Aristotele: vita (1)
Aristotele nacque nel 384 a.C. a Stagira, colonia greca situata nella parte
nord-orientale della penisola calcidica della Tracia. Si dice che il padre,
Nicomaco, sia vissuto presso Aminta III, re dei Macedoni, prestandogli i servigi
di medico e di amico. Aristotele, come figlio del medico reale, doveva pertanto
risiedere a Pella, la capitale del Regno di Macedonia.
Rimasto orfano in tenera età, dovette trasferirsi dal tutore Prosseno ad
Atarneo, cittadina di fronte all'isola di Lesbo. Prosseno, verso il 367 a.C., lo
mandò ad Atene per studiare nell'Accademia fondata da Platone circa
vent'anni prima, dove Aristotele rimarrà fino alla morte del suo maestro.
Aristotele non fu dunque mai un cittadino ateniese; fu in realtà un meteco (cioè
uno straniero libero, residente stabilmente in una città; la posizione giuridica
non consentiva al meteco di prendere parte alla vita politica, essere giudice,
magistrato, sacerdote; era inoltre tenuto a pagare alcune tasse per la
residenza, l’esercizio del commercio e il diritto di pascolo; presenti in varie città
della Grecia, erano particolarmente numerosi ad Atene ove rappresentavano
circa 1/4 della popolazione maschile adulta).
Nei suoi primi anni all'Accademia (Platone era a Siracusa), Aristotele dovette
iniziare con lo studio della matematica, per passare tre anni dopo alla dialettica.
A reggere la scuola è Eudosso di Cnido, uno scienziato che dovette molto
influenzare il giovane Aristotele.
[segue]
Aristotele: vita (2)
Nel 347 a.C. muore Platone e alla direzione dell'Accademia, più per motivi
economici che per meriti riconosciuti, viene chiamato Speusippo, nipote del
grande filosofo ateniese. Aristotele, che evidentemente doveva ritenersi più
degno di Speusippo, lascia la scuola insieme con Senocrate, altro pretendente
alla guida dell'Accademia, per ritornare ad Atarneo, dove aveva trascorso
l'adolescenza, invitato da Ermia, allora tiranno della città.
Ermia, che era stato già da lui conosciuto ai tempi dell'Accademia, era poi riuscito
con un rovesciamento politico a diventare successore di Eubulo, signore di
Atarneo, e ad impossessarsi di Asso. Nella corte di Ermia Aristotele ritrova altri
due ex allievi di Platone, Erasto e Corisco. Nello stesso anno tutti e quattro si
trasferiscono ad Asso, divenuta intanto la nuova sede della corte, dove fondano
una scuola che Aristotele battezza come unica vera scuola platonica. Ad essa
aderiscono anche il figlio di Corisco, Neleo, e il futuro successore di Aristotele
nella scuola di Atene, Teofrasto, suo brillante allievo.
Nel 344 a.C., su invito dello stesso Teofrasto, Aristotele va a Mitilene, sull'isola di
Lesbo, dove fonda un'altra scuola, anch'essa battezzata come la sola aderente ai
canoni platonici. Vi insegna fino al 342, anno in cui è chiamato a Pella, in
Macedonia dal re Filippo II perché faccia da precettore al figlio, il futuro
Alessandro Magno. Aristotele svolgerà questo incarico per circa tre anni, fino a
quando Alessandro non sarà chiamato a partecipare alle spedizioni militari del
padre.
[segue]
Aristotele: vita (3)
Quando nel 340 a.C. Alessandro diviene reggente del regno di Macedonia,
cominciando anche ad avvicinarsi alla cultura orientale, il suo maestro Aristotele,
che è intanto rimasto vedovo e convive con la giovane Erpillide da cui ha avuto il
figlio Nicomaco, nell'ultimo periodo della sua vita torna forse a Stagira e, intorno al
335 a.C., si trasferisce ad Atene, dove in un pubblico ginnasio (detto Liceo perché
sacro ad Apollo Licio) fonda la sua famosissima scuola, il Peripato (dal greco
περίπατος, «passeggiata»), nome che indicava quella parte del giardino circoscritta
da un colonnato coperto dove il maestro e i suoi discepoli camminavano
discutendo.
Aristotele promuove attività di ricerca soprattutto per quanto riguarda materie
scientifiche quali zoologia, botanica, astronomia di cui sono testimonianza le opere
pervenuteci.
Riguardo alla scuola abbiamo notizie vaghe; comunque sappiamo per certo che gli
alunni erano chiamati per dieci giorni a dirigere la scuola in prima persona:
Aristotele ci teneva a istruire i suoi allievi a questo ruolo. Inoltre i pasti venivano
consumati in comune secondo un'usanza dei pitagorici e ogni mese si organizzava
un simposio filosofico guidato direttamente dal maestro. Le lezioni si
svolgevano di mattina; di pomeriggio e di sera invece Aristotele teneva, sempre
nella scuola, delle conferenze aperte al pubblico.
Nel 323 a.C. muore Alessandro Magno ed Aristotele è accusato di empietà da parte
degli Ateniesi. Lascia allora Atene e con la famiglia si rifugia a Calcide in Eubea, la
città materna, dove muore l'anno dopo (322 a.C.).
Aristotele: opere (1)
Della produzione filosofica aristotelica ci sono giunti alcuni frammenti delle opere
che Aristotele aveva scritto e pubblicato durante la sua permanenza
nell'Accademia di Platone.
Si tratta di alcuni dialoghi (di stile platonico) destinati al pubblico e per questo
motivo detti essoterici. Si tratta dei dialoghi: Grillo o sulla Retorica, Sulle idee,
Sul Bene, Eudemo o sull’Anima, Protreptico o Esortazione alla Filosofia e De
philosophia. Questi dialoghi giovanili furono letti e discussi dai commentatori fino
al VI secolo d.C., quando, a seguito della chiusura dell'Accademia ateniese
ordinata nel 529 dall’imperatore Giustiniano, queste opere si dispersero e furono
dimenticate.
Ci sono invece giunti quasi per intero gli scritti che Aristotele aveva composto per
il suo insegnamento nel Peripato.
Tali opere sono chiamate acroamatiche (= ciò che si ascolta) o esoteriche
(ovvero riservati ad un pubblico più ristretto, tipicamente i discenti della scuola) e
sono giunte a noi dopo alcune peripezie.
Subito dopo la morte del Maestro le opere esoteriche furono dimenticate fino ad
essere ritrovate, alla fine del II secolo a.C., da un bibliofilo ateniese, Apellicone
di Teo, in una cantina appartenente agli eredi di Neleo, figlio di Corisco, entrambi
seguaci di Aristotele nella scuola di Asso. Apellicone li acquistò, portandoli ad
Atene, e qui Silla li sequestrò nel saccheggio di Atene dell'84 a.C., portandoli
quindi a Roma, dove furono ordinati e pubblicati da Andronico da Rodi. [segue]
Aristotele: opere (2)
Gli scritti acroamatici sono ordinati normalmente come segue:
1. Le opere di logica (in seguito indicate sotto il nome complessivo di Organon,
cioè lo strumento) composto da: il libro delle Categorie; il libro Sull’Espressione;
gli Analitici Primi (2 libri); gli Analitici Posteriori (2 libri); i Topici (8 libri) ed infine
il libro chiamato Elenchi sofistici.
2) opere di fisica: Fisica (8 libri), Il cielo (4 libri), Generazione e corruzione (2
libri), Meteorologia (4 libri), Storia degli animali (10 libri), Parti degli animali (4
libri), Generazione degli animali (5 libri), altre minori, nonché De anima (3 libri) e
una serie di opuscoli raccolti sotto il nome di Parva naturalia;
3) scritti di filosofia prima: Metafisica (14 libri); tale titolo potrebbe derivare dal
fatto di essere posta «dopo i libri di fisica» (in greco τὰ μετὰ τà ϕυσικά) nell’edizione
delle opere di Aristotele; oppure dalla circostanza di essere posta dopo la fisica
nella sequenza espositiva in ambito didattico;
4) opere morali e politiche: Etica Eudemia (7 libri), Grande Etica (2 libri: di
incerta autenticità), Etica Nicomachea (10 libri), Politica (8 libri), Costituzione
degli Ateniesi;
5) opere di poetica: Retorica (3 libri), Poetica (1 libro ed inizio del secondo).
