La testimonianza o il potere, che cosa rifonda la politica
nella storia?
Dialogo intorno al libro
“Critica della teologia politica”
di Massimo Borghesi (Ed. Marietti, 2013)
incontro con
Antonio Polito, Editorialista del Corriere della Sera
Silvio Ferrari, Docente di Rapporti Stato Chiesa, università degli studi di Milano
Massimo Borghesi, Docente di Filosofia Morale, Università di Perugia
coordina
Alessandro Banfi, Direttore di TGCOM
Sala Verri di via Zebedia 2, Milano
Martedì 12 novembre 2013
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Via Zebedia, 2, 20123 Milano
tel. 0286455162-68 fax 0286455169
www.centroculturaledimilano.it
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La testimonianza o il potere,
che cosa rifonda la politica nelle storia?
ALESSANDRO BANFI: Buona sera a tutti e benvenuti a questo incontro. Il titolo è: La
testimonianza o il potere? Che cosa rifonda la politica nella storia? Devo dire che il titolo
riecheggia un articolo di fondo del Corriere della Sera di Antonio Polito scritto all'inizio dell'ultimo
Meeting di Rimini, ma lo spunto ce lo dà un articolo del professor Massimo Borghesi: Critica della
teologia politica. Da Agostino a Peterson. La fine dell' era costantiniana. Un libro che riflette in
modo molto originale, partendo proprio dal tema della teologia politica, non della teologia della
politica, che ha conosciuto un momento di ritorno, a partire dal crollo delle Torri Gemelle, di
grande interesse, anche nel pensiero contemporaneo di estrazione laica e di sinistra. Questo sarà lo
spunto questa sera per ragionare con l'autore del libro, con Antonio Polito e con il professore Silvio
Ferrari.
L'incontro è organizzato dal Centro Culturale di Milano, ma anche dalla rivista Oasis che ha diversi
motivi di interesse per questo lavoro di Borghesi e per questo coacervo di riflessioni che sono
contenute nel libro, perché è ricco di spunti. Come sempre la profondità del pensiero di Borghesi
aiuta a comprendere molti fatti dell'oggi, come sottolineano non solo gli amici di Oasis, perché
riflettono in un dibattito molto profondo con il mondo musulmano su come si possa agire nella vita
pubblica a partire dalla propria religione, che rapporti ci siano fra la religione, le costituzioni e
l'impegno politico. Oasis ha tradotto gli articoli di Borghesi, in particolar modo su Del Noce, e su
questi temi, in arabo. Il libro di Massimo propone delle riflessioni interessantissime sul dibattito che
c'è nel mondo occidentale, nel campo occidentalista, come risposta, dopo l'11 settembre, ad una
politica che combatteva contro una teologia politica così forte, come poteva essere quella della
guerra santa islamica o dell'islamismo o del pensiero islamico, riscoprendo una qualche forma di
cristianismo o di teologia politica dopo la secolarizzazione.
Ci sono anche altri spunti profondamente legati alla storia, perché si cita Costantino - c'è il grande
anniversario dell'editto di Milano - riflette su Costantino e su due visioni del problema del rapporto
tra il cristiano e lo Stato, e la vita pubblica, almeno due visioni agostiniane. C'è un altro contenuto
che mi colpisce molto, di grande attualità, che è la riflessione sul cesaro-papismo: un modo di
incarnare la teologia politica, soprattutto forte in Oriente sin dal primo millennio, è stato quello di
proiettare sull'uomo che ha il potere, sul cesare, sul dittatore, sul presidente, un’autorità anche in
campo religioso. E mi viene in mente Putin, è un tema che oggi ha una grandissima attualità, basti
pensare a Putin e a tutto il problema dei cristiani in Siria, del peso strategico- diplomatico che ha
avuto un certo modo di Putin di rappresentare le istanze della Chiesa ortodossa Russa o dei cristiani
in genere. I temi sono molti e sono fecondi e la profondità della riflessione aiuta a comprendere la
realtà che è poi quello che interessa a tutti, soprattutto un intellettuale vivo come è Massimo
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Borghesi. Parto dal primo approfondimento, racconto, reazione che ci propone Silvio Ferrari,
docente dei rapporti Stato-Chiesa nell'Università degli Studi di Milano proprio su questo lavoro di
Massimo Borghesi.
SILVIO FERRARI: Io mi sono assunto, forse incautamente, il compito di dare una mia lettura di
questo libro. Ovviamente è una lettura molto personale, quindi criticabile. Mi pare che l'impianto
teorico del libro sia relativamente semplice in quanto è fondato su una distinzione tra teologia
politica e teologia della politica. L'idea di partenza è che la teologia politica è qualcosa che presenta
numerose negatività, la teologia della politica è una cosa diversa. Perché la teologia politica è
oggetto di una critica, di un giudizio negativo? Perché si dice fondamentalmente che confonde Dio
e Cesare, e quindi provoca guai. Come nel caso delle religioni politiche del 1900: il comunismo, il
fascismo, sono ideologie politiche che hanno assunto le vesti di una religione e si sono trasformate
in totalitarismi; ma anche nel senso opposto: politiche nel senso che usano la religione per propri
fini e che utilizzano linguaggio e contenuti religiosi per finalità politiche. Il linguaggio in questo
caso è abbastanza esplicito: mi veniva in mente la lotta contro il grande Satana statunitense di
Khomeini, ma anche la lotta contro l'impero del male comunista di Regan, come usi di un
linguaggio religioso, o fortemente etico, per finalità politiche. Anche queste espressioni religiose a
fini politici non ci hanno portato tanta fortuna: da un lato abbiamo avuto il fondamentalismo
islamico, dall'altro abbiamo avuto una disastrosa guerra in Iraq. Invece della teologia politica c'è
anche una teologia della politica e su questo il giudizio dell'autore è più positivo perché dice: «la
teologia della politica salva la distinzione tra sacro e profano, tra politica e religione». Nel senso che
la fede religiosa anima l'azione politica, però non si identifica con essa e soprattutto la fede religiosa
non affida alla politica il compito di realizzare il regno di Dio in questo mondo.
L'autore mi sembra che veda la terra della teologia politica non soltanto nel mondo islamico, ma
anche negli USA per una certa interpretazione della religione civile statunitense che porta a questa
teologia politica. Borghesi vede l'Europa come la terra della teologia della politica, anche se è
inaridita da uno scetticismo che ha spento - l'espressione il “fuoco nella mente” - gli ideali e ha
favorito una sorta di deserto dei valori.
Questo mi sembrava, come l'ho capito io, l'impianto teorico. La cosa più interessante è che sulla
base di questo impianto Borghesi fa una rilettura degli avvenimenti della storia degli ultimi quaranta
anni a livello mondiale e la fa alla luce di due crolli. Il primo crollo è quello del muro di Berlino, il
crollo del comunismo, dell'impero sovietico innescato dall'incontro tra tradizione cattolica e popolo
che ha caratterizzato la Polonia di Solidarność. La cosa che mi ha intrigato di più è l'affermazione
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che questa esperienza della Polonia di Solidarność, cioè l'esperienza di un modello nazionale
religioso, può esser utile per situazioni eccezionali: la Polonia, l'Irlanda, paesi divisi, paesi in
conflitto; ma è qualcosa che non è riproponibile come un modello realistico per l'Europa
occidentale secolarizzata; questo potrebbe essere un tema di discussione interessante.
