva perso diversi chili e Charlie gli vedeva le ossa sotto la pelle delle mani. Ma soprattutto notò la benda. Una benda nera, da pirata, come il cattivo nei vecchi film di guerra. Earl era incatenato nella maniera classica, con i polsi ammanettati e collegati agli anelli alle caviglie. Entrò nella stanza trascinando i piedi, si fermò un istante alla vista di Charlie, poi si mise a sedere davanti a lui, dall'altra parte del tavolo. La guardia che lo accompagnava uscì dalla stanza. Earl fissò lo sceriffo con l'occhio buono. Sembrava che lo facesse apposta, sapendo che la maggior parte delle persone sarebbe stata indotta a distogliere lo sguardo. Charlie finse di non notare la benda. "Che ci fa qui?" ringhiò Earl. Sebbene infiacchito nel corpo, la sua voce non aveva perso l'asprezza di un tempo. Era ferito, ma non aveva intenzione di mollare. Era un duro. "Sono venuto per parlare con te", disse Charlie. "Di che cosa?" "Otis Timson". Quel nome lo fece irrigidire. "Che cosa vuole sapere?" chiese diffidente. "Ho bisogno di sapere di una conversazione avvenuta tra di voi un paio di anni fa. Lo aspettavi al Rebel e lui arrivò con i suoi fratelli. Te lo ricordi?" Non era quello che Earl si aspettava. Impiegò qualche secondo a registrare le parole. "Mi rinfreschi la memoria", disse. "È passato molto tempo". "Riguardava Missy Ryan. Questo ti è d'aiuto?" Earl sollevò leggermente il mento, guardandosi il naso. Poi girò gli occhi da una parte all'altra. "Dipende". "Da cosa?" chiese Charlie in tono innocente. "Da che cosa c'è per me". "Che cosa vuoi?" "Avanti, sceriffo... non faccia il finto tonto. Sa quello che voglio". Non ci fu bisogno di specificarlo. "Non posso prometterti niente finché non avrò ascoltato quello che avrai da dirmi". Earl si appoggiò allo schienale della sedia, giocando d'astuzia. "Allora mi sa che siamo in un vicolo cieco, no?" Charlie lo guardò. "Forse", disse. "Ma scommetto che alla fine me lo dirai". "Che cosa glielo fa credere?" "Perché è stato Otis a incastrarti, giusto? Raccontami che cosa è successo quella sera, poi io ascolterò la tua versione dei fatti. E quando torno in città, ti prometto che verificherò la tua storia. Se è stato Otis a incastrarti, lo scopriremo. E chissà che voi due non finiate per scambiarvi di posto". Era quello che Earl voleva sentire per decidersi a parlare. "Gli dovevo dei soldi", cominciò. "Ma ero un po’ al verde". "Quanto al verde?" Earl tirò su con il naso. "Qualche migliaio". Charlie capì che era una faccenda illegale, quasi sicuramente c'era di mezzo la droga, ma annuì senza dire niente, come se ne fosse già al corrente e la cosa non lo interessasse. "Poi arrivano i Timson. Tutti quanti. E cominciano a dirmi che devo pagare, altrimenti li metto in cattiva luce, e che non possono continuare a coprirmi. Io ripeto che sono disposto a dare loro i soldi non appena ce li ho. Intanto, durante questo scambio, Otis resta in silenzio, come se volesse ascoltare davvero quello che avevo da dire. Aveva quella sua espressione fredda, ma era l'unico che sembrava avere interesse per quello che dicevo. Io allora comincio a spiegargli la situazione, lui annuisce e gli altri si danno una calmata. Quando ho finito, aspetto che risponda, ma lui resta zitto a lungo. Poi si china in avanti e dice che, se non pago, mi capiterà la stessa cosa che è accaduta a Missy Ryan. Solo che in questo caso torneranno indietro per passarmi sopra con la macchina un'altra volta". Bingo. Dunque Sims diceva la verità, pensò Charlie. Interessante. Ma conservò un'espressione neutra. Sapeva comunque che quella era la parte più facile. Farlo parlare non era stata la sua massima preoccupazione. Il bello doveva ancora venire. "E quando successe?" Earl rifletté prima di rispondere. "In gennaio, credo. Faceva freddo". "Allora, siete seduti uno di fronte all'altro e lui ti dice così. Tu a quel punto come reagisci?" "Non sapevo che cosa pensare. E non ho detto niente". "Gli credevi?" "Certo". Grande cenno del capo, come per sottolineare la risposta. Troppo grande? Charlie si esaminò attentamente le unghie della mano. "Perché?" Earl si chinò in avanti e la catena strisciò contro il tavolo. "Perché l'avrebbe detto, altrimenti? E poi, sa che tipo è. Non avrebbe troppi scrupoli a fare una cosa del genere". Forse sì. Forse no. "Ma tu, che ne pensi?" "Lo sceriffo è lei..." "Quello che penso io non è rilevante. Mi interessa quello che pensi tu". "Gliel'ho già detto". "Gli hai creduto". "Sì", confermò lui. "E davvero hai creduto che avrebbe fatto lo stesso con te?" "L'aveva detto, no?" "Avevi paura, allora, giusto?" "Sì", sbottò lui. Sta diventando impaziente? "Quando ti hanno arrestato? Per il furto d'auto, voglio dire?" Quel cambio di direzione colse Earl impreparato. "Alla fine di giugno". Charlie annuì, come se avesse già controllato. "Che cosa ti piace bere? Quando non sei in prigione". "Che gliene importa?" "Birra, vino, liquore? La mia è semplice curiosità". "Birra, di solito". "Quella sera avevi bevuto?" "Un paio di birre. Non abbastanza, però, per essere ubriaco". "Prima di arrivare lì? Forse eri un po’ alticcio?". Earl scrollò il capo. "No, le ho bevute lì". "Per quanto tempo sei rimasto al tavolo con i Timson?" "Che vuole dire?" "È una domanda facile facile. Cinque minuti? Mezz'ora?" "Non ricordo". "Ma abbastanza per bere un paio di birre?" "Sì". "Anche se avevi paura". Alla fine Earl capì dove voleva arrivare. Charlie aspettò, con un'espressione mite. "Sì", ripeté lui. "Non sono il genere di persona a cui puoi voltare tranquillamente le spalle". "Ah", fece Charlie, come se la spiegazione lo avesse convinto. Poi si portò le dita al mento. "Va bene... fammi vedere se ho capito bene. Otis ti disse, anzi, ti fece intendere che avevano ucciso Missy e tu hai pensato che avrebbero fatto lo stesso con te se non saldavi il debito. Fin qui è corretto?" Earl annuì, diffidente. Lo sceriffo gli ricordava quel dannato procuratore che l'aveva messo dentro. "E tu sapevi a che cosa si riferivano, vero? Voglio dire, parlando di Missy. Sapevi com'era morta, giusto?" "Lo sapevano tutti". "L'avevi letto sui giornali?" "Sì". Charlie aprì le mani. "E allora perché non ne hai parlato con la polizia?" "Come no!" esclamò lui con una smorfia. "Figuriamoci se voi mi avreste creduto". "Però dovremmo farlo adesso". "Lui ha detto così. Io ero lì. Otis ha detto di aver ucciso Missy". "Saresti pronto a testimoniare?" "Dipende da che cosa ne ricavo". Charlie si schiarì la gola. "D'accordo, cambiamo argomento. Sei stato preso per furto d'auto, giusto?" Earl annuì. "E a quanto dici, la colpa del tuo arresto è di Otis". "Infatti. Avevamo appuntamento al vecchio mulino Falls, ma non si sono fatti vedere. E io così sono finito in trappola". Charlie annuì. Ricordava quei particolari dal processo. "Sei ancora in debito con lui?" "Sì". "Di quanto?" Earl si agitò sulla sedia. "Un paio di testoni". "Non era quello che gli dovevi già prima?" "All'incirca". "Temevi ancora che potessero ucciderti? Anche dopo sei mesi?" "Era quello che pensavo". "E non saresti qui se non fosse per loro, giusto?" "Gliel'ho già detto". Charlie si chinò in avanti. "Ma allora perché", chiese, "non hai usato le informazioni che avevi per alleggerire la condanna? O per fregare Otis? E perché, visto che qui dentro continui a protestare di essere stato incastrato da Otis, non hai mai detto che era stato lui a uccidere Missy Ryan?" Earl sbuffò e guardò verso il muro. "Nessuno mi avrebbe creduto", rispose infine. Già, e chissà perché. Salito in macchina, Charlie riordinò mentalmente le informazioni ricevute. Sims aveva detto la verità, riferendo ciò che aveva sentito. Ma lui era un alcolizzato e quella sera era sbronzo. Forse aveva udito proprio quelle parole, ma non aveva capito il tono con cui erano state pronunciate? Otis era serio? Oppure scherzava? O mentiva? E di che cosa avevano parlato i Timson con Earl nella mezzora successiva? Earl non aveva chiarito proprio niente. Era evidente che non ricordava neppure la conversazione finché Charlie non l'aveva tirata fuori, e comunque il suo resoconto faceva acqua da tutte le parti. Aveva creduto che potessero ucciderlo, ma era rimasto a bere qualche birra con loro. Era rimasto terrorizzato per mesi, ma non abbastanza da rendere almeno in parte i soldi che doveva, anche se avrebbe potuto racimolarli con i furti d'auto. E non aveva detto niente quando era stato arrestato. Incolpava Otis di averlo incastrato e tormentava la gente della prigione con quel ritornello, ma non aveva mai accennato al fatto che Otis avesse confessato un omicidio. Aveva perso un occhio, eppure non aveva detto niente. La ricompensa per chi sapeva qualcosa sull'incidente non aveva significato nulla per lui. Un alcolizzato che fornisce informazioni per ottenere la libertà. Un carcerato con un conto in sospeso, che di colpo ricorda informazioni cruciali, ma con una storia che non sta in piedi. Qualsiasi avvocato difensore con un po’ di grinta avrebbe fatto polpette di Sims Addison ed Earl Getlin. E Thurman Jones era bravo. Molto bravo. Charlie guidava con aria corrucciata. Quella storia non gli piaceva, neanche un po'. Restava tuttavia il fatto che Otis aveva detto davvero "ti capiterà la stessa cosa che è accaduta a Missy Ryan". Lo avevano sentito ben due persone e questo era significativo. Era abbastanza per trattenerlo. Almeno per qualche tempo. Ma sarebbe stato sufficiente per aprire un'inchiesta? E, soprattutto, bastava a dimostrare che Otis era davvero il colpevole? Capitolo ventitreesimo Non riuscivo a sfuggire all'immagine di Missy Ryan con gli occhi fissi nel nulla, e per questo diventai una persona a me stesso irriconoscibile. Sei settimane dopo la sua morte posteggiai l'auto a circa un chilometro di distanza, nel parcheggio di un benzinaio, e proseguii a piedi. Era tardi, un po’ dopo le nove di giovedì. Il sole di settembre era appena tramontato e io mi tenevo nascosto. Ero vestito di nero, stavo sul ciglio della strada e arrivavo addirittura ad infilarmi tra i cespugli quando vedevo avvicinarsi dei fari. Nonostante la cintura, dovevo reggermi i calzoni con le mani, per evitare che scivolassero giù dalla vita. Avevano cominciato a cadermi così spesso che non ci facevo più caso, ma quella sera, con i rami che mi tiravano da tutte le parti, mi resi conto di quanto fossi dimagrito. Dal giorno dell'incidente avevo perso del tutto l'appetito; persino la sola idea di mangiare mi ripugnava. Avevo cominciato anche a perdere i capelli. Non a ciuffi, ma a ciocche, come colpiti da una morte lenta ed inesorabile, la mia capigliatura era una casa devastata all'interno dalle termiti. Li ritrovavo sparsi sul cuscino al risveglio e quando me li spazzolavo, dovevo usare le dita per pulire le setole a ogni passata, altrimenti la spazzola scivolava via senza fare presa. Gettavo i capelli nel water e tiravo l'acqua, guardandoli scomparire in un vortice, e una volta finito, tiravo di nuovo l'acqua, soltanto per ritardare la realtà della mia vita. Quella sera, mentre passavo attraverso un'apertura nella staccionata, mi tagliai il palmo della mano con un chiodo sporgente. Mi feci male, sanguinavo, ma invece di tornare indietro strinsi il pugno, sentendo il sangue che mi filtrava tra le dita, denso e appiccicoso. Quella sera non badai al dolore, così come oggi non mi importa della cicatrice. Dovevo andare. Nella settimana precedente, ero stato sul luogo dell'incidente ed anche a visitare la tomba di Missy. Ricordo la lapide piantata da poco nel terreno e i mucchietti di terra smossa, dove non era ancora ricresciuta l'erba, simili a piccole buche. Quel particolare mi disturbava senza un motivo preciso e fu lì che posai i fiori. Poi, senza sapere che altro fare, ero rimasto seduto a fissare la lastra di granito. Il cimitero era quasi deserto; in lontananza, scorgevo qualche persona qua e là, che sistemava le tombe dei parenti. Mi ero voltato a guardarli, senza curarmi di essere visto. Alla luce della luna, aprii la mano. Il sangue era nero e lucido come olio. Chiusi gli occhi, ricordando Missy, poi mi rimisi in moto. Impiegai mezzora ad arrivare. Le zanzare mi ronzavano intorno al viso. Verso la fine del tragitto dovetti passare dai giardini delle case per evitare la strada. I giardini lì sono ampi, le case distanziate, ed era più facile procedere. Tenevo lo sguardo fisso sulla meta e, avvicinandomi, rallentai il passo, attento a non fare rumore. Vedevo la luce che filtrava dalle finestre. Notai la macchina parcheggiata nel vialetto. Sapevo dov'erano vissuti; lo sapevano tutti. Dopo tutto, era una piccola città. Avevo visto la loro casa anche alla luce del sole; come per la scena dell'incidente e la tomba di Missy, ero stato lì in precedenza, anche se mai così da vicino. Respirai più lentamente mentre mi avvicinavo al fianco della casa. Sentivo l'odore di erba appena tagliata. Mi fermai, una mano premuta contro il muro di mattoni. Rimasi in ascolto per carpire eventuali scricchiolii delle assi del pavimento, aspettai di vedere un movimento verso la porta, delle ombre che si agitavano sulla veranda. Ma nessuno sembrava essersi accorto della mia presenza. Avanzai cauto fino alla finestra del soggiorno, poi salii sul portico, dove mi rannicchiai in un angolo, il corpo nascosto alla vista di chi fosse passato per strada da un graticcio coperto d'edera. In lontananza udii un cane abbaiare, poi tacere, poi abbaiare di nuovo, come per controllare se ci fosse qualche strano movimento. Sbirciai dentro, curioso. Non vidi nulla, ma non riuscivo a staccarmi. Loro vivevano qui, pensai. Missy e Miles sedevano su quel divano, posavano le tazze su quel tavolino. Quelle sono le loro fotografie appese al muro. Quelli sono i loro libri. Guardandomi intorno, mi accorsi che la televisione era accesa e si udivano delle voci intrecciarsi in un dialogo. La stanza era ordinata, pulita, e per qualche motivo questo mi fece sentire meglio. Fu allora che vidi Jonah entrare in salotto. Trattenni il fiato mentre lui si avvicinava alla televisione, che era dalla mia parte , ma non si voltò verso di me. Invece si mise seduto a gambe incrociate e rimase fermo a guardare il programma, come ipnotizzato. Schiacciai il viso contro il vetro per vederlo meglio. Era cresciuto un po’ negli ultimi due mesi. Sebbene fosse già tardi, era ancora in jeans e maglietta, invece di indossare il pigiama. Lo udii ridere ed il cuore quasi mi scoppiò in gola. In quel momento anche Miles entrò nella stanza. Mi nascosi nell'ombra, continuando a guardare. Lui rimase un momento a osservare il figlio senza dire nulla. La sua espressione era vuota, imperscrutabile... fissa. Teneva in mano una cartelletta gialla e, un attimo dopo, lo vidi gettare un'occhiata all'orologio. Aveva i capelli arruffati su un lato del viso, come se vi avesse passato in mezzo la mano. Sapevo quello che sarebbe successo e attesi. Avrebbe parlato con il figlio. Gli avrebbe domandato che cosa stava guardando. Oppure, essendo un giorno feriale, gli avrebbe detto che era ora di andare a letto, o di mettersi il pigiama. Gli avrebbe chiesto se voleva un bicchiere di latte o una fetta di torta. Ma non lo fece. Miles, assorto, passò in silenzio attraverso il salotto e scomparve nel corridoio buio, quasi come se non ci fosse mai stato davvero. Dopo un minuto strisciai via. Quella notte non riuscii a dormire. Capitolo ventiquattresimo Miles arrivò a casa proprio mentre Charlie raggiungeva la prigione di Hailey e andò dritto in camera da letto. Ma non per dormire. Aprì l'armadio e tirò fuori la cartelletta gialla. Passò le ore successive a sfogliare ed esaminare i documenti, a studiare le informazioni. Non trovò nulla di nuovo, niente che avesse tralasciato in precedenza, eppure non riusciva a mettere via il materiale. Adesso sapeva che cosa cercare. Qualche tempo dopo, udì squillare il telefono, ma non rispose. Suonò di nuovo venti minuti dopo, con lo stesso risultato. Jonah scese dallo scuolabus alla solita ora e, vedendo la macchina del padre nel vialetto, si diresse a casa, anziché dalla signora Knowlson. Corse in camera da letto, felice per l'inattesa presenza di Miles, pensando che avrebbero potuto fare qualcosa insieme prima che Mark passasse a prenderlo. Ma, alla vista della cartelletta, scambiò con il padre qualche parola di saluto e poi, intuendo il suo bisogno di restare solo, tornò in salotto e accese la televisione. Il sole cominciava a tramontare; ben presto in tutto il vicinato si accesero le luminarie natalizie. Jonah si affacciò sulla porta della camera da letto del padre, gli parlò persino, ma Miles non alzò neppure la testa. Per cena Jonah mangiò una tazza di cereali. Miles continuava ad esaminare il dossier, annotando domande ed osservazioni ai margini dei fogli, a cominciare da Sims ed Earl e dalla necessità di convincerli a testimoniare. Poi passò alle pagine che riguardavano le indagini su Otis Timson, rimpiangendo di non averle condotte in prima persona. Altre domande, altre osservazioni: Sono state controllate tutte le auto dei Timson, per verificare se erano danneggiate... anche quelle abbandonate sulla piazzola? È possibile che Otis ne abbia noleggiata una, e dove? Un commesso di un negozio di autoricambi potrebbe ricordare se Otis aveva acquistato un kit d'emergenza? Chiamare altri dipartimenti... chiedere se qualche magazzino di ricambi non autorizzato abbia cessato l'attività negli ultimi due anni. Interrogare i proprietari. Proporre loro un accordo, se ricordano qualcosa. Poco prima delle otto, Jonah si riaffacciò in camera, pronto per andare al cinema con Mark. Salutò il padre con un bacio e uscì; Miles tornò subito al lavoro, senza neppure chiedergli a che ora sarebbe tornato. Non si accorse dell'arrivo di Sarah finché non sentì la sua voce chiamarlo dal salotto. "C'è nessuno?... Miles, sei lì?" Un attimo dopo comparve sulla porta e solo allora lui si ricordò del loro appuntamento. "Non mi hai sentito bussare?" gli chiese. "Stavo morendo di freddo là fuori, aspettando che mi aprissi, così alla fine sono entrata lo stesso. Ti eri dimenticato che dovevo venire?" Notò la sua espressione distratta e distante. Lui aveva i capelli arruffati, come se avesse continuato a passarci le mani per ore. "Stai bene?" gli chiese. Miles cominciò a radunare le carte. "Sì... stavo lavorando. .. scusa... ho perso la cognizione del tempo". Lei riconobbe la cartelletta e corrugò la fronte. "Che succede?" domandò. Alla vista di Sarah, fresca e carina come sempre, Miles si rese conto di essere esausto. Aveva il collo e la schiena indolenziti e si sentiva sporco e impolverato. Chiuse la cartelletta e la mise da parte, poi si strofinò il viso con le mani e la guardò attraverso le dita aperte. "Oggi è stato arrestato Otis Timson", disse. "Otis? E perché?..." Prima ancora di terminare la domanda Sarah aveva intuito la risposta e trattenne il fiato. "Oh... Miles", disse, andandogli vicino. Tutto dolorante, lui si alzò e si lasciò abbracciare. "Sei sicuro di star bene?" gli domandò lei sottovoce, stringendolo a sé. Mentre Sarah lo abbracciava, tutte le emozioni della giornata lo assalirono in un colpo. Quel misto di incredulità, rabbia, esasperazione, ira, paura e stanchezza amplificò il dolore per la perdita subita e per la prima volta Miles si abbandonò alla forza dei sentimenti. In piedi in mezzo alla stanza, crollò tra le sue braccia e scoppiò a piangere disperato. Quando tornò al dipartimento, Charlie fu sorpreso di trovare ancora Madge. In genere la sua segretaria staccava alle cinque, ma quel giorno era rimasta un'ora e mezzo ad aspettarlo. Era nel parcheggio, con le braccia conserte, la lunga giacca di lana stretta al corpo per ripararsi dal freddo. Lo sceriffo scese dall'auto e si scrollò le briciole dai pantaloni. Aveva mangiato un panino e bevuto una tazza di caffè in macchina sulla via del ritorno. "Madge? Che ci fai qui?" "Ti aspettavo", fu la risposta. "Ti ho visto arrivare e volevo parlarti lontano da orecchie indiscrete". Charlie prese il cappello dall'auto. Non aveva più tanti capelli e con quel freddo gli si gelava la testa. "Allora, che cos'è successo?" Prima che lei potesse rispondere, un agente uscì nel parcheggio e Madge lo vide venire nella loro direzione. Per guadagnare tempo, disse soltanto: "Ha chiamato Brenda". "Tutto a posto?" chiese Charlie, reggendole il gioco. "Direi di sì. Però vuole che la richiami subito". L'agente salutò lo sceriffo con un cenno mentre gli passava accanto. Una volta che si fu allontanato, Madge si avvicinò al suo capo. "Temo che ci sia un problema", mormorò. "Riguardo a cosa?" Lei fece un cenno dietro di sé. "Thurman Jones ti aspetta dentro. E anche Harvey Wellman". Charlie la guardò in attesa, sapendo che c'era dell'altro. "Vogliono parlare con te", aggiunse lei. "E?" Lei tornò a guardarsi intorno, per essere sicura che fossero soli. "Sono venuti insieme, Charlie. Vogliono parlarti tutti e due". Lui ebbe un cattivo presentimento. Procuratori e avvocati difensori agivano insieme solo in circostanze gravissime. "Riguarda Miles", spiegò Madge "Temo che abbia fatto qualcosa... che non doveva". Thurman Jones aveva cinquantatré anni, era di altezza e corporatura medie con i capelli castani ondulati che sembravano sempre agitati dal vento. Quand'era in tribunale portava completi blu, cravatte scure di maglia e scarpe nere con la suola di gomma, il che gli dava un aspetto da campagnolo. In aula parlava sempre lentamente, con chiarezza, non perdeva mai la calma e questo, unito alla sua aria bonaria da contadino, faceva sempre un'ottima impressione alla giuria. Charlie non riusciva a spiegarsi perché difendesse individui come Otis e la sua famiglia, ma da anni l'avvocato sembrava prediligere quel genere di clientela. Il procuratore Harvey Wellman, d'altro canto, sfoggiava sempre abiti di sartoria e scarpe di marca, come se dovesse andare a un matrimonio. A trent'anni aveva cominciato ad avere i primi capelli bianchi sulle tempie; adesso che ne aveva quaranta, era brizzolato, il che gli conferiva un aspetto distinto. In un'altra vita, avrebbe potuto fare il giornalista televisivo, oppure l'impresario di pompe funebri. Nessuno dei due sembrava contento, mentre lo aspettavano fuori del suo ufficio. "Volevate vedermi?" chiese lo sceriffo avvicinandosi. Entrambi si alzarono dalla