Federazione Italiana atti del XXiII convegno nazionale LA MISSIONE DELLA CHIESA IN UN MONDO CHE CAMBIA aSSISI Domus laetitiae 21 - 24 novembre 2012 Unione Apostolica del Clero Via Teodoro Valfrè, 11/int. 9 00165 - ROMA - RM Tel./Fax 06 632299 e-mail: [email protected] web: www.uac-italia.it INDICE Presentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 5 Programma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . “ 9 Prima relazione: Antonio Nizzi La Chiesa in un mondo che cambia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . “ 13 Seconda relazione: prof. d. Nunzio Capizzi La missione della Chiesa: dalle origini ai nostri giorni . . . . . . . “ 29 I partecipanti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . “ 51 PRESENTAZIONE Questo libretto riporta le due relazioni del convegno nazionale 2012 che aveva come tema generale La missione della Chiesa in un mondo che cambia. Con esso l’Associazione concludeva una riflessione sulla Chiesa - vista come mistero, comunione e missione – voluta dall’assemblea generale del 2010. E’ stata dunque la “missione” il punto focale delle relazioni che pubblichiamo per rendere, come facciamo ormai da molti anni, un servizio culturale non solo ai soci dell’UAC, ma anche a chiunque ami ampliare la conoscenza dell’attuale situazione della Chiesa e del mondo in cui si svolge la missione evangelica. Cultura post-moderna La prima relazione – la Chiesa, in un mondo che cambia – è del folignate prof. Antonio Nizzi, docente di filosofia e giornalista. Essa merita di essere attentamente letta perché evidenzia alcuni peculiari tratti dell’attuale cultura – il cosiddetto “pensiero debole” - la cui conoscenza è indispensabile a chi voglia dialogare con l’uomo contemporaneo ed evitare il rischio di utilizzare ammuffiti, e quindi inefficaci, strumenti comunicativi. Nel passato, la Chiesa ha dovuto tener conto soprattutto delle diverse situazioni geografiche in cui si trovava ad annunciare il Vangelo (si pensi ai variegati territori di missione), ma i sistemi valoriali e le condizioni sociali erano sostanzialmente omogenei, almeno in occidente. 5 Oggi invece, di fronte a epocali sconvolgimenti antropologici, la Chiesa deve ri-calibrare sostanzialmente la sua azione pastorale, restaurando ab imis fundamentis metodi, strumenti, segni, gesti ecc., pena la sua insignificanza. Tutto questo, più che ostacolo all’annuncio dev’essere sentito come stimolo per capire le domande (magari contorte, contraddittorie e confuse) dell’uomo di oggi. “Ogni tempo ha le sue ricchezze e le sue miserie - afferma il relatore. Ogni tempo lancia segni che vanno ascoltati. Ogni tempo è distante e lontano. Ogni tempo e favorevole e propizio per incontrare Dio, per ascoltare colui che sta alla porta e bussa e aspetta e fa nuove tutte le cose”. Ed è con questo tempo e con questo mondo che dobbiamo misurarci portando la parola viva del Vangelo. De-clericalizzare la missione La seconda relazione - La missione della Chiesa: dalle origini ai nostri giorni – è di d. Nunzio Capizzi, docente di teologia dogmatica nello Studio San Paolo di Catania e nell’Università Gregoriana. Alcuni punti evidenziati dal relatore: – la riflessione di molti cristiani è oggi troppo spesso ripiegata sui problemi della Chiesa; – l’impostazione pastorale è ancora fortemente determinata dall’antico paradigma della “missione compiuta”; – non è comune la consapevolezza che tutti sono chiamati alla missione; – noi preti preferiamo spesso la logica non della missione, ma della semplice cura animarum arenata in questioni intraecclesiali; – eccedenza dell’aspetto organizzativo per cui, ad esempio, più che parlare con i giovani, si parla di eventi da progettare per loro; – sembra esserci una rimozione del capitolo secondo della Lumen gentium così che, quando la Chiesa si clericalizza, il clero si professionalizza e ai fedeli laici non rimane altro che eseguire le direttive. 6 Il relatore ha citato, a questo proposito, un’affermazione del sottoscritto tratta da un recente ‘editoriale’ pubblicato sulla rivista associativa: «l’azione pastorale è talmente decisiva, per la vita della Chiesa, che non si può non parlarne con tutti i battezzati. Anzi, più numerosi sono coloro che s’interrogano su contenuti, modalità e mezzi della vita pastorale, meglio è. Tenendo anche presente l’antico adagio latino, ripreso dal vigente Codice di diritto canonico, per il quale “quod omnes uti singulos tangit ab omnibus approbari debet” (can. 119,3)». Vittorio Peri presidente nazionale UAC 7 XXIII Convegno nazionale LA MISSIONE DELLA CHIESA IN UN MONDO CHE CAMBIA Assisi, 21 - 24 novembre 2012 - Domus Laetitiae PROGRAMMA Mercoledì 21 Pomeriggio: arrivi e accoglienza 18:30 – Celebrazione dei Vespri e dell’Eucaristia. Presiede mons. CARLO GHIDELLI, arcivescovo emerito di Lanciano-Ortona, membro del Centro Studi dell’UAC 19:30 – Cena 21:00 – “Caminetto” di reciproca presentazione Giovedì 22 8:45 9:30 – Celebrazione delle Lodi – Prima relazione: La Chiesa, in un mondo che cambia. Prof. ANTONIO NIZZI, docente di storia della filosofia 11: 00 – Confronto con il relatore 13:00 – Pranzo 15:30 – Incontro con il dott. MATTEO CALABRESI, responsabile del Servizio CEI per la promozione del sostegno economico alla Chiesa 16:30 – Cenacoli. Preghiera dei Vespri 18:00 – Celebrazione dell’Eucaristia. 19:30 – Cena 21:00 – Serata artistica al Teatro Comunale Metastasio 9 Venerdì 23 8:30 9:30 11:30 13:00 15:30 18:30 19:30 21:00 – Celebrazione delle Lodi – Seconda relazione: La missione della Chiesa: dalle origini ai nostri giorni. Prof. NUNZIO CAPIZZI, docente di teologia dogmatica – Confronto con il relatore – Pranzo – Cenacoli. Preghiera dell’Ora nona – Celebrazione dei Vespri e dell’Eucaristia – Cena – Incontro conclusivo Sabato 24 7:30 10 – Celebrazione delle Lodi e dell’Eucaristia. Presiede mons. VITTORIO PERI, presidente nazionale Colazione e partenze. Prima relazione LA CHIESA IN UN MONDO CHE CAMBIA ANTONIO NIZZI* Una premessa Mi si chiede di delineare alcuni tratti della cultura post-moderna con cui la Chiesa deve fare i conti nella sua azione missionaria. Credo che sia oggi ineludibile dare risposte a domande come queste: nella condizione culturale post-moderna c’è ancora spazio per la ricerca della verità? E per i preambula fidei? Un “pensiero debole” può diventare un pensiero religioso? Come è possibile credere, pensare Dio e annunciarlo, dopo le filosofie del secondo ‘900 che hanno prodotto la caduta di tanti assoluti? O è proprio la fine degli assoluti umani, che può portare l’uomo ad interrogarsi in maniera nuova sull’Assoluto, sul Dio di Gesù Cristo? Quando si parla di post-modernità abbiamo a che fare non soltanto con modi di pensare, con filosofie e culture fatte proprie da ristrette elites, quanto piuttosto con condizioni sociali, atteggiamenti, mentalità e costumi sempre più di massa, sempre più in grado di plasmare le nuove generazioni. La tesi che voglio argomentare, o meglio, il messaggio che voglio dare, è questo: la post-modernità è una sfida, ma è soprattutto una chance per la Chiesa di oggi; è un’ esperienza di sofferenza, ma anche una grande opportunità per la nuova evangelizzazione e per il rinnovamento della Chiesa che passa anche attraverso la testimonianza offerta dalla vita dei credenti” (Benedetto XVI, Porta fidei) * Docente di storia della filosofia. 13 Prima relazione: Antonio Nizzi Come il XX secolo è passato dalla modernità alla post-modernità Chiariamo i termini. Oggi, si dice, viviamo nel post-moderno. C’è l’idea cioè che la cultura moderna - iniziata con il Rinascimento, con Galilei e Cartesio, affermatasi con l’illuminismo e culminata con i grandi sistemi filosofici dell’ Ottocento - sia entrata in crisi, sia finita, e che la nostra epoca rappresenti una rottura radicale con la modernità e con i suoi tratti costitutivi: come, ad esempio, la dissoluzione del valore del nuovo rispetto al passato e, dunque, del progresso, della storia, dell’avvenire. Il termine post-moderno - per quanto discusso e discutibile - vorrebbe dire, insomma, che questa nostra epoca è diversa e senza rapporti di continuità con la precedente. Ma quali sono stati i caratteri della modernità? – La centralità dell’uomo come soggettività e ragione, come forza attiva e trasformatrice del mondo – L’uomo è proteso a dominare la natura e la realtà tutta, attraverso una ragione strumentale – La ragione è l’unica autorità a cui l’uomo si affida nella ricerca della verità e nella regolazione della sua vita. E’ una ragione che, in genere, cerca il fondamento non più in Dio o nell’essere, ma nell’uomo e segue modalità proprie della scienza. – La storia è vista come sviluppo progressivo e lineare verso una realizzazione piena dell’uomo e del futuro collettivo. C’è fiducia nel progresso, perché si ritiene che il cambiamento e le novità rappresentino sempre un miglioramento rispetto a ciò che precede. – C’è l’idea che la politica possa dominare l’onda lunga della storia e realizzare il fine che questa ha in sé (e cioè la realizzazione piena dell’uomo), magari – come pensava il marxismo - eliminando gli ostacoli e abbreviando le doglie del parto. – La secolarizzazione come tendenza a pensare e vivere il mondo naturale e umano prescindendo da Dio, almeno come ipotesi di lavoro: etsi Deus non daretur. 14 La Chiesa in un mondo che cambia Nel ‘900 è iniziata la revisione critica della modernità: – I maestri del sospetto hanno messo sotto processo l’immagine di una coscienza limpida, demiurgica e onnipotente – Dopo la Shoah, il dramma dei regimi totalitari e della seconda guerra mondiale si è parlato e scritto sulla “eclissi della ragione”, sulla pericolosità di una ragione strumentale lasciata a se stessa, che non bada alla razionalità dei fini, ma solo all’ efficacia dei mezzi. La stessa Shoah è un paradigma della modernità, più che una sua negazione o deviazione. – Le filosofie esistenziali di fronte al dramma dell’esistenza hanno messo in guardia da facili soluzioni di carattere storico e mondano – L’epistemologia, cioè la riflessione sulla scienza, ci ha detto che le conoscenze scientifiche non ci danno mai fondamenti certi e definitivi, perché ogni teoria, sebbene al momento confermata, resta sempre smentibile. – Le grandi certezze dell’800 - come l’idealismo, il positivismo, il marxismo – hanno ceduto il campo a molteplici forme del pensiero negativo e critico: un modo di guardare il mondo e la storia per il quale non esistono più conoscenze valide per tutti, leggi universali o visioni del mondo e della vita valide in assoluto. Si è avuta così la perdita delle grandi narrazioni, cioè delle grandi ideologie: è venuto meno il senso della storia e la stessa idea di futuro collettivo è diventata anch’essa sfuggente, perché gli uomini sembrano non avere più valori comuni capaci di integrarli tra loro. E siamo così arrivati al cuore della post-modernità. Vediamone alcuni tratti, magari tenendo sott’occhio quelli che l’attuale Pontefice con grande acume e coraggio intellettuale sollecita a