ANNO XI NUMERO 297 - PAG 3 EDITORIALI L’avanguardia anti Israele D’Alema accusa Gerusalemme per il caos di Gaza, Prodi crede a Bashar N ella cacofonia europea sul medio oriente la voce più stonata è sempre quella dell’Italia. Nessun governo, neppure quello di Zapatero in Spagna, riesce a tenere una linea di equilontananza da Israele con tale costanza come quello di Romano Prodi. Ieri, mentre arrivavano dalla Palestina i dispacci di una crisi sempre più dura e sanguinosa, il nostro ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, a Bruxelles, non ha perso l’occasione per accusare Israele, che lui ritiene evidentemente responsabile anche delle pallottole che i palestinesi sparano ai palestinesi. Se Forza 17 di al Fatah spara sulla guardia del corpo di Haniye a Rafah, questa risponde, un miliziano muore e il figlio del premier palestinese è ferito, D’Alema dichiara che “c’è una responsabilità di Israele che in tutti questi mesi ha tenuto chiuso il valico, di fatto ostacolando la piena attuazione dell’accordo per la libertà di accesso e di movimento a Gaza dei palestinesi”. Hamas e al Fatah tentano di ammazzarsi i leader a vicenda, dunque, perché Israele nega la libertà di movimento ai palestinesi. Un’analisi sublime. Non stupisce che D’Alema consideri ininfluente che Israele abbia chiuso il valico per impedire al premier di Hamas, Ismail Ha- niye, di importare illegalmente 35 milioni di dollari, e che lo abbia fatto in passato per impedire traffici d’armi e di valuta. Non stupisce che, nel desiderio di essere sempre e comunque contro Israele, D’Alema sbagli anche dal punto di vista strettamente tecnico: il valico di Rafah non è sempre chiuso. Il valico di Rafah, su cui c’è una missione di osservatori europei, è stato riaperto il 26 novembre del 2005 e da allora viene chiuso soltanto in caso di emergenza. Romano Prodi non è certo da meno. Dice di dettare l’agenda in Europa e poi apprezza l’intervista che Bashar el Assad ha rilasciato a Repubblica – nella quale il rais siriano spiega perché non si staccherà mai dall’Iran e da Hezbollah e prende pure in giro Unifil, di cui l’Italia prenderà il comando tra pochi mesi – e continua sulla sua strada del dialogo con la Siria, smentito perfino da Jacques Chirac, l’amico francese, che ieri, in sintonia con molti altri paesi europei, ha accusato Damasco e ha appoggiato il governo libanese. Per fortuna poi l’Europa ha dato qualche soddisfazione a Prodi, seguendo il resto dell’agenda anti Israele, ritornando alla solita cacofonia che nulla vede e nulla sente, se non la tanto amata equilontananza. Lezione di socialismo Per Bernanke i consumatori cinesi pagano il cambio truccato dello yuan E’ assai raro che il capo di una banca centrale di un paese capitalista dia lezioni di socialità al governo d’un paese che vanta una base culturale ufficiale comunista. Ma è accaduto a Pechino, col discorso a chiusura di due giorni di colloqui, tenuto dal presidente della Fed Ben Bernanke. Nel testo scritto, Bernanke aveva affermato che la soppressione artificiale del valore della moneta cinese, lo yuan, mediante la manipolazione amministrativa del cambio, costituisce un vero sussidio alle imprese che si focalizzano sull’esportazione anziché sul mercato interno. Nell’esposizione orale Bernanke ha sostituito la parola “sussidio” con la parola distorsione. Ciò ha alleviato il peso della critica, dal punto di vista legale, in quanto l’affermazione del presidente della Fed, teoricamente, potrebbe fornire le basi per misure antidumping da parte di Washington. Inoltre il governo federale potrebbe vedersi costretto ad aprire una controversia presso la Wto, l’organizzazione mondiale del commercio. Washington ha negato di avere esercitato pressioni per la modifica della frase di Bernanke che avrebbe complicato i rapporti commerciali con Pechino. Comunque, il termine “distorsione”, a