Il secondo crollo, dopo quello del muro di Berlino, è quello delle Torri Gemelle di New York, nel
2001, che riapre la stagione della teologia politica che era stata messa un po’ in frigorifero dalla fine
della Guerra Fredda, dalla fine del bipolarismo Oriente-Occidente; è la stagione dello scontro tra le
civiltà: da una parte il fondamentalismo islamico, dall’altra parte il conservatorismo religioso
americano. Così torniamo di nuovo alle terre della teologia politica che percorrono un po’ tutto
quanto il libro. Qui sorge una domanda: se le terre della teologia politica sono da un lato il mondo
islamico, dall’altro gli Stati Uniti, dove andare? Dove sta la terra promessa? Come si esce da questo
dilemma? Un po’ a sorpresa – e questo è un tema che di nuovo si potrebbe discutere – mi sembra
che l’autore, seppur implicitamente, indichi l’Europa e lo fa, nella parte finale del libro, riferendosi
a due pensatori entrambi tedeschi. Il primo è un giurista, Wolfgang Böckenförde, che pone il
problema in questi termini: «Lo stato liberare secolarizzato è basato su presupposti che esso non
può garantire»; che tradotto in altre parole vuol dire che il meccanismo formale della democrazia, lo
stato liberare secolarizzato, non basta se non vi è un ethos condiviso che garantisce il legame
sociale. Il legame sociale una volta era fornito dalla religione, poi – dice sempre Böckenförde – è
stato fornito dalla nazione, ora non è più così e lo stato liberare secolarizzato non è in grado di
ricreare questo legame sociale che prendeva dall’esterno. E allora come fare? Böckenförde pone il
problema.
Il secondo autore su cui Borghesi si ferma è un filosofo della politica: Jürgen Habermas. Egli,
secondo me, non dà una soluzione, ma indica una strada dicendo: «Dobbiamo spostare l’attenzione
dallo stato alla sfera pubblica perché è qui che vengono tradotte in esperienze e progetti di valore
pubblico gli ideali che animano le persone». Potremmo dire che è nella società civile che troviamo
una serie di progetti, di esperienze, di esperimenti sociali (quindi pubblici) in cui le persone
trasfondono gli ideali che li animano e in questa maniera cercano di cambiare la realtà esistente. Lo
stato riceve e riprende da questa esperienza i contenuti che poi ripropone nelle sue leggi. Non vi è
alcuna garanzia di sicurezza nella strada indicata da Habermas, perché il principio normativo che
governa la società civile o la sfera pubblica è la libertà e quando parliamo di libertà inevitabilmente
c’è un rischio, il rischio della libertà che deve essere corso. In questo senso non c’è una posizione di
vantaggio acquisita che si può giocare nella sfera pubblica, ma è qualcosa che va vissuto
responsabilmente giorno per giorno; però – e questo a mio parere è il punto interessante di
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Habermas – questa è una sfida che si deve avere il coraggio di accettare. La sfida di giocare i propri
ideali in uno spazio di libertà e quindi in concorrenza con altri ideali, e di vedere se si riesce a
tradurre questi ideali in esperimenti sociali che possano valere per tutti, è una sfida che deve essere
accettata perché, in un certo senso, è la condizione per cercare di arrivare ad un bene comune.
Questa è un po’ la lettura che io faccio del libro di Borghesi; ci sono dei punti a mio parere da
discutere, anche di dissenso, ma in questo primo giro mi fermerei a questo punto.
A. BANFI: Chiedo ad Antonio Polito: uccidere in nome di Dio, come accade per l’attentato delle
Torri Gemelle, rende questo tema di grande attualità anche per l’Occidente stesso.
ANTONIO POLITO: Secondo me il valore notevole del libro di Borghesi è proprio quello di
accendere, sulla base di una riflessione molto ampia e che affonda la ricerca fino al pensiero di
Agostino, un faro che illumini questo straordinario decennio che ci siamo lasciati alla spalle, nel
corso del quale siamo stati costretti da un evento tragico, straordinario, unico - secondo alcuni
paragonabile alla presa di Costantinopoli da parte dei musulmani - che è stato l’attentato alle Torri
Gemelle, concepito come la sfida più terribile portata finora alla civiltà occidentale. Questa, se
posso permettermi, è stata però anche un’occasione magnifica per definire chi siamo; tutto sommato
è proprio quando il nemico è alle porte che uno si interroga sulla propria identità, su quale sia la sua
civiltà, in che cosa egli differisca da chi lo sta aggredendo e come si possa sconfiggere il progetto di
chi lo vuole abbattere e distruggere. Per questo io penso che in quegli anni, a partire dalle Torri
Gemelle, l’Occidente, interrogandosi su questo, ossia su cosa veramente è, ha dovuto dare due
risposte di grandissima portata; la prima era la seguente: per combattere questo nuovo nemico –
l’Occidente aveva già combattuto il comunismo, seppure si sia trattata di una guerra a bassa
intensità tanto che veniva definita “fredda” – io devo assomigliargli un po’ di più o devo rimanere
me stesso fino in fondo? Quello che sono è una debolezza o una forza? Sono più forti loro perché
hanno un disprezzo maggiore della vita? Ad un certo punto c’è uno dei messaggi degli attentatori
che dice: voi Occidentali perderete perché amate la vita, noi no. Dobbiamo ridurre le nostre libertà
civili per combattere meglio il nostro nemico? Ridurre la privacy delle persone? Insomma ci siamo
trovati di fronte a tutta una serie di domande come: vale la pena continuare ad essere quello che
siamo stati, quello di cui ci facciamo vanto, ossia i valori della nostra civiltà, oppure sono questi che
ci fanno soccombere? A questa prima sfida penso che si sia corso il rischio per un periodo di dare
una risposta sbagliata, ossia: sì, dobbiamo assomigliare di più al nostro nemico. Dobbiamo in
qualche modo dare una risposta “cristianista”, occidentalista ad una sfida che è fondamentalista e
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islamista, cioè trasformare lo scontro di civiltà della famosa definizione di Huntington in uno
scontro di religione apertamente tale. Sono stati molti gli intellettuali e pensatori, credenti e non
credenti, che hanno suggerito questo tipo di soluzione con gradi diversi. Questo avrebbe comportato
la pretesa da parte dello stato e della politica di adottare un fine religioso, quello che Borghesi nel
libro descrive con estrema lucidità, questo rischio che lui definisce la fine della distinzione tra sacro
e profano, tra fede e politica. E bisogna dire, riconoscere che forse più di molti laici la Chiesa
Cattolica ha dato un potente aiuto ad evitare questo rischio, un aiuto straordinario perché la
posizione di Giovanni Paolo II, che è stata molto deludente per molti “cristianisti”, per molti
occidentalisti, è stata cruciale per evitare una guerra di religione, e al fine di tenere aperto anche nel
mondo islamico il filo di un dialogo che isolasse progressivamente le spinte più estremiste e più
pericolose, difendendo in questo modo non solo la politica dalla religione ma anche la religione
dalla politica, cioè il rischio che la religione venga usata come un instrumentum regni. L’altra sfida
che merita un attimo di riflessione e che il libro di Borghesi ci spinge a fare, ad analizzare, l’altra
grande domanda che ci spinge a fare un evento così eccezionale, è stata quella del tema della laicità,
ha rimesso in discussione il tema della laicità: se l’occidente non deve rispondere, diciamo così,
imitando i suoi avversari dal punto di vista del rapporto tra fede e politica, vuol dire che questo deve
rispondere estromettendo la fede dalla sfera dello spazio pubblico, dalla sfera della discussione
pubblica, perché può essere questa una risposta; se io non devo fondere fede e politica, devo
separarli al punto da fare a meno della fede e, diciamo, sostituirvi una religione politica, che è un
po’ quella che adesso veniva ricordata in qualche modo negli Stati Uniti, c’è nella tradizione degli
Stati Uniti e c’è stata sicuramente nel periodo di egemonia di Bush, dal modo in cui egli ha
impostato la guerra al terrorismo. Anche questa sarebbe una risposta sbagliata, si è dimostrata una
