ANNA MARIA CAVALIERI
Due storie
Due vite
INTRODUZIONE
di
Alessandro Malaguti
Devo ammettere che quando ho cominciato a leggere questo
romanzo, non sapevo minimamente cosa aspettarmi.
Non avendo mai letto prima nulla che fosse scaturito dalla penna
di Annamaria, mi sono avvicinato con una curiosità quasi morbosa,
come fossi consapevole che avrei scoperto un lato di lei che mi
avrebbe affascinato.
Ed in effetti non mi sbagliavo poi così tanto.
Il romanzo scorre sulle linee quasi parallele delle vite dei due
personaggi, Giulio C. e Olimpia, con la frequenza di un pendolo che
oscilla inesorabile, ora lento, ora velocissimo.
Come contrappesi di un pendolo che deve essere sincronizzato,
Annamaria ci porta per mano di volta in volta ad esplorare le
vicende che vedono i due protagonisti vivere due esistenze
apparentemente diverse, segnate da momenti di emozioni violente e
da periodi piatti, silenziosi ed introversi, nei quali la vita li
catapulta, loro malgrado.
Conoscendo Annamaria, non ho potuto fare a meno di notare
come sia stata in grado di amalgamare i tanti spunti autobiografici
presenti evitando però di farne il cuore del romanzo, ma usandoli
sapientemente per caratterizzare al meglio le tante sfaccettature dei
personaggi, anche quelli di secondaria importanza.
È interessante notare anche l’uso della sola iniziale di C. che
associata al nome di Giulio richiede un certo sforzo per disabituare
il pensiero ad associarla a “Cesare”. D’altro canto, proprio questo
collegamento inconscio, aiuta ad delineare meglio i contorni di un
uomo che, nel suo mestiere di archeologo, tanto ha a che fare con la
storia antica.
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Nonostante il romanzo sia collocato in anni ben precisi, non si
tratta di un romanzo storico, né, tanto meno, il passaggio del
millennio o il crollo del muro di Berlino sono eventi centrali della
narrazione. L’inserimento di questi elementi, però, aiuta a dare una
scansione temporale ben precisa alla crescita dei personaggi ed a
contestualizzare meglio le vicende, anche sotto il profilo geografico
che finisce per diventare un elemento importante della storia.
Di luogo in luogo, le vite dei personaggi prendono così l’abbrivio
iniziale che li porterà alla destinazione successiva attraverso periodi
sempre ben delineati della loro vita. Ciascuno di questi archi di
tempo carica di esperienze intense, spesso difficili, le esistenze di
Giulio e Olimpia, e solo sullo sfondo appaiono, quasi vellutate, le
figure costanti della loro vita: Mara, la madre di Giulio, la famiglia
di Olimpia, le amicizie di lunga data; figure che affollano il passato
per divenir sempre più rade, sino a scomparire con il sole che al
tramonto si tuffa nel mare.
Ad ogni oscillazione del pendolo, il tempo si sposta in avanti in
maniera discreta e migliora la sincronia che solo nelle ultime pagine
del romanzo diventa concreta e pare aver sigillo in quel senso di
religiosità pacata e sommessa che si respira nelle prime pagine,
dove cristianesimo ed ebraismo convivono nelle famiglie e nella
storia dei protagonisti, nella più completa normalità.
Non mancano i sentimenti forti, coinvolgenti, espressi in
descrizioni semplici, dirette ed efficaci, capaci di suscitare emozioni
davvero intense anche nei momenti in cui viene esplorato l’ambito
dei sentimenti maschili, cosa non comune per un romanzo scritto in
rosa.
Forse non sarò il critico più obiettivo, lo ammetto, ma la lettura
di queste pagine è stata più che piacevole, il testo scorre veloce, i
dialoghi ben congeniati e sopra tutto, una Storia davvero
appassionante.
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GIULIO CLAUDIO
TRAPASSATO REMOTO
Mara Bergamin e Marco Erneti avevano vent’anni e si
amavano fin da bambini. La loro non era stata neppure una
scelta, era come se avessero sempre saputo che si sarebbero
uniti per la vita.
L’essere nati in un piccolo paese della provincia veneta,
Mirano, aveva senza dubbio contribuito a facilitare lo stare
insieme e creato le occasioni di incontro.
Come tutti gli innamorati, spesso passavano il tempo a fare
progetti sul loro avvenire, ma c’era qualcun altro che stava
prendendo decisioni tali da modificare i loro pur semplici
programmi.
Quel 10 giugno 1940 l’urlo della folla sotto il balcone di
Piazza Venezia accompagnò e coprì le loro timide ansiose
domande: «E adesso? Quanto durerà?»
Nessuno dei due era un fanatico e nelle loro famiglie la
politica, anzi, era vissuta come una cosa da SSIORI, un lusso
per chi non doveva guadagnarsi il pane con un lavoro spesso
duro e stentato. Nessuno in casa loro esultò per quella vittoria
certa, che in breve tempo avrebbe fatto dell’Italia, già
imperiale, una grande potenza. I primi mesi di guerra furono
superati con una crescente ansia ma anche con il conforto che
cercavano di trovare nella fede incrollabile di quanti ripetevano
le parole del Duce e dei bollettini di guerra che davano per
scontato un rapido trionfo.
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Marco, per sua fortuna, a causa di grossi problemi alla vista,
aveva evitato il servizio militare e ora più che mai se ne
rallegrava, sorridendo al ricordo di quando, subito dopo la
visita al distretto militare, tanti coetanei desiderosi di gloriarsi
con una divisa, lo avevano sbeffeggiato.
Purtroppo, però, il desiderio di tranquillità, di pace, di
stabilità dei due ragazzi aveva fretta, tanta fretta ed era sempre
più difficile non ascoltarlo.
Come la maggior parte della popolazione locale, anche le
loro famiglie e loro stessi erano fedeli e praticanti cattolici, per
cui il parroco don Romano era per loro un punto di riferimento,
non solo religioso ma anche psicologico, un consigliere oltre
che un confessore. Così, quando iniziò la nuova vera tragedia
della guerra civile, capirono che non potevano più aspettare
oltre: il futuro appariva sempre più’ incerto e il terrore di
morire non era pari a quello di uscire dalla vita senza essere
diventati i signori Erneti.
Il vero problema per loro era avere una casa, un piccolo
rifugio per potersi parlare e amare liberamente, senza
condividere la propria intimità con le rispettive famiglie. Don
Romano comprese immediatamente che poteva aiutare quei
due ragazzi: la sua canonica era ampia, articolata in due ali
praticamente indipendenti e una di queste sarebbe potuta
diventare benissimo la prima, provvisoria dimora della nuova
famiglia.
I quasi due anni che seguirono non furono certo facili: a
mano a mano che i tedeschi si ritiravano e il fronte si spostava,
tutto diventava più rischioso, anche perché don Romano non
sapeva negare il proprio aiuto a nessuno e spesso di notte
sentivano movimenti e voci concitate provenire dalle stanze
vicine e nel cortile della canonica. Con il cuore in gola
trattenevano il respiro e si stringevano in quel vecchio grande
letto che era stato il loro viaggio di nozze.
Pur amandosi in modo totale, sapevano che non era quello il
momento per pensare di appendere un fiocco rosa o azzurro
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alla loro porta, aiutati in questo anche dal don che, pur non
accennando mai direttamente alla questione, con varie e
spiritose allusioni, condivideva la loro scelta, contro ogni
direttiva contraria, civile o religiosa che fosse.
E arrivò finalmente il vento dolce della primavera 1945 che
portò con le rondini la fine della guerra. I primi mesi di pace
furono per tutti una ubriacatura di entusiasmo e libertà
ritrovata, ma presto si cominciarono a sentire anche i disagi di
una ricostruzione e una ricerca di normalità che impegnavano
più degli stenti della guerra.
Se fino ad allora avevano potuto sopravvivere grazie
all’attività di Mara, che si dava un gran daffare sia in canonica
che presso alcune famiglie agiate della zona, e al lavoro di
Marco nel vecchio emporio di famiglia, ora, se volevano
trovare una sistemazione più indipendente, dovevano cercare
altre entrate. Su questo spesso stavano la sera ad arrovellarsi,
perché il negozio paterno non poteva certo mantenere
decorosamente due famiglie, di cui una contava di espandersi.
Certo mai avrebbero comunque voluto che la soluzione dei
loro problemi si presentasse con la faccia della morte.
Il padre di Marco, infatti, fu portato via improvvisamente da
un ictus in una calda e placida serata dell’aprile 1946. Rimasto
vedovo da poco, aveva accolto in casa sua un fratello, segnato
da un carattere infantile, mite, ingenuo e totalmente non
autosufficiente. Se ne era preso cura con tanto affetto finché la
morte non era venuta a reclamare il suo credito. Poiché Marco
era l’unico erede, lui e Mara, superato il momento del dolore, si
trasferirono nella casa di famiglia, affidarono lo zio ad un pio
istituto della zona e, piano piano, si dedicarono a riorganizzare
l’attività commerciale, dirigendola verso il settore che in quei
momenti era più richiesto. Dopo la guerra e i bombardamenti,
la ricostruzione era in piena ripresa, così Marco si specializzò
in tutto quanto aveva a che fare con l’edilizia e dintorni,
trasformando il bazar paterno in un negozio di ferramenta.
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Le cose si stavano mettendo bene e in paese molti
cominciavano a invidiare il successo di quei due ragazzi che
erano usciti dal conflitto carichi di desideri e di voglia di
realizzarli, anche se solo loro sapevano quante volte avevano
invece temuto di non farcela.
Sull’onda di queste rosee prospettive, decisero, quindi, che
poteva essere venuto il momento di pensare ad un erede. E
mentre a Roma iniziava la gestazione della nuova carta
costituzionale, a Mirano cominciava l’attesa del nuovo membro
della famiglia Erneti.