danno della convenienza delle imprese a operare sul mercato interno, ha reso esplicita l’aspra critica agli effetti di natura sociale che queste manipolazioni monetarie comportano, prima implicita nella frase sulla “sovvenzione” all’export. Bernanke ha infatti argomentato che a causa della distorsione – che danneggia l’investimento nelle produzioni per il mercato interno dipendente dalla sottovalutazione dello yuan, che stimola l’export – i beni di consumo, per le masse lavoratrici cinesi risultano più cari. E poiché anche le merci di importazione – data la sottovalutazione della moneta – risultano più costose, la Cina importa dall’estero inflazione. E ciò erode il potere di acquisto dei salari delle masse lavoratrici. In sostanza, il ragionamento di Bernanke si può tradurre così: “I sussidi all’esportazione, che piacciono tanto agli imprenditori e al governo cinese, sono pagati dai lavoratori cinesi”. Per chi non ha dimenticato il Libretto rosso la critica è molto imbarazzante. I rettori e il ministro del ’68 Mussi prima li ha aizzati, ora li critica, ma naturalmente non si dimette I magnifici rettori degli atenei italiani, in grande maggioranza, circa quarant’anni fa guidavano i cortei di protesta studenteschi. Si vede che, di quella tumultuosa stagione, hanno conservato buona memoria, tanto che la loro intimazione ai ministri a non presentarsi nelle sedi universitarie sembra la negazione della “agibilità politica” alle forze politiche allora di maggioranza nelle assemblee studentesche. Anche il ministro dell’Università, Fabio Mussi, ha vissuto le stesse esperienze, anche se oggi il suo ruolo lo costringe a criticare le minacce dei rettori. Mussi, però, è quello che ha meno titoli per contrapporsi a dichiarazioni estremistiche e inconsulte. E’ stato lui il primo a sostenere che, se nella Finanziaria non si fossero trovati fondi per soddisfare le richieste delle Università, non l’avrebbe firmata e si sarebbe dimesso. Oggi invece, pur ribadendo che mancano le risorse per pagare “affitti, riscaldamento, pulizia delle aule”, non parla più di dimissioni, ma annuncia una conferenza stampa di chiarimento. Insomma il ministro, dopo aver aizzato le proteste, ora si volta dall’altra parte, e anche questo può aver fatto inviperire i rettori. L’unica attenuante che va riconosciuta a Mussi è che il modo in cui sono state gestite le ultime convulse fasi dell’iter della Finanziaria ha tagliato fuori non soltanto il Parlamento, ma gli stessi ministri, che in sostanza non sanno neppure su quale testo hanno autorizzato la richiesta di fiducia. Il caso dell’emendamento sulla riduzione dei tempi di prescrizione per gli illeciti amministrativi, del quale pare nessuno sapesse nulla e che tuttavia è contenuto nel testo del maxiemendamento, parla da solo. Il ministro dell’Università, però, dopo le sue dichiarazioni roventi, aveva il dovere di controllare fino all’ultimo comma gli stanziamenti per il settore di sua competenza. Evidentemente non l’ha fatto o ha preferito non farlo per non doverne trarre le conseguenze che aveva annunciato, e questa, direbbe Totò, non è una cosa seria. IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 16 DICEMBRE 2006 Mediobanca difende Generali. Ma non si sa ancora da chi PIAZZETTA CUCCIA COMPRA LA QUOTA (1,6 PER CENTO) DEL MONTE DEI PASCHI NELLA COMPAGNIA ASSICURATIVA Milano. La cessione della quota detenuta dal Monte dei Paschi di Siena nell’azionariato delle Assicurazioni Generali, quasi l’1,6 per cento del capitale, non era inattesa. Il presidente di Mps, Giuseppe Mussari, l’aveva ripetutamente definita non strategica e i 700 milioni di euro incassati gli consentiranno di porre in essere le strategie necessarie a togliere la sua banca dal catalogo delle prede. Non era atteso, anche se in qualche modo preventivabile, che ad acquistare fosse Mediobanca, che delle