confrontarsi con la pedagogia del Cristianesimo: – La ricerca filosofica rinuncia a raggiungere i fondamenti della realtà; abbandona una concezione razionale della verità e del mondo, ritenuta non più raggiungibile e comunicabile, a favore di una esperienza estetica o retorica, cioè debole della verità. Il linguaggio non è ritenuto più oggettivo, ma ermeneutico, perché il nostro comprendere è sempre interpretare, un’interpretazione aperta e senza fine. 15 Prima relazione: Antonio Nizzi – Il pensiero si è fatto debole e frammentario, rifiuta i sistemi di valore che in passato ispiravano una visione forte del mondo. Qualcuno ha scritto di recente “Contro l’etica della verità” a favore di “un’etica del dubbio” (G. Zagrebelsky) – La razionalità, una volta illuminista, non progetta più: decostruisce, demistifica, non ha disegni generali, ma analisi settoriali. Ha lasciato il campo alla scienza, la quale però sa di essere incompetente sui valori e sugli obiettivi e si limita a indicare strumenti e tecniche operative. La ragione, che ieri aveva delegato alla ideologia, oggi delega alla tecnologia. E la tecnica diventa strumento di dominio, un pensiero unico che si è preso il compito di pianificare la vita delle persone e della società in maniera quasi totalitaria. – Dopo la morte di Dio si parla oggi di morte dell’uomo, di impossibilità di riconoscere all’uomo un’identità sua propria, un suo statuto ontologico. Sull’uomo sono possibili opinioni e punti di vista, non verità o certezze. Più che la sua essenza, interessa il suo divenire, l’insieme delle sue possibilità e sperimentazioni. L’uomo è come un icerberg : è fatto, è condizionato, è agito da altre forze che stanno sotto la sua coscienza, la sua soggettività, sulla quale tanto aveva investito la modernità. – L’uomo è divenire, ma la verità dell’uomo sta più nella sua storia passata che nel suo futuro, o nel suo progetto. E allora, per conoscere l’uomo bisogna decostruirlo, smontarlo, perché quello che lui è dipende dalla genetica, dall’ambiente, dalla tradizione, dalla cultura. Smontandolo, possiamo capire da dove viene, non certo dove sta andando, né tanto meno dove debba andare. L’uomo non è più mistero, ma un oggetto complicato. Possiamo anche sperimentarlo e costruirlo con la biologia e l’ingegneria genetica, senza però poter dire se tutto questo è bene o è male, non avendo più l’esistenza umana una consistenza e un valore ultimo. I valori sono ritenuti proiezione di bisogni. L’uomo è le sue esperienze, è i suoi bisogni. Sono questi che contano. E a questi si chiedono risposte da parte della politica e del diritto, della produzione e della scienza. C’è una mentalità tecnocratica che dice: “tutto ciò che è possibile è lecito”. E c’è una cultura dei diritti individuali che dice: “tutto ciò che io desidero è bene”. 16 La Chiesa in un mondo che cambia – Infine è venuto meno il senso razionale della storia. Non c’è più l’idea di una storia vertebrata e unificata da una traguardo, o l’idea di un futuro collettivo. Tutto sembra contingente e sfuggire al controllo degli uomini. La parola speranza è assente da un bel po’ di tempo dal vocabolario. Scrive Remo Bodei: “Sono in pochi oggi a credere, per ragionamento e non per fede, che la storia abbia un senso. Se ne dubita a causa dello scadere delle pretese avanzate da quelle filosofie della storia che dominavano il nostro panorama mentale. La loro promessa di svelare il corso degli eventi passati e o le mete future … le attese di mutamento rivoluzionario o di progresso si sono rivelate tutte fallaci … Ne è seguita una delusine amara, che si rovescia in volontà sorda di negare ogni senso alla storia” (Se la storia ha un senso). E lo storico E. Hobsbawm aggiunge: “Il secolo breve è terminato lasciando aperti problemi per i quali nessuno ha o neppure dice di avere le soluzioni. Il futuro non può essere una continuazione del passato e vi sono segni … che noi siamo giunti a un punto di crisi storica. Le forze generate dall’economia tecnico-scientifica sono ora abbastanza grandi da distruggere l’ambiente, cioè le basi materiali della vita umana … il mondo rischia sia l’esplosione che l’implosione. Il mondo deve cambiare. Non sappiamo dove stiamo andando” (Il secolo breve). Come leggere e valutare, dal punto di vista dell’insegnamento del Vaticano II, la post-modernità Il Concilio insegna che tra Chiesa e mondo non c’e contrapposizione o tutela, o fuga da esso, ma mutua relazione. Non c’è contrapposizione: perché la Chiesa si contrappone solo alle espressioni di peccato. Non c’ è tutela: perché la Chiesa non si sostituisce al mondo. Non c’è fuga: perché la Chiesa è nel mondo sacramento di salvezza. E’ al servizio del Regno. La Chiesa non è il regno di Dio, ma il suo strumento itinerante che deve tendere all’unione di tutti gli uomini con Dio. Da qui gli atteggiamenti di dialogo, di servizio, di fermento e di fedeltà all’uomo del nostro tempo. Assumere il mondo non significa però inginocchiarsi o conformarsi 17 Prima relazione: Antonio Nizzi ad esso, significa anzi recuperare una permanente funzione critica della fede e della Chiesa nei confronti di qualsiasi ordine sociale, politico e culturale, mai sacralizzabile e dunque sempre provvisorio ed imperfetto. Occorre discernimento: non tutto nella storia concorre all’avvento del regno di Dio; la realtà del peccato si annida nel cuore degli uomini e nelle stesse strutture sociali, limitando ogni progetto umano. E’ difficile a volte saper riconoscere il volto della salvezza tra le pieghe della storia e i suoi mutamenti sociali e culturali, a volte così inattesi e inquietanti, come quelli di oggi. Eppure, occorre leggere e interpretare i segni dei tempi, perché sia fecondo il dialogo con cui la Chiesa arricchisce e trasforma il mondo con la salvezza che il Signore le ha affidato. Assumere il mondo significa elevarlo, stimolarlo, farlo crescere secondo lo spirito del Vangelo che, in Cristo, vuole tutti gli uomini salvi. Il Vangelo trova sempre davanti a sé condizioni di vita mutate e contesti storici diversi, che non vanno però visti come ostacolo all’annuncio e alla testimonianza, piuttosto come stimolo per capire le domande (magari domande contorte, contraddittorie, confuse, sopite) dell’uomo di oggi. Ogni tempo ha le sue ricchezze e le sue miserie. Ogni tempo lascia dei segni che vanno ascoltati. Ogni tempo è distante e lontano, eppure ogni tempo e favorevole e propizio per incontrare Dio, per ascoltare colui che sta alla porta e bussa e aspetta e fa nuove tutte le cose. Dopo tutto, è con questo tempo e con questo mondo che dobbiamo misurarci. Noi genitori lo sappiamo bene: è con i nostri figli che dobbiamo stare, anche quando fatichiamo a capire, a condividere, anche quando tocchiamo con mano i nostri insuccessi e le nostre attese irrisolte. A noi genitori, come a voi sacerdoti, il lamento e il rimpianto non pagano. E il senso di colpa o di inadeguatezza è altra cosa rispetto alla povertà della nostra fedeltà e della nostra testimonianza, di cui dobbiamo chiedere perdono al Signore. Nei grandi e rapidi cambiamenti di cui prendiamo atto ogni giorno, sappiamo, come Chiesa, di non poter più contare sulla continuità pastorale rispetto al passato. Ma il posto della Chiesa e dei credenti è proprio dentro questo tempo, portando con sé la parola viva del Vangelo e la testimonianza. 18 La Chiesa in un mondo che cambia La risposta dei cristiani alla post-modernità: ridestare il pensiero critico Possiamo discutere le ambivalenze e cioè le tendenze positive che vi possiamo scorgere e che ci sono e, insieme, i presupposti ingiustificati e i rischi di non poco conto per il futuro. Immaginiamo, per esemplificare, di fare una disputatio tra un sostenitore convinto della cultura post-moderna e un cristiano critico. Il primo dirà senz’altro: avendo abbandonato un modello di ragione forte, la mia è una cultura aperta e plurale, tollerante e democratica, senza fondamentalismi; svincolata da un unico modello culturale-ideologico, la mia cultura è libera dalla violenza, dagli atteggiamenti di omologazione. Rispondo: non ricercando più una verità che vada oltre l’ambito della metodologia scientifica, tu rinunci alla ricerca, alla conoscenza razionale più profonda, al pensiero critico, dimenticando quello che Enstein diceva della scienza: “la scienza non può guidare l’uomo, può solo servirlo, perché essa ha una vista acuta quanto ai metodi e agli strumenti, ma è cieca quanto ai fini e ai valori”. E ancora: violento rischi di essere tu che, non ammettendo alcun criterio di significanza e di verità, rinunci a comunicare e, negando la distinzione tra vero e falso, non ammetti di poter essere colto in errore. La tua cultura della frammentazione non permette di riconoscere principi e valori comuni. Il fascino per tutto ciò che è debole, mutevole e relativo sta spingendo l’uomo di oggi, i giovani soprattutto, ad un pensiero negativo che marginalizza la speranza e non dà alternative, lasciandolo in balia dei condizionamenti sociali dominanti e del consumismo. Ma c’è anche un’altra critica più seria che il cristiani critico può fare: il pensiero post-moderno rischia di essere evasivo non solo nei confronti della ragione, ma soprattutto verso la vita umana e la storia, verso i sacrifici e le responsabilità che il nostro tempo esige. La scienza e la tecnologia ci propongono oggi il problema della vera natura dell’uomo, della sua identità personale, del valore della vita. E non è mandando in vacanza la ragione o nascondendo le domande di fondo che si risponde a tale esigenza. 19 Prima relazione: Antonio Nizzi Infatti, chiedo: quale umanesimo può rispettare e promuovere l’identità dell’uomo? E come è possibile pensare ad una globalizzazione senza umanesimo? E infine, in base a quali valori possiamo costruire l’alternativa ad una mentalità piattamente tecnocratica? Insomma, in un’epoca di pensiero unico, il nostro impegno culturale di credenti dovrebbe essere quello di ridestare, laicamente, il pensiero critico. Cambiamenti culturali e vita religiosa in Italia Ma la domanda più importante e ineludibile, per noi cristiani, è questa: quali possono essere i rapporti tra post-moderno e fede religiosa? Vediamo. La Chiesa tra ‘800 e ‘900 si è dovuta confrontare duramente con la ragione forte di filosofie sostanzialmente atee (idealismo, positivismo, marxismo), che di fatto abusavano della ragione. Tramontate queste, la Chiesa deve confrontarsi oggi con lo scoramento rinunciatario del pensiero debole e nichilista. Forse questo è più insidioso e pervasivo, perché diventa fenomeno di massa. Eppure il pensiero debole di per sé non nega lo spazio alla fede. E’ un pensiero che può risvegliare la disponibilità dell’attesa e magari l’invocazione di un senso assoluto non più costruibile dall’uomo e di una verità e di una salvezza che vengono incontro come dono dal futuro. Abbiamo detto: può. Ma è certo che oggi la crisi di fede c’è. Ed è certo che l’ambiente culturale non è più omogeneo con la Chiesa. Ce lo ricorda con molto realismo papa Benedetto XVI, il quale, presentando l’Anno della fede (27 gennaio 2012), descrive così il nostro tempo: “In vaste zone della terra la fede corre il pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più alimento. Siamo davanti ad una profonda crisi di fede, ad una perdita del senso religioso che costituisce la più grande sfida per la Chiesa di oggi. Il rinnovamento della fede deve quindi essere la priorità nell’impegno della Chiesa intera ai nostri giorni …”. Il Pontefice lo ribadisce anche in Porta fidei: “Capita ormai non di rado che i cristiani si diano maggiore preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare la fede come un presupposto ovvio del vivere comune”; ma “questo presupposto non solo non 20 La Chiesa in un mondo che cambia è più tale, ma spesso viene perfino negato. Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di un profonda crisi di fede che ha toccato molte persone” (n.2). Anche in Italia - dicono i Vescovi - la fede non è più di maggioranza, non gode di privilegi, non è più nemmeno combattuta, come una volta; piuttosto c’è indifferenza e sospensione di giudizio, c’è un Dio generico e perfettamente integrato con la vita ordinaria; anche se non manca in persone e gruppi il coraggio di vivere come minoranza significativa e intraprendente questo nostro tempo religioso così complesso. Il consumismo è penetrato molto, ha fiaccato le coscienze, ha stravolto sistemi di vita, ha mondanizzato la fede, ha portato in molte fasce di popolazione, specie giovanili e colte, quasi ad un divorzio dal cristianesimo ufficiale e dalla Chiesa senza eccessive polemiche o risentimenti, spesso senza che ce ne siamo resi conto davvero. Hanno avuto molta fortuna in questi mesi due libri – quasi due provocazioni salutari - di Don Armando Matteo sul difficile rapporto tra i giovani e la fede (La prima generazione incredula) e sul difficile rapporto delle donne con la Chiesa (La fuga delle quarantenni). Ma io consiglierei anche la lettura dell’ultimo libro di Franco Garelli, Religione all’italiana. L’anima del paese messa a nudo (il Mulino). Per il nostro sociologo, l’Italia religiosa farebbe eccezione nel panorama europeo per diversi motivi: a) perché, nonostante la secolarizzazione, il sentimento religioso e il legame con il cattolicesimo restano particolarmente diffusi; b) perché, a dispetto della crisi di molte forme associative, i gruppi religiosi e il volontariato sociale di matrice cattolica hanno ancora un ruolo di rilievo nel paese; c) perché la cultura cattolica mantiene una sua vitalità e consistenza soprattutto nell’ambito della società civile. Tra i temi trattati, passibili di verifica da parte di voi sacerdoti, ne richiamo alcuni: l’emergere di una fede più dubbiosa che certa e l’adesione selettiva alle credenze fondamentali; gli alti e i bassi del vissuto religioso; il grado di fiducia – che è niente male - degli italiani nella Chiesa cattolica; l’ascolto o meno – questo sì che fa discutere - degli appelli pubblici della gerar21 Prima relazione: Antonio Nizzi chia in campo sociale ed etico, più graditi i primi (quelli sulla solidarietà, il bene comune, la legalità) meno i secondi (sui temi di inizio e di fine vita, della bioetica, dell’ingegneria genetica); la crescita del pluralismo religioso definito quasi “bricolage religioso”. La ricerca dice che molti italiani continuano a riconoscersi a vario titolo nella religione cattolica, pur crescendo quanti si identificano in altre fedi, o si dichiarano “senza religione” o specifica appartenenza ecclesiale. Rispetto ad altri paesi europei, da noi il sentimento religioso è più diffuso e maggiore è la presenza ai riti; c’è un più forte bisogno di sacro e di figure religiose carismatiche (i leaders hanno seguito); cresce anche un senso di “appartenenza senza credenza” (si trovano qui i cosiddetti “atei devoti” e quanti, percependo una società in crisi di valori, sono portati a vedere nella religione quasi un mezzo per ottenere alcuni effetti sociali). La parrocchia è un’istituzione al di sopra di ogni sospetto. I parroci passano, ma guai a toccare le parrocchie. Grande la visibilità dei Pontefici e la percezione del loro impegno, piuttosto modesta quella dei Vescovi. Diverse risultano le “anime” cattoliche presenti nel paese: per convinzione o per tradizione, più distanti dalla Chiesa o più vicine ad essa, più attaccate al passato o in ricerca di nuove forme di spiritualità. E ancora: molte persone si definiscono cattoliche pur vivendo in modo secolarizzato, emergono forme di individualismo religioso e di spiritualità alternativa, ma crescono anche gruppi di fedeli laici particolarmente impegnati. Insomma, anche in Italia “la religione ha perso il vincolo dell’osservanza per diventare sempre più oggetto di preferenza”. Ma la grande maggioranza degli italiani rimane ancorata ai valori della tradizione religiosa, ritenendo il cattolicesimo – commenta l’Autore “un affare troppo di famiglia per liberarsene a cuor leggero, per confinarlo nell’oblio, o relegarlo in soffitta; o troppo intrecciato con le vicende personali per poterne fare a meno nei momenti decisivi dell’esistenza”. Nella società dell’insicurezza, la tradizione religiosa colmerebbe i limiti di una cultura laica in difficoltà ad offrire risorse competitive sul significato ultimo della vita e del futuro. Inoltre, in questo tempo di difficoltà sociale e di precarietà, si guarderebbe con nuovo interesse – si badi bene: più dal 22 La Chiesa in un mondo che cambia paese reale che dal paese intellettuale, più dalla gente che dai giornali che contano – al protagonismo pubblico della Chiesa, per i suoi servizi, le sue figure più carismatiche e quanti operano in termini costruttivi sul territorio, accompagnando la gente nelle diverse stagioni della vita e producono legami di solidarietà. “Saremmo di fronte ad una via italiana alla modernità religiosa, che da un lato riflette le istanze tipiche del vivere in una società pluralistica e dall’altro le compone dentro la lunga tradizione di cultura e di socializzazione religiosa tipica del nostro paese”. Anche l’inchiesta del prof. Garelli, dunque, conferma che da noi il rapporto tra ambiente socio-culturale e Chiesa è davvero complesso e ambivalente. Si riconosce alla Chiesa – e in genere lo si apprezza, come abbiamo visto – il suo ruolo educativo e di servizio sociale, il suo volontariato diffuso, ma con un’appartenenza parziale e condizionata e con riserve e critiche su diversi aspetti della dottrina cattolica. Si vorrebbe – soprattutto da chi non è molto inserito nella vita ecclesiale - una Chiesa presente, magari benedicente, ma possibilmente silente: o meglio, non c’è accordo su cosa la Chiesa dovrebbe principalmente dire, su quali comandamenti insistere maggiormente. E così, per alcuni, la Chiesa parla poco, per altri, troppo. Per alcuni, dovrebbe insistere soprattutto su alcune cose, lasciandone perdere altre, per altri andrebbe bene l’esatto contrario. E così, plausi e mugugni sugli interventi del magistero si rincorrono e si intrecciano facilmente, dai massmedia arrivando agli stessi fedeli. Questo sta a significare che non possiamo più presupporre un ambiente culturale ancora omogeneo con la Chiesa, le sue presenze, il suo insegnamento, i suoi orientamenti morali. Piuttosto, anche il nostro paese è attraversato da correnti di scetticismo, di rifiuto, di soluzioni alternative e opposte al messaggio cristiano, di nuovi stili di vita allettanti per ogni gusto. Basti pensare a questioni come il nascere e il morire, la sessualità e l’amore, la famiglia e la genitorialità, i diritti soggettivi e la solidarietà, la libertà e la responsabilità, l’etica e la tecnica, la politica e la giustizia. Soprattutto tra i giovani stanno nascendo nuovi pregiudizi, quelli che vedono la Chiesa come repressiva e illiberale, non più nel senso di nemica 23 Prima relazione: Antonio Nizzi della scienza, di ignorante, ma di nemica della natura, dei desideri, dei bisogni e delle voglie da soddisfare. E questo può succedere non tra i lontani, ma anche nei nostri ambienti più vicini. E dobbiamo riconoscere che su questo piano siamo ancora impreparati e indecisi sul da farsi. Nella crisi c’è la responsabilità dei credenti La crisi c’è: viene da lontano; ma più che dal mondo in cui viviamo, forse viene anche dal modo in cui noi adulti abbiamo vissuto, trasmesso e testimoniato (male) la fede. Un esame di coscienza personale ed ecclesiale, anche severo, si impone. Ma senza cedere alla paura per i cambiamenti che vediamo attorno a noi, o al risentimento verso un mondo che talvolta sentiamo come ostile. Occorre una riconversione profonda, spirituale e pastorale delle comunità cristiane. Occorre riprendere lo slancio missionario, andando oltre una Chiesa troppo centrata di sé, sulle proprie attività, sulle proprie cose interne. Una pastorale “senza mondo” e che passa sopra i problemi quotidiani delle persone, i loro tempi e i loro luoghi, finisce col non avere più legami significativi con la vita concreta e col rendere sempre più invisibili e irrilevanti i laici cristiani. C’è bisogno di una Chiesa meno introversa, meno sulla difensiva, più capace di educare alla testimonianza e alla partecipazione, sia ecclesiale che civile. Dunque, non il lamento o il rimpianto, non la fuga nel devozionale o nel privato, ma un aggiornamento della missione. Bisognerà investire in formazione, idee, in capacità di dialogo, cercando di far crescere, con pazienza e cura, quella domanda religiosa che anche il post-moderno si ritrova tra le sue pieghe. Tre opportunità per la Chiesa di oggi Fermiamoci – in vista della conclusione – proprio su questa domanda religiosa o, come dicono alcuni, su quel ritorno ancora indecifrabile di un 24 La Chiesa in un mondo che cambia senso religioso presente nella società secolare di oggi. C’è una riflessione storica da fare. La modernità avrebbe voluto segnare il superamento della religiosità perché irrazionale e superstiziosa. La laicizzazione della vita pubblica e lo sviluppo della ragione scientifica avrebbero voluto fare di Dio un’ipotesi inutile. Ma così non è stato. Le religioni sono oggi attori rilevanti della vicenda storica e le previsioni di filosofi e sociologi, che avevano annunciato la morte di Dio e l’eclisse del sacro, appaiono smentite dalla realtà che ci mostra un ritorno della domanda religiosa, un bisogno di pratiche religiose di vario genere. Il fenomeno è tutt’altro che semplice o lineare, ma c’è; e con esso dobbiamo misurarci. Esempi: il grande sviluppo dei movimenti ecclesiali nel cristianesimo, la riaffermazione di identità religiose in termini di appartenenza sociale, la diffusione di devozioni (santuari, pellegrinaggi, culti particolari, forme di pietà popolare e altre cose del genere …) che si immaginavano superate, ma anche la ricerca di esperienze alternative e non sempre inquadrabili nelle forme di religione tradizionali. Anche il successo della produzione massmediatica su tematiche che riguardano il sacro e figure religiose sembra