risposta sbagliata, Borghesi l’argomenta bene, perché in realtà quello spazio pubblico che
difendiamo, europeo, è stato definito dalla fede cristiana, dal cattolicesimo, perché il cattolicesimo
ha visto, per una serie di ragioni storiche, con estremo anticipo, la differenza tra la città di Dio e
città del mondo, della storia e su questa distinzione ha costruito lo spazio pubblico europeo, il quale
è esso si superiore, io questo non ho difficoltà ad ammetterlo – qualche volta c’è stata una polemica
sul termine superiore – ma è certamente superiore a certi ambiti culturali, in particolare quello
dell’Islam, dove questa distinzione non c’è, non c’è storicamente come forse non c’è
concettualmente. Quindi, intorno alla sfida che ci è venuta dai seguaci di una religione diversa dalla
nostra e intorno al modo in cui la religione cattolica ha reagito in Europa nel dibattito pubblico a
questa sfida, si è ridefinita da due punti di vista molto importanti: il rapporto tra fede e politica e
laicità dello stato; si è ridefinita l’identità occidentale, con esiti di cui non sappiamo ancora il
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risultato; io non saprei dire come è finita, anche perché siamo troppo vicini agli eventi. Si dice che
Deng Xiaoping, interrogato sugli esiti della Rivoluzione Francese, disse che era un po’ troppo
presto per dare una risposta. Io non voglio arrivare a questo, ma sono eventi di 10 anni fa, e forse è
un po’ troppo presto per dirlo, ma questo fatto è di estremo interesse e va detto che è molto
interessante ai fini della ricostruzione di un filo che da questo punto di vista lega in maniera
formidabile i tre Papi che si sono succeduti da allora. Questa è un’altra riflessione interessante che
fa Borghesi: c’è una continuità molto forte tra Giovanni Paolo II, Ratzinger e Bergoglio, anche con
citazioni molto calzate. Secondo me questa particolarità della religione cattolica, come dicevo
prima, e del Cristianesimo più in generale, ha a che fare con la storia del Cristianesimo, infatti
parlando di Agostino, Borghesi esprime molto bene questo concetto: il Cristianesimo è una
religione che nasce perseguitata, cioè che nasce in conflitto con lo Stato, con l’autorità pubblica,
quindi per forza di cose è spinta fin dall’inizio verso il valore della tolleranza. Borghesi sostiene
infatti che Agostino recuperi questa Chiesa dei primi quattrocento anni nel De Civitate Dei,
riscoprendo così un Agostino differente da quello fondatore del pensiero cristiano medievale, ed è
anche la religione che spiega, e questo non è vero per altre religioni, non è vero per l’ebraismo, che
nasce come la religione di un popolo, anche come un canto di indipendenza, e non è vero
ovviamente per l’Islam, che cammina con gli eserciti, si identifica con gli eserciti, che conquistano
territorio dopo territorio. Siamo anche di fronte, secondo me, alla ragione per cui la religione
cattolica, pur essendo tra di queste la più universalista, cioè quella che ha più ambizioni universali,
anzi che ha una dichiarata intenzione universale di evangelizzazione, non dico di proselitismo
perché la parola è stata messa fuori legge da papa Francesco e non si può più usare, ma avendo
un’aspirazione universalista che nelle altre religioni in realtà non c’è, o c’è molto meno; è una
religione di pace, una religione che non incita alla guerra tra le religioni, ma al suo contrario.
Volevo infine dire una cosa sul carattere e sul noi, sull’Occidente diciamo in questo decennio così
cruciale, così topico; è molto interessante anche quello che in un appendice Borghesi scrive
pubblicando due articoli già editi precedentemente su loro, i combattenti di questo estremismo, di
questo fondamentalismo islamico, perché io trovo ci siano delle intuizioni molto giuste sul carattere
di questa sfida, innanzi tutto presentandosi con la forma di tradizionalismo, cioè di una riconquista
delle tradizioni, per questo anche fondamentalismo, tornare ai fondamenti, in effetti ha i caratteri di
un’assoluta modernità, seppur reazionaria, cioè di una reazione allo spirito del tempo, e Borghesi
stabilisce un paragone molto calzante con il rivoluzionarismo di stampo marxista. In qualche modo
più che una risposta religiosa, quella dell’estremismo islamico del fondamentalismo islamico è una
risposta politica, è una risposta rivoluzionaria, è una delle forme che ha assunto il rifiuto della
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società liberale e della società capitalista. D’altra parte uno dei sui teorici, Qutb, l’egiziano, è in
America, è durante un viaggio negli Stati Uniti per ragioni di lavoro mandato credo dal suo governo
a studiare un po’ di cose degli Stati Uniti, che definisce il suo rifiuto per questa società, per questo
sistema così come lo vede; e quindi «il cosiddetto risveglio religioso - scrive Borghesi - non
rappresenta una uscita dall’era della secolarizzazione, quanto una sua fase ulteriore. […] non è un
momento di purificazione della fede, ma la fase della sua compiuta mondanizzazione». Ed è una
osservazione di grande efficacia. Per sostenerla cita un giudizio di Fouad Allam che suona così:
«Così facendo, la religione cade nella trappola dell’astuzia della ragione: volendo ergersi contro
l’Occidente, si occidentalizza; volendo spiritualizzare il mondo, si secolarizza; e volendo negare la
storia, vi si inabissa completamente». Mi sembra una definizione perfetta dell’esperienza del
fondamentalismo islamico.
ALESSANDRO BANFI: Massimo la parola a te, sei stato stimolato ampiamente da questi primi
due interventi.
MASSIMO BORGHESI: Ringrazio innanzitutto i due relatori, Ferrari e Polito, Alessandro Banfi, e
ringrazio il Cento Culturale che ci ospita, la rivista Oasis parimenti che ha condiviso questo gesto,
ringrazio anche l’editore Marietti nelle vesti di Paola Osso, e ringrazio tutti voi che siete qui questa
sera in un’ora non presto certamente, quindi con la fatica che questo comporta.
Bene, questa riflessione, diciamo così, mi rendo conto che può apparire a prima vista un po’
astratta, quantomeno dici «Mah teologia politica, e poi critica della teologia politica, ma di che
parliamo?». Ma in realtà i nostri due relatori già lo hanno accennato, hanno accennato il problema:
insomma potremmo dirla così: dal 2001 in avanti la religione è stata posta ad un martellante uso del
potere, nel mondo, del mondo, e anche da noi. E però prima di poter dire questo è bene fare quella
distinzione che Ferrari ha fatto prima, cioè bisogna distinguere tra una teologia politica e una
teologia della politica. Potremmo dire così, con una battuta: noi oggi abbiamo disperatamente
bisogno di una teologia della politica, cioè avremmo bisogno di una linfa religiosa che desse un po’
di fiato, di respiro a questo panorama politico così desolante, così privo di ideali, così ripiegato sulle
questioni più tecniche, più piccole, la gioventù di oggi avrebbe un bisogno disperato di guardare, di
avere protagonisti, di avere personaggi che incarnano un ideale dentro la storia, e non abbiamo
niente. Quindi noi abbiamo un disperato bisogno di teologia della politica, mentre venivo a Milano
in treno mi leggevo questo libretto, non è la fine del mondo, di Giovanni De Luna, Una politica
senza religione, appena edito da Einaudi. L’autore viene da una formazione molto laica,
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dall’azionismo, dal suo punto di vista dice che ci vorrebbe una religione della politica, ci vorrebbe il
ritorno di una idealità, la seconda repubblica è stata uno sfascio totale, è rimasta soltanto
l’economia, e poi anche l’economia ha fatto il botto, e quindi non abbiamo più nessun punto di
riferimento. E quindi è interessante, vedete, come anche da un punto di vista laico, anzi di una
laicismo abbastanza estremo, viene questa richiesta di trovare una sponda religiosa, teologica
perché la politica possa tornare ad esprimere grandi parole, a dire qualcosa di più della politica del
momento. Quindi noi abbiamo bisogno di una teologia della politica, non abbiamo bisogno di una
teologia politica, perché la teologia politica in realtà è una forma della secolarizzazione.