Generali è il primo azionista con una quota del 14 per cento circa del capitale. L’acquisto assume un carattere difensivo, se si pensa che Piazzetta Cuccia entrerà effettivamente nella disponibilità delle azioni solo nel 2010. L’impatto della cessione sulla stabilità dell’azionariato della compagnia triestina dovrebbe essere nullo, visto che i senesi hanno conservato fino al 2010 i diritti di voto sulle azioni cedute. Ma il contratto prevede che in caso di opa su Generali, Mediobanca possa esercitare i diritti di voto anche sulle azioni acquistate da Mps. Quindi qualora fosse necessario creare un fronte a difesa dell’italianità della compagnia anche la piccola quota dei senesi potrebbe essere arruolata nelle fila dei nazionalisti. Rimane il problema della stabilità della compagine azionaria alla vigilia dell’assemblea sul bilancio 2006, che si terrà il prossimo mese di aprile e che sarà chiamata alla nomina dei vertici aziendali. Nell’azionariato di Generali, oltre alla Banca d’Italia, che attraverso il fondo pensione controlla il 4,74 per cento del capitale, ci sono Unicredit e Capitalia, cui fa capo rispettivamente il 3,7 e il 3,1 per cento del capitale. Queste azioni, acquistate nel 2003 nella prima campagna per la salvaguardia dell’italianità delle Generali, sono state destinate a un prestito obbligazionario convertibile. Il prestito scade nel 2008 e ha un prezzo di conversione di 28 euro. Tecnicamente, come si dice in gergo, è “in the money”, ovvero ai detentori converrebbe chiedere la conversione, visto che il titolo oscilla intorno a quota 35 euro. Le richieste di conversione, ha affer- mato recentemente Matteo Arpe, finora sono state poche e regolate per cassa. Ciò significa che Capitalia, che ha Generali fra le sue partecipazioni strategiche, ha optato per la consegna agli obbligazionisti di denaro invece che azioni Generali. Da Unicredit non sono giunte indicazioni in tal senso, ma è mol- pari di Premafin della famiglia Ligresti, cui fa capo il 2,4 per cento. Da un punto di vista dei possibili schieramenti, Banca d’Italia, secondo statuto il giudice di ultima istanza in caso di contrasto irredimibile fra i soci, è da considerarsi neutrale, ma con una certa predisposizione per soluzioni italiane. Zaleski Mussari ha venduto per proteggere Siena. Nagel acquista il diritto di voto in caso di Opa su Trieste e si guarda dall’Antitrust. Il peso di Bolloré e di Ben Ammar nelle strategie francesi. D’Alema corteggia Bazoli contro Prodi, forse con l’aiuto del vecchio amico Colaninno che si associa a Zaleski to improbabile che Alessandro Profumo abbandoni le posizioni. Il primo azionista delle Generali è Mediobanca con una quota del 14 per cento circa. Da poco è entrata la De Agostini, alleata del- la banca d’affari diretta da Alberto Nagel, con una quota di poco superiore al 2 per cento, mentre il finanziere Romain Zaleski (di cui il Foglio pubblica oggi un ritratto nell’inserto II), secondo le risultanze Consob, ha una partecipazione del 2,4 per cento circa, ma è stato accreditato di ulteriori acquisti al ha un ruolo potenzialmente bivalente. Da un lato è vedetta del presidente di Intesa Giovanni Bazoli (a tutela dell’accordo di bancassicurazione Intesa-Vita e a presidio dei più vasti interessi bazoliani) dall’altro avanguardia di un’eventuale pattuglia di soci francesi. I rialzi di questi giorni del titolo Generali sono stati spiegati in due modi: c’è chi dice che è stato un arrocco della fazione mediobanchesca (che deve intanto guardarsi dalle attenzioni dell’Antitrust, cui non piace un sospetto di sovrapposizione gestionale tra Mediobanca e Generali), un arrocco cui parteciperebbero fondi ma anche azionisti industriali come Pesenti e Ligresti. Dall’altro qualcuno lo spiega con un rastrellamento da parte di azionisti francesi. In realtà, con l’ultimo acquisto, la quota di azioni triestine