la canzone - la sceneggiatura I Quaderni Intorno al Narrare Il presente documento è stato realizzato dalla Comunità Montana Vallo di Diano Misura 2.3 del P.O.R. Campania 2000 - 2006 Fondo Sociale Europeo © 2008 - Comunità Montana Vallo di Diano, Viale Certosa, 84034 Padula (SA) www.montvaldiano.it - tel. 0975 577111 4 Intorno al Narrare I Quaderni la canzone la sceneggiatura Intorno al Narrare I Quaderni la canzone la sceneggiatura Coordinamento scientifico Emilio Becheri, Mercury S.r.l. Ambiti tematici Gianpiero de la Feld, ENCO S.r.l. Linea grafica Ugo Picarelli, Leader S.a.s. Responsabile di progetto Pierluigi Picilli Responsabile PI G.A.C. “Certosa di Padula” Vincenzo Russo Responsabile Misura 2.3 Nadia Murolo Direzione attività e Resp. del Procedimento Michele Rienzo Coordinamento Tiziana Medici Finito di stampare nel mese di settembre 2008 Grafiche ZACCARA - Lagonegro – 0973 41300 I Quaderni la canzone Intorno al Narrare ha portato nel Vallo di Diano un nuovo modo di concepire la cultura e diffondere la passione per lettura e scrittura. Da luglio a settembre 2007 la Certosa di San Lorenzo è stata lo scenario scelto per ospitare un ciclo di lezioni e laboratori sul gesto del narrare, inteso nelle sue diverse forme. Cinque incontri, ognuno con un autore rappresentante di un genere letterario: Massimo Bubola (la canzone d’autore), Gian Mario Villalta (la poesia), Silvio Perrella (il saggio), Evelina Santangelo (il racconto) e Federica Pontremoli (la sceneggiatura cinematografica), hanno introdotto i partecipanti all’argomento per poi affidarli ai laboratori curati dalla Scuola Holden. L’iniziativa realizzata dalla Comunità Montana Vallo di Diano all’interno del progetto Sviluppo Sostenibile nella Filiera Turistico-Culturale. Intorno al Narrare i cui temi centrali sono stati etica e legalità, nasce nella convinzione che in un momento storico particolare, la diffusione della cultura può dare un contributo umano nel migliorare la percezione dei cittadini nei confronti della legalità e dell’etica, per questo è stato chiesto ai partecipanti di trattare questi temi in poesie, saggi, racconti, canzoni e sceneggiature, interpretandoli in rapporto alla propria contemporaneità. I Quaderni, sono la testimonianza di quanto prodotto dai partecipanti, veri protagonisti della manifestazione, i loro scritti sono accompagnati da introduzioni degli autori e dei tutor che hanno condotto i laboratori. 4 PRESENTAZIONE Il ruolo di collegamento tra la Comunità Montana in quanto Ente locale con le nuove generazioni costituisce un’eccezione, nella maggior parte dei casi, infatti, le comunità montane tendono a privilegiare nella loro programmazione gli interventi di finanziamento di opere pubbliche e infrastrutturali. Come non immaginare quale infrastruttura “ portante” quella della cultura e del sapere? La Comunità Montana Vallo di Diano ha dato spazio alla mente, ai saperi, ai giovani e l’ha fatto con la poesia, la letteratura, il cinema, il saggio. Quando si parla della “nuova generazione”, il cui stile di vita è indubbiamente caratterizzato dall’ampia diffusione delle tecnologie, le si attribuiscono diverse mancanze: tra queste, la progressiva assenza di fantasia e di sensibilità. Sembra così, invece i Laboratori di scrittura tenutisi in Certosa hanno dimostrato che c’è altro. Un “altro” che da speranza a questo territorio. Dott. Vittorio Esposito Presidente Comunità Montana Vallo di Diano 5 La canzone 6 luglio 2007 Incontro con Massimo Bubola 29 e 30 settembre la canzone: laboratorio INTRODUZIONE Luca Ragagnin Scrivere una canzone in otto, in dieci persone. Non era una pratica tanto inusuale negli anni Sessanta, anche se là i motivi erano molto diversi dai nostri. Là si trattava di dividersi delle quote di diritti d’autore, ecco come si spiegano le infinite stringhe di nomi che apparivano in sovrimpressione al fondo degli schermi televisivi sintonizzati sul Festival di Sanremo. Noi, qui, invece, ci siamo divisi il desiderio di comprendere come funzionano i meccanismi di una canzone, di scomporla in una sorta di proiezione ortogonale e di prendere con delicatezza ognuno di questi ingranaggi, per assimilarne al meglio la costruzione. Un lavoro da orologiaio. Un lavoro. Già, perché come per tutte le forme di espressione artistica, anche per la canzone si tratta di incanalare l’estro, la fantasia, l’ispirazione a un lavoro sistematico, paziente, tornito il più possibile. La canzone, poi, è un innesto di mondi disciplinati. Ci sono la composizione, l’arrangiamento, il suono e, ovviamente, c’è la parola. Tutti questi ingredienti si devono parlare e, se vogliamo scrivere una buona e onesta canzone, devono formare la propria identità stilistica e il proprio carattere, tenendo conto dell’identità e del carattere degli altri compagni. È un processo apparentemente semplice, se preso dalla sua fine, l’ascolto. Ma una buona canzone è tale proprio se la gamma delle emozioni che trasmette – tramite parole, note e arrangiamento – si può convogliare in un unico punto focale, il puntino della semplicità. Abbiamo incominciato a intraprendere questo percorso di piccola magia terrena con le ore che avevamo a disposizione. La volontà dei ragazzi di continuare anche dopo la fine del corso, dimostra che la bellezza di questa semplicità si è mostrata denudata in ogni sua singola parte. Dimostra che la forma-canzone è in diretto contatto con zone profonde del sentire umano. 12 il baldànbio dell’Armonia Canta … balla danza con me… questa melodia Specchio e filtro alchemico dei mali per chi l’invidia e i dolori vuole trasformare in Gioia Amore e Armonia e per chi l’amore riflesso vuole per ogni via tutto questo è per chi… non sa che cosa sia tempo dei tempi di tutti i tempi in tutte le notti e tutti i giorni che vuoi che sia danza nell’aria nei venti nei cieli fra le nuvole e sei le stelle i mari le terre il fuoco le ombre la luce respira sollevati e soffia, soffia via l’agonia soffiala sulla magia dei fiori e su tutti i suoni su tutti i colori e sui chiusi cuori ………………HO POETA BENEDETTO ……………… messaggero di questi colori figlio di HÖDÉ Universo… degli Universi… e di tutto l’amore degli uomini, che sanno amare Senti… nell’eco dell’Universo i suoni… dei tuoi pensieri che mentre parlano spargono l’armonia, sugli specchi del puro amore e in tutte queste… e per tutte… le altre vie… vedi e vedrai che dentro, oltre e intorno a tutti i cuori É SOLO AMORE… E SARA’ SOLO AMORE… …HÖDÉ… HÖDÉ… HÖDÉ… guidaci tu………….. guidaci tu………….. guidaci tu…………… 13 Canzone semplice Per l’ultima volta ascolto il vento è tormento. Perché? Dimmelo tu. Il vento mi porta il pianto neonato, è disperato, perché? Dimmelo tu. Canzone semplice semplice canzone d’amore. Forse tu, sarai diverso io, sono disperso. Forse tu no, non vuoi trovarti sommerso. Il vento mi porta I brandelli di vita giovane tradita, perché? Dimmelo tu. Tocco il rancore con le dita. Sento il dolore nel cuore. Forse tu, sarai diverso io sono disperso. Forse tu no, non vuoi trovarti sommerso. Forse tu lo sai, forse tu non vuoi forse tu sì, puoi fare un futuro diverso. 14 Finché la barca va Finché la barca va tu puoi campare umiliare Finché la barca va tu puoi frodare inquinare Finché la barca va tu puoi sporcare raggirare guastare sporcare tanto c’è tempo per aggiustare. Se Narciso ti guardi riflesso vedrai pattume dominare, immondizia galleggiare se continui di questo passo vedrai la barca incagliata, la tua vita congelata. Finché la barca va tu puoi crescere migliorare Finché la barca va tu puoi dialogare respirare. Se Narciso ti guardi riflesso vedrai persona affiorare, la barca veleggiare se tu prendi questo passo vedrai la vita scongelare, la sua scìa ritrovare Rema, rema non lasciarla andare 15 Cuori di cemento Sento che abbiamo fatto tardi Nei pensieri non appare un futuro Ora non separare gli sguardi Dal tuo cardine sicuro Sento che sono aperte le ferite Nel viso non c’è ombra di un sorriso Ieri sogni condivisi di altre vite Nulla appare sul tuo viso vestiti di calce e cuori di cemento i nostri cuori di cemento Preferisco fidarmi dell’uomo Che nel bisogno non t’abbandona mai vestiti di calce e cuori di cemento i nostri sono cuori di cemento Sento che per nessuno è facile Tornare indietro, cancellare Possiamo riprendere perché Questo è un momento particolare Ho bisogno di qualcuno in cui credere Qualcuno di cui fidarmi vestiti di calce e cuori di cemento i nostri cuori di cemento Preferisco fidarmi dell’uomo Che nel bisogno non t’abbandona mai Togliamo i vestiti di calce e addio cuori di cemento Cuori di cemento 16 Se il mare potesse parlare Se il mare potesse parlare, maledirebbe il seme cattivo dell’uomo. Se il mare potesse parlare, chiamerebbe per nome chi sparge il sangue degli innocenti. Urlerebbe il folle dolore delle donne che, nuove schiave, assistono impotenti alla morte delle creature. Se potesse parlare, indicherebbe la strada ai corpi freddi che vagano senza meta; e pregherebbe per le anime smarrite, prive di Grazia e di conforto. Se il mare potesse parlare, chiederebbe perdono a Dio e poi in una notte, sommergerebbe il mondo con le sue lacrime. 17 Anche se è tardi Illusione dei nostri padri farci vivere una vita migliore ma non hanno mai studiato e a noi ci dicono di diventar dottore. Dottore padrone delle lamiere di un traffico sempre più fuso dove la legge del più furbo prevale sull’umanità sempre al chiuso. Vicino alle illusioni vicino al mondo inventato dentro a quello irreale irrispettoso amore incartato Donna in questa valle la tua natura Uomo tra questi monti la tua avventura anche se è tardi finisca questa tortura. anche se tu mordi non esista quest’usura. E ti sembra di aver raggiunto il tuo scopo ideale seppur tu sai che avere tutto uccide il tuo volere. Invece a te propongo di considerare che tornando a casa possa per te rilegiferare. Lontano dalle illusioni lontano dal mondo inventato dentro a quello reale rispettoso amore scartato. Donna in questa valle la tua natura Uomo tra questi monti la tua avventura anche se è tardi finisca questa tortura. anche se tu mordi non esista quest’usura. Non è mai tardi per tornare qui. 18 Poesia Fermati viandante una poesia ti voglio regalare. Al tuo cuore diretta dovrà arrivare Pensieri ti farà modificare ascolta le grida di una donna che doveva morire. Fermati ascolta la musica , aiuta un passante adotta un bambino porgi carezze ai nonni ormai soli baci ai malati Non sprecare la vita con l’ingordigia, l’ avidità,la disonesta. Fermati ad ascoltare l’urlo di un mare in tempesta grida di bimbi gioire nel far festa il pianto di una luna calante, il sussurro di un tramonto cangiante un sorriso al tramonto rubato Segna sul foglio la vita che passa colora di rosso la luna che sorge inventa le storie da dare ai bambini quelli che soffrono, i più piccini Fermati ad ascoltare l’urlo del mare in tempesta Grida di bimbi gioire nel far