La teologia politica indica che il nome di Dio viene utilizzato dal potere, vuol dire che è il potere
dell'uomo che si serve di Dio per realizzare il proprio potere, la propria potenza. Ne conosciamo le
forme, nel libro io le indico per sommi capi, quelle classiche, quelle del passato e del presente sono
la teocrazia, il cesaropapismo. La teocrazia in occidente è molto rara, a parte la bolla di Bonifacio
VIII Unam sanctam, mi pare non ci sia altro nella Chiesa di Roma; che la Chiesa possa pensare di
dominare il potere del mondo è una pura illusione, dopo Bonifacio VIII i papi diventano i
cappellani del re di Francia, son portati ad Avignone e quindi la pretesa di Bonifacio è
assolutamente tragica e anche patetica. È il potere del mondo che in realtà domina la Chiesa e la
sfera religiosa, quindi il cesaropapismo è sempre stata la posizione dominante: Cesare che diventa
papa, Cesare che usa della sua autorità politica sacralizzandola, come era d'altra parte l'antica
autorità pagana: l'imperatore è sacro, il faraone è sacro, tutte le figure del potere sono sacre nel
paganesimo. Poi ci sono le religioni politiche moderne, quelle dopo la rivoluzione francese, quelle
della laicité che trovano la loro ultima formula nella eterna Francia repubblicana la quale si illude
anche oggi, con la laicité, di servire da collante di fronte ad una nazione profondamente divisa con
il forte problema della immigrazione, del consolidamento dei legami sociali dal momento che l'etica
della nazione non funziona più. Ogni teologia politica, io nel libro mostro come quella moderna
dopo l'Ottocento sia molto diversa rispetto a quella che ha dominato nel mondo cristiano, è
fondamentalista, integralista, ogni teologia politica deve togliere la libertà. La teologia politica con
la quale noi ci paragoniamo in realtà, come diceva Carl Schmitt, che è colui che ha studiato la
teologia politica nel Novecento, non è la secolarizzazione del cristianesimo; in realtà è un teomanicheismo, cioè è una posizione religiosa, politica, per la quale vale la distinzione fondamentale
tra nemico e amico. Non c'è teologia politica se non c'è guerra. Il Dio della teologia politica è il Dio
degli eserciti, nei momenti tragici gli uomini si coalizzano e hanno bisogno del nemico, e allora Dio
sta con noi e sta contro di loro. È in questa situazione tragica che si vede come la teologia politica
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non è l'autentica teologia, perché porta la religione in un orizzonte dia-bolico che è quello del
contrasto e della lotta.
Una verifica velocissima: la teologia politica degli anni Settanta. C'era la teologia politica tedesca di
Metz, di Moltmann, la teologia politica di questi anni a cui molti furono sensibili dipendeva
dall'egemonia del marxismo, era una teologia che passava attraverso il marxismo, scopriva la lotta
di classe, il nemico, la guerra, addio carità, addio incontro con l'altro, il problema era prendere un
mitra, una pistola. La posizione era dialettica, si tornava al Dio degli eserciti; la teologia politica è
dialettica, ha bisogno di un nemico, di un avversario, dà una sanzione religiosa alla propria
posizione: Dio è con noi, noi vinceremo. Poi c'è stato l'anno '89, si è verificata la neutralizzazione
della politica, è rimasto un solo potere mondiale, gli Stati Uniti, l'altro è scomparso; non essendoci
più il nemico è scomparsa la teologia politica, si è liquefatta come neve al sole. Negli anni Ottanta e
Novanta, negli Stati Uniti la religione si chiamava New age, era una forma soft, onirica, che serviva
ad addormentare le coscienze e a non vedere le contraddizioni del mondo. Dentro la musica ed i
paradisi artificiali si poteva sognare del divino e dello spirituale, il potere voleva così. Gli anni
Ottanta-Novanta, gli anni della globalizzazione hanno rappresentato la fine della politica e insieme
della teologia e il primato dell'economia. Politica e teologia sono scomparse insieme; è rimasta solo
l'economia con il primato della globalizzazione. Significativo da questo punto di vista anche il
declino della fama di Giovanni Paolo II, il grande papa, protagonista della scena del mondo, il
grande riferimento, il grande attore, dopo l'anno '89 il potere del mondo non ha più bisogno di lui. Il
comunismo è stato sconfitto, ora Giovanni Paolo non serve più e declina nell’immaginario mondiale
e non è più al centro della scena. La stessa Polonia cattolica – il Papa lo sperimenterà nel viaggio
del ’91-’92 in Polonia -, la sua grande Polonia, quella che doveva essere il punto di rinascita
dell’Europa secolarizzata occidentale, quella che offriva il modello per il rapporto tra cattolicesimo
e nazione, quella che ci aveva dato Solidarność, già nel ’92-’93 si avviava rapidamente ad un
processo di secolarizzazione, di occidentalizzazione, di mercato con tutti i valori relativi, e la chiesa
appariva sempre più come un peso ingombrante e fastidioso rispetto ai desideri dei giovani e al
mondo opulento e splendido che l’Europa dell’ovest stava proponendo. Fu una grande delusione per
il Papa che si stava rendendo conto che il modello polacco evidentemente non aveva futuro. Il 2001
rappresenta il ritorno della teologia politica. Sono i crolli che determinano questo: l’abbattimento
delle torri di Babele di Manhattan provoca di nuovo la reazione politico-religiosa. L’islamismo
radicale da un lato, quello fondamentalista – non tutto l’islam è così, va detto, abbiamo tanti amici
tra noi che manifestano un volto diverso dell’Islam – quello era l’Islam fondamentalista, quello che
copiava i metodi dei terroristi degli anni ’70, da noi ben conosciuti. Che li aveva copiati, studiati ed
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addestrati bene. Ebbene, a quella teologia politica dell’Islam, l’Occidente oppone la sua teologia
politica, quella che nasce dalla religione civile americana. Esiste una religione civile americana,
Bellah l’ha studiata, ci ha dato un ottimo studio in proposito, e anche un altro autore, Hauerwas, ha
studiato bene la religione civile americana. Essa è una sorta di culto che eredita alcune posizioni
ebraiche ed altre cristiane, ha i suoi martiri (Lincoln), è una religione della nazione. L’America si
sente una nazione messianica – in qualche modo è la sua eredità puritana – che è destinata a salvare
il mondo nel segno della democrazia. È un’ideale altissimo e bello, anche nobile, però è una sorta di
religione nazionale e come tutte le religioni nazionali, ha pregi e difetti e, certamente, non esistono
religioni nazionali se non si legano al problema della guerra. Non esiste teologia politica se non c’è
guerra. Hauerwas ha colto molto bene questo legame tra religione civile americana guerra. Bush ha
resuscitato l’aspetto bellicoso della religione civile americana, cioè di un popolo in armi che difende
la democrazia nel mondo. I primi cinque-sette anni del duemila ci hanno offerto questo scenario
teologico-politico che, lo ricordava Polito, ha avuto una presenza cospicua anche qui da noi (i
giovanissimi non lo ricorderanno ma noi un po’ di più). Qualche nome lo posso anche fare:
Giuliano Ferrara era sparatissimo naturalmente in questa apologia della guerra in Iraq per portare la
democrazia e i valori dell’Occidente, Marcello Pera era presidente del Senato e lui stesso in prima
linea. Mi ha colpito moltissimo che nel dialogo che Pera ha avuto con Ratzinger su quel volumetto
Le radici dell’Europa egli inviti in maniera sostenuta Ratzinger, non ancora diventato Papa, a dare
l’appoggio della Chiesa alla guerra dell’Occidente contro l’Islam, per la difesa dei valori
occidentali, dei valori che ci stanno più a cuore. Egli dice che l’Occidente si è smidollato nella sua
tempra, ancora una volta il richiamo teologico-politico diviene un richiamo guerriero. Non c’è
teologia politica se non c’è guerra, se non c’è nemico.