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OLIMPIA
TRAPASSATO REMOTO
Daniel Alessandri e Caterina Anselmi erano insieme ormai da
alcuni anni. Facevano coppia fissa dovunque, all’interno di
quella compagnia di amici che li aveva fatti incontrare.
Certo, lui non passava inosservato col suo fisico atletico, la
carnagione leggermente olivastra e gli occhi di un verde
profondo, eppure, quando Caterina gli aveva stretto la mano
per la prima volta, lo aveva giudicato un po’ troppo… troppo.
Come poteva essere anche simpatico e intelligente uno che già
aveva avuto in dono tante altre doti? Forse era un po’
prevenuta nei confronti di quel giovane professore di
educazione fisica che, le avevano detto le amiche, insegnava al
liceo classico. Lei non poteva certo dirsi una sportiva e non
amava granché neppure assistere dalle gradinate di un
palazzetto dello sport alle partite di pallacanestro, tuttavia, quel
pomeriggio di sabato di un inizio di novembre nebbioso non
aveva avuto alternative all’invito delle amiche: «Dai, andiamo
a vedere la partita della 4 Torri? Ci sono dei ragazzi da
sogno!».
Quando si era ritrovata accanto Daniel, che seguiva con
grande partecipazione le fasi dell’incontro, aveva solo cercato
di immedesimarsi negli schieramenti e nei passaggi di palla per
cercare di capire quali emozioni doveva dare tutto quel correre
e sgambettare.
All’uscita, qualcuno le aveva presentato il suo vicino, che le
aveva subito sorriso e si era unito al loro gruppo per una pizza.
Non ricordava nemmeno di cosa avevano parlato, visto che si
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erano ritrovati vicini anche a tavola. Forse lei aveva risposto
alle sue domande, informandolo che lavorava all’Inail, che si
occupava di amministrazione, che era figlia unica e altre
informazioni generiche e non compromettenti.
Se quell’incontro per Caterina era passato del tutto
indifferente, per Daniel invece aveva lasciato un segno: quella
ragazza, piccolina ma perfetta nei suoi capelli biondi,
accentuati dal castano scuro di due enormi occhi, con quell’aria
così apparentemente assente, suscitava in lui una curiosità
stimolante.
Quando, qualche tempo dopo, ad una delle festicciole
domestiche tipiche degli anni Sessanta, si erano rincontrati,
Daniel era partito alla carica per cercare di conquistare quella
che sembrava l’unica ragazza insensibile al suo indubbio
fascino. Avevano ballato insieme varie volte e, quando
qualcuno aveva abbassato le luci, lui aveva cercato di stringerla
con particolare trasporto. Caterina, pur senza sembrare seccata,
aveva subito ripristinato le distanze.
Un paio di giorni dopo, lui le aveva telefonato: le andava di
uscire insieme? Lei non aveva pronta nessuna scusa per
declinare l’invito, per cui aveva voluto provocarlo chiedendogli
il motivo di una tale richiesta.
«Non sarei credibile se ti dicessi che mi interessa conoscerti
meglio?» aveva risposto, dopo solo un breve attimo di
esitazione.
«Non vorrei ti facessi strane idee se accetto» aveva risposto
lei.
«Corriamo questo rischio?» aveva scherzato lui.
Così erano usciti insieme da soli per la prima volta.
Nonostante il tempo non proprio piacevole, avevano
passeggiato a lungo, senza badare a dove andavano, seguendo i
percorsi tortuosi delle stradine dell’antico castrum bizantino,
prima di approdare davanti ad un aperitivo. Le ore erano
scivolate via, come i loro passi nella nebbia e, giunta alla porta
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di casa, Caterina aveva dovuto ammettere con se stessa che non
le era dispiaciuto trascorrere così quel paio d’ore.
«Ci rivediamo, allora?» le chiese Daniel.
«Domani ho un rientro in ufficio, ma se vuoi…»
«Posso venirti a prendere all’uscita», le propose.
Così era cominciata la loro storia.
Era ormai più di un mese che durava, quando, passando per
via Mazzini, quasi all’incrocio con via Terranuova, Olimpia
notò un certo via vai e alcune persone, che stavano entrando in
un antico edificio, salutarono Daniel.
«Shalom» rispose lui.
«Come hai detto?» si incuriosì Caterina.
«Ho solo salutato alcuni conoscenti e amici di famiglia»
rispose con naturalezza.
«Ma in che lingua? Sono stranieri?» insistette lei.
«Come lo siamo un po’ tutti noi.» Fu la sibillina risposta di
Daniel.
«Non capisco…»
«Siamo ebrei, non lo sapevi?» le chiese con una certa
meraviglia.
«No, non lo sapevo. Del resto credi che questo possa
modificare il nostro rapporto?» lo sollecitò.
«Assolutamente no, per quanto mi riguarda».
«E dove andavano i tuoi amici?» si informò Caterina.
«In sinagoga, alla funzione dello Shabat» le spiegò.
«Che sarebbe?»
«L’equivalente della vostra domenica, il giorno di festa, che
per noi è il sabato.» le spiegò.
«E tu? Non sei praticante?»
«Si, mediamente, diciamo.»
«Cosa vuol dire?» lo sollecitò Caterina, fermandosi e
guardandolo dritto negli occhi.
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«Che se talvolta un sabato…» stava per chiarire, quando lei
lo bloccò.
«Forse sono rimasta indietro io col calendario, ma oggi è
ancora venerdì, se non sbaglio».
«Certo, ma per noi il sabato, la festa, inizia il venerdì sera,
poiché il tempo è cominciato da quando il Signore separò le
tenebre, che preesistevano, dalla luce che seguì»
Caterina continuava a tartassarlo di domande e Daniel
soddisfaceva volentieri tutte le sue curiosità, finché, alla sua
domanda di come avessero vissuto, lui e la sua famiglia, gli
anni tragici del fascismo e delle leggi razziali, lo vide incupirsi
ed esitare un momento.
«Scusa, forse sono stata troppo indiscreta e indelicata.
Lascia stare, cambiamo argomento»
Cercò di giustificarsi.
«No, niente affatto. Certo, sono argomenti che mi toccano
molto da vicino, anche se i miei ricordi di bambino non
arrivano così lontano» rispose prontamente. «Sono nato in
Svizzera, dove i miei si erano rifugiati già da qualche anno
prima che io nascessi, grazie all’aiuto e alla lungimiranza di
alcuni zii che, già dai primi anni Trenta erano emigrati a
Zurigo. In fin dei conti, la mia è stata un’infanzia dorata, visto
che non potevo sapere né capire quello che stava succedendo a
milioni di nostri correligionari. Ti dirò che, quando ho
cominciato a studiare storia e a comprendere, almeno in parte,
quanto era successo, mi sono sentito quasi un traditore.»
«Perché? Avresti voluto anche tu sparire su un treno
piombato e finire in fumo come tanti altri? A cosa sarebbe
servito avere altre vittime in più? Non sarà meglio che
qualcuno sia sopravvissuto per continuare la stirpe di Israele?»
lo confortò Caterina, visibilmente partecipe dei tormenti di lui.
La rivelazione dell’ebraicità di Daniel, si stupiva lei,
riflettendo nei giorni seguenti, sembrava rendere quel ragazzo
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ai suoi occhi ancora più speciale. Era sciocca a sentirla come
un pregio, come una dote, di cui anche lei poteva partecipare?
Fosse come fosse, da quella sera, i loro rapporti si fecero
ancora più intimi.
Nonostante l’età non più adolescenziale e il clima
presessantottino, Caterina non aveva molte esperienze
pregresse, per cui visse i primi veri rapporti con Daniel in
modo intenso. Spesso parlando con amiche e colleghe, si era
posta il problema della sicurezza per evitare una gravidanza
che sarebbe stata intempestiva, ma non sapeva decidere quali
sistemi adottare, pertanto confidava incoscientemente più nella
fortuna e nell’esperienza di lui. Visto, poi, che per quasi due
anni tutto era andato bene, perché preoccuparsi?
Ma anche alla fortuna c’è un limite, comunque.
E, infatti, puntualmente, nel novembre del 1967, accadde.
Caterina, aveva da tempo comunicato in casa che aveva un
ragazzo col quale usciva e si trovava bene. Alle ripetute
richieste dei suoi di conoscerlo, aveva sempre risposto che non
c’era fretta. Ora, invece doveva accelerare i tempi.
Daniel, alla notizia del prossimo lieto evento, non si mostrò
né troppo sorpreso né contrariato.
«C’era da aspettarselo che sarebbe successo, prima o poi,
no?» fu il suo commento.
Stupita da tanta tranquillità, Caterina non poté non
sospettare: «Non l’avrai mica fatto apposta, per caso?»
«Ti assicuro di no, tuttavia non mi dispiace troppo. Cosa
succede, in fin dei conti? Siamo maggiorenni, abbiamo un
lavoro, vuol dire che metteremo su casa.»
Sì, detto così, sembrava tutto facile, ma la differenza del
loro credo religioso finì con l’avere un certo peso, soprattutto
da parte della famiglia del futuro sposo.
Che il figlio minore si sposasse non poteva che rallegrare i
coniugi Alessandri, ma quando seppero che la prescelta era una
goy, ci furono molte rimostranze.
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«Ma Daniel,» lo rimproverò la madre «io avevo sempre
sperato che avresti sposato una di noi, della nostra gente.
Siamo rimasti così pochi, che se diluiamo ancor più il nostro
sangue, finiremo con lo scomparire. Ero tanto felice, quando ti
vedevo parlare con la figliola dei Sinigaglia, che immaginavo
già di poterla chiamare nuora. Ti confesso, Daniel, che sono un
po’ delusa da questa tua scelta. Hai pensato alle complicazioni
che ci saranno per voi e soprattutto per gli eventuali figli?
Come cresceranno, secondo quale religione? Tu sei l’uomo e
quindi i tuoi figli non saranno mai ebrei!»
«Mamma, non ci sono più le leggi razziali e quanto ai
figli… lo verificheremo presto.»
«Adonai, Adonai, non dirmi che…» si agitò sulla sedia.