panca. "Sì, è importante, Charlie", disse Harvey. Lui li condusse nel suo ufficio e chiuse la porta. Fece loro segno di accomodarsi, ma rimasero in piedi. Charlie allora si piazzò dietro la scrivania per mettere un po’ di spazio tra sé e i visitatori. "Che cosa posso fare per voi?" "Abbiamo un problema, Charlie", rispose Harvey con semplicità. "Riguarda l'arresto di stamattina. Ho cercato di parlarti prima, ma non c'eri". "Mi spiace, avevo degli affari urgenti da sbrigare fuori città. Quale sarebbe il problema?" Harvey Wellman lo guardò diritto negli occhi. "Pare che Miles Ryan abbia superato un po’ i limiti". "Oh!" "Abbiamo dei testimoni. Molti testimoni. E tutti confermano". Charlie rimase in silenzio e Harvey si schiarì la gola prima di proseguire. Thurman Jones si teneva da parte, con espressione neutra. Lo sceriffo sapeva che stava registrando ogni parola. "Ha puntato la pistola alla tempia di Otis Timson". Più tardi quella sera, Miles era seduto in salotto con in mano una bottiglia di birra da cui stava staccando distrattamente l'etichetta mentre raccontava a Sarah i fatti della giornata. Era ancora in preda ad emozioni confuse e la sua storia a volte era poco chiara. Saltava da un punto all'altro, poi tornava indietro, ripetendosi. Lei non lo interrompeva, non distoglieva mai lo sguardo e sebbene in alcuni momenti faticasse a seguirlo, non gli chiese chiarimenti, per il semplice motivo che non era sicura che potesse darglieli. A differenza che con Charlie, però, questa volta Miles concluse il suo racconto. "Sai, negli ultimi due anni mi sono chiesto spesso che cosa avrei fatto se mi fossi trovato faccia a faccia con quell'individuo. E quando ho scoperto che era stato Otis... non so..." Fece una pausa. "Avrei voluto premere il grilletto, avrei voluto ucciderlo". Sarah cambiò posizione sul divano, senza sapere che cosa dire. Era comprensibile, almeno da un certo punto di vista, ma anche... spaventoso. "Ma... non lo hai fatto", disse infine. Miles non notò il tono esitante. La sua mente era tornata indietro, era di nuovo là con Otis. "E ora che cosa succederà?" chiese lei per farlo tornare alla realtà. Miles si portò una mano alla nuca e se la massaggiò. Nonostante il forte coinvolgimento emotivo, il lato razionale del suo carattere gli diceva che servivano altre prove. "Ci sarà un inchiesta... testimoni da interrogare, posti da controllare. È un gran lavoro, che è diventato più difficile ora che è passato tempo. Avrò da fare anche di notte e nei fine settimana. Si torna al punto in cui eravamo un paio d'anni fa". "Ma Charlie non ti ha detto che si sarebbe occupato lui delle indagini?" "Sì, ma io so come fare". "Te lo permetteranno?" "Non ho scelta". Non era il momento né il luogo per discutere del suo ruolo nella faccenda, così lei lasciò perdere. "Hai fame?" gli chiese. "Posso preparare qualcosa. Oppure possiamo ordinare una pizza". "No, sto bene così". "Vuoi uscire a fare quattro passi?" Lui scrollò il capo. "No". "Ti va di vedere un film? Venendo qui ho preso una cassetta". "Sì... certo". "Non vuoi sapere che film è?" "Non ha importanza. Va bene quello che c'è". Lei si alzò dal divano e mise la cassetta nel videoregistratore. Era una commedia abbastanza divertente, ma Miles non mostrò alcuna reazione. Dopo un'ora, si scusò e andò in bagno. Vedendo che non tornava, Sarah andò ad assicurarsi che stesse bene. Lo trovò in camera da letto, la cartelletta aperta accanto a lui. "Devo controllare una cosa", le disse. "Mi ci vorrà solo un minuto". "D'accordo", rispose lei. Non tornò più. Sarah riavvolse la cassetta prima che il film fosse finito, poi la rimise nella custodia e prese la giacca. Si affacciò sulla porta della camera ancora una volta- senza sapere che Jonah qualche ora prima aveva fatto lo stesso- e poi uscì in silenzio. Miles non si accorse che era andata via fino a quando il figlio non rincasò dal cinema. Charlie rimase in ufficio fin quasi a mezzanotte. Come Miles, riesaminò il dossier del caso, chiedendosi che cosa fare. C'era voluta tutta la sua capacità di persuasione per calmare un po’ Harvey, soprattutto quando il procuratore gli aveva riferito l""incidente" avvenuto nella macchina di Miles. Come c'era da aspettarsi, Thurman Jones se n'era rimasto tranquillo. Charlie immaginò che avesse giudicato più vantaggioso lasciare che fosse il procuratore a parlare per lui. Aveva però abbozzato un sorriso, quando Harvey aveva dichiarato che stava prendendo seriamente in considerazione l'idea di incriminare Miles. Era stato allora che Charlie aveva dovuto spiegare il motivo dell'arresto di Otis. A quanto pareva, infatti, Miles non si era neppure degnato di informarlo di che cos'era accusato. Il giorno dopo loro due avrebbero fatto una bella chiacchierata a quattr'occhi, pensò lo sceriffo... se lui non gli tirava il collo prima. Ma alla presenza di Harvey e di Thurman, si era comportato come se fosse al corrente della situazione. "Non c'era motivo di formulare accuse senza la certezza che fossero fondate". E come c'era da aspettarsi, Harvey e Thurman non avevano reagito bene a quell'affermazione. Altri problemi erano nati per la storia di Sims, finché Charlie non aveva riferito di aver parlato con Earl Getlin. "E lui ha confermato tutto", dichiarò. Non era il caso di manifestare a Thurman i suoi dubbi in proposito, né di confidarli al procuratore in quel momento. Quando ebbe finito, Harvey gli aveva lanciato un'occhiata come per dire che dovevano incontrarsi in privato. Charlie, sapendo che gli serviva altro tempo per valutare la faccenda, aveva fatto finta di non accorgersene. Poi avevano parlato a lungo di Miles. Charlie non dubitava che lui si fosse comportato esattamente come loro dicevano e, pur essendo... sconvolto, per usare un eufemismo, era proprio nel suo carattere cacciarsi in una situazione del genere. Alla fine Harvey aveva raccomandato che Miles venisse sospeso dal servizio a tempo indeterminato, mentre loro chiarivano la vicenda. E Thurman Jones aveva chiesto che Otis venisse rilasciato od incriminato subito, senza ulteriori ritardi. Charlie li aveva congedati dicendo che avrebbe preso una decisione il mattino seguente. Sperava che in qualche modo le cose per allora si sarebbero chiarite. Ma non era destino, come scoprì mentre si accingeva finalmente a tornare a casa. Prima di lasciare l'ufficio, si mise in contatto con Harris per telefono, chiedendogli com'era andata la sua sorveglianza. Venne a sapere che l'agente non era riuscito a trovare Sims. "Hai cercato bene?" sbottò Charlie. "Ho cercato dappertutto", rispose Harris con voce impastata dal sonno. "A casa sua, da sua madre, nei posti che frequenta di solito. Sono stato in tutti i bar e i negozi di liquori della contea. È sparito". Quando Charlie rincasò, Brenda, con indosso l'accappatoio sopra la camicia da notte, lo aspettava sveglia. Le raccontò per sommi capi l'accaduto e lei chiese che cosa sarebbe successo se Otis fosse stato portato in tribunale. "Sarà la classica difesa", le rispose, sfinito. "Jones obietterà che Otis non era nemmeno là quella sera e troverà testimoni a suo favore. Poi dirà che, anche se fosse stato là, non aveva pronunciato le frasi che gli vengono attribuite. E infine sosterrà che, anche se le avesse dette, sono state prese fuori dal contesto". "E funzionerà?" Charlie bevve un sorso di caffè, sapendo di avere ancora del lavoro da sbrigare. "Nessuno può prevedere il comportamento di una giuria. Lo sai anche tu". Brenda gli mise una mano sul braccio. "Ma secondo te?" chiese. "Sii sincero". "Devo essere sincero?" Lei annuì, pensando che le sembrava invecchiato di dieci anni rispetto a quando era uscito quella mattina. "A meno che non troviamo qualcos'altro, Otis se la caverà". "Anche se fosse stato lui?" "Sì", rispose Charlie ormai esausto, "anche se fosse stato lui". "E Miles lo accetterebbe?" Charlie chiuse gli occhi. "Assolutamente no". "Che cosa potrebbe fare?" Finì di bere il caffè e prese il fascicolo. "Non ne ho idea". Capitolo venticinquesimo Cominciai a seguirli regolarmente, prendendo tutte le precauzioni per non farmi scoprire. Aspettavo Jonah a scuola, andavo sulla tomba di Missy, mi recavo a casa loro di notte. Le mie bugie erano convincenti e nessuno sospettava di nulla. Sapevo di sbagliare, ma era come se non riuscissi più a controllare le mie azioni. Era un impulso maniacale che non riuscivo a dominare. Quando facevo queste cose, mi ponevo delle domande sul mio stato mentale. Ero un masochista, volevo rivivere le sofferenze che avevo causato? Oppure ero un sadico, godevo in segreto del loro tormento e volevo esserne testimone diretto? Ero un sadico masochista? Non lo sapevo. Sapevo soltanto che non potevo fare altro. Non riuscivo a togliermi dalla mente l'immagine che avevo visto la prima sera, quando Miles era passato accanto al figlio senza parlargli, come dimentico della sua presenza. Dopo quello che era successo, non sarebbe dovuta andare in quel modo. Sì, sapevo che Missy era stata sottratta alla loro vita. ..mai sopravvissuti non si attaccano di più gli uni agli altri dopo il trauma subìto? Non cercano sostegno reciproco? Soprattutto in una famiglia. Era quello che avevo voluto credere. Era quello che mi aveva sorretto nelle prime sei settimane. Era diventato il mio mantra. Sopravviveranno. Guariranno. Si stringeranno insieme e saranno più uniti. Era la cantilena di uno sciocco tormentato, ma nella mia mente era diventata realtà. Quella sera, invece, non li avevo visti così. Non sono tanto ingenuo, né lo ero all'epoca, da credere che una sola istantanea di famiglia in una casa possa rivelare la verità. Tornando indietro quella sera mi dissi che avevo visto male o che, pur avendo visto giusto, non significava nulla. Mentre risalivo sulla mia macchina me ne ero quasi convinto. Ma dovevo esserne sicuro. Quando si avanza verso la distruzione si imbocca una strada senza ritorno. Come chi ha il bisogno di bere un bicchiere un venerdì sera e poi due quello successivo, fino a perdere del tutto il controllo, così io diventai più audace nelle mie azioni. Due giorni dopo la mia prima visita notturna, sentii il bisogno di sapere che cosa faceva Jonah. Ricordo ancora il mio ragionamento per giustificarmi. Era questo: oggi osserverò Jonah e, se lo vedrò sorridere, saprò di essermi sbagliato. Insomma, mi diressi alla scuola. Rimasi nel parcheggio - uno sconosciuto seduto dietro il volante in un luogo dove non aveva il diritto di stare - a guardare fuori dal parabrezza. La prima volta lo scorsi appena per un istante, così tornai il giorno successivo. E poi qualche giorno dopo. E di nuovo. Arrivai al punto di riconoscere immediatamente la sua maestra, la sua classe e di riuscire a individuarlo subito, non appena usciva dall'edificio. E lo osservavo. A volte sorrideva, altre volte era serio, e per tutto il pomeriggio mi chiedevo che cosa significasse. In un caso come nell'altro, non ero mai soddisfatto. E poi arrivava la notte. Come un prurito che non potevo lenire, l'impulso di spiarli mi tormentava, facendosi più intenso con il passare delle ore. Restavo sdraiato a occhi aperti e dopo un po’ mi alzavo. Camminavo avanti e indietro. Mi sedevo, poi tornavo a coricarmi. E pur sapendo di sbagliare, alla fine decidevo di andare. Guidavo nella notte, ripetendomi che dovevo tornare indietro, mentre invece parcheggiavo l'auto. E procedevo tra i cespugli che circondavano casa loro, un passo dopo l'altro, senza capire che cosa mi avesse spinto lì. Li guardavo dalle finestre. Per un anno osservai piccoli brandelli della loro vita, che accrescevano le mie conoscenze su di loro. Venni a sapere che Miles continuava a lavorare a volte la sera e mi chiedevo chi si prendesse cura del figlio. Mi segnai il suo orario di lavoro e un giorno che lui era di turno seguii lo scuolabus di Jonah. Scoprii che andava da una vicina. Un'occhiata alla cassetta delle lettere mi rivelò il suo nome. Altre volte li osservavo mentre cenavano, imparai quali fossero i piatti e i programmi televisivi preferiti di Jonah. Che gli piaceva giocare a calcio, ma non leggere. Lo guardai crescere. Vidi cose belle e brutte e continuai a cercare un sorriso. Un segnale, qualunque cosa che potesse indurmi a smetterla con la mia follia. Osservai anche Miles. Lo vidi riordinare la casa, infilando oggetti nei cassetti. Lo vidi preparare la cena. Lo guardai bere birra e fumare sulla veranda dietro la casa, quando pensava di essere solo. Ma, soprattutto, lo vidi seduto in cucina. Lì, concentrato, con una mano tra i capelli, esaminava un dossier. Inizialmente pensai che si portasse il lavoro a casa, ma a poco a poco giunsi alla conclusione che mi sbagliavo. Non stava esaminando casi diversi, era uno solo, dato che il fascicolo sembrava sempre lo stesso. Allora, in una specie d'illuminazione improvvisa, compresi che cosa riguardava quel dossier. Capii che stava cercando me. Ancora una volta, dopo questo fatto, trovai delle giustificazioni al mio comportamento. Andavo lì per tenerlo d'occhio, per studiare i suoi lineamenti mentre era chino sul fascicolo, in attesa di un "ahha", seguito da una telefonata frenetica che avrebbe preannunciato una visita a casa mia. Per sapere quando sarebbe giunta la fine. Quando mi staccavo dalla finestra e tornavo alla macchina, mi sentivo debole, esausto. Giuravo che era finita, che non l'avrei più fatto. Che li avrei lasciati in pace a condurre la loro vita senza intrusioni. L'impulso di spiarli era soddisfatto e allora subentravano i sensi di colpa. In quelle notti deprecavo il mio comportamento, supplicavo perdono e a volte avevo il desiderio di uccidermi. Un tempo ero stato una persona che aveva sognato di dimostrare il proprio valore al mondo, e adesso odiavo quello che ero diventato. Ma poi, nonostante il desiderio di smettere, nonostante il desiderio di morire, l'impulso rinasceva. Lo combattevo sino allo stremo, infine mi dicevo che era l'ultima volta. L'ultimissima. E allora uscivo nelle tenebre, come un vampiro. Capitolo ventiseiesimo Quella notte Jonah aveva avuto il suo primo incubo dopo molte settimane. Miles aveva impiegato qualche istante a registrare il suono. Era rimasto alzato a leggere il fascicolo fino alle due, il turno di lavoro della sera prima e gli avvenimenti di quel giorno lo avevano completamente sfinito e il suo corpo si era ribellato nell'udire le grida. Come se si muovesse in una stanza piena di ovatta bagnata, la lucidità gli era tornata lentamente ed anche mentre raggiungeva la camera, il suo era stato più un riflesso condizionato che un reale desiderio di consolare il figlio. Erano le prime ore del giorno, mancavano pochi minuti all'alba. Miles aveva portato in braccio Jonah sulla veranda e, quando il bambino aveva finalmente smesso di piangere, il sole era già spuntato. Dato che era sabato e non c'era la scuola, lo aveva riportato nel suo letto ed era andato direttamente in cucina a mettere sul fuoco la caffettiera. Aveva l'emicrania, prese due aspirine e le mandò giù con un sorso di succo d'arancia. Si sentiva addosso i postumi di una sbronza. Mentre aspettava che fosse pronto il caffè, riprese in mano il dossier e gli appunti che aveva scritto la notte prima; voleva ripassarli ancora una volta prima di andare al lavoro. Jonah, però, lo sorprese entrando in cucina. Era a piedi scalzi, con gli occhi gonfi di sonno, e si sedette a tavola. "Perché ti sei alzato?" gli chiese Miles. "È ancora presto". "Non ho sonno", rispose lui strofinandosi gli occhi. "Non si direbbe". "Ho fatto un brutto sogno". Quelle parole lo colsero di sorpresa. In passato non si era mai ricordato degli incubi. "Davvero?" Jonah annuì. "Ho sognato che ti era successo un incidente. Come alla mamma". Miles si avvicinò al figlio. "È stato solo un sogno", disse per consolarlo. "Non è successo proprio niente, te lo assicuro". Jonah si pulì il naso con il dorso della mano. Il motivo delle macchinine da corsa stampato sul suo pigiama lo faceva sembrare più piccolo della sua età. "Ehi, papà?" "Sì?" "Sei arrabbiato con me?" "No, assolutamente. Perché me lo chiedi?" "Ieri non mi hai neanche parlato". "Scusami, ma non ero arrabbiato con te. Stavo cercando di risolvere una faccenda". "Sulla mamma?" Miles rimase di nuovo stupito. "Perché pensi che riguardi la mamma?" chiese. "Perché leggevi di nuovo quelle carte". Indicò il fascicolo sul tavolo. "Riguardano la mamma, vero?" Dopo un attimo di esitazione, Miles rispose: "In un certo senso". "Non mi piacciono quelle carte". "Perché?" "Perché ti rendono triste", fu la risposta. "Non è vero". "Invece sì", insistette Jonah. "E rendono triste anche me". "Perché ti manca la mamma?" "No", rispose il bambino scuotendo la testa, "perché ti fanno dimenticare di me". Quelle parole gli fecero venire un groppo in gola. "Non è vero". "Allora perché non hai parlato con me, ieri?" Sembrava prossimo al pianto e Miles lo strinse a sé. "Mi spiace, Jonah. Non accadrà più". Il bambino lo guardò, serio. "Lo prometti?" Miles si fece una X sul cuore e sorrise. "Sul mio cuore". "E che tu possa morire?" Con gli occhi penetranti di Jonah fissi su di sé, era proprio la sensazione che aveva in quel momento. Dopo essersi rappacificato con il figlio, Miles telefonò a Sarah per scusarsi anche con lei. "Miles, non devi scusarti. Dopo quello che era successo, era ovvio che volessi restare un po’ da solo. Come ti senti stamattina?" chiese subito Sarah. "Non lo so. Come prima, credo". "Andrai al lavoro?" "Devo. Mi ha chiamato Charlie, dice che vuole vedermi". "Mi chiamerai dopo?" "Se riesco. Probabilmente oggi sarò molto occupato". "Ti riferisci alle indagini?" Miles non rispose e Sarah proseguì, attorcigliandosi una ciocca di capelli intorno al dito. "Se senti il bisogno di parlare, io sarò da mia madre, d'accordo?" "Bene". Subito dopo aver riattaccato, Sarah venne assalita dal presentimento che stesse per accadere qualcosa di terribile. Erano le nove di mattina, Charlie era alla quarta tazza di caffè ed aveva già detto a Madge di preparargliene dell'altro. Aveva dormito solo un paio d'ore ed era tornato in ufficio prima dell'alba. Da allora non aveva avuto pace. Si era visto con Harvey, aveva interrogato Otis e aveva parlato brevemente con Thurman Jones. Aveva anche incaricato altri agenti di cercare Sims Addison. Ma finora non l'avevano trovato. Charlie, però, nel frattempo era riuscito a prendere qualche decisione. Miles arrivò venti minuti più tardi e trovò il capo ad aspettarlo fuori dall'ufficio. "Come va?" chiese Charlie, notando che l'amico aveva un aspetto orribile quanto il suo. "Nottataccia". "Giornataccia, anche. Caffè?" "Ne ho già bevuto molto a casa". Charlie fece un cenno con la testa verso l'ufficio. "Vieni, allora... dobbiamo parlare". Dopo che furono entrati, chiuse la porta e si appoggiò alla scrivania. Miles invece si mise seduto. "Charlie, prima di iniziare", esordì, "devo dirti che ho lavorato alla faccenda da ieri e credo di essermi fatto qualche idea..." Lo sceriffo scrollò la testa, senza lasciarlo finire. "Senti, Miles, non è per questo che ti ho fatto venire. Adesso voglio che mi ascolti e basta, d'accordo?" Qualcosa nella sua espressione gli fece capire che non avrebbe gradito quello che stava per ascoltare, e s'irrigidì. Charlie guardò prima il pavimento, poi lui. "Non userò mezzi termini. Ci conosciamo da troppo tempo ormai". Tacque. "Che cosa c'è?" "Ho intenzione di rilasciare Otis Timson oggi". Miles spalancò la bocca per protestare, ma l'altro lo fermò. "Ora, prima di pensare che sono saltato a conclusioni affrettate, ascoltami bene. Non ho altra scelta, date le informazioni che abbiamo raccolto finora. Ieri, dopo che te ne sei andato, sono stato a trovare Earl Getlin". Raccontò a Miles del colloquio. "Bè, ecco le prove di cui hai bisogno", commentò lui alla fine. "Calma. Devo anche dirti che nutro seri dubbi su una sua possibile testimonianza. Thurman Jones in aula se lo mangerebbe vivo e nessuna giuria sarebbe disposta a credere alle sue parole". "Lascia che siano loro a decidere", protestò Miles. "Non puoi rilasciare Otis adesso". "Ho le mani legate. Credimi, sono rimasto alzato tutta la notte per studiare il caso. Visti i fatti, non abbiamo elementi sufficienti per trattenerlo. Soprattutto adesso che Sims se l'è svignata". "Ma di che cosa parli?" "Di Sims. L'ho fatto cercare ieri, stanotte e stamattina. Dopo che lo hai lasciato andare via da qui, è sparito. Nessuno è riuscito a trovarlo e il procuratore non è disposto a considerare le accuse se prima non riesce a parlare con lui". "Ma, per la miseria, Otis ha ammesso il fatto". "Non posso farci niente", replicò Charlie. "Ha ucciso mia moglie". Miles lo disse a denti stretti. Charlie detestava l'idea di dover deludere l'amico. "Non è una decisione solo mia. In questo momento, senza Sims, non abbiamo un caso. Harvey Wellman ha detto che l'ufficio del procuratore non potrebbe assolutamente istruire un processo per come stanno le cose ora". "È Harvey che ti fa agire così?" "Mi sono incontrato stamattina con lui", rispose Charlie. "E gli ho parlato anche ieri. Credimi, se ti dico che è stato più che equo. Non c'è niente di personale... fa solo il suo mestiere". "Tutte cazzate". "Mettiti nei suoi panni, Miles". "Non voglio mettermi nei suoi panni. Voglio che Otis sia incriminato per omicidio". "So che sei sconvolto..." "Non sconvolto, Charlie, sono incazzato come neanche te lo immagini". "Lo so, ma cerca di capire... anche se adesso lasciamo andare Otis, in futuro potremo sempre incriminarlo. E dovresti sapere che la polizia stradale vuole riaprire l'inchiesta. Non è ancora finita". Miles aveva lo sguardo torvo. "Ma fino ad allora Otis resterà libero". "Lo sarebbe comunque. Anche se lo accusassimo di omissione di soccorso, uscirebbe di qui su cauzione, lo sai". "Allora accusiamolo di omicidio". "Senza la testimonianza di Sims? Senza altre prove? Non funzionerebbe mai". A volte Miles odiava il sistema giudiziario americano. Girò lo sguardo per l'ufficio prima di posarlo di nuovo sull'amico. "Hai parlato con Otis?" chiese infine. "Ci ho provato stamattina. C'era il suo avvocato, che gli ha consigliato di non rispondere a gran parte delle mie domande. Non ho ottenuto informazioni utili". "Servirebbe se provassi a parlarci io?" Charlie scrollò il capo. "È fuori discussione, Miles. Non posso