esprimere una sorta di spiritualismo fluido, passibile di diverse letture. Qualcuno lo legge come risposta ad un vago bisogno religioso, semplici forme di irrazionalità e di evasione spiegabili psicologicamente in un tempo di precarietà globalizzata. Insomma, la permanenza di una mera religiosità naturale, che quasi nulla avrebbe a che fare con la fede cristiana della Chiesa. E sia! Ma la Chiesa sa che l’uomo è capace di Dio, è dotato di un innato senso religioso. E il mancato appagamento di questo bisogno – soprattutto oggi, nella cultura che vorrebbe l’uscita dalla religione – lo porta a sperimentare tanto l’incapacità di restituire un significato al mondo, quanto le difficoltà di fronte alle grandi sfide del suo tempo. Da qui la presenza di molteplici esperienze religiose, che potrebbero non essere affatto un ritorno al passato o un tentativo impossibile di risacralizzazione del mondo, quanto piuttosto un groviglio di istanze nuove che avvertono l’insufficienza e le contraddizioni della modernità che non ce la fa a mantenere le promesse di emancipazione e di felicità. Lo 25 Prima relazione: Antonio Nizzi stesso processo di secolarizzazione ha concorso a purificare la fede cristiana dalla superstizione e dall’integralismo, a promuovere grandi movimenti di laici nella Chiesa. Ebbene, il primo sforzo della Chiesa potrebbe consistere proprio nel rievangelizzare il senso religioso, tradizionale o di ritorno che sia. Per alcuni, l’offerta religiosa della Chiesa non è più adeguata alle nuove domande: da qui l’esigenza di trovare un nuovo modo di parlare di Dio e di proporre l’esperienza cristiana. Per altri, di fronte alla complessità attuale, va tenuto saldo l’annuncio della fede anche nelle modalità tradizionali. Forse sono percorribili entrambi le vie. Di sicuro, occorre un forte e coraggioso rinnovamento pastorale, che punti molto sulla comunione ecclesiale, la corresponsabilità dei laici e la loro formazione, nuove forme di comunicazione, di presenza e di vicinanza. Occorre allargare anche il cosiddetto “atrio dei gentili”, ovvero il dialogo con i non credenti, gli inquieti, gli indignati con la Chiesa. Mettiamoci nei loro panni. Forse nessuno, oggi, pur essendo sicuro del proprio ateismo o del proprio agnosticismo, si dichiara disposto a professare per intero e con fermezza una fede negativa. Se i dubbi nutrono e inquietano lo spirito dei credenti, altrettanto accade per gli altri, per chi non sa o forse gli basta di non sapere, per chi si ritrova indeciso, disorientato, scettico. La fede arriva dopo molti interrogativi. E gli interrogativi di chi non crede sollecitano il credente a rendere conto della propria fede in Dio. Oggi l’ateismo o l’incredulità non si possono affrontare restando sulla difensiva. Piuttosto si devono portare ragioni del fatto che anche noi uomini del XXI secolo possiamo credere, in maniera del tutto ragionevole, in Dio e nel Dio cristiano. Forse, per molti aspetti, può essere addirittura più facile credere oggi rispetto ai decenni passati. Dopo crisi e incomprensioni – di carattere culturale, politico o scientifico – molto è stato chiarito e tante difficoltà che intralciavano la fede in Dio sono state superate. Lo stesso ateismo filosofico nelle sue diverse forme ora appare stanco, eppure il credente gli porta riconoscenza per avere stimolato la purificazione delle false immagini di Dio e della religione. 26 La Chiesa in un mondo che cambia L’ateo fa di Dio e dell’uomo due rivali incompatibili e vorrebbe sopprimere l’uno per far vivere l’altro; il credente sa che la pienezza dell’uomo esiste a partire dal mattino di Pasqua. Ma come può convincere chi non ci crede? Paolo VI ci ha ricordato che il mondo crede soprattutto ai testimoni. E non è un caso che nell’inchiesta di Garelli le figure più rappresentative risultano essere, nell’ordine, Papa Wojtyla, Madre Teresa, i gruppi che operano nel volontariato. E’ con i testimoni che la Chiesa entra nel mondo Dobbiamo guardare con più fiducia al momento storico che la Chiesa sta vivendo, gravido di rischi, sì, e di incognite, ma anche così ricco di germi fecondi, di esperienze e di figure che sanno guardare già oltre l’attuale crisi di crescita. Forse quel “non abbiate paura” deve riecheggiare di più nelle chiese e tra i credenti. La virtù della speranza non ci permette di voltarci sul passato, o di bloccarci sul presente, perché ci apre sempre al futuro di Dio. Forse dobbiamo vivere meglio la dimensione escatologica come fondamento specifico di tutta la vita cristiana nel mondo: “ecco faccio nuove tutte le cose”, ma nella coscienza che non esiste resurrezione senza passione e croce, senza piena compromissione con l’avventura umana, come “il servo sofferente che prende su di sé tutti i peccati del mondo”. Sta qui la missione della Chiesa, anche in questo mondo che cambia così rapidamente. 27 Seconda relazione LA MISSIONE DELLA CHIESA: DALLE ORIGINI AI NOSTRI GIORNI NUNZIO CAPIZZI* La relazione penserà la missione della Chiesa, come servizio al Vangelo che ha una destinazione universale, in quattro momenti. Ad alcune considerazioni introduttive, che indicheranno la prospettiva della riflessione, seguiranno un approfondimento biblico, sulla grazia della chiamata a servire il Vangelo, e due considerazioni teologiche. Queste riguarderanno la conversione richiesta dal servizio al Vangelo e la modalità della “presenza galileana”, da assimilare nella sequela di Gesù di Nazaret. Perché interrogarsi sul servizio al Vangelo? a) Il titolo, che è stato assegnato per la relazione, farebbe pensare immediatamente a una riflessione sulla missione, ossia sul servizio al Vangelo, in prospettiva storica. A proposito, come di recente ha fatto Michael Sievernich, si potrebbero considerare le origini bibliche e le tappe della variegata storia della missione. In particolare, si potrebbe approfondire l’età moderna, dal momento che «mai nella storia bimillenaria della missione furono inviati così tanti missionari e missionarie come in quest’epoca»1. Essa ha conosciuto un singolare sviluppo di congregazioni religiose (es.: Oblati di Maria Immacolata, Missionari comboniani del Cuore di Gesù) che, accanto agli or* Docente di teologia dogmatica nello Studio San Paolo di Catania e nella Pontificia Università Gregoriana. 1 M. SIEVERNICH, La missione cristiana. Storia e presente, Brescia 2012, 146. 29 Seconda relazione: prof. d. Nunzio Capizzi dini missionari classici dei Francescani, dei Domenicani e dei Gesuiti, si sono dedicate in modo del tutto peculiare alla missione ad gentes. Si potrebbe pure studiare la storia della missiologia contemporanea, per prendere coscienza dei cambiamenti oggi in atto, prendendo esempio da Gianni Colzani2. Volendo rimanere nella prospettiva storica, infine, si potrebbero seguire le orme di Severino Dianich che, nella sua monografia riguardante la missione in quanto costitutiva della natura stessa della Chiesa, ha mostrato come «nel complesso fluire degli eventi, l’autocoscienza ecclesiale si costruisce alcuni determinati modelli di missione, nei quali la consapevolezza della chiesa, di volta in volta, prende forma e si organizza in modo coerente»3. Fra questi, Dianich ha presentato quello della “missione compiuta” e quello della “missione nascosta”, tipico dell’ecclesiologia lunare dei padri della Chiesa o della spiritualità di santa Teresa di Gesù Bambino. Diversamente dagli studi menzionati, la mia relazione preferirà un approccio sistematico, che non vuole trascurare il punto di vista di un confronto con la pastorale, utile per il vissuto delle nostre Chiese locali, ricordando che «i confini fra cura pastorale dei fedeli, nuova evangelizzazione e attività missionaria specifica non sono nettamente definibili, e non è pensabile creare tra di esse barriere o compartimenti stagni»4. Alla luce delle premesse poste, il filo conduttore della mia riflessione sul servizio al Vangelo, è che «la missione nelle sue molteplici forme accompagna il cristianesimo fin dai suoi inizi, che risalgono a duemila anni fa […]. Per il cristianesimo la missione non è solamente un segno di vitalità, ma an2 Cfr G. COLZANI, Missiologia contemporanea. Il cammino evangelico delle Chiese: 1945-2007, Cinisello Balsamo 2010. 3 S. DIANICH, Chiesa in missione. Per una ecclesiologia dinamica, Cinisello Balsamo 19873, 80; si veda pure la ripresa del tema in S. DIANICH, S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa, Brescia 2002. 4 GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Redemptoris missio, 34, Enchidirion Vaticanum 12, Bologna 19932, parr. 547-732:616. D’ora in poi, i riferimenti all’enciclica saranno fatti direttamente nel testo, con l’abbreviazione RM, seguita dal numero del paragrafo in cui si trova il passo citato. 30 La missione della Chiesa: dalle origini ai nostri giorni che un distintivo essenziale e ineliminabile, senza il quale esso rinnegherebbe il motivo della propria esistenza»5. b) Nell’orizzonte appena indicato – della “missione” quale “distintivo essenziale e ineliminabile” del cristianesimo – vorrei mettere a fuoco le motivazioni della riflessione e del confronto con la pastorale, cui ho prima fatto cenno. A pensare la missione, all’interno di un confronto sulla e per la vita delle nostre Chiese, spingono il papa e i vescovi. Nella lettera apostolica Porta Fidei, dopo aver detto che Gesù Cristo «oggi come allora, ci invia per le strade del mondo per proclamare il suo Vangelo a tutti i popoli della terra», Benedetto XVI aggiunge: «per questo anche oggi è necessario un più convinto impegno ecclesiale a favore di una nuova evangelizzazione per riscoprire la gioia nel credere e ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede»6. Nel Messaggio al popolo di Dio, al termine della recente tredicesima assemblea generale del Sinodo dei vescovi, si legge: «condurre gli uomini e le donne del nostro tempo a Gesù, all’incontro con lui, è un’urgenza che tocca tutte le regioni del mondo, di antica e di recente evangelizzazione. Ovunque infatti si sente il bisogno di ravvivare una fede che rischia di oscurarsi in contesti culturali che ne ostacolano il radicamento personale e la presenza sociale, la chiarezza dei contenuti e i frutti coerenti»7. Le parole del Papa, come pure quelle del messaggio finale del Sinodo, devono farci interrogare seriamente. Non si può ignorare, infatti, un atteggiamento apatico presente in molti cristiani, descritto dal cardinale Karl Lehmann nel modo seguente: «La Chiesa si ripiega sui suoi fedelissimi [...]. Si amministra ciò che si ha già, i vecchi possedimenti, ma scarso è il terreno vergine 5 M. SIEVERNICH, La missione, 5. BENEDETTO XVI, Lettera apostolica in forma di motu proprio, Porta fidei, Città del Vaticano 2011, par. 7. D’ora in poi, i riferimenti all’enciclica saranno fatti direttamente nel testo, con l’abbreviazione PF, seguita dal numero del paragrafo in cui si trova il passo citato. 7 SINODO DEI VESCOVI, Il Vangelo nel mondo. Messaggio al popolo di Dio, in L’Osservatore Romano, 27 ottobre 2012, 4-6:4. 