Per le citazioni delle opere di Aristotele si fa riferimento all’edizione curata da Bekker
nel 1800. In tale edizione ogni brano è identificato da un numero di pagina compreso
tra 1 e 1500, dalla lettera 'a' o 'b' (che sta a indicare la colonna dell'edizione originale)
e il numero della riga. Ad esempio: l'inizio dell'Etica nicomachea è 1094 a 1, che
corrisponde alla pagina 1094 dell'edizione di Bekker, prima colonna, riga 1.
La filosofia di Aristotele: la logica (1)
Per Aristotele la filosofia è motivata da un desiderio di conoscenza fine a se
stesso che è connaturato all’uomo in quanto animale razionale. Il miglior modo
di vivere per l’uomo, quello che realizza al meglio la sua natura (dunque gli
assicura benessere e felicità), consiste nell’attività contemplativa. Aristotele
ha così esteso le sue ricerche in modo enciclopedico a quasi tutti i campi del
sapere allora conosciuti e nelle sue opere troviamo una trattazione minuziosa di
un numero enorme di problemi che per lo più hanno un significato
esclusivamente teorico: le sue ricerche sono mosse dalla curiosità, ed egli non si
arresta fino a che non ha trovato una qualche risposta per tutte le domande che
gli vengono in mente.
La divisione delle scienze: Aristotele suddivide le scienze in tre gruppi: 1) le
scienze teoretiche, cioè la fisica, la metafisica e la matematica, che hanno come
fine la conoscenza; 2) le scienze pratiche, cioè l’etica e la politica, che hanno
come fine l’azione, 3) le scienze poietiche, tra cui la poetica, la retorica e le
attività artigianali, che hanno come fine la produzione.
Nella divisione aristotelica delle scienze non figura la logica, o meglio la
disciplina che in seguito prenderà questo nome, dal momento che essa non ha
come oggetto un aspetto particolare della realtà, ma si occupa di studiare,
preliminarmente, la metodologia e gli strumenti utilizzati dalle altre scienze.
Organon è, infatti, il termine greco (traducibile con “strumento”) che dà il titolo
agli scritti aristotelici di logica.
[segue]
La filosofia di Aristotele: la logica (2)
La logica studia in primis le categorie, poi le proposizioni, che sono
affermazioni in cui i termini semplici sono connessi tra loro.
La dottrina delle categorie.
Il punto di partenza di tale dottrina va ricercato nella dialettica platonica, che
Aristotele ebbe modo di studiare durante gli anni trascorsi nell’Accademia.
L’interesse di Aristotele, tuttavia, si rivolge principalmente al piano linguistico
implicato dalla dialettica, nel tentativo di rispondere alla seguente domanda:
come individuare i rapporti di predicazione corretti da quelli scorretti?
Aristotele chiama categoria (traducibile con il termine “predicato”) ogni
termine detto senza connessione: ad esempio “uomo”, “animale”, “cane”,
“nero”, “in casa” ecc. Le categorie hanno valore universale (non si riferiscono
quindi a un preciso uomo o a una certa casa) e corrispondono sommariamente
ai concetti universali di cui parlava Platone; sono al contempo i predicati più
universali. Aristotele individua dieci categorie: sostanza (un determinato
uomo), quantità (lungo un metro), qualità (bianco), relazione (doppio),
luogo (in piazza), tempo (ieri), stato (seduto), avere (ricchezza), agire
(correre), patire (essere colpito).
Ogni termine “semplice”, senza connessione, deve appartenere a una di queste
categorie. A ciascuna categoria è associata una precisa domanda: “che cosa?”
(sostanza), “quanto?” (quantità), “come?” (qualità), ecc.
[segue]
La filosofia di Aristotele: la logica (3)
Sul piano linguistico, infatti, le dieci categorie corrispondono ai dieci tipi di
predicazioni che si possono fare, cioè ai vari modi con cui è possibile
attribuire un predicato a un soggetto. Sul piano della realtà, invece, le
categorie individuano quelle differenze originarie e irriducibili proprie del
reale.
La sostanza: di tutte le categorie la più importante è la sostanza, in quanto
presupposta da tutte le altre. Sul piano linguistico, infatti, una frase, per essere
sensata, deve avere un soggetto, e il soggetto è ciò che corrisponde alla
sostanza; tutte le altre categorie corrispondono, invece, ai suoi predicati.
Analogamente, sul piano della realtà, le sostanze indicano le cose che
esistono di per sé, mentre le altre categorie rappresentano gli attributi (o
accidenti) che esistono in relazione a un soggetto.
La sostanza è definita sostrato (nel senso di “ciò che sta sotto, ciò che sta alla
base”) proprio perché è il fondamento che regge tutti i suoi attributi. Aristotele,
tuttavia, evidenzia la complessità di tale categoria distinguendo tra sostanza
individuale (ad esempio “Socrate”) e sostanza universale (ad esempio “uomo”).
Mentre, dal punto di vista linguistico, la sostanza universale può fungere
sia da soggetto sia da predicato, la sostanza individuale può essere
soltanto soggetto.
Per questo Aristotele chiama la sostanza individuale anche sostanza prima, e la
sostanza universale sostanza seconda.
[segue]
La filosofia di Aristotele: la logica (4)
Genere, specie, differenza, proprio e accidente.
La distinzione fra sostanza e attributo è importantissima nella logica
aristotelica. Infatti tutte le questioni dialettiche mirano a stabilire se un attributo
appartenga o non appartenga ad un soggetto. Soggetti sono le sostanze (ciò
che è esistenza singola nella forma di cosa o di animale o di persona);
tutto il resto può fungere da attributo.
Quando si unisce un soggetto con un attributo indicando che questo appartiene
o non appartiene a quello si formula una proposizione. L’attributo però può
appartenere al soggetto in almeno cinque modi:
il genere indica gli attributi che possono essere riferiti ad un soggetto come la
classe più ampia nella quale esso si inquadra; ciò che può essere attribuito al
soggetto nella forma di una parte del genere, e cioè della classe più ampia, si
chiama specie; differenza (specifica) è ciò che, all’interno del genere,
distingue una specie dall’altra; un attributo si dice proprio rispetto al soggetto
quando non fa parte della sua essenza, da cui tuttavia dipende in modo
necessario; l’accidente infine è un attributo che può appartenere o non
appartenere al soggetto (per esempio: «bianco» è un accidente rispetto a
Socrate – può esserlo o non esserlo, senza che cambi qualcosa della sua
essenza / sostanza; mentre l’attributo «capace di ridere» è un proprio di
Socrate e di ogni uomo).
[segue]
La filosofia di Aristotele: la logica (5)
Facciamo un esempio per capire meglio: rispetto al soggetto Socrate, è attributo
di genere il termine «animale» in quanto designa la casse più ampia di cui
Socrate fa parte; è attributo di specie il termine «uomo» che designa quella parte
della classe più ampia in cui Socrate rientra; è differenza di specifica il termine
«razionale» che indica ciò che separa la specie umana dalle altre specie che
sono interne al genere animale.
Per rispondere alla domanda: che cosa è la tal cosa? Secondo Aristotele bisogna
indicare l’attributo di genere, la differenza e quindi l’attributo di specie; si ottiene
così la definizione della cosa, cioè l’indicazione della sua essenza («ciò per cui
una certa cosa è quello che è, e non un'altra cosa», «le proprietà di un soggetto
che esso non può mutare senza perdere la propria identità»).