«Sì, mamma, è già in arrivo»
Anche per Caterina l’annuncio non fu proprio
tranquillissimo e accolto festosamente.
Comunque le famiglie si incontrarono, socializzarono e
fecero buon viso all’inevitabile.
I due sposini cercarono, molto orgogliosamente, di dare loro
il minor peso possibile, non solo sbrigando da soli tutte le varie
incombenze, ma anche facendo fronte economicamente
all’onere di una seppur ristretta cerimonia.
Grazie, comunque ad agevolazioni bancarie e aiuti di parenti
che avevano voluto mostrarsi particolarmente generosi,
accesero un mutuo e acquistarono un appartamento, che
iniziarono ad arredare con il minimo indispensabile.
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GIULIO CLAUDIO
PASSATO REMOTO
Quando appese il fiocco azzurro all’interno della vetrina del
suo negozio, Marco aveva le mani sudate e tremanti per la
gioia incontenibile. Mara,donna forte e volitiva, non si era
troppo crogiolata nell’accettare riguardi e attenzioni da
puerpera: dopo pochissimi giorni dal parto, era scesa di nuovo
in campo e si destreggiava tra mille impegni e vagiti.
La scelta del nome li aveva occupati parecchio, finché si
erano accordati su un doppio nome che ricordasse i loro
rispettivi genitori: Giulio Claudio.
«Suona bene» aveva commentato Marco, che ricordava
vagamente di aver sentito nominare un Giulio Cesare quando
sedeva sui banchi delle elementari.
Quando fu il momento di iniziare il suo percorso scolastico,
Giulio C. non si distinse certo per la docilità del carattere.
Dimostrò, invece, da subito una brillante intelligenza, spiccate
capacità deduttive e logiche, ma anche una decisa ostinazione
nel perseguire i massimi risultati.
Decisamente, quello che ormai era diventato un ragazzino,
meritava di studiare, di andare ben oltre le scuole medie, che
pure per Mara e Marco erano una meta ambiziosa. Anche a
detta dei professori, Giulio C. aveva una netta predisposizione
per le discipline umanistiche. Spesso le insegnanti avevano
ascoltato con piacere e crescente entusiasmo le sue fantasie, i
suoi racconti che riuscivano ad incantare anche i ragazzi più
vivaci. Giulio C. pareva nato apposta per estasiare con la
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creazione di storie meravigliose, che lui per primo viveva
raccontandole.
Mara, a sentire ciò, rabbrividiva ricordando il padre Giulio,
noto in tutto il paese e dintorni, come un contafole
meraviglioso, ricercato in tutte le stalle e casolari delle
campagne, perché come sapeva raccontarle lui, le cose
parevano vere. Altro che cinema o teatro, che la maggior parte
del pubblico non aveva mai neanche visto in fotografia!
Quando si spandeva la voce che c’era Giulio, tutti accorrevano,
portandosi dietro sgabelli, vino e, nei momenti migliori, pane e
salame. E ora avere un figlio che sembrava aver ereditato da un
nonno sconosciuto la capacità di tenere in pugno l’attenzione di
un vasto uditorio, la gratificava come un dono impensato e
magnifico.
Così iniziò il suo via vai per frequentare il ginnasio e il liceo
classico, sopportando i disagi delle attese dei mezzi pubblici e
sfruttando il tempo del viaggio per ripassare le lezioni del
giorno.
Ottenuta la maturità con un brillantissimo risultato, espresse
il desiderio di frequentare l’università, cosa che fu accolta dai
genitori con enorme orgoglio ma anche con qualche perplessità
di natura economica. Giulio C., però, meritava qualunque
sacrificio, anche perché la famiglia avrebbe visto realizzarsi
così una grande utopia generazionale: un laureato, il primo
laureato in casa Erneti!
Con pazienza e parsimonia riuscirono ad amministrare il
bilancio familiare: Mara, oltre al lavoro al negozio, si mise a
cucire e ricamare per tutto il paese, in modo da aggiungervi di
suo qualche banconota.
Gli ultimi anni universitari di Giulio C. coincisero con
quella che si sarebbe poi chiamata la Rivoluzione del 68, data
epocale. Anche Padova fu stravolta da quella ventata parigina e
le aule universitarie si trasformarono in dormitori, sale per
assemblee autoconvocate, cucine improvvisate. Lezioni, appelli
ed esami furono sospesi o annullati.
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Per Giulio C.,che più proseguiva nei suoi studi, più si
appassionava nel desiderio di approfondire le sue conoscenze, i
proclami politici, gli slogan dei più scalmanati e il blocco
dell’attività didattica erano vissuti come degli ostacoli, di
fronte ai quali si sentiva impotente. Soprattutto perché tutto ciò
che poteva fargli ritardare la fine degli studi gli pareva
un’offesa nei confronti dei genitori che sacrificavano tempo,
forze e denaro per permettergli di conquistare il titolo di
«dottore in Lettere».
Parecchi esami li aveva preparati con un amico e compagno
di liceo che abitava in un paese vicino a Mirano. Insieme,
rileggendo e traducendo l’epica omerica, si erano appassionati
ai grandi eroi, alla loro totale adesione ad un ideale di valore
che meritava anche il sacrificio di sé e della propria vita,
perché era il prezzo di un’immortalità del nome e della
memoria che superava qualunque materiale ed effimera
tranquillità umana. Questo per Ettore e Achille era essere
uomini: conoscere ed accettare il proprio destino di tragici eroi.
E che dire poi delle grandi pagine degli storici, Tucidide,
Erodoto, dalle quali balzava viva una civiltà fatta di principi, di
diritti, di ordine, diversi, è vero, da quelli che ispiravano le
moderne costituzioni, eppure così saldi che avevano creato e
mantenuto per secoli una civiltà di cui essere orgogliosi.
In poche parole, alla fine degli esami, i due amici si erano
ritrovati a sognare davanti alle foto delle acropoli micenee, del
Partenone, del patrimonio statuario ellenico, come due
innamorati di fronte alle foto dell’amata. Il desiderio di partire
verso la Grecia si faceva sempre più intenso e urgente mano a
mano che si avvicinava il giorno della discussione della tesi.
Con grande forza di volontà nei quattro anni regolamentari,
Giulio C. uscì dall’Ateneo patavino con un 110 e lode. La gioia
di tutti fu grande ma quella sua raggiunse l’apice, quando si
vide consegnare una busta abbastanza appesantita da un
cospicuo numero di banconote, regalo di parenti e amici. Era
quello che gli ci voleva per realizzare il tour della Grecia.
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Con una esaltante euforia, insieme all’amico, si diede da
fare per organizzare la partenza, gli spostamenti, le tappe.
Avrebbe voluto vedere tutto, toccare ogni pietra testimone
della Storia, ma si rendeva conto che doveva restare con i piedi
per terra. Così scelsero di partire nella maniera più economica,
un posto ponte da Venezia a Patrasso, e di affidarsi alla
proverbiale ospitalità greca per ottenere passaggi con
l’autostop.
La traversata dell’Adriatico, secondo la rotta inversa a
quella seguita dagli antichi coloni delle metropoli elleniche, gli
parve infinita: gli sembrava che la nave gli bruciasse sotto i
piedi. Ma finalmente ecco apparire il porto, meta del loro
sbarco.
L’insieme degli odori che li accolse, una miscela di aromi
dolci, forti sentori di nafta e di afrori marittimi, a tutta prima li
disorientò, ma una volta entrati in uno dei tanti kafenion e
riempito lo stomaco con una mielosa pasta dal sapore antico,
diluita in un caffè greco (o turco), si sentirono meglio.
Certo la modernità della città marittima non era il genere di
benvenuto che avrebbero desiderato, ma a questo erano
preparati.
Fortunatamente, sia gli automobilisti greci che i turisti si
dimostrarono sempre assai disponibili e così poterono spostarsi
agevolmente e senza sprecare troppo tempo da Olimpia a
Corinto, facendo tutto il periplo del Peloponneso a piccole
tappe. Si fermarono ovviamente a Olimpia, Sparta e finalmente
poterono salire alla rocca di Micene. Era il tardo pomeriggio
quando passarono con timore reverenziale sotto il ciclopico
architrave della Porta dei Leoni, appena in tempo prima della
chiusura. Un brivido scuoteva Giulio C. mentre calpestava le
pietre sulle quali, secondo Omero, aveva regnato Agamennone.
«Pensa» diceva rivolto all’amico che sembrava interessato
ad ogni sasso, ad ogni buco, «a quando il signore di Micene
sarà uscito da qui con i suoi guerrieri, alla volta di Troia. Non ti
sembra di udire il rimbombo dei loro calzari su questi lastroni,
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non vedi il bagliore corrusco delle loro armi?» gli chiedeva
quasi trasognato.
E come Schlieman rileggeva Omero che, con i suoi incliti
versi, aveva reso immortale un mito.
«Dai, Giulio,» lo invitava l’amico ripresosi dall’estatica
ammirazione, «lo sappiamo bene che questo strato non
appartiene all’età dell’Atride!».
«Ma cosa importa, se la corrispondenza della poesia con la
storia appare così perfetta e totale!», gli rimandava.
Superato l’istmo di Corinto, seguendo la strada litoranea,in
direzione di Atene, furono accompagnati, per un certo tratto,
dalla vista dell’isola di Salamina. Eschilo suggeriva loro le
immagini dell’epico scontro navale che vide la distruzione
della flotta di Serse.
E poi ecco Atene, il faro della civiltà passata e presente,
della democrazia, dell’arte. Fu un vero bagno nella storia e nel
bello. L’Acropoli, il Museo Nazionale furono scandagliati fin
nei più reposti angoli. Solo quando le forze cominciavano a
calare, si accorgevano che anche lo stomaco reclamava la sua
necessità di essere saziato. Allora partivano alla ricerca di
qualche modesto estiatorio dove poter soddisfare la fame con i
cibi più economici e nutrienti. La sera, poi, si concedevano di
annaffiare la loro parca cena con una bottiglia di retsina che,
oltre al pregio di essere economico, era anche tipico e
dissetante.