6 31 Seconda relazione: prof. d. Nunzio Capizzi che viene conquistato, o riconquistato. Evidentemente non siamo ancora divenuti abbastanza coscienti né della effettiva situazione di missione in cui oggi la Chiesa si trova, né delle occasioni che ci sono offerte. A dire il vero, ciò che maggiormente dovrebbe contare è questo: quanti “pagani” abbiamo saputo condurre a Gesù Cristo nel corso della nostra attività. Non andiamo più sugli steccati e fra i cespugli […] per impiantarvi colà il messaggio di Cristo. Noi fuggiamo dai luoghi di discussione e di polemica, di competizione e di disputa della battaglia delle concezioni del mondo e delle religioni. Tradiamo la missione della Chiesa che non conosce barriere, in tutti i vicoli e gli angoli della nostra vita. Il grande slancio missionario del Vaticano II si è praticamente estinto»8. Non si può non condividere, poi, quanto scrive Giancarlo Collet, nella prefazione al suo lavoro sulla missione: «tra i dati fondamentali della fede cristiana, oggi comunicabili solo con difficoltà, c’è anche l’idea che essa possiede una qualità missionaria, a cui non può rinunciare senza rinunciare così a se stessa […]. Chiese una volta fondate dall’attività missionaria dell’Occidente sono diventate a loro volta missionarie, mentre da noi le chiese […] si vedono poste di fronte alla sfida di come conservare la fede cristiana dalla caduta libera»9. Se si vuole continuare a pensare nell’orizzonte delle provocazioni introdotte, va fatto cenno pure a una certa stasi che caratterizza la nostra prassi pastorale. Nonostante un prolungato insegnamento magisteriale – da Paolo VI a Giovanni Paolo II e Benedetto XVI – orientato a promuovere la rinascita di una coscienza missionaria della Chiesa, per la “nuova evangelizzazione”, non si può negare che «l’impostazione pastorale delle chiese nei paesi di antica tradizione cristiana sia ancora fortemente determinata dall’antico paradigma della missione compiuta»10. Di conseguenza, 8 K. LEHMANN, L’azione ecclesiale, Brescia 1987, 28-29. G. COLLET, «… fino agli estremi confini della terra». Questioni fondamentali di teologia della missione, Brescia 2004, 5. 10 S. DIANICH, S. NOCETI, Trattato, 247. 9 32 La missione della Chiesa: dalle origini ai nostri giorni ritenendo di essere un paese cristiano, o comunque a maggioranza cristiana, non pensiamo che, nelle nostre città, siamo chiamati alla missione. Sperimentiamo la difficoltà a superare le barriere di fatto innalzate nel nostro territorio e con i nostri vicini che, intanto sono cambiati, non soltanto a causa del pluralismo sociale, culturale e religioso delle moderne società occidentali, ma anche per una sempre più crescente scristianizzazione e deecclesializzazione. Nelle difficoltà che sperimentiamo, mostriamo di preferire non la logica della missione, ma, a modo nostro, quella della semplice cura animarum del clero nei confronti della popolazione cristiana. Chiaramente, non si ha nulla da dire sull’importanza della cura animarum in se stessa. Il problema è che questa, oggi, si presenta spesso limitata all’area del presbiterio e della sacrestia, nonché arenata in questioni relative a tale area. Inoltre, a essa, ci si accosta sempre più dal punto di vista organizzativo, per cui, ad esempio, non si parla più di giovani da incontrare, ma dell’“evento” di pastorale giovanile da progettare. Nella preparazione, poi, assumono sempre più importanza i “responsabili”, quanti cioè sono preposti a dare le “direttive” per la buona riuscita dello stesso evento. A proposito, il problema di fondo sta in una rimozione pratica dell’insegnamento del capitolo secondo della Lumen gentium, sulla Chiesa popolo di Dio. Infatti, quando la Chiesa si clericalizza e il clero si professionalizza, ai fedeli non rimane altro che eseguire i comandi e ubbidire. Viene spontaneo chiedersi dove sia finita quella meravigliosa affermazione, che il Codice di diritto canonico ha recepito dal Concilio, secondo cui l’evangelizzazione costituisce il fundamentale officium populi Dei (can. 781). Mi sembra importante, a proposito, quanto ha scritto Vittorio Peri: «l’azione pastorale è […] talmente decisiva, per la vita della Chiesa, che non si può non parlarne. Anzi, più numerosi sono i battezzati che s’interrogano su contenuti, modalità e mezzi della vita pastorale e meglio è. Tenendo anche presente l’antico adagio latino, ripreso dal vigente Codice di diritto canonico, per il quale “quod omnes uti singulos tangit ab omnibus approbari debet” (can. 119,3)»11. 11 V. P ERI, «Pastorale a costo zero», in Uac notizie, 30 (2/2012), 2. 33 Seconda relazione: prof. d. Nunzio Capizzi La grazia della chiamata a servire il Vangelo a) Gesù Risorto ha dato ai suoi discepoli la missione di andare in tutto il mondo, per predicare il Vangelo a ogni creatura (cfr Mc 16,15; Mt 28,1820; Lc 24,47; At 1,8). A motivo dell’invio da parte del Signore, «il fine della missione della chiesa […] consiste nel promuovere, mediante la diffusione del Vangelo di Gesù Cristo, la conversione di singoli alla fede, nel guadagnarne il maggior numero possibile e nel fare di tutti i popoli il nuovo popolo di Dio»12. Se si pensa il servizio alla diffusione del Vangelo nell’orizzonte della spiritualità missionaria, emerge la consapevolezza di un dono ricevuto, da vivere nella dimensione della grazia di Dio. Infatti, «l’universale vocazione alla santità è strettamente collegata all’universale vocazione alla missione: ogni fedele è chiamato alla santità e alla missione» (Rm 90). b) Il servizio al Vangelo, come dono della grazia divina, risalta nell’esordio della lettera ai Romani: «Paolo […] apostolo per chiamata, scelto per annunciare il Vangelo di Dio […]; per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli, per suscitare l’obbedienza della fede in tutte le genti, a gloria del suo nome» (Rm 1,1.5). Benedetto XVI ha richiamato il primo dei versetti appena menzionati, per segnalare una caratteristica essenziale di ogni apostolo: questi sa di essere costituito tale dal Signore e sente la conseguente necessità di una costante relazione con lui. Due altre caratteristiche – secondo il Papa – vanno insieme con quella accennata: la consapevolezza di essere portatori, totalmente dediti, del messaggio di colui che ha dato la missione e «l’esercizio dell’“annuncio del Vangelo”», che «impegna concretamente e anche drammaticamente tutta l’esistenza del soggetto interessato»13. Nei versetti citati, l’apostolo afferma che ha coscienza di essere incaricato e inviato a proclamare la buona notizia della salvezza. 12 M. SIEVERNICH, La missione, 51. BENEDETTO XVI, Udienza generale. La concezione paolina dell’apostolato, in L’Osservatore Romano, 11 settembre 2008, 1. 13 34 La missione della Chiesa: dalle origini ai nostri giorni Tale coscienza, in primo luogo, affiora quando Paolo esprime la propria identità con l’espressione apostolo per chiamata. Egli deve il suo essere apostolo alla chiamata divina, e non a una propria scelta o a un incarico ricevuto da altri. L’affermazione fa pensare subito all’evento della vocazione apostolica, descritto in Gal 1,15-16 come chiamata legata all’iniziativa di Dio che, «con la sua grazia, si compiacque» di rivelare il suo Figlio a Paolo, perché lo annunciasse tra i pagani14. In secondo luogo, Rm 1,1 lascia trasparire la comprensione del dono di grazia nella precisazione inerente la funzione di apostolo: scelto per annunciare il Vangelo di Dio. Vari commenti esegetici al passo appena riportato mettono in evidenza il legame tra scelto e quanto ha scritto Paolo in Gal 1,15, riguardo a Dio che «mi scelse fin dal seno di mia madre». Paolo si ritiene separato dagli altri, per iniziativa di Dio stesso, ma separato per i popoli, dal momento che Dio lo sceglie per salvare i pagani, predicando loro il Vangelo. La separazione, infatti, è per annunciare il Vangelo di Dio, allo scopo preciso cioè di mettersi a servizio del Vangelo, del messaggio della salvezza, fra le genti (cfr pure Gal 1,16)15. Il legame tra la grazia e l’apostolato si impone, con tutta la sua forza, in Rm 1,5, quando Paolo, completando l’enunciazione delle proprie prerogative, iniziata al v. 1, dice che, in virtù di Gesù Cristo, ha ricevuto la grazia di inviato per predicare il Vangelo. Collegandosi, con una relativa, alla conclusione della formula kerygmatica che gli ha permesso di chiarire il contenuto del Vangelo di Dio (vv. 3-4) – e precisamente all’espressione «Gesù Cristo nostro Signore» – l’apostolo afferma: per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli (letteralmente: abbiamo ricevuto grazia e apostolato). I termini grazia e apostolato possono essere compresi separatamente16 oppure come un’endiadi, nella quale il secondo elemento spe- 14 Cfr H. SCHLIER, La lettera ai Romani, Brescia 1982, 58. Cfr B. BYRNE, Romans, Collegeville 1996, 39; J.D.G. DUNN, Romans 1-8, Dallas 1988, 9; J.A. FITZMYER, Lettera ai Romani. Commentario critico-teologico, Casale Monferrato 1999, 274; H. SCHLIER, La lettera, 59. 16 Cfr H. SCHLIER, La lettera, 69-70. 15 35 Seconda relazione: prof. d. Nunzio Capizzi cifica il primo17. La seconda interpretazione permette di rilevare come la grazia sia, al tempo stesso, costitutiva della missione e della responsabilità apostoliche. Joseph A. Fitzmyer spiega che «qui si pensa alla cháris come a un dono ricevuto che offre a Paolo la possibilità di operare come inviato a compiere un incarico per l’evangelizzazione dell’umanità» e, proseguendo, afferma che «non tutti coloro che ricevono la “grazia” diventano apostoli», con la conseguenza che «qui “grazia” va intesa come dono speciale: è “grazia” donata nella prospettiva della funzione che Paolo dovrà svolgere nella chiesa»18. Per un approfondimento del tema, ancora Fitzmyer orienta l’attenzione verso il legame tra grazia e annuncio del Vangelo in Gal 1,15-16, dove Paolo asserisce: Dio «mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti». La grazia di Dio include la doppia chiamata di Paolo: ad essere discepolo di Gesù Cristo e ad essere inviato per l’annuncio del Vangelo19. Secondo Joachim Gnilka, Paolo esprime la profonda convinzione dell’azione della grazia di Dio per la nuova parte della sua esistenza, quando in 1Cor 15,10, afferma: «per grazia di Dio […] sono quello che sono». L’essere stato personalmente toccato dalla grazia, nei pressi di Damasco, ha determinato tutto quello che ha segnato la sua esistenza, in seguito alla vocazione. Inoltre, in quanto fondatore di comunità, Paolo ha potuto sperimentare di essere sostenuto, nella sua attività, da questa grazia: «secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un saggio architetto io ho posto il fondamento» (1Cor 3,10). Gli esempi portati mostrano una dipendenza dell’esistenza dell’apostolo dalla grazia e «partendo da questo legame esistenziale con la grazia è comprensibile che nella sua teologia Pao17 Cfr J.D.G. DUNN, Romans, 17; J.A. F ITZMYER, Lettera, 284. J.A. F ITZMYER, Lettera, 284. 19 J.A. F ITZMYER, Lettera, 284; cfr pure J.D.G. DUNN, Romans, 17. 