festa il pianto di una luna calante, il sussurro di un tramonto cangiante un sorriso al tramonto rubato Non sprecare la vita con l’ingordigia, l’ avidità,la disonesta. Vivi la vita al meglio che puoi ama te stesso e tutti se puoi anzi sono sicuro che vuoi che vuoi 19 Diversità Nel silenzio di una strada rovesciato un cappello sta cento storie mai narrate terre amare rivelate Marciapiedi consumati battuti di qua e di là regine con calze a rete corone senza libertà Non sono qui per farti divertire né per farti esser triste strappa almeno un momento a te stesso Vite ai margini delle nostre vite soffocate da egoismi e da principi Leggi infrante in balìa di neuroni impazziti guarda in faccia il reale di diversità Buchi fatti a mano sospiri di polverità Barbe lunghe su visi affranti cassonetti di proprietà Non sono qui per farti divertire né per farti esser triste strappa almeno un momento a te stesso Vite ai margini delle nostre vite soffocate da egoismi e da principi Leggi infrante in balìa di neuroni impazziti guarda in faccia il reale di diversità 20 la sceneggiatura 21 settembre 2007 Incontro con Federica Pontremoli Mi sono sempre chiesta se andare in giro raccontando i trucchi e svelando le tecniche del racconto cinematografico non sia un po’ come tradire un segreto professionale. Cosa succederebbe se un apprendista mago girasse l’Italia, incontrasse aspiranti illusionisti o semplici amanti della magia e svelasse loro i segreti dell’arte del mistero? Una cosa è certa. Agisco in perfetta cattiva fede. Tento in tutti i modi di rovinare per sempre quello sguardo innocente e inconsapevole dello spettatore, cerco in tutti i modi di svelare ai miei ascoltatori prima la pelle del film, poi i muscoli. Non contenta ne tiro fuori le budella senza vergogna, seziono organi vitali sino ad arrivare allo scheletro del racconto. Struttura, personaggi, conflitti. Ecco cosa succede durante una mia lezione. Ecco cosa è successo quando la Scuola Holden mi ha chiamata. Ho infilato i miei attrezzi chirurgici nella valigetta, sono partita per la Certosa di Padula e, sotto lo sguardo attento del pubblico reale e di quello dipinto sulle volte affrescate del refettorio della Certosa, ho iniziato a squartare la mia vittima. “The queen”, film che ho amato per il coraggio e la semplicità della sceneggiatura, per la calma e la grandezza con cui affronta il quotidiano della storia e la storia del quotidiano. Film in cui la morte di un cervo commuove persino di più che in “Bambi”. Saranno bastate tre ore, il tempo di guardare il film e spogliarlo sequenza per sequenza, per rovinare per sempre lo sguardo dei miei ascoltatori? Riusciranno ancora a godere del racconto filmico senza tentare di individuare conflitti, turnig point, primi, secondi e terzi atti? Spero di sì, anzi, spero di no. Anzi, non so. So solo che quando vedo un film come “The queen” io stessa rimango con il bisturi tra le mani, sospeso in aria. La magia della sceneggiatura funziona, trucchi o non trucchi. E io, a bocca aperta, mi godo lo spettacolo. Federica Pontremoli 24 29 e 30 settembre la sceneggiatura: laboratorio INTRODUZIONE Emiliano Amato Sarà capitato anche a voi di guardare un film e di anticipare alcune battute di un dialogo o indovinare gli sviluppi della storia. Se questo succede troppo spesso all’interno dello stesso film si finisce per dire “Questo film l’avrei scritto anch’io!”. Ma è davvero così facile scrivere per il cinema? La risposta è no, come hanno scoperto le persone che hanno partecipato al laboratorio di sceneggiatura di Padula. Scrivere un film significa conoscere le regole di una scrittura diversa da tutte le altre, significa iniziare un lavoro che qualcun altro finirà. Nei due giorni di laboratorio le persone si sono messe in gioco, hanno cercato di imparare la tecnica, hanno acquisito le regole del gioco e le hanno contestate, il tutto con passione, umiltà e voglia di migliorarsi. A loro va il mio ringraziamento. Leggerete storie ancora incomplete, primi tentativi ma non fatevi ingannare, non è semplice come sembra. Qualcuno di voi forse indovinerà il finale di una storia o la nascita di un amore fra due personaggi, ma guardatale bene, da vicino, queste storie. Sono i racconti di un gruppo di persone diversissime fra loro che un giorno si sono incontrate in uno scenario splendido, la Certosa di Padula, per dare vita a storie che prima non esistevano. Oggi ve le affidano, abbiatene cura. Buona lettura! 26 INTRODUZIONE Alessandro Bignami I lavori che leggerete sono frutto della passione e della creativita’ delle persone che hanno fatto del laboratorio di sceneggiatura di Padula un’esperienza importante e per certi versi sorprendente. Sia pure con accenti diversi, in tutte le storie appare centrale il rapporto dell’autore con il territorio e la comunita’ in cui vive. O in cui vorrebbe tornare a vivere, nell’ambito di un percorso di ricerca e riscoperta di antiche regole di civilta’ che e’ andato ben al di la’ della semplice traccia iniziale proposta dagli organizzatori. Ed e’ questo forte senso di identita’, l’orgoglio di sentirsi parte di qualcosa espresso da tutti gli autori che mi ha colpito di piu’. Un ringraziamento particolare va ai giovani dell’Istituto Tecnico Industriale Statale “G.Gatta” di Sala Consilina (SA) e al loro professore, ragazzi intelligenti e garbati che, presentatisi come semplici uditori, sono immediatamente divenuti parte integrante e importante del gruppo di lavoro. Non so se qualcuno di loro scrivera’ film nella vita, ma di certo tutti hanno dimostrato di sapere quanto sia bello lasciarsi coinvolgere dal racconto di una storia. Buona lettura! 27 La stretta di mano La storia è ambientata prevalentemente nella certosa di San Lorenzo a Padula, durante gli anni ’80. La certosa dopo alterne vicende viene affidata per la gestione alla Soprintendenza dei Beni Architettonici. Ogni giorno un folto numero di uscieri, custodi e impiegati amministrativi di vario livello, scendono la ripida scalinata di marmo, che collega la stretta strada asfaltata alla certosa, e varcano il monumentale portone di legno per raggiungere la propria postazione di lavoro. Della folta schiera di dipendenti fa parte anche Tonino, che da qualche anno è stato assunto come custode. Tra i colleghi si vocifera che Tonino è stato assunto grazie all’amicizia con un assessore della DC. I suoi colleghi, infatti, non riescono a spiegarsi come un abitante del paese di Montesano, che proviene da una famiglia che per generazioni ha sempre lavorato andando per i boschi, poi improvvisamente si sia “civilizzato” e abbia deciso di voler lavorare per i “beni culturali”. Infatti poco dopo la sua assunzione, il sindacalista Mario, che va sempre in giro, estate ed inverno, con una sciarpa rossa avvolta al collo, mentre Tonino era al bar di fronte la certosa a bere un caffé, lo aveva affrontato apertamente, dicendogli che quel posto non era adatto a lui e approfittando dell’occasione gli aveva rinfacciato le modalità poco chiare della sua assunzione. Tonino viene accusato pubblicamente di aver rubato il posto a un giovane di Padula che doveva mettere su famiglia. Tonino a quelle accuse non risponde nulla. Ma a fine turno, prima di rientrare a casa, si incammina pensieroso per i suoi boschi. Tonino da quel giorno sembra sopportare con pazienza i commenti e le battute sarcastiche dei colleghi. Al mattino quando arriva in certosa, beve da solo il caffè al bar e poi con calma prende servizio alla sua postazione. Non mostra mai grande interesse per il suo lavoro, né per la certosa, né tanto meno è incuriosito dai suoli colleghi. Ogni volta che i turisti gli chiedono informazioni o gli rivolgono domande, risponde sempre con gran fatica e con modi che rasentano la villania. Trascorre le giornate cercando la soluzione dei cruciverba, che gli spuntano sempre dalla tasca posteriore dei pantaloni e che sono entrati ormai a far parte dei suoi effetti personali. Finché un giorno, rispondendo ad una delle tante provocazioni, litiga con 28 un collega e il responsabile dei servizi, decide di spostarlo ad un altro settore e così viene assegnato al vecchio cimitero. A Tonino, il vecchio cimitero appare come uno spazio quadrato, a cielo aperto, ricoperto di erba, con al centro una base di pietra, su cui era stata montata una croce. Questo spazio era riservato alla sepoltura dei padri, i quali venivano seppelliti nella nuda terra, vestiti solo del loro saio, con il cappuccio calato sul viso e il crocifisso tra le mani. Sulle fosse non venivano collocate né lapidi, né nomi o date che potessero far risalire all’identificazione dei defunti. Il vecchio cimitero è circondato da un portico, attraverso il quale si accede a vari ambienti chiusi, tra i quali quello che un tempo era stato il refettorio. Un giorno di pioggia, stanco di fare la ronda, Tonino si siede sulla soglia del refettorio e si ferma a guardare i goccioloni di pioggia che dal frontone del porticato, precipitano sul bordo del gradino di marmo, che è proprio di fronte a lui. Per un po’ la sua mente si perde nella pioggia che cade fino a quando, seguendo le gocce, non si trova a fissare un punto del pavimento. Il pavimento è ricoperto di grossi lastroni irregolari di marmo consunti. I lastroni hanno la superficie tappezzata di scalfitture. Come se sul pavimento fossero caduti degli oggetti molto pesanti. Tonino comincia a scrutare meglio quelle piccole fessure, finché drizzando la schiena, si alza in piedi e comincia a ispezionare ogni lastra. Si ferma di scatto, quando di fianco ai suoi piedi, nota due tagli che somigliano a delle “E”, dalle linee molto irregolari. Le due incisioni appaiono sui bordi di due lastroni affiancati. Incurante della pioggia, si mette a perlustrare tutto il porticato, scoprendo così migliaia di segni diversi incisi sui lastroni. Preso dalla sua scoperta, per la prima volta, Tonino si dimentica dell’orario di chiusura e così ritarda di mezz’ora l’uscita. Nei giorni successivi comincia a chiedere ai suoi colleghi notizie sulla certosa e non contento, comincia a seguire con attenzione, i racconti che le guide fanno ai turisti. Ma presto scopre che le spiegazioni sono sempre le stesse e che non fanno alcun cenno alle incisioni sul pavimento. Medita di acquistare una guida stampata al negozio della certosa che vende souvenir. Ma una volta entrato nel negozio, si sente a disagio e così se ne esce a mani vuote. Finché un giorno, si appropria di una guida scritta in italiano, che un 29 turista ha dimenticato nei bagni e comincia a leggerla con vivo interesse. Ma dal libro apprende che sull’origine di quelle incisioni sono state fatte solo supposizioni: forse le incisioni sarebbero state lasciate dai muratori che avevano collocato i lastroni. Per un po’ si lascia convincere da questa soluzione. A colleghi però l’improvviso interesse di Tonino per la storia della certosa non sfugge. Aumentano le chiacchiere, le allusioni. Qualcuno comincia a far circolare la voce che Tonino si stia preparando per ottener un incarico superiore a quello di usciere, alimentando sul Tonino ancora altre chiacchiere e sospetti. Nel frattempo Tonino all’esterno della certosa appare sempre più turbato. Durante una bevuta con un vecchio amico, gli confida le sue perplessità. Gli confessa che non si sente a suo agio alla certosa e che preferirebbe ritornare nei suoi boschi. Si sente in colpa per aver preso il lavoro di un altro. Medita perfino di voler rintracciare quel giovane che doveva essere assunto al posto suo. Il suo amico non riesce a comprendere il motivo del suo malessere ma in realtà non riesce a capire perché abbia accettato quel lavoro. Finché, di fronte alle domande incalzanti dell’amico, alzandosi improvvisamente in piedi, gli risponde in maniera ironica: “tu non lo sai, eh, il perché? Tu non sai niente?”