autorizzarti". "Perché è una storia che riguarda Missy?" "No, per la tua bravata di ieri". "Ma di che parli?" "Lo sai benissimo". Studiò la sua reazione. Miles sembrò restare impassibile e allora Charlie si alzò dalla scrivania. "Sarò franco, d'accordo? Tu non ti sei degnato di rispondere alle mie domande. Otis, invece, è stato più che disponibile a fornire informazioni sul tuo comportamento durante l'arresto. Perciò adesso te lo chiedo esplicitamente". Fece una pausa. "Che cosa è successo ieri in macchina?" Miles cambiò posizione sulla sedia. "C'era un procione che attraversava la strada e ho dovuto frenare di colpo". "Mi giudichi tanto stupido da crederti?" Miles scrollò le spalle. "È andata così". "E se Otis sostiene che hai frenato apposta per farlo sbattere contro la rete?" "Allora mente". Charlie si chinò in avanti. "Allora mente anche quando dice che gli hai puntato la pistola alla testa, mentre era in ginocchio e con le mani alzate? E che gliel'hai tenuta premuta sulla tempia?" Miles si dimenò sulla sedia, innervosito. "Dovevo tenere la situazione sotto controllo", rispose evasivo. "E ritieni che quello fosse il modo migliore?" "Senti, Charlie, non si è fatto male nessuno". "Allora, secondo te, è stata una condotta del tutto giustificata?" "Sì". "Bene, ma l'avvocato di Otis non la pensa allo stesso modo. E neppure Clyde Timson. Minacciano di presentare una denuncia contro di te". "Una denuncia?" "Esatto: uso eccessivo della forza, intimidazione, abuso di potere, tutto il repertorio". "Ma non è successo niente!" "Non importa, Miles. Hanno il diritto di fare tutte le denunce che vogliono. Ma tu dovresti sapere che hanno anche chiesto ad Harvey di aprire un'inchiesta disciplinare". "Un'inchiesta disciplinare?! Lasciami indovinare... Harvey è d'accordo con loro, giusto?" Charlie scrollò il capo. "So che tu e il procuratore non andate d'accordo, ma lavoro con lui da anni e ritengo che di solito sia molto equilibrato nei suoi giudizi. Era piuttosto su di giri, ieri sera, per tutta la faccenda, ma quando ci siamo rivisti stamattina ha detto che probabilmente non darà corso alla..." "Allora non c'è nessun problema", lo interruppe Miles. "Non mi hai lasciato finire!" sbraitò Charlie. "Harvey forse non procederà, ma la cosa non finisce qui. Lui capisce quello che provi, questo però non cambia il fatto che tu abbia agito in maniera quanto meno inappropriata. E perciò mi ha detto che ritiene meglio che tu venga sospeso... con lo stipendio, naturalmente, finché la faccenda non sarà risolta". Miles lo guardò allibito. "Sospeso?" "È per il tuo bene. Una volta che le acque si saranno calmate, Harvey pensa di riuscire a convincere Clyde e l'avvocato a ritirare le accuse. Ma se noi agiamo come se ritenessimo che tu non abbia commesso nessun errore, secondo lui sarebbe più difficile persuadere il padre di Otis". "Io non ho fatto altro che arrestare l'uomo che ha ucciso mia moglie..." "Hai fatto molto di più, e lo sai". "Allora seguirai le indicazioni del procuratore?" Charlie annuì. "Penso che sia un buon suggerimento, Miles. Come ti ho detto, è per il tuo bene". "Perfetto. Otis ne esce libero, anche se ha ucciso mia moglie e io vengo sospeso dal servizio per averlo arrestato". "Se vuoi metterla così". "Ma è così!" "Non è vero", replicò lo sceriffo con voce ferma. "E tra un po’ di tempo, quando ti sarai dato una calmata, te ne renderai conto anche tu. Per adesso, comunque, sei ufficialmente sospeso". "Dai, Charlie... non farmi questo". "È meglio così. E tu cerca di non peggiorare le cose. Se scopro che stai dietro a Otis, oppure che ficchi il naso dove non dovresti, sarò costretto a prendere ulteriori provvedimenti e non potrò più essere così clemente". "Ma è ridicolo!" "È così e basta, amico mio. Mi spiace". Charlie si alzò e si avvicinò alla sua sedia. "Come ti ho detto, però, non è finita. Forse spunterà fuori qualcun altro che era lì quella sera e che confermerà..." Miles gettò il distintivo sulla scrivania ancor prima che l'amico avesse finito di parlare. La fondina con la pistola era appesa alla spalliera della sedia. Uscì sbattendo la porta. Mezz'ora dopo Otis Timson venne rilasciato. Dopo essere uscito impetuosamente dall'ufficio di Charlie, Miles salì in macchina con la testa che gli girava per tutti gli avvenimenti delle ultime ventiquattr'ore. Accese il motore, pigiò l'acceleratore e schizzò fuori dal parcheggio con una sbandata. Otis era libero e lui sospeso. Non aveva senso. Il mondo doveva essere impazzito. Per un attimo pensò di andare a casa, ma decise di no, perché Jonah - che era dalla signora Knowlson - lo avrebbe visto rientrare e gli sarebbe corso incontro. Non era pronto ad affrontarlo, specie dopo quello che suo figlio gli aveva detto quella mattina. Prima aveva bisogno di calmarsi. Doveva parlare con qualcuno, qualcuno che lo aiutasse a dare un senso a quell'incubo. La strada era libera e Miles fece un'inversione a U, dirigendosi da Sarah. Capitolo ventisettesimo Sarah stava chiacchierando in salotto con la madre quando videro Miles posteggiare davanti alla casa. Non essendo stata informata degli ultimi avvenimenti, Maureen, tutta felice, balzò in piedi dal divano, aprì la porta d'ingresso e spalancò le braccia. "Che bella sorpresa!" esclamò. "Non ti aspettavamo!" Miles borbottò un saluto, mentre lei lo abbracciava, e rifiutò l'offerta di una tazza di caffè. Sarah si affrettò a proporgli una passeggiata e afferrò la giacca. Un paio di minuti dopo erano fuori. Maureen li guardò allontanarsi pensando che erano proprio "due giovani innamorati che vogliono restare soli". Presero la strada nel bosco che avevano percorso con Jonah il giorno del Ringraziamento. Mentre camminavano fianco a fianco, Miles era taciturno, ma continuava ad aprire e chiudere i pugni. Si sedettero su un tronco di pino caduto, ricoperto di muschio e di edera. Sarah gli prese la mano. Dopo un attimo, lui parve rilassarsi e le loro dita si intrecciarono. "Giornataccia, eh?" "Puoi ben dirlo". "Otis?" Miles sbuffò. "Otis. Charlie. Harvey. Sims. Tutti". "Che cosa è successo?" "Charlie ha rilasciato Otis. Ha detto che non c'erano elementi sufficienti per incriminarlo". "E perché? Credevo ci fossero dei testimoni", ribatté lei. "Anch'io. Ma è evidente che in questo caso i fatti non contano". Staccò un pezzo di corteccia e lo gettò da parte, disgustato. "Charlie mi ha sospeso dal servizio". Lei sbatté gli occhi, pensando di non aver sentito bene. "Come, scusa?" "Stamattina. Era per questo che voleva parlarmi". "Vuoi scherzare". Lui scrollò il capo. "No". "Non capisco..." Lasciò la frase a metà. In realtà, in fondo al cuore, capiva benissimo. Miles lanciò via un altro pezzo di corteccia. "Ha detto che ho tenuto una condotta inadeguata durante l'arresto e che sono sospeso finché non si chiariranno le cose. Ma non è tutto". Fece una pausa e guardò dritto davanti a sé. "L'avvocato di Otis e Clyde Timson vogliono sporgere denuncia. E per finire, potrebbero aprire un'inchiesta disciplinare contro di me". Lei non sapeva cosa rispondere. Miles fece un profondo sospiro e le lasciò la mano, concentrato nei suoi pensieri. "Ma ti rendi conto? Arresto il tizio che ha ucciso mia moglie e mi sospendono. Lui ne esce libero e io potrei finire incriminato". Alla fine si voltò a guardarla. "Secondo te, ha senso?" "No, davvero", rispose lei sincera. Miles tornò a fissare il vuoto. "E Charlie... il buon vecchio Charlie... accetta tutto. Credevo che fosse mio amico". "È tuo amico, Miles. Lo sai". "Non è vero. Non lo è più". "Allora rischi di essere incriminato?" Miles scrollò le spalle. "È possibile. Charlie ha detto che forse riusciranno a convincere Otis e il suo avvocato a rinunciare alla denuncia. È questa l'altra ragione per cui mi ha sospeso". Sarah era confusa. "Perché non ricominci dal principio? Che cosa ti ha detto esattamente?" Miles riferì la conversazione avuta con il suo capo. Alla fine, lei gli prese di nuovo la mano. "Non mi sembra che Charlie ce l'abbia con te. Anzi, vuole proteggerti". "Poteva comunque formulare l'accusa di omicidio. Earl Getlin ha confermato la storia, e nessun giudice di qui avrebbe fatto uscire Otis su cauzione. Quanto a Sims, alla fine salterà fuori... io sarei in grado di trovarlo in un paio d'ore". "Ma sei sospeso, no?" "Non mettertici anche tu, adesso. Non sono dell'umore giusto". "D'accordo, però non vorrei che ti cacciassi nei guai ancora di più. E poi Charlie ha detto che l'inchiesta probabilmente verrà riaperta". Lui la guardò, serio. "Pensi che dovrei lasciar perdere tutto?" "Non sto dicendo questo..." "Allora che cosa stai dicendo? Che dovrei farmi da parte e sperare per il meglio?" Non aspettò la risposta. "Ebbene, non posso, Sarah. Che io sia dannato se lascerò che Otis se la cavi senza pagare per quello che ha fatto". Lei si ricordò della sera prima, quando lo aveva visto seduto sul letto con in mano il dossier. "Ma se Sims non saltasse fuori?" chiese infine. "Oppure se ritenessero di non avere elementi sufficienti per aprire un caso?" Lui socchiuse gli occhi. "Perché mi dai contro?" Sarah trasalì. "Non ti sto dando contro". "E invece sì... metti tutto in dubbio". "Voglio solo impedirti di fare qualcosa di cui in futuro potresti pentirti". "Che cosa vorresti dire?" Lei gli strinse la mano. "Non sempre le cose vanno come vorremmo, sai". Lui la guardò a lungo, con espressione dura, la mano inanimata. Fredda. "Tu non credi che sia stato lui, vero?" "Non sto parlando di Otis, adesso. Ma di te". "E io invece sto parlando di Otis". Tirò via la mano e si alzò. "Due testimoni sostengono che si è vantato di aver ucciso mia moglie ed adesso lui se ne torna a casa tranquillo. Lo hai conosciuto, hai visto che razza di persona è, perciò voglio sapere che cosa ne pensi tu. Ritieni che abbia ucciso Missy, oppure no?" Messa alle strette, lei rispose d'impulso. "Non so più che cosa pensare di tutta la faccenda". Aveva detto la verità, ma non era quello che lui voleva sentire. Miles si voltò, distogliendo lo sguardo. "Io invece lo so", disse. "So che è stato Otis... in un modo o nell'altro troverò le prove. E non mi importa di cosa pensi tu. Stiamo parlando di mia moglie". Mia moglie. Prima che lei potesse rispondere, cominciò a incamminarsi. Sarah si alzò e lo seguì. "Miles, aspetta... non andartene". Lui rispose senza fermarsi. "Perché? Non è ancora finita la predica?" "Non ti sto facendo la predica, Miles. Cerco solo di aiutarti". Miles si fermò, girandosi a guardarla. "Non ce n'è bisogno, grazie. Non mi serve il tuo aiuto... e poi non è una questione che ti riguardi". Lei accusò il colpo. "Ma certo che mi riguarda. Io ti voglio bene". "Allora, la prossima volta che vengo da te perché ho bisogno di parlarti, tu ascolta e basta, hai capito?" Detto questo, la lasciò lì nel bosco, sconcertata. Harvey entrò nell'ufficio dello sceriffo con aria esausta. "Notizie di Sims?" Charlie scrollò la testa. "Niente. Si è nascosto proprio bene". "Credi che prima o poi salterà fuori?" "Per forza. Non può andare da nessun'altra parte. Adesso se ne sta acquattato, ma non resisterà a lungo". Il procuratore chiuse la porta della stanza. "Ho appena parlato con Thurman Jones", disse. "E?" "Continua ad insistere sulla denuncia contro Miles, come vuole Clyde, ma non mi sembra più troppo convinto". "Perché?" "Ho la sensazione che alla fine lascerà perdere, non vuole certo offrire alla polizia un'occasione per scavare nel passato del suo cliente, no? E poi sa che, di fronte a una giuria, un agente di polizia ha molte più possibilità di risultare convincente rispetto a un soggetto con la reputazione di Otis. Soprattutto considerando che Miles non ha sparato un solo colpo in quella circostanza". Charlie annuì. "Grazie, Harvey". "Non c'è di che". "Non mi riferisco all'aggiornamento". "Lo so. Ma ora tu devi fare in modo che Miles se ne stia alla larga per qualche giorno, finché la cosa non si sgonfia. Se combina qualche stupidaggine, sarei costretto a riconsiderare le accuse a suo carico". "Va bene". "Gli parlerai?" "Sì, glielo dirò". Spero solo che mi dia retta. Verso mezzogiorno, quando Brian arrivò per trascorrere a casa le vacanze di Natale, Sarah tirò un sospiro di sollievo. Finalmente qualcuno con cui confidarsi, pensò. Per tutta la mattina aveva dovuto evitare gli sguardi penetranti della madre. Mentre mangiava un panino, suo fratello parlò dello studio ("tutto bene"), del suo rendimento scolastico ("tutto bene, credo") e di come si sentiva ("bene"). Le sembrava smagrito rispetto all'ultima volta che lo aveva visto. Aveva il pallore tipico di chi esce di rado dalla biblioteca. Anche se affermava di essere esausto per via degli esami, Sarah si chiese come andassero davvero i suoi studi. Guardandolo da vicino, le dava l'impressione che avesse cominciato a drogarsi. Per quanto bene gli volesse, non ne sarebbe rimasta troppo sorpresa. Suo fratello era sempre stato molto sensibile ed adesso che si ritrovava da solo ad affrontare tutte quelle tensioni, gli sarebbe stato facile finire in un brutto giro. Era successo così a una sua compagna di dormitorio, che aveva lasciato l'università prima dell'inizio del secondo semestre. Sarah se n'era quasi dimenticata, ma adesso, guardando Brian, non poteva fare a meno di pensare che lui gliela ricordava. Che bella giornata si prospettava! Maureen, ovviamente, aveva subito notato il suo aspetto sciupato e continuava ad aggiungergli cibo nel piatto. "Non ho fame, mamma", protestava Brian, allontanando il piatto, e alla fine lei rinunciò e sparecchiò la tavola, mordendosi il labbro. Finito di mangiare, Sarah uscì con il fratello per aiutarlo a portare dentro i bagagli. "La mamma ha ragione, sai... hai un aspetto orribile". Lui prese dalla tasca le chiavi della macchina. "Grazie, sorella. Apprezzo il complimento". "Semestre tosto?" Brian scrollò le spalle. "Sopravviverò". Aprì il bagagliaio e cominciò a scaricare una borsa. Sarah lo costrinse ad appoggiarla a terra mettendogli una mano sul braccio. "Se hai bisogno di parlare, o di aiuto, sai che sono qui, d'accordo?" "Certo, lo so". "Dico sul serio. Di qualsiasi cosa si tratti". "Sono davvero messo così male?" Brian la guardò con aria interrogativa. "La mamma pensa che ti droghi". Era una bugia, ma di sicuro lui non sarebbe andato a chiedere conferma alla madre. "Allora dille che non è affatto vero. È solo che faccio fatica a prendere il ritmo dell'università. Ma ci riuscirò". Le regalò un sorriso storto. "E questa è una risposta per te, comunque". "Per me?" Brian afferrò un'altra borsa. "La mamma non penserebbe che mi drogo nemmeno se mi sorprendesse a fumare erba in salotto. Se avessi detto che temeva che i miei compagni di stanza mi stessero creando dei problemi, perché sono molto più intelligente di loro, allora ci avrei creduto". Sarah scoppiò a ridere. "Hai ragione". "Mi rimetterò, sul serio. E tu come stai?" "Benino. La scuola finisce venerdì e non vedo l'ora di godermi qualche settimana di vacanza". Brian le porse una borsa di plastica piena di panni da lavare. "Anche gli insegnanti hanno bisogno di una pausa?" "Più dei ragazzi, se vuoi proprio saperlo". Lui richiuse il bagagliaio e afferrò le borse per portarle dentro. Sarah guardò verso la porta per assicurarsi che la madre non fosse sulla soglia. "Senti, lo so che sei appena arrivato, ma hai un paio di minuti da dedicarmi?" "Certo. Queste le porto dentro dopo". Posò a terra le borse e si appoggiò alla macchina. "Che cosa c'è?" "Ecco, riguarda Miles. Oggi abbiamo avuto una specie di litigio, e ho bisogno di un consiglio. Non ho nessuna voglia di parlarne con la mamma, tu sai com'è fatta". "Raccontami tutto". "L'ultima volta che sei stato qui, mi pare di averti detto che sua moglie è morta un paio di anni fa, investita da un pirata della strada. L'autista non è mai stato identificato e da allora Miles non si è dato pace... Ora sono emerse nuove informazioni su un tizio che potrebbe aver causato l'incidente e lui lo ha arrestato. Ma non si è limitato a quello, ieri sera mi ha confidato che è stato a un passo dall'uccidere quell'uomo". Brian la guardò sbigottito e Sarah scosse la testa. "Alla fine non è successo niente di grave", lo tranquillizzò, "cioè, nessuno si è fatto male... Miles, però, è stato sospeso dal servizio. Ma non è questo che mi preoccupa di più. Per farla breve, hanno rilasciato quel tizio. Miles ne è rimasto molto contrariato, è agitato... e temo che possa perdere la testa e fare qualcosa di cui poi si pentirà". Fece una breve pausa, poi continuò: "Da tempo correva già cattivo sangue tra loro due. E anche se è stato sospeso, Miles non lascerà certo perdere. Quel tizio... ecco, è un personaggio ambiguo, pericoloso". "Non mi hai detto che hanno deciso di rilasciarlo?" "Infatti, ma Miles non intende rassegnarsi. Avresti dovuto sentirlo, oggi, e non ha voluto ascoltare neppure me. Io sono preoccupata, da una parte penso che dovrei chiamare il suo capo per avvertirlo, ma Miles è già stato sospeso e non vorrei creargli altri problemi. Però, se non dico niente, ho paura che..." Lasciò la frase a metà e fissò intensamente il fratello. "Secondo te, che cosa dovrei fare? Aspettare di vedere quello che succede? Oppure agire? È meglio che ne resti fuori?" Brian impiegò parecchio tempo a rispondere. "Dipende da quello che provi per lui, e da fin dove pensi che possa spingersi". Sarah si passò una mano tra i capelli. "Esatto. Io lo amo. Tu non hai ancora avuto modo di parlare con lui, ma è un uomo meraviglioso, e in questi ultimi due mesi mi ha reso davvero felice. Ma adesso... tutta questa storia mi spaventa. Non voglio essere la causa del suo licenziamento, però mi preoccupa seriamente quello che potrebbe fare". Brian ci rifletté a lungo. "Non puoi lasciare che una persona innocente finisca in prigione, Sarah", disse infine. "Non è questo che mi spaventa". "Cosa? Pensi che potrebbe dare la caccia a quel tizio?" "Sì". Ricordò lo sguardo di Miles, carico di rabbia e di frustrazione. "Sono convinta che ne sarebbe capace". "Non puoi permetterglielo". "Tu pensi che dovrei avvisare il dipartimento?" Brian la guardò, torvo in viso. "Temo che tu non abbia scelta". Dopo aver lasciato Sarah, Miles trascorse le ore successive a cercare di rintracciare Sims. Ma senza nessun risultato. Pensò allora di tornare a far visita ai Timson, ma si trattenne. Ricordava quello che era accaduto quella mattina nell'ufficio di Charlie. Non aveva più con sé la pistola d'ordinanza. Però ne teneva un'altra a casa. Più tardi, quel pomeriggio, Charlie ricevette due telefonate. La prima era della madre di Sims, che gli chiese come mai tutti all'improvviso fossero così interessati a suo figlio. Alla richiesta di spiegarsi meglio, la donna rispose: "È stato qui Miles Ryan a farmi le stesse domande che mi aveva già fatto lei". Charlie riattaccò, per niente contento: Miles aveva ignorato tutto quello che si erano detti quella mattina. La seconda telefonata era di Sarah Andrews. Dopo aver messo giù, lo sceriffo girò la sedia verso la finestra e guardò fuori, rigirandosi una matita tra le dita. Un minuto dopo, la matita era spezzata in due. Gettò i pezzi nel cestino. "Madge?" chiamò a gran voce. Lei comparve subito sulla soglia. "Fai venire Harris. Di corsa". Lei non se lo fece ripetere due volte. In un attimo Harris era in piedi davanti alla scrivania. "Devi andare dai Timson. Non farti vedere, ma tieni gli occhi ben aperti e controlla chi va e chi viene. Se noti qualcosa di insolito, e intendo qualunque cosa, avvisaci immediatamente. Non me soltanto... devi fare una chiamata alla radio. Non voglio guai lì, stasera. Nemmeno uno, mi hai capito?" Harris annuì senza dire una parola. Non aveva bisogno di chiedere chi dovesse sorvegliare. Dopo che l'agente fu uscito, Charlie telefonò a Brenda. Sapeva che anche lui sarebbe rimasto fuori sino a tardi quella sera. Non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che la situazione stesse precipitando fuori controllo. Capitolo ventottesimo Dopo un anno le mie visite notturne a casa loro cessarono all'improvviso così com'erano iniziate. Smisi anche di andare alla scuola di Jonah e sul luogo dell'incidente. L'unico posto che continuai a visitare regolarmente era la tomba di Missy, mi presentavo lì ogni giovedì, e non mancai di farlo neppure una volta. Con il sole o con la pioggia, percorrevo il viottolo fino alla sua lapide, e non mi importava che qualcuno mi notasse. Portavo sempre dei fiori. Ora voi potreste essere indotti a pensare che, a distanza di un anno, la mia ossessione si fosse placata. Invece, lo stesso impulso che mi aveva spinto a osservarli per tutto quel tempo di colpo si ribaltò, e capii che dovevo lasciarli vivere in pace, senza più spiarli. Non dimenticherò mai il giorno in cui accadde. Era il primo anniversario della morte di Missy. Ormai, dopo dodici mesi passati a muovermi nelle tenebre, ero diventato quasi invisibile. Conoscevo alla perfezione il tragitto, che percorrevo sempre più velocemente. Ed ero diventato una specie di voyeur: oltre a sbirciare dalle finestre, erano mesi che mi portavo dietro un binocolo. Sapete, certe volte capitava che ci fosse gente in giro, per strada o nei giardini circostanti, e io non potevo avvicinarmi alle finestre. Altre volte Miles chiudeva le tende del salotto, ma dato che il mio impulso era insaziabile, dovevo agire a tutti i costi. Il binocolo risolse i miei problemi. A un'estremità del loro giardino, vicino al fiume, c'è una vecchia quercia, gigantesca. I rami più bassi sono robusti, alcuni crescono paralleli al terreno, ed era lì che mi appostavo. Avevo scoperto che, arrampicandomi nel punto giusto, potevo vedere attraverso la finestra della cucina senza ostacoli. Li osservavo per ore, fino a quando Jonah andava a dormire, e poi restavo a guardare Miles seduto in cucina. Nel corso di quell'anno anche lui, come me, era cambiato. Sebbene continuasse a esaminare il fascicolo, non lo faceva più spesso come prima. Con il passare dei mesi, la sua ansia di trovarmi era diminuita. Non che gli importasse di meno, no, tutto dipendeva dalla realtà dei fatti. Ormai sapevo che le indagini erano a un punto morto; e sospettavo che anche Miles lo avesse capito, il giorno dell'anniversario, dopo aver messo a letto il figlio, lui aprì di nuovo il fascicolo, ma non si mise a studiarlo meticolosamente, riga