Di qui la reazione illuminista che c’è stata in Italia; nel 2005-2006 tanti pamphlet degli intellettuali
laici in Italia dicevano che la religione è fonte di intolleranza, che essa provoca guerra, i
monoteismi, che le tre religioni abramitiche (Ebraismo, Islam, Cristianesimo) sono fonti di
intolleranza, la democrazia è politeismo e non monoteismo, si ritorna a Kelsen e ad una concezione
relativistica della democrazia, solo il relativismo salva la democrazia e invece il rapporto con la
religione è l’antitesi della democrazia. Questi discorsi dipendono da questa concezione della
religione come teologia politica. Salvo dimenticare quello che ci diceva Polito: chi è che ha
depoliticizzato il momento teologico negli anni terribili del 2003, 2005, 2006? È stato un Papa. I
“laiconi” questo lo hanno dimenticato. Non è stato l’illuminismo che ha depoliticizzato il conflitto,
deteologizzato il conflitto. È stato Giovanni Paolo II che ha impedito che la guerra contro l’Iraq
diventasse una crociata contro l’Islam a livello planetario, opponendosi con grande determinazione
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quasi da solo al Presidente americano. Tuttavia, tanti cattolici che erano stati ultra papalini negli
anni precedenti, poi si schierarono tutti con Bush contro Giovanni Paolo II, dicendo che il Papa non
ne capiva nulla. Queste son cose che lasciano il segno perché, guardate, le chiacchiere son
chiacchiere, ma quando scoppiano le guerre lì si vede dove batte il cuore. Non sopporto di vedere i
difensori dei valori cattolici che, non appena scoppia una guerra si mettono subito
l’elmetto…magari tutti contro l’aborto, poi quando c’è la guerra nessuno vi si oppone, come se non
facesse morti. Si è contro l’aborto e si è contro le guerre; non in assoluto, certo, però se si possono
evitare vanno evitate. Questa mania di militarismo, che per di più si ammanta del velo religioso, è
inconcepibile.
L’ultima riflessione è per dire questo: se quello che abbiamo detto ha un minimo di senso, è
evidente come la teologia politica complica il quadro del post ’89. La caduta del muro di Berlino ci
ha veramente liberato; con la caduta del marxismo e comunismo, si è aperto per davvero uno
scenario nuovo. La caduta del comunismo ha significato la fine dell’ultima forma di ateismo
dell’800, dell’ateismo moderno. Il comunismo è stata l’ultima grande forma del razionalismo ateo.
La sua caduta ha liberato di nuovo la possibilità religiosa, la posizione religiosa è tornata ad essere
legittima. Guardate, i giovani non se ne rendono conto ma i più vecchi se lo ricordano: per noi che
abbiamo vissuto in quegli anni, ve lo ricorderete, essere cristiani significava essere antimoderni,
appartenere ad una posizione religiosa superata dalla storia. Chi era cristiano negli anni ’70 si
sentiva retrogrado, la cultura dominante ti etichettava così. Questa era la potenza filosofica del
marxismo che ti induceva a pensare questo. Dopo l’89 l’opzione religiosa è tornata ad essere
presente, è caduto il divieto, si può essere cristiani senza vergognarsi, non si è più relitti del passato,
uomini del medioevo, è una possibilità per il presente. Questo è stato un fatto enorme che ha
cambiato anche il modo di guardare la modernità. Si è riaperta la possibilità della scommessa
pascaliana. Insieme però, la caduta del marxismo si è portata dietro una società senza ideali e senza
speranze. È come se la grande speranza suscitata dal marxismo, una volta caduta portasse con sé il
nichilismo e il positivismo degli anni ’80-’90, che arriva fino a noi. Poiché non è stato vero, allora
non c’è più niente di vero. Quindi le generazioni che son venute dopo han vissuto in un deserto dei
valori totale. Il deserto di oggi è l’esito della decomposizione e della crisi della grande speranza e
utopia marxista del cambiamento del mondo degli anni ’70. Opzione religiosa e naturalismo
integrale sono le due possibilità che l’89 apre. Rispetto a questo la teologia politica in questi anni ha
complicato la situazione perché non ha reso più semplice la posizione della scelta religiosa, perché
la scelta religiosa è diventata una scelta politica, di appartenenza, perciò sei o nero o verde o rosso,
o di qua o di là, perché comunque sei legato a una posizione di potere. Quindi invece di rendere
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facile l’incontro con la posizione religiosa la teologia politica ha, come tale complicato il quadro
invece che semplificarlo. Io mi fermo qui. Grazie.
A. BANFI: Ci sono stati dati molti spunti. Rimaniamo sull’ultimo tema, perché in fondo tutta la
questione sta nella semplificazione della testimonianza. Se uno ci pensa, in questo momento il più
grande facilitatore dell’incontro è diventato questo Papa, in un modo inaspettato; è davvero segno
della Grazia del Signore. Torniamo, per riprendere quest’ultimo spunto, sul tema della facilitazione:
anche se sono stati tanti gli spunti che ci hai dato, la ricostruzione storica che hai fatto mi ha
riportato alla mente due persone importanti per te, una a cui dedichi l’introduzione di questo libro
che è stato don Giacomo Tantardini - e questo libro in fondo altro non è che lo sviluppo della sua
riflessione sulla città di Dio e la città degli uomini, sul De Civitate Dei di s. Agostino e il suo
cogliere come la precarietà della Grazia alla fine era la garanzia della testimonianza contro la
pretesa della presenza, contro il progetto - . Questo è vero oggi per noi. L’altra persona che mi fa
venire in mente - mi sembrava di rivedere quel salotto che diventava buio perché lui si dimenticava
di accendere la luce – è Augusto del Noce. Nella sua casa a Roma ci sono state tante feconde
discussioni e la tua passione nel leggere la storia ha fatto sicuramente felice stasera del Noce che ci
guarda da lassù, perché questo era il suo modo; siete molto diversi, per fortuna, perché questa è la
ricchezza dell’umanità, però siete molto simili in questo: è decisivo per capire la realtà dell’oggi
interpretare la storia, e la grande filosofia è l’interpretazione della storia, soprattutto del pensiero
politico, ma anche di tutta la filosofia. Ma il professor Ferrari ci ha lasciato la curiosità sulle
critiche, e quindi facciamo un secondo giro ripartendo da lì.
S. FERRARI: Non critiche all’autore, critiche alla strada prospettata. Non sono critiche, ma
domande in realtà.
La prima è questa: tutto sommato tanto Böckenförde quanto Habermas propongono una soluzione
che si muove all’interno dello stato laico, di laicità dello stato, questo è l’orizzonte. E per me
personalmente va benissimo. Però il punto su cui bisognerebbe riflettere sono le radici cristiane
dello stato laico, e cioè il punto che la laicità dello stato presuppone, a mio parere la distinzione tra
Dio e Cesare che è propria del Cristianesimo. Allora la prima domanda è: la laicità dello stato è
ancora un’opzione possibile per una società che va globalizzandosi? Cioè, in una società in cui noi
avremo presenze non cristiane rilevanti, non soltanto non cristiane da un punto di vista religioso, ma
anche da un punto di vista culturale, cioè presenze di persone che hanno categorie culturali, una
cultura diversa da quella alimentata dal cristianesimo. L’idea di laicità dello stato è qualcosa che
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potremo ancora proporre a queste persone oppure non sta più in piedi concettualmente, perché
quest’idea presuppone una distinzione tra sacro e profano che in altre civiltà non è presente o non è
netta? Questa era la prima questione, e in un certo senso - questa può essere una critica allora l’impatto della globalizzazione è un po’ sottovalutato nel libro.
Questa era una mia prima osservazione. Seconda osservazione, che prosegue questa linea di
ragionamento e tenta di articolare una risposta: ovviamente dipende da cosa intendiamo per laicità.