. Alla fine volta le spalle e se ne va senza salutare. Qualche giorno dopo, Tonino, di rientro dal lavoro, viene avvicinato dal parroco, che si mostra preoccupato per il suo aspetto trasandato. Chiede notizie di sua moglie, della casa e poi, con una certa indifferenza, ma come se già conoscesse la risposta, gli chiede notizie del suo lavoro e dell’assessore, che lui elogia come grande benefattore e longa manus della Provvidenza, nonché amico comune, che per i suoi impegni politici, non si vede da tempo, in giro per il paese. Tonino che inizialmente aveva gradito l’incontro con il parroco, tanto che aveva cominciato ad accennare anche a lui i suoi dubbi, nel sentire parlare della provvidenza e dell’assessore, saluta frettolosamente il prete e va via visibilmente turbato. Giunto a casa Tonino, entra in cucina, scoperchia le pentole che trova sui fornelli, ma non trova nulla di suo gradimento. Alle sua spalle si avvicina una donna su una sedia a rotelle. E’ la moglie. Lo invita a sedersi, e poi 30 comincia ad apparecchiare il tavolo con gli oggetti che riesce a prendere. Tonino seguendo la moglie, termina quello che lei ha cominciato. Ma quando si siede non riesce a mangiare. La moglie lo invita a parlare, a sfogarsi. Finché lui, non riuscendo più a trattenere la collera, le racconta tutto. Delle accuse del sindacalista, dell’ostilità dei colleghi; inveisce contro la gente che riteneva amica, quelli che ora non ricordano o fanno finta di non sapere. Infine afferrando le gambe paralizzate della moglie, maledice l’assessore. Di fronte il viso spaventato e addolorato della moglie, la collera subito si placa e il tono della voce ridiventa più pacato. Ritornano a sedere intorno al tavolo e Tonino per cambiare discorso le racconta dei segni scoperti sul pavimento della certosa e comincia a raccontare a sua moglie, per la prima volta, la storia della certosa, la vita che conducevano i padri, i conversi e le loro abitudini. La curiosità e la vivacità mostrata da Tonino mentre narra tutte quelle storie, sembrano aver riportato il buon umore in casa. Nei giorni successivi Tonino appare più sereno. Le beghe di lavoro lo lasciano indifferente. Quella invece che sembra cresciuta è la sua curiosità per quei segni. Apprende per caso da un visitatore, studioso di semiologia, che quei segni forse non sono stati messi a caso. Avrebbero potuto infatti nascondere dei messaggi, delle indicazioni, anche se allo studioso sembrava alquanto strano il fatto che nessuno fino a quel momento avesse preso in considerazione l’idea di studiare con serietà quei segni. Tonino entusiasmato dalle parole dello studioso, comincia a pensare a come organizzarsi per le sue ricerche. Quello stesso giorno, a fine turno, viene affiancato dal sindacalista, che generalmente o lo guarda con disprezzo o fa finta di non vederlo. Mario gli annuncia, senza convenevoli, che è il solo a non ritirare da mesi le competenze accessorie e gli chiede se è mai stato avvisato dai colleghi del personale. Di fronte al suo silenzio imbarazzato, il sindacalista distende i lineamenti del viso, gli fa un mezzo sorriso e poi lo invita a bere un goccio al bar, lontano dalla certosa. Si dirigono verso il centro storico di Padula ed entrano in un vecchio bar. Dopo i primi bicchieri di vino, l’imbarazzo iniziale si scioglie, tanto che il sindacalista inaspettatamente gli afferra le mani e gli scopre i palmi callosi. Non riesce a capire che ci fa un uomo della sua stazza a lavorare 31 alla certosa. Gli ribadisce che è l’unico a non prendere giorni di malattia, l’unico che non chiede, che non pretende ciò di cui ha diritto. Gli confessa che sebbene siano rivali in fatto di politica, non trova giusto che venga sfruttato dal sistema. Tonino non sa nulla di diritti e ancor meno di politica. L’unica cosa che sa è deve andare a lavorare e basta. Ma tagliando corto gli parla dei suoi boschi, del mestiere di taglialegna, del suo amore per la natura. In compagnia delle bottiglie di vino svuotate, si rivela molto più comunista dello stesso sindacalista; parla della natura come un’ecologista. La semplicità con la quale Tonino esprime la sua filosofia di vita, disarma e incanta allo stesso tempo, il sindacalista, che decide di mettere da parte le ostilità politiche e di tutelarlo nelle questioni lavorative. Intanto Tonino, ormai brillo, gli confida anche il suo desiderio di scoprire l’origine degli strani segni della certosa. Mario, anche lui ormai cotto, rimanda la chiacchierata a quando saranno un po’ più sobri. Entrambi se ne ritornano a casa ubriachi ma contenti. Il giorno dopo, alla certosa si sono radunati nuovamente gruppetti di pettegoli. Stanno meditando di far allontanare Tonino anche dal cimitero. Quando arriva Mario subito tentano di invischiarlo nei loro complotto. Mario si dissocia ma loro non demordono. Alla fine della giornata il capo servizio comunica a Tonino che è stato nuovamente spostato. Questa volta dovrà vigilare la parte centrale della certosa. La parte più ampia ed esposta alle intemperie. Tonino apprende la notizia, senza battere ciglio. Ma invece di andarsene, racconta tutto a Mario il sindacalista. Mario con la testa abbassata annuisce ma non riesce a parlare. Non può dire a Tonino quello che gli hanno riferito alcuni colleghi, durante la giornata. C’è infatti qualcuno che vuole fagli perdere il posto, che vuole fare in modo che venga cacciato via. Sono state raccolte contro di lui e a sua insaputa, segnalazioni di turisti trattati male, dimenticanze che sono diventate mancanze. Mario perciò con fare sbrigativo cerca di rassicurarlo e gli promette che si studierà il suo caso, poi dopo una veloce stretta di mano, si aggiusta la sciarpa intorno al collo e scappa via. Tonino, tornato a casa, parla nuovamente con sua moglie e le racconta delle sue nuove preoccupazioni. Allora la moglie, sentendosi in colpa per non averglielo raccontato prima, gli riferisce della visita ricevuta durante la settimana dall’ assessore e del fatto che senza fare alcun nome, si era 32 lamentato di alcuni amici che avevano chiacchierato troppo in paese, e di certa gente che non sa tenere fede ai patti e che medita di rivoltarsi contro i propri benefattori. Tonino, legge dietro quelle parole, un avvertimento. Non si arrabbia con la moglie per avergli nascosto quella strana visita, ma si chiude nel silenzio. Dopo poco, distende sua moglie sul letto e si avvia verso il bosco. Dopo un’oretta di cammino, si siede su di un tronco e si mette in ascolto. Dal bosco si alzano tanti suoni, lui all’inizio sembra frastornato, poi ad uno ad uno riconosce l’origine. Chi non conosce il bosco e la montagna rischia di perdersi dietro il suono fasullo degli echi e il gioco dei riverberi. Lui ascolta finché dal caos iniziale non riesce a collocare ogni suono ogni movimento al suo posto. Intanto la luce è cambiata, la sera arriva presto sui monti. Si alza e comincia a guardare con attenzione gli alberi, finché aiutato dai segni incisi sulle cortecce, che fina da bambino, con l’aiuto di suo padre e di suo nonno, aveva imparato a fare e a decifrare, ritorna a casa, mentre il buio sembra avvolgere il bosco dietro le sue spalle. Il giorno successivo, dai manifesti attaccati sui muri, legge la notizia che l’assessore terrà un’assemblea cittadina per spiegare le ragioni della nuova tassa che i taglialegna devono versare. Giunto alla certosa, si mette in cerca di Mario, e lo trova nei granai, circondato da un gruppetto di colleghi. L’argomento di discussione è la nuova imposta. Gli fa cenno di volergli parlare, Mario si allontana dal gruppetto e gli va incontro. Tonino gli dice che ha scoperto il significato di quei segni e che ha un grosso piacere da chiedergli. Mario riflette un po’, poi gli da appuntamento per la sera, dopo il turno. Questa volta per parlare senza essere disturbati, vanno a Montesano. Si infilano in un’osteria e si accomodano nell’angolo più nascosto. Tonino comincia a spiegare di avere avuto come un’illuminazione mentre camminava per i suoi boschi. I segni scalfiti sulla pietra, dovevano servire ad indicare la strada, proprio come i segni incisi dalle guide alpine, sugli alberi. I segni della certosa, secondo la sua intuizione, dovevano funzionare soprattutto di notte, visto che di giorno i padri erano confinati nelle celle e perciò non avevano molta libertà di movimento. Era necessario fare qual- 33 che giro di notte per verificare se la sua idea era giusta. Mario, entusiasta, gli comunica in anteprima, che di lì a breve, la certosa sarebbe stata aperta di sera per una serie di spettacoli all’aperto, quindi in quei giorni entrambi si sarebbero fatti inserire in un turno serale. Poi dopo una lunga pausa, Tonino tracanna un bicchiere di vino e senza tanti giri di parole chiede a Mario di informarsi se, nel caso il suo benefattore fosse finito in galera, lui di conseguenza, sarebbe stato licenziato. E nel caso lui fosse stato licenziato, se Mario sarebbe stato in grado di aiutarlo a trovare un nuovo lavoro che lo tenesse impegnato solo per poche ore al giorno. Mario stordito dal vino e da tutte quelle parole, non riesce subito a dare una risposta a Tonino, ma gli promette incondizionatamente il suo aiuto, qualunque cosa lui decida di fare. Prova a farli domande sui suoi progetti ma Tonino tace. E’ notte quando raggiunge casa. Nell’entrare, si ferma di colpo, vedendo sua moglie ancora seduta nella carrozzella. Poi lentamente si avvicina e nel svegliarla dolcemente, le chiede notizie della donna che generalmente l’aiuta in casa. Lei non vuole rispondere, finché non gli confessa che nessuno in paese vuole venire più ad aiutarla. Una volta a letto, anche se a malincuore dice alla moglie che ha deciso di denunciare l’assessore. La moglie non parla, poi dopo un lungo silenzio, annuisce. Se la sua decisione serve a portargli nuovamente la pace nell’animo, lei non può che appoggiare la sua scelta. Tonino però sente di doverla avvisare che l’allontanamento delle comari è solo l’inizio di