per riga. Lo sfogliava rapidamente , senza matita né penna e senza fare annotazioni, come se girasse le pagine di un album di fotografie, rievocando i ricordi. Dopo un po’ lo mise da parte e scomparve in salotto. Quando mi resi conto che non sarebbe tornato, scesi dall'albero e scivolai silenzioso fino alla veranda. Aveva tirato le tende, ma aveva lasciato la finestra aperta per far entrare l'aria fresca della sera. Dal mio punto di osservazione riuscivo a scorgere l'angolo della stanza dove Miles si era seduto sul divano. Accanto a lui c'era una scatola di cartone ed era girato verso lo schermo della televisione. Accostando l'orecchio allo spiraglio della finestra, mi misi in ascolto, anche se mi giungevano solo rumori privi di senso. C'erano lunghi periodi di silenzio e poi suoni distorti, voci confuse. Quando tornai a osservare Miles per cercare di indovinare che cosa stesse guardando, vidi la sua espressione ed allora capii. Era lì, nei suoi occhi, nella curva della sua bocca, nel suo modo di stare seduto. Stava rivedendo dei vecchi filmini di famiglia. A quel punto, chiudendo gli occhi, riuscii a distinguere i suoni che provenivano dal nastro. Udii la voce di Miles che saliva e scendeva, poi le esclamazioni stridule di un bambino. Sullo sfondo, debole ma nitida, udii un'altra voce. La sua. Missy. Era sconvolgente, estranea, e per un attimo rimasi senza fiato. Dopo un anno trascorso a spiarli, pensavo ormai di conoscerli, ma quella voce cambiò tutto. In realtà non conoscevo Miles, non conoscevo Jonah. La mia assidua osservazione non aveva penetrato il mistero. Rimasi ad ascoltare, quasi ipnotizzato. La voce di lei si spense. Un attimo dopo la sentii ridere. La sua risata mi fece sussultare e i miei occhi si posarono immediatamente su Miles. Volevo vedere la sua reazione, anche se me la immaginavo già. Avrebbe avuto un'espressione persa, gli occhi pieni di lacrime di rabbia. Ma mi sbagliavo. Invece di piangere, sorrideva allo schermo con uno sguardo intenerito. Fu allora che compresi all'improvviso che era ora di smettere. Dopo quella visita, ero sinceramente convinto che non sarei più tornato lì. L'anno successivo mi sforzai di vivere la mia vita e ci riuscii, almeno superficialmente. La gente intorno a me sosteneva che avevo un aspetto migliore, che sembravo di nuovo quello di un tempo. Una parte di me ci credeva. Cessato l'impulso di spiarli, pensavo di essermi lasciato l'incubo alle spalle. Non avevo dimenticato quello che avevo fatto, ma sembrava svanita l'ossessione che mi aveva perseguitato per un anno. Allora non mi rendevo conto che il senso di colpa e l'angoscia non mi avevano mai abbandonato. Si erano semplicemente affievoliti, come un orso che va in letargo durante l'inverno, nutrendosi delle riserve accumulate nel suo corpo in attesa di risvegliarsi al ritorno della bella stagione. Capitolo ventinovesimo La domenica mattina, verso le otto, Sarah sentì bussare alla porta di casa. Dopo un attimo di esitazione, si alzò per andare ad aprire. Sperava che fosse Miles. E allo stesso tempo si augurava che non fosse lui. Mentre afferrava la maniglia, non sapeva ancora bene che cosa aspettarsi. Miles era già al corrente della sua telefonata a Charlie? Ed era arrabbiato? Offeso? Avrebbe capito le ragioni per cui lo aveva fatto? Dopo aver aperto l'uscio, le scappò un sorriso di sollievo. "Ehi, ciao, Brian", disse. "Che ci fai qui?" "Dovevo parlarti". "Va bene... entra". Lui la seguì in sala e si sedette sul divano. Sarah gli si mise accanto. "Allora, che succede?" domandò. "Alla fine, hai chiamato il capo di Miles, vero?" Sarah si sentì un po’ a disagio. "Già. Come hai detto tu, non avevo scelta". "Perché ritieni che lui darà la caccia al tizio che aveva arrestato", dichiarò Brian. "Non so che cosa farà, ma sono abbastanza preoccupata e vorrei impedirgli di commettere un errore". Fece un vago cenno d'assenso. "Lui sa della tua telefonata?" "Miles? Non ne ho idea". "Non gli hai più parlato?" "No, non lo sento da ieri. Ho cercato di chiamarlo un paio di volte, ma non era in casa". Brian si strizzò l'attaccatura del naso con le dita. "Devo sapere una cosa", disse. Nel silenzio della stanza, la sua voce risuonava stranamente amplificata. "Che cosa?" chiese lei, confusa. "Devo sapere se pensi davvero che Miles potrebbe spingersi oltre i limiti". Sarah si sporse in avanti. Cercò di indurlo a guardarla negli occhi, ma lui distolse lo sguardo. "Non sono capace di leggergli nel pensiero. Ma sono preoccupata, questo sì". "Allora dovresti dire a Miles di lasciar perdere". "Che cosa?" "Di lasciar perdere il tizio che aveva arrestato". Sarah lo guardò con aria interrogativa. Alla fine suo fratello si voltò verso di lei, gli occhi imploranti. "Devi assolutamente farglielo capire, d'accordo? Non riesci a rintracciarlo?" "Ci ho provato. Te l'ho detto". "Devi provarci di nuovo". Sarah si appoggiò allo schienale, accigliata. "Che succede, Brian?" "Ti ho solo chiesto di dirmi che cosa potrebbe fare Miles, secondo te". "Ma perché? Perché è così importante per te?" "E che cosa accadrebbe a Jonah?" Lei sbatté gli occhi. "Jonah?" "Miles penserebbe a lui, no? Prima di fare qualunque cosa". Sarah scrollò lentamente il capo. "Voglio dire, pensi che sarebbe disposto a rischiare di finire in prigione?" Lei gli prese le mani e gliele strinse con forza. "Aspetta un momento. Adesso smettila con tutte queste strane domande e dimmi: che ti succede?" Era giunto il tempo della verità, era quella la ragione per cui ero andato da lei. Era arrivato il momento di confessare. Ma allora, perché esitavo? Perché tutte quelle domande? Cercavo una via d'uscita, un'altra scusa per tenere tutto ancora sepolto? La parte di me che aveva mentito per due anni forse lo desiderava, ma sinceramente credo che la parte migliore volesse proteggere mia sorella. Dovevo prima essere sicuro di non avere scelta. Sapevo che le mie parole l'avrebbero ferita. Lei era innamorata di Miles. Li avevo visti il giorno del Ringraziamento, come si guardavano, come stavano bene insieme, il tenero bacio che mia sorella gli aveva dato prima che se ne andasse. Lei amava Miles e Miles la ricambiava me lo aveva detto lei stessa. E Jonah li amava entrambi. La sera prima mi ero reso conto che non potevo continuare a mantenere il segreto. Se lei era davvero convinta che Miles potesse agire impulsivamente, restando in silenzio, io correvo il rischio di rovinare altre vite. Missy era morta a causa mia; non potevo provocare un'altra inutile tragedia. Ma per salvarmi, per salvare un uomo innocente, per salvare Miles Ryan da se stesso, dovevo sacrificare mia sorella. Proprio lei, che aveva già vissuto tanti traumi, avrebbe dovuto affrontare Miles sapendo che era stato il suo stesso fratello a uccidere sua moglie... e di conseguenza avrebbe corso il rischio di perderlo. Infatti, come avrebbe potuto lui continuare a guardarla con amore? Era giusto sacrificarla? Era una spettatrice innocente; con le mie parole sarebbe rimasta irrevocabilmente intrappolata tra il suo amore per Miles Ryan e il suo amore per me. Ma per quanto volessi proteggerla, ormai non avevo scelta. Con voce roca, mi decisi a parlare. "So chi guidava l'auto quella notte", dissi. Lei mi fissò, come se faticasse a capire. "Tu sai chi era?" chiese poi. Annuii. Fu allora, nel lungo silenzio che precedette la sua domanda, che lei cominciò a intuire la ragione della mia visita. Capì che cosa stavo cercando di dirle. Si abbandonò in avanti sul divano, come un pallone che si sgonfia lentamente. Da parte mia, non smisi mai di guardarla. "Ero io, Sarah", sussurrai. "Ero io". Capitolo trentesimo A quelle parole Sarah si ritrasse, come se vedesse veramente il fratello per la prima volta. "Non volevo che accadesse, te lo giuro. Mi spiace tanto..." A Brian mancò la voce e si mise a piangere. Il suo non era un pianto silenzioso e trattenuto causato dalla tristezza, ma i singhiozzi disperati di un bambino. Le spalle erano scosse da violenti spasmi. Fino a quel momento, Brian non aveva mai versato lacrime per ciò che aveva fatto e adesso non voleva più fermarsi. Sconvolta dal dolore, Sarah lo abbracciò e quel contatto gli fece sembrare ancora più terribile il crimine che aveva commesso, perché capì che sua sorella lo amava ancora, nonostante tutto. Non gli disse niente, ma prese ad accarezzarlo dolcemente sulla schiena. Brian si abbandonò contro di lei, tenendola stretta, temendo che, quando l'avesse lasciata andare, tutto sarebbe cambiato tra di loro. Ma del resto sapeva che era già successo. Dopo un po', sfinito, cominciò a raccontarle com'era andata. Non le mentì. Però tralasciò di dirle delle visite notturne. Durante la sua confessione, Brian non la guardò mai negli occhi. Non voleva leggervi la pietà o il raccapriccio; non voleva sapere che immagine di sé gli avrebbero rimandato. Ma, alla fine della storia, si fece forza e si costrinse ad alzare la testa. Non vide né amore né perdono sul suo viso. Quello che vide fu la paura. Rimasero insieme tutta la mattina. Lei gli fece molte domande e Brian si sforzò di dare delle spiegazioni. La domanda cruciale però - perché non fosse mai andato dalla polizia - rimase senza una vera risposta: lui poté solo dire che era in stato di choc, spaventato, e che alla fine era passato troppo tempo. Come Brian aveva sempre fatto con se stesso, anche lei giustificò in parte la sua condotta e nel contempo la deplorò. Analizzarono più volte i fatti dall'inizio alla fine, poi Sarah rimase in silenzio e suo fratello capì che era giunto il momento di andarsene. Mentre si avviava alla porta, si girò a guardarla. La sorella piangeva in silenzio seduta sul divano, con il volto tra le mani, il corpo curvo e improvvisamente invecchiato. Capitolo trentunesimo Quella mattina, mentre Sarah piangeva sul divano, Charlie Curtis percorreva il vialetto della casa di Miles. Indossava l'uniforme; era la prima domenica da moltissimi anni che non avrebbe accompagnato Brenda a messa, ma come le aveva spiegato non poteva fare altrimenti. Non dopo le due telefonate ricevute il giorno prima. Non dopo essere rimasto alzato quasi tutta la notte a sorvegliare quella casa proprio a causa delle telefonate. Bussò; Miles venne ad aprirgli in jeans, felpa e berretto da baseball. Non mostrò di essere sorpreso della sua visita. "Dobbiamo parlare", disse Charlie senza preamboli. Miles si mise le mani sui fianchi, senza nascondere la rabbia che provava nei suoi confronti. "Parla, allora". Charlie si alzò la visiera del cappello. "Vuoi che restiamo qui in veranda, dove Jonah può sentirci, oppure che andiamo in giardino? Scegli tu. Per me fa lo stesso". Un minuto dopo lo sceriffo era appoggiato contro la macchina a braccia conserte ed il suo vice gli stava di fronte. Il sole era ancora basso sull'orizzonte e Miles era costretto a socchiudere gli occhi per guardare l'amico. "Devo sapere se sei andato a cercare Sims Addison", disse Charlie, andando subito al sodo. "È una domanda, oppure lo sai già?" "Te lo chiedo perché voglio vedere se sei capace di mentirmi guardandomi in faccia". Dopo un momento Miles distolse lo sguardo. "Sì, sono stato in giro a cercarlo". "Perché?" "Tu avevi detto che non riuscivi a trovarlo". "Sei sospeso, Miles. Sai che cosa significa?" "Non era un'azione ufficiale, Charlie". "Non importa. Ti avevo dato un ordine e tu lo hai trasgredito. Sei fortunato che Harvey Wellman non l'abbia scoperto. Ma non posso continuare a coprirti, sono troppo vecchio e stanco per continuare a rattoppare simili stronzate". Spostò il peso da una gamba all'altra, nel tentativo di riscaldarsi. "Ho bisogno del fascicolo, Miles". "Il mio fascicolo?" "Voglio che venga presentato come prova". "Prova? Di cosa?" "Riguarda la morte di Missy Ryan, giusto? Voglio vedere le informazioni che hai raccolto". "Charlie..." "Parlo sul serio. Puoi darmelo, altrimenti me lo prendo io. In un modo o nell'altro, l'avrò. Scegli tu". "Perché lo fai?" "Nella speranza che ti ritorni un po’ di buon senso nella zucca. È ovvio che non hai ascoltato una sillaba di quello che ti ho detto ieri, perciò te lo ripeto: stanne fuori. Lascia che siamo noi a occuparci del caso". "Bene". "Ora devi darmi la tua parola che la pianterai di cercare Sims e che starai alla larga da Otis Timson". "La città è piccola, Charlie. Non posso evitare che ci incrociamo". Lo sceriffo lo fissò, torvo. "Sono stanco di fare giochetti, Miles, quindi sarò chiaro. Se fai tanto di avvicinarti anche solo a cento metri da Otis, o da casa sua, oppure dai posti che frequenta, ti sbatto dentro". Miles lo guardò incredulo. "E con quale accusa?" "Per aggressione". "Aggressione?" "Quel colpo che gli hai fatto prendere in macchina..." Charlie scrollò il capo. "A quanto pare, non ti rendi proprio conto di essere in un mare di guai. Se non ti decidi a stare alla larga, finirai dietro le sbarre". "Ma è una follia..." "Hai fatto tutto da solo. In questo momento sei così infuriato che riesci solo a incasinare le cose. Sai dove sono stato stanotte?" Non aspettò la risposta. "Dentro la macchina parcheggiata proprio qui davanti, per assicurarmi che tu non uscissi di casa. E lo sai come mi sentivo a pensare che non posso più fidarmi di te dopo tutto quello che abbiamo passato insieme? È una sensazione di merda, e poi non voglio più farlo. Quindi, se non ti dispiace, visto che non posso obbligarti, ti sarei grato se assieme al fascicolo mi consegnassi anche le altre pistole... quelle che hai in casa. Le potrai riavere quando sarà tutto finito. Se ti rifiuti, posso metterti sotto sorveglianza e stai pur certo che lo farò. Non potrai nemmeno uscire a berti una tazza di caffè in pace senza che qualcuno controlli le tue mosse. E ti avverto che ho messo degli agenti di guardia dai Timson, che mi avviseranno se vedono la tua faccia da quelle parti". Miles teneva gli occhi ostinatamente fissi a terra. "Era lui a guidare l'auto, Charlie". "Lo pensi davvero? Oppure ti stai aggrappando a una risposta... una qualsiasi?" "Questo non è giusto". "Ah, no? Senti, ho parlato con Earl. Ho ricontrollato ogni fase dell'indagine della stradale. E ti dico che non ci sono prove documentali che leghino Otis al delitto". "Le troverò io, le prove..." "No, invece!" ribatté lo sceriffo. "È proprio questo il punto! Non troverai un bel niente, perché sei fuori dalla storia!" Miles non replicò e dopo un po’ Charlie gli mise una mano sulla spalla. "Senti, stiamo ancora esaminando il caso... hai la mia parola". Fece un lungo sospiro. "Non so... magari troveremo qualcosa. E allora sarò il primo a scusarmi con te, e allora Otis avrà quello che si merita. D'accordo?" Miles strinse involontariamente la mascella, mentre l'amico aspettava una sua risposta. Alla fine, intuendo che non sarebbe arrivata, Charlie proseguì. "So quanto è difficile..." A queste parole Miles si scrollò via la mano dell'amico e lo fissò, con un lampo d'ira negli occhi. "No, che non lo sai", sbottò, "e non lo saprai mai. Brenda è ancora viva, no? Quando ti svegli lei è nel tuo letto, puoi chiamarla tutte le volte che vuoi. Nessuno l'ha investita a sangue freddo, nessuno poi se l'è cavata per anni. E bada a quello che ti dico, Charlie, nessuno se la caverà adesso". Nonostante quella sfuriata, dieci minuti dopo lo sceriffo se ne andava con il fascicolo e le armi. Nessuno dei due disse più una parola in proposito. Non ce n'era bisogno. Charlie stava facendo il suo lavoro. E Miles avrebbe fatto il suo. Una volta sola, Sarah era rimasta seduta in salotto in uno stato di totale apatia. Non si era mossa dal divano nemmeno dopo aver smesso di piangere, perché intuiva che anche il minimo movimento avrebbe mandato in frantumi il suo precario autocontrollo. Era tutto privo di senso. Non aveva l'energia per districare le sue emozioni, che formavano una massa unica e aggrovigliata. Si sentiva incapace di agire, come se dentro di lei fosse scattato un interruttore di sicurezza dopo un cortocircuito. Com'era potuto succedere? Non l'incidente stradale causato da Brian... quello poteva capirlo, purtroppo. Ma il suo comportamento successivo era stato assurdo, orribile, da qualsiasi punto di vista lo si valutasse. Però si era trattato di un incidente. Era certa che suo fratello avesse fatto di tutto per evitarlo. In un batter d'occhio, Missy Ryan era morta. Missy Ryan. La madre di Jonah. La moglie di Miles. Era questo a non avere senso. Perché Brian aveva investito proprio lei? E perché, fra tutte le persone al mondo, era stato proprio Miles a entrare nella sua vita? Era quasi incredibile e, mentre stava seduta sul divano, si sentiva ancora in balìa delle emozioni scatenate dalla rivelazione... l'orrore e la pena per la confessione di Brian e i suoi inevitabili sensi di colpa... la rabbia e il rifiuto per il fatto che avesse tenuto nascosta la verità, e dall'altra parte la profonda consapevolezza che avrebbe continuato ad amare comunque suo fratello... E Miles... Oddio, Miles... E adesso che cosa doveva fare? Informarlo subito di ciò che sapeva? Oppure aspettare di ritrovare la calma per pensare alle parole più giuste per dirglielo? Aspettare, come ha fatto mio fratello? Oddio... Che cosa sarebbe successo a Brian? Finirà in prigione... L'idea la faceva stare male. Certo, però era quello che si meritava, pur essendo suo fratello. Aveva infranto la legge e doveva pagare. Oppure no? Era il suo fratellino, poco più di un ragazzo all'epoca dell'incidente, e non era stata colpa sua. Scrollò la testa, rimpiangendo di colpo che Brian avesse voluto confidarsi con lei. In cuor suo, però, intuiva il motivo della sua confessione. Miles aveva pagato per due anni un duro prezzo a causa del suo silenzio. E adesso rischia di pagare anche Otis. Respirò a fondo, portandosi le dita alle tempie che pulsavano. No, Miles non sarebbe arrivato a tanto. Oppure sì? Forse non ora, però si torturerà finché crederà che Otis sia colpevole e magari un giorno potrebbe anche... Scrollò la testa, per scacciare il pensiero. Non sapeva che cosa fare e non era ancora giunta a nessuna risposta quando Miles bussò alla porta. "Ciao", la salutò. Sarah lo guardò, scioccata, con la mano stretta attorno alla maniglia. Era tesa, aveva la mente piena di pensieri contrapposti. Diglielo subito, almeno così la fai finita. Prima aspetta di trovare le parole giuste. "Stai bene?" le chiese, un po’ perplesso. "Oh... sì... hmm..." balbettò lei. "Entra". Si fece da parte e Miles si richiuse la porta alle spalle. Ebbe un momento di esitazione, poi andò alla finestra, tirò le tende e scrutò la strada di sotto, quindi fece un giro per il salotto, chiaramente distratto. Si fermò davanti alla mensola del caminetto a sistemare una foto di Sarah con la famiglia, in modo che fosse rivolta verso la stanza. Lei si era fermata al centro del salotto, immobile. Era una situazione surreale. Guardandolo, tutto quello a cui riusciva a pensare era che sapeva chi aveva ucciso sua moglie. "È passato Charlie da me stamattina", disse lui d'improvviso, e il suono della sua voce la riportò alla realtà. "Ha preso il fascicolo che avevo sul caso di Missy". "Mi spiace". Era ridicolo, ma era la prima e unica frase che le fosse venuta in mente. Miles non sembrò farci caso. "Mi ha anche detto che mi farà arrestare se mi avvicinerò a Otis". Questa volta Sarah rimase zitta. Era venuto a sfogarsi; la sua posa difensiva lo diceva apertamente. Miles si voltò verso di lei. "Ma ci pensi? Io non ho fatto altro che arrestare il tizio che ha ucciso mia moglie... e tu guarda che cosa mi succede". Sarah chiamò a raccolta le forze per mantenere il controllo dei nervi. "Mi spiace", ripeté una seconda volta. "Anche a me". Miles scrollò il capo. "Non posso cercare Sims. Non posso cercare prove. Non posso fare niente". Lei si schiarì la gola, alla ricerca di una via d'uscita. "Ecco... non credi che sarebbe una buona idea? Almeno per un po', cioè", disse. "Per niente, invece. Cristo, sono l'unico che abbia continuato a fare ricerche dopo la chiusura delle indagini. Ne so più di chiunque altro su questo caso". No, Miles, ti sbagli. "E allora che cosa farai?" gli chiese. "Non lo so". "Darai ascolto a Charlie, però, vero?" Lui distolse lo sguardo, rifiutandosi di rispondere e Sarah sentì un nodo allo stomaco. "Ascolta, Miles", disse, "so che non ti fa piacere sentirtelo dire, ma io penso che Charlie abbia ragione. Lascia che sia lui a occuparsi di Otis". "E perché? Per dargli una seconda possibilità di rovinare tutto?" "Non ha rovinato tutto". Gli occhi di Miles furono attraversati da un lampo. "Ah, no? E allora perché Otis è ancora libero? Perché è toccato a me trovare due persone che lo accusassero? Perché non si sono impegnati di più a trovare delle prove quando è successo il fatto?" "Forse perché non ce n'erano", rispose lei a bassa voce. "Perché continui a fare la parte dell'avvocato del diavolo?" domandò lui. "Hai fatto lo stesso anche ieri". "Non è vero". "Sì, invece. Non hai ascoltato nemmeno una parola di quello che ti stavo dicendo". "Non volevo che tu facessi qualcosa..." Lui alzò le mani. "Sì... lo so. Tu e Charlie. Sembra che non vi rendiate conto dell'inferno che sto passando". "Ma certo che me ne rendo conto", replicò lei, cercando di mantenere ferma la voce. "Tu pensi che Otis sia colpevole, e vuoi vendicarti. Ma che succederebbe se tra un po' scoprissi che Sims ed Earl si sbagliavano in qualche modo?" "Si sbagliavano?" "A proposito di quello che hanno sentito..." "Pensi che mentano? Tutti e due?" "No, sto solo dicendo che forse hanno sentito male. Forse Otis ha effettivamente pronunciato quelle frasi, ma non diceva sul serio. Forse non è stato lui". Per un attimo Miles rimase troppo sbigottito per parlare. Sarah ne approfittò per continuare, nonostante il groppo in gola. "Voglio dire, e se alla fine scoprissi che Otis è innocente? Cioè, so che voi due non andate d'accordo..." "Non andiamo d'accordo?" ripeté lui, interrompendola. La guardò intensamente prima di fare un passo verso di lei. "Ma si può sapere che cosa stai dicendo? Lui ha ucciso mia moglie, Sarah". "Non lo sai di sicuro". "Sì, che lo so". Le andò ancora più vicino. "Quello che non capisco è perché tu sia tanto convinta della sua innocenza". Lei deglutì. "Non sto dicendo questo. Solo che sarebbe meglio che fosse Charlie a occuparsi di Otis, in modo che tu non possa fare