Le specie ed i generi sono anche indicati da Aristotele come «sostanze seconde»
nel senso che le sostanze, o realtà singole che fungono da soggetti, si dicono
«prime» in quanto stanno alla base di tutto il resto e tutto il resto si predica di
esse oppure sussiste in esse, mentre le specie e i generi sono i soli fra gli
attributo che «rivelano la sostanza prima»; infatti se qualcuno deve spiegare che
cosa è un determinato uomo, dà una spiegazione appropriata indicando la specie
oppure il genere, e non certo gli attributi accidentali.
Le proposizioni.
I termini staccati non si possono considerare veri o falsi: la verità o la falsità
sono proprietà della proposizione:
[segue]
La filosofia di Aristotele: la logica (6)
1. «Negare quello che è e affermare quello che non è, è il falso, mentre affermare
quello che è e negare quello che non è, è il vero» (Metafisica, IV, 7, 1011 b 26);
2. «La misura della verità è l’essere o la cosa e non il pensiero o il linguaggio:
una cosa non è bianca perché si asserisce con verità che è tale, ma si asserisce
con verità che è tale perché essa è bianca» (Metafisica, IX, 10, 1051 b 5);
3. «La verità è nel pensiero e nel linguaggio e non nell’essere o nella cosa»
(Metafisica, VI, 4, 1027 b 25).
La logica si occupa solamente delle proposizioni assertorie (o asserzioni),
cioè le proposizioni passibili di verità o falsità. Le asserzioni differiscono tra loro
per qualità, possono essere cioè affermative o negative, e per quantità,
possono essere universali o singolari (e quindi estranee alla scienza, dal
momento che non esiste scienza degli enti individuali).
Esistono quindi quattro tipi di proposizioni, tra cui intercorrono varie
relazioni: universale affermativa (“tutti gli uomini sono mortali”), universale
negativa (“nessun uomo è mortale”); particolare affermativa (“qualche uomo
è greco”); particolare negativa (“qualche uomo non è greco”).
Avendo l’occhio alle esigenze della discussione dialettica, Aristotele ha
considerato il rapporto che intercorre fra le proposizioni che, avendo lo stesso
soggetto e lo stesso attributo, differiscono in relazione ai 4 tipi di proposizione
sopra indicati:
[segue]
La filosofia di Aristotele: la logica (7)
1. due proposizioni sono contraddittorie fra di loro quando una afferma un
attributo di un soggetto universale e l’altra lo nega di un soggetto non universale;
2. due proposizioni sono contrarie fra di loro quando sia l’affermazione che la
negazione riguardano un attributo riferito ad un soggetto universale.
POSTULATO: due proposizioni contrarie non possono essere entrambe
vere, mentre di due proposizioni contraddittorie è necessario che una sia
vera e l’altra falsa.
Il nesso fra un attributo e ed un soggetto non sempre può essere colto in modo
diretto; bisogna compiere un calcolo o un sillogismo.
[segue]
La filosofia di Aristotele: la logica (8)
Il sillogismo è quella forma di argomentazione logica nella quale, a partire da
due proposizioni, si trae necessariamente una conclusione. Il sillogismo è
composto da due premesse (una maggiore e una minore) e una conclusione,
nelle quali entrano in gioco tre termini: soggetto, predicato e termine medio, il
quale compare nelle due premesse ma non nella conclusione e consente di
connettere fra loro gli altri due termini. Il tipico esempio di sillogismo è il seguente:
“Tutti gli uomini sono mortali” (premessa maggiore), “I greci sono uomini”
(premessa minore), “I greci sono mortali” (conclusione).
Aristotele enuncia inoltre diverse forme di sillogismo in base alla posizione del
termine medio nelle premesse.
La validità del sillogismo e i principi: la verità di un sillogismo dipende dalla
natura delle sue premesse. Se le premesse sono false, lo sarà anche la sua
conclusione. Del resto, il fatto che il sillogismo sia composto interamente da
proposizioni vere non ne garantisce la validità. Solo il carattere universale e
necessario delle premesse consente di raggiungere una conclusione universale e
necessaria. Aristotele chiama questo tipo di ragionamento sillogismo scientifico
(o deduttivo). Esso si basa su premesse vere e prime, cioè su principi primi
assolutamente evidenti, che sono anteriori alle conclusioni e anzi causa di esse.
Aristotele distingue due tipi di principi: 1) i principi propri di ogni singola scienza,
cioè le ipotesi e le definizioni (ad esempio, per la geometria le definizioni degli enti
geometrici e per l’aritmetica le definizioni dei numeri); 2) i principi comuni alle varie
scienze, o assiomi.
[segue]
La filosofia di Aristotele: la logica (9)
Necessità del sillogismo dialettico: alla domanda “come individuare i principi alla
base delle scienze?”, Aristotele risponde chiamando in causa la necessità del
ricorso all’esperienza e al procedimento induttivo (inteso come il passaggio dal
particolare all’universale).
All’atto pratico, dunque, è impossibile giungere a premesse assolutamente prime e
vere, perciò l’unica possibilità è quella di lavorare sull’esperienza utilizzando il
metodo induttivo, il quale, tuttavia, potrà pervenire soltanto a conclusioni altamente
probabili e mai vere in assoluto (l’induzione completa è infatti impossibile). Per
questo egli conclude che il metodo deduttivo, proprio del sillogismo scientifico,
fungerà solo come strumento di controllo e insegnamento.
Il metodo ordinario di quasi tutte le scienze è per Aristotele quello dialettico, proprio
del sillogismo dialettico, che è basato su premesse non vere ma solo probabili,
come quelle espresse da uomini autorevoli e per le quali esiste un largo consenso.
Pur essendo più debole del metodo deduttivo proprio del sillogismo
scientifico, il metodo dialettico perviene a un valore dimostrativo
elevatissimo.
Conclusione: le leggi che guidano la logica non sono dimostrabili ma sono solo
intuibili con un atto intellettivo immediato. In particolare riguardo al principio di
non-contraddizione (per cui A ≠ non-A) Aristotele dichiara che è il più sicuro di tutti
i principi definendolo così: «È impossibile che la stessa cosa, a un tempo,
appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto»
(Metafisica, IV, 1005 b 19-20).
La filosofia di Aristotele: la fisica (1)
Principi teorici generali della fisica aristotelica.
1. Le quattro cause e il finalismo biologico.
La realtà per Aristotele è costituita da individui provvisti di materia e movimento.
L’esistenza del movimento non necessita di dimostrazione, ed è anzi l’ipotesi su
cui si basa la scienza fisica.
Nella sua fisica, Aristotele distingue quattro cause: la causa formale (consiste
nelle qualità specifiche dell'oggetto stesso, nella sua essenza), la causa
materiale (la materia è il sostrato senza cui l'oggetto non esisterebbe), la causa
efficiente (è l'agente che determina il mutamento) e la causa finale (la più
importante di tutte, in virtù della quale esiste un'intenzionalità nella natura; è lo
scopo per cui una certa realtà esiste). Per esemplificare questi concetti,
prendiamo il caso di un artista che scolpisce una statua: la pietra è la causa
materiale; la figura nella mente dell’artista rappresenta la causa formale; l’artista
è la causa efficiente (o principio motore); mentre la causa finale si manifesta nel
fine, nello scopo che presiede alla realizzazione della statua. Nel caso degli
esseri viventi, afferma Aristotele, la causa finale si identifica con la piena
realizzazione della propria forma.
La fisica aristotelica è infatti permeata dal finalismo biologico, in chiave
antiplatonica: a differenza di Platone, che credeva in un unico fine per tutte le
cose (identificato nel Bene), Aristotele individua invece il fine di ogni essere
vivente nella realizzazione della sua forma naturale.
[segue]
La filosofia di Aristotele: la fisica (2)
Principi teorici generali della fisica aristotelica.
2. La spiegazione del mutamento
Gli enti sensibili sono per Aristotele un’unione di forma e materia. Tale
binomio viene chiamato, nella Metafisica, sinolo.