qualcosa di spiacevole e che dopo la denuncia, avrebbero dovuto preprarsi al peggio. Nei giorni successivi Tonino e Mario si frequentano sempre più spesso dopo il lavoro. A volte stanno insieme giusto il tempo di fumarsi una sigaretta, altre volte il tempo di una bevuta. Arriva il tempo dei concerti all’aperto, come da accordi, entrambi si fanno assegnare lo stesso turno di servizio. Quando tutti sembrano distratti, scivolano all’interno del convento e armati di pile, cominciano a perlustrare parte del pavimento della certosa, ma non notano nulla di strano. Anzi al buio, le incisioni sembrano macchie di sporco. Ripetono la loro visita anche la notte successiva, ma al terzo tentativo abbandonano ogni proposito, sfiduciati. Delusi, mentre ascoltano le ultime note del concerto, si interrogano finalmente su quello che avrebbero voluto trovare. Mario pensa 34 subito ad un tesoro che avrebbe fruttato tanti soldi. Tonino invece avrebbe voluto offrire soltanto una vita dignitosa alla moglie e a se stesso. Una casa più comoda per sua moglie, la possibilità di darle due gambe nuove, la possibilità di assumere delle persone efficienti e gentili per aiutarla quando lui è fuori. Tonino comincia a riflettere a voce alta: “se invece di un tesoro, quei segni non siano che tracce di diverse piste. In fondo a cosa sarebbe servito ai padri nascondere un grande tesoro, tanti soldi? Forse quelle che si vedono sono le tracce di tante piste, ognuna conducibile ad un luogo nascosto diverso. Ogni padre così avrebbe avuto la sua pista e ogni pista, avrebbe condotto ad un tesoro. In questo modo ogni padre sarebbe stato custode del proprio tesoro. Mario è sempre più affascinato dalle ipotesi di Tonino anche se non ha alcuna idea di come avesse potuto funzionare tutto quel labirinto di segni. Il concerto sta per terminare quando Mario ritornato serio e vigile, comunica a Tonino che riguardo alla cortesia che gli aveva chiesto il mese prima, ha fatto delle ricerche, si è studiato un po’ di carte, ma prima di dar consigli troppo affrettati, desidera sapere in che modo la denuncia e il suo benefattore sono collegati. Tonino a quella richiesta diventa serio e distaccato, sta per andar via. Quando Mario lo ferma per un braccio e gli prende la mano destra e poi guardandolo con gli occhi un poco lucidi, gli stringe forte la mano e gli conferma la sua alleanza, anche se Tonino decide di non raccontargli più nulla. Tonino va via stordito. Il giorno dell’assemblea pubblica, quella della tassa, che è stata rimandata più volte, ormai è alle porte. La stretta di Mario, gli fa dolere ancora la mano. Si tocca la mano destra, la sente ancora calda. Quella stretta gli fa venire in mente un’altra mano, che pure gli era rimasta in pressa. Rivede la mano bianca e magra dalla pelle liscia e pallida come quella dei cadaveri. Rabbrividisce, ricordando il freddo intenso che aveva sentito quando aveva stretto l’ultima volta la mano dell’assessore. Mentre stringeva quella mano scheletrica, Tonino aveva presagito che da quell’uomo, anche se amico di infanzia, non avrebbe ricevuto mai bene. Poco tempo dopo, la sua assunzione alla certosa aveva cancellato quel brutto presentimento. Gli ritorna in mente il pianto disperato della moglie, quando i medici che 35 l’avevano soccorsa all’ospedale, dove l’aveva trasportata dopo l’incidente, le comunicarono che non avrebbe potuto avere più figli. Neanche quando le comunicarono che non avrebbe più camminato, si strappò i capelli. Quando le dissero che non sarebbe stata più madre, dovettero imbottirla di tranquillanti. Tonino comincia a pensare anche al suo dolore. Dal giorno dell’incidente non aveva versato una lacrima e ora invece guardava le lacrime pesanti cadere sui suoi pugni stretti. Cercava disperatamente di ricacciarle indietro, ma quelle sembravano più forti. Tonino si lascia andare sul sediolino dell’auto e come in trance ricorda ancora una volta l’incidente. Sua moglie era uscita dal bosco per prima e si era incamminata per la stretta stradina asfaltata. Aveva un’andatura a zig zag a causa dei sacchi di tela che portava in ciascuna mano, zeppi di funghi appena raccolti. Rideva felice mentre si avvicinava allo spiazzo dove era parcheggiato il furgone. Tonino era ritornato indietro di qualche passo per raccogliere un attrezzo che gli era caduto dalla tasca posteriore dei pantaloni. Tonino sentì il rumore dei picchi che bucavano gli alberi, poi lo stridore di gomme, il rumore di un urto, pensò alle capre che Beniamino portava su quelle montagne. Quando raggiunse la strada non trovò animali, ma sua moglie riversa a terra. Sull’asfalto vi era un tappeto di funghi e qualcuno era inzuppato del sangue di sua moglie. Poco più avanti un’auto ferma. All’interno vi erano due persone. Una donna bionda che lui non conosceva. Al volante invece c’era un uomo. Mentre si abbassava su sua moglie, vide i numeri della targa allontanarsi sempre di più, finché non rimase solo con sua moglie e i funghi che sembravano come fiori morti. Ricorda anche che mentre la moglie era ricoverata in ospedale, aveva tentato diverse volte di rintracciare quell’autovettura, che a lui sembrava molto familiare. Finché un giorno, non la trovò nell’ultimo posto dove si sarebbe aspettato di trovarla. Era parcheggiata davanti al municipio. Cominciò a girarle intorno, cercando di ricordare di chi fosse. Era sicuro di saperlo, ma non riusciva proprio a ricordarselo. Finché dal Comune non uscì Ezio, il suo compagno di classe alle elementari. Ezio mentre saluta amici e colleghi, riconosce da lontano Tonino e facendo finta di non averlo visto, gli volta la faccia. Tonino, con il cuore a mille continua guardare la macchina, tanto che non si accorge che Ezio è arrivato a pochi passi da lui. 36 Quando si volta di soprassalto, vede le chiavi dell’automobile ciondolare nelle mani di Ezio. Ezio con tono ostile lo invita a salire. Tonino frastornato non riesce a muovere un muscolo. Ezio, quasi urlando, gli ordina di salire. E una volta saliti entrambi in macchina gli urla: “Che vuoi da me?” “E’ stato un incidente!” “Io a quell’ora dovevo essere a Napoli.” Tonino, è una zuppa di sudore. Molte immagini si affollano nella testa: Maria, la moglie di Ezio, i suoi capelli nero corvino, di una bellezza forte e sensuale, come tutte le donne del Cilento; i loro due bambini, un maschietto e una femminuccia. Tonino non riesce a parlare, pensa che il suo compagno di scuola si è comportato come un assassino. Ezio, invece, approfittando del suo mutismo, gli propone un patto. Il suo silenzio per un posto dignitoso. Un posto tranquillo che gli avrebbe garantito la tranquillità e una vita decorosa. E poi senza aspettare la risposta aveva concluso: “chissà può darsi che un giorno mi ringrazierai.” Dopo aver pronunciato quelle parole, Ezio strinse forte la mano a Tonino e senza più parlare lo riaccompagnò fino alla porta di casa. Tonino immerso in quei ricordi, guida lentamente fino a che non arriva alla stazione dei Carabinieri. Prima di entrare, tira dalla tasca un foglio mezzo strappato e ingiallito. Prima di bussare al citofono, rilegge la sua prima denuncia: non c’è traccia del numero di targa dell’autovettura che aveva investito sua moglie. Al piantone chiede di poter parlare urgentemente con il maresciallo di turno. Il giorno dopo si reca a lavoro, ha il viso gonfio, come chi è rimasto sveglio tutta la notte. All’ingresso della certosa trova Mario che cammina avanti e indietro come un animale in gabbia. Quando vede Tonino sulla cima delle scalinata, comincia a fare gesti strani. Quando gli si avvicina, Tonino nota che anche lui ha la barba lunga e gli occhi gonfi. “Tonì non ho chiuso occhio. Non vedevo l’ora di dirtelo. Ho trovato la soluzione…………Fosforo bianco e Azoto……….. non ti dicono niente?” Tonino lo guarda senza capire. Ma Mario continua: “ieri sera, tornando a casa, sono passato per il cimitero e mi sono ricordato delle fiammelle… ……i fuochi fatui…………..come li chiami tu? Quelle che si vedono di 37 notte sulle tombe dei morti.……………….” “Tonì quelli nei buchi ci mettevano il fosforo bianco o chissà che altra diavoleria per farli illuminare!” Tonino ha muscoli del viso contratti. Guarda Mario con uno sguardo serio, ma a poco a poco i lineamenti si distendono e comincia a sorridere. Poi prendendo Mario per un braccio, lo guida verso il bar e gli chiede di raccontargli ogni cosa un’altra volta e dall’inizio. Paola Sacco 38 IL GEOMETRA È il 1998. Mi trovo in un vasto salone affrescato di un edificio medioevale ben conservato del centro storico. Sono nello studio notarile, il più rinomato che ha quest’opulenta città della pianura padana. Sono un GEOMETRA di 26 anni. L’unico giovane presente, sono attorniato da sei ultracinquantenni tutti in completi coordinati di firme importanti. Io sono in abbigliamento casual. Stamattina si firma la Convenzione tra l’Impresa Immobiliare per la quale lavoro ed il Comune. I firmatari sono tutti presenti: l’INGEGNERE, il mio titolare, il sindaco, il segretario comunale, un paio d’assessori e naturalmente il notaio. Lui inizia la lettura del corposo atto. Io lo seguo con la massima concentrazione sui miei incartamenti. So che se fossero riscontrati errori e/od omissioni tutto sarebbe da rifare, con danni economici per l’INGEGNERE e perdita d’immagine per me che ho predisposto il tutto. Dopo un’ora circa, verificato che tutto è perfetto, si procede alle firme. Posso riporre la mia documentazione, è fatta, il cuore palpita e sono sudato in fronte. Il sindaco ed i suoi collaboratori salutano. L’INGEGNERE ed il notaio sono rilassati e colloquiano su argomenti di politica cittadina. Dopo si complimentano con me per il lavoro svolto. Sudo ancora di più. L’INGEGNERE ed io rientriamo in azienda a bordo della sua lussuosa B.M.W. Lui è una persona carismatica, fisicamente e nello stile ricorda Montezemolo, guida parlando in continuazione. Mi lascia solo la possibilità di annuire. Tesse le lodi del suo lavoro. Si vanta della lottizzazione, la sua ultima creatura, un parco di cento villette con area verde, zona impianto sportivo ed edificio pluriuso. La considera una perla sulla collina, dove realizzerà la “qualità della vita”. Lo ascolto e non posso che pensare al suo ego pari al prestigio che ha nella città. Mi accenna che fatica a gestire tutti i suoi impegni: ha incarichi importanti nelle principali associazioni cittadine. D’improvviso cambia discorso, guarda l’ora e m’invita a pranzo. Non lo aveva mai fatto in cinque anni che lavoro per lui. Accetto, debbo però avvisare Anna, mia moglie, che sicuramente mi sta aspettando a casa e non ama lavorare per niente, pertanto si arrabbierà se non vado. Suona il 39 cellulare dell’INGEGNERE. Ha un impegno imprevisto ed urgente. Peccato, tutto salta. Quel giorno a pranzo sono di buon umore. Racconto tutto ad Anna. Siamo sposati da tre anni. Lei ha 23 anni. Anna è emiliana. I suoi sono originari di un paesino dell’Appennino, distante 40 Km. dalla città. Lei ascolta con sufficienza. Lei è presa dai suoi problemi quotidiani. Solamente quando accenno all’invito a pranzo, commenta: “Finalmente scopre quanto vali, puoi chiedere un aumento.”