la canzone - la sceneggiatura
I Quaderni
Intorno al Narrare
Il presente documento è stato realizzato dalla Comunità Montana Vallo di Diano
Misura 2.3 del P.O.R. Campania 2000 - 2006 Fondo Sociale Europeo
© 2008 - Comunità Montana Vallo di Diano, Viale Certosa, 84034 Padula (SA)
www.montvaldiano.it - tel. 0975 577111
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Intorno al Narrare
I Quaderni
la canzone
la sceneggiatura
Intorno al Narrare
I Quaderni
la canzone
la sceneggiatura
Coordinamento scientifico Emilio Becheri, Mercury S.r.l.
Ambiti tematici Gianpiero de la Feld, ENCO S.r.l.
Linea grafica Ugo Picarelli, Leader S.a.s.
Responsabile di progetto Pierluigi Picilli
Responsabile PI G.A.C. “Certosa di Padula” Vincenzo Russo
Responsabile Misura 2.3 Nadia Murolo
Direzione attività e Resp. del Procedimento Michele Rienzo
Coordinamento Tiziana Medici
Finito di stampare nel mese di settembre 2008
Grafiche ZACCARA - Lagonegro – 0973 41300
I Quaderni
la canzone
Intorno al Narrare ha portato nel Vallo di Diano un nuovo modo di concepire la cultura e diffondere la passione per lettura e scrittura. Da luglio
a settembre 2007 la Certosa di San Lorenzo è stata lo scenario scelto per
ospitare un ciclo di lezioni e laboratori sul gesto del narrare, inteso nelle
sue diverse forme. Cinque incontri, ognuno con un autore rappresentante
di un genere letterario: Massimo Bubola (la canzone d’autore), Gian Mario Villalta (la poesia), Silvio Perrella (il saggio), Evelina Santangelo (il
racconto) e Federica Pontremoli (la sceneggiatura cinematografica), hanno
introdotto i partecipanti all’argomento per poi affidarli ai laboratori curati
dalla Scuola Holden.
L’iniziativa realizzata dalla Comunità Montana Vallo di Diano all’interno
del progetto Sviluppo Sostenibile nella Filiera Turistico-Culturale. Intorno al Narrare i cui temi centrali sono stati etica e legalità, nasce nella convinzione che in un momento storico particolare, la diffusione della cultura
può dare un contributo umano nel migliorare la percezione dei cittadini nei
confronti della legalità e dell’etica, per questo è stato chiesto ai partecipanti di trattare questi temi in poesie, saggi, racconti, canzoni e sceneggiature,
interpretandoli in rapporto alla propria contemporaneità.
I Quaderni, sono la testimonianza di quanto prodotto dai partecipanti, veri
protagonisti della manifestazione, i loro scritti sono accompagnati da introduzioni degli autori e dei tutor che hanno condotto i laboratori.
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PRESENTAZIONE
Il ruolo di collegamento tra la Comunità Montana in quanto Ente locale
con le nuove generazioni costituisce un’eccezione, nella maggior parte dei
casi, infatti, le comunità montane tendono a privilegiare nella loro programmazione gli interventi di finanziamento di opere pubbliche e infrastrutturali. Come non immaginare quale infrastruttura “ portante” quella
della cultura e del sapere?
La Comunità Montana Vallo di Diano ha dato spazio alla mente, ai saperi, ai giovani e l’ha fatto con la poesia, la letteratura, il cinema, il saggio.
Quando si parla della “nuova generazione”, il cui stile di vita è indubbiamente caratterizzato dall’ampia diffusione delle tecnologie, le si attribuiscono diverse mancanze: tra queste, la progressiva assenza di fantasia e di
sensibilità. Sembra così, invece i Laboratori di scrittura tenutisi in Certosa
hanno dimostrato che c’è altro. Un “altro” che da speranza a questo territorio.
Dott. Vittorio Esposito
Presidente Comunità Montana Vallo di Diano
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La canzone
6 luglio 2007
Incontro con
Massimo Bubola
29 e 30 settembre
la canzone: laboratorio
INTRODUZIONE
Luca Ragagnin
Scrivere una canzone in otto, in dieci persone. Non era una pratica tanto
inusuale negli anni Sessanta, anche se là i motivi erano molto diversi dai
nostri.
Là si trattava di dividersi delle quote di diritti d’autore, ecco come si spiegano le infinite stringhe di nomi che apparivano in sovrimpressione al fondo degli schermi televisivi sintonizzati sul Festival di Sanremo.
Noi, qui, invece, ci siamo divisi il desiderio di comprendere come funzionano i meccanismi di una canzone, di scomporla in una sorta di proiezione
ortogonale e di prendere con delicatezza ognuno di questi ingranaggi, per
assimilarne al meglio la costruzione.
Un lavoro da orologiaio. Un lavoro.
Già, perché come per tutte le forme di espressione artistica, anche per la
canzone si tratta di incanalare l’estro, la fantasia, l’ispirazione a un lavoro
sistematico, paziente, tornito il più possibile.
La canzone, poi, è un innesto di mondi disciplinati. Ci sono la composizione, l’arrangiamento, il suono e, ovviamente, c’è la parola. Tutti questi
ingredienti si devono parlare e, se vogliamo scrivere una buona e onesta
canzone, devono formare la propria identità stilistica e il proprio carattere,
tenendo conto dell’identità e del carattere degli altri compagni.
È un processo apparentemente semplice, se preso dalla sua fine, l’ascolto.
Ma una buona canzone è tale proprio se la gamma delle emozioni che trasmette – tramite parole, note e arrangiamento – si può convogliare in un
unico punto focale, il puntino della semplicità.
Abbiamo incominciato a intraprendere questo percorso di piccola magia
terrena con le ore che avevamo a disposizione.
La volontà dei ragazzi di continuare anche dopo la fine del corso, dimostra
che la bellezza di questa semplicità si è mostrata denudata in ogni sua singola parte. Dimostra che la forma-canzone è in diretto contatto con zone
profonde del sentire umano.
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il baldànbio dell’Armonia
Canta … balla danza con me…
questa melodia
Specchio e filtro alchemico dei mali
per chi l’invidia e i dolori vuole trasformare
in Gioia Amore e Armonia
e per chi l’amore riflesso vuole per ogni via
tutto questo è per chi… non sa che cosa sia
tempo dei tempi di tutti i tempi
in tutte le notti e tutti i giorni che vuoi che sia
danza nell’aria nei venti nei cieli fra le nuvole
e sei le stelle i mari le terre il fuoco le ombre la luce
respira sollevati e soffia, soffia via l’agonia
soffiala sulla magia dei fiori
e su tutti i suoni su tutti i colori
e sui chiusi cuori
………………HO POETA BENEDETTO ………………
messaggero di questi colori
figlio di HÖDÉ Universo… degli Universi…
e di tutto l’amore degli uomini, che sanno amare
Senti… nell’eco dell’Universo i suoni… dei tuoi pensieri
che mentre parlano spargono l’armonia, sugli specchi del puro amore
e in tutte queste… e per tutte… le altre vie…
vedi e vedrai che dentro, oltre e intorno a tutti i cuori
É SOLO AMORE… E SARA’ SOLO AMORE…
…HÖDÉ… HÖDÉ… HÖDÉ…
guidaci tu………….. guidaci tu………….. guidaci tu……………
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Canzone semplice
Per l’ultima volta
ascolto il vento
è tormento. Perché?
Dimmelo tu.
Il vento mi porta
il pianto neonato,
è disperato, perché?
Dimmelo tu.
Canzone semplice
semplice canzone d’amore.
Forse tu, sarai diverso
io, sono disperso.
Forse tu no, non vuoi
trovarti sommerso.
Il vento mi porta
I brandelli di vita
giovane tradita, perché?
Dimmelo tu.
Tocco il rancore con le dita.
Sento il dolore nel cuore.
Forse tu, sarai diverso
io sono disperso.
Forse tu no, non vuoi
trovarti sommerso.
Forse tu lo sai,
forse tu non vuoi
forse tu sì, puoi
fare un futuro diverso.
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Finché la barca va
Finché la barca va
tu puoi campare umiliare
Finché la barca va
tu puoi frodare inquinare
Finché la barca va
tu puoi sporcare raggirare
guastare sporcare
tanto c’è tempo per aggiustare.
Se Narciso ti guardi riflesso
vedrai pattume dominare, immondizia galleggiare
se continui di questo passo
vedrai la barca incagliata, la tua vita congelata.
Finché la barca va
tu puoi crescere migliorare
Finché la barca va
tu puoi dialogare respirare.
Se Narciso ti guardi riflesso
vedrai persona affiorare, la barca veleggiare
se tu prendi questo passo
vedrai la vita scongelare, la sua scìa ritrovare
Rema, rema
non lasciarla andare
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Cuori di cemento
Sento che abbiamo fatto tardi
Nei pensieri non appare un futuro
Ora non separare gli sguardi
Dal tuo cardine sicuro
Sento che sono aperte le ferite
Nel viso non c’è ombra di un sorriso
Ieri sogni condivisi di altre vite
Nulla appare sul tuo viso
vestiti di calce e cuori di cemento
i nostri cuori di cemento
Preferisco fidarmi dell’uomo
Che nel bisogno non t’abbandona mai
vestiti di calce e cuori di cemento
i nostri sono cuori di cemento
Sento che per nessuno è facile
Tornare indietro, cancellare
Possiamo riprendere perché
Questo è un momento particolare
Ho bisogno di qualcuno in cui credere
Qualcuno di cui fidarmi
vestiti di calce e cuori di cemento
i nostri cuori di cemento
Preferisco fidarmi dell’uomo
Che nel bisogno non t’abbandona mai
Togliamo i vestiti di calce e
addio cuori di cemento
Cuori di cemento
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Se il mare potesse parlare
Se il mare potesse parlare,
maledirebbe il seme cattivo dell’uomo.
Se il mare potesse parlare,
chiamerebbe per nome chi sparge
il sangue degli innocenti.
Urlerebbe il folle dolore delle donne
che, nuove schiave,
assistono impotenti alla morte delle creature.
Se potesse parlare,
indicherebbe la strada ai corpi freddi
che vagano senza meta;
e pregherebbe per le anime smarrite,
prive di Grazia e di conforto.
Se il mare potesse parlare,
chiederebbe perdono a Dio e poi in una notte,
sommergerebbe il mondo con le sue lacrime.
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Anche se è tardi
Illusione dei nostri padri
farci vivere una vita migliore
ma non hanno mai studiato
e a noi ci dicono di diventar dottore.
Dottore padrone delle lamiere
di un traffico sempre più fuso
dove la legge del più furbo prevale
sull’umanità sempre al chiuso.
Vicino alle illusioni vicino al mondo inventato
dentro a quello irreale irrispettoso amore incartato
Donna in questa valle la tua natura
Uomo tra questi monti la tua avventura
anche se è tardi finisca questa tortura.
anche se tu mordi non esista quest’usura.
E ti sembra di aver raggiunto il tuo scopo ideale
seppur tu sai che avere tutto uccide il tuo volere.
Invece a te propongo di considerare
che tornando a casa possa per te rilegiferare.
Lontano dalle illusioni lontano dal mondo inventato
dentro a quello reale rispettoso amore scartato.
Donna in questa valle la tua natura
Uomo tra questi monti la tua avventura
anche se è tardi finisca questa tortura.
anche se tu mordi non esista quest’usura.
Non è mai tardi
per tornare
qui.
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Poesia
Fermati viandante una poesia ti voglio regalare.
Al tuo cuore diretta dovrà arrivare
Pensieri ti farà modificare
ascolta le grida di una donna che doveva morire.
Fermati ascolta la musica ,
aiuta un passante
adotta un bambino
porgi carezze ai nonni ormai soli baci ai malati
Non sprecare la vita con l’ingordigia,
l’ avidità,la disonesta.