Per spiegare il mutamento, Aristotele introduce il concetto di privazione. Ogni
mutamento è acquisizione di una nuova forma (nell’esempio della statua, lo
scultore introduce nel blocco di marmo una forma), quindi passaggio non dalla
materia alla forma (perché il blocco di marmo ha una sua forma anch’esso), ma
dalla privazione alla forma. Un blocco di marmo può diventare una statua
proprio perché privo della forma della statua. D’altro canto, non tutto può
diventare una statua (ad esempio, un uomo non lo può fare).
Un’ulteriore distinzione aristotelica è quella tra atto e potenza. La potenza è la
predisposizione della materia ad assumere una certa forma; essa indica
l’insieme di tutte le privazioni che ineriscono a un soggetto. L’atto è
invece la forma stessa realizzata.
Il mutamento è quindi il passaggio dalla potenza all’atto. Da sottolineare è
il fatto che Aristotele sostiene l’anteriorità, sia dal punto di vista logico sia
da quello reale, dell’atto rispetto alla potenza: il blocco di marmo non
potrebbe diventare una statua se tale forma non esistesse già da qualche
parte, ad esempio nella mente dello scultore.
[segue]
La filosofia di Aristotele: la fisica (3)
Caratteristiche della realtà fisica.
Il mondo sublunare: concretamente la realtà naturale per Aristotele è composta
da quattro elementi (gli stessi di Empedocle: terra, aria, acqua, fuoco). A tali
elementi si associano quattro qualità: il freddo, il caldo, il secco e l’umido.
Aristotele ritiene tuttavia, a differenza della tradizione presocratica, che questi
elementi si possano trasformare l’uno nell’altro, scambiandosi una delle qualità
costitutive (ad esempio, se la terra secca diventa umida si genera l’acqua).
Ogni elemento ha una naturale tendenza a muoversi di moto rettilineo verso
il proprio luogo naturale: l’alto per i due elementi leggeri (fuoco e aria); il
basso per quelli pesanti (terra e acqua). In base a questa teoria, il mondo
sublunare risulta divisibile in quattro sfere: una più interna composta di terra, e
poi progressivamente le altre tre, costituite rispettivamente di acqua, aria, fuoco,
anche se Aristotele ammette continui scambi tra i quattro elementi. Il peso degli
oggetti deriva dalla tendenza dei quattro elementi a raggiungere il proprio luogo
naturale.
I corpi celesti: a differenza degli oggetti del mondo sublunare, i corpi celesti,
incorruttibili, si muovono di moto circolare e non rettilineo, e sono quindi
composti da un altro elemento, trasparente chiamato etere. Per spiegare il fatto
che il moto apparente dei corpi celesti non sia perfettamente circolare (dato di
fatto, questo, già evidente nell’Antichità) Aristotele associa a ogni pianeta delle
sfere, che si muovono di moto circolare uniforme insieme a esso.
[segue]
La filosofia di Aristotele: la fisica (4)
Caratteristiche della realtà fisica.
Aristotele riteneva le sfere concentriche fossero 55, ovvero 22 in più delle 33 di
Callippo. Oltre la Terra per lui vi erano, in ordine, la Luna, Mercurio, Venere, il Sole,
Marte, Giove, Saturno, e, infine, il cielo delle stelle fisse, così chiamate perché
come incastonate nel cielo sembravano immobili nelle loro posizioni relative
sulla sfera celeste.
La sfera delle stelle fisse è chiamata da Aristotele anche primo mobile perché
metteva tutte le altre sfere in movimento. Poiché ogni effetto risale a una causa, il
moto delle stelle fisse deve dipendere da una causa prima, una causa che deve
essere incausata affinché non si risalga all'infinito nella ricerca della prima causa.
Nella catena dei movimenti vi è dunque il primo motore immobile, causa di
movimento ma di per sé immobile, poiché essendo atto puro, in quanto immateriale,
in lui non vi è divenire e movimento.
Egli rimane eternamente identico a se stesso, immobile e tuttavia anche «motore»
in quanto la sua presenza mette in moto tutto ciò che nell’universo è imperfetto e
che tende a lui come una somma perfezione identificabile con la divinità suprema
Aristotele era convinto dell'unicità e della finitezza dell'universo: l'unicità perché se
esistesse un altro universo sarebbe composto sostanzialmente dei medesimi
elementi del nostro, i quali tenderebbero, per i luoghi naturali, ad avvicinarsi al
nostro fino a ricongiungersi completamente con esso, ciò che prova l'unicità del
nostro universo; la finitezza perché in uno spazio infinito non potrebbe esistere
alcun centro, ciò che contravverrebbe alla teoria dei luoghi naturali.
[segue]
La filosofia di Aristotele: la fisica (5)
Caratteristiche della realtà fisica.
Lo spazio e il tempo: Aristotele chiama lo spazio luogo, e definendolo come il
limite del corpo contenente (nel caso di una tazza, lo spazio contenuto dai suoi
contorni), lo associa sempre ai corpi che lo occupano. Una delle conseguenze di
tale teoria è la negazione del vuoto, uno dei cardini della fisica aristotelica, dal
carattere decisamente antidemocriteo:
«poiché quelli che affermano che il vuoto esiste fanno di esso un luogo. Ma in
che modo un corpo si troverà nel luogo o nel vuoto? Ciò non è possibile, infatti,
quando un tutto è posto come in un luogo separato e in un corpo che sussista,
poiché la parte, se non la si pone separatamente, non sarà in un luogo, ma nel
tutto. Inoltre, se non vi è un luogo, non vi sarà neppure un vuoto.
Se si considera bene la cosa, a quelli che sostengono che il vuoto esiste come
un presupposto necessario, ammessa l’esistenza del movimento, accade invece
piuttosto il contrario di quello che essi vorrebbero: che cioè non è possibile che
neppure una sola cosa si muova, se esiste il vuoto; difatti, come alcuni dicono
che la terra per la sua omogeneità è ferma, così anche è necessario che nel
vuoto vi sia quiete: non vi è infatti dove più o meno possa effettuarsi il
movimento, poiché, in quanto è un vuoto, non comporta differenza» (Fisica, 214
b 29-35).
La Natura rifugge il vuoto ed essa stessa interviene finalisticamente a impedirne
la formazione riempiendo ogni spazio.
[segue]
La filosofia di Aristotele: la fisica (6)
Caratteristiche della realtà fisica.
Secondo Aristotele, la causa del movimento dei corpi non era nel corpo
stesso, ma nel mezzo. Un proiettile, una volta scagliato, proseguirebbe nel moto
perché spinto dall'aria, che continuamente si precipita ad occupare il vuoto
lasciato dal proiettile al suo passaggio. Ne segue che nel vuoto la resistenza
sarebbe nulla e la velocità del corpo diverrebbe infinita, cioè il corpo avrebbe la
caratteristica dell'ubiquità.
Se Democrito aveva sostenuto che il vuoto fosse indispensabile per spiegare il
movimento, Aristotele risponde invece che proprio ammettendo il vuoto, il
movimento risulterebbe incomprensibile, poiché non sarebbe postulabile
alcun ordine naturale.
Il concetto aristotelico del tempo è strettamente legato a quello di moto. Il tempo
è definito come uno dei modi con cui si misura il movimento, secondo il prima e
il poi. Ma poiché senza il prima e il poi non si dà il tempo, né questo è senza
il moto, così l'eternità o perpetuità del tempo implica la perpetuità del moto.
Perpetuità che risulta poi da dal fatto che ogni moto ne suppone uno precedente
e così all'infinito. E come il moto non ha principio né fine, così il mondo, a cui
è inerente il moto, è esso pure eterno, quantunque limitato nello spazio. Se
tuttavia il movimento per tal rispetto è infinito, per un altro rispetto suppone un
principio originale immobile, un'attualità causale che è eterna come il movimento
medesimo.
La filosofia di Aristotele: la psicologia (1)
L’anima e le sue funzioni: Aristotele definisce l’anima – oggetto di studio di
quella branca della fisica che è la psicologia – il principio vitale degli esseri
viventi e sostiene che ne sono provvisti, oltre all’uomo, sia gli animali sia
le piante.