coagulata attorno a Mediobanca sarebbe, secondo indiscrezioni finanziarie, prossima al 30 per cento. Questo significa che eventuali scalatori ostili si troverebbero di fronte una forza in grado di bloccare le assemblee straordinarie e quindi ogni variazione sostanziale degli assetti societari. Ma il lato debole dello schieramento rischia di essere proprio Mediobanca. Gli azionisti francesi della banca d’affari, a fronte di una sempre dichiarata fedeltà al management e all’attuale compagine azionaria, con una quota di circa il 10 per cento sono da sempre indicati come una possibile quin- ta colonna. Del pacchetto di soci francesi l’esponente più conosciuto è Tarak Ben Ammar, finanziere tunisino in Italia vicino a Silvio Berlusconi, e in Francia a Vincent Bolloré, uomo chiave nella vicenda Mediobanca. Bolloré è uno di quei personaggi tipici dei grandi romanzi finanziari: bretone, di famiglia molto ricca, che ebbe una fase di declino, ha riconquistato la sua posizione nel mondo. Per conoscere le intenzioni di Bolloré, bisogna seguire le esternazioni di Ben Ammar, che tre settimane fa ha rilasciato un’intervista in cui ha difeso Capitalia, la buona gestione del management di Mediobanca, la disponibilità a tutelarne l’italianità, così come quella delle Generali. Da quando i francesi fecero il loro ingresso nel patto di sindacato di Mediobanca, ci sono voci che li danno più vicini al 20 per cento del capitale – grazie a pacchetti parcheggiati in mani amiche – che al 10 per cento apportato al patto. L’accordo parasociale scade il 1° luglio del 2007, è probabile che il termine sia anticipato al 1° marzo per consentire una ristrutturazione della governance. Qualcuno ritiene che la conservazione dell’italianità del sistema MediobancaGenerali potrebbe passare attraverso un rafforzamento dei francesi in Mediobanca e con l’ingresso di Zaleski nella stanza dei bottoni triestina, in quota bazoliana. A parte i dettagli – che dipenderanno da tante cose – è un po’ il disegno cui ha alluso Massimo D’Alema nell’intervista della scorsa settimana al Sole 24 Ore. Per Mediobanca-Generali serve uno sforzo che non sia solamente di mercato, perché quello è il centro del sistema economico finanziario italiano. Che D’Alema sia attivamente al lavoro nel corteggiamento di Bazoli – cui ha fatto capire di giudicarlo un’entità autonoma rispetto a Romano Prodi – secondo alcuni osservatori sembra confermato da una recente notizia: Roberto Colaninno, manager considerato vicino a D’Alema, è entrato in una piccola finanziaria, la Calisio, creata da Romain Zaleski, il più fedele alleato nella strategia espansionista di Bazoli. Lotta giudiziario-politica dietro le dimissioni del pm Di Matteo Palermo. Che sia persona perbene e in buona fede non si discute. Lo ripetono tutti, in procura, parlando del collega pubblico ministero Nino Di Matteo. Lo ripetono anche quelli che avrebbero motivo di essere risentiti con lui, dopo che la sua decisione di rinunciare alla delega del processo Cuffaro ha di fatto sancito un momento di crisi, probabilmente irreversibile, del pool che ha coordinato le indagini antimafia più importanti di questi ultimi anni. Fra le quali quella sfociata nella cattura di Bernardo Provenzano. Di Matteo non agisce su mandato di qualcuno, ma solo su mandato di se stesso: vuole un’imputazione più grave – concorso esterno anziché favoreggiamento aggravato – nei confronti del presidente della Regione, implicato in un processo di talpe e talponi in cui, secondo la prospettazione dell’accusa, Totò Cuffaro avrebbe spifferato segreti e favorito suoi amici, come l’imprenditore di Bagheria Michele Aiello, manager da 40 milioni di euro all’anno nel campo della sanità; o come Mimmo Miceli, ex assessore recentemente condannato a 8 anni, con l’accusa di concorso esterno in associa- zione mafiosa. Indirettamente, poi, dalle soffiate