Fermati ad ascoltare l’urlo di un mare in tempesta
grida di bimbi gioire nel far festa
il pianto di una luna calante,
il sussurro di un tramonto cangiante un sorriso al tramonto rubato
Segna sul foglio la vita che passa
colora di rosso la luna che sorge
inventa le storie da dare ai bambini
quelli che soffrono, i più piccini
Fermati ad ascoltare l’urlo del mare in tempesta
Grida di bimbi gioire nel far festa
il pianto di una luna calante,
il sussurro di un tramonto cangiante un sorriso al tramonto rubato
Non sprecare la vita con l’ingordigia,
l’ avidità,la disonesta.
Vivi la vita al meglio che puoi
ama te stesso e tutti se puoi
anzi sono sicuro che vuoi
che vuoi
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Diversità
Nel silenzio di una strada
rovesciato un cappello sta
cento storie mai narrate
terre amare rivelate
Marciapiedi consumati
battuti di qua e di là
regine con calze a rete
corone senza libertà
Non sono qui per farti divertire
né per farti esser triste
strappa almeno un momento a te stesso
Vite ai margini delle nostre vite
soffocate da egoismi e da principi
Leggi infrante in balìa di neuroni impazziti
guarda in faccia il reale di diversità
Buchi fatti a mano
sospiri di polverità
Barbe lunghe su visi affranti
cassonetti di proprietà
Non sono qui per farti divertire
né per farti esser triste
strappa almeno un momento a te stesso
Vite ai margini delle nostre vite
soffocate da egoismi e da principi
Leggi infrante in balìa di neuroni impazziti
guarda in faccia il reale di diversità
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la sceneggiatura
21 settembre 2007
Incontro con
Federica Pontremoli
Mi sono sempre chiesta se andare in giro raccontando i trucchi e svelando
le tecniche del racconto cinematografico non sia un po’ come tradire un
segreto professionale. Cosa succederebbe se un apprendista mago girasse
l’Italia, incontrasse aspiranti illusionisti o semplici amanti della magia e
svelasse loro i segreti dell’arte del mistero? Una cosa è certa. Agisco in
perfetta cattiva fede. Tento in tutti i modi di rovinare per sempre quello
sguardo innocente e inconsapevole dello spettatore, cerco in tutti i modi di
svelare ai miei ascoltatori prima la pelle del film, poi i muscoli. Non contenta ne tiro fuori le budella senza vergogna, seziono organi vitali sino ad
arrivare allo scheletro del racconto. Struttura, personaggi, conflitti. Ecco
cosa succede durante una mia lezione. Ecco cosa è successo quando la
Scuola Holden mi ha chiamata. Ho infilato i miei attrezzi chirurgici nella
valigetta, sono partita per la Certosa di Padula e, sotto lo sguardo attento
del pubblico reale e di quello dipinto sulle volte affrescate del refettorio
della Certosa, ho iniziato a squartare la mia vittima. “The queen”, film che
ho amato per il coraggio e la semplicità della sceneggiatura, per la calma e
la grandezza con cui affronta il quotidiano della storia e la storia del quotidiano. Film in cui la morte di un cervo commuove persino di più che in
“Bambi”.
Saranno bastate tre ore, il tempo di guardare il film e spogliarlo sequenza
per sequenza, per rovinare per sempre lo sguardo dei miei ascoltatori? Riusciranno ancora a godere del racconto filmico senza tentare di individuare
conflitti, turnig point, primi, secondi e terzi atti? Spero di sì, anzi, spero di
no. Anzi, non so.
So solo che quando vedo un film come “The queen” io stessa rimango con
il bisturi tra le mani, sospeso in aria. La magia della sceneggiatura funziona, trucchi o non trucchi. E io, a bocca aperta, mi godo lo spettacolo.
Federica Pontremoli
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29 e 30 settembre
la sceneggiatura: laboratorio
INTRODUZIONE
Emiliano Amato
Sarà capitato anche a voi di guardare un film e di anticipare alcune battute di un dialogo o indovinare gli sviluppi della storia. Se questo succede
troppo spesso all’interno dello stesso film si finisce per dire “Questo film
l’avrei scritto anch’io!”. Ma è davvero così facile scrivere per il cinema?
La risposta è no, come hanno scoperto le persone che hanno partecipato
al laboratorio di sceneggiatura di Padula. Scrivere un film significa conoscere le regole di una scrittura diversa da tutte le altre, significa iniziare un
lavoro che qualcun altro finirà. Nei due giorni di laboratorio le persone si
sono messe in gioco, hanno cercato di imparare la tecnica, hanno acquisito
le regole del gioco e le hanno contestate, il tutto con passione, umiltà e
voglia di migliorarsi. A loro va il mio ringraziamento.
Leggerete storie ancora incomplete, primi tentativi ma non fatevi ingannare, non è semplice come sembra. Qualcuno di voi forse indovinerà il finale
di una storia o la nascita di un amore fra due personaggi, ma guardatale
bene, da vicino, queste storie. Sono i racconti di un gruppo di persone diversissime fra loro che un giorno si sono incontrate in uno scenario splendido,
la Certosa di Padula, per dare vita a storie che prima non esistevano.
Oggi ve le affidano, abbiatene cura.
Buona lettura!
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INTRODUZIONE
Alessandro Bignami
I lavori che leggerete sono frutto della passione e della creativita’ delle persone che hanno fatto del laboratorio di sceneggiatura di Padula un’esperienza importante e per certi versi sorprendente.
Sia pure con accenti diversi, in tutte le storie appare centrale il rapporto
dell’autore con il territorio e la comunita’ in cui vive. O in cui vorrebbe
tornare a vivere, nell’ambito di un percorso di ricerca e riscoperta di antiche regole di civilta’ che e’ andato ben al di la’ della semplice traccia
iniziale proposta dagli organizzatori. Ed e’ questo forte senso di identita’,
l’orgoglio di sentirsi parte di qualcosa espresso da tutti gli autori che mi ha
colpito di piu’.
Un ringraziamento particolare va ai giovani dell’Istituto Tecnico Industriale Statale “G.Gatta” di Sala Consilina (SA) e al loro professore, ragazzi
intelligenti e garbati che, presentatisi come semplici uditori, sono immediatamente divenuti parte integrante e importante del gruppo di lavoro.
Non so se qualcuno di loro scrivera’ film nella vita, ma di certo tutti hanno
dimostrato di sapere quanto sia bello lasciarsi coinvolgere dal racconto di
una storia.
Buona lettura!
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La stretta di mano
La storia è ambientata prevalentemente nella certosa di San Lorenzo a Padula, durante gli anni ’80. La certosa dopo alterne vicende viene affidata
per la gestione alla Soprintendenza dei Beni Architettonici.
Ogni giorno un folto numero di uscieri, custodi e impiegati amministrativi
di vario livello, scendono la ripida scalinata di marmo, che collega la stretta strada asfaltata alla certosa, e varcano il monumentale portone di legno
per raggiungere la propria postazione di lavoro.
Della folta schiera di dipendenti fa parte anche Tonino, che da qualche
anno è stato assunto come custode. Tra i colleghi si vocifera che Tonino è stato assunto grazie all’amicizia con un assessore della DC. I suoi
colleghi, infatti, non riescono a spiegarsi come un abitante del paese di
Montesano, che proviene da una famiglia che per generazioni ha sempre
lavorato andando per i boschi, poi improvvisamente si sia “civilizzato” e
abbia deciso di voler lavorare per i “beni culturali”.
Infatti poco dopo la sua assunzione, il sindacalista Mario, che va sempre
in giro, estate ed inverno, con una sciarpa rossa avvolta al collo, mentre
Tonino era al bar di fronte la certosa a bere un caffé, lo aveva affrontato
apertamente, dicendogli che quel posto non era adatto a lui e approfittando
dell’occasione gli aveva rinfacciato le modalità poco chiare della sua assunzione. Tonino viene accusato pubblicamente di aver rubato il posto a un
giovane di Padula che doveva mettere su famiglia. Tonino a quelle accuse
non risponde nulla. Ma a fine turno, prima di rientrare a casa, si incammina
pensieroso per i suoi boschi.
Tonino da quel giorno sembra sopportare con pazienza i commenti e le
battute sarcastiche dei colleghi. Al mattino quando arriva in certosa, beve
da solo il caffè al bar e poi con calma prende servizio alla sua postazione.
Non mostra mai grande interesse per il suo lavoro, né per la certosa, né
tanto meno è incuriosito dai suoli colleghi. Ogni volta che i turisti gli chiedono informazioni o gli rivolgono domande, risponde sempre con gran
fatica e con modi che rasentano la villania. Trascorre le giornate cercando
la soluzione dei cruciverba, che gli spuntano sempre dalla tasca posteriore
dei pantaloni e che sono entrati ormai a far parte dei suoi effetti personali.
Finché un giorno, rispondendo ad una delle tante provocazioni, litiga con
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un collega e il responsabile dei servizi, decide di spostarlo ad un altro settore e così viene assegnato al vecchio cimitero.
A Tonino, il vecchio cimitero appare come uno spazio quadrato, a cielo
aperto, ricoperto di erba, con al centro una base di pietra, su cui era stata
montata una croce. Questo spazio era riservato alla sepoltura dei padri, i
quali venivano seppelliti nella nuda terra, vestiti solo del loro saio, con il
cappuccio calato sul viso e il crocifisso tra le mani. Sulle fosse non venivano collocate né lapidi, né nomi o date che potessero far risalire all’identificazione dei defunti.
Il vecchio cimitero è circondato da un portico, attraverso il quale si accede
a vari ambienti chiusi, tra i quali quello che un tempo era stato il refettorio.
Un giorno di pioggia, stanco di fare la ronda, Tonino si siede sulla soglia
del refettorio e si ferma a guardare i goccioloni di pioggia che dal frontone
del porticato, precipitano sul bordo del gradino di marmo, che è proprio di
fronte a lui. Per un po’ la sua mente si perde nella pioggia che cade fino a
quando, seguendo le gocce, non si trova a fissare un punto del pavimento.
Il pavimento è ricoperto di grossi lastroni irregolari di marmo consunti. I
lastroni hanno la superficie tappezzata di scalfitture. Come se sul pavimento fossero caduti degli oggetti molto pesanti. Tonino comincia a scrutare
meglio quelle piccole fessure, finché drizzando la schiena, si alza in piedi
e comincia a ispezionare ogni lastra. Si ferma di scatto, quando di fianco
ai suoi piedi, nota due tagli che somigliano a delle “E”, dalle linee molto
irregolari. Le due incisioni appaiono sui bordi di due lastroni affiancati.
Incurante della pioggia, si mette a perlustrare tutto il porticato, scoprendo
così migliaia di segni diversi incisi sui lastroni.
Preso dalla sua scoperta, per la prima volta, Tonino si dimentica dell’orario
di chiusura e così ritarda di mezz’ora l’uscita.
Nei giorni successivi comincia a chiedere ai suoi colleghi notizie sulla
certosa e non contento, comincia a seguire con attenzione, i racconti che le
guide fanno ai turisti. Ma presto scopre che le spiegazioni sono sempre le
stesse e che non fanno alcun cenno alle incisioni sul pavimento. Medita di
acquistare una guida stampata al negozio della certosa che vende souvenir.
Ma una volta entrato nel negozio, si sente a disagio e così se ne esce a mani
vuote. Finché un giorno, si appropria di una guida scritta in italiano, che un
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turista ha dimenticato nei bagni e comincia a leggerla con vivo interesse.
Ma dal libro apprende che sull’origine di quelle incisioni sono state fatte
solo supposizioni: forse le incisioni sarebbero state lasciate dai muratori
che avevano collocato i lastroni. Per un po’ si lascia convincere da questa
soluzione.
A colleghi però l’improvviso interesse di Tonino per la storia della
certosa non sfugge. Aumentano le chiacchiere, le allusioni. Qualcuno comincia a far circolare la voce che Tonino si stia preparando per ottener un
incarico superiore a quello di usciere, alimentando sul Tonino ancora altre
chiacchiere e sospetti.