Applicando il consueto binomio materia-forma, l’anima è la forma di cui il corpo
è materia, mentre l’essere vivente è il sinolo, la sostanza che deriva dall’unione
dei due. Secondo una celebre definizione aristotelica, l’anima è l’entelechia (o
atto) di un corpo organico che ha la vita in potenza. A differenza di Platone,
che intendeva l’anima come sostanza diversa dal corpo e immortale, Aristotele
non crede nell’inseparabilità dell’anima dal corpo di cui essa è forma, né,
quindi, nella sua immortalità. All’anima sono associate tre funzioni:
vegetativa (che presiede alla riproduzione e al nutrimento), sensitiva (presente
in tutti gli animali), razionale (propria solo degli esseri umani).
La conoscenza sensibile: alla funzione sensitiva dell’anima è legata la
conoscenza sensibile. Applicando la coppia potenza-atto, Aristotele spiega che
la conoscenza sensibile avviene quando, mediante il contatto tra organo di
senso e cosa percepita, ciò che è conoscente in potenza (organo di senso) e
ciò che è conoscibile in potenza divengono rispettivamente conoscente e
conosciuto in atto. La conoscenza sensibile è infallibile quando l’organo di
senso si rivolge al suo sensibile proprio (ad es. l’occhio al colore). [segue]
La filosofia di Aristotele: la psicologia (2)
Gli errori avvengono quando si attribuisce una forma sensibile percepita
correttamente al soggetto sbagliato. Aristotele parla inoltre di sensibili comuni,
che vengono colti da più sensi, come il movimento, la quiete, il numero, la
grandezza e la figura. Alla funzione sensitiva sono associate due facoltà: quella
appetitiva, che fa seguire il piacere e fuggire il dolore, e quella locomotoria, cioè
la capacità di muoversi in funzione degli appetiti.
La conoscenza intellettiva: alla funzione razionale dell’anima è legata la
conoscenza intellettiva. Nella spiegazione delle dinamiche che generano tale
forma di conoscenza, Aristotele procede nel medesimo modo della conoscenza
sensibile: esistono delle forme intelligibili e un intelletto in potenza, capace
di accogliere tali forme. La conoscenza si genera con il passaggio all’atto di
questa doppia potenzialità. Tuttavia, nel caso della conoscenza intellettiva,
il discorso si complica, in quanto Aristotele introduce un secondo intelletto,
tradizionalmente definito attivo (o produttivo), che è responsabile dell’intero
processo; infatti, solo qualcosa che è già in atto può realizzare un
passaggio dalla potenza all’atto.
La funzione di questo intelletto è paragonata da Aristotele a quella della luce, che
è ciò che fa sì che i colori – potenzialmente visibili – siano effettivamente visti.
Con buona probabilità, è qui rintracciabile un ulteriore elemento platonico; tale
tesi è corroborata anche dal fatto che Aristotele definisce l’intelletto attivo,
separato dalla materia, immortale ed eterno.
La filosofia di Aristotele: la biologia
Composizione degli esseri viventi: anche gli esseri viventi sono composti
per Aristotele dai quattro elementi (il fuoco, la terra, l’acqua e l’aria), che
esistono in natura allo stato puro o in forma di composti.
Quando gli elementi si fondono tra loro compiutamente, danno origine a una
nuova sostanza; Aristotele chiama tali composti omeomeri (parti uguali) in
quanto risultano costituiti, anche una volta divisi, da parti che conservano le
stesse caratteristiche di partenza.
Negli esseri viventi, le parti omeomere sono i tessuti, che unendosi
generano gli organi. L’essere vivente è dunque costituito da parti
omeomere e da parti non omeomere.
Ordine finalistico della natura: Aristotele concepisce la natura ordinata in
senso gerarchico-finalistico, dai gradi di perfezione più bassi (insetti e
molluschi), a cui corrispondono organi e funzioni relativamente semplici, fino al
vertice, rappresentato dall’essere umano. Tale finalismo spiega anche il
rapporto tra gli organi e le rispettive funzioni: l’uomo ha le mani in quanto
è un essere intelligente, e non viceversa, come sosteneva Anassagora.
IMPORTANTE: dal momento che Aristotele identifica il fine di ogni essere
vivente nella realizzazione della propria forma, nel modo più perfetto
possibile, esclude ogni ipotesi evoluzionistica, e sostiene la fissità della
specie.
La filosofia di Aristotele: la metafisica (1)
La filosofia è scienza delle cause e ricerca delle essenze. La filosofia di
Aristotele muove dalla stessa esigenza platonica di ricercare un principio eterno e
immutabile che spieghi il modo in cui avvengono i mutamenti della natura.
Come il suo maestro Platone, Aristotele ha ben presente la contrapposizione
filosofica venutasi a creare tra Parmenide ed Eraclito. Anche Aristotele pertanto
si propone di conciliare le loro rispettive posizioni di pensiero: l'Essere statico di
Parmenide con l'incessante divenire di Eraclito.
A differenza di Platone, Aristotele ritiene che le forme in grado di guidare la
materia non si trovino al di fuori di essa: non ha senso secondo lui sdoppiare gli
enti per cercare poi di riconciliarli in qualche modo; ogni realtà invece deve avere
in se stessa, e non nelle idee, le leggi del proprio costituirsi.
Il fatto che tutti i fenomeni naturali siano soggetti a costante mutamento
significa per Aristotele che nella materia è sempre insita la possibilità di
raggiungere una forma precisa.
Compito della filosofia è proprio quello di scoprire le cause che determinano il
perché un oggetto tenda ad evolversi in un certo modo e non diversamente.
La scienza delle cause consente di affrontare in maniera più sistematica e
razionale il problema dell'Essere e delle sue possibili determinazioni, sorto la
prima volta con Parmenide. Quest'ultimo aveva detto dell'Essere soltanto che è, e
non può non essere, ma non aveva aggiunto cosa esso sia, lasciandolo senza un
predicato.
[segue]
La filosofia di Aristotele: la metafisica (2)
Aristotele con la sua metafisica si propone proprio di mostrare che l'essere è
determinato in una molteplicità di attributi, che lo rendono multilaterale e
plurivoco, pur nella sua unità.
L'ontologia, in quanto metafisica, è la «filosofia prima» aristotelica, che ha come
suo primario oggetto di indagine «l'essere in quanto tale», e solo in via
subordinata l'ente.
L’espressione «in quanto tale» significa a prescindere dai suoi aspetti
accidentali, e quindi in maniera scientifica. Solo di ciò che permane come
sostrato / sostanza fissa e immutabile, infatti, si può avere una conoscenza
sempre valida e universale, a differenza degli enti soggetti a generazione e
corruzione, ragion per cui «del particolare non si dà scienza».
Per conoscere gli enti occorrerà dunque fare sempre riferimento all'Essere;
Aristotele intende per ente tutto ciò che esiste (da ex-sistentia, essere da), a
differenza dell'Essere che invece è in sé e per sé: mentre l'Essere è uno, gli enti
sono molteplici e non tutti uguali. Per il filosofo essi hanno vari significati: l'ente si
può «dire in molti modi».
Introducendo gli enti, Aristotele cerca di risolvere il problema ontologico di
conciliare l'essere parmenideo col divenire di Eraclito, facendo dell'ente un sinolo
indivisibile di materia e forma: come già accennato, infatti, la materia possiede
un suo modo specifico di evolversi, ha in sé una possibilità che essa tende a
mettere in atto.
[segue]
La filosofia di Aristotele: la metafisica (3)
Ogni mutamento della natura è quindi un passaggio dalla potenza alla realtà, in
virtù di un'entelechia, cioè di una ragione interna che struttura e fa evolvere
ogni organismo secondo leggi sue proprie.
