Immota harmonìa
Collana di Musicologia e Storia della musica

Direttore
Sergio P
Conservatorio di Musica “Alfredo Casella”
Comitato scientifico
Guido B
Conservatorio di Musica di Trapani “Antonio Scontrino”
Dario D P
Conservatorio di Musica di L’Aquila “Alfredo Casella”
Alessandro C
Conservatorio di Musica di L’Aquila “Alfredo Casella”
Stefano R
Università per stranieri di Perugia
Immota harmonìa
Collana di Musicologia e Storia della musica
La collana Immota harmonìa accoglie e prevede nelle sue linee programmatiche e nei suoi intendimenti le tre diramazioni e direttive della
ricerca musicologica: monografie e biografie, trattatistica e analisi
musicale. L’argomentazione biografica e monografica spazia naturalmente in tutto l’ambito della millenaria storia della musica, mentre la
trattatistica s’indirizza verso le teorizzazioni tipicizzanti e fondamentali (teorie generali, acustica, organologia, armonia, contrappunto,
studio ed evoluzione delle forme); l’analisi, infine, comprende riletture e tematiche specifiche secondo intendimenti e campi di indagine
molteplici, caratterizzanti e soggettivi.
Gaspare Nello Vetro
Vissi d’arte
Luigi Illica librettista
Prefazione di
Marco Capra
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 Roma
() 
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I edizione: marzo 
La musica descritta
è come un pranzo raccontato
(Gazzetta Musicale di Milano, 7 aprile 1895, p. 242)
Prefazione
Illica, un volto della modernità
La prima immagine che mi si affaccia alla memoria pensando a
Luigi Illica è legata all’invenzione di una rivista che più di cent’anni
or sono voleva fare del sarcasmo sul progresso tecnologico a tutti i
costi: il cinematomelodramma, vale a dire la degenerazione tecnologica
alla quale anche l’opera in musica, sposandosi con la novità del
cinematografo, avrebbe dovuto inchinarsi, prima o poi. E uno dei
protagonisti di quella innovazione – che la rivista riteneva paradossale
– non sarebbe potuto essere che Luigi Illica, l’esponente più in vista del
nuovo librettismo, colui che cercava il nuovo a ogni costo. In effetti,
al di là della provocazione giornalistica, Illica non aveva certo alcuna
preclusione nei confronti del cinematografo, la novità che in quegli anni
rivoluzionava la concezione stessa di “opera d’arte”, visto che era proprio
lui – come scrive Gaspare Nello Vetro – a prospettare la possibilità
di una versione cinematografica addirittura della Rappresentatione
di anima et di corpo di Emilio de’ Cavalieri, forse il primo dramma
musicale in assoluto, che Giovanni Tebaldini aveva appena resuscitato
dall’oblio, più di tre secoli dopo la sua prima esecuzione; per non
dire dell’idea di utilizzare proiezioni filmate per la messa in scena di
un’opera tratta dall’Eneide, di cui Illica discuteva nel 1919 la fattibilità
con Umberto Giordano. Quella stessa sensazione di modernità mediata
dall’interesse per il cinematografo viene poi rinforzata da un’altra
immagine, fotografica questa volta e pubblicata ancora da una rivista,
che all’inizio del secolo ritraeva Illica in compagnia di Tito Ricordi
e Alberto Franchetti a bordo della Mercedes a 35 cavalli di proprietà
del facoltoso barone compositore: tutti e tre intenti, come spiegava la
didascalia, a immaginare l’effetto dell’esercito napoleonico in ritirata
tra le nebbie della pianura di Lipsia, per la nuova opera Germania che
proprio allora stava nascendo dalla cooperazione dei tre automobilisti
d’eccezione.