Nel frattempo Tonino all’esterno della certosa appare sempre più
turbato. Durante una bevuta con un vecchio amico, gli confida le sue perplessità. Gli confessa che non si sente a suo agio alla certosa e che preferirebbe ritornare nei suoi boschi. Si sente in colpa per aver preso il lavoro
di un altro. Medita perfino di voler rintracciare quel giovane che doveva
essere assunto al posto suo. Il suo amico non riesce a comprendere il motivo del suo malessere ma in realtà non riesce a capire perché abbia accettato
quel lavoro. Finché, di fronte alle domande incalzanti dell’amico, alzandosi improvvisamente in piedi, gli risponde in maniera ironica: “tu non lo sai,
eh, il perché? Tu non sai niente?”. Alla fine volta le spalle e se ne va senza
salutare.
Qualche giorno dopo, Tonino, di rientro dal lavoro, viene avvicinato dal parroco, che si mostra preoccupato per il suo aspetto trasandato.
Chiede notizie di sua moglie, della casa e poi, con una certa indifferenza,
ma come se già conoscesse la risposta, gli chiede notizie del suo lavoro e
dell’assessore, che lui elogia come grande benefattore e longa manus della
Provvidenza, nonché amico comune, che per i suoi impegni politici, non si
vede da tempo, in giro per il paese.
Tonino che inizialmente aveva gradito l’incontro con il parroco, tanto che
aveva cominciato ad accennare anche a lui i suoi dubbi, nel sentire parlare
della provvidenza e dell’assessore, saluta frettolosamente il prete e va via
visibilmente turbato.
Giunto a casa Tonino, entra in cucina, scoperchia le pentole che trova sui
fornelli, ma non trova nulla di suo gradimento. Alle sua spalle si avvicina
una donna su una sedia a rotelle. E’ la moglie. Lo invita a sedersi, e poi
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comincia ad apparecchiare il tavolo con gli oggetti che riesce a prendere. Tonino seguendo la moglie, termina quello che lei ha cominciato. Ma
quando si siede non riesce a mangiare. La moglie lo invita a parlare, a sfogarsi. Finché lui, non riuscendo più a trattenere la collera, le racconta tutto.
Delle accuse del sindacalista, dell’ostilità dei colleghi; inveisce contro la
gente che riteneva amica, quelli che ora non ricordano o fanno finta di
non sapere. Infine afferrando le gambe paralizzate della moglie, maledice
l’assessore.
Di fronte il viso spaventato e addolorato della moglie, la collera subito si
placa e il tono della voce ridiventa più pacato. Ritornano a sedere intorno
al tavolo e Tonino per cambiare discorso le racconta dei segni scoperti sul
pavimento della certosa e comincia a raccontare a sua moglie, per la prima
volta, la storia della certosa, la vita che conducevano i padri, i conversi e le
loro abitudini. La curiosità e la vivacità mostrata da Tonino mentre narra
tutte quelle storie, sembrano aver riportato il buon umore in casa.
Nei giorni successivi Tonino appare più sereno. Le beghe di lavoro lo lasciano indifferente. Quella invece che sembra cresciuta è la sua curiosità
per quei segni. Apprende per caso da un visitatore, studioso di semiologia,
che quei segni forse non sono stati messi a caso. Avrebbero potuto infatti
nascondere dei messaggi, delle indicazioni, anche se allo studioso sembrava alquanto strano il fatto che nessuno fino a quel momento avesse preso
in considerazione l’idea di studiare con serietà quei segni. Tonino entusiasmato dalle parole dello studioso, comincia a pensare a come organizzarsi
per le sue ricerche.
Quello stesso giorno, a fine turno, viene affiancato dal sindacalista, che
generalmente o lo guarda con disprezzo o fa finta di non vederlo. Mario
gli annuncia, senza convenevoli, che è il solo a non ritirare da mesi le
competenze accessorie e gli chiede se è mai stato avvisato dai colleghi del
personale. Di fronte al suo silenzio imbarazzato, il sindacalista distende i
lineamenti del viso, gli fa un mezzo sorriso e poi lo invita a bere un goccio
al bar, lontano dalla certosa.
Si dirigono verso il centro storico di Padula ed entrano in un vecchio bar.
Dopo i primi bicchieri di vino, l’imbarazzo iniziale si scioglie, tanto che
il sindacalista inaspettatamente gli afferra le mani e gli scopre i palmi callosi. Non riesce a capire che ci fa un uomo della sua stazza a lavorare
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alla certosa. Gli ribadisce che è l’unico a non prendere giorni di malattia,
l’unico che non chiede, che non pretende ciò di cui ha diritto. Gli confessa
che sebbene siano rivali in fatto di politica, non trova giusto che venga
sfruttato dal sistema. Tonino non sa nulla di diritti e ancor meno di politica.
L’unica cosa che sa è deve andare a lavorare e basta. Ma tagliando corto
gli parla dei suoi boschi, del mestiere di taglialegna, del suo amore per la
natura. In compagnia delle bottiglie di vino svuotate, si rivela molto più
comunista dello stesso sindacalista; parla della natura come un’ecologista.
La semplicità con la quale Tonino esprime la sua filosofia di vita, disarma
e incanta allo stesso tempo, il sindacalista, che decide di mettere da parte
le ostilità politiche e di tutelarlo nelle questioni lavorative. Intanto Tonino,
ormai brillo, gli confida anche il suo desiderio di scoprire l’origine degli
strani segni della certosa.
Mario, anche lui ormai cotto, rimanda la chiacchierata a quando saranno
un po’ più sobri. Entrambi se ne ritornano a casa ubriachi ma contenti.
Il giorno dopo, alla certosa si sono radunati nuovamente gruppetti di pettegoli. Stanno meditando di far allontanare Tonino anche dal cimitero. Quando arriva Mario subito tentano di invischiarlo nei loro complotto. Mario si
dissocia ma loro non demordono. Alla fine della giornata il capo servizio
comunica a Tonino che è stato nuovamente spostato. Questa volta dovrà
vigilare la parte centrale della certosa. La parte più ampia ed esposta alle
intemperie. Tonino apprende la notizia, senza battere ciglio. Ma invece di
andarsene, racconta tutto a Mario il sindacalista.
Mario con la testa abbassata annuisce ma non riesce a parlare. Non può
dire a Tonino quello che gli hanno riferito alcuni colleghi, durante la giornata. C’è infatti qualcuno che vuole fagli perdere il posto, che vuole fare
in modo che venga cacciato via. Sono state raccolte contro di lui e a sua
insaputa, segnalazioni di turisti trattati male, dimenticanze che sono diventate mancanze. Mario perciò con fare sbrigativo cerca di rassicurarlo e gli
promette che si studierà il suo caso, poi dopo una veloce stretta di mano, si
aggiusta la sciarpa intorno al collo e scappa via.
Tonino, tornato a casa, parla nuovamente con sua moglie e le racconta
delle sue nuove preoccupazioni. Allora la moglie, sentendosi in colpa per
non averglielo raccontato prima, gli riferisce della visita ricevuta durante
la settimana dall’ assessore e del fatto che senza fare alcun nome, si era
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lamentato di alcuni amici che avevano chiacchierato troppo in paese, e di
certa gente che non sa tenere fede ai patti e che medita di rivoltarsi contro
i propri benefattori.
Tonino, legge dietro quelle parole, un avvertimento. Non si arrabbia con la
moglie per avergli nascosto quella strana visita, ma si chiude nel silenzio.
Dopo poco, distende sua moglie sul letto e si avvia verso il bosco.
Dopo un’oretta di cammino, si siede su di un tronco e si mette in ascolto.
Dal bosco si alzano tanti suoni, lui all’inizio sembra frastornato, poi ad
uno ad uno riconosce l’origine. Chi non conosce il bosco e la montagna
rischia di perdersi dietro il suono fasullo degli echi e il gioco dei riverberi.
Lui ascolta finché dal caos iniziale non riesce a collocare ogni suono ogni
movimento al suo posto.
Intanto la luce è cambiata, la sera arriva presto sui monti. Si alza e comincia a guardare con attenzione gli alberi, finché aiutato dai segni incisi sulle
cortecce, che fina da bambino, con l’aiuto di suo padre e di suo nonno,
aveva imparato a fare e a decifrare, ritorna a casa, mentre il buio sembra
avvolgere il bosco dietro le sue spalle.
Il giorno successivo, dai manifesti attaccati sui muri, legge la notizia che
l’assessore terrà un’assemblea cittadina per spiegare le ragioni della nuova
tassa che i taglialegna devono versare.
Giunto alla certosa, si mette in cerca di Mario, e lo trova nei granai, circondato da un gruppetto di colleghi. L’argomento di discussione è la nuova
imposta.
Gli fa cenno di volergli parlare, Mario si allontana dal gruppetto e gli va
incontro. Tonino gli dice che ha scoperto il significato di quei segni e che
ha un grosso piacere da chiedergli. Mario riflette un po’, poi gli da appuntamento per la sera, dopo il turno.
Questa volta per parlare senza essere disturbati, vanno a Montesano. Si
infilano in un’osteria e si accomodano nell’angolo più nascosto. Tonino
comincia a spiegare di avere avuto come un’illuminazione mentre camminava per i suoi boschi. I segni scalfiti sulla pietra, dovevano servire ad
indicare la strada, proprio come i segni incisi dalle guide alpine, sugli alberi. I segni della certosa, secondo la sua intuizione, dovevano funzionare
soprattutto di notte, visto che di giorno i padri erano confinati nelle celle e
perciò non avevano molta libertà di movimento. Era necessario fare qual-
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che giro di notte per verificare se la sua idea era giusta. Mario, entusiasta,
gli comunica in anteprima, che di lì a breve, la certosa sarebbe stata aperta
di sera per una serie di spettacoli all’aperto, quindi in quei giorni entrambi
si sarebbero fatti inserire in un turno serale. Poi dopo una lunga pausa, Tonino tracanna un bicchiere di vino e senza tanti giri di parole chiede a Mario di informarsi se, nel caso il suo benefattore fosse finito in galera, lui di
conseguenza, sarebbe stato licenziato. E nel caso lui fosse stato licenziato,
se Mario sarebbe stato in grado di aiutarlo a trovare un nuovo lavoro che
lo tenesse impegnato solo per poche ore al giorno.
Mario stordito dal vino e da tutte quelle parole, non riesce subito a dare
una risposta a Tonino, ma gli promette incondizionatamente il suo aiuto,
qualunque cosa lui decida di fare. Prova a farli domande sui suoi progetti
ma Tonino tace.
E’ notte quando raggiunge casa. Nell’entrare, si ferma di colpo, vedendo
sua moglie ancora seduta nella carrozzella. Poi lentamente si avvicina e
nel svegliarla dolcemente, le chiede notizie della donna che generalmente
l’aiuta in casa. Lei non vuole rispondere, finché non gli confessa che nessuno in paese vuole venire più ad aiutarla. Una volta a letto, anche se a
malincuore dice alla moglie che ha deciso di denunciare l’assessore.
La moglie non parla, poi dopo un lungo silenzio, annuisce. Se la sua decisione serve a portargli nuovamente la pace nell’animo, lei non può che
appoggiare la sua scelta. Tonino però sente di doverla avvisare che l’allontanamento delle comari è solo l’inizio di qualcosa di spiacevole e che dopo
la denuncia, avrebbero dovuto preprarsi al peggio.
Nei giorni successivi Tonino e Mario si frequentano sempre più spesso
dopo il lavoro. A volte stanno insieme giusto il tempo di fumarsi una sigaretta, altre volte il tempo di una bevuta.
Arriva il tempo dei concerti all’aperto, come da accordi, entrambi si fanno
assegnare lo stesso turno di servizio. Quando tutti sembrano distratti, scivolano all’interno del convento e armati di pile, cominciano a perlustrare
parte del pavimento della certosa, ma non notano nulla di strano. Anzi al
buio, le incisioni sembrano macchie di sporco. Ripetono la loro visita anche la notte successiva, ma al terzo tentativo abbandonano ogni proposito,
sfiduciati. Delusi, mentre ascoltano le ultime note del concerto, si interrogano finalmente su quello che avrebbero voluto trovare. Mario pensa
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subito ad un tesoro che avrebbe fruttato tanti soldi. Tonino invece avrebbe
voluto offrire soltanto una vita dignitosa alla moglie e a se stesso. Una casa
più comoda per sua moglie, la possibilità di darle due gambe nuove, la
possibilità di assumere delle persone efficienti e gentili per aiutarla quando
lui è fuori.