C’è una concezione filosofica della laicità che intende lo stato laico e la laicità come una filosofia
della buona vita che lo stato deve insegnare ai suoi cittadini. Lo stato deve insegnare ai suoi
cittadini come diventare adulti, come emanciparsi, e quindi deve generare dei cittadini laici. Questa
concezione della laicità porta inevitabilmente, direi, a fermare non solo la laicità delle istituzione,
cosa che è a mio parere positiva, ma anche la laicità della società e della politica, la laicità dello
spazio pubblico, non solo di quello istituzionale, e questo ci porta verso una concezione totalitaria
della laicità. Però, e qui rivendico il mio ruolo di giurista, c’è anche una concezione giuridica della
laicità, non filosofica come la prima, molto più modesta, e in base a questa concezione non si
pretende che la laicità sia una filosofia, un modo buono di vivere la vita, ma si pretende molto più
modestamente che la laicità sia una regola giuridica che impedisce l’identificazione dello stato con
una religione o con una concezione del mondo particolare. L’idea giuridica della laicità è:
all’interno dello spazio pubblico tutte le diverse concezioni ed esperienze della vita e del mondo si
confrontano ad armi pari perché lo stato non si identifica con una di queste concezioni della vita e
del mondo, non la privilegia. Apre quindi uno spazio di libertà in cui c’è la possibilità di un
confronto ad armi pari tra le diverse proposte che nascono dalla società civile. Questa concezione di
laicità, forse più modesta della prima, è qualcosa che è praticabile in una società in cui le categorie
culturali occidentali non siano necessariamente più le categorie culturali prevalenti.
Ultima osservazione e poi mi fermo su questo punto: detto in altre parole, ma è lo stesso concetto.
Io credo che la questione sia quella di ripensare un attimo la nozione di spazio pubblico, ripensare
un attimo la dimensione dello spazio pubblico in questo senso: noi normalmente abbiamo pensato
che per avere uno spazio pubblico imparziale, dove si possa giocare ad armi pari, sia necessario
neutralizzare lo spazio pubblico, renderlo neutrale rispetto a tutte le concezioni della vita e del
mondo, religiose o non religiose; cioè lo spazio pubblico è un luogo più o meno asettico, e a questo
punto abbiamo garantito l’imparzialità, le armi pari per tutte le persone e tutti i gruppi. Ora io mi
chiedo se la sfida non sia quella di costruire uno spazio pubblico imparziale attraverso un metodo
inclusivo, cioè includendo nello spazio pubblico una pluralità di presenze diverse, dando
cittadinanza nello spazio pubblico a una pluralità di concezioni ed esperienze della vita, in effetti
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uno spazio pubblico colorato invece che uno spazio pubblico in bianco e nero, in modo tale che
l’imparzialità dello spazio pubblico sia garantita dalla pluralità delle presenze, dalla esistenza
all’interno di questo spazio di una pluralità di opzioni. È una cosa che a un giurista suona un po’
complicata perché allora c’è tutta una serie di mediazioni che vanno fatte e sono mediazioni che non
si possono operare una volta per tutte ma che vanno fatte di volta in volta, caso per caso. Può essere
una cosa complicata, però secondo me, se vogliamo evitare l’idea che veniva affacciata prima, che
in un certo senso noi dobbiamo rinunciare ad alcuni principi tradizionali, insomma dobbiamo
avvicinarci ad un sistema che in qualche misura accetti gli statuti personali, che in qualche modo
replichi il millet del mondo ottomano, dobbiamo mettere un po’ in sordina l’uguaglianza, dobbiamo
mettere un po’ in sordina certi principi che sono tradizionali nella nostra civiltà. Ecco io credo che
senza arrivare a questo, senza decretare la fine dello stato laico, se noi siamo capaci di distinguere
bene tra spazio istituzionale e spazio pubblico e di dire che nello spazio istituzionale deve esserci
una non identificazione delle istituzioni con una religione, nello spazio pubblico deve esserci libertà
per tutti e possibilità per tutti di essere nello spazio pubblico, con la propria religione o con la
propria non religione, forse questo ci può aiutare ad andare avanti.
A. BANFI: Mentre Massimo elabora le risposte volevo proporre a Polito due riflessioni, perché
Borghesi ci ha dato due spunti che riguardano proprio l’attualità politica di cui tu sei
autorevolissimo commentatore sul Corriere della Sera, due spunti che sono clamorosamente
riscontrabili nelle cronache di tutti i giorni: la necessità del nemico – non parliamo del nostro
mestiere dove un nemico chiaro diventa quasi una colpa, se pensiamo anche a tutta la questione
pubblica che sembra avere chiaro il nemico - e Massimo ci ha spiegato bene la radice filosofica di
questa che sembra ormai una malattia molto diffusa -; la seconda questione – che secondo me
colpisce molto anche nella vita politica di tutti i giorni - è la necessità di una teologia della politica,
cioè la sensazione che la politica di oggi sia esausta, non abbia più ossigeno, non abbia più
aspirazione all’infinito, vorrei dire quasi aspirazione religiosa e capacità di visione, non ha grandi
strategie, sembra asfittica e anche poco autorevole; il potere, addirittura a livello globale, sembra
quasi che non sia più li dove ti aspetti che sia, sembra che non abbia più autorità.
ANTONIO POLITO: Questo è verissimo. Speravo stasera di scamparmi la politica, però pare sia
impossibile. Comunque quello che tu dici è verissimo. Basti pensare a quello che è successo in
Siria, perché l’uomo ritenuto più potente del mondo, Barack Obama, è stato costretto a rinunciare a
una decisione e a rifugiarsi nella richiesta del voto del congresso, dopo che il premier della regina
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britannica, per la prima volta dopo duecento anni, è stato smentito su una sua decisione che
riguardava il potere di guerra del parlamento. Non è mai successo negli ultimi duecento anni che il
parlamento avesse votato contro il governo, perché si ha l’idea che il premier parli per il paese e
non per una parte politica. Ma pensate anche alla crisi dello Shut Down negli Stati Uniti d’America,
dove per la seconda volta nel giro di due anni si è trovato davanti a una condizione che farebbe
invidia ai nostri politici italiani. Pensate alla situazione italiana: noi ormai da tre anni, cioè dal
dicembre del 2010 abbiamo governi che non sono espressione del mandato elettorale, perché prima
abbiamo avuto il governo in cui Scilipoti sostituì Fini, tutti eletti da una parte poi andati dall’altra,
poi il governo Monti che non è espressione di un mandato elettorale e poi il governo Letta. Uno dei
contenuti essenziali della democrazia, cioè che la maggioranza risponde del programma che ha
sottoposto agli elettori, non c’è più da tre anni in Italia; i programmi dei governi sono dei discorsi
parlamentari che non sono stati precedentemente sottoposti al giudizio degli elettori. La crisi
profonda dei sistemi parlamentari è sotto gli occhi di tutti.
Per quanto riguarda la questione della teologia della politica, di cui avremmo un disperato bisogno è
verissimo. Vorrei aggiungere che, siccome prima il professor Borghesi parlava con disprezzo della
primazia dell’economia che c’è stata negli ultimi trent’anni dalla caduta del muro di Berlino a oggi,
io temo che stiamo perdendo anche quell’aggancio agli interessi economici per trasformarsi sempre
più in vera e propria tecnica del potere, della conquista del potere e del mantenimento del potere.
Anche la dipendenza dal sondaggio quotidiano è importante: oggi le elezioni si vincono ogni giorno
ma il giorno dopo che hai vinto le elezioni sei continuamente sottoposto alla critica della pubblica
opinione. Hollande il giorno dopo l’elezione era già sotto il mirino delle critiche dell’opinione
pubblica.