Cercando di superare il dualismo di Platone in seno all'essere, Aristotele sostiene
così l'immanenza della forma, dell’universale. La sua soluzione tuttavia risente
fortemente dell'impostazione platonica, perché, come già il suo predecessore,
anche lui concepisce l'essere in forma gerarchica: per cui da un lato vi è l'Essere
eterno e immutabile, identificato con la vera realtà, che basta a se stesso in quanto
perfettamente realizzato; dall'altro vi è l'essere in potenza, proprio degli enti, che
per costoro è soltanto la possibilità di attuare se stessi, di realizzare la loro forma in
atto, la loro essenza.
Anche il non-essere quindi in qualche modo è, almeno come poter-essere
(essere in potenza). E il divenire consiste propriamente in questo perenne
passaggio dall’essere in potenza verso l'essere in atto.
In altri termini: Aristotele definisce la filosofia prima (in contrapposizione alla fisica
che è la filosofia seconda) come la «scienza dell’essere in quanto essere».
L’espressione “essere in quanto essere” individua lo studio di quelle caratteristiche
della realtà che appartengono alle cose per il solo fatto che “sono”, e dunque sono
anche in assoluto le più generali. Ma se l’essere non è un genere unico, come è
possibile che sia studiato da una sola scienza? Aristotele risolve il problema
sostenendo che tutti i vari significati dell’essere si riferiscono al suo significato
fondamentale, che è quello di “sostanza”.
[segue]
La filosofia di Aristotele: la metafisica (4)
Pertanto la scienza dell’essere in quanto essere viene in ultima analisi a
coincidere con la scienza della sostanza e delle sue cause. Nei libri centrali della
Metafisica Aristotele giunge alla conclusione che la sostanza in senso primario,
ovvero la causa per cui una sostanza è tale, è la forma; essa corrisponde
all’essenza di ogni singola cosa e rappresenta la via media tra l’individuo e
l’universale.
Il motore immobile: in base a quanto Aristotele dice nel VI libro della Metafisica,
lo studio del motore immobile compete alla filosofia prima, o meglio a quella parte
della filosofia prima definibile come teologia. Nel suo risalire alle cause prime del
mondo fisico – si ricordi che per Aristotele spiegare significa, appunto, risalire alle
cause – lo Stagirita giunge alla necessità concettuale di postulare una causa
non fisica del mondo fisico. Poiché il moto, per Aristotele, è eterno, senza inizio
né fine, deve esistere una sostanza che si muove eternamente: tale sostanza sono
i corpi celesti, composti di etere, che realizzano costantemente la loro potenzialità
di muoversi di moto circolare uniforme. Poiché, tuttavia, niente vieta che in un dato
momento la loro potenzialità cessi di trasformarsi in atto, per Aristotele deve
necessariamente esistere una sostanza che è atto puro, che è priva di materia e
di potenza, e che è immutabile. Tale sostanza perfetta, che esiste
necessariamente, ha il nome di motore immobile ed è la causa necessaria che
sola può spiegare l’eternità del moto. Essendo immateriale ma sempre in atto, il
motore immobile non può che essere puro pensiero, o meglio, pensiero di pensiero.
Aristotele attribuisce a esso la beatitudine tradizionalmente associata a un Dio.
La filosofia di Aristotele: l’etica (1)
La dottrina etica di Aristotele ha costituito un vero e proprio paradigma
per quasi due millenni. Ecco i principi fondamentali (postulati):
1. l’agire umano si pone sempre come fine il raggiungimento di un
bene;
2. in qualche caso i beni sono ricercati in vista di altri beni (è questo il
caso della ricchezza): “La virtù non consiste nel possedere ricchezze
ma nella coscienza di meritarle” (Etica Nicomachea, I, 4).
3. deve però esistere un bene supremo che Aristotele identifica con la
felicità (έυδαμονία = eudamonìa).
4. Aristotele definisce la felicità come “attività dell’anima secondo virtù”
ricavandolo dall’essenza dell’uomo (Etica Nicomachea, I, 7) e dalla
classificazione delle virtù.
La classificazione delle virtù proposta da Aristotele si sviluppa a partire
dalla sua concezione dell’anima:
[segue]
La filosofia di Aristotele: l’etica (2)
VEGETATIVA
SENSITIVA
RAZIONALE
Presiede alle
funzioni
riproduttive e
nutritive
Presiede alle
funzioni
sensibili
Presiede alle
funzioni
intellettuali
Presente in tutti
gli esseri viventi
(vegetali e
animali): piacere
e salute come
scopi finali
Presente solo negli
animali, presiede alle
virtù etiche (coraggio,
temperanza, liberalità,
magnificenza,
magnanimità, mansuetudine, GIUSTIZIA)
Propria solo
dell’uomo: virtù
dianoetiche
(calcolative e
scientifiche):
SAPIENZA
La filosofia di Aristotele: l’etica (3)
Sulla base di questa tripartizione, Aristotele individua il piacere e la salute
come scopo finale dell'anima vegetativa, risultante dall'equilibrio tra gli
eccessi opposti, evitando ad esempio di mangiare troppo, o troppo poco.
All'anima sensitiva egli assegna invece le virtù etiche, che sono abitudini
di comportamento acquisite allenando la ragione a dominare gli impulsi,
attraverso la ricerca del giusto mezzo fra passioni contrarie: ad esempio il
coraggio è l'atteggiamento mediano da preferire tra la viltà e la temerarietà.
Poiché l‘essenza dell’uomo è quella di essere un animale sociale / razionale /
politico, l'equilibrio è ciò che deve guidare i suoi rapporti con gli altri; questi
devono essere improntati al giusto riconoscimento degli onori e del prestigio
derivanti dall'esercizio delle cariche pubbliche.
Le diverse virtù etiche (coraggio, temperanza, liberalità, magnificenza,
magnanimità, mansuetudine) sono tutte riassunte dalla virtù della giustizia.
Quindi le virtù etiche sono disposizioni o abiti virtuosi del carattere dell’uomo
che:
1. permettono la vittoria della ragione sugli impulsi;
2. perseguono la giusta misura tra due eccessi (in medio stat virtus);
3. fissano il fine dell’atto morale;
4. la principale virtù etica è la giustizia.
[segue]
La filosofia di Aristotele: l’etica (4)
In particolare lo Stagirita stabilisce: 1) contro la morale aristocratica
tradizionale, secondo cui la virtù è innata, le virtù si manifestano come
abitudini e si sviluppano con l’esercizio; 2) contro l’intellettualismo etico a lui
precedente (ad esempio di Socrate e di Platone), la virtù non può derivare
soltanto dalla conoscenza teoretica del bene, ma richiede l’intervento della
volontà umana.
All'anima razionale infine Aristotele assegna le virtù dianoetiche, suddivise in
calcolative e scientifiche.
Le facoltà calcolative hanno una finalità pratica, sono strumenti in vista di
qualcos'altro:
1. l'arte (τέχνη) ha un fine produttivo;
2. la saggezza (φρόνησις) che è la capacità dell’uomo di agire secondo
ragione, fissando i mezzi per realizzare l’atto morale con riferimento alle
cose sensibili, oltre a guidare l'azione politica.
La facoltà scientifica è unicamente teorica e studia ciò che non dipende da
noi e che non può essere diverso da come è (ciò che è necessario che sia).
Essa comprende:
1. la scienza (έπιστήμη), cioè la capacità logica di compiere dimostrazioni ed
argomentazioni sillogistiche (apodittica);
2. l’intelletto (νούς), ovvero la capacità di cogliere i principi primi delle
scienze da cui scaturiscono per necessità le dimostrazioni.
[segue]
La filosofia di Aristotele: l’etica (5)
L’unione di scienza e intelligenza viene definita da Aristotele sapienza (σοφία)
che consiste nella contemplazione delle realtà soprasensibili, che rappresenta il
sommo bene per l’uomo, cioè la massima felicità, che è propria soltanto del
filosofo.
Le facoltà scientifiche, mirando alla conoscenza disinteressata della verità, non
si prefiggono appunto nessun altro obiettivo al di fuori della sapienza in sé.