Tonino comincia a riflettere a voce alta: “se invece di un tesoro, quei segni
non siano che tracce di diverse piste. In fondo a cosa sarebbe servito ai
padri nascondere un grande tesoro, tanti soldi? Forse quelle che si vedono sono le tracce di tante piste, ognuna conducibile ad un luogo nascosto
diverso. Ogni padre così avrebbe avuto la sua pista e ogni pista, avrebbe
condotto ad un tesoro. In questo modo ogni padre sarebbe stato custode
del proprio tesoro.
Mario è sempre più affascinato dalle ipotesi di Tonino anche se non ha
alcuna idea di come avesse potuto funzionare tutto quel labirinto di segni.
Il concerto sta per terminare quando Mario ritornato serio e vigile, comunica a Tonino che riguardo alla cortesia che gli aveva chiesto il mese
prima, ha fatto delle ricerche, si è studiato un po’ di carte, ma prima di dar
consigli troppo affrettati, desidera sapere in che modo la denuncia e il suo
benefattore sono collegati. Tonino a quella richiesta diventa serio e distaccato, sta per andar via. Quando Mario lo ferma per un braccio e gli prende
la mano destra e poi guardandolo con gli occhi un poco lucidi, gli stringe
forte la mano e gli conferma la sua alleanza, anche se Tonino decide di non
raccontargli più nulla.
Tonino va via stordito. Il giorno dell’assemblea pubblica, quella della tassa, che è stata rimandata più volte, ormai è alle porte. La stretta di Mario,
gli fa dolere ancora la mano. Si tocca la mano destra, la sente ancora calda.
Quella stretta gli fa venire in mente un’altra mano, che pure gli era rimasta in pressa. Rivede la mano bianca e magra dalla pelle liscia e pallida
come quella dei cadaveri. Rabbrividisce, ricordando il freddo intenso che
aveva sentito quando aveva stretto l’ultima volta la mano dell’assessore.
Mentre stringeva quella mano scheletrica, Tonino aveva presagito che da
quell’uomo, anche se amico di infanzia, non avrebbe ricevuto mai bene.
Poco tempo dopo, la sua assunzione alla certosa aveva cancellato quel
brutto presentimento.
Gli ritorna in mente il pianto disperato della moglie, quando i medici che
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l’avevano soccorsa all’ospedale, dove l’aveva trasportata dopo l’incidente,
le comunicarono che non avrebbe potuto avere più figli. Neanche quando
le comunicarono che non avrebbe più camminato, si strappò i capelli.
Quando le dissero che non sarebbe stata più madre, dovettero imbottirla di
tranquillanti.
Tonino comincia a pensare anche al suo dolore. Dal giorno dell’incidente
non aveva versato una lacrima e ora invece guardava le lacrime pesanti cadere sui suoi pugni stretti. Cercava disperatamente di ricacciarle indietro,
ma quelle sembravano più forti.
Tonino si lascia andare sul sediolino dell’auto e come in trance ricorda
ancora una volta l’incidente. Sua moglie era uscita dal bosco per prima
e si era incamminata per la stretta stradina asfaltata. Aveva un’andatura
a zig zag a causa dei sacchi di tela che portava in ciascuna mano, zeppi
di funghi appena raccolti. Rideva felice mentre si avvicinava allo spiazzo
dove era parcheggiato il furgone. Tonino era ritornato indietro di qualche
passo per raccogliere un attrezzo che gli era caduto dalla tasca posteriore
dei pantaloni. Tonino sentì il rumore dei picchi che bucavano gli alberi,
poi lo stridore di gomme, il rumore di un urto, pensò alle capre che Beniamino portava su quelle montagne. Quando raggiunse la strada non trovò
animali, ma sua moglie riversa a terra. Sull’asfalto vi era un tappeto di
funghi e qualcuno era inzuppato del sangue di sua moglie. Poco più avanti
un’auto ferma. All’interno vi erano due persone. Una donna bionda che lui
non conosceva. Al volante invece c’era un uomo. Mentre si abbassava su
sua moglie, vide i numeri della targa allontanarsi sempre di più, finché non
rimase solo con sua moglie e i funghi che sembravano come fiori morti.
Ricorda anche che mentre la moglie era ricoverata in ospedale, aveva
tentato diverse volte di rintracciare quell’autovettura, che a lui sembrava
molto familiare. Finché un giorno, non la trovò nell’ultimo posto dove si
sarebbe aspettato di trovarla. Era parcheggiata davanti al municipio. Cominciò a girarle intorno, cercando di ricordare di chi fosse. Era sicuro di
saperlo, ma non riusciva proprio a ricordarselo. Finché dal Comune non
uscì Ezio, il suo compagno di classe alle elementari. Ezio mentre saluta
amici e colleghi, riconosce da lontano Tonino e facendo finta di non averlo
visto, gli volta la faccia. Tonino, con il cuore a mille continua guardare la
macchina, tanto che non si accorge che Ezio è arrivato a pochi passi da lui.
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Quando si volta di soprassalto, vede le chiavi dell’automobile ciondolare
nelle mani di Ezio.
Ezio con tono ostile lo invita a salire. Tonino frastornato non riesce a muovere un muscolo. Ezio, quasi urlando, gli ordina di salire. E una volta saliti
entrambi in macchina gli urla: “Che vuoi da me?” “E’ stato un incidente!”
“Io a quell’ora dovevo essere a Napoli.”
Tonino, è una zuppa di sudore. Molte immagini si affollano nella testa:
Maria, la moglie di Ezio, i suoi capelli nero corvino, di una bellezza forte e
sensuale, come tutte le donne del Cilento; i loro due bambini, un maschietto e una femminuccia.
Tonino non riesce a parlare, pensa che il suo compagno di scuola si è comportato come un assassino. Ezio, invece, approfittando del suo mutismo,
gli propone un patto. Il suo silenzio per un posto dignitoso. Un posto tranquillo che gli avrebbe garantito la tranquillità e una vita decorosa. E poi
senza aspettare la risposta aveva concluso: “chissà può darsi che un giorno
mi ringrazierai.”
Dopo aver pronunciato quelle parole, Ezio strinse forte la mano a Tonino e
senza più parlare lo riaccompagnò fino alla porta di casa.
Tonino immerso in quei ricordi, guida lentamente fino a che non arriva alla
stazione dei Carabinieri. Prima di entrare, tira dalla tasca un foglio mezzo
strappato e ingiallito. Prima di bussare al citofono, rilegge la sua prima
denuncia: non c’è traccia del numero di targa dell’autovettura che aveva
investito sua moglie.
Al piantone chiede di poter parlare urgentemente con il maresciallo di turno.
Il giorno dopo si reca a lavoro, ha il viso gonfio, come chi è rimasto sveglio
tutta la notte. All’ingresso della certosa trova Mario che cammina avanti e
indietro come un animale in gabbia. Quando vede Tonino sulla cima delle
scalinata, comincia a fare gesti strani. Quando gli si avvicina, Tonino nota
che anche lui ha la barba lunga e gli occhi gonfi.
“Tonì non ho chiuso occhio. Non vedevo l’ora di dirtelo. Ho trovato la soluzione…………Fosforo bianco e Azoto……….. non ti dicono niente?”
Tonino lo guarda senza capire. Ma Mario continua: “ieri sera, tornando a
casa, sono passato per il cimitero e mi sono ricordato delle fiammelle…
……i fuochi fatui…………..come li chiami tu? Quelle che si vedono di
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notte sulle tombe dei morti.……………….”
“Tonì quelli nei buchi ci mettevano il fosforo bianco o chissà che altra
diavoleria per farli illuminare!”
Tonino ha muscoli del viso contratti. Guarda Mario con uno sguardo serio,
ma a poco a poco i lineamenti si distendono e comincia a sorridere. Poi
prendendo Mario per un braccio, lo guida verso il bar e gli chiede di raccontargli ogni cosa un’altra volta e dall’inizio.
Paola Sacco
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IL GEOMETRA
È il 1998. Mi trovo in un vasto salone affrescato di un edificio medioevale ben conservato del centro storico. Sono nello studio notarile, il più
rinomato che ha quest’opulenta città della pianura padana. Sono un GEOMETRA di 26 anni. L’unico giovane presente, sono attorniato da sei ultracinquantenni tutti in completi coordinati di firme importanti. Io sono in
abbigliamento casual. Stamattina si firma la Convenzione tra l’Impresa
Immobiliare per la quale lavoro ed il Comune. I firmatari sono tutti presenti: l’INGEGNERE, il mio titolare, il sindaco, il segretario comunale, un
paio d’assessori e naturalmente il notaio. Lui inizia la lettura del corposo
atto. Io lo seguo con la massima concentrazione sui miei incartamenti. So
che se fossero riscontrati errori e/od omissioni tutto sarebbe da rifare, con
danni economici per l’INGEGNERE e perdita d’immagine per me che ho
predisposto il tutto. Dopo un’ora circa, verificato che tutto è perfetto, si
procede alle firme. Posso riporre la mia documentazione, è fatta, il cuore
palpita e sono sudato in fronte. Il sindaco ed i suoi collaboratori salutano.
L’INGEGNERE ed il notaio sono rilassati e colloquiano su argomenti di
politica cittadina. Dopo si complimentano con me per il lavoro svolto.
Sudo ancora di più.
L’INGEGNERE ed io rientriamo in azienda a bordo della sua lussuosa
B.M.W.
Lui è una persona carismatica, fisicamente e nello stile ricorda Montezemolo, guida parlando in continuazione. Mi lascia solo la possibilità di
annuire. Tesse le lodi del suo lavoro. Si vanta della lottizzazione, la sua
ultima creatura, un parco di cento villette con area verde, zona impianto
sportivo ed edificio pluriuso. La considera una perla sulla collina, dove
realizzerà la “qualità della vita”. Lo ascolto e non posso che pensare al
suo ego pari al prestigio che ha nella città. Mi accenna che fatica a gestire
tutti i suoi impegni: ha incarichi importanti nelle principali associazioni
cittadine. D’improvviso cambia discorso, guarda l’ora e m’invita a pranzo.
Non lo aveva mai fatto in cinque anni che lavoro per lui. Accetto, debbo
però avvisare Anna, mia moglie, che sicuramente mi sta aspettando a casa
e non ama lavorare per niente, pertanto si arrabbierà se non vado. Suona il
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cellulare dell’INGEGNERE. Ha un impegno imprevisto ed urgente. Peccato, tutto salta.
Quel giorno a pranzo sono di buon umore. Racconto tutto ad Anna. Siamo
sposati da tre anni. Lei ha 23 anni. Anna è emiliana. I suoi sono originari
di un paesino dell’Appennino, distante 40 Km. dalla città. Lei ascolta con
sufficienza. Lei è presa dai suoi problemi quotidiani. Solamente quando
accenno all’invito a pranzo, commenta: “Finalmente scopre quanto vali,
puoi chiedere un aumento.”. Le rispondo che Io sono felice così, un lavoro
che mi piace, una casa, una famiglia, insomma sto bene. Anna, invece mi
ribatte che è insofferente, da almeno un anno, è stressata per la sua tesi e
non si diverte per niente nel suo ruolo di casalinga. Mi ricorda spesso di
com’è stato indispensabile per noi l’aiuto economico ricevuto dai suoi genitori al momento di sposarci. Io le rispondo che sono figlio d’emigranti,
persone semplici ma ricche di valori. Sostengo che lavorando sodo anche
quello arriverà. Lei però non mi ascolta.