passate per la bocca del presidente, sarebbe stato avvantaggiato pure il boss di Brancaccio, Giuseppe Guttadauro, beneficiario di una fuga di notizie che segnalò la presenza di microspie a casa sua. Troppo poco concentrarsi su questi aspetti, ha detto e scritto Di Matteo, negli ultimi mesi, ai colleghi Michele Prestipino e Maurizio De Lucia, che con lui condividono la delega sul processo. E nelle scorse settimane ha ufficialmente proposto l’aggravamento del capo di imputazione. La Direzione distrettuale antimafia ne ha discusso a lungo, sotto la direzione di Francesco Messineo. E alla fine si è divisa in due, anzi in tre. Da una parte i pm del pool coordinato dal procuratore aggiunto Giuseppe Pignatone, che hanno chiesto di lasciare il mondo com’è: temono la “martirizzazione” di Cuffaro, il processo-monstre, le difese che, agitando la teoria del complotto, buona per tutte le stagioni, potrebbero strappare l’assoluzione finale. Su una linea mediana stanno alcuni magistrati che su Totò chiedono di riaprire le indagini – già archiviate nel 2005 – sulla ba- se di elementi nuovi. Sull’altro fronte, con Di Matteo, stanno invece molti di coloro che non aspettavano altro che questo momento, il gruppo dei magistrati caselliani, capitanato dal procuratore aggiunto Roberto Scarpinato e dal sostituto Antonio Ingroia. Di Matteo ne fa una questione tecnica, oltre che professionale: perché lui conosce a menadito questo processo e in tutti i filoni collegati (Miceli, Borzacchelli, Ciuro, il maresciallo che stava nella stanza di Ingroia e che passava le notizie ad Aiello) e valuta negativamente, per l’imputato, quanto emerso negli ultimi mesi e quanto potrebbe emergere con nuovi pentiti e intercettazioni. La questione però non è solo tecnica o giuridica. Dallo sfaldamento del pool passa infatti la revanche del gruppo caselliano, che non fa altro che ricordare i fasti del passato ma che a ben guardare, nei processi su mafia, politica e istituzioni, ha ottenuto risultati così così. Una sentenza “a-trasi-e-nesci”, ambigua e un po’ bizantina come quella di assoluzione-prescrizione riguardante Giulio Andreotti. Una serie di assoluzioni o di condanne non ancora definitive (Mannino, Dell’Utri e Contrada, ad esempio). E poi due sole sentenze che certificano, col bollo della Cassazione, la vicinanza alla mafia di un politico e di un poliziotto: Franz Gorgone e Ignazio D’Antone. A livello nazionale, due illustri sconosciuti. Francamente un po’ poco. Lo sfascio del pool passa anche per iniziative isolate di magistrati già vicini a Grasso e Pignatone. C’è chi si è risentito pubblicamente con i colleghi – aggiungendo benzina sul fuoco – per presunte scorrettezze subite. Messineo tace, per ora. I caselliani invece da lui si aspettavano grandi cose, non ultima l’emarginazione di Pignatone. Ma questo finora non è avvenuto. E’ forse per questo, per forzare la mano al procuratore, che è stata fatta filtrare sul Corriere di ieri la notizia delle dimissioni di Di Matteo dal processo Cuffaro. La speranza è di incassare la cambiale in bianco firmata dalle correnti di sinistra nel momento in cui al Csm appoggiarono – in chiave anti-Pignatone – il neoprocuratore. Ma Messineso, riconosce la maggioranza dei suoi colleghi, è persona perbene. E questo non è rassicurante, per chi a Palermo gioca solo allo sfascio. La libertà di pregare in latino nella chiesa. L’appello di Socci Al direttore - Vorrei lanciare un appello al mondo della cultura. A sostegno di una decisione di Benedetto XVI. L’annuncio l’ha dato il cardinale Arturo Medina Estevez, membro della commissione Ecclesia Dei che si è riunita per discutere della liberalizzazione della messa in latino. Il prelato ha detto: “La pubblicazione del Motu Proprio da parte del Papa che liberalizzerà la celebrazione della messa in latino secondo il messale di San Pio V è prossima”. Si tratta