niente..." "Che cosa, per esempio? Ucciderlo?" Sarah non rispose e Miles le si piazzò davanti. Aveva la voce stranamente calma. "Come lui ha ucciso mia moglie?" Lei sbiancò in viso. "Non parlare così. Devi pensare a Jonah". "Non tirare in ballo mio figlio adesso". "Però è così. Tu sei tutto quello che ha". "E pensi che non lo sappia? Che cosa credi che mi abbia impedito di premere il grilletto? Ne avevo l'occasione, ma non l'ho fatto, ricordi?" Miles soffiò fuori l'aria con forza mentre girava di lato la testa, come se ora fosse deluso di essersi fermato. "Sì, volevo ucciderlo. Penso che se lo meriti... occhio per occhio, giusto?" Scrollò il capo e tornò a guardarla. "Voglio che paghi. E pagherà. In un modo o nell'altro". Furioso, si avviò all'ingresso e uscì sbattendo la porta. Capitolo trentaduesimo Sarah quella notte non dormì. Avrebbe perso il fratello. E avrebbe perso anche Miles. Mentre era a letto, ripensò alla prima volta che loro due avevano fatto l'amore in quella stanza. Ricordava tutto... il modo in cui lui l'aveva ascoltata quando gli aveva confidato che non poteva avere figli, la sua espressione quando le aveva detto di amarla, i loro sussurri nella notte, dopo che i corpi erano appagati, e il senso di pace che dopo tanto tempo aveva provato tra le sue braccia. Sembrava tutto così giusto, addirittura perfetto. A mano a mano che trascorrevano le ore si sentiva più confusa; passato lo sgomento, adesso che era in grado di pensare razionalmente, l'unica certezza era che, qualunque decisione avesse preso, niente sarebbe più stato come prima. Era finita. Se non l'avesse detto a Miles, come avrebbe avuto il coraggio di guardarlo ancora in faccia? Non riusciva ad immaginare lui e il figlio seduti a casa sua ad aprire i regali sotto l'albero di Natale, mentre lei e Brian sorridevano come se nulla fosse. Non avrebbe potuto scherzare allegramente con Jonah, sapendo che Brian aveva ucciso sua madre. No, certo, era impensabile. Miles era tutto preso dalla sua fissazione di farla pagare a Otis, e lei doveva dirgli la verità, non fosse altro che per evitare che commettesse un tragico errore. E, soprattutto, lui aveva il diritto di sapere la verità sulla morte di sua moglie. Di vedere sciolto il mistero che lo aveva angosciato per anni. Ma poi che cosa avrebbe fatto? Avrebbe ascoltato la storia di Brian e alla fine lo avrebbe perdonato? Improbabile. Suo fratello aveva infranto la legge e, una volta che lei avesse parlato, sarebbe stato arrestato. I loro genitori sarebbero rimasti devastati dal dolore. Miles non le avrebbe più rivolto la parola e lei avrebbe perso per la seconda volta nella sua vita l'uomo che amava. Sarah chiuse gli occhi. Santo cielo, avrebbe potuto benissimo vivere senza conoscere Miles. Ma innamorarsi di lui, per poi perderlo in quel modo? E che cosa sarebbe successo a Brian? No, no, non poteva immaginarsi suo fratello in prigione. Le venne la nausea. Si alzò dal letto, infilò un paio di pantofole ed andò in salotto, alla disperata ricerca di qualcos'altro a cui pensare. Ma anche lì fu assalita dai ricordi e capì, con improvvisa chiarezza, quale fosse il suo dovere. Per quanto le risultasse penoso, non vedeva altra via d'uscita. Quando squillò il telefono il mattino dopo, Brian alzò subito la cornetta prima che la madre potesse rispondere. Era certo che fosse Sarah. Lei andò dritta al punto; lui l'ascoltò in silenzio. Pochi minuti dopo uscì e si diresse alla macchina, lasciando le sue impronte sul sottile strato di neve. Mentre guidava, pensò a quello che aveva detto alla sorella il giorno prima. Quando aveva deciso di confidarsi con Sarah, sapeva che lei non avrebbe potuto mantenere il suo segreto. Sapeva che, nonostante l'ansia per il destino del fratello, per il suo futuro con Miles, lei gli avrebbe detto di costituirsi. Era nella sua natura; sua sorella aveva sperimentato sulla propria pelle che cosa significava essere traditi e ora restare in silenzio sarebbe stato il tradimento della peggior specie. Era proprio quello il motivo per cui aveva parlato con lei, pensò Brian. La scorse mentre stava parcheggiando, all'esterno della chiesa episcopale dove tanto tempo prima lui aveva assistito al funerale di Missy. Sarah era seduta su una panca rivolta verso un piccolo cimitero, tanto vecchio che la maggior parte delle scritte sulle lapidi era stata cancellata dallo scorrere dei secoli. La osservò ancora prima di uscire dalla macchina. Sua sorella aveva l'aria sperduta, come nel periodo del naufragio del suo matrimonio. Aveva sentito il rumore della macchina che si fermava e si era girata a guardarlo, ma senza fare un cenno di saluto. Un attimo dopo Brian le era seduto accanto. Sarah doveva essersi data malata. La scuola dove insegnava, a differenza dell'università, restava aperta ancora una settimana prima delle vacanze di Natale. Mentre stava seduto lì, Brian non poté fare a meno di chiedersi che cosa lui avrebbe fatto se il giorno del Ringraziamento non avesse trovato Miles a casa sua, oppure se Otis Timson non fosse stato arrestato al suo posto. "Non so più cosa pensare", mormorò lei dopo un po'. "Sono desolato", disse lui piano. "E fai bene". Brian colse la nota di amarezza nella sua voce, ma restò in silenzio. "Non voglio riascoltare tutto di nuovo, ma devo essere sicura che tu mi abbia detto la verità". Si voltò a guardarlo. Aveva le guance arrossate dal freddo, come se qualcuno gliele avesse pizzicate. "Era la verità". "Tutta quanta, Brian? È stato proprio un incidente?" "Sì". Lei annuì, anche se quella risposta non parve confortarla. "Non ho dormito stanotte", dichiarò. "A differenza di te, non riesco a far finta di niente". Brian non rispose. Non c'era nulla da dire. "Perché non sei venuto da me?" chiese lei alla fine. "Subito dopo che era successo, intendo". "Non potevo", rispose Brian. Il giorno prima gli aveva fatto la stessa domanda e lui aveva risposto nello stesso modo. Lei rimase in silenzio per un po'. "Devi dirglielo", dichiarò guardando verso il cimitero. La sua voce era un fioco sussurro. "Lo so", bisbigliò lui. Sarah chinò la testa e il fratello scorse le lacrime nei suoi occhi. Era preoccupata per lui, ma non era quello che la faceva piangere. Seduto accanto a lei, Brian comprese che piangeva per se stessa. Andarono insieme a casa di Miles. Mentre lei guidava, Brian guardava fuori dal finestrino. Il movimento fluido della macchina sembrava prosciugarlo di ogni energia, ma si sentiva stranamente distaccato. Aveva passato il fardello delle sue paure sulle spalle della sorella. Attraversarono il ponte, poi svoltarono in Madame Moorè s Lane, seguendo le curve fino al vialetto d'accesso della casa. Sarah posteggiò accanto al pick-up e spense il motore. Silenzio. Non scese subito dall'auto, ma rimase seduta con le chiavi in grembo. Fece un respiro profondo, poi si girò a guardarlo. La sua bocca era piegata in un forzato sorriso di sostegno, poi tornò seria. Infilò le chiavi nella borsa e Brian aprì la portiera. Si avviarono fianco a fianco verso l'ingresso. Sarah si fermò sui gradini e Brian lanciò un'occhiata fugace alla veranda, dove si era appostato tante volte. Capì che avrebbe confessato a Miles il suo crimine, ma avrebbe tralasciato il resto, come aveva fatto con la sorella. Sarah si ricompose, andò alla porta e bussò. Qualche istante dopo il padrone di casa venne ad aprire. "Sarah... Brian..." disse. "Ciao, Miles", rispose lei. La sua voce era sorprendentemente ferma. All'inizio nessuno si mosse. Ancora turbati per la discussione del giorno prima, Miles e Sarah rimasero a guardarsi, finché lui non fece un passo indietro. "Entrate", disse con un cenno della mano. Poi richiuse la porta dietro di loro. "Posso offrirvi qualcosa da bere?" "No, grazie". "E tu, Brian?" "No, grazie. Sto bene così". "Che cosa succede?" Sarah sistemò distrattamente la patta della borsa. "C'è qualcosa che io... cioè che noi dobbiamo dirti", rispose imbarazzata. "Possiamo sederci?" "Certo", disse Miles, indicando loro il divano. Sarah e il fratello si misero seduti accanto, e Miles si accomodò di fronte in poltrona. Brian fece un profondo respiro, preparandosi a parlare, ma lei lo precedette. "Senti, Miles... prima di cominciare voglio che tu sappia che io non avrei mai voluto trovarmi nelle condizioni di dover venire qui. Cerca di tenerlo a mente, va bene? Non è facile per nessuno di noi". "Ma che succede?" chiese di nuovo lui, perplesso. Sarah guardò il fratello, fece un cenno e Brian di colpo si sentì la gola secca. Deglutì. "È stato un incidente", esordì. E con questo, le parole si riversarono fuori come un torrente, nell'ordine in cui lui le aveva ripetute mentalmente centinaia di volte. Brian raccontò automaticamente di quella sera di due anni prima, senza tralasciare nulla. La sua mente, però, era concentrata sulle reazioni di Miles. Dapprincipio non ce ne fu nessuna. Non appena Brian cominciò a parlare, Miles si rilassò per comunicare la sua intenzione di ascoltare obiettivamente, senza interrompere, come gli era stato insegnato nella polizia. Sapeva che il ragazzo stava facendo una confessione ed aveva imparato che un tranquillo silenzio era il modo migliore per ottenere una versione chiara e puntuale degli avvenimenti. Solo dopo un po', quando Brian pronunciò il nome del Rhett" s Barbecue, cominciò a realizzare a che cosa stava riferendosi. E allora arrivò lo choc. Mentre l'altro parlava, Miles raggelò, aveva il volto cereo. Le sue mani si strinsero per riflesso sui braccioli. Brian proseguì, descrivendo il momento dell'incidente mentre la sorella tratteneva il fiato. Arrivò fino alla sua decisione di non costituirsi presa la mattina dopo, quando aveva letto il giornale in cucina. Brian tacque, e Miles rimase immobile come una statua per assorbire tutte le sue parole. Poi lo guardò come se lo vedesse per la prima volta. E Brian sapeva che in un certo senso era così. "Un cane?" gli chiese infine, roco. La sua voce era bassa e affannata. "Stai dicendo che lei è balzata all'improvviso davanti alla tua macchina a causa di un cane?" "Sì", confermò Brian, annuendo. "Un cane nero. Grosso. Non ho potuto fare nulla per evitarla". Miles socchiuse leggermente gli occhi, cercando di mantenersi calmo. "Allora perché sei fuggito?" "Non lo so", fu la risposta. "Non so ancora spiegarmene la ragione. So solo che a un certo punto mi sono ritrovato in macchina". "Così non ti ricordi". La rabbia nella voce di Miles era evidente, a stento trattenuta. Minacciosa. "No, quella parte non la ricordo". "Invece il resto sì. Ricordi tutto il resto di quella sera". "Sì". "Adesso dimmi il vero motivo per cui sei scappato". Sarah allungò la mano per toccargli il braccio. "Ti sta dicendo la verità, Miles. Credimi... non mentirebbe mai su una cosa del genere". Miles si scrollò di dosso la sua mano. "Non preoccuparti, Sarah", intervenne Brian. "Può farmi tutte le domande che vuole". "E hai dannatamente ragione. Avanti!" disse Miles, con voce sempre più cupa. "Non ricordo perché sono scappato", ripeté Brian. "Come ho detto, non ricordo nemmeno di essermene andato. Mi sono ritrovato al volante e basta". Miles si alzò dalla poltrona, furente. "E ti aspetti che io ti creda?" esclamò. "Vorresti convincermi che è stata colpa di Missy?" "Ascolta!" disse Sarah, intervenendo a difesa del fratello. "Ti ha raccontato com'è successo! Non sta cercando di discolparsi!" Miles si girò di scatto a guardarla. "Perché diavolo dovrei credergli?" "Perché è qui? Perché voleva che tu sapessi la verità". "Vuole che sappia la verità due anni dopo? E come fai tu a sapere che è la verità?!" Miles fece un passettino indietro. Spostò freneticamente lo sguardo da Sarah a Brian e viceversa, mentre rifletteva in fretta sul significato delle frasi che aveva appena sentito. Sarah sapeva perfettamente che cosa avrebbe detto il fratello... Il che significava, pensò... che sapeva già che Otis era innocente. Aveva cercato più volte di dissuaderlo. Lascia che se ne occupi Charlie, aveva suggerito. E se Sims ed Earl si sbagliassero? Gli aveva detto così perché sapeva che il colpevole era Brian. Aveva senso, giusto? Non aveva sempre dichiarato di essere molto attaccata al fratello? Non aveva sostenuto che tra loro c'era grande confidenza? I pensieri di Miles, alimentati e accelerati dall'adrenalina, balzavano da una conclusione all'altra. Lei sapeva, ma non gli aveva detto niente. Sapeva e... e... Miles scrutò Sarah. Si era offerta spontaneamente di aiutare Jonah negli studi: una cosa un po’ insolita, no? E non era diventata anche amica sua? Era uscita con lui, lo aveva ascoltato pazientemente, aiutandolo a riprendersi, a lasciarsi alle spalle il passato. I lineamenti di Miles erano contorti dalla rabbia. Lei lo ha sempre saputo. Lo aveva usato, per lenire i suoi sensi di colpa. Tutta la loro storia sentimentale si basava sulle menzogne. Mi ha tradito. Era immobile, paralizzato dalla furia. Nel silenzio della stanza, Brian udì lo scatto della caldaia che entrava in funzione. "Tu sapevi", disse infine Miles con voce gelida. "Sapevi che era stato tuo fratello a uccidere Missy, vero?" In quell'istante Brian comprese che tra Sarah e Miles era finita, e che nella sua mente lui aveva già cancellato la loro storia. Sua sorella, invece, sembrava confusa e rispose con semplicità alla domanda. "Naturale. È per questo che l'ho portato qui". Miles alzò la mano per bloccarla, puntandole contro il dito. "No, no... tu sapevi che era stato lui e non me lo hai detto... ecco perché sostenevi che Otis poteva essere innocente ecco perché continuavi a dirmi che dovevo dare retta a Charlie..." Solo allora Sarah si rese conto delle implicazioni di quel ragionamento e cominciò a scrollare il capo energicamente. "No... aspetta... non capisci..." Miles la interruppe, rifiutandosi di ascoltare. "Tu lo hai sempre saputo..." "No". "Lo sapevi fin da quando ci siamo conosciuti". "No". "Per questo ti sei offerta di aiutare Jonah". "No". Per un attimo sembrò che Miles volesse colpirla, ma sfogò altrove la sua collera, rovesciando il tavolo e facendo cadere a terra la lampada. Sarah si ritrasse spaventata e Brian si alzò per andarle vicino, ma Miles lo afferrò alle spalle e lo fece girare su se stesso. Poi gli torse il polso all'indietro verso le scapole. Sarah si allontanò istintivamente da loro prima ancora di capire che cosa stesse succedendo. Brian non oppose resistenza, mentre il dolore gli saliva fino alla spalla. Fece una smorfia e chiuse gli occhi senza protestare. "Fermati! Gli fai male!" gridò allora Sarah. Miles alzò imperiosamente una mano verso di lei. "Tu non ti immischiare!" "Perché fai così! Non c'è bisogno di essere violenti!" "È in arresto!" "È stato un incidente, hai capito?!" Miles però non ragionava più e torse di nuovo il braccio a Brian, sospingendolo verso la porta d'ingresso. Il ragazzo inciampò e lui lo afferrò, affondandogli le dita nella carne. Lo spinse brutalmente contro il muro mentre prendeva le manette appese a un gancio accanto alla porta. Gliele infilò ai polsi e le fece scattare. "Miles! Aspetta!" supplicò Sarah. Lui aprì la porta e spinse fuori Brian. "Non capisci!" Miles la ignorò. Afferrò il ragazzo per un braccio e lo trascinò verso la macchina. Sarah li raggiunse di corsa. "Miles!" Lui si voltò. "Voglio che tu esca dalla mia vita!" sibilò con un tale odio nella voce che lei si bloccò, sbigottita. "Mi hai tradito", continuò. "Mi hai usato". Non aspettò che gli rispondesse. "Volevi cercare di rimettere a posto le cose... non per me e Jonah, ma per te e Brian. Pensavi che, così facendo, ti saresti sentita un po’ meglio". Lei impallidì, senza riuscire a parlare. "Lo sapevi fin dall'inizio", insisté Miles. "Ed eri pronta a tenermi nascosta la verità, finché non ha rischiato di andarci di mezzo qualcun altro". "No, non è andata così..." "Smettila di mentirmi!" urlò lui. "Non ti vergogni di te stessa?" Quella domanda la ferì profondamente e lei reagì d'istinto. "Tu, tu... stai sbagliando tutto e non te ne frega niente". "Non me ne frega? Non sono io quello che ha sbagliato, qui". "E neppure io". "E ti aspetti che ti creda?" "È la verità!" Brian vide che, nonostante la rabbia, gli occhi le si riempivano di lacrime. Miles si fermò automaticamente, ma non mostrò segno di compassione. "Tu non sai nemmeno che cosa sia la verità". Detto questo, aprì la portiera della macchina, spinse dentro Brian, poi la sbatté e tirò fuori le chiavi di tasca mentre si sedeva al volante. Sarah era troppo sbigottita per aggiungere altro. Rimase ferma ad osservare Miles mettere in moto, premere l'acceleratore e partire. Le gomme fischiarono quando la macchina raggiunse la strada a marcia indietro. Capitolo trentatreesimo Miles guidava a scatti, pigiando l'acceleratore e schiacciando il freno con forza come se volesse metterli alla prova, per vedere quale dei due pedali si sarebbe rotto prima. Brian, con le braccia ammanettate dietro la schiena, rischiò di rotolare giù dal sedile posteriore più di una volta durante le curve. Nello specchietto retrovisore vedeva il muscolo del mento di Miles contrarsi e rilassarsi ritmicamente, come se qualcuno azionasse un interruttore. Ogni tanto i loro sguardi si incontravano. Brian leggeva la rabbia nei suoi occhi, ma anche un'angoscia che gli ricordava la sua espressione durante il funerale di Missy, quando era rimasto lì seduto a cercare invano di dare un senso all'accaduto. E forse ora l'uomo provava dolore sia per Missy sia per Sarah, le due donne che aveva perduto. Con la coda dell'occhio Brian osservava gli alberi sfrecciargli accanto fuori dal finestrino. La strada faceva un'altra curva e ancora una volta Miles la imboccò senza rallentare. Brian cercò di fare leva sui piedi, ma scivolò lo stesso verso la portiera. Sapeva che in pochi minuti avrebbero raggiunto il luogo dove era avvenuto l'incidente che era costato la vita a Missy. La chiesa della comunità del Buon Pastore si trovava a Pollocksville e Bennie Wiggins, che era il conducente del furgoncino della parrocchia, non aveva mai preso neppure una multa per eccesso di velocità nei suoi cinquantaquattro anni di guida. Bennie ne andava molto fiero e si offriva spesso volontario per andare a fare delle piccole commissioni. Quella mattina il reverendo gli aveva chiesto di recarsi a New Bern a ritirare le donazioni di cibo e di vestiario raccolte nel fine settimana e lui aveva prontamente accettato. Era arrivato in città, aveva preso una tazza di caffè con un paio di paste mentre aspettava che venisse caricato il furgoncino, poi aveva ringraziato tutti per la collaborazione e si era rimesso al volante per tornare alla parrocchia. Mancavano pochi minuti alle dieci, quando aveva imboccato Madame Moorè s Lane. Accese la radio, nella speranza di trovare un programma di musica gospel che gli allietasse il viaggio di ritorno. La strada era bagnata, ma lui armeggiò lo stesso con la manopola della sintonia. Non poteva sapere che a poca distanza, ma ancora fuori di vista, una macchina stava sopraggiungendo velocemente nella sua direzione. "Mi spiace", disse Brian dopo un po', "non avrei mai voluto che succedesse". Sentendo la sua voce, Miles guardò nello specchietto, ma invece di rispondere, aprì il finestrino facendo entrare l'aria gelida. Brian si rannicchiò su se stesso, con la giacca sbottonata che si agitava mossa dal vento. Nello specchietto, vide gli occhi di Miles che ora lo fissavano carichi di odio. Sarah svoltò alla stessa velocità di Miles, nella speranza di raggiungere la sua macchina. Lui aveva un po’ di vantaggio... non molto, forse un paio di minuti, ma a cosa corrispondevano? Un chilometro? Di più? Non ne era sicura e, arrivata ad un rettilineo, pigiò ancora l'acceleratore. Doveva assolutamente sbrigarsi. Non poteva lasciare Brian in balia di quel pazzo, aveva visto la furia incontrollata negli occhi di Miles e aveva sentito come si era comportato con Otis. Voleva essere presente quando avesse consegnato Brian alle autorità, ma il problema era che non sapeva dove diavolo si trovasse il dipartimento dello sceriffo. Sapeva dov'era il commissariato, il tribunale, persino il municipio, dal momento che erano tutti in centro. Ma non era mai stata al dipartimento. Doveva essere da qualche parte alla periferia della contea. Poteva fermarsi a telefonare, oppure consultare una guida telefonica in qualche bar, ma così facendo avrebbe perso altro tempo, pensò tutta agitata. Si sarebbe fermata solo se fosse stato proprio necessario. Se non lo raggiungeva in un paio di minuti... Pubblicità. Bennie Wiggins scrollò la testa. Pubblicità su pubblicità. Era tutto quello che trasmettevano le radio di questi tempi. Addolcitori per acqua, autoconcessionari, sistemi d'allarme... dopo ogni canzone, sentiva la stessa litania di annunci che reclamizzavano i prodotti più diversi. Il sole cominciava a spuntare dietro la cima degli alberi e il riverbero accecante della neve colse Bennie di sorpresa. Socchiuse gli occhi e abbassò il parasole, mentre la radio taceva per un istante. Un'altra pubblicità, questa volta di un nuovo, fantastico metodo per insegnare a leggere ai bambini. Bennie girò un'altra volta la manopola, posando lo sguardo sulla radio, senza accorgersi che il furgoncino aveva cominciato a dirigersi verso il centro della strada... "Sarah non lo sapeva", disse Brian rompendo ancora il silenzio. "Lei era all'oscuro di tutto". A causa del rumore del vento, non era certo che Miles riuscisse a sentirlo, ma doveva tentare lo stesso. Era la sua ultima occasione di parlargli da solo. Qualunque avvocato suo padre avesse ingaggiato gli avrebbe consigliato di non aggiungere una parola a quello che aveva già detto e probabilmente il vicesceriffo avrebbe ricevuto l'ordine di tenersi alla larga da lui. Miles doveva sapere la verità su Sarah. Non tanto per il futuro - per come la vedeva, per loro due non c'erano più possibilità - ma perché non sopportava l'idea che lui odiasse sua sorella. Sarah proprio non se lo meritava. E non c'entrava niente con tutta quella storia. "Non mi aveva mai detto con chi usciva. Io ero via all'università e ho scoperto solo il giorno del Ringraziamento che eri tu. Ma non le ho raccontato dell'incidente fino a ieri. Fino ad allora lei non sapeva niente. So che non mi vuoi credere..." "Pensi che dovrei?" sbottò Miles. "Lei non sapeva