La sera vado all’allenamento di calcio, il mio sport preferito sin da bambino. Sulla mia Fiat berlina raggiungo il campo. Mi fermo davanti ad un
piccolo cimitero che è poco distante. Sosto innanzi al cancello chiuso in
atteggiamento di raccoglimento. Non c’è nessuno, una fila di luci lungo
il vialetto di cipressi. Mi viene d’istinto parlare a mio padre che è sepolto
lì da meno di un anno. Gli assicuro che lo ammiro per tutto quello che ha
fatto per me, e che cercherò di non deluderlo. Mi manca.
Inizia l’allenamento. Sono con un gruppo di coetanei. Siamo dilettanti.
Facciamo due allenamenti la settimana e alcuni tornei in giro per la provincia. È un gruppo coeso. Noi calciatori ci conosciamo anche troppo bene.
Stasera io però mi sento più carico del solito. Per solito intendo che io non
sconvolgo mai il gruppo, mi chiamano “assist” perché all’estro prediligo i
passaggi precisi, eseguo solo il mio compitino, però abbastanza bene. Oggi
mi sento come nuovo, voglio stupirli e stupirmi. A pochi minuti dall’inizio
della partita ricevo palla. Dribblo il primo che si fa incontro, fingo il solito
passaggio, il libero abbocca: vado, sono solo davanti al portiere, lo guardo,
lui si gira a cercare il mio compagno cui farò l’assist, no stavolta tiro, lì
all’angolo. Goal.
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È trascorsa una settimana. Sono nel mio ufficio. Ho lenzuoli di planimetrie
e una calcolatrice sul tavolo. Verifico i dati d’alcuni frazionamenti. Mi
chiama l’INGEGNERE nel suo ufficio. Mi riceve, mi siedo e, come sempre parla solo lui. Elenca i prossimi lavori, mi accenna che non si è dimenticato del suo invito a pranzo, lo vuole sostituire con una cena al ristorante
“Chef Paris” accompagnati dalle rispettive mogli. Prosegue chiedendomi
di sostituirlo, causa impegno improrogabile. Devo eseguire una consegna
di documenti importanti d’ufficio alle ore 13, oggi.
E’ l’ora prestabilita. Sto trastullando la tazzina già vuota e fredda di un caffé nella saletta del bar Centrale. La valigia con i documenti è sott’occhio
sulla sedia accanto a me. Riconosco il Dottor Ronchi appena entra nel bar,
la descrizione corrisponde. Ci presentiamo, in due minuti consegno e lui
esce. Pago il caffé. Mi sento chiamare. E’ il professor Bressi. Il professore
era tra i miei preferiti, quando frequentavo l’istituto per geometri. È un
piacere rincontrarlo, mi racconta che ora è in pensione. Gli racconto della
mia vita. Lui mi ricorda di come discussi con fervore della vicenda storica
tra i papi Celestino V e Bonifacio VIII, all’esame di maturità. Il tema era
l’inconciliabilità tra potere e santità. Bei tempi.
La stessa settimana eseguo altre due consegne di documenti identiche alla
prima.
E’ la mattina del 7 di marzo. Acquisto il quotidiano cittadino. La principale notizia locale titola “L’Ingegner Malverdi Arduo arrestato” sottotitolo
“sospetto caso di corruzione”. Il nome non lo conosco, ma il volto nella
foto 10x15, sì. È lui, il Dottor Ronchi. Quello delle consegne. Leggo e
rileggo l’articolo. Esclamo: “Com’è possibile”. Nell’articolo si citano anche l’INGEGNERE e la mia Immobiliare. Allora sono coinvolto anch’io.
Distruggo il giornale e lo getto nel primo cestino.
Mi precipito in ufficio, quasi investo un pedone che giustamente mi manda
a quel paese. Giungo nel parcheggio. Ci sono due auto della polizia. Entro
in ufficio. La segretaria m’informa che i quattro agenti stanno cercando
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l’INGEGNERE. Dico alla segretaria che anch’io lo cerco per dirgliene
due.
Pure a me chiedono se so dove si trova. Oggi non si lavora in ufficio.
Torno a casa, voglio raccontare tutto ad Anna. Le dico delle consegne,
dell’articolo, della scomparsa dell’INGEGNERE. Lei si scatena in una
scenata. “Cosa cavolo mi credevo”, sempre chino a lavorare, a dare sempre fiducia agli altri, adesso se sarò implicato in questa vicenda, sarà un
gran casino, non potremo più andare avanti come prima. Poi, sottovoce,
Anna mi chiede se almeno avrò una ricompensa per quel lavoro svolto.
Alla mia risposta se era forse diventata matta, s’irrita di più, mi urla che
si è sposata un cretino e se ne va in cucina sbattendo la porta. Io infuriato
esco da casa.
Ancora frastornato mi siedo su una panchina del parco vicino a casa. Osservo i bambini che giocano felici e urlanti. Un anziano da lontano sta
urlando “Flex, Flex vieni qua”. Solo in quel momento mi accorgo del cane,
un boxer che sta correndo col guinzaglio al seguito. Senza pensarci mi alzo
e facendo dei gesti a mani aperte lo distraggo, lui si ferma, e in quell’istante col piede blocco il guinzaglio. Si calma subito, comincia a leccarmi la
mano, è un esemplare fulvo a chiazze bianche. L’anziano mi raggiunge, è
ansimante, mi ringrazia e si siede. Afferma che quel giovane cane è l’unica
sua compagnia. Mi racconta confusamente della sua vita da emigrante. Lo
dice con nostalgia. Scopro che è originario di una località poco distante da
quella di mio padre.
Rientrato a casa trovo un biglietto di Anna, m’informa che è andata dai
suoi genitori. Decido di andare all’allenamento.
Brutta scelta. A quanto pare la notizia è arrivata a tutti, si comportano
come se fossi lebbroso, uno da compatire. Nello spogliatoio mi cambio
per ultimo.
Esco e mi viene l’impulso di correre, non al campo, ma in strada.
Corro per la strada buia, un’auto veloce esce da una curva e quasi m’investe, la dribblo e riprendo la corsa. Arrivo davanti al cancello del cimitero,
lo afferro per le mani d’impulso e lo scuoto. Il cancello si apre. Entro e mi
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fermo a guardare le lucine, un centinaio di piccole stelle ordinate. Cerco
istintivamente la tomba di mio padre. Mi viene da piangere.
Torno alla mia auto. Qualcuno mi chiama dall’auto di fianco. È l’INGEGNERE sulla sua B.M.W.. Salgo, mi accascio esausto sul sedile e lo guardo obliquo. L’INGEGNERE comincia a parlare. La sua è un’arringa difensiva, il mondo funziona così oggi come ieri e così sarà domani. Lui
agli inizi pensava bastasse essere bravi per ottenere il successo, ma poi i
problemi si moltiplicavano ed è dovuto scendere a compromessi. Rinunci? In fondo diventi anche tu un ingranaggio. La sua vita, mi racconta, è sì
fatta di prestigio, denaro, successo nel lavoro, ma a quale prezzo? Mi dice
che la sua vita privata è un fallimento, la moglie ha colto l’occasione per
lasciarlo definitivamente appena si è diffusa la notizia della corruzione, il
figlio è un viziato che bighellona e probabilmente si droga, vive a Parigi.
Per non parlare degli amici imprenditori, attendono solo i suoi errori per
metterlo in disparte. Ora li accontenta tutti. Ha deciso. Va via.
Ha un conto in Svizzera, ci penseranno gli avvocati alle beghe giudiziarie,
in fondo lui è una vittima. È proprio stufo.
È venuto a parlarmi per scusarsi. Quello che era successo, ovviamente,
non l’aveva preventivato. Non vuole che io sia coinvolto. Mi assicura che
il suo avvocato difensore ha una dichiarazione sull’accaduto nella quale mi scagiona completamente. Ora scappa. Mi esce dalla bocca solo un
“Buona fortuna INGEGNERE“.
Se ne va, io, però resto qui.
Due giorni dopo sono convocato in commissariato. M’interroga un commissario e al termine firmo un verbale, mi assicurano che la cosa non avrà
seguito.
Un mese dopo, sono seduto sulla panca del parco, accanto a me il mio
amico anziano Beppe, con Flex che è sempre più esuberante. Sono sereno
solo, quando sono qui con lui. Ci vediamo spesso da, quando sono disoccupato. Gli racconto che con Anna l’incomprensione aumenta, che mi
rimprovera di non pensare più a lei, continuamente mi afferma che devo
essermi proprio rincitrullito, non cerco ancora un lavoro, passo tutto il
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giorno a bighellonare, e questo proprio non le va, io, però ancora non ci
riesco, a riprendermi, discutiamo sul nostro rapporto che è allo sbando, che
forse non ci siamo mai capiti, in fondo due figli d’emigranti che in comune
hanno solo la voglia di riscatto sociale, che ognuno lo vuole realizzare a
modo suo. Racconto tutto a Beppe. Gli annuncio che mi sento meglio, lui
risponde che, finché Dio vorrà, sarà sempre disponibile per me.
Sono sull’uscio di casa. La mia chiave non apre la serratura. Suono. Anna
apre uno spiraglio trattenuto dalla catenella di sicurezza. M’invita con fermezza a “ togliermi dai ma…ni”. E chiude. Suono il campanello, busso
ripetutamente, non apre. La supplico dalla porta. La sento parlottare e riconosco le voci dei suoi genitori. Ora Anna mi parla dallo spiraglio. Mi
ordina di andarmene. Mi fa sapere che chiederà il divorzio perché le ho
rovinato la vita. Non rispondo. Raggiungo il garage, prendo alcune mie
cose, le lascio il basculante aperto, e parto sgommando.
Percorro la strada che rasenta il parco, vedo in lontananza Beppe col suo
cane, freno, accosto e scendo. Corro verso di loro. Afferro per un braccio
Beppe. Voglio che lui e Flex vengano con me. Gli prometto che faremo
insieme un bel viaggio, che andremo in un bel posto. Lui mi sorride.
Nove anni dopo. E’ il settembre del 2007.
Sono con mio figlio che adesso ha 5 anni, siamo nel grande uliveto che
circonda la nostra casa. Sto controllando le reti per la prossima raccolta
delle olive. Con noi c’è un cane boxer anziano, Flex, che ci segue sempre.
Una voce mi chiama dalla casa, è Rosa mia attuale moglie, ci chiama per
il pranzo. Il primo a correre è Flex. Raggiungiamo il casale, un edificio in
pietra locale. L’ho ristrutturato dopo il mio arrivo qui nel Cilento, su questa che era la casa dei nonni prima, di mio padre poi. Ho ricavato un B&B
data la bella posizione e lo sviluppo che il turismo sta avendo da queste
parti. Un grosso fuoristrada sta percorrendo la strada che dalla provinciale
porta alla casa posta in cima ad una collina. Il veicolo scuro e lucidissimo
si ferma a pochi metri di distanza, esce una persona che conosco: l’INGEGNERE. Toglie gli occhiali da sole e mostra un viso pallido, invecchiato da come lo conoscevo, ma non tanto. Ci salutiamo con una stretta di
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mano, vede che lo guardo sorpreso e comincia modo suo di argomentare.
Si complimenta per quanto vede, bel posto, e che panorama, si guarda
intorno, elogia la costiera da cui proviene, Capri all’orizzonte, si vanta di
aver saputo da sempre che ero un tipo speciale. Non trovo altra soluzione
che farlo accomodare. Ci sediamo ad un tavolo sulla terrazza. Gli presento
la mia famiglia e mi viene istintivo invitarlo a pranzo. Lui accetta. Sembra
rasserenato dalla mia reazione alla sua visita. Continua a parlare, come in
passato, senza cercare un contraddittorio. Mi racconta delle sue vicissitudini da quella sera al campetto di calcio. Il pranzo è finito. Gli offro alcune
stecche di fichi mandorlati: sono una specialità di Rosa.
È il momento dei saluti, mi abbraccia di slancio e con vigore, come non ha
mai fatto, poi mi sussurra “ avrei voluto un figlio come te”. Gli sorrido e
ricambio l’abbraccio.