Quella modernità così al passo coi tempi e, quindi, così
accondiscendente rispetto all’idea più diffusa di progresso artistico
doveva tuttavia costare a Illica il disprezzo delle fazioni più radicali,
nella sua veste di “grottesco pasticciere” di “quella fetida torta a cui
si dà il nome di libretto d'opera”, come scriveva nel 1911 Francesco
7
8
Prefazione
Balilla Pratella nel suo Manifesto dei musicisti futuristi. In realtà,
anche quello era un segno di indubbia popolarità e successo, e il
riconoscimento che Illica – in strettissima analogia con quanto in quegli
stessi anni accadeva al suo sodale Giacomo Puccini – rappresentava
una figura davvero emblematica e un modello di riferimento assoluto,
da seguire o combattere, secondo i vari punti di vista. Certamente non
si può vedere la sua figura solo attraverso la lente della modernità; ma
indubbiamente si tratta di un punto di vista che coglie uno dei suoi
aspetti più significativi e forse quello che più di ogni altro ne segna il
distacco dalla tradizione ottocentesca, vale a dire da quella tradizione
del librettista abile verseggiatore così ben rappresentata da Giuseppe
Giacosa, l’altra metà della coppia per antonomasia della librettistica
italiana. Proprio nel confronto delle due figure di letterati e di uomini
di teatro (anche al di là della triade pucciniana legata al loro sodalizio)
si può cogliere il carattere ancora vitale, ma contradditorio, dell’opera
italiana a cavallo dei due secoli, sempre tesa alla difficile conciliazione
di fermenti avveniristi da una parte e di ritorni passatisti dall’altra. Un
quadro assai complesso e affascinante che il racconto della vicenda
umana e artistica di Luigi Illica ci restituisce con grande dovizia di
particolari e di suggestioni.
Marco Capra
Professore dell'Università degli Studi di Parma
Indice
7
Prefazione
13
Capitolo I
Una giovinezza scapigliata
45
Capitolo II
Il librettista. I primi anni
73
Capitolo III
Il librettista. Gli anni d’oro
105
Capitolo IV
Il librettista. Altri successi
125
Capitolo V
Verso il tramonto
153
Capitolo VI
L’ultimo squillo
161
Capitolo VII
Ricordando Giacosa
169
Capitolo VIII
Hanno scritto
205
213
229
Indice dei nomi
Le commedie e i libretti rappresentati
Bibliografia
Capitolo I
Una giovinezza scapigliata
Negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, pur essendo privo
di una solida base di studi letterari, Luigi Illica fu certamente il principale librettista del nostro teatro lirico e, anche se influenzato dal teatro
francese, si può definire padre del moderno libretto italiano. Pur operando in un momento di grande vitalità in questo genere, in quanto vi si
cimentarono le personalità più in vista della letteratura e drammaturgia,
quali Gabriele D’Annunzio (Le martyre de Saint Sébastien, 1911, musica di Claude Debussy; Parisina, 1913, per Pietro Mascagni; Francesca
da Rimini, 1914, per Riccardo Zandonai; Fedra, 1915, per Ildebrando
Pizzetti; La nave, 1918, per Italo Montemezzi), Sem Benelli (L’amore
dei tre re, 1913, per Montemezzi), Giovacchino Forzano (Lodoletta,
1917, per Mascagni; Suor Angelica e Gianni Schicchi, 1918, per
Puccini), molti dei suoi lavori furono senza dubbio i migliori e, cosa
più significativa, rimasero.
Se prescindiamo dai tre capolavori per Puccini, scritti assieme a
Giacosa, lavorò sempre da solo, dando vita a un numero notevole di
libretti. Si può considerare un autore prolifico: comunque assai meno di
quanto non fosse stato l’altro grande librettista italiano, Felice Romani.1
Da un punto di vista temporale si può dire che in questo campo l’attività di Illica ebbe inizio quando il romanticismo del Romani era al
crepuscolo, mentre il naturalismo trionfava in Francia nei romanzi di
Zola, Goncourt, Maupassant, Daudet, e in Italia di Verga, Capuana, De
1
P. J. SMITH, La decima Musa. Storia del libretto d’opera, Sansoni, Firenze 1981, p.
339 scrive che i libretti composti furono 30; per U. ROLANDI, Il libretto per musica
attraverso i tempi, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1951, p. 128 furono circa 80, comprendendo anche le commedie.
13
14
CAPITOLO I
Roberto e Giacosa. La reazione nei riguardi dei relitti del romanticismo
aveva toccato anche la musica e nel teatro musicale fu Illica l’interprete
di questa tendenza non solo con i compositori che andarono per la maggiore, ma anche con molti che non superarono il muro del tempo.2
Lui stesso nel marzo 1917 scrisse: «Certo è che l’elenco delle opere
alle quali io ho collaborato, sia della casa Ricordi, sia della Sonzogno,
non si riduce al breve che figura. Credo di averne, ahimè, sulla mia
coscienza circa una settantina, fra commedie, libretti e lavori di genere
teatro. Ma quante opere alle quali io ho collaborato che neppure poterono arrivare all’onore ed alla sconfitta della scena! Quante vi giunsero
morte o vi furono ammazzate!»3 «Le opere hanno due destini quello
dell’arte, (e non si discute), ma anche quello della così detta “Fortuna”.