Un’altra tappa che li rapì fu il santuario di Delfi. Lo
visitarono in religiosa concentrazione e si dichiararono
perfettamente d’accordo col cartello all’ingresso della Via
Sacra, che invitava i visitatori ad accedere a quell’ascesa con
un abbigliamento consono alla natura del luogo. I cipressi che
punteggiavano il percorso sembravano aggiungere severità al
paesaggio.
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Non poterono, a quel punto, non deviare verso nord, per
andare a rendere omaggio ai trecento spartani di Leonida,
caduti alle Termopili, per colpa di un traditore.
Purtroppo i giorni erano trascorsi in fretta e il loro budget si
stava ormai esaurendo. Così, dopo aver acquistato qualche
doveroso souvenir e regalini vari, con la malinconia di chi è
costretto a lasciare incompiuta un’impresa, si avviarono verso
Patrasso, da dove la stessa nave dell’andata li avrebbe riportati
a casa.
Quando si imbarcarono, verso il tramonto, e videro
allontanarsi la costa greca, sentirono di essere diversi dai
ragazzi che erano sbarcati quasi un mese prima: una ricchezza,
una saggezza mai prima sperimentata li riempiva e li aveva
trasformati in uomini.
Il rientro a casa fu festoso ma, nello stesso tempo mise di
fronte Giulio C. alla necessità di decidere del suo futuro. La
laurea in lettere era senza dubbio un buon punto di partenza.
Già negli ultimi tempi, mentre si aggirava per le aule del
Liviano, aveva cominciato ad immaginare come utilizzare il
suo titolo: forse il suo stesso nome conteneva un destino che lo
attirava verso il passato, verso la grandezza di Roma e della
classicità. Quale grande soddisfazione sarebbe stata per lui
andare alla ricerca di sepolte testimonianze delle radici della
cultura italica!
Grazie anche all’aiuto dei docenti che lo stimavano, si mise
in contatto con gruppi di studi e seminari archeologici,
partecipò a campagne di scavi e finalmente ottenne la
specializzazione in archeologia.
Per qualche anno insegnò lettere in alcuni istituti della
provincia di Venezia, finché il rinvenimento, in una piccola
necropoli etrusca dell’alto Lazio, di un importante e integro
vaso attico con una decorazione inusuale, gli aprì
definitivamente le porte della carriera di archeologo.
25
La sua capacità di comunicare in forma divulgativa anche
concetti ostici o molto specialistici, gli permisero anche di
pubblicare qualche articolo su diverse riviste e periodici, anche
non espressamente del settore. Per qualche tempo continuò così
una doppia attività di docente e pubblicista, riuscendo anche a
scrivere un paio di romanzi, “Il ragazzo della Chimera” e “Le
armi dell’oplita”.
Dalla carta stampata al teleschermo, poi, fu questione di
poco: gli venne affidata, da una emittente locale, una rubrica di
carattere storico-turistico che riscosse subito un buon successo.
Durante le sue ricerche per preparare articoli e relazioni, gli
capitava a volte di incontrare personaggi dell’antichità
appartenenti alla vita quotidiana, nomi che non comparivano
sui libri di storia e che, proprio per questo, lasciavano ampio
spazio a voli fantastici.
Anteocle, uno schiavo greco, venduto al mercato degli
schiavi di Roma, divenne il protagonista del suo nuovo
romanzo “In catene”, come i precedenti, una vicenda che
coniugava la Storia, quella vera, documentata e attendibile, con
fantasie spesso tinte di giallo che sapevano creare quella
suspense e quel pepe che offrivano ad un pubblico vasto e
composito il piacere della lettura.
Dal punto di vista sentimentale Giulio C. aveva vissuto per
lungo tempo in una specie di savana: quasi un deserto,
costellato qua e là da qualche relazione, più accettata che
voluta. Durante gli anni universitari aveva ricevuto numerose
sollecitazioni da parte di compagne di studi che avrebbero
desiderato dividere con lui, oltre ai libri, anche momenti di più
piacevoli attività. Da qualcuna si era lasciato convincere, con
una certa innegabile soddisfazione per entrambi. Non aveva,
però, quasi mai preso lui l’iniziativa, anche perché, a onor del
vero, non ne aveva bisogno.
Di tutte quelle frequentazioni, una gli era rimasta
particolarmente impressa: Fabiola.
26
Alta e formosa, non ostentava, a differenza di molte altre, la
propria opulenza. I lunghi, lucenti capelli neri erano quasi
sempre costretti in una treccia che le ornava la schiena. Anche
lei molto intelligente, forse un po’ troppo seriosa, lo aveva
dapprima attratto per l’acutezza di alcune osservazioni durante
le lezioni di greco. Questo lo aveva spinto ad osservarla con
maggior attenzione e, quando si era accorto che lei gli si stava
perdendo dietro, aveva gettato l’amo al quale lei aveva subito
abboccato. Non era, comunque, stata la loro una storia troppo
impegnativa, anche se era durata quasi un anno. Il perché,poi,
avessero smesso di incontrarsi era stato un fatto quasi previsto
da entrambi, vissuto e accettato consensualmente, senza nessun
trauma.
Si era sempre assolutamente opposto e aveva altrettanto
strenuamente rifiutato avventure goliardiche di gruppo: il sesso
per il sesso non lo interessava.
Superati ormai da tempo i trent’anni, avviato verso quella
che si intravedeva come una brillante carriera, Mara, alla quale
non aveva mai presentato nessuna ragazza, cominciava quasi a
pensare che, forse, al suo diletto figliolo, la pupilla dei suoi
occhi, non interessasse il matrimonio. Poterlo avere sempre
tutto per sé, anche se lontano, le appariva una grande fortuna,
egoistica, certo, ma la mamma…Certo, ora che era ancora in
forze, aveva ancora tanto da dare al figlio, ma quando fosse
stata più in là con gli anni, chi si sarebbe preso cura di lui? Ma
questi pensieri erano poi presto scacciati.
Spesso amiche e vicine di casa, inorgoglite da quella quasi
celebrità a porta e uscio, con voce un po’ mielosa le
chiedevano: «Ma sto fiolo no se mardielo mai?» «Nol g’ha
una tosa?» e Mara, gongolando: «El starà ben cussì, ciò».
Giulio C. si sentiva bene davvero a casa sua. La sera, ormai,
però, purtroppo raramente, quando poteva fare ritorno tra una
giornata in redazione, una negli studi televisivi o settimane in
giro per il mondo per motivi di studio o lavoro, gli piaceva,
dopo la cena, fermarsi in cucina a parlare soprattutto col padre
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che, nonostante non avesse compiuto studi elevati, aveva
trovato la passione e la voglia di cercare di farsi una cultura,
leggendo tutto ciò che poteva. Era stato lui il primo lettore
delle opere del figlio e insieme ne avevano anche parlato. A
volte, Giulio C. aveva dovuto riconoscere che alcune
osservazioni del padre gli avevano fornito spunti interessanti
per dare una svolta inaspettata alla vicenda del libro ancora in
fieri. Marco era proprio un modello, come padre e come
marito. Ad ogni nuovo successo del figlio, tornava a casa con
una rosa per la moglie e, porgendogliela, le diceva
orgogliosamente: «Grassie, mujer, questo xè anca merito tuo».
Al compimento del quarantesimo anno, decise che non
poteva più dividersi tra la scuola e le attività di ricerca, studi e
divulgazione e lasciò definitivamente l’insegnamento.
Pochi anni più tardi, un giorno Giulio C. tornò a casa con
una enorme torta e un regale mazzo di fiori. A quella vista i
genitori restarono basiti, tutto si aspettavano fuorché la realtà:
gli avevano affidato la direzione di una spedizione
archeologica in Tunisia.
La missione si presentava quanto mai intrigante: riportare
alla luce i resti di una antica colonia greca di cui si erano
perdute le tracce, ma di cui erano emerse testimonianze lapidee
e descrizioni in alcuni codici venuti alla luce qualche anno
prima.
«E quanto ti starà via?» Si informò subito la madre.
«Non posso prevederlo con precisione, ma comunque non
certo più di tre mesi. I fondi che abbiamo a disposizione non ci
permettono di più. Se le cose si metteranno bene, torneremo il
prossimo anno» le rispose abbracciandola Giulio C.
La felicità per quell’incarico di prestigio per un attimo fu
oscurata agli occhi di Mara: un arcano presentimento?
Comunque, a marzo, accompagnato dagli auguri di tutti e
sostenuto da un forte, virile abbraccio del padre, Giulio C.
partì.
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Quasi ogni sera chiamava casa. Le solite domande di lui:
«State bene?» «Come va?» «Che c’è di nuovo?» e le solite
risposte della madre e le reciproche richieste: «Cossa fasstu?»
«Cossa te magni?» «No i te darà dei bissi, ah?» e scherzando
si salutavano.
Era trascorso ormai più di un mese: le ricerche erano lente,
appesantite dall’estremità del clima e dalla scarsità di
personale, anche se nelle settimane seguenti era previsto
l’arrivo di un paio di studentesse da Firenze.
Approfittando di una breve pausa nei lavori, Giulio C. si
fiondò a casa. Voleva fare una sorpresa ai suoi. Purtroppo,
però, la vera sorpresa fu per lui: trovò il padre pallido e
smagrito.
Cogliendo un momento di intimità con la madre,
preoccupato, le chiese cosa avesse.
«Ma niente!» minimizzò Mara, girandogli le spalle per
scoperchiare la pentola e mescolare il sugo di vongole «Cossa
vussto, no l’è più un zovinoto. El g’ha avu’ una bruta
influensa».
«Ma si sta curando? Cosa dice il dottore?» volle sapere
Giulio C.
«Ghe vol tempo, l’ha dito» lo tranquillizzò lei. «e adesso
tuti a magnar»
Al momento di ripartire, il padre lo strinse un po’ più forte e
gli chiese: «E allora, il nuovo libro, come procede?»