Osservo l’auto che si allontana. Mio figlio mi dice con voce entusiasta:
“era una Cayenne Turbo, papà! Bellissima, vero? È fortunato quel signore,
vero?”
Non rispondo.
FINE
“ il potere non è salvifico, lo sono la libertà e la purezza della coscienza”
Ignazio Silone - L’avventura di un povero cristiano –
Loris Periani
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Carciofi bianchi
Una stanza: un guardaroba bianco a sei ante con specchi sui pannelli anteriori. Si riflette l’immagine di Marco che parla al cellulare disteso sul letto.
Alla parete laterale c’è la scrivania con una mensola in alto sulla quale si
possono scorgere alcuni libri di medicina (Biologia, Chimica Organica,
Genetica, Anatomia, Atlante Anatomico…), fotocopie, appunti, riviste di
videogiochi. Sulla scrivania un notebook aperto dove si intravede Messenger che rumoreggia. Dall’altra parte di internet c’è qualcuno che tenta
di mettersi in contatto. Un suono rumoroso lo annuncia. Accanto al computer un telecomando che punta ad un piccolo televisore acceso sintonizzato su un canale satellitare di videomusic e posto su un mobiletto a due
ante un po’ più alto della scrivania, sempre bianco, accanto al guardaroba,
nell’angolo. Un video di musica italiana è in onda. Una finestra al lato
opposto della scrivania si affaccia in un cortile delimitato da fabbricati.
L’appartamento è posto al penultimo piano. Marco parla al cellulare con
tono rassicurante e a volte infastidito:
“Ma no, no. Non ti preoccupare. Ormai sono quattro mesi che glieli do io,
dai. Fai sempre così. Certe volte non ti capisco. Papà è diverso”.
Marco ascolta e riprende subito dopo:
”Mi sono rotto le palle a spiegarti sempre tutto. Io non lo so se a venti anni
devo ancora sentirmi chiedere se mi sono cambiato le mutande o meno.
Insomma!”.
Altra pausa di ascolto e poi:
“Vabbé, vabbé. Hai visto Loredana? E’ venuta a casa? Che ha detto? Pure
quell’altra è strana ultimamente. Fa domande strane, non mi telefona più
come qualche mese fa. Devo sempre chiamare io. Che notizie hai?”. Marco da disteso passa a sedersi sul letto con movimento del corpo proteso
all’attenzione massima e tenendo un orecchio chiuso con un dito della
mano mentre passa un’autoambulanza a sirene spiegate. Il rumore del traffico, sebbene lontano, fa da sottofondo: clacson a più non posso, motorini
senza silenziatore che accelerano con tutto il rumore possibile, fischietti
di vigili urbani, roboanti motori di autobus che fanno tremare i vetri della
finestra. Il movimento di Google/maps parte dall’immagine dell’Italia per
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concentrarsi su Roma e su una sua via fino a visualizzare il fabbricato
dell’appartamento. Si passa poi nella stanza di Marco. E’ in piedi che parla
ancora al telefono:
“Ma si può sapere che c’hai. Io sto a 500 chilometri da te, come faccio a
capire? Dimmi qualcosa; non parli più; fai frasi già fatte. Ti ho fatto qualcosa io? Mi so dimenticato qualcosa? Parla.” dice questo mentre scrive
qualcosa con Messenger comunicando con qualcun altro dall’altra parte di
internet. E’ in silenzio d’ascolto e poi: “Ah, bene! Ti sei stufata.”, rimarca
con sarcasmo, “già, e si può sapere di cosa o, meglio, di chi?”. Attende, poi
replica: “Scusa, ma che stai dicendo? Ti rendi conto di quello che dici? Stai
bene? Non puoi farmi questo proprio oggi. Ne riparliamo dopo l’esame.
Non c’ho tempo per queste stronzate”. Chiude con rabbia la comunicazione e poi “Stronza! Ma che stronza!”.
E’ un pomeriggio tardo fatto di ritorni nei dormitori. Marco, un ragazzo di
una piccola cittadina del Vallo di Diano, con il suo metro e ottanta, bruno
di carnagione, capelli neri, occhiali da vista, si prepara per uscire. Prende
il telecomando e alza il volume della tv: stanno trasmettendo il video della
sua canzone preferita. Mentre si veste si gasa mimando ora il cantante, ora
l’assolo della chitarra elettrica, poi la batteria.
Va in bagno: pavimento lucido, una torretta al centro rivestita di specchi.
Di fronte all’entrata c’è la finestra, a sinistra il lavandino incassato in un
piano di marmo, con sotto un mobiletto e una cassettiera e sopra uno specchio grande. Di fianco gli igienici. Di fronte, una vasca da bagno piccola.
Si avvicina allo specchio grande e sempre mimando il cantante si pettina.
Prende il pettine e lo adopera come fosse come microfono guardandosi in
uno degli specchi della torretta centrale.
Suonano alla porta. Corre verso la sua stanza. Spegne il televisore. Si mette in fretta le scarpe sportive slacciate. Si dirige verso la porta attraversando un piccolo corridoio rifinito da fregi, archi, cornici e pitturato a lucido
con vernice chiara. Apre la porta. E’ Giulio. Muscoli da palestrato, poco
più piccolo di Marco, catene a maglie grandi d’oro al collo, tatuaggio sul
braccio, occhiali da sole scuri, pochi capelli con basettoni. Accanto a sé,
una sexybomb bionda lo accompagna. Sollevata da tacchi a spillo, jeans
attillati mozzafiato insieme alla scollatura. Truccata al punto giusto, mani
ricche di anelli d’oro con brillanti e senza, orecchini lunghi e evidenti. An-
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che lei porta gli occhiali da sole scuri. Si tengono per mano.
“A’ Giulio, te stavo venì a trovà” esordisce Marco con un accento romanesco stentato. Si accomodano in cucina, a sinistra entrando nell’appartamento. Una cucina semplice, di quelle monoblocco, bianca, tavolo e sedie
vicino alla parete opposta, finestra che dà su un balconcino che affaccia
sempre nel cortile, ormai affollato di ragazzini che giocano urlando.
“Ahò, nun te devi preoccupà. Siete persone serie. E che passavo de qui e
allora ho detto a Marilin se glie andava de salì n’attimo, così senza che ce
vieni da me.” dice Giulio.
Si siedono mentre Marilin chiede di poter utilizzare il bagno.
Marco va nella sua stanza, prende delle banconote e rientra in cucina.
“Ecco i cinquecento di questo mese. Mi dispiace che ogni volta vieni tu.
Mi anticipi sempre. Non so come fai.” dice Marco con il sorriso tra le labbra. Giulio: “T’ho detto, nun te preoccupà. Ce passo spesso su questa strada. Pe me nun c’è problema. Anzi, famo così. A prossima volta te chiamo
prima e ce mettemo d’accordo. Tu devi studià e quanno diventi medico so
il primo paziente tuo. Perciò te devi sbrigà. Nun avé problemi con me. A
proposito, dì a papà tuo che il bonifico è arrivato pe cui sta casa ormai nun
è più a mia. Devono passà solo sti cinque anni dei cinquecento euri al mese
e avemo chiuso a partita. Nun te preoccupà. Io a gente a conosco bbene.
Siete gente a posto e me fido. A dottò...” e dà una pacca bella pesante sulla
spalla di Marco.
Nel frattempo, Marilin in bagno ha aperto il mobiletto del lavandino, prende dalla sua borsetta una piccola ventosa, si piega ed entra nel mobiletto.
Applica la ventosa su una mattonella nascosta e la toglie cercando di non
far rumore, lentamente, anche per non romperla. Dietro c’è un buco dove si
possono scorgere delle buste di plastica arrotolate. Ne estrae una. La apre e
prende un bel mazzetto di banconote da 100 euro che pone nella borsetta.
Da questa estrae poi dei gioielli, una manciata, che mette nella busta. La
arrotola e la ripone nello stesso posto dove l’aveva presa. Sistema, poi, la
mattonella non dimenticando la ventosa che ripone nella borsetta. Chiude
tutto, si avvicina al water e aziona lo sciacquone. Poi si avvicina di nuovo
al lavandino, si mette un po’ a posto ed esce. Entra in cucina. A Giulio dà
un lieve cenno con il capo per dire che è tutto ok. Marco è di spalle.
“Bé, ora ce ne annamo” dice Giulio.
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E Marco: “Vi posso offrire qualcosa? Una birra, una coca, un wisky”.
“No, no. Ce ne dovemo annà pecché è tardi. Salutame i tuoi, me raccomanno. Quanno vengono a prossima volta fammelo sapé così e vengo a salutà,
ok?”. Si salutano e vanno via.
Mattina successiva.
Marco monta sul suo motorino. Ha il casco e indossa uno zainetto. Parte
alla volta dell’Università. Ha già imparato a districarsi, anche con imprudenze, slalom ecc., nel traffico già molto evidente alle 7.30.
L’immagine successiva inquadra un’aula universitaria, con panoramica
sugli studenti seduti qua e là fino a giungere al professore che scrive su un
libretto e Marco che lo guarda soddisfatto.
“Bene, mi complimento con lei. Media del 30, tempi rispettati. Non sciupi
quest’occasione. Continui così. Ferma e forte determinazione sempre”.
“Sì, professore. Lo terrò a mente, grazie”.
Si salutano con una stretta di mano. Marco esce dall’aula e viene circondato dai suoi amici che lo festeggiano con pacche sulle spalle, sulla testa,
strattonate. “Mo devi offrì, eh. Nun te ne puoi annà via. T’avemo circondato.”
“Ok, namo!”.
Marco è a casa a sistemare una valigetta trolley.
Parla a telefono: “Sì, parto fra un’oretta. Vado a Tiburtina a prendere l’autobus.”.
Silenzio in ascolto e poi con tono pacato: “Sì, mi ha chiesto tante cose, poi
ti racconto. Fammi finire, così faccio in tempo. Mamma? Pronto? Mamma,
sì, puoi chiamare Loredana e avvisarla che sto arrivando? Non riesco a
mettermi in contatto con lei. Non so proprio cosa passa in mente di sta ragazza. Mi sto rompendo con questo atteggiamento del cavolo.”. Silenzio in
ascolto e poi, con tono leggermente arrabbiato: “Ma non so proprio cosa le
ho fatto. Non lo capisco. O c’è qualche altro oppure … Devo scoprirlo. Io
devo sta’ tranquillo, non posso pensare alle stronzate. Vabbé mamma, non
cominciare con “te l’avevo detto” perché non attacca con me. Va bene? Il
giorno in cui mi tratterai non più come un bambino, ti prometto che vado
ad accendere un cero alla Madonna. Vabbé, vabbè. Poi chiarisco pure con
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te. Ciao!”. Chiude seccato scaraventando con altrettanta seccatura il cordless sulla scrivania.
Alla stazione degli autobus di Tiburtina, Marco con il biglietto in mano, il
trolley e lo zaino a tracolla, si avvia verso il mezzo. Conosce l’autista e si
ferma a fare delle battute. Prende posto. Sistema gli auricolari dell’i-pod e
chiude gli occhi.
Li riapre poco prima di Sicignano. Una coda di auto blocca il loro passaggio.
Un viaggiatore seduto dietro protesta:“Siamo alle solite. Da queste parti
non è mai possibile preventivare qualcosa. E’ tutto sempre stravolto. Il
contrario delle cose normali. Da Roma in su funziona tutto. Qui … no!”.
Squilla il cellulare. “Ma’, siamo fermi tra Contursi e Sicignano. Ti chiamo
quando si sblocca. Cià.”. Si rimettono in cammino, lentamente, proprio
come avviene con tutta la vita del Sud. Dopo un’ora passano la strozzatura stradale per l’incolonnamento a Sicignano. L’andatura ora è continua
seppure lenta.
Squilla di nuovo il cellulare: “Ma’, tra mezz’ora arrivo.”.