Caro Arturo [l’amico Verani]: devi ricordare che il vocabolo iettatura è
nato sopra un palcoscenico, fra una quinta e una… fra una bestemmia
di macchinista, o magari pompiere, e, spesso, una malignità femminile
di prima donna gelosa o stonata».4
Di cultura disordinata, ma fornito di un intuito formidabile, Illica
fu un personaggio chiave nelle vicende del teatro musicale italiano postverdiano. Gianandrea Gavazzeni lo ha descritto come «portatore di
squisitezze e modernità francesi nella scapigliatura milanese davanti a
un piatto di giallo risotto». Il giallo risotto era fervore di vita tradotto in
trame teatrali efficacissime tra cui capolavori di analisi storiche.5
Malgrado qualche squilibrio narrativo, una certa propensione alla
complicazione e alla sovrabbondanza decorativa, Illica seppe contemperare gusto inquieto ed eclettico, genuina immediatezza di disposizione poetica, senso critico, immaginativa impetuosa, mano drammatica e
un indubbio valore letterario, aperto alla vena veristica e al decadentismo estetizzante.6 Fu il primo a offrire al teatro lirico italiano qualche
cosa di reale, di vero, portando una nota umana e la realtà della vita,
mentre, altro merito, fu che i libretti acquistarono snellezza, tanto da
potersi reggere come opere autonome, tentando di ridare dignità a un
2
3
4
5
6
«Musica d’oggi», XXIV (1942), n. 8, p. 190.
A. SCARLATTI, Commemorazione di Luigi Illica. Note biografiche, Teatro Municipale,
Piacenza 1922, p. 15.
E. OTTOLENGHI, Luigi Illica, in «Aemilia», 1929, n. 2, p. 50.
U. MIRABELLI, Smareglia nel suo tempo, in “Atti del convegno di studi su Antonio
Smareglia”, Sonzogno, Milano 1996, p. 27.
F. BUSSI, L’Ottocento, in “Storia di Piacenza”, vol. V, Cassa di Risparmio di Piacenza,
Piacenza 1980, pp. 767-768.
Una giovinezza scapigliata
15
formulario dequalificato,7 abbandonando il vecchio linguaggio teatrale
«infarcito di frusto ciarpame letterario e quelle rancide dizioni spesso
pleonastiche a base di “affé”, “ognor”, “inver”, “perciocché”, “eziandio”, i superflui esclamativi, le stucchevoli interiezioni, le retoriche,
spesso ridicole preziosità letterarie come “non lice”, “che fia?” “il duol
che m’ancide”, e simili arcaismi. Non lunghi monologhi, non più tronfie esposizioni ampollosamente retoriche e pertanto superflue, ma stringate, concise espressioni che lasciavano comprendere in una sintetica
frase un più ampio concetto richiamandovi l’attenzione dell’ascoltatore».8
Nel profondo studio preliminare che effettuava prima di stendere
la tela di un libretto, era solito approfondire sia l’ambito storico che
geografico che di costume sui quali impostare il lavoro, nel quale poi
inseriva anche dei termini in uso – anche se non sempre con la grafia
esatta – quando poi non era lui stesso a creare dei neologismi.9
Nelle sue trame furono presenti i due grandi temi del melodramma,
l’amore e l’odio: ma se il primo giocava un ruolo dominante, il secondo
aveva un’importanza assai minore di quanto non ne avesse rivestito nelle opere del periodo centrale di Verdi.10 Altre caratteristiche nei lavori
di Illica, legate peraltro al suo sentire e agli interessi del periodo in cui
viveva, furono l’attenzione verso l’ambiente umile dei pescatori veneziani (I dispetti amorosi per Luporini), i lavoratori di un porto e il cafèchantant (La martire per Spiro Samara), i grandi classici (Cassandra
per Gnecchi), gli eventi nazionalistici (La Perugina per Mascheroni),
quelli religiosi (Anton per Galeotti e Il mare di Tiberiade per Vittadini),
spaziando nelle più varie aree geografiche: dal deserto arabo (La fonte di Enscir per Alfano), all’Inghilterra (Tess per D’Erlanger), la Cina
(Errisiñola per Lombard), l’Ungheria (Il principe Zilah per Alfano) e il
Messico (La colonia libera per Floridia). E nei libretti più noti, vennero affrontate tematiche che indicavano la sensibilità nei riguardi della
coscienza sociale (al punto che La bohème si può dire fosse diventa-
7
8
9
10
C. DAPINO (a cura), Il teatro italiano. Il libretto del melodramma dell’Ottocento,
tomo II, Einaudi, Torino 1884, p. XLVII.
U. ROLANDI, Il libretto per musica attraverso i tempi, cit., pp. 149-152; L. Baldacci,
Libretti d’opera, Vallecchi, Firenze 1974, p. 243.