20 J. GNILKA, Paolo di Tarso. Apostolo e testimone, Brescia 1998, 240. Per un approfondimento delle riflessioni fatte fino a questo punto, mi permetto di rinviare a un mio articolo: «Il dono dell’apostolato per la chiamata alla fede», in Studia Missionalia 59 (2010) 69-88. 18 36 La missione della Chiesa: dalle origini ai nostri giorni lo parli diffusamente del primato della grazia. La grazia diventa per lui quasi una potenza personale, che afferra l’uomo e lo salva»20. c) Spostando l’attenzione a noi e alla spiritualità della missione, cui ho già fatto cenno, va ribadita la motivazione ultima della missione dei cristiani: «a noi, come a san Paolo, “è stata concessa la grazia di annunciare ai pagani le imperscrutabili ricchezze di Cristo” (Ef 3,8). […] La chiesa e, in essa, ogni cristiano non può nascondere né conservare per sé questa novità e ricchezza, ricevuta dalla bontà divina per essere comunicata a tutti gli uomini. Ecco perché la missione, oltre che dal mandato formale del Signore, deriva dall’esigenza profonda della vita di Dio in noi» (Rm 11). In tal senso, possono venire in aiuto anche le considerazioni del cardinale Angelo Scola. Nell’elaborare alcuni tratti di un’ecclesiologia di missione, egli afferma che in una prospettiva di «vocazione-missione brilla la concezione cristiana della vita come vocazione che consente di trattenere, nell’unità e nella distinzione, i differenti stati di vita cristiana. In questo quadro ogni fedele possiede veramente la stessa dignità, in quanto membro del popolo dei redenti». Pensando al risvolto pastorale della prospettiva, il cardinale aggiunge: «l’ecclesiologia di missione [basata sulla vocazione] ci potrebbe forse aiutare a modulare di nuovo la vita delle nostre comunità sul modello della famiglia, ridimensionando, per quanto possibile, il riferimento purtroppo assai spesso dominante del modello aziendale»21. Per un confronto dal punto di vista pastorale, sarebbe opportuno riflettere sulla formazione delle persone “vocate”, in primo luogo dei collaboratori, ad esempio, dei catechisti. Si dovrebbe, anzitutto, pensare una formazione approfondita che, insieme ai contenuti, riguardi pure un rendersi familiari al Vangelo (es.: lectio divina), un acquisirne i criteri per valutare la realtà. In molti membri del popolo di Dio, l’esigenza di formazione è considerevole. Solo per fare qualche esempio, basti pensare che essa risalta, di frequente, nel contesto dei colloqui con i fedeli, specialmente con quan21 A. SCOLA, Chi è la Chiesa? Una chiave antropologica e sacramentale per l’ecclesiologia, Brescia 2005, 186-187; 192. 37 Seconda relazione: prof. d. Nunzio Capizzi ti si dedicano alla catechesi o desiderano essere disponibili per una maggiore collaborazione a servizio del Vangelo, nel vissuto della comunità parrocchiale. Nonostante le varie formule adoperate per esprimersi, i fedeli non intendono l’esigenza di formazione soltanto nel senso di essere istruiti o di essere guidati nell’apprendimento di contenuti dottrinali, ma anzitutto nel senso di un cammino di maturazione personale nella fede e nella vita cristiana, che non esclude, ma implica la conoscenza di quanto non si sa oppure non si conosce molto bene. Tuttavia, l’esigenza di approfondimento dell’esperienza di fede trova spesso una risposta riduttiva, centrata solo sulla proposta di un’istruzione, nello stile della conferenza accademica, oppure, addirittura, su un insieme di metodi di comunicazione. In altri termini, non è raro che si percorra la via della sola informazione sui contenuti della fede e sulle tecniche della loro trasmissione, piuttosto che quella della formazione, ossia dell’influire della fede sul modo di essere di qualcuno. La conversione per il servizio al Vangelo a) Il legame tra la chiamata alla santità e la chiamata alla missione spinge a una considerazione sulla conversione richiesta dal servizio al Vangelo. Giovanni Paolo II ha fatto una meditazione su Gesù che si rivolge alle Chiese in Europa. Mettendo in luce il legame tra la chiamata al servizio del Vangelo e la chiamata alla conversione, in modo molto radicale, ha scritto: «Il suo [di Gesù] messaggio è rivolto a tutte le singole Chiese particolari e riguarda la loro vita interna, a volte contrassegnata dalla presenza di concezioni e mentalità incompatibili con la tradizione evangelica, spesso attraversata da diverse forme di persecuzione e, ancora più pericolosamente, insidiata da sintomi preoccupanti di mondanizzazione, di perdita della fede primitiva, di compromesso con la logica del mondo. Non di rado le comunità non hanno più l’amore di un tempo (cfr Ap 2, 4). Si osserva come le nostre co38 La missione della Chiesa: dalle origini ai nostri giorni munità ecclesiali siano alle prese con debolezze, fatiche, contraddizioni. Anch’esse hanno bisogno di riascoltare la voce dello Sposo, che le invita alla conversione […] e le chiama a impegnarsi nella grande opera della “nuova evangelizzazione”. La Chiesa deve costantemente sottomettersi al giudizio della parola di Cristo, e vivere la sua dimensione umana in uno stato di purificazione per essere sempre più e sempre meglio la Sposa senza macchia né ruga, adorna di una veste di lino puro splendente (cfr Ef 5, 27; Ap 19, 7-8). In tal modo Gesù Cristo chiama le nostre Chiese in Europa alla conversione ed esse, con il loro Signore e in forza della sua presenza, diventano apportatrici di speranza per l’umanità»22. Benedetto XVI, nella lettera di indizione dell’Anno della Fede, dopo aver detto che «il rinnovamento della Chiesa passa […] attraverso la testimonianza offerta dalla vita dei credenti», afferma che l’Anno, «in questa prospettiva, è un invito ad un’autentica e rinnovata conversione al Signore, unico Salvatore del mondo» (PF 6). Immediatamente, sembra strano che, invece di una descrizione delle dinamiche della testimonianza, si parli di conversione. Eppure, come è stato anticipato, è proprio nel senso detto che è possibile pervenire alla vera origine della trasmissione della fede in Gesù Cristo. Il Vangelo non si può ricevere – e di conseguenza testimoniare – senza la disponibilità alla conversione e al cambiamento di mentalità. A riguardo, Benedetto XVI spiega le motivazioni, mediante una citazione del numero 8 della costituzione Lumen gentium: «la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento» (PF 6). Diventa comprensibile, quindi, che il Papa ponga l’accento sul dinamismo della conversione, richiesta dalla vita nuova che il battesimo ha operato nei credenti: «grazie alla fede, questa vita nuova 22 GIOVANNI PAOLO II, Ecclesia in Europa, 23, Enchiridion Vaticanum 22, Bologna 2006, parr. 413-589:443-444; il corsivo è nel testo. 39 Seconda relazione: prof. d. Nunzio Capizzi plasma tutta l’esistenza umana sulla radicale novità della risurrezione. Nella misura della sua libera disponibilità, i pensieri e gli affetti, la mentalità e il comportamento dell’uomo vengono lentamente purificati e trasformati, in un cammino mai compiutamente terminato in questa vita» (PF 6). Il cambiamento di vita mostrerà, in modo convincente, la centralità di Gesù Cristo e la necessità del continuo ricominciare da lui, proprio mentre si vogliono condurre altri all’incontro con lui. Nell’omelia del 7 ottobre 2012, durante la messa per l’apertura dell’assemblea generale del Sinodo dei vescovi, Benedetto XVI ha ribadito la centralità della conversione, in vista del servizio al Vangelo, quando ha detto: «lo sguardo sull’ideale della vita cristiana, espresso nella chiamata alla santità, ci spinge a guardare con umiltà la fragilità di tanti cristiani, anzi il loro peccato, personale e comunitario, che rappresenta un grande ostacolo all’evangelizzazione, e a riconoscere la forza di Dio che, nella fede, incontra la debolezza umana. Pertanto, non si può parlare della nuova evangelizzazione senza una disposizione sincera di conversione»23. Anche il Messaggio finale del suddetto Sinodo ha richiamato l’urgenza della conversione: «guai […] a pensare che la nuova evangelizzazione non ci riguardi in prima persona […]. Per poter evangelizzare il mondo, la Chiesa deve anzitutto porsi in ascolto della Parola. L’invito ad evangelizzare si traduce in un appello alla conversione. Sentiamo sinceramente di dover convertire anzitutto noi stessi alla potenza di Cristo, che solo è capace di fare nuove tutte le cose, le nostre povere esistenze anzitutto. Con umiltà dobbiamo riconoscere che le povertà e le debolezze dei discepoli di Gesù, specialmente dei suoi ministri, pesano sulla credibilità della missione»24. Il cenno alla credibilità, nella sua intima relazione con la conversione e la con la testimonianza, chiede un approfondimento teologico-fondamentale, dal punto di vista della Tradizione quale vita della Chiesa. 23 BENEDETTO XVI, La Chiesa esiste per evangelizzare, in L’Osservatore Romano, 8-9 ottobre 2012, 6-7:7. 24 SINODO DEI VESCOVI, «Il Vangelo», 4. 40 La missione della Chiesa: dalle origini ai nostri giorni b) Il vissuto dei cristiani, per Paolo, costituisce il primo documento della fede: «la nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini. È noto infatti che voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma su tavole di cuori umani» (2Cor 3,2-3). Paolo VI, nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, riflettendo sulla modalità dell’evangelizzazione, ha asserito che «per la Chiesa, la testimonianza di una vita autenticamente cristiana, abbandonata in Dio in una comunione che nulla deve interrompere […], è il primo mezzo di evangelizzazione»25. Benedetto XVI, nella meditazione che ha tenuto durante la prima congregazione generale della recente assemblea del Sinodo, l’8 ottobre 2012, ha commentato il primo degli inni che la Liturgia delle Ore propone per l’ora terza. In un passaggio, significativamente, ha detto: «Il cristiano non deve essere tiepido. L’Apocalisse ci dice che questo è il più grande pericolo del cristiano: che non dica di no, ma un sì molto tiepido. Questa tiepidezza proprio discredita il cristianesimo. La fede deve divenire in noi fiamma dell’amore, fiamma che realmente accende il mio essere, diventa grande passione del mio essere, e così accende il prossimo. Questo è il modo dell’evangelizzazione: “Accendat ardor proximos”, che la verità diventi in me carità e la carità accenda come fuoco anche l’altro. Solo in questo accendere l’altro attraverso la fiamma della nostra carità, cresce realmente l’evangelizzazione, la presenza del Vangelo, che non è più solo parola, ma realtà vissuta»26. La testimonianza implica, quindi, la continua fedeltà dei cristiani nell’accoglienza del mistero di Gesù Cristo: una fedeltà che mostri l’attuali- 25 PAOLO VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, 41, Enchidirion Vaticanum 5, Bologna 1990, parr. 1588-1716:1634. 26 BENEDETTO XVI, La verità che si fa fuoco, in L’Osservatore Romano, 10 ottobre 2012, 7. 