Marco è giunto al paese. Esce di casa. Si incammina per una strada di campagna mentre osserva il panorama del Vallo. Si ferma e lo guarda, mentre
la sua musica preferita frulla nella sua testa. Arriva dopo qualche minuto
in una fattoria. Una stalla con delle mucche, un’aia con galline e conigli in
libertà, un fienile, un asino legato ad un anello di ferro fissato ad una parete
della stalla fatta di pietre. Suo nonno gli va incontro. Si abbracciano.
“Vieni, ti porto da nonna.”
Si incamminano lungo un sentiero di campagna e arrivano dove coltivano
la vite. La nonna lo vede e lo chiama ad alta voce. Lui le va incontro e quasi la solleva. Si raccontano le loro storie. Marco racconta dell’esame. Poi
chiede loro come vanno le cose. I nonni rispondono che sono soli, il lavoro
è enorme e fanno quello che possono fare. Il nonno si abbassa, prende una
manciata di terra, si avvicina a Marco e dice: “Senti il profumo di questa
terra. Ci fa faticare tanto sta terra. Ci fa buttare il sangue, ma ci dice – senti
come sono profumata – e già questo ci fa dire che è la nostra terra, che va
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curata, seguita, lavorata. Anche a costo di sacrifici. E’ la nostra terra. La
tua terra.”
Dalla tasca dei pantaloni prende una bustina trasparente. La apre, mette
dentro la terra, chiude la busta con un nodo e la dà a Marco:
“Portatela appresso. Sai tu cosa farne”.
Dopo cena, preparata dalla nonna, prima di salutarsi il nonno dice al giovane:
“Abbiamo cresciuto un vitello per te. Prima che te ne vai, riempiamo il frigorifero che ti porti appresso quando ti accompagnano a Roma. Va bene?
L’altra roba te la conserviamo noi. Poi quando vieni la prossima volta ti
porti un altro carico. Va bene?” Marco non può dire di no.
Il tempo corre. Al terzo anno di medicina Marco inizia ad entrare in sala
operatoria per assistere ad interventi “di poco conto” come si dice nel suo
ambiente. Si sa che la chirurgia che può portare degnamente questo nome
è quella dei tumori.
E’ un grande giorno per lui. Imparerà in questa prima fase “a mettere e
togliere i punti”. E poi, indossare il camice verde dei chirurghi con la mascherina a coprirgli la bocca, non gli sembra vero. Durante l’intervento,
il chirurgo, di una decina d’anni meno giovane di lui, racconta all’amico
anestesista, senza pudore, la sua notte passata con la dottoressa X. Incomincia a fare i paragoni con un’altra donna, l’infermiera Y, con cui era
stato la settimana prima. Tutto all’insaputa della moglie, sempre in viaggio
per lavoro.
“X è bona ma Y te fa sta sveglio tutta la notte, capito? Tutta la notte”, mentre lo dice guarda un’infermiera che gli passa un tampone e a sua volta lo
guarda con aria di insufficienza.
Marco guarda il volto del paziente. Non sa nulla di lui se non il fatto che è
un conducente di autobus della capitale.
Marco è a casa, si sta vestendo. Bussano alla porta. Va ad aprire. E’ Giulio
con Marilin. Lui sempre palestrato, lei sempre bombasexy. Questa volta
è lui che chiede di andare al bagno. Marco va a prendere i soldi mentre
Giulio è nel mobiletto del bagno a togliere la mattonella segreta. Prende
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una busta da cui preleva dei gioielli che ripone in una tasca del borsello.
Da un’altra tasca di questo prende dei sostanziosi mazzetti di banconote da
cento e li infila in un’altra busta che ripone nel buco. Mette tutto a posto.
Aziona lo sciacquone ed esce. Va in cucina dove Marco lo attende mentre
conversa con Marilin di problematiche legate alla casa. Giulio fa il monologo come due anni prima. Dice quasi le stesse cose. E’ cambiato solo il
tempo che manca affinché Marco diventi medico.
“A proposito, ma quella ragazza che ogni tanto ho visto a casa tua? E’ da
un po’ che nun a vedo.” “Loredana, sì. Ci siamo lasciati da un po’. Lei
è venuta a Roma per studiare. Ha conosciuto uno, un libanese che le ha
fatto perdere la testa. Mo sta con lui, mentre i genitori, giù a casa, sanno
che studia. M’ha detto che con lui ha provato emozioni che con me non ha
mai provato. Mmà, contenta lei. Intanto qui è senza controlli, fa come le
pare. Mi dispiace per i genitori, ma anche loro. Per loro è tutto tranquillo.
Non sanno niente di questa situazione. Sanno solo che ci siamo lasciati e
per giunta loro dicono per colpa mia. Così dice la figlia, così credono loro.
Vanno in giro in paese a dire che la figlia sta a “Roma” a studiare. Non
sono mai venuti qui. Ho provveduto io il primo anno ad accompagnarla, a
seguirla all’università, a portarla dove voleva. M’ha detto che qui si sentiva libera... Ora. Mmà, che ve devo dì. Meglio così. Nun posso sta dietro a
sté stronzate. A’ Giulio...” e gli dà una pacca sulla spalla.
L’immagine riparte nella stessa aula dove abbiamo vissuto l’esame di Marco. Questa volta è seduto davanti a professori che indossano la divisa delle
occasioni importanti. E’ una seduta di laurea. Marco si alza. E’ una persona
diversa. E’ consapevole della sua scelta. Porta la barba. I professori gli
fanno i complimenti.
Viene fatta la proclamazione dal Presidente: “In nome dello Stato la dichiariamo Dottore in Medicina”. Un applauso liberatorio si scatena nell’aula
riempita da genitori, parenti, amici, tutti ben vestiti. Per la prima volta si
vedono il papà e la mamma di Marco. Si abbracciano.
Marco e il papà escono dal ristorante dove stanno festeggiando, al paese,
la laurea, con tutti i parenti, gli amici.
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Il papà lo attacca: “Sei proprio sicuro di fare questa scelta? Hai tutto il
mondo in mano, puoi fare quello che vuoi, andare a specializzarti in America, stare lì, anche stare per sempre lì, oppure a Roma. Sai, una cosa è
stare a Roma e una cosa è stare qui. Qui non c’è niente, non c’è più niente.
Ci sono solo vecchi e gente ignorante. Gli intelligenti sono rari. Lo sai
cosa t’aspetta? Delusioni. Sconforto. Qui non cresce l’umanità. Ci vollero
i briganti e i piemontesi a distruggere quel poco di buono che forse avevamo. Pensaci bene. Hai una vita davanti. Ma un giorno che ti farai una
famiglia e ci saranno dei figli, cosa darai loro, questa valle? Ah, sì, bella.
Questi monti? Ah, sì, belli. Il mare qua vicino? Bellissimo anche quello. E
le occasioni che puoi dare lì? Scuole, università, lavoro, carriera. Qui dove
le trovi? E tu? Che farai, il medico di famiglia? Ma stai scherzando? Dopo
tanti sacrifici. Ci siamo fatti in quattro per te e tu che fai? Te ne vuoi venire
qui tra questi quattro zulù che non sanno manco fare due più due ?”
Marco replica risentito:
“Senti, ma che legge è mai questa? Ha senso secondo te fare qualcosa solo
perché ci sono sacrifici, lotte dure, notti insonni - dice con senso ironico –
se faccio sacrifici, vivo di privazioni fino al raggiungimento di un obiettivo
e dovessi accorgermi che quell’obiettivo porta all’annullamento della mia
persona, solo perché io o qualcuno per me si è sacrificato devo portarlo
avanti. Fino in fondo. Non lo trovo mica esaltante, sai?”.
Marco si rasserena e parla con tono pacato:
“Tu hai ragione, papà. Qui non c’è niente. L’autostrada è sempre così.
La gente è sempre così. Non cambia niente, siamo fermi. Gli zulù, papà,
vero?”
Il papà annuisce rattristato, amareggiato.
Marco prosegue:”Meglio secondo te stare tra gli zulù oppure tra gli zombi? Sapessi papà quanti ne vedo dentro la metropolitana, dentro gli autobus, dentro le auto, sui motorini. Tutti corrono. Verso cosa? Verso il futuro
certamente con la speranza che un giorno si possa fare e avere di meglio.
Meglio cosa? Londra, Parigi, New York, Harward? Si fugge, papà, si fugge. Dal piccolo paese, dalla cittadina di provincia verso la grande città,
verso le metropoli internazionali. Le persone fuggono, i giovani fuggono,
le menti fuggono. Sì, lì c’è il meglio. Ma è per caso il meglio sapere che
Giulio fosse un usuraio? Nessuno lo sapeva, solo le vittime fino a quan-
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do lo hanno denunciato. Come ha potuto fare questo? Te lo dico io: con
l’anonimato che offre la grande città. Chi dovrei curare io? La tettona della
sua compagna, complice, che va dal parrucchiere un giorno sì e l’altro sì
perché se lo può permettere visto gli affari del compagno e visto noi fessi
che gli abbiamo dato dei soldi fatti di sudore per acquistare quella casa?
Oppure, stupidi e stupide come la mia ex che arrivano nella grande città
e provano la libertà di fare cosa cazzo vogliono buttando all’aria principi, tradizioni, insegnamenti, tutto? Buttano all’aria tutto. E una volta che
si accorgono che sono anonimi, che nessuno può dire loro niente, bé, in
quell’istante scocca la scintilla del non ritorno. Si è anonimi e va bene così.
Tanto, chi se ne frega. Ti faccio male? Bene, tanto non è colpa mia. E’ la
società che è fatta così. Tutti sono così, perché io dovrei fare diversamente.
Guarda Loredana: non ci ha messo molto ad imparare la lezione. Oppure
stare al fianco del mio tutor di chirurgia, puttaniere con moglie a carico.
Anonimi. Zombi. Bé io non voglio fare la stessa fine. E’ vero, tanti miei
amici sono stati costretti ad abbandonare il loro paese, la loro città perché
qui c’è disoccupazione: quanti cervelli emigrati in cerca di un adeguato
posto di lavoro, di riconoscimenti, di uno spazio dove esprimersi, dove
poter essere ascoltati”.
Marco procede con veemenza:
“Quanta ricchezza che non può emergere.” Marco si frena. Placa il suo
tono e riprende:
“Papà, ricordi quando dovevamo iniziare a pagare il mutuo di casa a Roma?
Andrea è stato il nostro primo pensionante”.
Il padre annuisce.
“Mi ha raccontato che quando era bambino la mamma, maestra lì in paese,
gli parlava dei poeti, degli scrittori e gli leggeva i loro scritti come una
favola. Quella favola gli è entrata nelle vene, nel sangue, nel cuore, nel
cervello. Era venuto a Roma per una supplenza di una cattedra di italiano.
Giù al suo paese lo chiamavano il professore. Tutti quelli che incontravano
il papà chiedevano del professore, di Roma. Andrea sapeva quanto i suoi
genitori andassero fieri di lui. Ma dopo quella supplenza più niente. Per
mesi. Andrea cominciò a fare di tutto per mantenersi: persino il dogsitter
che era ancora una cosa pulita diceva lui. Non poteva tornare al paese.
Spesso si tratteneva agli angoli delle strade e componeva poesie, vendeva
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versi. Lo fa ancora oggi. Scende dai suoi durante le vacanze, quelle che
danno a scuola: a Natale, per Pasqua, in estate. Sapessi, papà, di che cosa è
capace Andrea. Quando parla ti cattura, ti affascina, ti fa sentire contento,
felice di essere qui, ora, felice di conoscere, di sapere, di ascoltare”.
Marco si interrompe.
“Qui ci sono gli zulù. Ma gli zulù possono evolvere, papà. E se non c’è
nessuno che li guidi, che dia loro un esempio diverso hanno solo due possibilità: o restare zulù oppure fuggire in una città qualunque”.
Marco mette le mani in tasca e preleva una bustina trasparente. C’è un
nodo che la tiene chiusa. Lo scioglie, apre la busta. Mette il naso dentro e
respira piano. Porge poi la busta aperta al padre.