niente", ripeté Brian. "Non ti mentirei su questo". "E allora su cosa mentiresti?" Brian si pentì delle sue parole non appena le ebbe pronunciate e provò un brivido freddo mentre immaginava la risposta. Il funerale. I sogni. Lo spiare Jonah a scuola. Il guardarti di nascosto in casa vostra... Scrollò la testa per scacciare il pensiero. "Sarah non ha fatto niente di male", disse, eludendo la domanda. Ma Miles non mollò. "Rispondimi. Su che cosa mentiresti? Il cane, forse?" "No". "Missy non balzò all'improvviso davanti alla tua macchina". "Invece sì. Ma non poté fare altro. È stato un incidente. Non è stata colpa di nessuno. È successo e basta". "NO, CHE NON LO è STATO!" esclamò Miles, voltandosi. Nonostante il fragore del vento che proveniva dai finestrini aperti, la sua voce rimbombò nell'abitacolo. "Eri distratto e l'hai investita!" "No", ripeté Brian. Miles lo intimoriva meno di quanto avrebbe potuto. Si sentiva calmo, come un attore che recita la sua parte a memoria. Non aveva paura. Provava soltanto un senso di totale sfinimento. "E successo proprio come te l'ho raccontato". Miles gli puntò contro il dito, girandosi quasi sul sedile. "L'hai investita e sei scappato via lasciandola lì a morire!" "No... mi sono fermato. E quando l'ho trovata..." Brian si interruppe. Con gli occhi della mente rivide Missy, distesa nel fosso, il corpo in quella posa innaturale. Che lo fissava. Che fissava il nulla. "Stavo male, mi sembrava di morire". Fece una pausa, voltando dall'altra parte la testa. "Le ho messo sopra una coperta", mormorò. "Non volevo che altri la vedessero in quel modo". Alla fine Bennie Wiggins trovò una canzone che gli piaceva. Il riverbero del sole sulla neve era molto forte e, tornando a guardare davanti a sé, si accorse di dov'era finito il furgoncino. Raddrizzò il volante e tornò nella sua carreggiata. La macchina sull'altra corsia era vicina. Ma lui non l'aveva ancora scorta. Miles ebbe un sussulto quando lui menzionò la coperta e per la prima volta Brian comprese che lo stava ascoltando sul serio, nonostante le sue proteste. Allora continuò a parlare, senza curarsi più di niente, della prudenza, del freddo pungente. Senza curarsi del fatto che l'attenzione di Miles era tutta rivolta a lui, anziché alla strada. "Avrei dovuto telefonare allora, quella notte, subito dopo essere tornato a casa. Ho sbagliato, non ho scusanti e mi spiace. Mi spiace per tutto il dolore che ho causato a te e a Jonah". Brian aveva l'impressione che la sua voce appartenesse a un altro. "Allora non sapevo che tenermelo dentro sarebbe stato molto peggio. Mi ha divorato vivo. So che non vuoi credermi, ma è così. Non riuscivo a dormire, non riuscivo a mangiare..." "Non me ne importa!" "Non riuscivo a smettere di pensarci. E non ci sono mai riuscito. Ogni settimana porto dei fiori sulla tomba di Missy..." Bennie Wiggins vide infine la macchina che sbucava dalla curva. Stava succedendo tutto così in fretta, che non sembrava neppure reale. L'auto era diretta contro di lui e la scena balzò dal rallentatore a una folle velocità con un'ineluttabilità terrificante. La mente di Bennie cominciò a girare rapidamente, mentre cercava di elaborare le informazioni che riceveva. Non è possibile... perché dovrebbe stare sulla mia corsia? Non ha senso... però viaggia sulla mia corsia... Ma non mi vede?... Deve vedermi... adesso sterzerà e tornerà dalla sua parte. Tutto questo accadde in una manciata di secondi, ma gli furono sufficienti per rendersi conto con assoluta certezza che, chiunque fosse al volante, andava troppo veloce per riuscire a spostarsi in tempo. Erano diretti esattamente l'uno contro l'altro. Brian colse il riflesso del sole sul parabrezza del furgoncino che veniva verso di loro sbucando da una curva. Si interruppe a metà frase ed il suo primo impulso fu di ripararsi con le braccia per prepararsi all'impatto. Allargò le mani fino a che le manette gli tagliarono i polsi e inarcò la schiena, urlando: "ATTENTO!" Miles si rigirò in avanti di scatto e poi istintivamente sterzò quando i due veicoli ormai stavano per scontrarsi. Brian rotolò di lato e, mentre sbatteva la testa contro il finestrino, venne colpito dall'assurdità della situazione. Tutto era cominciato in macchina in Madame Moorè s Lane. E sarebbe finito allo stesso modo. Si preparò al violentissimo impatto frontale che li aspettava. E che non arrivò. Avvertì un colpo secco, ma sul retro, dalla sua parte. L'auto cominciò a sbandare ed uscì di strada mentre Miles cercava di frenare. Le gomme slittarono sulla neve e la macchina avanzò scivolando verso un segnale stradale. Miles lottò per mantenere il controllo e sentì le ruote mordere l'asfalto proprio all'ultimo istante. Un'altra sbandata e si fermarono di colpo in un fossato. Brian cadde per terra, confuso e stordito, e rimase incastrato tra i sedili; impiegò qualche istante a ritrovare l'orientamento. Inspirò con forza, come se emergesse dal fondo di una piscina. Non sentiva il dolore dei tagli ai polsi. Né si accorse del sangue che macchiava il finestrino. Capitolo trentaquattresimo "Stai bene?" I suoni andavano e venivano e Brian emise un gemito. Stava cercando di rialzarsi dal pavimento della macchina, con le mani ammanettate dietro la schiena. Miles scese, poi aprì la portiera posteriore. Con cautela tirò fuori il ragazzo e lo aiutò a mettersi in piedi. Un lato della sua testa era coperto di sangue, che gli gocciolava lungo la guancia. Brian barcollò e Miles lo sostenne per un braccio. "Aspetta... stai sanguinando. Sei sicuro di star bene?" Brian vacillò leggermente, mentre il mondo intorno a lui si muoveva in cerchio. Impiegò qualche istante a capire la domanda. Poco lontano, Miles vide l'autista del furgoncino uscire dall'abitacolo. "Sì... credo di sì... mi fa male la testa". Miles guardò la strada continuando a tenere la mano sul braccio di Brian. L'autista del furgoncino - un uomo anziano - stava attraversando per venire verso di loro. Miles fece chinare il ragazzo in avanti e controllò con delicatezza la ferita, poi lo fece raddrizzare lentamente. Nonostante lo stordimento, Brian fu colpito dalle sue attenzioni, che gli parevano strane, considerata l'ultima mezz'ora. "Non sembra profondo. Un taglio superficiale", disse Miles con aria sollevata. Poi mostrò due dita e chiese: "Quante sono?" Brian strizzò gli occhi, sforzandosi di metterle a fuoco. "Due". Miles provò di nuovo. "E adesso?" "Quattro". "Com'è il campo visivo? Vedi macchie, bordi neri?" Brian fece cenno di no, con gli occhi semichiusi. "Ossa rotte? Le braccia sono a posto? Le gambe?" Brian impiegò un momento a valutare lo stato dei suoi arti, poi sollevò le spalle con una smorfia. "Mi fa male il polso". "Aspetta un secondo". Miles tirò fuori le chiavi dalla tasca e aprì le manette. Brian si portò immediatamente una mano alla testa. Aveva un polso tagliato e dolorante, l'altro completamente intorpidito. Il sangue della ferita alla testa gli filtrava tra le dita. "Riesci a stare in piedi da solo?" Brian barcollava ancora leggermente, ma fece segno di sì e Miles tornò alla macchina. Sul pavimento accanto al posto di guida c'era una maglietta lasciata da Jonah. La prese e poi gliela premette contro la testa. "Ce la fai a tenerla?" Brian annuì mentre l'altro guidatore, pallido e allarmato, li raggiungeva sbuffando. "State bene, ragazzi?" chiese. "Sì", rispose Miles automaticamente. L'uomo, ancora scosso, guardò Brian. Vide il sangue che gli rigava la guancia e contorse la bocca. "Sanguina molto". "Non è grave come sembra", rispose Miles. "Non crede che gli serva un'ambulanza? Forse dovrei chiamare..." "Non si preoccupi", tagliò corto Miles. "Sono del dipartimento dello sceriffo. Ho controllato la ferita, e non è grave". Brian si sentiva uno spettatore, nonostante il dolore ai polsi e alla testa. "Lei è uno sceriffo?" L'uomo fece un passo indietro e lanciò un'occhiata a Brian per cercare sostegno. "Era oltre la mezzeria. Non è stata colpa mia!" Miles alzò le braccia. "Ascolti". Gli occhi dell'uomo si fissarono sulle manette che lui teneva ancora in mano. "Io ho cercato di farmi da parte, ma lei ha invaso la mia corsia", disse, sulla difensiva. "Aspetti... come si chiama?" chiese Miles, cercando di controllare la situazione. "Bennie Wiggins", fu la risposta. "Non andavo forte. Lei era dalla mia parte". "Aspetti..." ripeté Miles. "Lei era oltre la mezzeria", ripeté Bennie. "Non può arrestarmi per questo. Io guidavo con prudenza". "Non ho intenzione di arrestarla". "E allora per chi sono queste?" chiese Bennie indicando le manette. Prima che Miles potesse rispondere, Brian intervenne. "Ce le avevo io", disse. "Stava portandomi al dipartimento". Bennie li guardò sempre più perplesso e in quel momento la macchina di Sarah si fermò bruscamente accanto a loro. Si girarono tutti e tre, mentre lei scendeva al volo, spaventata, confusa e arrabbiata nello stesso tempo. "Che cosa è successo?!" gridò. Li guardò uno a uno, finché i suoi occhi si posarono su Brian. Quando vide che sanguinava, gli si avvicinò. "Stai bene?" chiese, allontanandolo da Miles. Ancora un po’ stordito, suo fratello annuì. "Sì, sto bene". Allora si voltò verso Miles, furibonda. "Che cosa gli hai fatto, si può sapere? Lo hai picchiato?" "No", rispose lui scrollando la testa. "Abbiamo avuto un incidente". "Era oltre la mezzeria", spiegò Bennie, indicando Miles. "Un incidente?" domandò Sarah fissandolo negli occhi. "Io stavo guidando tranquillo", proseguì Bennie, "e quando ho superato la curva, me lo sono visto piombare addosso. Ho sterzato, ma non sono riuscito a schivarlo. È stata colpa sua. Io l'ho colpito, però non potevo evitarlo..." "Mi ha appena sfiorato sul dietro", intervenne Miles. "Io allora ho sterzato e così sono finito fuori strada. Ci siamo solo toccati". Sarah tornò a rivolgere la sua attenzione a Brian, non sapendo più che cosa credere. "Sei sicuro di star bene?" Il fratello annuì di nuovo. "Che cosa è successo veramente?" Dopo un lungo silenzio, Brian staccò la mano dalla testa. La maglietta era completamente bagnata e zuppa di sangue. "È stato un incidente", disse. "Non è stata colpa di nessuno. È successo e basta". Era la verità. Miles non aveva visto il furgoncino perché in quel momento era girato all'indietro. Brian sapeva che non l'aveva fatto apposta. Non si rese conto di aver usato le stesse parole con cui aveva descritto l'incidente in cui era rimasta coinvolta Missy, le stesse parole che aveva appena detto in macchina, quelle che si era ripetuto fino alla nausea negli ultimi due anni. A Miles, però, quel particolare non sfuggì. Sarah cinse con un braccio il fratello, che chiuse gli occhi, assalito da un senso di spossatezza. "Lo porto all'ospedale", annunciò lei. "Ha bisogno di un dottore". Sostenendolo, lo guidò verso la sua macchina. Miles fece un passo verso di loro. "Non puoi..." "Prova a fermarmi", lo interruppe lei. "Non ti farò avvicinare a lui per nessun motivo. Hai capito?" "Aspetta", disse Miles e lei gli lanciò un'occhiata sprezzante. "E non preoccuparti. Non abbiamo intenzione di scappare". "Ma che succede?" chiese a quel punto Bennie, con voce spaventata. "Perché se ne vanno?" "La cosa non la riguarda", lo ammonì Miles, brusco. Non poté fare altro che restare a guardare. Non poteva portare dentro Brian in quello stato, né andarsene da lì finché la dinamica dell'incidente non fosse stata chiarita. Il ragazzo aveva bisogno di un dottore e se lui l'avesse trattenuto, avrebbe dovuto dare spiegazioni in proposito a chi fosse arrivato a scrivere il verbale... e in quel momento non se la sentiva proprio. E così, in preda ad un senso d'impotenza, lasciò che si allontanassero. Quando Brian si voltò a lanciargli un'occhiata, gli tornarono in mente le sue parole. È stato un incidente. Non è stata colpa di nessuno. Miles pensò che Brian si sbagliava. Quando era successo, lui non guardava la strada - anzi, era addirittura girato all'indietro - a causa di quello che stava dicendogli. Su Sarah. Sulla coperta. Sui fiori. Non aveva voluto credergli prima, né intendeva farlo ora. Eppure... aveva le prove che Brian almeno su quello non mentiva. Aveva visto la coperta, aveva visto i fiori sulla tomba tutte le volte che andava lì... Chiuse gli occhi. Tutto questo non ha nessuna importanza, e lo sai. Ovvio che tu sia addolorato. Hai ucciso una persona. Chi non lo sarebbe? Era quello che lui stava per gridare a Brian al momento dell'incidente. Quando avrebbe dovuto guardare la strada, mentre invece, preso dalla sua rabbia, aveva rischiato un frontale. Per poco non ammazzava tutti. E nonostante fosse rimasto ferito, Brian era stato dalla sua parte. Mentre lo guardava allontanarsi con la sorella, capì per istinto che quel ragazzo lo avrebbe sempre coperto. Perché? Perché si sentiva in colpa e quello era un altro modo per chiedere perdono? Per avere una carta in mano da giocare contro di lui? Oppure credeva davvero a quello che aveva detto? Forse, nella sua mente, Brian la vedeva proprio così. Miles non lo aveva fatto apposta. Era stato un incidente. Proprio com'è andata con Missy? Miles scrollò il capo. No... Era diverso, si disse. E non era stata colpa di Missy. Si alzò un soffio di brezza, che sollevò piccoli turbini di neve leggera. Oppure sì? Non aveva importanza, si ripeté lui. Non ora, era troppo tardi ormai. Più avanti sulla strada, Sarah stava aprendo la portiera al fratello. Lo aiutò a salire, poi si voltò a guardare Miles, senza nascondere la rabbia. Senza nascondere quanto le sue parole l'avessero ferita. Brian sosteneva che la sorella non lo aveva saputo fino al giorno prima. Non mi aveva mai detto con chi usciva. A casa, poco prima, gli era sembrato ovvio che lei lo avesse sempre saputo. Ma adesso, per il modo in cui lo guardava, Miles non ne era così certo. La Sarah di cui lui si era innamorato era incapace di mentire. Le sue spalle si curvarono leggermente. No, sentiva che Brian non aveva mentito su di lei. Né lo aveva fatto riguardo alla coperta e ai fiori e al proprio dolore. E allora... Possibile che abbia detto la verità anche sull'incidente? Quella domanda tornava a tormentarlo, per quanto cercasse di evitarla. Sarah girò intorno alla macchina e salì al posto di guida. Miles sapeva che avrebbe ancora potuto fermarli. Ma non lo fece. Aveva bisogno di pensare... a tutto quello che aveva scoperto quel giorno, alla confessione di Brian... E soprattutto, si disse guardandoli partire, aveva bisogno di tempo per pensare a Sarah. Poco dopo arrivò un agente della stradale - qualcuno della zona aveva telefonato avvisando dell'incidente - per stendere un rapporto. Bennie era impegnato a fornire la sua versione, quando spuntò Charlie. L'agente si fermò un attimo a parlare con lui. Poi lo sceriffo si avvicinò al suo vice, che era appoggiato alla macchina a braccia conserte, pensieroso. Charlie passò una mano sui graffi e l'ammaccatura della carrozzeria. "Per così poco, hai un'aria sconvolta". Miles alzò gli occhi, sorpreso. "Charlie? Che ci fai qui?" "Ho saputo che avevi avuto un incidente". "Le voci corrono". Charlie scrollò le spalle. "Sai com'è". Si spazzolò i fiocchi di neve dal giaccone. "Stai bene?" Miles annuì. "Un po’ scosso e basta". "Che cosa è successo?" Miles scrollò di nuovo le spalle. "Ho perso il controllo. Le strade sono bagnate". Charlie aspettò di vedere se volesse aggiungere qualcosa. "Tutto qui?" "Come hai detto tu, è una bottarella". Charlie lo esaminò attentamente. "Perlomeno non sei ferito. Anche l'altro conducente mi sembra incolume". Miles annuì e lo sceriffo si appoggiò alla macchina accanto a lui. "Vuoi dirmi qualcos'altro?" L'amico non rispose ed allora Charlie si schiarì la gola. "L'agente mi ha detto che c'era qualcuno in macchina con te, era ammanettato, ma poi è arrivata una signora che se l'è portato via. Andavano all'ospedale. Senti..." Fece una pausa, stringendosi nel giaccone. "Un incidente è una cosa, Miles, ma qui è successo molto di più. Chi era il passeggero?" "Non era ferito gravemente, se è questo che ti preoccupa. L'ho controllato e se la caverà". "Rispondi alla mia domanda. Sei già abbastanza nei guai. Chi stavi portando al dipartimento?" Miles dondolò da un piede all'altro. "Brian Andrews", rispose. "Il fratello di Sarah". "Allora è lei che l'ha portato in ospedale?" Miles annuì. "Ed era ammanettato?" Non serviva a niente mentire. Miles fece un breve cenno d'assenso. "Ti sei forse dimenticato che sei sospeso?" chiese Charlie. "Che ufficialmente non ti è permesso arrestare nessuno?" "Lo so". "E allora che diavolo stavi combinando? La situazione era così critica da non poter chiamare il dipartimento?" Fece una pausa, guardandolo bene negli occhi. "Devo sapere la verità... prima o poi ci arriverò, ma vorrei sentirla da te. Che cosa faceva? Spacciava droga?" "No". "Lo hai sorpreso a rubare una macchina?" "No". "Una rissa o cose del genere?" "No". "Allora che cos'era?" Lui voleva raccontare a Charlie tutta la folle verità, dirgli che era stato Brian a uccidere Missy, ma non riusciva a trovare le parole. Non ancora, comunque. Prima doveva mettere ordine nei pensieri. "È complicato", rispose infine. Charlie si infilò le mani nelle tasche. "Provaci". Miles guardò lontano. "Ho bisogno di un po’ di tempo per capire". "Capire che cosa? Senti, è una domanda semplice". Non c'è niente di semplice qui. "Ti fidi di me?" chiese Miles di colpo. "Certo, che mi fido di te. Ma non è questo il punto". "Prima di parlarti di quello che è successo, ho bisogno di pensarci su". "Dai, andiamo..." "Ti prego, Charlie. Puoi concedermi un po’ di tempo? So che negli ultimi giorni ti ho fatto correre di qua e di là e mi sono comportato come un pazzo, ma ho bisogno di questo favore da te. E non c'entrano niente Otis, Sims o altri... ti giuro che non mi avvicinerò nemmeno a loro". Qualcosa nella serietà della sua supplica, nella mesta confusione che gli vide negli occhi, fece capire a Charlie quanto Miles avesse davvero bisogno di quel piacere. Quella storia non gli piaceva, neanche un po'. C'era in ballo qualcosa di grosso, e non gli andava di restarne all'oscuro. Tuttavia... Contro ogni buon senso, sospirò e si staccò dalla macchina. Non disse nulla e se ne andò senza voltarsi perché sapeva che, se l'avesse fatto, avrebbe cambiato idea. Dopo un po’ l'agente della stradale terminò il rapporto e se ne andò. Anche Bennie ripartì verso casa. Miles, invece, stette ancora sul luogo dell'incidente per quasi un'ora, la sua mente era un intrico di pensieri contrapposti. Senza accorgersi del freddo, rimase seduto in macchina, con il finestrino aperto, passando le mani distrattamente sul volante. Quando ebbe deciso che cosa fare, chiuse il finestrino e si rimise in marcia. Il motore non fece quasi in tempo a scaldarsi che lui accostò di nuovo e scese. La temperatura si era leggermente alzata e la neve cominciava a sciogliersi. Dai rami degli alberi cadevano gocce a intervalli regolari, come il ticchettio di un orologio. Notò subito i folti cespugli sul ciglio della strada. Pur essendoci passato di fianco migliaia di volte, fino a quella mattina non ci aveva badato. Adesso, mentre li osservava attentamente, non riusciva a pensare ad altro. Bloccavano completamente la vista del prato e un'occhiata bastò a fargli capire che erano abbastanza folti da impedire a Missy di accorgersi del cane. Troppo folti per essere attraversati? Camminò lungo la fila di cespugli, rallentando quando giunse vicino al punto dove pensavano che Missy fosse stata investita. Si chinò per guardare meglio e rimase paralizzato. Tra i cespugli c'era un'apertura, come un foro. Non c'erano impronte evidenti, ma il terreno era coperto da foglie schiacciate, mentre su entrambi i lati erano stati spezzati dei rami. Era un passaggio. Per un cane nero? Si mise in ascolto per captare eventuali latrati lontani. Controllò anche i giardini circostanti. Niente. Troppo freddo per uscire? Non aveva mai verificato la presenza di un cane. Non l'aveva fatto nessuno. Si rialzò e fissò la strada, pensieroso. Si infilò in tasca le mani intirizzite e le sentì formicolare dolorosamente non appena cominciarono a scaldarsi. Non sapendo che altro fare andò al cimitero, sperando di schiarirsi le idee. Li vide ancor prima di aver raggiunto la tomba. Fiori freschi, appoggiati alla lapide. La sua mente riandò alle parole dette da Charlie tanto tempo prima. Come qualcuno che volesse chiedere scusa. Miles si girò e tornò indietro. Le ore passavano, e adesso era buio. Fuori, il cielo invernale era scuro e minaccioso. Sarah si staccò dalla finestra e riprese a camminare avanti e indietro in salotto. Brian era già tornato a casa. La ferita non era grave, gli avevano dato solo tre punti, e non c'erano ossa rotte. C'era voluto meno di un'ora per portarlo a farsi medicare. Poi, sebbene lo avesse praticamente implorato, suo fratello non si era voluto fermare da lei. Aveva bisogno di stare da solo, diceva. Era tornato dai genitori, con un cappello e una felpa per nascondere le ferite. "Non dire a loro quello che è successo, Sarah. Non sono ancora pronto. Voglio essere io a parlargliene. Lo farò quando arriva Miles". Miles. Lui sarebbe andato ad arrestare Brian. Di questo era sicura. Si chiese solo perché ci volesse tanto. Nelle ultime otto ore era passata dalla rabbia all'angoscia, dalla frustrazione all'amarezza e così via, un'emozione dietro l'altra. Erano troppe e troppo diverse per cercare di separarle. Si ripeteva mentalmente le frasi che avrebbe dovuto dire a Miles quando lui l'aveva attaccata ingiustamente. Credi davvero di essere l'unico a soffrire? Che nessuno al mondo possa capirti? Ma ti sei fermato a pensare quanto sia stato difficile per me venire qui con Brian stamattina? A far arrestare mio fratello? E la tua reazione... ah, quella è stata una chicca. Io ti ho tradito? Ti ho usato? Esasperata, afferrò il telecomando e accese la televisione. Fece un po’ di zapping. La spense di nuovo. Calmati, si disse, cerca di capire. Lui aveva appena scoperto chi era il responsabile della morte di sua moglie. Era stato un colpo durissimo, così all'improvviso. Soprattutto, non si aspettava di riceverlo da lei. E da Brian. Devo ricordarmi di ringraziare mio fratello per aver rovinato la vita a tutti. Sarah scrollò il capo. Non era giusto nemmeno quello. Quand'era successo, Brian era ancora un