. Le rispondo che Io sono felice così, un lavoro che mi piace, una casa, una famiglia, insomma sto bene. Anna, invece mi ribatte che è insofferente, da almeno un anno, è stressata per la sua tesi e non si diverte per niente nel suo ruolo di casalinga. Mi ricorda spesso di com’è stato indispensabile per noi l’aiuto economico ricevuto dai suoi genitori al momento di sposarci. Io le rispondo che sono figlio d’emigranti, persone semplici ma ricche di valori. Sostengo che lavorando sodo anche quello arriverà. Lei però non mi ascolta. La sera vado all’allenamento di calcio, il mio sport preferito sin da bambino. Sulla mia Fiat berlina raggiungo il campo. Mi fermo davanti ad un piccolo cimitero che è poco distante. Sosto innanzi al cancello chiuso in atteggiamento di raccoglimento. Non c’è nessuno, una fila di luci lungo il vialetto di cipressi. Mi viene d’istinto parlare a mio padre che è sepolto lì da meno di un anno. Gli assicuro che lo ammiro per tutto quello che ha fatto per me, e che cercherò di non deluderlo. Mi manca. Inizia l’allenamento. Sono con un gruppo di coetanei. Siamo dilettanti. Facciamo due allenamenti la settimana e alcuni tornei in giro per la provincia. È un gruppo coeso. Noi calciatori ci conosciamo anche troppo bene. Stasera io però mi sento più carico del solito. Per solito intendo che io non sconvolgo mai il gruppo, mi chiamano “assist” perché all’estro prediligo i passaggi precisi, eseguo solo il mio compitino, però abbastanza bene. Oggi mi sento come nuovo, voglio stupirli e stupirmi. A pochi minuti dall’inizio della partita ricevo palla. Dribblo il primo che si fa incontro, fingo il solito passaggio, il libero abbocca: vado, sono solo davanti al portiere, lo guardo, lui si gira a cercare il mio compagno cui farò l’assist, no stavolta tiro, lì all’angolo. Goal. 40 È trascorsa una settimana. Sono nel mio ufficio. Ho lenzuoli di planimetrie e una calcolatrice sul tavolo. Verifico i dati d’alcuni frazionamenti. Mi chiama l’INGEGNERE nel suo ufficio. Mi riceve, mi siedo e, come sempre parla solo lui. Elenca i prossimi lavori, mi accenna che non si è dimenticato del suo invito a pranzo, lo vuole sostituire con una cena al ristorante “Chef Paris” accompagnati dalle rispettive mogli. Prosegue chiedendomi di sostituirlo, causa impegno improrogabile. Devo eseguire una consegna di documenti importanti d’ufficio alle ore 13, oggi. E’ l’ora prestabilita. Sto trastullando la tazzina già vuota e fredda di un caffé nella saletta del bar Centrale. La valigia con i documenti è sott’occhio sulla sedia accanto a me. Riconosco il Dottor Ronchi appena entra nel bar, la descrizione corrisponde. Ci presentiamo, in due minuti consegno e lui esce. Pago il caffé. Mi sento chiamare. E’ il professor Bressi. Il professore era tra i miei preferiti, quando frequentavo l’istituto per geometri. È un piacere rincontrarlo, mi racconta che ora è in pensione. Gli racconto della mia vita. Lui mi ricorda di come discussi con fervore della vicenda storica tra i papi Celestino V e Bonifacio VIII, all’esame di maturità. Il tema era l’inconciliabilità tra potere e santità. Bei tempi. La stessa settimana eseguo altre due consegne di documenti identiche alla prima. E’ la mattina del 7 di marzo. Acquisto il quotidiano cittadino. La principale notizia locale titola “L’Ingegner Malverdi Arduo arrestato” sottotitolo “sospetto caso di corruzione”. Il nome non lo conosco, ma il volto nella foto 10x15, sì. È lui, il Dottor Ronchi. Quello delle consegne. Leggo e rileggo l’articolo. Esclamo: “Com’è possibile”. Nell’articolo si citano anche l’INGEGNERE e la mia Immobiliare. Allora sono coinvolto anch’io. Distruggo il giornale e lo getto nel primo cestino. Mi precipito in ufficio, quasi investo un pedone che giustamente mi manda a quel paese. Giungo nel parcheggio. Ci sono due auto della polizia. Entro in ufficio. La segretaria m’informa che i quattro agenti stanno cercando 41 l’INGEGNERE. Dico alla segretaria che anch’io lo cerco per dirgliene due. Pure a me chiedono se so dove si trova. Oggi non si lavora in ufficio. Torno a casa, voglio raccontare tutto ad Anna. Le dico delle consegne, dell’articolo, della scomparsa dell’INGEGNERE. Lei si scatena in una scenata. “Cosa cavolo mi credevo”, sempre chino a lavorare, a dare sempre fiducia agli altri, adesso se sarò implicato in questa vicenda, sarà un gran casino, non potremo più andare avanti come prima. Poi, sottovoce, Anna mi chiede se almeno avrò una ricompensa per quel lavoro svolto. Alla mia risposta se era forse diventata matta, s’irrita di più, mi urla che si è sposata un cretino e se ne va in cucina sbattendo la porta. Io infuriato esco da casa. Ancora frastornato mi siedo su una panchina del parco vicino a casa. Osservo i bambini che giocano felici e urlanti. Un anziano da lontano sta urlando “Flex, Flex vieni qua”. Solo in quel momento mi accorgo del cane, un boxer che sta correndo col guinzaglio al seguito. Senza pensarci mi alzo e facendo dei gesti a mani aperte lo distraggo, lui si ferma, e in quell’istante col piede blocco il guinzaglio. Si calma subito, comincia a leccarmi la mano, è un esemplare fulvo a chiazze bianche. L’anziano mi raggiunge, è ansimante, mi ringrazia e si siede. Afferma che quel giovane cane è l’unica sua compagnia. Mi racconta confusamente della sua vita da emigrante. Lo dice con nostalgia. Scopro che è originario di una località poco distante da quella di mio padre. Rientrato a casa trovo un biglietto di Anna, m’informa che è andata dai suoi genitori. Decido di andare all’allenamento. Brutta scelta. A quanto pare la notizia è arrivata a tutti, si comportano come se fossi lebbroso, uno da compatire. Nello spogliatoio mi cambio per ultimo. Esco e mi viene l’impulso di correre, non al campo, ma in strada. Corro per la strada buia, un’auto veloce esce da una curva e quasi m’investe, la dribblo e riprendo la corsa. Arrivo davanti al cancello del cimitero, lo afferro per le mani d’impulso e lo scuoto. Il cancello si apre. Entro e mi 42 fermo a guardare le lucine, un centinaio di piccole stelle ordinate. Cerco istintivamente la tomba di mio padre. Mi viene da piangere. Torno alla mia auto. Qualcuno mi chiama dall’auto di fianco. È l’INGEGNERE sulla sua B.M.W.. Salgo, mi accascio esausto sul sedile e lo guardo obliquo. L’INGEGNERE comincia a parlare. La sua è un’arringa difensiva, il mondo funziona così oggi come ieri e così sarà domani. Lui agli inizi pensava bastasse essere bravi per ottenere il successo, ma poi i problemi si moltiplicavano ed è dovuto scendere a compromessi. Rinunci? In fondo diventi anche tu un ingranaggio. La sua vita, mi racconta, è sì fatta di prestigio, denaro, successo nel lavoro, ma a quale prezzo? Mi dice che la sua vita privata è un fallimento, la moglie ha colto l’occasione per lasciarlo definitivamente appena si è diffusa la notizia della corruzione, il figlio è un viziato che bighellona e probabilmente si droga, vive a Parigi. Per non parlare degli amici imprenditori, attendono solo i suoi errori per metterlo in disparte. Ora li accontenta tutti. Ha deciso. Va via. Ha un conto in Svizzera, ci penseranno gli avvocati alle beghe giudiziarie, in fondo lui è una vittima. È proprio stufo. È venuto a parlarmi per scusarsi. Quello che era successo, ovviamente, non l’aveva preventivato. Non vuole che io sia coinvolto. Mi assicura che il suo avvocato difensore ha una dichiarazione sull’accaduto nella quale mi scagiona completamente. Ora scappa. Mi esce dalla bocca solo un “Buona fortuna INGEGNERE“. Se ne va, io, però resto qui. Due giorni dopo sono convocato in commissariato. M’interroga un commissario e al termine firmo un verbale, mi assicurano che la cosa non avrà seguito. Un mese dopo, sono seduto sulla panca del parco, accanto a me il mio amico anziano Beppe, con Flex che è sempre più esuberante. Sono sereno solo, quando sono qui con lui. Ci vediamo spesso da, quando sono disoccupato. Gli racconto che con Anna l’incomprensione aumenta, che mi rimprovera di non pensare più a lei, continuamente mi afferma che devo essermi proprio rincitrullito, non cerco ancora un lavoro, passo tutto il 43 giorno a bighellonare, e questo proprio non le va, io, però ancora non ci riesco, a riprendermi, discutiamo sul nostro rapporto che è allo sbando, che forse non ci siamo mai capiti, in fondo due figli d’emigranti che in comune hanno solo la voglia di riscatto sociale, che ognuno lo vuole realizzare a modo suo. Racconto tutto a Beppe. Gli annuncio che mi sento meglio, lui risponde che, finché Dio vorrà, sarà sempre disponibile per me. Sono sull’uscio di casa. La mia chiave non apre la serratura. Suono. Anna apre uno spiraglio trattenuto dalla catenella di sicurezza. M’invita con fermezza a “ togliermi dai ma…ni”. E chiude. Suono il campanello, busso ripetutamente, non apre. La supplico dalla porta. La sento parlottare e riconosco le voci dei suoi genitori. Ora Anna mi parla dallo spiraglio. Mi ordina di andarmene. Mi fa sapere che chiederà il divorzio perché le ho rovinato la vita. Non rispondo. Raggiungo il garage, prendo alcune mie cose, le lascio il basculante aperto, e parto sgommando. Percorro la strada che rasenta il parco, vedo in lontananza Beppe col suo cane, freno, accosto e scendo. Corro verso di loro. Afferro per un braccio Beppe. Voglio che lui e Flex vengano con me. Gli prometto che faremo insieme un bel viaggio, che andremo in un bel posto. Lui mi sorride. Nove anni dopo. E’ il settembre del 2007. Sono con mio figlio che adesso ha 5 anni, siamo nel grande uliveto che circonda la nostra casa. Sto controllando le reti per la prossima raccolta delle olive. Con noi c’è un cane boxer anziano, Flex, che ci segue sempre. Una voce mi chiama dalla casa, è Rosa mia attuale moglie, ci chiama per il pranzo. Il primo a correre è Flex. Raggiungiamo il casale, un edificio in pietra locale. L’ho ristrutturato dopo il mio arrivo qui nel Cilento, su questa che era la casa dei nonni prima, di mio padre poi. Ho ricavato un B&B data la bella posizione e lo sviluppo che il turismo sta avendo da queste parti. Un grosso fuoristrada sta percorrendo la strada che dalla provinciale porta alla casa posta in cima ad una collina. Il veicolo scuro e lucidissimo si ferma a pochi metri di distanza, esce una persona che conosco: l’INGEGNERE. Toglie gli occhiali da sole e mostra un viso pallido, invecchiato da come lo conoscevo, ma non tanto. Ci salutiamo con una stretta di 44 mano, vede che lo guardo sorpreso e comincia modo suo di argomentare. Si complimenta per quanto vede, bel posto, e che panorama, si guarda intorno, elogia la costiera da cui proviene, Capri all’orizzonte, si vanta di aver saputo da