S. SAINO, L’obi e la martingala: sul lessico di Luigi Illica, in “Verso Tosca: Luigi
Illica nella cultura europea del secondo Ottocento”. Atti del convegno del marzo
2008, GL Editore, Piacenza 2010, pp. 149-158.
P. J. SMITH, La decima Musa, cit., pp. 339-340.
16
CAPITOLO I
ta il simbolo della vita dei giovani artisti), della Rivoluzione Francese
(Andrea Chénier, 1896, capolavoro del verismo musicale per la musica di Umberto Giordano); della scoperta dell’America (Cristoforo
Colombo per Alberto Franchetti in occasione del centenario del 1892);
spaziando su temi regionali (La Wally, 1892, per Alfredo Catalani); sul
risveglio della libertà contro l’invasione napoleonica (Germania, 1902,
ancora per Franchetti); sulla Russia e le deportazioni (Siberia, 1903,
ancora per Umberto Giordano); sull’oppressione del sistema tributario secondo la leggenda medievale inglese di Lady Godiva (Isabeau,
1911, per Pietro Mascagni); sulla nuova realtà presentata dall’apparizione sulla scena mondiale dell’antico Giappone (Iris, 1898, ancora per
Mascagni e Madama Butterfly per Puccini). Non si può dimenticare poi
l’eclettismo che manifestò nel simbolismo floreale di Iris e l’evocazione della commedia dell’arte (Le maschere, 1901, ancora per Mascagni),
tutti lavori che avevano richiesto lunghe letture e scrupolose ricerche
per poter rivivere i tempi e l’ambiente. Se poi andiamo a guardare tutti
i lavori dei quali Illica si limitò a scrivere la tela, non giungendo poi al
compimento del libretto, si rileva quanto incredibilmente ampi fossero
stati i suoi interessi letterari, storici e geografici.
Se questo fu il librettista, la vita fu tale da incidere sull’immaginario delle cronache. Era un personaggio curioso, esuberante in ogni sua
manifestazione. La fronte alta, i mobilissimi occhi, e nella maturità i
folti baffi su una larga bocca. Chi lo conobbe lo ricordava come uomo
bizzoso, con momenti di asprezza in contrasto con un animo generoso.
Aveva uno spiccato senso del teatro e nei rapporti con i compositori,
superati i primi contrasti, era arrendevole alle loro esigenze, e pronto a
riscrivere intere scene per adattarle alle loro esigenze.11
Luigi Illica era figlio di un gentiluomo all’antica, il dottor Diogene,
notaio, che tra le tante ebbe la carica di “sovraintendente scolastico”
e di sindaco del paese. Massone, era stato il fondatore della loggia di
Castell’Arquato e questa fu, forse, l’unica cosa in cui il figlio seguì
l’esempio paterno.12 Fin dall’adolescenza fu un “discolo sovra tutti e
tutto”. Con una battuta si potrebbe anche dire che influenza sul suo
carattere potrebbe averlo avuto il rione in cui era nato il 9 maggio 1857.
La Comunitas Castra Arquati, infatti, era divisa in cinque quartieri: il
11
12
S. PAGANI, Alfredo Catalani, Ceschina, Milano 1957, p. 105.
G. BARIGAZZI, La Scala racconta, Rizzoli, Milano 1991, p. 393.
Una giovinezza scapigliata
17
Libigio, quello del Sole, quello del Monte di Aguzzo, il Borghetto e il
Bizzarro, proprio quello in cui vide la luce il nostro.13
Castell’Arquato è oggi famosa, oltre che per le bellezze architettoniche, per l’archivio della Collegiata. Nella monumentale piazza spiccano infatti le absidi della chiesa di S. Maria Assunta, costruita probabilmente su di un preesistente tempio pagano, detta anche Collegiata, in
quanto alla fine dell’XI secolo vi officiava un collegio di dodici canonici sotto la guida dell’arciprete pievano.14 A lungo sconosciuto, la prima
notizia che abbiamo trovato di questo archivio risale al 1805: Antonio
Boccia, nella relazione del viaggio ai monti del Ducato di Parma, annotò che varie casse di pergamene erano state vendute dal canonico
archivista della Collegiata a un libraio di Piacenza che «se ne serviva
per coprire i libri legati all’olandese». L’archivio, come lo conosciamo
adesso, fu visitato nel 1904 da Marco Enrico Bossi, direttore del Liceo
musicale di Bologna, mentre nel 1907 Giuseppe Terrabugio pubblicò15
una breve relazione sulla ricognizione effettuata in occasione di una
visita a Luigi Illica. Provvide anche a un riordino, cui collaborò il prevosto don Enrico Cagnoni. Gaetano Cesari e Renato Simoni stilarono
uno studio su di esso,16 e il primo (che era cremonese) ipotizzò che il
fondo costituisse la biblioteca di «un organista cremonese addetto alla
collegiata». Nel 1975 Colin H. Slim, per conto dell’American Institute
of Musicology, pubblicò un primo volume delle Keyboard Music at
Castell’Arquato, cioè delle composizioni organistiche che vi si trovano.