41 Seconda relazione: prof. d. Nunzio Capizzi tà di Gesù Cristo e la capacità di interpretazione attualizzante della tradizione della fede, nata nella predicazione apostolica. A questo proposito, Joseph Moingt scrive: «La testimonianza apostolica non può essere considerata come il termine della rivelazione finché non è ricevuta da altri […]. Ma ricevuta in che modo? Non semplicemente come si riceva un’informazione su qualche cosa che è accaduto […], bensì in un impegno di tutto l’essere, perché la fede nella risurrezione consiste nell’aprirsi alla vita del Risorto; e poiché è la medesima vita del Cristo che si diffonde in tutti i credenti, la rivelazione non è pienamente ricevuta se non nella modalità di una partecipazione comunitaria a questa vita, per cui essi formano un solo corpo, il quale renderà testimonianza alla risurrezione del Cristo davanti al mondo, in quanto si mostrerà animato dalla sua stessa vita. Quando, dunque, si forma una comunità cristiana di credenti nel Cristo risorto, lì l’evento rivelatore trova il suo compimento: si è dato un sito nel mondo, un’esistenza nella storia, una visibilità nella società»27. La decisiva importanza del vissuto testimoniale della comunità cristiana, nella partecipazione personale e comunitaria alla vita nuova nel CrocifissoRisorto, non può non invitare a sollevare l’interrogativo circa l’autenticità della testimonianza resa dai cristiani. A riguardo, non bisogna trascurare un altro aspetto peculiare dell’Anno della Fede: questo deve essere vissuto come «tempo di particolare riflessione e riscoperta della fede» (PF 4). Per tale riflessione, sono suggestivi alcuni spunti di Hansjürgen Verweyen. Egli scrive che la fedeltà della traditio / testimonianza ecclesiale a Gesù Cristo, come «innovazione»28, cioè come riproposizione della parola definitiva, o della rivelazione avvenuta una volta per tutte, nelle situazioni sto27 J. MOINGT, Dio che viene all’uomo.1. Dal lutto allo svelamento di Dio, Brescia 2005, 352. H. VERWEYEN, La parola definitiva di Dio. Compendio di teologia fondamentale, Brescia 2001, 513. 28 42 La missione della Chiesa: dalle origini ai nostri giorni riche, comporta alcuni atteggiamenti precisi. Fra questi, l’apertura verso l’altro che si fa incontro, vedendo in lui l’immagine di Dio, per dare luogo, nell’incontro, a una nuova occasione in cui far risuonare la parola definitiva. Oppure, in modo speciale, la capacità del testimone di lasciarsi pervadere totalmente dall’autocomunicazione di Dio, fino al completo distacco da se stesso, nella rinuncia alla propria vita e, comunque, nella rinuncia all’affermazione di sé. Nella consapevolezza che «chi deve essere accolto come portatore di una rivelazione definitivamente valida deve mostrare in se stesso che l’essenza dell’uomo consiste nella sua permeabilità da parte della apparizione di Dio in questo mondo. Il vero testimone deve perciò smascherare quanto in lui non è ancora diventato pura trasparenza come peccato e imperfezione»29. Gli spunti raccolti da Verweyen spingono a mettere a fuoco almeno due aspetti del vissuto testimoniale, sui quali interrogarsi. Anzitutto, sul versante dell’apertura all’altro, andrebbe verificata la capacità di stabilire, nella fede, relazioni umane vere e significative, relazioni interpersonali, intessute di accoglienza, di giustizia, di carità, di solidarietà, di pace. Successivamente, sul versante della «permeabilità» del soggetto testimoniante, va esaminato il legame tra la Parola e la vita o, meglio, l’impegno dinamico per una sempre migliore accoglienza del Vangelo nella vita, dal momento che la fede cristiana non è un puro sistema di pensiero, comunicabile semplicemente con un insegnamento, ma un messaggio di salvezza collegato a un evento che ha cambiato il senso della condizione umana e che mette in questione l’esistenza di chiunque lo accoglie. Molto incisivamente, nell’enciclica sulla speranza cristiana, Benedetto XVI ha scritto che «il Vangelo non è soltanto comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia vita»30. c) Oltre agli aspetti indicati, guardando maggiormente l’orizzonte pastorale, la verifica inerente il vissuto testimoniale non dovrebbe tralascia- 29 30 H. VERWEYEN, La parola, 373. BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Spe salvi, Città del Vaticano 2007, par. 2. 43 Seconda relazione: prof. d. Nunzio Capizzi re l’attuale timidezza di molti cristiani che, quanto più constatano la sordità del nostro mondo ai grandi temi della fede, tanto più sono tentati di orientare l’annuncio su motivi e temi facilmente accettabili, allontanandolo dalla Parola che Dio ha pronunciato una volta per tutte e che ci ha raggiunti nel Verbo incarnato, nell’evento Cristo. Alla timidezza si accompagna il fatto che i cristiani, dalle nostre parti, spesso non riescano a dare forma visibile alla differenza cristiana31. Paolo VI, nell’enciclica Ecclesiam suam, aveva affermato che la Chiesa «deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere»32. Tale dialogo con la cultura, però, non può realizzarsi autenticamente se, da parte della Chiesa, non c’è un vero desiderio di rendere testimonianza della differenza cristiana, della verità del Vangelo, della verità che è Gesù stesso (cfr Gv 14,6). Al di là dell’indicazione dei problemi, rimane decisiva la formazione dei fedeli, di cui si è parlato prima. Paolo, nel passo sopra citato di 2Cor 3,2-3, spiega che il vissuto dei cristiani costituisce il primo documento della fede. A proposito, si dovrebbe ricordare l’importanza dell’accompagnamento spirituale personale e comunitario, a cui il prete è chiamato, per guidare uomini e donne ad accogliere il Vangelo nel loro cuore. Si tratta di una formazione che miri alla presenza della comunità cristiana, in un certo modo, così come Paolo raccomandava ai cristiani di Roma: «non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2). Imparare la “presenza galileana” per servire il Vangelo a) Come è stato anticipato, il Codice di diritto canonico recepisce dal concilio che l’evangelizzazione costituisce il fundamentale officium populi Dei 31 Cfr, sul tema, E. BIANCHI, La differenza cristiana, Torino 2006. PAOLO VI, Lettera enciclica Ecclesiam suam, Enchiridion Vaticanum 2, Bologna 198112, parr. 163-210: 192. 32 44 La missione della Chiesa: dalle origini ai nostri giorni (can. 781). Il soggetto dell’atto del Vangelo è, quindi, il fedele cristiano in quanto credente. È l’essere credente che fa l’evangelizzatore33. Da questo punto dell’essere credente, vorrei prendere le mosse per questa parte della mia riflessione. Benedetto XVI, nell’istituire il Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, prima, ha fatto notare che parlare di servizio al Vangelo, di “nuova evangelizzazione”, «non significa […] dover elaborare un’unica formula uguale per tutte le circostanze», poiché «la diversità delle situazioni esige un attento discernimento». Dopo, ha richiamato l’atteggiamento necessario all’annunciatore: «per proclamare in modo fecondo la Parola del Vangelo, è richiesto anzitutto che si faccia profonda esperienza di Dio»34. Dentro tale orizzonte, vorrei approfondire il tema del servizio al Vangelo, mediante la “presenza”. Si tratta della “presenza” del credente, assimilata nella meditazione della “presenza galileana” di Gesù di Nazaret, nella sequela permanente del Maestro. Per l’approfondimento, mi lascerò guidare da Christoph Theobald. b) Theobald pone in modo adeguato il tema dell’atteggiamento dell’annunciatore, quando, in modo incisivo, chiede: «come trasmettere la fede in Cristo, se neppure sappiamo più molto bene perché credere in lui?». Per approfondire questa domanda decisiva e per precisare il problema nodale ad essa connesso, prosegue: «è questo, mi sembra, l’unico problema e l’unica crisi della trasmissione di cui bisogna preoccuparsi. La difficoltà non è quella di un buon metodo o della strategia più ingegnosa: il cristianesimo […] non è un messaggio religioso fra molti altri»35. Il ragionare di “buon metodo” o di “strategia” non fa altro che allontanare dal porre rettamente la questione della trasmissione della fede. Esso, 33 Per un approfondimento del tema, si suggerisce S. DIANICH, «Dall’atto del “Vangelo” alla “forma ecclesiae”», in ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, Annuncio del Vangelo, forma Ecclesiae, a cura di D. Vitali, Cinisello Balsamo 2005, 95-141. 34 BENEDETTO XVI, Lettera apostolica in forma di motu proprio, Ubicumque et semper, in Il Regno.Documenti 55 (2010/19) 588-590:589-590. 35 C. THEOBALD, Trasmettere un Vangelo di libertà, Bologna 2010, 22. 45 Seconda relazione: prof. d. Nunzio Capizzi infatti, richiama la convinzione della fattibilità di tutto – peraltro strettamente connessa a quell’ateismo pratico che rende sempre più indifferenti verso Dio –, la convinzione di potere fare tutto da se stessi e, appunto, senza l’aiuto di Dio. Tale mentalità “del fare” non si trova soltanto tra i cosiddetti “lontani”, ma condiziona in gran parte la pratica di fede di molti cristiani. Alcuni di questi, infatti, non raramente, sono tentati di considerare la fede e la salvezza come qualcosa che possono produrre da se stessi. A causa di tale mentalità, la Chiesa sembra presentarsi sempre più come opera umana e sempre meno come opera di Dio. Per Theobald, al contrario, si tratta anzitutto di volgere la mente e il cuore a Gesù di Nazaret, al suo ministero fra gli uomini e le donne della società galileana: «Invece di lamentarci “sullo stato di impotenza nella trasmissione della fede” nelle nostre società europee e nella Chiesa, osserviamo semplicemente la straordinaria attitudine del Nazareno, la sua arte di pedagogo, così come la descrivono i racconti evangelici. Troppo spesso ci lasciamo paralizzare dalla complessità del messaggio cristiano, scoraggiare da quei giri dell’oca che sono i nostri grandi catechismi, nei quali ci si orienta con la stessa difficoltà di uno straniero nelle strade di Parigi! Ora, se apriamo i vangeli, scopriamo un uomo, alle prese certo con la complessità spesso drammatica della vita, ma capace di cogliere immediatamente il punto fondamentale di coloro che incontra: il luogo misterioso dove possono liberarsi energie insospettate di vita. È ciò che egli propone alle persone che gli stanno intorno, suscitando senza troppe parole il desiderio di possedere il medesimo tocco, la stessa delicatezza, nell’approccio all’esistenza umana»36. Lo sguardo centrato sul Maestro di Nazaret, raccontato dagli evangelisti, e la passione per l’apprendimento della sua “arte di pedagogo” permettono di mettere a fuoco due elementi intimamente connessi. In pri36 46 C. THEOBALD, Trasmettere, 15; il corsivo è nel testo. La missione della Chiesa: dalle origini ai nostri giorni mo luogo, essi fanno capire che Gesù di Nazaret dona la fede attraverso il suo modo di rivolgersi all’altro, permettendo agli uomini e alle donne che lo incontrano di avere fiducia nel futuro. In secondo luogo, l’interesse per Gesù, per i suoi atteggiamenti e per la sua “arte di pedagogo”, porta a diventare continuamente suoi discepoli, a credere in lui e a sentire la passione per l’annuncio