sempre che ero un tipo speciale. Non trovo altra soluzione che farlo accomodare. Ci sediamo ad un tavolo sulla terrazza. Gli presento la mia famiglia e mi viene istintivo invitarlo a pranzo. Lui accetta. Sembra rasserenato dalla mia reazione alla sua visita. Continua a parlare, come in passato, senza cercare un contraddittorio. Mi racconta delle sue vicissitudini da quella sera al campetto di calcio. Il pranzo è finito. Gli offro alcune stecche di fichi mandorlati: sono una specialità di Rosa. È il momento dei saluti, mi abbraccia di slancio e con vigore, come non ha mai fatto, poi mi sussurra “ avrei voluto un figlio come te”. Gli sorrido e ricambio l’abbraccio. Osservo l’auto che si allontana. Mio figlio mi dice con voce entusiasta: “era una Cayenne Turbo, papà! Bellissima, vero? È fortunato quel signore, vero?” Non rispondo. FINE “ il potere non è salvifico, lo sono la libertà e la purezza della coscienza” Ignazio Silone - L’avventura di un povero cristiano – Loris Periani 45 Carciofi bianchi Una stanza: un guardaroba bianco a sei ante con specchi sui pannelli anteriori. Si riflette l’immagine di Marco che parla al cellulare disteso sul letto. Alla parete laterale c’è la scrivania con una mensola in alto sulla quale si possono scorgere alcuni libri di medicina (Biologia, Chimica Organica, Genetica, Anatomia, Atlante Anatomico…), fotocopie, appunti, riviste di videogiochi. Sulla scrivania un notebook aperto dove si intravede Messenger che rumoreggia. Dall’altra parte di internet c’è qualcuno che tenta di mettersi in contatto. Un suono rumoroso lo annuncia. Accanto al computer un telecomando che punta ad un piccolo televisore acceso sintonizzato su un canale satellitare di videomusic e posto su un mobiletto a due ante un po’ più alto della scrivania, sempre bianco, accanto al guardaroba, nell’angolo. Un video di musica italiana è in onda. Una finestra al lato opposto della scrivania si affaccia in un cortile delimitato da fabbricati. L’appartamento è posto al penultimo piano. Marco parla al cellulare con tono rassicurante e a volte infastidito: “Ma no, no. Non ti preoccupare. Ormai sono quattro mesi che glieli do io, dai. Fai sempre così. Certe volte non ti capisco. Papà è diverso”. Marco ascolta e riprende subito dopo: ”Mi sono rotto le palle a spiegarti sempre tutto. Io non lo so se a venti anni devo ancora sentirmi chiedere se mi sono cambiato le mutande o meno. Insomma!”. Altra pausa di ascolto e poi: “Vabbé, vabbé. Hai visto Loredana? E’ venuta a casa? Che ha detto? Pure quell’altra è strana ultimamente. Fa domande strane, non mi telefona più come qualche mese fa. Devo sempre chiamare io. Che notizie hai?”. Marco da disteso passa a sedersi sul letto con movimento del corpo proteso all’attenzione massima e tenendo un orecchio chiuso con un dito della mano mentre passa un’autoambulanza a sirene spiegate. Il rumore del traffico, sebbene lontano, fa da sottofondo: clacson a più non posso, motorini senza silenziatore che accelerano con tutto il rumore possibile, fischietti di vigili urbani, roboanti motori di autobus che fanno tremare i vetri della finestra. Il movimento di Google/maps parte dall’immagine dell’Italia per 46 concentrarsi su Roma e su una sua via fino a visualizzare il fabbricato dell’appartamento. Si passa poi nella stanza di Marco. E’ in piedi che parla ancora al telefono: “Ma si può sapere che c’hai. Io sto a 500 chilometri da te, come faccio a capire? Dimmi qualcosa; non parli più; fai frasi già fatte. Ti ho fatto qualcosa io? Mi so dimenticato qualcosa? Parla.” dice questo mentre scrive qualcosa con Messenger comunicando con qualcun altro dall’altra parte di internet. E’ in silenzio d’ascolto e poi: “Ah, bene! Ti sei stufata.”, rimarca con sarcasmo, “già, e si può sapere di cosa o, meglio, di chi?”. Attende, poi replica: “Scusa, ma che stai dicendo? Ti rendi conto di quello che dici? Stai bene? Non puoi farmi questo proprio oggi. Ne riparliamo dopo l’esame. Non c’ho tempo per queste stronzate”. Chiude con rabbia la comunicazione e poi “Stronza! Ma che stronza!”. E’ un pomeriggio tardo fatto di ritorni nei dormitori. Marco, un ragazzo di una piccola cittadina del Vallo di Diano, con il suo metro e ottanta, bruno di carnagione, capelli neri, occhiali da vista, si prepara per uscire. Prende il telecomando e alza il volume della tv: stanno trasmettendo il video della sua canzone preferita. Mentre si veste si gasa mimando ora il cantante, ora l’assolo della chitarra elettrica, poi la batteria. Va in bagno: pavimento lucido, una torretta al centro rivestita di specchi. Di fronte all’entrata c’è la finestra, a sinistra il lavandino incassato in un piano di marmo, con sotto un mobiletto e una cassettiera e sopra uno specchio grande. Di fianco gli igienici. Di fronte, una vasca da bagno piccola. Si avvicina allo specchio grande e sempre mimando il cantante si pettina. Prende il pettine e lo adopera come fosse come microfono guardandosi in uno degli specchi della torretta centrale. Suonano alla porta. Corre verso la sua stanza. Spegne il televisore. Si mette in fretta le scarpe sportive slacciate. Si dirige verso la porta attraversando un piccolo corridoio rifinito da fregi, archi, cornici e pitturato a lucido con vernice chiara. Apre la porta. E’ Giulio. Muscoli da palestrato, poco più piccolo di Marco, catene a maglie grandi d’oro al collo, tatuaggio sul braccio, occhiali da sole scuri, pochi capelli con basettoni. Accanto a sé, una sexybomb bionda lo accompagna. Sollevata da tacchi a spillo, jeans attillati mozzafiato insieme alla scollatura. Truccata al punto giusto, mani ricche di anelli d’oro con brillanti e senza, orecchini lunghi e evidenti. An- 47 che lei porta gli occhiali da sole scuri. Si tengono per mano. “A’ Giulio, te stavo venì a trovà” esordisce Marco con un accento romanesco stentato. Si accomodano in cucina, a sinistra entrando nell’appartamento. Una cucina semplice, di quelle monoblocco, bianca, tavolo e sedie vicino alla parete opposta, finestra che dà su un balconcino che affaccia sempre nel cortile, ormai affollato di ragazzini che giocano urlando. “Ahò, nun te devi preoccupà. Siete persone serie. E che passavo de qui e allora ho detto a Marilin se glie andava de salì n’attimo, così senza che ce vieni da me.” dice Giulio. Si siedono mentre Marilin chiede di poter utilizzare il bagno. Marco va nella sua stanza, prende delle banconote e rientra in cucina. “Ecco i cinquecento di questo mese. Mi dispiace che ogni volta vieni tu. Mi anticipi sempre. Non so come fai.” dice Marco con il sorriso tra le labbra. Giulio: “T’ho detto, nun te preoccupà. Ce passo spesso su questa strada. Pe me nun c’è problema. Anzi, famo così. A prossima volta te chiamo prima e ce mettemo d’accordo. Tu devi studià e quanno diventi medico so il primo paziente tuo. Perciò te devi sbrigà. Nun avé problemi con me. A proposito, dì a papà tuo che il bonifico è arrivato pe cui sta casa ormai nun è più a mia. Devono passà solo sti cinque anni dei cinquecento euri al mese e avemo chiuso a partita. Nun te preoccupà. Io a gente a conosco bbene. Siete gente a posto e me fido. A dottò...” e dà una pacca bella pesante sulla spalla di Marco. Nel frattempo, Marilin in bagno ha aperto il mobiletto del lavandino, prende dalla sua borsetta una piccola ventosa, si piega ed entra nel mobiletto. Applica la ventosa su una mattonella nascosta e la toglie cercando di non far rumore, lentamente, anche per non romperla. Dietro c’è un buco dove si possono scorgere delle buste di plastica arrotolate. Ne estrae una. La apre e prende un bel mazzetto di banconote da 100 euro che pone nella borsetta. Da questa estrae poi dei gioielli, una manciata, che mette nella busta. La arrotola e la ripone nello stesso posto dove l’aveva presa. Sistema, poi, la mattonella non dimenticando la ventosa che ripone nella borsetta. Chiude tutto, si avvicina al water e aziona lo sciacquone. Poi si avvicina di nuovo al lavandino, si mette un po’ a posto ed esce. Entra in cucina. A Giulio dà un lieve cenno con il capo per dire che è tutto ok. Marco è di spalle. “Bé, ora ce ne annamo” dice Giulio. 48 E Marco: “Vi posso offrire qualcosa? Una birra, una coca, un wisky”. “No, no. Ce ne dovemo annà pecché è tardi. Salutame i tuoi, me raccomanno. Quanno vengono a prossima volta fammelo sapé così e vengo a salutà, ok?”. Si salutano e vanno via. Mattina successiva. Marco monta sul suo motorino. Ha il casco e indossa uno zainetto. Parte alla volta dell’Università. Ha già imparato a districarsi, anche con imprudenze, slalom ecc., nel traffico già molto evidente alle 7.30. L’immagine successiva inquadra un’aula universitaria, con panoramica sugli studenti seduti qua e là fino a giungere al professore che scrive su un libretto e Marco che lo guarda soddisfatto. “Bene, mi complimento con lei. Media del 30, tempi rispettati. Non sciupi quest’occasione. Continui così. Ferma e forte determinazione sempre”. “Sì, professore. Lo terrò a mente, grazie”. Si salutano con una stretta di mano. Marco esce dall’aula e viene circondato dai suoi amici che lo festeggiano con pacche sulle spalle, sulla testa, strattonate. “Mo devi offrì, eh. Nun te ne puoi annà via. T’avemo circondato.” “Ok, namo!”. Marco è a casa a sistemare una valigetta trolley. Parla a telefono: “Sì, parto fra un’oretta. Vado a Tiburtina a prendere l’autobus.”. Silenzio in ascolto e poi con tono pacato: “Sì, mi ha chiesto tante cose, poi ti racconto. Fammi finire, così faccio in tempo. Mamma? Pronto? Mamma, sì, puoi chiamare Loredana e avvisarla che sto arrivando? Non riesco a mettermi in contatto con lei. Non so proprio cosa passa in mente di sta ragazza. Mi sto rompendo con questo atteggiamento del cavolo.”. Silenzio in ascolto e poi, con tono leggermente arrabbiato: “Ma non so proprio cosa le ho fatto. Non lo capisco. O c’è qualche altro oppure … Devo scoprirlo. Io devo sta’ tranquillo, non posso pensare alle stronzate. Vabbé mamma, non cominciare con “te l’avevo detto” perché non attacca con me. Va bene? Il giorno in cui mi tratterai non più come un bambino, ti prometto che vado ad accendere un cero alla Madonna. Vabbé, vabbè. Poi chiarisco pure con 49 te. Ciao!”. Chiude seccato scaraventando con altrettanta seccatura il cordless sulla scrivania. Alla stazione degli autobus di Tiburtina, Marco con il biglietto in mano, il trolley e lo zaino a tracolla, si avvia verso il mezzo. Conosce l’autista e si ferma a fare delle battute. Prende posto. Sistema gli auricolari dell’i-pod e chiude gli occhi. Li riapre poco prima di Sicignano. Una coda di auto blocca il loro passaggio. Un viaggiatore seduto dietro protesta:“Siamo alle solite. Da queste parti non è mai possibile preventivare qualcosa. E’ tutto sempre stravolto. Il contrario delle cose normali. Da Roma in su funziona tutto. Qui … no!”. Squilla il cellulare. “Ma’, siamo fermi tra Contursi e Sicignano. Ti chiamo quando si sblocca. Cià.”