di un evento straordinariamente importante per la chiesa e anche per la cultura e la storia della nostra civiltà. Storicamente furono proprio gli intellettuali laici a percepire di più e meglio il disastro, lo scempio anche culturale, rappresentato dalla “proibizione” della liturgia di san Pio V e la sparizione del latino come lingua sacra della chiesa cattolica. Quando 40 anni fa – contravvenendo ai documenti del Concilio – fu imposta la proibizione dell’antica liturgia della chiesa (quella peraltro con cui si era celebrato anche durante il Concilio) vi fu una grande e meritoria protesta degli intellettuali più rappresentativi che consideravano questa decisione come un taglio alle radici della nostra civiltà cristiana (la liturgia è stata da sempre centro e sorgente dell’arte più sublime). Due sordiente, a ventisette anni Marisha Pessl è autrice di settecento pagine E che l’hanno rapidamente trasformata in nuova star della letteratura americana. Centomila copie vendute, la copertina della New York Times Book Review e la solita sarabanda di paragoni tra il suo (ottimo) romanzo di formazione e alcuni mostri sacri della letteratura (anche se è strano che nessuno abbia citato “Dio di illusioni” di Donna Tartt, al quale il libro della Pessl assomiglia non solo nell’ambientazione studentesca, ma nella trama noir che si intreccia alla vicenda esistenziale della protagonista). In ogni caso, per appassionarsi allo struggente, e a tratti esilarante, libro della Pessl, non serve esibire numi tutelari. Bastano la trama e una galleria di personaggi difficili da dimenticare, a partire dalla precoce, vulnerabile e intelligentissima Blue van Meer. E soprattutto conta la qualità della scrittura a un tempo colta, scintillante e autoironica, con un gioco di citazioni in cui i riferimenti dotti si mescolano alle appelli furono pubblicati in difesa della Messa di san Pio V, nel 1966 e nel 1971. Ecco alcuni dei nomi che li sottoscrissero: Jorge Luís Borges, Giorgio De Chirico, Elena Croce, W. H. Auden, i registi Bresson e Dreyer, Augusto Del Noce, Julien Green, Jacques Maritain (che pure era l’intellettuale prediletto di Paolo VI, colui a cui il Papa consegnò, alla fine del Concilio, il documento agli intellettuali), Eugenio Montale, Cristina Campo, François Mauriac, Salvatore Quasimodo, Evelyn Waugh, Maria Zambrano, Elémire Zolla, Gabriel Marcel, Salvador De Madariaga, Gianfranco Contini, Giacomo Devoto, Giovanni Macchia, Massimo Pallottino, Ettore Paratore, Giorgio Bassani, Mario Luzi, Guido Piovene, Andrés Segovia, Harold Acton, Agatha Christie, Graham Greene e molti altri fino al famoso direttore del “Times”, William Rees-Mogg. Si tratta perlopiù di intellettuali laici perché il valore culturale e spirituale dell’antica liturgia latina è un patrimonio di tutti, come lo è la Cappella Sistina, come lo è il gregoriano, come lo sono le grandi cattedrali, la scultura gotica, la Basilica di San Pietro. Tanto più oggi che tutta la nostra civiltà europea rischia drammaticamente di recidere e rinnegare le proprie radici. Curiosamente proprio i “cattolici progres- LIBRI Marisha Pessl TEORIA E PRATICA DI OGNI COSA 693 pp, Bompiani, euro 21 canzoni di Sinatra e alle frasi di film famosi. La storia viene raccontata dalla stessa protagonista un anno dopo che, con una scomparsa inspiegabile, “la sua infanzia si scuce come un golfino impigliato in uno spuntone”. E lei, ormai priva di riferimenti, cerca di trovare le risposte alle domande fondamentali della vita, scrivendo la sua storia e strutturandola come un corso universitario, con tanto di esame finale. In realtà, dopo la morte della madre in un incidente, tutta la vita di Blue è stata molto particolare, trascorsa “on the sisti”, che facevano del dialogo col mondo e con la cultura moderna la loro bandiera, non ne tennero alcun conto e s’impuntarono per quarant’anni