Il fondo, infatti, si può considerare composto di due parti: una di musica
vocale, l’altra, il vero gioiello della raccolta, è l’insieme dei fascicoli
di musica suonabile con strumenti a tastiera: raccolte antologiche della
metà del XVI secolo di musica “in tabulata”, ossia composta originariamente per voci, ma qui raccolte su uno o due righi per essere eseguite
da uno strumento.17
Luigi Illica, rimasto in tenera età orfano della madre, Geltrude
Zampieri, crebbe affidato a una vecchia domestica che, con il suo cieco
13
14
15
16
17
Castellarquato, in «Musica e Musicisti. Gazzetta Musicale di Milano», LIX (1904),
n. 7, p. 394. La dizione Castellarquato in uso nel passato è stata in avanti riportata
nella forma moderna di Castell’Arquato.
A. MORDACCI (a cura), La rocca viscontea di Castell’Arquato, Grafiche Step Editrice,
Parma 2011, p. 57.
«Rivista di Musica Sacra», giugno 1907, p. 82.
“La Scure”, 9 novembre 1934.
G. N. VETRO, Dizionario dei musicisti e della musica di Piacenza, Banca di Piacenza,
Piacenza 2010, p. 201.
18
CAPITOLO I
affetto, anziché domare lo spirito irrequieto, finì con l’assecondarlo.
Ebbe un’agitata carriera scolastica e a Piacenza, in collegio tenuto da
religiosi, fu espulso dal ginnasio in quanto, avendo l’insegnante, un sacerdote, assegnato come tema, Ascoltate sempre la voce di vostra madre. Episodio di campagna, aveva terminato lo svolgimento con questa morale: «Non ascoltate mai la voce di vostra madre, specialmente
quando vi è il terribile Giovannone!» Nell’episodio agreste, in cui aveva immaginato scene violente, questi era un bruto collerico.18
Sempre negli anni giovanili per poco tempo studiò in un collegio
a Cremona, dove fu anche allievo di pianoforte del capo-musica della
banda civica Amilcare Ponchielli, che sviluppò in lui la disposizione
per la musica.19
Non sapendo più a che santo votarsi per domare lo spirito ribelle del
giovanetto, nel 1872, acquistate a Genova alcune carature di un veliero
mercantile, il padre lo fece imbarcare come mozzo, affidandolo al capitano della nave. Questi era un esperto lupo di mare, ma non certo uno
stinco di santo e tanto meno di educatore. In quattro anni Luigi toccò
i porti più lontani, aveva imparato altre “birichinerie”, ma non aveva
certo approfondito gli studi.
Il paese aveva un piccolo teatro, le cui prime notizie si possono far
risalire a una supplica del 12 dicembre 1750,20 come pure a un’altra del
4 febbraio 1778,21 indirizzate al duca di Parma. Con queste alcuni dilettanti chiedevano di poter eseguire uno spettacolo nel “picciol Teatro”.
Si trovava nel palazzo Comunale e in una sua descrizione si legge: «In
alto, in piccionaja, vi è un piccolo teatrino. Vi si accede faticosamente
per una erta, angusta scala oscura e pericolosa. In attesa che il Club
Alpino vi costruisca un rifugio, se Dio vuole il teatrino è chiuso! Lassù
in quel vero buco però ebbero aiuto di germoglio, fioritura e maturazione quelle opere… di beneficenza che diedero al paese l’asilo infantile,
la Società Operaia, ecc. Di passaggio, a volte, ne’ tempi addietro, appariva il volo di qualche randagia e accattona Compagnia di sedicenti
comici».22
18
19
20
21
22
E. OTTOLENGHI, Luigi Illica, cit.
M. MORINI, La Wally. Programma di sala, Teatro Massimo Bellini, Catania 1968,
p. 95.
Parma, Archivio di Stato, Spettacoli e Teatri Borbonici, b. 1.
Parma, Archivio di Stato, Spettacoli e Teatri Borbonici, b. 5.
Castellarquato, cit., ibidem.
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