Giulio C. ricordò di avergli accennato, pochi mesi prima,
che aveva in mente un romanzo.
«Sono un po’ fermo in questo periodo, papà. Capirai, con il
lavoro agli scavi, ora ho altro per la testa» gli confessò «Ma
non temere, che non appena mi verranno nuove idee, sarà un
piacere parlarne con te.»
«Non so se sarò ancora in grado di darti qualche buon
suggerimento, sai» sospirò Marco, pensando al suo futuro.
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«Ma certo che potrai farlo, papà!» lo rassicurò lui, pensando
che la sua ritrosia fosse dovuta alla sua modestia abituale.
«Ciao, papà. Al mio rientro!»
«Ciao, Giulio C. e non dimenticar…»
«Cosa?» si voltò a chiedergli, già sulla porta.
«Non dimenticarti di portarci qualche piccolo reperto come
souvenir» scherzò sorridendo il padre.
Nelle settimane successive gli appuntamenti telefonici gli
riuscirono sempre più angoscianti. La madre gli rispondeva in
modo sempre più sforzato e spesso infilava qualche frase in
italiano. Questo era per lui un segnale molto negativo: sapeva
bene, infatti, che Mara ricorreva alla lingua ufficiale solo in
occasione di particolari stati emotivi.
Non potendo più sopportare la lontananza da una situazione
che sentiva stare precipitando, si prese un permesso e volò a
casa.
Appena entrato, si sentì svuotare di ogni energia: nella sala,
nel corridoio, ovunque aleggiava un acuto odore di farmaci,
disinfettante, agonia. Salì le scale mentre il cuore gli
tambureggiava nelle tempie.
Stava per aprire la porta della camera del padre quando,
nello stesso istante, come per un arcano appuntamento, ne uscì
la madre che fu appena in grado di spingerlo per farlo arretrare,
mentre piangendo gli si aggrappò al collo.
«È finita, Giulio mio, ormai è questione di ore». L’uso del
primo solamente dei suoi nomi lo rese ancor più certo della
tragedia: mai, infatti la madre lo aveva chiamato così.
«Ma come, mamma, perché?» singhiozzò affondando il
capo nella spalla di lei.
«Non voleva farti preoccupare, ma il papà era già malato
quando sei partito. Non ha voluto che ti dicessi niente…»
«Ma se non fossi arrivato ora, per puro caso, sarei
addirittura arrivato troppo tardi. Perché… perché bisogna
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sempre pagare tutto ciò che di bello si ottiene?» domandava più
a se stesso che a lei.
«Fatti forza, Giulio. Vai a salutarlo. Forse può ancora
riconoscerti.»
Con gli occhi arrossati, ma asciutti, entrò con timore: aveva
paura di vedere la morte sul volto del padre, di non riconoscere
più in lui quei forti lineamenti che sapevano addolcirsi al solo
vederlo. Quasi trattenendo il respiro, si avvicinò al letto.
Il padre aveva gli occhi socchiusi ma, chissà se per effetto
dei farmaci o per il cosiddetto bene della morte, appariva solo
smagrito ma sereno. Anche il colorito non era terreo e ciò diede
la forza a Giulio C. di sedere sul bordo del letto.
A quella lieve pressione, Marco spalancò gli occhi e un
sorriso di una dolcezza nuova gli si stese sul volto.
«Che bello vederti, Giulio C.! Sai, stavo proprio venendoti a
cercare.»
«Sono qui, papà, con te. Coraggio, ti darò io la forza di
andare avanti. Ricordati che ho ancora bisogno di te per il mio
libro.» gli sussurrò afferrandogli le mani che lasciavano ormai
trasparire le ossa.
«Come lo intitolerai?» si informò.
«Non saprei, non ho ancora ben definito la storia» rispose,
vagando con lo sguardo sul cassettone dal quale lo osservavano
i nonni dalle loro cornici.
«Sai, mi piacerebbe se si potesse intitolare “Passaggi”»
terminò con un soffio appena udibile. «Tutta la vita in fondo
non è altro che questo… Una serie di passaggi, fino all’ultimo,
il più impegnativo».
«Perché no? Ci può stare proprio bene. Grazie, papà. Come
al solito mi hai dato un buon suggerimento.»
Giulio C. sentì che il respiro del padre si andava facendo
sempre più flebile e vide i suoi occhi chiudersi, mentre le sue
mani, con un ultimo sforzo, cercavano quelle del figlio.
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Gliele strinse, quasi a volergli trasfondere la propria energia,
ma poco dopo avvertì l’anima del padre abbandonarlo in un
lungo, esile sospiro. E fu il silenzio.
Immobile, Giulio C. rimase a contemplare quel corpo ormai
vuoto, fu attraversato da una vertigine profonda e fulminea.
Con uno scatto di impotente ira e dolore, scaraventò a terra tutti
i medicinali che avevano accompagnato, dal ripiano del
comodino, l’agonia del padre.
Quando Mara udì le fiale e i flaconi andare in frantumi, si
precipitò nella stanza. Madre e figlio si abbracciarono in
silenzio e uscirono, come a non voler turbare col loro dolore la
pace raggiunta da Marco.
Dopo i funerali, Giulio C. pensò che doveva dare alla madre
un motivo per attaccarsi alla vita, dopo una perdita tanto
tremenda. Sapendo quanto Mara amasse essere partecipe dei
suoi progetti, quanto ogni suo desiderio fosse per lei una
necessità, la coinvolse nella realizzazione di un bisogno che da
un po’, per lui era diventato sempre più pressante. Ormai si era
reso conto che aveva bisogno di una casa più grande, semplice
ma confortevole, che gli consentisse di ritrovare intatta la
serenità della famiglia, degli amici, del paese, ma che, allo
stesso tempo, potesse ospitare la sua già ricca biblioteca e
quegli oggetti di antiquariato che con passione andava
raccogliendo. Aveva bisogno di uno studio con le tecnologie
utili al suo lavoro, computer, proiettori, registratori.
Fu così che si mise alla ricerca del “pezzo giusto”: non
voleva una casa da costruire dal nulla, ma qualcosa di vissuto,
da restaurare e ristrutturare secondo le sue esigenze.
Anche gli amici gli diedero una mano e così in breve, grazie
anche ad un colpo di fortuna, poté trovare una tipica vecchia
casona veneta, di cui i giovani eredi volevano disfarsi. Aveva
anche il grande vantaggio di essere a poca distanza dalla sua e
spesso, quando era bambino, vi era passato davanti. Anzi, gli
pareva di ricordare di esserci anche andato a giocare con
qualche piccolo coetaneo, ai tempi dei primi anni di scuola.
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Forse fu anche per questi pur annebbiati ricordi che la casa
gli apparve subito familiare.
La madre accolse la notizia di questa importante novità con
trepidazione: lasciare l’abitazione in cui aveva vissuto
praticamente tutti suoi anni di sposa e madre e dove era morto
il marito tanto amato?
Giulio C. comprese la perplessità e il sentimento della
madre.
«Non temere» le disse sorridendo «questa casa non la
venderemo mai. Anzi, non appena sarà pronta quella nuova e
potremo andarci ad abitare, questa la faremo sistemare. Non
per buttarla all’aria, ci faremo solo quei lavori necessari per
renderla più sicura e funzionale. Mi farà piacere sapere che tu
sarai qui a custodirla e ad accogliermi tutte le volte potrò
tornare» finì abbracciandola.
«Ti va sempre più lontan, fio mio! Chissà quanto tempo che
sarò mi sola» gli rispose, mentre con le mani gli sistemava il
colletto della camicia stropicciato sotto il sottile gilet.
Proprio queste parole già timidamente addolcite dal dialetto
familiare gli fecero capire che il dolore della madre si stava
acquietando in una rassegnazione consapevole.
Così trovò la forza di ripartire verso la Tunisia. Erano
trascorse solo poco settimane dalla sua partenza, ma grazie alla
solerzia di alcuni specializzandi e al più esperto giovane
archeologo cui aveva affidato la sorveglianza dei lavori, trovò
che la ricerca era progredita con successo. Era venuto alla luce
una parte del basolato di una via, accanto alla quale si erano
riportate alla luce anche le fondazioni di una abitazione.
Quando alla sera del suo arrivo si riunirono tutti per fare il
punto della situazione, tra gli studenti si alzò una ragazza.
Era giovanissima, alle sue prime esperienze sul campo, ma,
consapevole della sua bellezza e del suo fascino, frutto
dell’unione di un francese con una tunisina, parlò sicura di sé.
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«Professore» cominciò arrotando la erre come una carezza,
«mi chiamo Charlotte Drouet e a nome di tutti i miei compagni
vorrei porgerle le nostre condoglianze e farle capire che le
siamo vicini.»
Mentre la ragazza parlava, Giulio C. la osservava e si
chiedeva come mai era stato così cieco da non averla notata
prima. Il velluto nero degli occhi brillava sulla carnagione
ambrata, perfetta, come di raso. Aveva una nobiltà nel
portamento che la faceva subito distinguere in mezzo al gruppo
di giovani studenti.
Giulio C. si accorse che la stava fissando un po’ troppo
insistentemente, per cui, chinando leggermente il capo sui fogli
che aveva davanti sul tavolo, cercò di dissimulare il lieve
imbarazzo.
«Grazie, grazie Charlotte e grazie a voi tutti, ragazzi» tagliò
corto, mascherando solo in parte una profonda commozione.
I giorni che seguirono furono intensi: lo scavo procedeva
alacremente e i reperti catalogati cominciavano già a riempire
alcune casse.
Forse anche proprio per la concentrazione nel lavoro, non si
rese conto che il tempo passava e si avvicinavano al giorno in
cui avrebbero dovuto chiudere il cantiere, in attesa di riaprirlo,
se tutto andava bene, l’anno dopo.