Aristotele introduce così una concezione della sapienza intesa come modalità
di vita slegata da ogni finalità pratica e che, pur rappresentando un'inclinazione
naturale di tutti gli uomini, solo i filosofi realizzano a pieno, mettendo in atto un
sapere che non serve “in pratica” a nulla, ma proprio per questo non dovrà
piegarsi a nessuna servitù: un sapere assolutamente libero.
La contemplazione della verità è quindi un'attività fine a se stessa, nella
quale consiste propriamente la felicità ed è quella che distingue l'uomo dagli
altri animali rendendolo più simile a Dio, definito da Aristotele nella Metafisica
come pensiero di pensiero, pura riflessione auto-sufficiente che nulla deve
ricercare al di fuori di sé.
Diversamente dalle tesi espresse dal suo maestro Platone nella Repubblica (il
filosofo deve governare, perché solo chi conosce il Sommo bene e la giustizia
può rendere giusto lo Stato), Aristotele pensa che la sapienza, propria di pochi
uomini, non si accompagni necessariamente alla saggezza, che è la dote più
importante e più richiesta per chi governa.
L’Etica Nicomachea di Aristotele (1)
L’Etica nicomachea è suddivisa in dieci libri e raccoglie la trattazione più
compiuta dell’etica aristotelica.
L’indagine deve chiarire quale sia il fine della vita dell’uomo e quali i mezzi
mediante i quali ottenerlo. Essendo tale fine il bene, bisogna stabilire in quale
modo sia possibile conseguirlo; la scienza che consente di raggiungere il
bene e il giusto è la politica, la quale, rispetto alle altre scienze pratiche
riguardanti la comunità sociale, ha un ruolo architettonico, ossia ne determina
i fini in vista di un bene più perfetto, quello della città. Essendo i beni
molteplici e legati ai diversi generi di vita, è necessario stabilire come
raggiungere un equilibrio tra fini particolari e bene, e come conseguire la
felicità; quest’ultima consiste, per Aristotele, nell’attività conforme alla virtù
(libro I).
Le virtù sono di due tipi: etiche, ossia relative alla prassi e concernenti la
parte appetitiva dell’anima, e dianoetiche, ossia relative all’intelletto, e
nell’esercizio delle quali la natura dell’uomo si realizza pienamente. Il criterio
che regola le virtù etiche è la medietà, il «giusto mezzo» fra eccesso e difetto,
mentre le condizioni cui deve sottostare l’azione virtuosa sono: la sufficiente
conoscenza della situazione concreta in cui si agisce; la scelta deliberata; la
scelta del fine condotta in base a una disposizione stabile nei confronti della
virtù (libro II).
[segue]
L’Etica Nicomachea di Aristotele (2)
Un’azione può essere valutata moralmente soltanto quando è frutto della
scelta e della deliberazione riguardo ai mezzi per conseguirne il fine (libro III).
Le virtù etiche, in quanto non intellettuali, non sono insegnabili, ma devono
essere apprese mediante la pratica, l’abitudine e seguendo l’esempio di
uomini saggi. La più importante, fra le virtù etiche, è la giustizia, che si divide
in distributiva, e segue la proporzione geometrica, o correttiva, e segue la
proporzione aritmetica. La distributiva è impartita tenendo conto delle
differenze e dei meriti; la correttiva interviene allorché si presentino squilibri
nei rapporti fra gli uomini. L’equità è invece la virtù che interviene a correggere
la legge laddove essa presenta carenze, in quanto universale, nell’applicarsi a
casi particolari (libri IV e V).
Le virtù dianoetiche, poiché realizzano il fine dell’uomo come intelligenza,
attengono al piano teoretico e sono insegnabili. L’anima razionale si suddivide
in base all’oggetto che le è proprio in quanto scientifica, ossia rivolta alle cose
eterne e immutabili (necessarie); o in quanto calcolativa, ossia rivolta a ciò
che può essere o non essere (contingente). Alla parte scientifica dell’anima
afferiscono le virtù dell’intelligenza (νοῠς; la capacità di cogliere i principi di
tutte le scienze intuitivamente), della scienza (ἐπιστήμη; la capacità di dedurre
la verità dai principi), della sapienza (σοφία; che risolve in un’unica
conoscenza ciò che si deduce mediante intelletto e scienza).
[segue]
L’Etica Nicomachea di Aristotele (3)
Alla parte opinativa dell’anima attengono invece la ragionevolezza o saggezza
(φρόνησις), ossia il saper deliberare e ben dirigere la propria vita, e l’arte
(τέχνη), la capacità di produrre cose che non esistono in natura. La virtù più
alta, in cui consiste la felicità, è la sapienza, «scienza con fondamento delle
realtà più sublimi», superiore per questo alla saggezza, la quale è comunque
condizione necessaria di tutte le virtù (libro VI).
Dopo l’analisi della continenza e dell’incontinenza (libro VII), con la condanna
del piacere in quanto tale, Aristotele passa (libro VIII) a trattare dell’amicizia
(φιλία), che «è una virtù o s’accompagna alla virtù» ed è «necessarissima per
la vita»; essa deve rispondere a tre requisiti:
1. la mutua benevolenza,
2. la volontà del bene,
3. la manifestazione esteriore dei sentimenti.
Amicizia perfetta è quella dei buoni, che si assomigliano per la virtù.
L’uomo virtuoso (libro IX) intrattiene anche con sé stesso un rapporto di
amicizia, ossia di «amore di sé» (φιλαυτία), una forma di egoismo non
deteriore che gli deriva dall’essere consapevole della propria virtù e
dall’amarla.
[segue]
L’Etica Nicomachea di Aristotele (4)
«L’amicizia è comunanza» e con gli amici virtuosi si attua un completamento
reciproco della virtù. A questo punto (libro X) Aristotele può parlare della
felicità considerandola come raggiungimento del fine proprio dell’anima
razionale, il conoscere, al quale si accompagna un piacere che consiste
nell’esercizio non ostacolato della facoltà.
Essa è un’attività di contemplazione individuale e distaccata fine a sé stessa
che rende quasi simili agli dei: «se […] in confronto alla natura dell’uomo
l’intelletto è qualcosa di divino, anche la vita conforme a esso sarà
divina in confronto a quella umana» (1177 b).
Vi è, però, «al secondo posto», una felicità inerente alla vita attiva; essa è
conforme all’esercizio delle virtù etiche e trova la sua espressione più
completa nella politica.
Occorre ricordare anche l’ Etica eudemia e la Grande etica. Sono le altre
due opere di Aristotele consacrate all’etica che ci sono pervenute. L’ Etica
eudemia ripercorre con stile più ricercato molti dei contenuti dell’ Etica
nicomachea, con la quale converge in taluni libri, mentre la Grande etica si
presenta come un mosaico delle altre due opere.
La filosofia di Aristotele: la politica (1)
Nella sua opera dedicata alla politica, Aristotele esamina i fondamenti e la
necessità dello Stato e delle varie forme di costituzione (libri I-III), ne studia le
trasformazioni storiche e prospetta un ideale politico di democrazia moderata
(libri IV-VI) e delinea infine la costituzione dell’ottimo Stato (libri VII-VIII).
Scopo dell’analisi politica di Aristotele non è individuare il modello di uno
Stato ideale, come fa Platone, bensì studiare in concreto come gli uomini
si costituiscano in uno Stato politico e suggerire come organizzarlo in
modo da promuovere il bene comune.
L’uomo è per natura un «animale politico»; lo Stato non è quindi il prodotto di
un contratto o di una convenzione tra gli individui, ma il fine cui tende
naturalmente l’uomo associandosi in comunità.
La prima forma di comunità è la famiglia, che nasce dai bisogni immediati
dell’essere umano; la seconda forma è il villaggio che sorge dall’unione di più
famiglie; infine da più villaggi nasce la πόλις o «città-Stato», organizzazione
complessa che può bastare a sé stessa.