Partendo da questo spunto mi viene da fare una domanda al professor Borghesi e un’altra, invece,
più generale che non riguarda strettamente la politica e cioè: in questa critica che lui fa, serrata e
molto efficace, della teologia politica come religione utilizzata dal potere, inserisce anche quel
microcosmo italiano, del bipolarismo italiano degli ultimi vent’anni, che ha scimmiottato un po’
questa visione del conflitto; anche nella piccola politica italiana c’è stata una teologia politica, cioè
un modo di costruirsi un nemico e talvolta utilizzare il nome di Dio per combatterlo. Per esempio si
è parlato di bipolarismo etico, cioè il tentativo di usare grandi questioni, per i cristiani non
negoziabili, per costruire posizioni politiche e non per fecondare una posizione politica in senso
lato, per costruire vere e proprie macchine politiche. Volevo sapere se lei ha lo stesso giudizio
critico anche da questo punto di vista. La seconda osservazione che volevo fare, un po’ più ampia,
(lei lo dice nel libro ma ne abbiamo parlato poco stasera) è che questo ritorno alla teologia politica,
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l’uso della religione per il combattimento politico è un fenomeno globale, non riguarda soltanto i
rapporti fra cristianesimo e islam; lei ricorda per esempio nel libro l’estremismo ortodosso degli
ebrei che contesta l’esistenza stessa dello stato di Israele; ci sono i tibetani che ricorrono alla
violenza anche se autolesionista contro l’occupazione e c’è infine un fenomeno che io ho trovato
veramente sorprendente, per quel poco che si conosce del buddismo: ciò che
è successo in
Myanmar, dove alcuni esponenti della religione meno violenta della storia si sono abbandonati ad
atti di pulizia etnica. Non solo nelle tre religioni monoteistiche, ma anche in religioni come
l’induismo, che non hanno rapporti con lo Stato, sono religioni più dell’individuo, vi sono stati
conflitti e tensioni. Questo fenomeno che riflessioni fa fare al professor Borghesi ai fini del tema
che stiamo discutendo?
M. BORGHESI: Sono domande complesse. Alla prima domanda, cioè se la laicità di uno Stato
regga in un mondo globalizzato, per esempio dato che gli immigrati saranno sempre di più tra di noi
reggerà questa concezione laica dello Stato oppure andremo verso la poligamia o altri usi che sono
totalmente in contrasto con i valori che noi riteniamo valori dello Stato laico. Io non ho la risposta a
questa domanda e non penso che qualcuno ce l’abbia, è il tempo che decide queste cose. I due
modelli che ho preso in considerazione sono due tedeschi: Böckenförde e Habermas, che è più noto
filosofo di sinistra oggi in Europa - non a caso essi erano anche gli interlocutori di Ratzinger - . Lì
viene fuori un modello dello Stato laico che è rispettoso delle libertà di tutti in cui però la
dimensione religiosa e la tradizione cristiana ha un suo peso. È chiaro che Böckenförde sa
benissimo che la concezione dello Stato laico come si è costituita negli ultimi secoli in Europa non
si è costituita contro la Chiesa ma si è costituito anche a partire dal cristianesimo: la distinzione tra
Cesare e Dio è una distinzione che nasce con il cristianesimo. Questa è una delle tesi del mio
volume e vorrei dire che da un certo punto di vista è anche un aspetto interessante perché il
problema, dal punto di vista storico raramente è messo a fuoco. A me ha colpito che nei primi
quattro secoli dell’era cristiana tutti i Padri della Chiesa siano favorevoli alla libertà religiosa per
tutti, quindi non solo per sé ma anche per i pagani; è con l’editto di Tessalonica del 380 che si entra
nell’ottica teologico-politica dell’Impero romano cristiano, ma fino a quel momento, anche dopo
Costantino, per altri cinquant’anni tutti gli autori cristiani continuano a parlare della libertà
religiosa. Il principio della libertà religiosa nasce col cristianesimo: il paganesimo non conosce la
libertà religiosa. Ma noi quando pensiamo al paganesimo pensiamo a cose lontane, invece metà
delle religioni del mondo sono pagane a tutt’oggi. Perché, l’induismo non è paganesimo? Di che
parliamo? Lo scintoismo non è paganesimo? La religione dei morti in Cina non è paganesimo?
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Metà delle religioni del mondo sono pagane a tutt’oggi: se togliamo l’Islam e l’Ebraismo il resto
delle credenze rientrano nell’ottica del paganesimo. Con questo termine non dobbiamo pensare
all’Antica Roma, o alla Persia, o a quant’altro. Il paganesimo è religione di Stato. Andrà in crisi
quando l’Impero, divenuto cristiano, non pagherà più i sacerdoti e le funzioni pubbliche. Il
paganesimo veniva pagato interamente dallo Stato: è religione dello Stato, per la potenza dello
Stato, per la grandezza di Roma, per il benessere di Roma. A questo serve la religione: è religione
politica dall’inizio alla fine, “teologia civile” dice Varrone. La stessa cosa vale anche per altre
posizioni religiose. Anche l’antico Israele non conosce la distinzione tra religione e potere (chi è
fuori è fuori, e c’è la pena di morte per certe cose). Quindi il principio della distinzione tra Dio e
Cesare: «Il mio Regno non è di questo mondo, se fosse di questo mondo i miei angeli mi avrebbero
difeso», dice Gesù di fronte a Pilato. Questa fondamentale distinzione tra la fede e la spada rende
impossibile nel cristianesimo ogni teologia politica. Sono due cose distinte. Agostino su questo
costruisce quell’opera fantastica che è la Città di Dio: che le città siano due è una bestemmia dal
punto di vista religioso e politico antico. Per il pensiero antico la città è una, politica e religiosa ad
un tempo: spezzare l’unità in due è un’eresia. Noi, siccome ci viviamo dentro, queste cose le diamo
sempre per scontate, presupposte, ma sono rivoluzioni, cambiamenti epocali. Poi questo principio
viene annacquato, ammorbidito: dopo Teodosio abbiamo il Medioevo, poi esplodono le guerre di
religione e, sulla pelle di molti, si è costretti a riscoprire quella distinzione tra Cesare e Dio –
soltanto che Cesare nel frattempo si è incattivito con Dio, e allora diventa lo Stato anticlericale
moderno, il laicismo, la lotta contro la Chiesa. E bisogna arrivare al totalitarismo del Novecento
perché anche Cesare diventi un po’ più mite e capisca che di stupidate ne ha fatte tante, e la Chiesa
da parte sua capisca che lo Stato sta cambiando, e la Modernità forse non è tutta quella cattiva, ma
c’è una parte buona. Nasce il Concilio Vaticano II. Pochi sanno perché è importante: è un concilio
pastorale, aperto. Ma che significa? Chiude la battaglia con la Modernità, lo dice Ratzinger.
Finalmente passa da un rapporto totalmente negativo alla scoperta che anche dentro la modernità ci
sono valori positivi: in primo luogo il principio della libertà religiosa. È un principio valido, ma
quando la Chiesa fa questo nel documento Dignitatis humanae del Concilio Vaticano II non è –
come dicono i tradizionalisti o i modernisti – che rompe con millenovecento anni di storia, ma
riscopre la sua tradizione dei primi quattro secoli, riscopre il cristianesimo dei Padri, riscopre le sue
voci più autentiche, perché la libertà religiosa era un portato del cristianesimo, poi per gli interessi
di bottega e di parte era stata messa un po’ in soffitta, anche se mai dimenticata del tutto. In questo
senso raccolgo la provocazione del prof. Ferrari, perché certamente uno stato laico ha bisogno di
questa linfa, di questa intuizione: solo il Cristianesimo introduce questa idea della laicità in senso
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positivo, non in senso laicista, ma di distinzione di poteri, nel senso che il Regno di Dio non è lo
Stato, e viceversa lo Stato non è la Chiesa, e le due cose sono distinte onde evitare clericalismi (il
Medioevo ne ha conosciuti di questi) e laicismi. Che la laicità dello Stato si possa mantenere è un
problema aperto. Certamente chi viene da noi dovrebbe accettare le regole del nostro vivere, le
conquiste, i punti. È naturale che uno quando entra nella casa di un altro all’inizio è un ospite, e
quindi dev’essere rispettoso degli usi e dei costumi del luogo dove va, e non accampare
immediatamente diritti uno dietro l’altro. Ci vuole un processo di rispetto dei luoghi dove si va a
vivere. Sulla laicità sono perfettamente d’accordo: c’è una concezione filosofica della laicità che è
pesante, eredità dell’Illuminismo più forte, per cui “laico” vuol dire (come dicono ancora alcuni
intellettuali nostrani) “non credente”, l’uomo “maturo” – mentre il credente sarebbe il “bambino”,
l’uomo inferiore – . Ebbene questa concezione è certamente totalitaria – o quantomeno razzista –,
perché presuppone due tipi di uomini: il superiore che è il laico, e l’inferiore che è il credente (una
specie sottosviluppata, che ancora non è arrivata alla dimensione della maturità). Questo è
l’Illuminismo, che è manicheista: ci sono la luce e le tenebre, i buoni e i cattivi, i saggi e gli stolti.