Un po’ per questo e un po’ per festeggiare il compleanno di
uno degli studenti, la sera accesero un falò e si rilassarono con
grigliate di pesce e bottiglie di vino, che ciascuno si era portato
da casa, temendo di non trovare alcolici nella musulmana terra
della loro missione.
Quasi per caso, Charlotte si trovò accanto a lui davanti
all’improvvisata tavola imbandita. L’odore del pesce cucinato
non riusciva a sconfiggere il profumo che emanava dai suoi
capelli e dal suo corpo. Era un’essenza sottile ma intensa che
parlava una lingua sensuale e arcana. Pareva fatta apposta per
turbare la fantasia con visioni d’oriente.
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Giulio C. se ne colmò i sensi e, nel riempirle galantemente il
piatto, le chiese: «Di dove sei?»
Charlotte, illuminandolo col suo sguardo dritto negli occhi:
«Sono nata a Tunisi», modulò con la musicalità del suo parlare
«ma ho studiato in Francia. Sono venuta in Italia con un
progetto di scambi culturali e mi sono innamorata.»
«Di un fortunato mortale così caro a Venere?» cercò di
scherzare
«Oh! No» Si difese lei «del suo paese, delle sue bellezze,
della sua arte. Lei è fortunato ad essere nato in mezzo a tante
ricchezze per gli occhi!» Rispose con aria vagamente sognante.
«Non mi starai dando del lei, spero» la rimproverò
versandole un bicchiere di un bianco perlato «è vero che ho
qualche anno più di te, ma per favore non farmelo pesare con la
tua cortese formalità» la invitò, accennando ad un brindisi.
«Grazie per la cordialità» gli rimandò lei toccando con il
proprio il suo bicchiere, che, però, la plastica non fece
tintinnare.
Durante il resto della serata lui non fece che osservarla,
quando era distante, per capire se avesse qualche simpatia tra
gli altri componenti della squadra. Con grande piacere notò che
distribuiva uniformemente sorrisi e parole un po’ a tutti,
indifferentemente.
Questo gli permise, qualche giorno dopo, di avvicinarla in
un momento di pausa. Stranamente gli venne naturale trattarla
con grande simpatia e le numerose domande personali che le
rivolse non sembrarono certo un interrogatorio. Anche a lei, del
resto, sembrava fare molto piacere rispondere.
Non risparmiò parole e informazioni e gli descrisse la sua
vita a Firenze, dove si era trasferita sia per ragioni di studio che
per scelta, in quanto conquistata da quello scrigno di tesori
d’arte.
«Ti andrebbe di fare un bagno?» le propose
improvvisamente, aspettandosi speranzoso un si.
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«Grazie, molto volentieri.» Fu la sua risposta entusiastica.
Mentre si avvicinavano alla foresteria, gli confidò di essere
già stata in quella zona, diversi anni prima, perché la madre era
originaria proprio di quella regione.
Indossati i costumi, presi i teli di spugna, percorsero lo
stretto sentiero che arrivava al mare. La calura dell’ora era
alleviata da una sottile brezza.
La sferzata di un’onda improvvisa li colse di sorpresa e li
spinse più vicini. Fu così naturale prendersi per mano per non
cadere, che si guardarono in viso stupiti e furono subito uno
nelle braccia dell’altro.
Quel primo bacio per Giulio C. fu come l’ingresso in un
mondo nuovo e misterioso e volle più e più volte sperimentare
quel passaggio, ogni volta con emozioni più intense.
Charlotte assecondava con naturalezza i movimenti del
mare, accarezzando con tutto il proprio corpo quello di lui. Il
bagno fu dimenticato e, restando così allacciati, ritornarono
sulla riva. L’urgenza dell’amore gli fece dimenticare la
prudenza: crollati sui teli di spugna, si amarono con ardore e
con una sintonia che aveva del divino. Giunti al culmine
dell’ebbrezza, con un gemito profondo, Giulio C. si abbandonò
dolcemente sul corpo meraviglioso e sudato di Charlotte.
Rimasero in silenzio, finché il respiro di entrambi si fece più
regolare e i sensi appagati diffondevano nel loro corpo una
piacevole serenità.
Quando si guardarono di nuovo, lei gli sussurrò: «Grazie,
Giulio. È stato bellissimo.»
«Per me di più» le rispose ancora trasognato.
Ad un tratto si resero conto che dovevano tornare dagli altri.
A nessuno dell’equipe sfuggirono il loro diverso modo di
guardarsi, le molteplici occasioni cercate per stare soli.
Nessuno, però, pensava ad intromettersi con domande
imbarazzanti e si limitavano a qualche benevolo e sornione
sorriso. Gli unici che non si sentivano per nulla imbarazzati
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erano loro due, felici di condividere amore e quegli ultimi
giorni di lavoro.
Una sera Giulio C. ricevette la visita di un vecchio amico,
compagno di liceo, che era diventato un quotatissimo
architetto. A lui, Marcello, aveva affidato il compito di
preparare alcuni progetti per restaurare la casa che aveva
acquistata. Poiché Marcello era venuto in vacanza in Tunisia, si
erano messi d’accordo per vedersi e parlare dei lavori.
Quando i due amici si incontrarono, si salutarono con
grande affetto e subito Giulio C. si informò: «Dimmi, hai visto
mia madre di recente?»
«Si, proprio tre giorni fa» lo rassicurò l’architetto «e mi ha
detto di abbracciarti per lei, di ricordarti che ti aspetta con
ansia. Sta bene, Giulio (tutti gli amici lo chiamavano così). È
una donna forte e intelligente».
«Grazie, Marcello. Ormai qui stiamo per chiudere e potrò
stare un po’ a casa con lei» gli confidò.
«Disturbo?» chiese quasi timidamente Charlotte, sedendosi
accanto a loro.
«Ma ti pare!» la accolse Giulio C. alzandosi
premurosamente. «Permetti, questo è Marcello, un mio vecchio
compagno di liceo. È qui vicino in vacanza e così è venuto a
trovarmi. Lei è Charlotte» la presentò, mentre con un bacio le
sfiorava una guancia.
Dopo le doverose e formali strette di mano, i due amici
ripresero a parlare, guardando i lucidi che Marcello aveva nel
frattempo steso sul tavolo.
«Questa se vuoi potrà essere la nostra casa» sussurrò Giulio
C. all’orecchio della ragazza che lo guardò un po’ sorpresa.
«Per favore, Marcello» gli disse quando rimasero di nuovo
soli «se per caso vedi mia madre prima di me, non dirle di
Charlotte. Voglio essere io a darle la notizia che ho trovato la
donna della mia vita.»
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«Figurati, non mi permetterei mai di essere latore di una
simile novità!» Lo tranquillizzò con aria divertita e complice.
Gli ultimi giorni al cantiere degli scavi l’attività fu frenetica:
bisognava relazionare gli ultimi ritrovamenti, proteggere le
unità stratigrafiche già passate in rassegna, chiudere tutto in
attesa della ripresa dei lavori l’anno successivo. Al momento
della partenza, Charlotte e Giulio C. si separarono sapendo che
per qualche tempo non si sarebbero potuti rivedere: lei doveva
tornare a Firenze per concludere gli studi e conseguire la
specializzazione e lui doveva tornare a casa per riprendere a
lavorare al libro che in quei mesi gli era cresciuto dentro.
Quando a maggio Mara lo poté riabbracciare, quasi non si
staccava più da lui: «Come ti xè diventato moro, fio» fu il suo
spontaneo benvenuto, colpita dalla evidente abbronzatura.
Una delle prime cose che fece fu recarsi a vedere come
procedevano i lavori nella nuova casa: ora aveva un motivo in
più per avere fretta. Il collegamento telefonico con Firenze era
quotidiano. Tra un’affettuosità e l’altra, chiedeva a Charlotte
come trascorreva le sue giornate e continuamente la invitava a
raggiungerlo per un fine settimana.
In quel mese aveva lavorato molto al romanzo e così arrivò
anche il momento in cui chiuse il file con la dedica del libro
“Alla memoria di mio padre”. Fu così che rivisse in una
successione di nitidissimi flashback tutti i momenti più incisivi
dei suoi rapporti col padre: le ansie, le gioie e i successi
condivisi fino a quando aveva raccolto il suo ultimo respiro.
Solo allora si rilassò sulla sedia ergonomica e, con una
punta di rimpianto, pensò a quanto gli sarebbe piaciuto
presentargli Charlotte che, ne era certo, lo avrebbe conquistato
con il suo fascino.
No, non poteva più aspettare, doveva rivederla, aveva un
disperato bisogno di lei.
Una volta consegnate le bozze all’editore, si mise al volante
della sua potente e grintosa Alfa, deciso a raggiungere Firenze.
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Solo quando fu in un’area di servizio alle porte di Prato,
mentre si concedeva un caffè, compose il suo numero. Gli
rispose una voce maschile che, alla sua richiesta di parlare con
la ragazza, gli disse che non era in casa.
«Quando torna, per favore?» insistette Giulio C.
«Dovrebbe tornare tra un’ora. Chi debbo dire che la cerca?»
rimandò lo sconosciuto.
«Sono un amico di passaggio a Firenze. Le dica di
aspettare…» pausa. Non sapeva se doveva preannunciarsi o
farle una sorpresa. Ma perché e cosa, poi, doveva temere?
«Le dica di aspettare Giulio» concluse riagganciando.
In poco più di un’ora era sotto la sua casa: era un antico
palazzo, un po’ cadente, ma in pieno centro storico, via dello
Studio, a mezzo minuto dalla celebre cupola del Brunelleschi.
Anche se la città, con tutti i suoi capolavori, lo aveva
sempre estasiato, questa volta non aveva altro in mente che
riabbracciare Charlotte.
Quando dal citofono sentì la sua voce, temette di non
riuscire ad arrampicarsi per le ripide scale di pietra serena fino
all’ultimo piano, dove lei lo spettava.
Fu un incontro pieno di passione, di tenerezza, di tutto.
«Chi era il tuo ospite che ha risposto al telefono?» le chiese,
poi, cercando di dissimulare una urgente curiosità.