“Senti l’odore di questa terra? Me la diede il nonno prima che morisse.
Respira. Si sente ancora l’odore. Hai mai provato a prendere la terra di una
città? Non c’è, papà. Non puoi prendere una manciata di terra a Napoli,
Roma, Milano e sentirne il profumo. Non puoi prenderla e sentirne l’odore
perché non c’è terra né odore nella città. E se non c’è terra non vi puoi
appartenere, non hai radici. Non c’è la mia terra lì. Papà, non posso preoccuparmi ora di quello che sarà domani. Oggi, ora è il momento di fare una
scelta, io so di poter fare una scelta: tra gli zulù, che possono imparare ad
evolvere. Vengo tra gli zulù. In fondo, la gente della nostra terra è come i
carciofi. Non come i carciofi che trovi su tutte le bancarelle del mondo. No.
Come i nostri carciofi bianchi, che nascono e vivono anche spontanei solo
nella nostra terra. Altrove no, non ci riescono, salvo interventi esterni. E
per me stare fuori da questa terra significherebbe boccheggiare, soffocare.
Voglio aiutare questa gente. Non farò grandi cose. Farò solo il mio dovere
di cittadino e di medico. Andrò a Roma, Milano, New York per conoscere,
approfondire la mia professione, me stesso. Quella conoscenza la impiegherò qui, dove serve. So che stanno andando via tanti. Un altro migrare.
Quando il nonno andò in America lo fece per fame, quella vera, che ti fa
soffrire fisicamente, deperire, che ti sveglia nel sonno all’improvviso, che
ti porta a divorare due maccheroni raccattati per strada, caduti a terra da
chissà quale zuppiera colma che non è la tua. Ricordo ancora nonno Vittorio: lo raccontò quando io, ancora bambino, un giorno rifiutai la crostata
fatta dalla nonna. Sembrava lo raccontasse a lei, distrattamente, ma io vedevo i suoi occhi luccicare, sentivo la sua voce tremare, esortare. Capivo
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che quelle parole erano per me. Forse già allora voleva dirmi… voleva
dirmi che dovevo custodire…”.
Marco stringe il sacchetto contenente la terra. Poi ribadisce:
“La migrazione di oggi è dei cervelli, delle menti. Un’altra fame. Cinquanta, cento anni fa le braccia. Oggi le menti. Domani? Basta!”
Il padre lo ascolta attento.
Marco prosegue:
“Mi dispiace per tipi come Vincenzo Esposito, salito a Roma da Napoli a
fare il conducente di autobus, il primo paziente a cui ho cucito la pancia.
E’ venuto a Roma perché era la prima cosa che ha potuto fare nella sua
vita per campare. Sapessi come campa. Non arriva alla fine del mese. La
moglie va alla Caritas a prendere i viveri. Sta pensando di trasferirsi in
qualche paese vicino Roma dove la vita è un po’ meno cara. Anche lui
persiste nella scelta perché poi i figli avranno più opportunità.”
Il padre ascolta.
“Io verrò qui, in questa terra, a fare il carciofo con il camice.
Sì, sarò un carciofo. Bianco però”.
L’immagine si porta sul sacchetto di terra che Marco ha ancora in mano e
si dissolve fino a far apparire un terreno di carciofi bianchi.
Un carciofo bianco risalta in primo piano.
Angela Panaro e Antonio Stecca
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Massimo Bubola: scoperto da Pino Donaggio nel 1976 pubblica il suo primo
album Nastro Giallo, con cui si fa conoscere e apprezzare da De André, che gli
propone di scrivere assieme alcuni brani poi inclusi in Rimini (1978). La collaborazione con De André continua nel 1980 con Una storia sbagliata, sigla di
un documentario-inchiesta sulla morte di Pier Paolo Pasolini e nel 1981 con la
realizzazione dei brani per l’album L’indiano. Nel 1981 l’album Tre rose vede lo
scambio dei ruoli: De André, con tutta la famiglia (il figlio e la compagna ai cori)
è l’ospite d’onore di Bubola. A loro si aggiunse anche Mauro Pagani al flauto.
Oltre le lunghe collaborazioni con altri musicisti, Bubola continua a scrivere
brani per i propri album: Massimo Bubola (1982), Vita, morte e miracoli (1989 )
Doppio lungo addio (1994). Nel 1995 è la volta dell’antologia di brani Amore &
Guerra. La sua prolifica produzione continua con Mon Trésor (1997) e Diavoli
& Farfalle (1999). Nel 2002 esce il doppio album live Il cavaliere elettrico –
vol. I & II. Del 2004 è Segreti trasparenti, decimo album in studio, dedicato in
parte allo stesso De André. Nell’autunno del 2005 Bubola porta a compimento
Quel lungo treno, concept album sulla prima guerra mondiale. Della primavera del 2006 è Neve sugli aranci, coprodotto insieme all’amico e collaboratore
Michele Gazich, un libro e un cd sui “paesaggi dell’anima”, a metà strada tra
poesia e musica, letteratura e note. Oltre che con De André, Bubola ha collaborato con altri nomi della musica italiana: Milva, i Gang, Mauro Pagani, Fiorella
Mannoia (celebre interprete de Il cielo d’Irlanda), Cristiano De André, Kaballà,
Grazia Di Michele.
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Federica Pontremoli: nel 2001 esordisce nella direzione di lungometraggi con Quore, di cui ha anche scritto il soggetto e la sceneggiatura. Prima
di dedicarsi alla regia ha lavorato a lungo come sceneggiatrice. Nel 1994 è
autrice del corto Fratelli, diretto da Paolo Franchi; l’anno successivo firma
la sceneggiatura di Il mito della realtà’, diretto da Giuseppe Gandini, vincitore di un “Nastro d’argento” del Sindacato dei Critici Cinematografici
Italiani. Nel 2000 firma le sceneggiature del corto E’ estate c’è la guerra
e del lungometraggio Sposi fra le nuvole, di Francesco Ranieri Martinotti.
Nel 1999 è assistente di produzione di Francesco Ranieri Martinotti nel
film Branchie ; nel 2006 firma, insieme a Nanni Moretti e Francesco Piccolo, la sceneggiatura de Il Caimano.
Ha lavorato anche per la musica come co-regista e autrice della sceneggiatura dei videoclip Barbara (Voci Atroci), Sei divina e Solo (Sal Vinci) e
regista della clip musicale di Gianluca Grigani Il giorno perfetto.
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Luca Ragagnin: è nato a Torino nel 1965.
Ha scritto le raccolte di poesia Biopsie, La Balbuzie degli oracoli e Granny
Smith. In versi ha inoltre pubblicato una storia del cinema, Fabbriche Lumière,
una storia della televisione, Videre Leviter e le filastrocche per bambini Il libro
delle meduse. In prosa ha pubblicato i libri di racconti Adone fatto a pezzi, Anime
pixel, Pulci, Viaggi verso la fine, le narrazioni Il piccolo libro degli addii, Linkati Stockhausen, Canzoni da mangiare, Praga alla fiamma, 29 manifesti per le
nostre menzogne, la raccolta di testi teatrali Misfatti unici e il romanzo Marmo
rosso. Con Gero Giglio ha pubblicato Amori boomerang e con Enrico Remmert
Elogio della sbronza consapevole, Elogio dell’amore vizioso e Smokiana.
È autore di testi di canzoni per musicisti di varia estrazione.
www.lucaragagnin.it
Emiliano Amato: (Savona, 1975) vive e lavora a Torino. Tiene corsi di
scrittura alla Scuola Holden. Ha collaborato come free-lance con case
editrici e agenzie letterarie e scritto sceneggiature per cinema e televisione.
Un suo racconto è stato pubblicato nell’antologia Men on Men 5 (Mondadori, 2006). A settembre 2008 è uscito il suo primo romanzo Noi che siamo
ancora vivi (Gaffi editore).
Alessandro Bignami: (Bologna, 1971)
Dopo aver conseguito il Master Biennale Holden nel 1998, si è trasferito a
Roma ove vive e lavora come consulente alla programmazione per Raisat
Cinema e Rai 4.
Dal 2008 fa parte del gruppo di sceneggiatori di “7 vite”, sitcom in onda su
Rai 2 giunta alla sua seconda stagione.
Ha partecipato alla prima edizione dello Script & Pitch Workshops, in seguito al quale ha sviluppato una sceneggiatura di un lungometraggio che
nel 2007 ha ottenuto il Media New Talent Development Fund.
Dal 2006 collabora con la Scuola Holden come insegnante di sceneggiatura in corsi e workshop.
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I quaderni, sintesi di esperienze, conoscenze e sensazioni che gli
autori dei quattro volumi hanno espresso attraverso diverse forme di scrittura creativa, danno seguito all’iniziativa “Intorno al Narrare” che nel
periodo intercorso tra Giugno e Settembre del 2007 ha consentito a chi
ama e pratica l’arte dello scrivere di potersi confrontare e misurare con
autori di fama nazionale ed internazionale e con docenti di scrittura creativa. Cinque incontri e altrettanti laboratori, per descrivere le diverse
forme di espressione dell’arte dello scrivere.
Così, se Massimo Bubola ha affascinato spiegando, come una canzone ed un testo come quello di Don Raffaè, sia entrato a pieno titolo nel
patrimonio melodico partenopeo (nonostante scritto da un veneto come lui
e da un ligure di nome Fabrizio De Andrè), se Evelina Santangelo e Gian
Mario Villalta hanno esaltato e raccontato minuziosamente il loro approccio a due delle forme più prestigiose e note di scrittura come il “racconto”
e la “poesia”, gli incontri con Silvio Perrella e Federica Pontremoli hanno
dato modo di condividere la passione ed approfondire il significato del
saggio e della sceneggiatura.
Ma, forse inaspettatamente, motivo di arricchimento personale e professionale è stato regalato dal confronto con molti dei partecipanti ai laboratori, persone che, oberate dai più disparati impegni lavorativi, non rinunciano ad esprimere tutta la propria vitalità e la propria visione della realtà
attraverso l’arte dello scrivere; ed in fondo, questi quaderni, ne costituiscono dei preziosi frammenti.
Il responsabile di progetto
Pierluigi Picilli
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Ringraziamenti
Si ringraziano per il prezioso contributo, il Soprintendente BAPPSAE di Salerno e Avellino Giuseppe Zampino, il direttore della Certosa di
San Lorenzo Giovanna Sessa, il vice direttore Mina Guglielmini Felici,
Domenico Anania ed il corpo di guardia per il supporto logistico e organizzativo presso la Certosa di San Lorenzo; la Dielle Impianti Srl per il
servizio audio garantito; la Provincia di Salerno ed in particolare
l’Assessorato ai Trasporti.
Si ringrazia vivamente il Comune di Padula, nella persona del
Sindaco Alliegro e del Vice Sindaco P. Imparato e l’Assessore alla Cultura
Francesco Vitale per la preziosa collaborazione.
Un doveroso ringraziamento va rivolto a tutti coloro che hanno frequentato i laboratori di scrittura, nonché autori della presente collana, e al
gruppo di lavoro del progetto che ha preso parte agli eventi.
Un ringraziamento anche alla Pro Loco di Padula e a chi ha partecipato e promosso l’iniziativa nel Vallo di Diano.
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Gruppo di lavoro Canzone:
Massimo Bubola, autore
Luca Ragagnin, tutor
Canzoni e sceneggiature di:
Antonio Anzalone
Nicol Artdeux
Nunzia Castaldo
Concetta Cucino
Angela Panaro
Loris Periani
Paola Sacco
Antonio Stecca
Rosaria Zizzo
Foto di Gruppo e della Certosa di
Nicol Artdeux
Ufficio comunicazione:
Carmela Breglia
Luigina Martello
Salvatore Medici
Uffici:
Viale Certosa, 1 - 84034 Padula (Sa)
tel. 0975.778622 . fax 0975.778866
e-mail: [email protected]
sito web: www.dianosostenibile.it
Sceneggiatura:
Federica Pontremoli, autore
Emiliano Amato,
Alessandro Bignami, tutor
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