L’Illuminismo è gnostico: ha questa idea nella sua forma radicale. Questo, poi, non vuol dire che
bisogna essere anti-illuministi, perché nell’Illuminismo ci sono molte cose buone, a cui abbiamo
accennato (ma è negativo nel momento in cui diventa una forma di ideologia). Il prof. Ferrari diceva
giustamente: «Meglio una concezione giuridica» – e sono perfettamente d’accordo – «in cui la
dimensione della laicità viene stabilita sul piano delle leggi, e quindi sul piano normativo». La terza
domanda che è stata posta era a proposito di un ripensamento dello Stato pubblico. Chiedeva se
bisogna neutralizzarlo; la risposta è no – e sono perfettamente d’accordo – . La neutralizzazione
dello spazio pubblico è la prerogativa dello Stato totalitario. Lo Stato è tanto più democratico
quanto più valorizza la società civile, rappresenta la ricchezza della società civile. Tocqueville,
quando andò negli Stati Uniti si rese conto che lì c’era la democrazia perché c’era una società civile
ricchissima di migliaia di associazioni, e – guarda caso – erano tutte di tipo religioso, e – siccome
quello era un paese molto più democratico della democrazia francese – dovette cambiare idea e
ammettere che in America la democrazia non era contro la religione, ma anzi sostenuta proprio da
essa. Evidentemente c’era qualcosa che non andava nella Francia repubblicana con il culto della
laïcité. «Costruire» diceva il prof. Ferrari, «uno spazio pubblico fatto di una pluralità di
concezioni», e certamente è così. Anche Habermas dice questo, e dice anche un’altra cosa – che
secondo me non è sbagliata –: «la dimensione religiosa dev’essere valorizzata ed accolta
nell’ambito della società civile, dove tutti i soggetti hanno diritto di esprimersi». Certo è che quando
arriviamo al momento politico e istituzionale questo momento del dialogo deve, però tradursi anche
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in proposte razionalmente condivisibili da tutti. Occorre che quella proposta su quel determinato
problema possa avere una traducibilità per tutti gli uomini, e non basta che sia un’opzione religiosa
singolare e particolare. Questo mi sembra un ottimo metodo di mediazione tra la dimensione
dell’esperienza e la sua proposta sul terreno politico, che dev’essere condivisa anche da altri. Polito,
sull’economia giustamente diceva: «la politica oggi non riesce nemmeno più ad agganciare
l’economia», oggi infatti i parametri europei ti bloccano al punto da non avere più autonomia in tal
senso. Mi viene anche da dire che in realtà non è esatto dire che negli anni ’80 e ’90 l’economia ha
sostituito la politica, in realtà l’economia è stata la forma della politica in quegli anni, perché
l’America ha governato il mondo mediante l’economia, non aveva bisogno di governarla
direttamente attraverso la politica, ma è stata la sua potenza economica, cioè il modello capitalista
che si è imposto come egemone a livello mondiale che ha fatto sì che l’America abbia controllato il
mondo mediante l’economia, quindi non c’era bisogno che l’economia si proponesse direttamente
in maniera sfacciata, perché era incorporata nella dinamica economica. Naturalmente lo scarto fra
economia e politica ritorna invece quando l’economia va in crisi, è in quel momento che l’economia
deve tornare a trascendere il momento economico, non può esser più immanente. Sul microcosmo
italiano certamente noi abbiamo vissuto le nostre dinamiche teologiche-politiche, non soltanto
sull’onda theocon statunitense, ma anche nella dialettica politica che ci ha avvelenato negli ultimi
vent’ anni, la seconda repubblica ha visto i berlusconiani da un lato, gli anti berlusconiani dall’altro,
come una lotta manichea fra luce e tenebre. Ora che Berlusconi uscirà di scena almeno da una parte
dei piani alti, diciamo così, c’è il rischio che l’altra parte sia orfana, perché non ha più
evidentemente l’eterno nemico; è l’89, ti manca il nemico e allora sei spiazzato. Dopo l’89
tornavamo all’economia, ma adesso non possiamo nemmeno tornare all’economia che è sfasciata,
quindi non si sa neanche a cosa tornare; se manca il nemico la politica non sa più dove prendere la
sua linfa, il suo collante, perché il nemico unisce, in politica il nemico unisce, e quella è la funzione
del nemico: se non hai tu dei valori positivi a partire dai quali puoi unirti, hai bisogno
dell’avversario, perché l’avversario è ciò che permette a te, che con il tuo amico faresti a botte tutti i
giorni, di unirti, non per un interesse comune ma perché abbiamo l’avversario comune. L’avversario
serve ad unire.
Ed è vero, anche i valori non negoziabili sono stati parte della battaglia teologico-politica, dall’altra
parte c’era il relativismo, diciamo così, totalmente subalterno al processo di decomposizione del
marxismo post ’89 e dall’altra pre-Induisti e buddisti. Cosa è successo dopo il 2001? Si è parlato di
una società post-secolare, di un ritorno della religione sulla scena mondiale, in realtà non è che è
ritornata la religione, è ritornata la teologia politica. Huntington aveva colto benissimo questo
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processo: «dopo la fine del comunismo torneranno le appartenenze identitarie politiche-religiose».
Lui aveva capito benissimo la cosa; poi tra l’altro è stato accusato di fomentare lo scontro di civiltà.
No, lui non lo voleva. Lui dice “no, attenti, il mondo andrà in questa direzione, ma proprio per
questo bisogna stare attenti”, quindi lui criticava anche il modello occidentale quando quest’ultimo
pretende di esser universalista, perché questo, dice, favorisce un clima di guerra. Quindi Huntington
era relativista all’esterno, ma non all’interno, diciamo così, del contesto americano; siccome il libro
di Huntington viene sempre citato, ma non lo legge nessuno, come accade spesso in questo paese,
ebbene dice l’esatto contrario di quello che gli han fatto dire, l’han fatto diventare un apologista
della guerra, ma lui era preoccupato del contrario. Bene, il ritorno del momento teologico politico si
è riflesso nelle varie posizioni religiose; perché, vedete, le religioni del mondo hanno un aspetto
pacifico e un aspetto guerriero, un aspetto più di religione vera, autentica, in cui uno intuisce il buon
Dio al di là di tutto, e un aspetto in cui invece la religione è profondamente innervata al potere.
Certe congiunture storiche fanno sì che l’elemento teologico- politico prenda il sopravvento dentro
le religioni; ebbene questo è quello che è accaduto a seguito del clima di guerra che si è innestato
dopo il 2001, cioè in certe religioni l’elemento politico-religioso è tornato in primo piano. Parliamo
sempre dell’intolleranza di una parte dell’islam, ma giustamente l’induismo in India, il partito
nazionalista, è avverso tanto agli islamici quanto ai cristiani, ed è fortemente intollerante, anche qui
per ovvi motivi politici.
ALESSANDRO BANFI: Grazie a tutti, grazie a Massimo Borghesi, al professor Silvio Ferrari e
Antonio Polito, che stasera ci hanno dato molti spunti e concetti interessanti, che ci possono aiutare
a capire più a fondo la realtà del nostro tempo. Buona serata.
12/11/2013
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ALESSANDRO BANFI: Buonasera e benvenuti e questo incontro