ragazzino. Si era trattato di un incidente. Sapeva che lui avrebbe fatto qualsiasi cosa, pur di poter rimediare... E via così. Fece un altro giro del salotto, finendo di nuovo accanto alla finestra. Ancora nessuno in vista. Andò al telefono e alzò la cornetta per controllare che ci fosse la linea. Suonava libero. Brian le aveva promesso di avvisarla non appena fosse arrivato a prenderlo. E allora, dove si era cacciato Miles e che cosa stava facendo? Aveva chiamato rinforzi? Non sapeva che cosa fare. Non poteva uscire, non poteva usare il telefono. Almeno finché aspettava quella chiamata. Brian trascorse il resto della giornata chiuso in camera. Sdraiato a letto, fissava il soffitto con le braccia lungo i fianchi, le gambe distese, come se fosse in una bara. Ogni tanto si appisolava, se ne accorgeva al risveglio perché il variare della luce rendeva diversi gli oggetti nella stanza. Con il passare delle ore le pareti passarono dal bianco al grigio sbiadito e poi diventarono ombre, a mano a mano che il sole attraversava lento il cielo e infine tramontava. Non mangiò né a pranzo né a cena. Nel corso del pomeriggio, a un certo punto sua madre aveva bussato ed era entrata; Brian aveva chiuso gli occhi, fingendo di dormire. La sentiva muoversi per la stanza. Gli aveva posato una mano sulla fronte per capire se aveva la febbre. Dopo un minuto era uscita in silenzio, richiudendosi la porta alle spalle. Brian l'aveva udita parlare in tono sommesso con il marito. "Deve sentirsi poco bene", aveva detto. "È davvero distrutto". Quando non dormiva, Brian pensava a Miles. Si chiedeva dove fosse, quando sarebbe arrivato. Pensava anche a Jonah e a che cosa avrebbe detto quando il padre gli avesse rivelato il nome di chi gli aveva portato via la madre. Pensava a Sarah, coinvolta suo malgrado in quella brutta storia. Si chiedeva come sarebbe stata la prigione. Immaginò le fioche luci al neon e la consistenza fredda delle sbarre d'acciaio, il clangore delle porte che venivano chiuse dappertutto. Nella sua mente, sentiva lo sciacquone dei water, voci e mormorii, grida e lamenti; immaginava un luogo dove non c'era mai silenzio, neppure nel cuore della notte. Si vide a fissare la sommità di mura protette da filo spinato, con le sentinelle di guardia nelle torrette, i fucili puntati verso il cielo. Vedeva anche altri detenuti, che lo guardavano con interesse, scommettendo su quanto sarebbe sopravvissuto lì dentro. Non aveva dubbi in proposito: se fosse finito in prigione, sarebbe stato una pedina. Non sarebbe sopravvissuto in un posto del genere. Più tardi, i rumori della casa si affievolirono e Brian udì i genitori prepararsi per andare a letto. Una lama di luce filtrava da sotto la porta e poi si spense. Si addormentò per svegliarsi di soprassalto alla vista di Miles nella stanza. Era in piedi nell'angolo accanto all'armadio, con una pistola. Brian sbatté gli occhi, li strizzò, mentre la paura gli stringeva il petto, facendolo ansimare. Si mise seduto e alzò le mani in posizione di difesa, prima di rendersi conto che... .. .quello che aveva scambiato per Miles era soltanto la sua giacca sull'appendiabiti, che al buio gli aveva giocato un brutto scherzo. Miles. Lo aveva lasciato andare. Dopo l'incidente, lo aveva lasciato andare e non era tornato a prenderlo. Brian si girò, raggomitolandosi a palla. Ma sarebbe arrivato. Sarah sentì bussare alla porta poco prima di mezzanotte e guardò dalla finestra, sapendo già chi era. Quando aprì, Miles non le sorrise, non si accigliò e non si mosse. Aveva gli occhi arrossati e gonfi per la stanchezza. Rimase sulla soglia, come se non vedesse l'ora di andarsene. "Quando hai saputo di Brian?" le chiese senza preamboli. Lei lo guardò dritto negli occhi. "Ieri", rispose. "Me lo ha detto ieri. E sono rimasta sconvolta quanto te". Lui serrò le labbra, secche e screpolate. "Va bene". Poi si girò per andare. Sarah allungò la mano e gliela posò sul braccio. "Aspetta... per favore". Si girò. "È stato un incidente, Miles", disse lei. "Una tragedia inutile, scioccante. Non sarebbe dovuto succedere e non doveva accadere proprio a Missy. Lo so... e sono terribilmente addolorata per te". Lo guardò. La sua espressione era offuscata, imperscrutabile. "Ma?" disse lui senza alcuna emozione nella voce. "Non ci sono ma. Voglio solo che tu tenga a mente questo: non ci sono scusanti per la fuga di Brian, ma si è trattato di un incidente". Aspettò che le rispondesse. Vedendo che non lo faceva, gli lasciò il braccio. Lui rimase dov'era. "Che cos'hai intenzione di fare?" gli chiese infine. Miles girò la testa. "Ha ucciso mia moglie, Sarah. Ha infranto la legge". Lei annuì. "Lo so". Lui si avviò lungo il vialetto. Un minuto dopo Sarah, guardando dalla finestra, lo vide salire in macchina e allontanarsi. Tornò al divano. Il telefono era sul tavolino d'angolo e lei rimase in attesa, sapendo che avrebbe squillato presto. Capitolo trentacinquesimo E adesso? si domandò Miles. Adesso che conosceva la verità, che cosa avrebbe fatto? Con Otis, non c'erano stati dubbi. Gli bastava sapere che lui lo odiava al punto da poter ammazzare Missy, e per questo meritava qualsiasi punizione la legge potesse prevedere. Tranne, però, un piccolo dettaglio. Non era andata così. Il fascicolo che lui aveva messo insieme in due anni di faticose ricerche non aveva portato a niente. Sims ed Earl e Otis non significavano nulla. Dovunque avesse cercato, non aveva trovato una risposta, ma questa si era presentata, improvvisa e inaspettata, sulla sua soglia, con indosso una giacca a vento e sull'orlo del pianto. Ecco che cosa lo tormentava: era davvero importante quella risposta? Aveva passato due anni della sua vita a pensare che lo fosse. Aveva pianto di notte, era rimasto sveglio fino a tardi, aveva iniziato a fumare ed aveva lottato senza arrendersi, convinto che l'emergere della verità avrebbe cambiato tutto. Era diventata per lui come un miraggio all'orizzonte, sempre irraggiungibile. E adesso, in quel preciso istante, la stringeva in pugno. Bastava una telefonata e finalmente sarebbe stata fatta giustizia. Finalmente sarebbe stato vendicato. Era suo diritto. Ma se poi la risposta non era quella che si era immaginato? Se il colpevole non era un ubriaco od un delinquente, doveva comunque considerarlo un nemico? Anche se si trattava di un ragazzo con le lentiggini, i calzoni larghi, i capelli castani - impaurito e profondamente addolorato per quanto era successo -, che giurava che era stato un incidente impossibile da evitare? A quel punto era ancora importante? Poteva prendere il peso del ricordo della moglie e delle sue sofferenze negli ultimi due anni, aggiungerci la propria responsabilità come marito e come padre ed il suo obbligo verso la legge, e ottenere una somma quantificabile che giustificasse la punizione? Oppure da quella somma doveva sottrarre l'età di un ragazzo, la sua paura, il suo evidente dolore e l'amore che lui provava per Sarah, riportando così il totale a zero? Non lo sapeva. Sapeva solo che a pronunciare il nome di Brian ad alta voce gli restava un sapore amaro in bocca. Sì, pensò, la verità aveva importanza. Sapeva con certezza che sarebbe sempre stato così e che doveva fare qualcosa. Nella sua mente non c'era altra scelta. La signora Knowlson aveva lasciato accese le luci esterne, che diffondevano un alone giallastro sul vialetto mentre Miles si avvicinava alla porta. Nell'aria aleggiava un lieve odore di legna bruciata. Lui bussò prima di infilare la chiave ed aprire piano la porta. Appisolata sulla sedia a dondolo, al riparo di una trapunta, tutta capelli bianchi e rughe, la padrona di casa sembrava uno gnomo. La televisione era accesa con il volume al minimo e Miles entrò muovendosi con cautela. La testa le si piegò di lato e lei aprì di scatto i suoi occhi sorprendentemente vivaci. "Scusi per il ritardo", disse lui e la donna annuì. "Sta dormendo di là", gli spiegò. "Anche se voleva restare alzato ad aspettarla". "Meglio che non l'abbia fatto", rispose Miles. "Prima che vada a prenderlo, vuole che l'aiuti a salire nella sua stanza?" "No", rispose lei. "Non sia sciocco. Sono vecchia, ma mi muovo ancora piuttosto bene". "Lo so. La ringrazio per avermelo tenuto oggi". "È riuscito a risolvere tutto?" Miles non le aveva detto che cosa stava succedendo, ma lei aveva notato il suo turbamento mentre le chiedeva se Jonah quel giorno poteva andare a casa sua dopo la scuola. "Veramente no". La donna sorrise. "C'è sempre un domani". "Già", fece lui. "Come si è comportato oggi?" "Era svogliato. E fin troppo tranquillo. Non è voluto uscire, così abbiamo preparato i biscotti in cucina". Miles sapeva che anche suo figlio era turbato. Dopo averla ringraziata nuovamente, andò nella camera sul retro e prese in braccio Jonah, sistemandolo in modo che gli appoggiasse la testa sulla spalla. Il bambino non si mosse neppure e lui capì che era sfinito. Come suo padre. Si chiese se avrebbe avuto di nuovo uno dei suoi incubi. Lo riportò a casa e lo mise nel suo letto. Gli rimboccò le coperte, accese la lucina notturna e si sedette di fianco a lui, così piccolo e vulnerabile. Miles si girò verso la finestra. Dalle tende filtrava la luce della luna; si alzò per chiuderle meglio. Sentiva il freddo che si irradiava dal vetro. Tornò dal figlio e gli passò teneramente una mano tra i capelli. "Ora so chi è stato", mormorò, "ma mi chiedo se è giusto dirtelo". Il respiro di Jonah era regolare, le sue palpebre immobili. "Tu vuoi saperlo?" Nell'oscurità della stanza, il bambino non rispose. Dopo un po', Miles uscì dalla camera e andò a prendersi una birra nel frigo. Appese il giaccone nell'armadio a muro e vide sul fondo la scatola dove teneva i filmini. La guardò un istante, poi la sollevò e la portò in salotto. L'appoggiò sul tavolino davanti al divano e l'aprì. Prese un nastro a caso, lo infilò nel videoregistratore e si mise seduto. Lo schermo dapprima era nero, poi sfocato e infine apparvero le immagini. C'erano dei bambini seduti a tavola in cucina, che si agitavano come forsennati, braccia e gambe infantili sventolavano in giro come bandiere in una giornata di vento. C'erano anche degli adulti, che entravano e uscivano dall'inquadratura. Miles riconobbe la propria voce. Era la festa di compleanno di Jonah e l'obiettivo lo mise a fuoco. Aveva due anni ed era seduto sul seggiolone con in mano un cucchiaio, che batteva sulla tavola, ridendo soddisfatto a ogni colpo. Poi si vedeva Missy, che si avvicinava con un vassoio di budini. Su un budino c'erano due candeline accese e lei lo mise davanti a Jonah, poi intonò: "Tanti auguri a te", e gli altri genitori la seguirono in coro. Dopo pochi minuti le facce e le manine dei bambini erano tutte impiastricciate di cioccolata. L'obiettivo si posò su Missy e lui udì la sua voce che la chiamava. Lei si voltò sorridendo; aveva gli occhi allegri, pieni di vita. Era una moglie ed una madre felice della sua condizione. L'immagine svanì e dopo un attimo emerse un'altra scena, in cui Jonah stava cercando goffamente di aprire i regali. Poi ci fu un salto temporale di un mese, al giorno di San Valentino. La tavola era apparecchiata con cura, Miles se la ricordava bene. Aveva tirato fuori il servizio buono e la luce tremolante delle candele faceva scintillare i bicchieri di cristallo rendendo romantica l'atmosfera. Aveva cucinato lui, quella sera: sogliola e gamberetti con salsa al limone, riso pilaf e insalata di spinaci come contorno. Missy era in camera a vestirsi; le aveva chiesto di non scendere finché non era tutto pronto. L'aveva ripresa con la telecamera nel momento in cui entrava in soggiorno. Quella sera, a differenza che alla festa di compleanno del figlio, non sembrava né una moglie né una madre; era una giovane donna affascinante pronta per andare a una prima teatrale a Parigi o a New York. Indossava un vestito nero scollato, con i tacchi alti e gli orecchini di perle; aveva i capelli raccolti in uno chignon e qualche ciocca sciolta le incorniciava il bel viso. "Che magnifica sorpresa!" aveva esclamato guardando la tavola. "Grazie, tesoro". "Non c'è di che, amore mio", rispondeva lui. Miles ricordava che a quel punto lei gli aveva chiesto di spegnere la telecamera e che si erano seduti a mangiare. Dopo cena avevano fatto l'amore per ore, persi tra le lenzuola. Era così immerso nel ricordo di quella serata, che udì appena la vocina alle sue spalle. "È la mamma?" Con il telecomando, lui fermò il nastro e si girò. Jonah era in piedi nel corridoio. Gli sorrise, un po’ imbarazzato. "Che succede, campione?" chiese. "Non riesci a dormire?" Jonah annuì. "Ho sentito dei rumori che mi hanno svegliato". "Mi spiace. Devo essere stato io". "Quella era la mamma?" chiese di nuovo. Fissava Miles, lo sguardo fermo e deciso. "Alla televisione?" Miles avvertì la tristezza nella sua voce, come se avesse accidentalmente rotto un giocattolo prediletto. Batté una mano sul divano, non sapendo bene che cosa dire. "Vieni qui. Siediti accanto a me". Dopo una breve esitazione, Jonah si avvicinò al divano trascinando i piedi. Lo cinse con un braccio e il bambino alzò lo sguardo su di lui, in attesa, grattandosi una guancia. "Sì, era la mamma", rispose infine Miles. "Perché è alla televisione?" "È una cassetta. Sai, quei filmetti che facevamo ogni tanto con la telecamera. Quando eri piccolo". "Oh", fece lui. Poi indicò la scatola. "Sono tutte cassette?" Miles annuì. "Anche lì c'è la mamma?" "In alcune". "Posso guardarle con te?" Miles lo strinse a sé. "Adesso è tardi, Jonah... avevo quasi finito anch'io. Magari un'altra volta". "Domani?" "Magari domani". Quella risposta parve soddisfarlo, almeno per il momento, e Miles spense la lampada sul tavolino alle sue spalle. Si sdraiò sul divano e Jonah si rannicchiò contro di lui. Al buio, le sue palpebre cominciarono a chiudersi. Miles sentiva il suo respiro farsi più lento. Sbadigliò. "Papà?" "Sì". "Guardavi quelle cassette perché sei di nuovo triste?" "No". Miles accarezzava la testa di Jonah lentamente, metodicamente. "Perché è morta la mamma?" Miles chiuse gli occhi. "Non lo so". Il petto di Jonah si alzava e si abbassava a ritmi regolari. Su e giù, con respiri profondi. "Vorrei che fosse ancora qui". "Anch'io". "Non tornerà più". Un'affermazione, e non una domanda. "No". Jonah non disse altro prima di addormentarsi. Miles lo tenne tra le braccia. Gli sembrava tanto piccolo, quasi un neonato, e sentiva il lieve profumo di shampoo nei suoi capelli. Gli baciò la sommità del capo, poi posò la guancia contro la sua pelle morbida. "Ti voglio bene, Jonah". Nessuna risposta. Fu molto faticoso alzarsi dal divano senza rischiare di svegliarlo, ma per la seconda volta quella sera, portò il figlio in camera sua e lo mise a letto. Uscì dalla stanza lasciando la porta socchiusa. Perché è morta la mamma? Non lo so. Miles tornò in salotto e rimise il nastro nella scatola, rimpiangendo che Jonah l'avesse visto, rimpiangendo che avesse parlato di Missy. Non tornerà più. No. Rimise la scatola a posto nell'armadio a muro, provando il doloroso anelito di poter cambiare anche quello. Fuori sulla veranda, nel gelido buio della notte, Miles aspirò un lungo tiro di sigaretta, la terza della serata, e fissò l'acqua scura del fiume. Era rimasto lì da quando aveva messo via le cassette, cercando di dimenticare il suo triste colloquio con Jonah. Era sfinito e arrabbiato e non voleva pensare al figlio e a quello che avrebbe dovuto dirgli. Non voleva pensare a Sarah, Brian, Charlie, Otis, o a un cane nero che balzava fuori dai cespugli. Nemmeno a coperte e fiori, oppure a una svolta nella strada che era stata il principio di tutto. Voleva diventare insensibile. Dimenticare. Tornare indietro a un tempo più felice, innocente. Rivoleva la sua vita. Accanto a sé, proiettata dalle luci nella casa, vedeva la sua ombra che lo seguiva, come i pensieri che non riusciva a lasciarsi dietro. Era convinto che Brian sarebbe stato rilasciato, anche se lui l'avesse arrestato. Avrebbe ottenuto la libertà vigilata, magari gli sarebbe stata sospesa la patente, ma non sarebbe finito dietro le sbarre. Era minorenne quand'era accaduto il fatto; c'erano le attenuanti e il giudice, riconoscendo il suo pentimento, sarebbe stato clemente. E Missy non sarebbe mai più ritornata. Il tempo passava. Si accese un'altra sigaretta e la fumò con avidità. Il cielo era coperto da nubi scure; sentiva il rumore della pioggia che intrideva il terreno. Sulla superficie dell'acqua comparve il riflesso della luna, spuntata da dietro le nuvole. Una luce morbida si diffuse per il giardino. Miles scese dalla veranda e si incamminò sulle lastre di ardesia che formavano un sentiero nel prato. Conducevano al capanno dove teneva gli attrezzi per il giardinaggio, quello era sempre stato il suo regno e Missy ci andava di rado. Ma è stata lì, l'ultimo giorno... Sulle pietre si erano formate delle pozzanghere, sentiva l'acqua sotto i piedi mentre proseguiva sul sentiero che costeggiava la casa e curvava oltre il salice che lui aveva piantato per Missy. Sua moglie ne aveva sempre voluto uno in giardino, considerava quegli alberi allo stesso tempo tristi e romantici. Passò accanto all'altalena e superò una macchinina abbandonata lì da Jonah. Pochi passi ancora e giunse al capanno. Miles prese la chiave da sopra lo stipite della porta. La serratura scattò con un clic, lui aprì e venne accolto dall'odore di muffa. Sul ripiano c'era una torcia, l'accese e si guardò intorno. Un ragno aveva tessuto la sua tela nell'angolo vicino alla finestrina. Diversi anni prima, quando se n'era andato, suo padre gli aveva dato alcune cose da conservare, che aveva chiuso in una grande scatola di metallo. Il lucchetto era piccolo e Miles lo spezzò con un martello che era appeso alla parete Poi sollevò il coperchio. Due album, un diario con la copertina in pelle, una scatola da scarpe piena di punte di freccia che suo padre aveva trovato vicino a Tuscarora. Miles scostò tutto e sul fondo trovò quello che cercava. La pistola, infilata in un contenitore, sembrava in buone condizioni. Era l'unica arma nella casa di cui Charlie fosse all'oscuro. Passò la notte a oliarla, assicurandosi che fosse pronta a sparare. Capitolo trentaseiesimo Miles non venne a prendermi quella notte. Ricordo che, ancora stanco morto, all'alba mi sforzai di alzarmi per fare una doccia. Ero indolenzito per l'incidente e, mentre aprivo il rubinetto, provai una fitta lancinante dal petto alla schiena. La testa mi pulsava quando mi lavai i capelli. I polsi mi dolevano quando feci colazione, ma terminai prima che i miei genitori si mettessero a tavola, perché sapevo che, vedendomi in quello stato, mi avrebbero fatto domande alle quali non ero ancora pronto a rispondere. Mio padre doveva andare al lavoro, ed essendo quasi Natale mia madre sarebbe uscita a fare spese. Li avrei informati dopo, quando Miles fosse venuto a prendermi. Sarah mi chiamò poco più tardi chiedendomi come stavo. Io le rivolsi la stessa domanda. Mi disse che Miles era stato da lei la notte prima, che avevano parlato per pochi istanti, ma che non sapeva che cosa pensare. Neppure io. Però rimasi in attesa. Anche Sarah aspettò. I miei genitori continuarono la vita di sempre. Mia sorella mi richiamò nel pomeriggio. "No, non è ancora venuto", le dissi. Non aveva telefonato nemmeno a lei. Trascorse anche quella giornata e giunse la sera. Di Miles, nessuna traccia. Il mercoledì Sarah tornò a scuola. Le assicurai che le avrei telefonato lì se Miles fosse arrivato. Io rimasi a casa, ancora in attesa. Aspettai invano. Quando venne il giovedì, capii che cosa dovevo fare. Miles era fermo in macchina, stava sorseggiando una tazza di caffè comprata al bar. La pistola era sul sedile accanto a lui, nascosta sotto i giornali, carica e pronta a sparare. Il finestrino cominciava ad appannarsi e lui lo pulì con la mano. Doveva vedere chiaramente. Era nel posto giusto, lo sapeva. Gli bastava restare in osservazione ed agire al momento opportuno. Quel pomeriggio, appena prima del crepuscolo, il cielo rosseggiava all'orizzonte quando salii in macchina. Faceva ancora freddo, ma l'ondata di gelo era passata e la temperatura si era alzata di qualche grado. La pioggia dei giorni precedenti aveva sciolto tutta la neve; al posto dei prati ammantati di bianco ora vedevo l'erba marrone in letargo per l'inverno. Finestre e porte del vicinato erano decorate con ghirlande e nastri rossi, ma in macchina mi sentivo slegato dalla stagione, come se avessi dormito per molto tempo e dovessi aspettare ancora un anno. Mi fermai solo una volta lungo la strada, per la mia solita sosta. Credo che il negoziante ormai mi riconoscesse, dal momento che facevo sempre lo stesso acquisto. Vedendomi entrare, mi aspettò al bancone, annuì quando gli dissi che cosa volevo e tornò qualche minuto dopo. Non avevamo mai scambiato quattro chiacchiere. Neppure quel giorno mi chiese a chi fossero destinati; non l'aveva mai fatto. Mentre me li porgeva, tuttavia, ripeté la solita frase che diceva tutte le volte. "Sono i più freschi che ho". Mise i soldi in cassa e batté lo scontrino. Mentre mi avviavo alla macchina annusai il profumo, una fragranza dolce di miele. Aveva ragione: ancora una volta i fiori erano davvero splendidi. Li misi sul sedile di fianco a me. Percorsi strade familiari, strade dove avrei preferito non essere mai passato, e parcheggiai fuori dal cancello. Mi feci forza e scesi dall'auto. Non scorsi nessuno al cimitero. Mi strinsi nel cappotto e mi incamminai a testa bassa; non avevo bisogno di guardare dove andavo. Il terreno era bagnato, si attaccava alle mie scarpe. In un attimo arrivai alla tomba. Come sempre rimasi colpito da quanto fosse piccola. Era un pensiero ridicolo, ma non potevo evitarlo. Notai che però era molto curata. L'erba era perfettamente tosata e c'era un garofano di seta in un vasetto davanti alla lapide. Era rosso, come tutti quelli sulle lapidi circostanti, e capii che ce li aveva messi il guardiano. Mi chinai e lasciai cadere i fiori sul granito, facendo attenzione a non toccare la pietra. Non l'avevo mai fatto. Uno strano pudore me lo aveva sempre impedito. Poi lasciai vagare la mente. In genere pensavo a Missy e alle decisioni sbagliate che avevo preso; quel giorno i miei pensieri si rivolsero a Miles. Forse fu per questo che non