. Si rimettono in cammino, lentamente, proprio come avviene con tutta la vita del Sud. Dopo un’ora passano la strozzatura stradale per l’incolonnamento a Sicignano. L’andatura ora è continua seppure lenta. Squilla di nuovo il cellulare: “Ma’, tra mezz’ora arrivo.”. Marco è giunto al paese. Esce di casa. Si incammina per una strada di campagna mentre osserva il panorama del Vallo. Si ferma e lo guarda, mentre la sua musica preferita frulla nella sua testa. Arriva dopo qualche minuto in una fattoria. Una stalla con delle mucche, un’aia con galline e conigli in libertà, un fienile, un asino legato ad un anello di ferro fissato ad una parete della stalla fatta di pietre. Suo nonno gli va incontro. Si abbracciano. “Vieni, ti porto da nonna.” Si incamminano lungo un sentiero di campagna e arrivano dove coltivano la vite. La nonna lo vede e lo chiama ad alta voce. Lui le va incontro e quasi la solleva. Si raccontano le loro storie. Marco racconta dell’esame. Poi chiede loro come vanno le cose. I nonni rispondono che sono soli, il lavoro è enorme e fanno quello che possono fare. Il nonno si abbassa, prende una manciata di terra, si avvicina a Marco e dice: “Senti il profumo di questa terra. Ci fa faticare tanto sta terra. Ci fa buttare il sangue, ma ci dice – senti come sono profumata – e già questo ci fa dire che è la nostra terra, che va 50 curata, seguita, lavorata. Anche a costo di sacrifici. E’ la nostra terra. La tua terra.” Dalla tasca dei pantaloni prende una bustina trasparente. La apre, mette dentro la terra, chiude la busta con un nodo e la dà a Marco: “Portatela appresso. Sai tu cosa farne”. Dopo cena, preparata dalla nonna, prima di salutarsi il nonno dice al giovane: “Abbiamo cresciuto un vitello per te. Prima che te ne vai, riempiamo il frigorifero che ti porti appresso quando ti accompagnano a Roma. Va bene? L’altra roba te la conserviamo noi. Poi quando vieni la prossima volta ti porti un altro carico. Va bene?” Marco non può dire di no. Il tempo corre. Al terzo anno di medicina Marco inizia ad entrare in sala operatoria per assistere ad interventi “di poco conto” come si dice nel suo ambiente. Si sa che la chirurgia che può portare degnamente questo nome è quella dei tumori. E’ un grande giorno per lui. Imparerà in questa prima fase “a mettere e togliere i punti”. E poi, indossare il camice verde dei chirurghi con la mascherina a coprirgli la bocca, non gli sembra vero. Durante l’intervento, il chirurgo, di una decina d’anni meno giovane di lui, racconta all’amico anestesista, senza pudore, la sua notte passata con la dottoressa X. Incomincia a fare i paragoni con un’altra donna, l’infermiera Y, con cui era stato la settimana prima. Tutto all’insaputa della moglie, sempre in viaggio per lavoro. “X è bona ma Y te fa sta sveglio tutta la notte, capito? Tutta la notte”, mentre lo dice guarda un’infermiera che gli passa un tampone e a sua volta lo guarda con aria di insufficienza. Marco guarda il volto del paziente. Non sa nulla di lui se non il fatto che è un conducente di autobus della capitale. Marco è a casa, si sta vestendo. Bussano alla porta. Va ad aprire. E’ Giulio con Marilin. Lui sempre palestrato, lei sempre bombasexy. Questa volta è lui che chiede di andare al bagno. Marco va a prendere i soldi mentre Giulio è nel mobiletto del bagno a togliere la mattonella segreta. Prende 51 una busta da cui preleva dei gioielli che ripone in una tasca del borsello. Da un’altra tasca di questo prende dei sostanziosi mazzetti di banconote da cento e li infila in un’altra busta che ripone nel buco. Mette tutto a posto. Aziona lo sciacquone ed esce. Va in cucina dove Marco lo attende mentre conversa con Marilin di problematiche legate alla casa. Giulio fa il monologo come due anni prima. Dice quasi le stesse cose. E’ cambiato solo il tempo che manca affinché Marco diventi medico. “A proposito, ma quella ragazza che ogni tanto ho visto a casa tua? E’ da un po’ che nun a vedo.” “Loredana, sì. Ci siamo lasciati da un po’. Lei è venuta a Roma per studiare. Ha conosciuto uno, un libanese che le ha fatto perdere la testa. Mo sta con lui, mentre i genitori, giù a casa, sanno che studia. M’ha detto che con lui ha provato emozioni che con me non ha mai provato. Mmà, contenta lei. Intanto qui è senza controlli, fa come le pare. Mi dispiace per i genitori, ma anche loro. Per loro è tutto tranquillo. Non sanno niente di questa situazione. Sanno solo che ci siamo lasciati e per giunta loro dicono per colpa mia. Così dice la figlia, così credono loro. Vanno in giro in paese a dire che la figlia sta a “Roma” a studiare. Non sono mai venuti qui. Ho provveduto io il primo anno ad accompagnarla, a seguirla all’università, a portarla dove voleva. M’ha detto che qui si sentiva libera... Ora. Mmà, che ve devo dì. Meglio così. Nun posso sta dietro a sté stronzate. A’ Giulio...” e gli dà una pacca sulla spalla. L’immagine riparte nella stessa aula dove abbiamo vissuto l’esame di Marco. Questa volta è seduto davanti a professori che indossano la divisa delle occasioni importanti. E’ una seduta di laurea. Marco si alza. E’ una persona diversa. E’ consapevole della sua scelta. Porta la barba. I professori gli fanno i complimenti. Viene fatta la proclamazione dal Presidente: “In nome dello Stato la dichiariamo Dottore in Medicina”. Un applauso liberatorio si scatena nell’aula riempita da genitori, parenti, amici, tutti ben vestiti. Per la prima volta si vedono il papà e la mamma di Marco. Si abbracciano. Marco e il papà escono dal ristorante dove stanno festeggiando, al paese, la laurea, con tutti i parenti, gli amici. 52 Il papà lo attacca: “Sei proprio sicuro di fare questa scelta? Hai tutto il mondo in mano, puoi fare quello che vuoi, andare a specializzarti in America, stare lì, anche stare per sempre lì, oppure a Roma. Sai, una cosa è stare a Roma e una cosa è stare qui. Qui non c’è niente, non c’è più niente. Ci sono solo vecchi e gente ignorante. Gli intelligenti sono rari. Lo sai cosa t’aspetta? Delusioni. Sconforto. Qui non cresce l’umanità. Ci vollero i briganti e i piemontesi a distruggere quel poco di buono che forse avevamo. Pensaci bene. Hai una vita davanti. Ma un giorno che ti farai una famiglia e ci saranno dei figli, cosa darai loro, questa valle? Ah, sì, bella. Questi monti? Ah, sì, belli. Il mare qua vicino? Bellissimo anche quello. E le occasioni che puoi dare lì? Scuole, università, lavoro, carriera. Qui dove le trovi? E tu? Che farai, il medico di famiglia? Ma stai scherzando? Dopo tanti sacrifici. Ci siamo fatti in quattro per te e tu che fai? Te ne vuoi venire qui tra questi quattro zulù che non sanno manco fare due più due ?” Marco replica risentito: “Senti, ma che legge è mai questa? Ha senso secondo te fare qualcosa solo perché ci sono sacrifici, lotte dure, notti insonni - dice con senso ironico – se faccio sacrifici, vivo di privazioni fino al raggiungimento di un obiettivo e dovessi accorgermi che quell’obiettivo porta all’annullamento della mia persona, solo perché io o qualcuno per me si è sacrificato devo portarlo avanti. Fino in fondo. Non lo trovo mica esaltante, sai?”. Marco si rasserena e parla con tono pacato: “Tu hai ragione, papà. Qui non c’è niente. L’autostrada è sempre così. La gente è sempre così. Non cambia niente, siamo fermi. Gli zulù, papà, vero?” Il papà annuisce rattristato, amareggiato. Marco prosegue:”Meglio secondo te stare tra gli zulù oppure tra gli zombi? Sapessi papà quanti ne vedo dentro la metropolitana, dentro gli autobus, dentro le auto, sui motorini. Tutti corrono. Verso cosa? Verso il futuro certamente con la speranza che un giorno si possa fare e avere di meglio. Meglio cosa? Londra, Parigi, New York, Harward? Si fugge, papà, si fugge. Dal piccolo paese, dalla cittadina di provincia verso la grande città, verso le metropoli internazionali. Le persone fuggono, i giovani fuggono, le menti fuggono. Sì, lì c’è il meglio. Ma è per caso il meglio sapere che Giulio fosse un usuraio? Nessuno lo sapeva, solo le vittime fino a quan- 53 do lo hanno denunciato. Come ha potuto fare questo? Te lo dico io: con l’anonimato che offre la grande città. Chi dovrei curare io? La tettona della sua compagna, complice, che va dal parrucchiere un giorno sì e l’altro sì perché se lo può permettere visto gli affari del compagno e visto noi fessi che gli abbiamo dato dei soldi fatti di sudore per acquistare quella casa? Oppure, stupidi e stupide come la mia ex che arrivano nella grande città e provano la libertà di fare cosa cazzo vogliono buttando all’aria principi, tradizioni, insegnamenti, tutto? Buttano all’aria tutto. E una volta che si accorgono che sono anonimi, che nessuno può dire loro niente, bé, in quell’istante scocca la scintilla del non ritorno. Si è anonimi e va bene così. Tanto, chi se ne frega. Ti faccio male? Bene, tanto non è colpa mia. E’ la società che è fatta così. Tutti sono così, perché io dovrei fare diversamente. Guarda Loredana: non ci ha messo molto ad imparare la lezione. Oppure stare al fianco del mio tutor di chirurgia, puttaniere con moglie a carico. Anonimi. Zombi. Bé io non voglio fare la stessa fine. E’ vero, tanti miei amici sono stati costretti ad abbandonare il loro paese, la loro città perché qui c’è disoccupazione: quanti cervelli emigrati in cerca di un adeguato posto di lavoro, di riconoscimenti, di uno spazio dove esprimersi, dove poter essere ascoltati”. Marco procede con veemenza: “Quanta ricchezza che non può emergere.” Marco si frena. Placa il suo tono e riprende: “Papà, ricordi quando dovevamo iniziare a pagare il mutuo di casa a Roma? Andrea è stato il nostro primo pensionante”. Il padre annuisce. “Mi ha raccontato che quando era bambino la mamma, maestra lì in paese, gli parlava dei poeti, degli scrittori e gli leggeva i loro scritti come una favola. Quella favola gli è entrata nelle vene, nel sangue, nel cuore, nel cervello. Era venuto a Roma per una supplenza di una cattedra di italiano. Giù al suo paese lo chiamavano il professore. Tutti quelli che incontravano il papà chiedevano del professore, di Roma. Andrea sapeva quanto i suoi genitori andassero fieri di lui. Ma dopo quella supplenza più niente. Per mesi. Andrea cominciò a fare di tutto per mantenersi: persino il dogsitter che era ancora una cosa pulita diceva lui. Non poteva tornare al paese. Spesso si tratteneva agli angoli delle strade e componeva poesie, vendeva 54 versi. Lo fa ancora oggi. Scende dai suoi durante le vacanze, quelle che danno a scuola: a Natale, per Pasqua, in estate. Sapessi, papà, di che cosa è capace Andrea. Quando parla ti cattura, ti affascina, ti fa sentire contento, felice di essere qui, ora, felice di conoscere, di sapere, di ascoltare”. Marco si interrompe. “Qui ci sono gli zulù. Ma gli zulù possono evolvere, papà. E se non c’è nessuno che li guidi, che dia loro un esempio diverso hanno solo due possibilità: o restare zulù oppure fuggire