«Chi? Dario?» gli rispose, mentre in bagno si spazzolava i
lunghi capelli neri. «È un mio compagno di studi. Abbiamo
preparato diversi esami insieme. Non è di Firenze e, quando
viene qua, a volte passa a salutarmi o, se ha bisogno di
fermarsi, sa che può farlo.»
Voltandosi verso la porta, guardando Giulio C. dritto negli
occhi, aggiunse: «Perché, saresti forse geloso?»
Vistosi ormai scoperto, ammise: «Come potrei non esserlo,
dato che ha quasi vent’anni meno di me e a quanto pare, qui, è
più di casa lui?»
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Con un sorriso lei lo abbracciò: «Sciocco! Se tra tanti
ragazzi che conosco e ho conosciuto, ho scelto te, che non sei
più un ragazzo, vorrà pur dire qualcosa, no?»
«Lo spero» mormorò, attirandola ancora più vicino a sé e
baciandola.
Furono due giornate assolutamente irripetibili quelle che
trascorsero: alternavano momenti di affettuosa e passionale
intimità alle normali situazioni di vita quotidiana di una coppia
qualunque. Trovarono anche il tempo di visitare a Palazzo
Strozzi una grande mostra dal titolo “Rinascimento nascosto.”
Quando il mattino del terzo giorno si salutarono, Giulio C.
la invitò nuovamente da lui.
«Non ho ancora parlato di te a mia madre» le confidò «ma
vorrei farlo quanto prima e vorrei che tu la conoscessi. Sarebbe
felicissima di sapere che ora c’è qualcuno accanto a me.»
«Appena finita la specializzazione correrò da te» promise.
Al ritorno divorò l’autostrada che, stranamente, non
presentò ostacoli né un traffico eccessivo. Anche per questo,
poté ascoltare alcuni brani dei suoi autori preferiti: Beethoven,
Mozart, Bach.
Sulle onde sonore di quelle armonie, cercava intanto di
pensare a come introdurre il discorso “Charlotte” con la madre.
Si rendeva conto che doveva essere cauto per non farla sentire
abbandonata, doveva cercare di coinvolgerla emotivamente,
renderla partecipe del suo nuovo amore.
L’occasione, come spesso succede, si presentò da sola,
insperatamente. Una sera a cena, fu proprio Mara a iniziare un
discorso che gli diede lo spunto per la grande rivelazione.
«Sasstu che el fio de la veronica se marida tra un mese?»
gli comunicò
«Ma dai» si stupì Giulio C. «se pareva che non lo volesse
nessuna»
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«E invece…» continuò subito come se stesse parlando tra sé
«però xè belo saver che el gà qualcuno che se prenederà cura
de lù quando ela no ghe sarà più»
«Ma cosa vai a pensare, mamma» cercò di distrarla
«E no, ciò. ghe penso anca mì, sasstu»
Giulio C. si alzò da tavola e le andò vicino, prendendole le
mani. Le raccontò, rivivendolo con nostalgia, l’incontro con
Charlotte, la loro storia, il suo desiderio di sposarla e portarla a
vivere con lui nella casa che stava facendo sistemare e nella
quale voleva ricavare un appartamento per lei, per averla
sempre vicina.
Mara si commosse e non sapeva se essere felice della
felicità del figlio o temere questa donna ancora sconosciuta.
Combattuta tra vari sentimenti, non poté, però, far a meno di
sperare che questa ragazza diventasse per lei la figlia che non
aveva avuto.
Poco dopo, all’inizio dell’autunno, cominciò il battage
pubblicitario per lanciare l’ultimo romanzo, che, ovviamente,
aveva intitolato “Passaggi”. Furono tempi un po’ frenetici di
viaggi da una grande città all’altra. Spesso Charlotte lo
chiamava la sera per dargli la buona notte e lui le raccontava
dei suoi impegni per seguire il suo “ultimo nato”. Ovviamente,
una delle prime tappe fu una grande libreria di Venezia.
In città, naturalmente, il suo nome era particolarmente noto,
sia a livello professionale sia perché molti erano gli amici, i
compagni di scuola. Così quel pomeriggio la sala era stipata di
giovani e meno giovani.
Il critico che lo introdusse e gli lasciò quasi subito la parola,
non si dimenticò di avvisare il pubblico che, al termine
dell’incontro, l’autore avrebbe autografato il romanzo a quanti
lo avessero desiderato.
Dopo che ebbe esposto per sommi capi quali erano state le
sue fonti principali, quale grande importanza avessero avuto i
rapporti tra la Grecia, sia metropolitana, che coloniaria, e gli
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etruschi nella formazione del substrato culturale da cui si
sarebbe acceso il grande sole di Roma, dopo che ebbe spiegato
perché un personaggio apparentemente poco importante come
lo schiavo del mercante, aveva poi finito col prendergli la
mano e crescere fino a diventare coprotagonista, si dichiarò
pronto a rispondere alle domande dell’uditorio.
All’inizio non dovette far altro che ringraziare i numerosi
intervenuti che si complimentavano con lui per il riuscito
connubio di miti, realtà storica e una fantasia storicamente
plausibile.
«Dopo i complimenti d’obbligo, dottor Erneti» intervenne
un’anziana ed elegante signora «le sarei grata se volesse
approfondire, nei limiti del possibile, l’ipotesi che il
protagonista dell’epica greca, Ulisse, e quello dell’epica
romana, Enea, si siano incontrati, proprio nell’Etruria.»
«La ringrazio per questa intrigante domanda.» rispose, dopo
essersi schiarito la voce e mentre con lo sguardo percorreva
distrattamente i visi che tanto attentamente lo osservavano
nelle prime file «Certo, come lei ben capisce, non è possibile
andare veramente a fondo ad una questione che ci
richiederebbe ben più del tempo a nostra disposizione.
Tuttavia, per essere sintetici ma nello stesso tempo chiari,
bisogna dire…» e continuò accennando ai numerosi testi nei
quali questa tradizione appariva.
Un lungo applauso salutò la conclusione dell’incontro. Poi,
piano piano, la gente cominciò ad uscire, commentando quanto
aveva appena ascoltato, a sfilare davanti al tavolo degli oratori
con le doverose, brave copie del libro, pronte per essere firmate
dall’autore.
Questa, ormai, per Giulio C. era diventata una routine:
chiedeva il nome della persona che gli porgeva il romanzo e,
quasi senza alzare il capo, lo scriveva velocemente sopra la sua
firma che si faceva via via meno leggibile, con l’aumentare
delle copie siglate.
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«A chi lo dedico?» chiese, ormai un po’ stanco mentre, per
guadagnare tempo, già apponeva a metà pagina la sua firma.
«A Charlotte». Alzò gli occhi e lei era lì, a venti centimetri
dal suo viso. Rimase con la penna in mano a mezz’aria, mentre
lei scoppiava in una risata liberatoria per entrambi.
Ovviamente, anziché una dedica, le diede un bacio e, visto che
ormai la sala era vuota, se ne poterono andare indisturbati.
Declinò con una scusa, forse non troppo credibile, un invito a
cena da parte dei proprietari della libreria e con Charlotte
sottobraccio si avviò felice verso Piazzale Roma.
Col favore delle tenebre e dei vetri appannati della vettura,
poterono, almeno in parte, dare libero sfogo al loro amore.
«Vieni, andiamo a casa» annunciò con decisione, mentre
avviava il motore.
«Non sai da quanto tempo desideravo presentarti a mia
madre. Sei la prima ragazza che vede con me» le disse
sorridendole, mentre si voltava un attimo a guardarla «e credo
sarai anche l’ultima. Mi sono sempre ripromesso di fare entrare
in casa mia solo quella che poi ci sarebbe stata come mia
moglie.»
«Devo considerarla una richiesta di matrimonio?» lo
interrogò: «E se io avessi qualche remora?» insinuò,
accarezzandogli la nuca.
«Aspetta che mi possa fermare da qualche parte e poi le
remore te le faccio passare io, sciocca ragazza.» La minacciò
ridendo.
«Si, dammi pure della sciocca, ma non credi che dovremmo
prima affrontare seriamente tra noi il discorso
“matrimonio”?»rispose lei con voce ferma e dalla quale era
sparita ogni intonazione sarcastica.
Giulio C. portò l’auto giù di strada in una piazzola di sosta,
spense il motore e, serio in volto, si girò verso di lei.
«Credevo di averti fatto capire che tu per me sei una scelta
definitiva, che ti amo senza riserve e che…»
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«Si, Giulio,» lo interruppe lei «ma io non sto esprimendoti
dei dubbi sul fatto di sposarci. Anch’io ti amo, lo sai. Ma non
abbiamo mai parlato tra noi di come la pensiamo su tante cose
importanti, su tante scelte di vita, che ne so, come la pensiamo
riguardo la spiritualità, la religione, per esempio. Tu sei
cattolico, immagino?»
«Se per cattolico intendi battezzato, si; ma quanto ad esserlo
veramente, a praticare la chiesa, i sacramenti ecc, direi proprio
di no». E nel fare questa professione di acattolicità non poté
non avere un flash di Mara che gli aveva sempre raccontato di
come per lei don Romano fosse sempre stato, invece, la
certezza, la fede senza dubbi, sincera e ingenua ma proprio per
questo assoluta.
«Non mi definisco ateo, ma certo non riesco a dare
un’etichetta alle mie convinzioni religiose. E tu?» le chiese con
una certa ansia.
«Beh, lo sai, io sono un incrocio: mio padre era francese e
quindi cattolico, ma anche lui molto poco praticante. Mia
madre, invece, era musulmana e mi ha trasmesso una
sostanziale fede nell’islam. È lì che stanno e sento le mie
radici, molti dei miei amici sono rigidamente osservanti»
Charlotte aveva parlato con una foga e una convinzione che
avevano incupito anche la naturale leggerezza della sua
pronuncia, quel modo di accarezzare le parole che a Giulio C.
tanto piaceva.