sentii i passi che si avvicinavano, finché non mi raggiunsero. "Fiori", disse Miles. Si voltò al suono di quella voce, mezzo sorpreso e mezzo spaventato. L'uomo che da giorni stava aspettando era in piedi accanto a una quercia, i cui rami si allungavano paralleli al suolo. Portava un lungo cappotto nero e i jeans e teneva le mani in tasca. Brian si sentì sbiancare in volto. "Non ha più bisogno di fiori", disse Miles. "Puoi smettere di portarli". Lui non rispose. Che cosa avrebbe potuto dire? L'altro lo fissava. Con il sole basso sull'orizzonte, il suo viso era in ombra, i suoi lineamenti nascosti. Brian non aveva idea di che cosa stesse meditando di fare. Miles spinse il cappotto in fuori con le mani, come se reggesse qualcosa sotto le falde. Come se nascondesse qualcosa. Rimase immobile dov'era, e per una frazione di secondo Brian provò l'impulso di correre via. Di scappare. Dopo tutto, aveva quindici anni meno di lui... una volata gli sarebbe bastata per raggiungere la strada, dove ci sarebbero state macchine e passanti. Ma quel pensiero lo abbandonò fulmineo com'era arrivato, prosciugandolo di tutte le energie. Non aveva più riserve. Erano giorni che non mangiava. Non ce l'avrebbe mai fatta, se Miles aveva davvero intenzione di inseguirlo. E, soprattutto, sapeva di non avere nessun luogo dove andare. Così Brian rimase fermo davanti a Miles, che era ad una ventina di passi da lui. Lo vide alzare leggermente il mento e aspettò che facesse qualcosa, un gesto di qualche tipo; forse, pensò, anche lui aspettava la sua reazione. Venne colpito dal pensiero che dovevano assomigliare a due pistoleri del vecchio West, che si affrontavano pronti a sparare. Quando il silenzio divenne opprimente, Brian girò lo sguardo verso la strada. Notò che la macchina di Miles era parcheggiata dietro la sua. Non ne vedeva altre. Erano da soli, in mezzo alle lapidi. "Come facevi a sapere che ero qui?" chiese infine. Miles rispose dopo un po'. "Ti ho seguito", disse. "Immaginavo che prima o poi saresti uscito di casa e volevo stare da solo con te". Brian deglutì, chiedendosi per quanto tempo lo avesse sorvegliato. "Tu le porti dei fiori, ma non sai nemmeno chi fosse, vero?" proseguì Miles con voce calma. "Se l'avessi conosciuta, le porteresti dei tulipani. Erano i suoi fiori preferiti, gialli, rossi, rosa, le piacevano tutti. In primavera li piantava sempre in giardino. Lo sapevi?" No, pensò Brian, non lo sapevo. Da lontano giunse il fischio del treno. "Sapevi che Missy era preoccupata che le venissero le rughe intorno agli occhi? Oppure che a colazione le piaceva il pane tostato? Che aveva sempre desiderato possedere una Mustang cabrio? Che quando rideva, mi ci voleva tutta la mia forza di volontà per non saltarle addosso? Sapevi che era la prima donna che io avessi mai amato?" Si fermò per costringere l'altro a guardarlo. "Questo è tutto quello che mi rimane, adesso. I ricordi. E non ce ne saranno più. Me li hai rubati tu. E li hai portati via anche a Jonah. Sai che lui ha gli incubi da quando è morta? Che nel sonno chiama ancora la mamma? Devo prenderlo in braccio e cullarlo per ore, finché non smette. Capisci come mi sento in quei casi?" I suoi occhi trafissero quelli di Brian, inchiodandolo nel punto in cui si trovava. "Ho passato due anni a cercare di scovare l'uomo che mi aveva distrutto la vita. La mia e quella di Jonah. Ho perso questi due anni perché non riuscivo a pensare ad altro". Miles abbassò lo sguardo a terra. "Volevo trovare la persona che l'aveva uccisa. Perché sapesse di che cosa mi aveva privato quella notte, e pagasse per la sua colpa. Non hai idea di quanto mi abbiano consumato questi pensieri ossessivi. Una parte di me desidera ancora ucciderlo. Fare alla sua famiglia lo stesso danno che lui ha fatto alla mia. E adesso ho davanti quell'uomo. Che sta mettendo i fiori sbagliati sulla tomba di mia moglie". Brian si sentì mancare il cuore. "Tu hai ucciso mia moglie", continuò Miles. "Non ti perdonerò, né lo dimenticherò mai. Quando ti guarderai allo specchio, voglio che te lo ricordi. Che pensi ogni volta a quello che mi hai portato via. Mi hai tolto la persona che amavo di più al mondo, hai preso la madre di mio figlio e anche due anni della mia vita. Te ne rendi conto?" Brian annuì in silenzio. "Ora ascoltami bene. Puoi raccontare a Sarah quello che è successo qui oggi, ma solo a lei. Ti porterai questa nostra conversazione, e tutto il tuo segreto, nella tomba. Non devi cedere alla tentazione di parlarne con qualcun altro. Mai. Né con i tuoi genitori, né con la tua futura moglie, né con i tuoi figli, o il tuo confessore, oppure i tuoi amici. E cerca di fare qualcosa di buono della tua vita, qualcosa per rimediare e che non mi faccia pentire della mia decisione. Promettimi che farai come ti ho detto". Miles rimase a fissarlo per essere sicuro che avesse capito e aspettò che annuisse. Poi si voltò e si allontanò. Solo in quel momento Brian si rese conto che lo lasciava libero. Più tardi quella sera, quando Miles venne ad aprirle, Sarah rimase sulla soglia a guardarlo senza parlare, finché lui uscì di casa richiudendosi la porta alle spalle. "C'è Jonah che dorme", le disse. "Meglio stare fuori". Sarah incrociò le braccia e guardò verso il giardino. "Non sono sicura del motivo per cui sono qui", esordì lei, esitante. "Ringraziarti non mi sembra molto appropriato, ma non posso neppure ignorare quello che hai fatto". Miles annuì impercettibilmente. "Mi spiace... per tutto quanto. Sono profondamente addolorata per te, non riesco nemmeno a immaginare quello che devi aver passato". "No, infatti, non puoi". "Io non sapevo di Brian, te lo giuro". "Lo so". La guardò. "Non avrei mai dovuto credere il contrario. Scusa se ti ho accusata ingiustamente". Sarah scrollò la testa. "Non devi". Lui distolse lo sguardo, come se stesse cercando le parole giuste. "Credo anch'io di doverti ringraziare... per avermi fatto conoscere la verità". "Ho dovuto farlo. Non avevo scelta". E poi, dopo un momento di silenzio, Sarah si strinse le mani e chiese: "Come se la cava Jonah?" "Bene. Anche se non benissimo. Non sa nulla, ma credo abbia intuito che stava succedendo qualcosa dal mio strano comportamento. Ha avuto un paio di incubi nei giorni scorsi. A scuola come va?" "Finora bene. Negli ultimi giorni non ho notato nulla di insolito". "Meglio così". Sarah si passò una mano tra i capelli. "Posso farti una domanda? Non devi rispondermi, se non vuoi". Miles si voltò. "Vuoi sapere perché ho lasciato andare Brian?" Lei annuì. Lui impiegò parecchio tempo a rispondere. "Ho visto il cane". Sarah lo guardò, sorpresa. "Un grosso cane nero, proprio come aveva detto Brian. Correva in un giardino a poca distanza dal luogo dell'incidente". "Passavi di lì e lo hai visto per caso?" "Non proprio. Lo stavo cercando". "Per scoprire se Brian aveva detto la verità?" "No. Lo sapevo già. Però avevo in testa una folle idea, che non riuscivo a scacciare". "Che idea?" "Ti ho detto, era folle". Lei lo guardò incuriosita, aspettando che continuasse. "Quando sono tornato a casa, il giorno in cui Brian mi ha raccontato tutto, ero sconvolto e continuavo a pensare che dovevo fare qualcosa. Qualcuno doveva pagare per ciò che era successo, ma non sapevo chi, finché non mi venne l'idea. Così ho preso la pistola di mio padre e sono uscito di notte in cerca di quel dannato cane". "Volevi sparargli?" Lui scrollò le spalle. "Non ero neppure sicuro di trovarlo, ma non appena mi sono avvicinato alla zona, l'ho visto. Stava dando la caccia ad uno scoiattolo in giardino". "E allora gli hai sparato?" "No. Sono arrivato lì con l'intenzione di farlo, ma quando l'ho avuto a portata di mira, mi è venuto da pensare che era una pazzia. Voglio dire, stavo ammazzando il cane di una famiglia sconosciuta. Solo una persona mentalmente disturbata farebbe un'azione del genere. Così mi sono girato e sono risalito in macchina. L'ho lasciato andare". Lei sorrise. "Come hai fatto con Brian". "Sì", disse lui. "Come ho fatto con Brian". Dopo un attimo di silenzio, lei allungò un braccio per prendergli la mano. "Ti sono grata. Sei stato molto generoso", disse. Miles le strinse brevemente la mano prima di allontanare la sua. "L'ho fatto anche per me. E per Jonah. Era ora di lasciare perdere. Avevo già buttato via due anni della mia vita e non vedevo il motivo di continuare così. Una volta che me ne sono reso conto... non so... è stato come se fosse l'unica cosa da fare. Qualsiasi punizione potesse subire Brian, non mi avrebbe restituito Missy". Si portò le mani al viso e si strofinò gli occhi. Rimasero entrambi in silenzio per un po'. Il cielo sopra di loro era pieno di puntini luminosi e Miles si ritrovò a fissare la stella polare. "Ho bisogno di un po’ di tempo", mormorò. Lei annuì, capendo che si riferiva a loro due. "Lo so". "E non posso dirti nemmeno quanto". "Vuoi che ti aspetti?" Lui ci rifletté a lungo. "Non me la sento di fare promesse, Sarah. Su di noi, cioè. Io ti amo ancora... ho passato gli ultimi due giorni a tormentarmi proprio su questo. Per me tu sei importante. Cavolo, sei l'unica cosa bella che mi sia capitata dalla morte di Missy. E anche Jonah ti è affezionato, in questi giorni gli sei mancata molto. Ma una parte di me non riesce ad accettare quello che è successo. Non riesco a dimenticare... e tu sei sua sorella". Sarah serrò le labbra. Era ferita, ma non se la sentiva di dargli torto. "Non so se potrei convivere con questo fatto. Anche se tu non c'entri niente, stare con te sarebbe un po’ come dover stare vicino a lui. Fa parte della tua famiglia e... io non sono pronto. Non sarei in grado di affrontare una situazione del genere. E non so se mai ci riuscirò". "Potremmo trasferirci", suggerì lei. "Potremmo cercare di ricominciare da un'altra parte". Miles scrollò la testa. "Dovunque andassi, questa consapevolezza mi seguirebbe. Lo capisci anche tu..." Tacque, guardandola negli occhi. "Non so proprio che cosa fare". Lei sorrise triste. "Nemmeno io", ammise. "Mi spiace". "Anche a me". Dopo un attimo, Miles le si avvicinò. La baciò dolcemente e la tenne stretta a lungo tra le braccia, nascondendo il viso tra i suoi capelli. "Ti amo, Sarah", mormorò. Lei era molto triste, si appoggiò contro di lui come per imprimersi nella memoria la forma del suo corpo. Si chiedeva se sarebbe stata l'ultima volta che si abbracciavano. "Anch'io ti amo, Miles", sussurrò con voce spezzata. Si staccarono e Sarah fece un passo indietro, cercando di frenare le lacrime. Miles rimase immobile e lei prese le chiavi dalla tasca della giacca. Le udì tintinnare mentre le tirava fuori. Non riusciva a pronunciare le usuali parole di commiato, temendo che fossero definitive. "Ti lascio tornare da tuo figlio", disse infine. Alla luce soffusa della veranda, le parve di scorgere lacrime anche negli occhi di lui. Si asciugò il viso e disse: "Ho comprato un regalo di Natale per Jonah. Ti dispiace se un giorno passo a portarglielo?" Miles guardò lontano. "Può darsi che non ci trovi. Stavo pensando di andare a Nags Head la settimana prossima. Charlie ha una casetta lassù e ha detto che posso usarla. Ho bisogno di starmene via per un po', capisci?" Lei annuì. "Io invece resterò a casa, se vorrai darmi un colpo di telefono". "D'accordo", mormorò lui. Nessuna promessa, pensò lei. Fece un altro passo indietro, si sentiva svuotata, anelava a trovare qualcosa da dire che potesse cambiare le cose. Con un sorriso tirato, andò alla macchina, sforzandosi di mantenere il controllo. Le tremavano leggermente le mani quando aprì la portiera e si voltò a guardarlo. Lui non si era mosso; la sua bocca era serrata in una linea dritta. Si infilò dietro il volante. Miles la stava osservando, avrebbe voluto chiamarla, chiederle di restare, assicurarle che avrebbe trovato un modo per rimediare a tutto. Dirle ancora che l'amava e l'avrebbe sempre amata. Ma non lo fece. Sarah accese il motore. Miles si spostò verso le scale e lei sentì un tuffo al cuore, ma poi si rese conto che lui era diretto verso la porta. Non l'avrebbe fermata. Ingranò la retromarcia e partì. Sentiva le lacrime scenderle lungo le guance. Quando Miles aprì la porta, Sarah ebbe la desolante sensazione che quella fosse l'ultima immagine che avrebbe conservato di lui. Non poteva più restare a New Bern. Sarebbe stato troppo doloroso incontrarsi in giro; così si sarebbe dovuta trovare un altro lavoro. Un altro posto dove ricominciare. Di nuovo. Una volta sulla strada, accelerò, sforzandosi di non voltarsi indietro. Me la caverò, si disse. Qualunque cosa accada, ce la farò, del resto mi è già capitato. Con o senza Miles, sopravviverò. Non è vero, gridò all'improvviso una voce dentro di lei. Allora crollò: con gli occhi annebbiati dalle lacrime, si fermò sul ciglio della strada. Mentre il vapore cominciava ad appannare i finestrini, Sarah pianse come non aveva mai fatto prima. Capitolo trentasettesimo "Dov'eri?" chiese Jonah. "Ti ho cercato, ma non ti trovavo". Sarah era andata via da mezz'ora, ma Miles era tornato sulla veranda. Era appena rientrato quando si era trovato davanti il figlio. "Ero fuori in veranda". "Che cosa facevi lì?" "C'era Sarah". Il viso di Jonah si illuminò. "Davvero? E dov'è?" "No, adesso non è più qui. Non poteva fermarsi". "Oh..." Alzò il visino verso il padre. "Fa niente", disse, senza riuscire a nascondere la delusione. "Volevo solo mostrarle la torre che ho costruito con il Lego". Miles si accovacciò alla sua altezza. "Puoi mostrarla a me". "Tu l'hai già vista". "Lo so. Ma puoi farmela vedere di nuovo". "Non ce n'è bisogno. Io volevo che la vedesse la signorina Andrews". "Mi spiace, allora. Magari puoi portarla a scuola domani per mostrargliela". Jonah scrollò le spalle. "Va bene". Miles lo osservò attentamente. "Che cosa c'è che non va, campione?" "Niente". "Ne sei sicuro?" Jonah non rispose subito. "Credo che mi manchi, ecco". "Chi? La signorina Andrews?" "Sì". "Ma la vedi a scuola tutti i giorni". "Lo so, ma non è lo stesso". "Non è come quando è qui, vuoi dire?" Jonah annuì, con aria persa. "Avete litigato, voi due?" "No". "Però non siete più amici". "Ma certo che lo siamo. Siamo ancora amici". "Allora perché non viene più qui?" Miles si schiarì la gola. "Ecco, in questo momento le cose sono un po’ complicate. Quando sarai cresciuto, capirai". "Oh", disse Jonah. Poi rimase assorto. "Non voglio diventare grande", dichiarò alla fine. "E perché?" "Perché i grandi dicono sempre che le cose sono complicate", fu la risposta. "A volte è così". "Ti piace ancora la signorina Andrews?" "Sì", rispose Miles. "E tu le piaci?" "Credo di sì". "Allora che cosa c'è di complicato?" Aveva un'espressione implorante e Miles in quel momento capì che il figlio, non solo sentiva la mancanza di Sarah, ma le voleva anche bene. "Dai, vieni qui", gli disse, abbracciandolo senza sapere che altro fare. Due giorni dopo, Charlie si presentò a casa sua mentre stava caricando la macchina. "Sei già in partenza?" gli chiese. Miles si voltò. "Oh... ciao, Charlie. Ho pensato che fosse meglio partire presto. Non voglio rischiare di trovare traffico". Chiuse il bagagliaio e si girò. "Grazie ancora per averci prestato la casa". "Nessun problema. Ti serve aiuto?" "No, grazie, ormai ho finito". "Quanto tempo starai via?" "Non lo so. Magari un paio di settimane, fino a Capodanno. Sicuro che non ci siano problemi?" "Non preoccuparti... hai accumulato ferie sufficienti a stare lassù un mese". Miles scrollò le spalle. "Chissà. Magari lo farò". Charlie gli lanciò un'occhiatina. "Senti, sono venuto a dirti che Harvey non formalizzerà le accuse contro di te. Pare che Otis abbia deciso di non sporgere denuncia. Quindi ufficialmente la sospensione è finita e potrai rimetterti al lavoro appena torni". "Ottimo". Jonah uscì precipitosamente in giardino facendoli girare verso di lui. Salutò Charlie, quindi corse di nuovo dentro, come se avesse dimenticato qualcosa. "Allora, Sarah verrà a trovarvi per qualche giorno? Anche lei è la benvenuta a casa mia". Miles, che fissava ancora la porta, si girò a rispondergli. "Non credo. C'è qui tutta la sua famiglia e, durante le feste, non penso che ce la farà a raggiungerci". "È un peccato. Ma vi vedrete al tuo ritorno, vero?" Miles abbassò lo sguardo e Charlie afferrò il messaggio. "Non va troppo bene, eh?" "Sai com'è". "A dire il vero, no. Sono quarant'anni che non ho relazioni sentimentali, a parte mia moglie. Però nel vostro caso è un peccato". "Ma se non la conosci nemmeno, Charlie". "E che importa? Dicevo che è un peccato per te". Si infilò le mani in tasca. "Senti, non sono venuto qui a ficcanasare. Sono affari tuoi. In realtà c'è un altro motivo. Qualcosa che mi lascia ancora perplesso". "Ah, sì?" "Stavo ripensando a quella telefonata... sai, quando mi hai detto che Otis era innocente e mi hai suggerito di chiudere le indagini". Miles non disse niente e Charlie lo scrutò da sotto il cappello. "Immagino che tu ne sia ancora convinto". Dopo un po', Miles annuì. "Nonostante le dichiarazioni di Sims e di Earl?" "Sì". "Non lo dici solo per poterti occupare personalmente della questione, vero?" "Hai la mia parola, Charlie". Lo sceriffo intuì che diceva la verità. "Va bene", concluse. Si strofinò le mani sulla giacca, come per pulirle, poi si toccò il cappello. "Allora... divertiti su a Nags Head. Pesca un po’ anche per me, d'accordo?" Miles sorrise. "Ci puoi contare". Charlie fece qualche passo, poi si fermò di scatto e si girò. "Senti... c'è ancora una cosetta". "Quale?" "Brian Andrews. Non ho ancora ben chiaro il motivo per cui lo stavi portando dentro quel giorno. C'è qualche affare in sospeso di cui dovrei occuparmi mentre sei via? Qualcosa che dovrei sapere?" "No", rispose Miles. "Ma che era successo? Non me lo hai ancora spiegato bene". "È stato un equivoco, Charlie". Miles esaminò il bagagliaio dell'auto. "Soltanto un equivoco". Lo sceriffo fece una risata. "Sai, è buffo". "Che cosa?" "È la stessa identica risposta che mi ha dato Brian Andrews". "Hai parlato con lui?" "Dovevo verificare la sua versione, capisci. Era rimasto coinvolto in un incidente mentre era sotto la custodia di uno dei miei agenti. Era mio dovere accertarmi di come erano andati i fatti". Miles impallidì. "Stai tranquillo. Ho fatto in modo che durante il nostro colloquio non ci fosse nessun altro in casa". Una pausa significativa, poi si strofinò il mento con la mano, pensieroso. "Vedi", proseguì infine, "continuavo a pensare a queste due cose che non mi convincevano e l'investigatore che è in me aveva la sensazione che fossero in qualche modo collegate". "Invece non lo sono", si affrettò a precisare Miles. Charlie annuì, serio in volto. "Immaginavo che lo avresti detto, ma io dovevo accertarmene. Senti, voglio essere chiaro: c'è qualcosa che adesso dovrei sapere a proposito di Brian Andrews?" Miles avrebbe dovuto immaginare che il suo capo non era uno stupido. "No", rispose soltanto. "D'accordo. Allora lascia che ti dia un consiglio", disse Charlie. Miles era curioso di sentirlo. "Se con il tuo comportamento mi stai dicendo che è finita, allora fai che lo sia davvero, d'accordo?" gli disse lo sceriffo, serio. "Che cosa significa?" "Se è finita, finita sul serio, allora non lasciare che questa storia ti rovini il resto della vita". "Non ti seguo". Charlie sospirò. "Mi segui benissimo, invece". Epilogo È quasi l'alba e la mia storia volge al termine. Credo sia ora di rivelarvi com'è andata a finire. Adesso ho trentun anni. Sono sposato da tre con Janice, una ragazza che ho conosciuto un giorno in panetteria. Anche lei è insegnante, come Sarah, anche se tiene lezioni di inglese alle superiori. Abitiamo in California, dove ho frequentato la facoltà di medicina e ho preso la residenza. Sono un medico che lavora nel pronto soccorso, mi sono specializzato da un anno e nelle ultime tre settimane, con l'aiuto di molti altri, ho salvato la vita a sei persone. Non lo dico per vantarmi, ma solo per dimostrarvi che ce l'ho messa tutta per rendere onore alle parole che mi aveva detto Miles al cimitero. Ho anche mantenuto la promessa di non parlarne con nessuno. Sapete, Miles non mi fece promettere di stare zitto per il mio bene. All'epoca ero convinto che il mio silenzio servisse a proteggere soprattutto lui. Che ci crediate o no, quel giorno, lasciandomi libero, lui commise un reato. Uno sceriffo che sa con certezza che qualcuno ha commesso un crimine è tenuto ad arrestarlo. E sebbene non ci fosse proporzione tra le nostre due azioni illegali, Miles aveva infranto la legge. Almeno era quello che pensavo allora. Dopo anni di riflessione, però, mi sono reso conto che mi sbagliavo. Adesso so che me lo chiese per il bene di Jonah. Se la notizia che c'ero io al volante della macchina, la notte in cui Missy morì, fosse diventata di pubblico dominio, la gente in città avrebbe continuato a fare congetture sul passato di Miles. "Sapessi, gli è capitata una cosa terribile", avrebbe commentato ogni volta che si presentava l'occasione... e Jonah sarebbe cresciuto in mezzo a quelle voci. Che effetto avrebbe avuto su di lui? Perciò Miles non voleva correre rischi. Né voglio farlo io adesso. Quando avrò finito, ho intenzione di bruciare questi fogli nel camino. Avevo solo bisogno di tirare fuori tutto. La situazione è ancora abbastanza difficile, per noi. Sento raramente mia sorella per telefono, in genere a ore strane, e vado a trovarla di rado. Uso la distanza come scusa - lei vive dall'altra parte del paese - ma entrambi sappiamo benissimo qual è la vera ragione che mi spinge a stare lontano. A volte, però, lei viene a farmi visita. E arriva sempre da sola. Per quanto riguarda quello che accadde tra Miles e Sarah, sono sicuro che l'avrete già indovinato. Successe la notte di Natale, sei giorni dopo che si erano tristemente congedati sulla veranda. A quel punto lei cominciava a rassegnarsi, suo malgrado, all'idea che fosse tutto finito. Non aveva più ricevuto notizie da Miles, né se le aspettava. Ma quella sera, dopo essere stata a trovare i genitori, mentre scendeva dall'auto e alzava lo sguardo verso il suo appartamento, rimase stupita. Non credeva ai suoi occhi. Li chiuse, li riaprì lentamente, sperando e pregando che fosse vero. Lo era. Sarah sorrise. Come minuscole stelle, c'erano due candele accese alla finestra. E Miles e Jonah erano in casa ad aspettarla.