Lo Stato, quindi, in quanto forma più perfetta, è il fine cui tendono le
associazioni naturali inferiori. Per Aristotele non c’è una forma di
costituzione perfetta dello Stato.
Sono buone, o rette, tutte le forme di costituzione nelle quali il governo
esercita il proprio potere in vista dell’utilità comune.
[segue]
La filosofia di Aristotele: la politica (2)
Aristotele ne distingue tre: la monarchia (governo di uno solo), l’aristocrazia
(governo dei migliori, o dei privilegiati), la politeia (πολιτεία, cioè la
«costituzione» per eccellenza). A queste, si contrappongono le tre forme di
costituzione corrotte, o degenerate, nelle quali il potere è esercitato a
vantaggio non di tutti bensì dei governanti, e cioè: la tirannide
(degenerazione della monarchia), l’oligarchia (degenerazione dell’aristocrazia)
e la democrazia (degenerazione della politeia).
Delle tre forme rette, è preferibile la politeia in quanto concede uguale libertà
ai cittadini e tutti possono partecipare al governo. Tutti i cittadini, ma non
tutti gli individui: alcuni uomini «per natura» sono incapaci di realizzare la
vera natura dell’uomo, la vita intellettuale, e sono schiavi, utili allo Stato ma
solo come strumenti. Non solo: se formalmente nella politèia tutti i cittadini
maschi, liberi e maggiorenni possono avere accesso alle cariche politiche,
all’atto pratico Aristotele ammette che abbiano più diritto di governare coloro
che godono di una posizione sociale e di qualità intellettuali più elevate, in
accordo con il principio della giustizia distributiva secondo cui è giusto
che chi vale di più abbia anche di più.
Per questo la critica concorda nel ritenere che la forma migliore di
governo sia per Aristotele una singolare mescolanza di democrazia e
aristocrazia: per lo più il potere di governare sarà in mano ai migliori.
La filosofia di Aristotele: la poetica la retorica
La Poetica e la Retorica, in quanto scienze che producono un determinato
oggetto, sono definiti da Aristotele, scienze poietiche.
Della riflessione aristotelica sulla poetica si è conservato solo lo scritto sulla
tragedia, che ha goduto di una straordinaria fortuna fino al Romanticismo.
Secondo Aristotele la poesia è imitazione della natura, e quindi come la natura è
soggetta a finalismo: le forme poetiche si sviluppano verso la perfezione del
proprio genere (nel caso specifico la tragedia attica del V secolo). La poesia
tragica ha un ruolo importante nella comprensione della realtà, perché, a
differenza della storia, che enumera fatti contingenti, si sforza, come la
filosofia, di assumere un’ottica universale, mostrando le strutture
paradigmatiche dei comportamenti e delle vicende umane. Dal punto di vista
etico la poesia tragica agisce sullo spettatore come catarsi, come una
“purificazione” che avviene con il coinvolgimento emotivo suscitato dalla scena.
L’interesse di Aristotele per la retorica risale invece al periodo giovanile, in cui se
ne occupò in relazione alla dialettica: se questa persuade attraverso
dimostrazioni partendo da premesse certe, la retorica lo fa utilizzando strumenti
razionalmente più deboli e a volte capziosi (l’entimema al posto del sillogismo
– ovvero il sillogismo retorico che è fondato su verosimiglianze o segni,
ossia che argomenta da premesse non assolutamente certe -, l’esempio al
posto dell’induzione). I tre grandi generi retorici sono il deliberativo, il giudiziario
e l’epidittico.
Opere consultate per il corso (in rosso quelle difficili) 1
Testi sul Medioevo :
H. Pirenne: Storia d'Europa: dalle invasioni al XVI secolo, Sansoni, 1984 (1910)
J. Huizinga: L' autunno del Medioevo, Sansoni, 1985 (1919)
M. Bloch: I re taumaturghi: studi sul carattere sovrannaturale attribuito alla potenza dei
re, particolarmente in Francia e in Inghilterra, Einaudi, 1989 (1924)
M. Bloch: La società feudale, Einaudi, 1981 (1939-1940)
E.H. Gombrich: La storia dell’arte raccontata da Gombrich, Leonardo Arte, 1995 (1950)
J. Le Goff : La civiltà dell'occidente medievale, Einaudi, 1983 (1964)
J. Le Goff : La nascita del Purgatorio, Einaudi, 1982 (1981)
J. Le Goff (a cura): L’uomo medievale, Laterza, 1988
Testi di Dante Alighieri:
Opere Volume primo (Rime, Vita Nova, De vulgari eloquentia), Mondadori, 2011
Opere Volume secondo (Convivio, Monarchia, Epistole, Egloge), Mondadori, 2014
Commedia (a cura di E. Pasquini e A. Quaglio), Garzanti, 1987
Testi dei filosofi trattati:
Aristotele: Etica Nicomachea, Rizzoli, 1986
Agostino: Le confessioni, Mondadori, 1992
Abelardo ed Eloisa: Lettere, UTET, 2015
Tommaso d’Aquino: Compendio della Somma teologica (a cura di G. Dal Sasso e R.
Coggi), Edizioni Studio Domenicano, 1989
Opere consultate per il corso (in rosso quelle difficili) 2
Testi su Dante:
E. Auerbach: Studi su Dante, Feltrinelli, 2005 (1929)
C.H. Singleton: La poesia della Divina Commedia, Il Mulino, 1999 (1950 -1969)
E. Gilson: Dante e la filosofia, Jaca Book, 1987
B. Nardi: Saggi di filosofia dantesca, La Nuova Italia, 1967
B. Nardi: Dante e la cultura medievale, Laterza, 1985
G. Contini: Un’idea di Dante: saggi danteschi, Einaudi, 1976
M. Santagata: Dante. Il romanzo della sua vita, Mondadori, 2013
Testi su Aristotele:
W.W. Jaeger: Aristotele: prime linee di una storia della sua evoluzione spirituale,
Bompiani, 2003 (1923)
W. D. Ross: Aristotele, Feltrinelli, 1982 (1923)
I. During: Aristotele, Mursia, 1985 (1966)
G. Reale: Introduzione a Aristotele, Laterza, 1987
P. Donini: La filosofia di Aristotele, Loescher, 1982
C. Natali: La saggezza di Aristotele, Bibliopolis, 1989
E. Berti (a cura): Guida ad Aristotele, Laterza, 1997
J. Barnes: Aristotele, Einaudi, 2002
A. Jori: Aristotele, B. Mondadori, 2003
Opere consultate per il corso (in rosso quelle difficili) 3
Testi su Agostino:
M. Vannini: Invito al pensiero di Sant‘Agostino, Mursia, 1989
G. Catapano: Agostino, Carocci, 2013
Testi su Abelardo:
E. Gilson: Eloisa e Abelardo, Einaudi, 1970
M. B. Brocchieri Fumagalli: Eloisa e Abelardo: parole al posto di cose, Mondadori, 1987
M. B. Brocchieri Fumagalli : Introduzione a Abelardo, Laterza, 1988
Testi su Tommaso d’Aquino:
S. Vanni Rovighi: Introduzione a Tommaso d’Aquino, Laterza, 1990
P. Porro: Tommaso d’Aquino: un profilo storico-filosofico, Carocci, 2014
Testi sull’etica:
C.A. Viano: L’etica, Mondadori, 1981
E. Lecaldano: Etica, UTET Libreria, 1995
M. Vegetti: L’etica degli antichi, Laterza, 2010
Manuali e opere di storia della filosofia antica e medievale:
M. Dal Pra: Sommario di storia della filosofia, Volume I, La Nuova Italia, 1986.
G. Reale: Storia della filosofi antica, Volumi II e III, Vita e Pensiero, 1984.
E. Gilson: La filosofia nel medioevo, La Nuova Italia, 1983 (1944)
C. Vasoli: La filosofia medievale, Feltrinelli, 1972
M. B. Brocchieri Fumagalli: Storia della filosofia medievale, Laterza, 1996
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