del Vangelo. In tal senso, «si crede veramente in Cristo, si entra nel suo mistero e si comincia a vivere di lui, quando si condivide con lui la passione per un Vangelo che riguarda assolutamente tutti gli uomini: “Guai a me se non annunciassi il Vangelo!” dice l’apostolo Paolo, colui che si è lasciato identificare a Cristo»37. Chiarito che alla sorgente dell’annuncio del Vangelo, si pone la passione per Gesù Cristo e la fede in lui, legate alla meditazione dei racconti evangelici, rimane da illustrare la modalità dell’annuncio. Secondo Theobald, nel contesto odierno, per i cristiani, si apre un nuovo orizzonte, centrato sulle relazioni, in corrispondenza allo stile relazionale del ministero di Gesù in Galilea. Si tratta di relazioni che, scaturite dal / nel rapporto di fede con il Nazareno, fanno sì che l’annunciatore sia trasparenza dell’evento della rivelazione e l’ascoltatore immerga se stesso nel Mistero santo di Dio. Pensando alla presenza relazionale nel quotidiano, e considerandola nell’orizzonte dell’evento della rivelazione, Theobald scrive: «Parlare della missione in termini di presenza “galileana” ci riporta infatti al ministero che Gesù condivide, fin dall’inizio, con alcuni dei suoi discepoli. Egli vive questo ministero in mezzo alla rete galileana e prima di tutto nelle pieghe della società, immedesimandosi con le realtà umane più elementari. Le donne e gli uomini che esercitano oggi il medesimo ministero – “la Chiesa” – non hanno altro compito che far risuonare, a loro volta, il “Beati!” che costituisce il cuore del Vangelo. Lo fanno rendendosi prossimi degli avvenimenti “rivelatori”, che orientano ogni vita, e accompagnando la maturazione delle nostre esistenze umane. Sostengono gli uni e rimanda37 C. THEOBALD, Trasmettere, 21; il corsivo è nel testo. 47 Seconda relazione: prof. d. Nunzio Capizzi no gli altri ai racconti della vita di Gesù. Nei luoghi in cui si trovano, rendono dunque possibile l’atto assolutamente individuale di dare senso alla propria vita e di affidarsi liberamente, ognuno, al mistero della propria esistenza. In breve, questi “rivelatori” desiderano che le donne e gli uomini, con i quali incrociano il cammino, possano giungere fino in fondo all’esperienza di “rivelazione” che è loro destinata: cosa del tutto impossibile al di fuori di un contesto relazionale»38. L’atteggiamento comunicativo appena segnalato, la modalità “galileana” della presenza della Chiesa, radicata nella “presenza galileana” di Gesù, secondo Theobald, dovrebbe essere essenziale alla Chiesa, per verificare e capire la sua fedeltà al Signore nella società postmoderna. In tale prospettiva, per Theobald, va posta una domanda fondamentale: «come a partire dalla trama dei racconti evangelici, la Chiesa – della quale sta scomparendo un modello millenario – può nascere nell’“elementare” delle nostre esistenze umane?»39. La risposta non può far altro che riproporre alla Chiesa lo stile di Gesù. Uno stile – sempre attinto dalla meditazione dei racconti evangelici – caratterizzato dalla presenza a “chiunque capiti”, dalla gratuità, dalla preghiera, da un’ospitalità senza frontiere. Esemplare, a proposito, il vissuto della Chiesa di Algeria, di cui Theobald parla, dopo averne per un po’ di tempo fatto esperienza: «una Chiesa […], “il cui popolo è musulmano”. Certo la situazione minoritaria è molto difficile da vivere [...]. Ma essa è vissuta serenamente, perché queste comunità piccolissime, che non hanno nulla da difendere se non il loro essere prossimo per tutti e per ciascuno, vivono realmente la trasmissione del Vangelo: i molti incontri quotidiani portano talvolta a interrogare i cristiani e le loro comunità su ciò che li abita»40. Posto che bisogna pensare oggi la comunicazione della parola salvifi38 C. THEOBALD, Trasmettere, 125-126; il corsivo è nel testo. C. THEOBALD, Trasmettere, 135; il corsivo è nel testo. 40 C. THEOBALD, Trasmettere, 25-26. 39 48 La missione della Chiesa: dalle origini ai nostri giorni ca, l’annuncio del Vangelo, nell’orizzonte della “presenza galileana” della Chiesa, in riferimento al ministero di Gesù di Nazaret, va specificata la questione della generazione della parola del credente, posto al servizio del Vangelo. Secondo Theobald, in tal senso, le condizioni attuali sollevano, per l’annunciatore, la richiesta esigente che la sua fede e la sua parola facciano corpo: «se, dunque, nel processo di trasmissione riceviamo i linguaggi della fede, in primo luogo quelli delle nostre Scritture, la principale sfida è che ci vengano consegnati in modo tale da generare la nostra parola […]. Qui arriviamo al luogo misterioso della “generazione” della fede, radicalmente “intrasmissibile” e nello stesso tempo debitore a persone nelle quali fede e parola singolare fanno corpo»41. Si tratta, ultimamente, di una riconfigurazione della vita cristiana secondo il Vangelo e a partire dal Vangelo, alla quale si accompagna una modalità umana di comunicazione della parola salvifica, espressa appunto nei termini di “presenza galileana”. Vengono in mente le parole di Paolo, che a proposito del mistero della generazione della parola sua e dei suoi compagni di apostolato, diceva: «noi però abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi. In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale. Cosicché in noi agisce la morte, in voi la vita. Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò, ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo» (2Cor 4,7-13). c) Dal punto di vista pastorale, sarebbe opportuno un confronto sul risuonare del Vangelo per mezzo della Chiesa nel mondo e su alcuni dei temi nodali indicati, con l’aiuto di Theobald, quali il “luogo misterioso 41 C. THEOBALD, Trasmettere, 10-11; il corsivo è nel testo. 49 Seconda relazione: prof. d. Nunzio Capizzi della generazione” delle parole degli annunciatori e la capacità di comunicazione umana della parola salvifica, nel contesto delle relazioni interpersonali. Come, giustamente, ha scritto Medard Kehl, non si tratta di darsi da fare per soddisfare al meglio le esigenze dei nostri contemporanei, ma di porsi in dialogo, con un accurato discernimento, per stabilire una comunicazione intorno al Salvatore e al suo infinito amore salvifico, che soddisfa l’inquieta nostalgia di vita, di senso e di salvezza42. Un aspetto che merita una particolare attenzione, nel suddetto confronto, è quello sulle qualità “umane” dell’annunciatore, recentemente richiamate anche nel Messaggio finale dell’ultimo Sinodo. Questo, infatti, sottolinea che lo stile “umano” di chi evangelizza trova la propria origine nel Maestro di Nazaret: «come Gesù al pozzo di Sicar, anche la Chiesa sente di doversi sedere accanto agli uomini e alle donne di questo tempo, per rendere presente il Signore nella loro vita, così che possano incontrarlo, perché solo il suo Spirito è l’acqua che dà la vita vera ed eterna»43. Le riflessioni sulla sequela e sull’assimilazione dello stile di Gesù di Nazaret, da parte del discepolo, fanno risuonare ultimamente le parole del concilio Vaticano II. Infatti, l’indicazione sulla via – cioè sullo stile – della Chiesa, con le motivazioni cristologiche addotte da Lumen gentium 8, ha trovato un significativo parallelo nel decreto conciliare sull’attività missionaria della Chiesa. Afferma Ad gentes 5: «questa missione continua e sviluppa nel corso della storia la missione del Cristo stesso, inviato a portare la buona novella ai poveri; la Chiesa, sotto l’influsso dello Spirito di Cristo, deve procedere per la stessa strada seguita dal Cristo, la strada cioè della povertà, dell’obbedienza, del servizio e del sacrificio di se stesso, fino alla morte, da cui uscì vincitore». 42 43 50 Cfr M. KEHL, Dove va la Chiesa? Una diagnosi del nostro tempo, Brescia 1998, 59-62. SINODO DEI VESCOVI, «Il Vangelo», 4. I PARTECIPANTI 1 ALBERTI mons. Alberto Firenze 2 ALBORE don Antonio Ariano Irpino-Lacedonia 3 ALIMENTI don Vincenzo Spoleto-Norcia 4 BAIAMONTE don Francesco Palermo 5 BALLAROTTO diac. Ottavio Tempio-Ampurias 6 BAROLI sem.sta Paolo Oristano 7 BASILE don Giovanni Palermo 8 BEVILACQUA don Antonio Chieti-Vasto 9 BEVILACQUA sig.ra Rosa Chieti-Vasto 10 BEVILACQUA sig. Mario Chieti-Vasto 11 BICEGO don Bruno Vicenza 12 BONINSEGNA don Giorgio Verona 13 BONZANO suor Maria Chiara Roma 14 BORSARI mons. Franco Modena-Nonantola 15 CACCIAPUOTI don Vincenzo Aversa 16 CALABRESI dott. Matteo Roma 17 CANU don Giammaria Ozieri 18 CAPIZZI don Nunzio Catania 19 CARLUCCI mons. Diego Altamura-Gravina-Acqua viva Delle Fonti 20 CARTA don Nino Ozieri 21 COSSU sem.sta Giovanni Nuoro 22 COZZOLINO don Giorgio Napoli 51 23 CRISCUOLO mons. Giuseppe Aversa 24 CRISMAN mons. Egidio Pisa 25 DE ROBBIO don Pasquale Teano-Calvi 26 DE VINCENTIS don Michele Ariano Irpino-Lacedonia 27 DIMARNO don Luigi Altamura-Gravina-Acqua viva Delle Fonti 28 D'URSO mons. Alberto Bari-Bitonto 29 FARINA sem.sta Angelo Sassari 30 FIORE don Giacomo Altamura-Gravina-Acqua viva Delle Fonti 31 FLAMMINI don Giovanni San Benedetto Del TrontoRipatransone 32 GASPARINI don Gastone Adria-Rovigo 33 GHIDELLI mons. Carlo arcivescovo emerito di Lanciano-Ortona 34 GIRALDO don Giovanni Padova 35 GONI don Massimo Faenza-Modigliana 36 GRISI don Pasquale Napoli 37 GUERRINI diac. Mario Arezzo-Cortona-Sansepolcro 38 INFANTE don Pasquale Foggia-Bovino 39 LANFORTI don Giancarlo Firenze 40 LANZARINI mons. Piero Vicenza 41 LORRAI sem.sta Gianmarco Cagliari 42 MACEDO DE OLIVEIRA diac. Joilson Lanusei 43 MAGLIO diac. Manlio Napoli 44 MAINENTE don Luigi Verona 45 MANIERO don Giuseppe Padova 52 46 MANSI mons. Luigi Cerignola-Ascoli Satriano 47 MARIOTTI don Alcide Reggio Emilia-Guastalla 48 MEMOLI don Mimmo Bari-Bitonto 49 MIGLIETTA don Adriano Brindisi-Ostuni 50 MIRAI sem.sta Maurizio Iglesias 51 MORBIDELLI don Romano Teano-Calvi 52 MUNARI don Ennio Reggio Emilia-Guastalla 53 NARDELLA mons. Luigi Foggia-Bovino 54 NIZZI prof. Antonio Foligno 55 PAOLONI don Gabriele San Benedetto Del TrontoRipatransone 56 PERI mons. Vittorio Assisi-Nocera UmbraGualdo Tadino 57 PESARESI mons. Pio Macerata-Tolentino-Recanati-Cingoli-Tr 58 PETRILLO mons. Clemente Aversa 59 PITTAU sem.sta Luca Ales-Terralba 60 POLI don Battista Brescia 61 PORCU sem.sta Daniele Ales-Terralba 62 ROSATI don Stefano Parma 63 ROSSI don Guglielmo Padova 64 RUARO don Pietro Vicenza 65 RUGGIERO dott.ssa Genny Bari-Bitonto 66 RUGGIERO sig. Antonio Bari-Bitonto 67 SANNA mons. Albino Nuoro 68 SANNA don Giuseppe Oristano 69 SASSO sem.sta Ciro Napoli 70 SCARLATELLA don Giacomo Caltagirone 53 71 SCARPONI don Luigino San Benedetto Del TrontoRipatransone 72 SPINOZZI don Nicola San Benedetto Del TrontoRipatransone 73 SULLO don Mario Sessa Aurunca 74 TAGLIAFIERRO mons. Pietro Aversa 75 TENDAS sem.sta Diego Oristano 76 TOMMASI diac. Mauro Arezzo-Cortona-Sansepolcro 77 TORRES GONZALES don Jose’ Disney Arezzo-Cortona-Sansepolcro 78 TURATO don Sergio Padova 79 VALDINI don Nunzio Caltagirone 80 WOLCZYNSKL don Pawel Parma 54 Finito di stampare nel mese di aprile 2013 da LITOGRAFTODI Srl – Todi (PG)