in una città qualunque”. Marco mette le mani in tasca e preleva una bustina trasparente. C’è un nodo che la tiene chiusa. Lo scioglie, apre la busta. Mette il naso dentro e respira piano. Porge poi la busta aperta al padre. “Senti l’odore di questa terra? Me la diede il nonno prima che morisse. Respira. Si sente ancora l’odore. Hai mai provato a prendere la terra di una città? Non c’è, papà. Non puoi prendere una manciata di terra a Napoli, Roma, Milano e sentirne il profumo. Non puoi prenderla e sentirne l’odore perché non c’è terra né odore nella città. E se non c’è terra non vi puoi appartenere, non hai radici. Non c’è la mia terra lì. Papà, non posso preoccuparmi ora di quello che sarà domani. Oggi, ora è il momento di fare una scelta, io so di poter fare una scelta: tra gli zulù, che possono imparare ad evolvere. Vengo tra gli zulù. In fondo, la gente della nostra terra è come i carciofi. Non come i carciofi che trovi su tutte le bancarelle del mondo. No. Come i nostri carciofi bianchi, che nascono e vivono anche spontanei solo nella nostra terra. Altrove no, non ci riescono, salvo interventi esterni. E per me stare fuori da questa terra significherebbe boccheggiare, soffocare. Voglio aiutare questa gente. Non farò grandi cose. Farò solo il mio dovere di cittadino e di medico. Andrò a Roma, Milano, New York per conoscere, approfondire la mia professione, me stesso. Quella conoscenza la impiegherò qui, dove serve. So che stanno andando via tanti. Un altro migrare. Quando il nonno andò in America lo fece per fame, quella vera, che ti fa soffrire fisicamente, deperire, che ti sveglia nel sonno all’improvviso, che ti porta a divorare due maccheroni raccattati per strada, caduti a terra da chissà quale zuppiera colma che non è la tua. Ricordo ancora nonno Vittorio: lo raccontò quando io, ancora bambino, un giorno rifiutai la crostata fatta dalla nonna. Sembrava lo raccontasse a lei, distrattamente, ma io vedevo i suoi occhi luccicare, sentivo la sua voce tremare, esortare. Capivo 55 che quelle parole erano per me. Forse già allora voleva dirmi… voleva dirmi che dovevo custodire…”. Marco stringe il sacchetto contenente la terra. Poi ribadisce: “La migrazione di oggi è dei cervelli, delle menti. Un’altra fame. Cinquanta, cento anni fa le braccia. Oggi le menti. Domani? Basta!” Il padre lo ascolta attento. Marco prosegue: “Mi dispiace per tipi come Vincenzo Esposito, salito a Roma da Napoli a fare il conducente di autobus, il primo paziente a cui ho cucito la pancia. E’ venuto a Roma perché era la prima cosa che ha potuto fare nella sua vita per campare. Sapessi come campa. Non arriva alla fine del mese. La moglie va alla Caritas a prendere i viveri. Sta pensando di trasferirsi in qualche paese vicino Roma dove la vita è un po’ meno cara. Anche lui persiste nella scelta perché poi i figli avranno più opportunità.” Il padre ascolta. “Io verrò qui, in questa terra, a fare il carciofo con il camice. Sì, sarò un carciofo. Bianco però”. L’immagine si porta sul sacchetto di terra che Marco ha ancora in mano e si dissolve fino a far apparire un terreno di carciofi bianchi. Un carciofo bianco risalta in primo piano. Angela Panaro e Antonio Stecca 56 Massimo Bubola: scoperto da Pino Donaggio nel 1976 pubblica il suo primo album Nastro Giallo, con cui si fa conoscere e apprezzare da De André, che gli propone di scrivere assieme alcuni brani poi inclusi in Rimini (1978). La collaborazione con De André continua nel 1980 con Una storia sbagliata, sigla di un documentario-inchiesta sulla morte di Pier Paolo Pasolini e nel 1981 con la realizzazione dei brani per l’album L’indiano. Nel 1981 l’album Tre rose vede lo scambio dei ruoli: De André, con tutta la famiglia (il figlio e la compagna ai cori) è l’ospite d’onore di Bubola. A loro si aggiunse anche Mauro Pagani al flauto. Oltre le lunghe collaborazioni con altri musicisti, Bubola continua a scrivere brani per i propri album: Massimo Bubola (1982), Vita, morte e miracoli (1989 ) Doppio lungo addio (1994). Nel 1995 è la volta dell’antologia di brani Amore & Guerra. La sua prolifica produzione continua con Mon Trésor (1997) e Diavoli & Farfalle (1999). Nel 2002 esce il doppio album live Il cavaliere elettrico – vol. I & II. Del 2004 è Segreti trasparenti, decimo album in studio, dedicato in parte allo stesso De André. Nell’autunno del 2005 Bubola porta a compimento Quel lungo treno, concept album sulla prima guerra mondiale. Della primavera del 2006 è Neve sugli aranci, coprodotto insieme all’amico e collaboratore Michele Gazich, un libro e un cd sui “paesaggi dell’anima”, a metà strada tra poesia e musica, letteratura e note. Oltre che con De André, Bubola ha collaborato con altri nomi della musica italiana: Milva, i Gang, Mauro Pagani, Fiorella Mannoia (celebre interprete de Il cielo d’Irlanda), Cristiano De André, Kaballà, Grazia Di Michele. 57 Federica Pontremoli: nel 2001 esordisce nella direzione di lungometraggi con Quore, di cui ha anche scritto il soggetto e la sceneggiatura. Prima di dedicarsi alla regia ha lavorato a lungo come sceneggiatrice. Nel 1994 è autrice del corto Fratelli, diretto da Paolo Franchi; l’anno successivo firma la sceneggiatura di Il mito della realtà’, diretto da Giuseppe Gandini, vincitore di un “Nastro d’argento” del Sindacato dei Critici Cinematografici Italiani. Nel 2000 firma le sceneggiature del corto E’ estate c’è la guerra e del lungometraggio Sposi fra le nuvole, di Francesco Ranieri Martinotti. Nel 1999 è assistente di produzione di Francesco Ranieri Martinotti nel film Branchie ; nel 2006 firma, insieme a Nanni Moretti e Francesco Piccolo, la sceneggiatura de Il Caimano. Ha lavorato anche per la musica come co-regista e autrice della sceneggiatura dei videoclip Barbara (Voci Atroci), Sei divina e Solo (Sal Vinci) e regista della clip musicale di Gianluca Grigani Il giorno perfetto. 58 Luca Ragagnin: è nato a Torino nel 1965. Ha scritto le raccolte di poesia Biopsie, La Balbuzie degli oracoli e Granny Smith. In versi ha inoltre pubblicato una storia del cinema, Fabbriche Lumière, una storia della televisione, Videre Leviter e le filastrocche per bambini Il libro delle meduse. In prosa ha pubblicato i libri di racconti Adone fatto a pezzi, Anime pixel, Pulci, Viaggi verso la fine, le narrazioni Il piccolo libro degli addii, Linkati Stockhausen, Canzoni da mangiare, Praga alla fiamma, 29 manifesti per le nostre menzogne, la raccolta di testi teatrali Misfatti unici e il romanzo Marmo rosso. Con Gero Giglio ha pubblicato Amori boomerang e con Enrico Remmert Elogio della sbronza consapevole, Elogio dell’amore vizioso e Smokiana. È autore di testi di canzoni per musicisti di varia estrazione. www.lucaragagnin.it Emiliano Amato: (Savona, 1975) vive e lavora a Torino. Tiene corsi di scrittura alla Scuola Holden. Ha collaborato come free-lance con case editrici e agenzie letterarie e scritto sceneggiature per cinema e televisione. Un suo racconto è stato pubblicato nell’antologia Men on Men 5 (Mondadori, 2006). A settembre 2008 è uscito il suo primo romanzo Noi che siamo ancora vivi (Gaffi editore). Alessandro Bignami: (Bologna, 1971) Dopo aver conseguito il Master Biennale Holden nel 1998, si è trasferito a Roma ove vive e lavora come consulente alla programmazione per Raisat Cinema e Rai 4. Dal 2008 fa parte del gruppo di sceneggiatori di “7 vite”, sitcom in onda su Rai 2 giunta alla sua seconda stagione. Ha partecipato alla prima edizione dello Script & Pitch Workshops, in seguito al quale ha sviluppato una sceneggiatura di un lungometraggio che nel 2007 ha ottenuto il Media New Talent Development Fund. Dal 2006 collabora con la Scuola Holden come insegnante di sceneggiatura in corsi e workshop. 59 60 61 I quaderni, sintesi di esperienze, conoscenze e sensazioni che gli autori dei quattro volumi hanno espresso attraverso diverse forme di scrittura creativa, danno seguito all’iniziativa “Intorno al Narrare” che nel periodo intercorso tra Giugno e Settembre del 2007 ha consentito a chi ama e pratica l’arte dello scrivere di potersi confrontare e misurare con autori di fama nazionale ed internazionale e con docenti di scrittura creativa. Cinque incontri e altrettanti laboratori, per descrivere le diverse forme di espressione dell’arte dello scrivere. Così, se Massimo Bubola ha affascinato spiegando, come una canzone ed un testo come quello di Don Raffaè, sia entrato a pieno titolo nel patrimonio melodico partenopeo (nonostante scritto da un veneto come lui e da un ligure di nome Fabrizio De Andrè), se Evelina Santangelo e Gian Mario Villalta hanno esaltato e raccontato minuziosamente il loro approccio a due delle forme più prestigiose e note di scrittura come il “racconto” e la “poesia”, gli incontri con Silvio Perrella e Federica Pontremoli hanno dato modo di condividere la passione ed approfondire il significato del saggio e della sceneggiatura. Ma, forse inaspettatamente, motivo di arricchimento personale e professionale è stato regalato dal confronto con molti dei partecipanti ai laboratori, persone che, oberate dai più disparati impegni lavorativi, non rinunciano ad esprimere tutta la propria vitalità e la propria visione della realtà attraverso l’arte dello scrivere; ed in fondo, questi quaderni, ne costituiscono dei preziosi frammenti. Il responsabile di progetto Pierluigi Picilli 62 Ringraziamenti Si ringraziano per il prezioso contributo, il Soprintendente BAPPSAE di Salerno e Avellino Giuseppe Zampino, il direttore della Certosa di San Lorenzo Giovanna Sessa, il vice direttore Mina Guglielmini Felici, Domenico Anania ed il corpo di guardia per il supporto logistico e organizzativo presso la Certosa di San Lorenzo; la Dielle Impianti Srl per il servizio audio garantito; la Provincia di Salerno ed in particolare l’Assessorato ai Trasporti. Si ringrazia vivamente il Comune di Padula, nella persona del Sindaco Alliegro e del Vice Sindaco P. Imparato e l’Assessore alla Cultura Francesco Vitale per la preziosa collaborazione. Un doveroso ringraziamento va rivolto a tutti coloro che hanno frequentato i laboratori di scrittura, nonché autori della presente collana, e al gruppo di lavoro del progetto che ha preso parte agli eventi. Un ringraziamento anche alla Pro Loco di Padula e a chi ha partecipato e promosso l’iniziativa nel Vallo di Diano. 63 Gruppo di lavoro Canzone: Massimo Bubola, autore Luca Ragagnin, tutor Canzoni e sceneggiature di: Antonio Anzalone Nicol Artdeux Nunzia Castaldo Concetta Cucino Angela Panaro Loris Periani Paola Sacco Antonio Stecca Rosaria Zizzo Foto di Gruppo e della Certosa di Nicol Artdeux Ufficio comunicazione: Carmela Breglia Luigina Martello Salvatore Medici Uffici: Viale Certosa, 1 - 84034 Padula (Sa) tel. 0975.778622 . fax 0975.778866 e-mail: [email protected] sito web: www.dianosostenibile.it Sceneggiatura: Federica Pontremoli, autore Emiliano Amato, Alessandro Bignami, tutor