per mantenere questa incredibile proibizione. Un arbitrio senza precedenti. Nell’aprile 2005, alla vigilia dell’elezione di Benedetto XVI, sulla Repubblica, fu uno scrittore laico, Guido Ceronetti, che scrisse una lettera aperta al nuovo Papa nella quale chiedeva “che sia tolto il sinistro bavaglio soffocatore della voce latina della messa”. Già da cardinale Ratzinger dichiarò che la proibizione della Messa di san Pio V era senza precedenti: “Nel corso della sua storia la chiesa non ha mai abolito o proibito forme ortodosse di liturgia, perché ciò sarebbe estraneo allo spirito stesso della chiesa”. In un suo volume raccontò con drammaticità come assistette alla “pubblicazione del messale di Paolo VI: “Rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia. Si diede l’impressione che questo fosse del tutto normale”, ma, scriveva Ratzinger “la promulgazione del divieto del messale che si era sviluppato nel corso dei secoli, fin dal tempo dei sacramentali dell’antica chiesa, ha comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano essere road” sulla Volvo blu guidata dal padre. Nonostante l’esistenza nomade, l’educazione di Blue è stata minuziosamente curata da Gareth, carismatico visiting professor di tendenze radicali, che negli interminabili spostamenti da un’università all’altra della provincia americana, ha sciorinato alla figlia le perle del suo sapere, dalla letteratura alle scienze naturali, dalla storia alla critica sociale. Fascinoso e narcisista sciupafemmine al quale le donne si attaccano “allo stesso modo in cui certi pantaloni di lana non riescono a evitare di attrarre la polvere”, Gareth ha la frase giusta per ogni occasione. Mentre per Blue, che cresce colta e solitaria, sono i libri a dare forma alla realtà. La sua esistenza cambia bruscamente a Stockton, quando nel suo ultimo anno di liceo entra a far parte di un gruppo esclusivo di ragazzi perduti e geniali, guidati dall’affascinante e misteriosa professoressa Hanna Schneider. Ma la sconvolgente morte di Hanna la costringe a un drammatico scontro con il mondo reale. solo tragiche… si fece a pezzi l’edificio antico e se ne costruì un altro”. Gli effetti furono disastrosi. Si aprì la strada ad abusi incredibili nella liturgia. Ratzinger scrisse: “Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita ‘etsi Deus non daretur’: come se in essa non importasse più se Dio c’è e se ci parla e ci ascolta. Ma se nella liturgia non appare più la comunione della fede, l’unità universale della chiesa e della sua storia, il mistero di Cristo vivente, dov’è che la chiesa appare ancora nella sua sostanza spirituale?”. Quello stesso Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI, che si prepara a cancellare la proibizione, troverà opposizione anche dentro la chiesa (già preannunciata dai vescovi francesi) e merita una risposta dal mondo della cultura che già quarant’anni fa fece sentire la sua voce. Per questo chiedo agli intellettuali e a chiunque lo voglia di sottoscrivere questo sintetico manifesto: “Esprimiamo il nostro plauso per la decisione di Benedetto XVI di cancellare la proibizione dell’antica messa in latino secondo il messale di san Pio V, grande patrimonio della nostra cultura da salvare e riscoprire”. OGGI – Nord: soleggiato in mattinata sul settore alpino e prealpino; possibili foschie dense e banchi di nebbia in pianura e nelle valli più occidentali. Centro: forti piogge e rovesci sparsi; nuvoloso con deboli fenomeni sul resto dell’Isola. Altrove nubi alte e stratiformi, più dense su Toscana e Lazio. Sud: nubi sempre più compatte sulla Sicilia. DOMANI – Nord: nubi compatte sul levante ligure con piogge sparse. Nuvolosità irregolare altrove. Centro: perturbato al mattino sulla Sardegna sud-orientale, con fenomeni localmente intensi. Piogge sparse sull’Elba. Sud: coperto su tutte le regioni, specie sulla Sicilia.