«Ho capito» rispose «ma non vedo qual è il problema»
chiese deciso. «Se anche tua madre ha sposato uno straniero,
non puoi considerare la nostra storia la prosecuzione di una
tradizione familiare?», le fece osservare prendendole le mani.
Charlotte ebbe un leggero rapido sussulto, prima di
rispondere: «Non so, non mi pare così facile, Giulio.»
«Cosa vorresti, che mi facessi musulmano? È questo che mi
chiedi, come una specie di prova d’amore?»
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Solo in quel momento Giulio C. si rese conto di non avere
mai neppure lontanamente pensato che l’appartenere a due
sistemi monoteistici diversi potesse creare una barriera tra loro.
«No, non posso e non voglio farti sentire obbligato a
qualcosa, solo perché te lo chiedo io, questo poi, no,
sembrerebbe un ricatto.» rispose addolcendo il tono della voce.
«E allora?» insistette lui.
«Potremmo continuare a vederci, a stare insieme, senza un
vincolo religioso che parrebbe privilegiare uno solo di noi.
Questo potremmo sempre celebrarlo se e quando le idee ci si
chiariranno.» concluse Charlotte.
«Scusa, ma non capisco: cosa vuoi dire con “chiarirci le
idee”? Mi pare che dei due, l’unico che non ha un ideale, una
fede sicura, sono io, pertanto mi sembra da escludere la
possibilità che sia tu a convertirti. Quindi la decisione spetta a
me, come vedi.» Obiettò con una certa asprezza.
«Ma perché? Ti ho detto che io non voglio assolutamente
ricattarti. D’altronde, cosa cambia se ci vediamo senza
sposarci?» Lo sollecitò.
Giulio C. non rispose subito: rifletteva che anche a lui non
pareva fondamentale l’esistenza di un vincolo religioso, che il
loro amore bastava a se stesso, eppure cercava qualcosa che
fosse come un’ancora alla quale aggrapparsi, una data da
ricordare e celebrare.
Il tempo passava insieme alle auto che sfrecciavano accanto
a loro, condotte da qualcuno che certamente non stava
disquisendo sui massimi sistemi, da persone forse solo
frettolosamente dirette verso una tavola apparecchiata.
Alla fine propose: «E che ne diresti di un rito civile? Il
matrimonio in comune, così ci sarebbe solo una legge laica a
unirci…»
«Si», lo interruppe con determinazione «mi sembra una
buona idea, una decisione salomonica, però ti prego, Giulio,
non affrettiamo le cose. Prendiamoci qualche mese. Va bene?»
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«Naturalmente. Vediamo anche come si mettono i nostri
impegni di lavoro. Comunque, diciamo non più di cinque o sei
mesi. Ok?» finì col chiederle.
«Aggiudicato» accettò Charlotte e volle siglare quella specie
di contratto con un lungo bacio.
Quando ripartirono, Giulio C. si sentiva più forte, più sicuro:
ora sapeva che quello che desiderava si sarebbe realizzato.
Arrivato a casa, pregò Charlotte di attendere un attimo:
voleva annunciare da solo l’arrivo di lei alla madre.
Mentre Mara col figlio dalla porta di casa stava per avviarsi
verso la macchina, Charlotte ne discese e le andò incontro col
suo miglior sorriso stampato sul volto.
«Buonasera, scusi per l’improvvisata» cominciò tendendole
entrambe le mani, «ma Giulio non ha voluto avvertirla per
telefono…».
«Cara, vien, vien dentro. fate vardar» rispose Mara con la
voce incrinata per l’emozione.
Entrati nel salotto, Mara prese le mani di entrambi nelle sue:
«Che siate felici, banadeti.» augurò mentre le parole si
accompagnavano a due luccicanti lacrimoni.
«Che ve amiate come se semo amà mì e so pare» concluse,
rivolta a Charlotte, asciugandosi il viso con il dorso della
mano. «E po’ basta co’stì piagnistei. bisogna far festa, fioi!».
«Più che di festa, avremmo bisogno di cenare» intervenne
Giulio C., stemperando così le rispettive emozioni.
«Bon, vedemo cossa ghe xè in fresco» rispose Mara pronta,
mentre con decisione si avviava verso la cucina.
Lui sapeva che in casa sua, anche quando l’economia
familiare era stata ai minimi termini, a qualunque ora si poteva
essere sicuri che qualcosa da mangiare c’era sempre. Mara era
eccezionale per riuscire a creare, a improvvisare un piatto per
sfamare anche un ospite improvviso.
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La cena fu allegra: Mara chiese tante notizie a Charlotte e
non finiva più di meravigliarsi di come una ragazza così
“esotica” (forse era la prima volta nella sua vita che usava
quella parola) avesse scelto proprio suo figlio
A Charlotte piaceva raccontare le storie che la madre le
raccontava, quando era bambina, del piacere che le dava
frequentare la scuola, a quella donna così spontanea e di animo
forte e nobile.
Prima di andare a dormire alle due donne pareva di
conoscersi da sempre.
Giulio C. aveva avuto qualche titubanza su come far
accettare alla madre che avrebbero dormito insieme, che
avrebbero utilizzato il divano letto del salotto, ma ancora una
volta Mara lo sorprese col suo spirito pratico: perché dover fare
un tale spostamento, non era più semplice se loro avessero
dormito nel suo letto matrimoniale? A lei la camera del figlio
sarebbe stata più che sufficiente. Bastava solo un momento per
cambiare le lenzuola.
Così per la prima volta in vita sua Giulio C. dormì nel letto
dei genitori accanto alla donna che gli aveva riempito il cuore, i
desideri e, sperava, la vita.
Anche Charlotte avvertì l’emozione nuova con cui lui l’amò
quella notte e seppe condividerla con una tenerezza tanto
intensa da condurla da un orgasmo dolce e prolungato.
Il mattino li trovò ancora abbracciati e colmi di stupore.
Dopo una sostanziosa colazione già predisposta dall’efficienza
di Mara, Giulio C. la accompagnò a visitare il cantiere della
nuova casa.
Constatò con piacere che Marcello aveva saputo interpretare
fedelmente i suoi suggerimenti e le sue necessità. Charlotte si
guardava intorno e si affacciava ad ogni finestra per ammirare
il paesaggio così placido e così diverso da quelli cui era
abituata.
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«Allora, cosa ne dici?» le chiese ansioso di conoscere le sue
impressioni. «Ti piacerà vivere qui?»
«Con te, dovunque, Giulio» e gli si strinse addosso.
Ovviamente nei pochi giorni trascorsi in paese, anche se tra
un’escursione e l’altra nei dintorni che Giulio C. più amava, a
vicini e conoscenti non sfuggì la grande notizia: il celebre
concittadino aveva finalmente trovato una compagna e che
compagna!
Dopo quella breve pausa di relax, gli impegni di lavoro di
entrambi li allontanarono di nuovo: lui ancora in giro per
promuovere il romanzo, lei per cercare di mettere a fuoco i
diversi progetti che era andata maturando in quegli ultimi mesi.
Purtroppo, sapeva che il suo stage in Tunisia era terminato e
quindi cercava altre opportunità.
Sull’onda del successo di “Passaggi”, alcune testate
giornalistiche si erano fatte avanti per proporre all’archeologo
una collaborazione fissa come antichista, affidandogli una
rubrica su settimanali di cultura e approfondimento artistico.
Giulio C. valutava con attenzione tutte queste offerte,
sapendo che gli sarebbero valse come titoli in caso avesse
deciso, in un futuro più o meno prossimo, di ottenere un
incarico all’università.
Nel frattempo si doveva preparare a riprendere i lavori
proprio in Tunisia, per dove a marzo sarebbe ripartito.
Intanto cercava di affrettare i lavori perché la casa fosse
pronta prima della successiva estate.
Anche se inframmezzate da separazioni, i mesi invernali li
videro scambiarsi visite e soggiorni, ora a Firenze, ora a
Mirano.
Le feste di fine anno furono quasi un tour de force per
accettare i tanti inviti degli amici dell’uno e dell’altra, che non
vedevano l’ora di conoscere il nuovo partner.
Il libro di Giulio C. era diventato uno dei best seller in
occasione delle feste natalizie e questo gli riusciva quanto mai
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gradito, non solo per il fattore economico, ma anche sotto
l’aspetto affettivo, perché lo aveva scritto e vissuto come un
omaggio a suo padre.
Charlotte aveva ottenuto anche un incarico come
coordinatrice di un gruppo di giovani che effettuavano
interventi didattici all’interno di musei, in collaborazione con
alcuni istituti scolastici. Era un’attività che le piaceva, perché
le permetteva di trasmettere ai ragazzi, non poi di tanto più
giovani di lei, la sua passione per la ricerca storica e
archeologica.
Quando salutò Giulio C. in partenza per la Tunisia, le
dispiacque un po’ dover restare, ma cercò di consolarsi
pensando che l’intermittenza dei loro incontri non faceva altro
che aumentare il reciproco desiderio.
Approfittando delle vacanze pasquali, Charlotte volò da lui.
«Non potevo lasciarmi sfuggire un’occasione così: tornare
sul luogo del nostro incontro.» gli confidò al suo arrivo.
«Io, invece, penso che tu sia venuta per verificare che non ci
sia qualche nuova studentessa decisa a sedurmi.» La canzonò
lui.
«E chissà, potrebbe anche essere: il bell’archeologo, con il
fascino dell’uomo vissuto che traspare da qualche filo bianco
nei capelli può sempre far presa su un’anima sognante» stette
allo scherzo.
Chiusa dopo pochi giorni la parentesi sentimentale, Giulio
C. riprese i lavori con maggior accanimento. Sentiva di essere
vicino ad una scoperta decisiva per la definizione del sito della
città perduta: non faceva che rileggere, meditare e confrontare
le varie testimonianze e scavare con sempre maggior foga. Era
un’attività che lo assorbiva quasi totalmente, ma alcuni reperti
recanti iscrizioni col nome del donatore stuzzicavano anche la
sua fantasia narrativa. Così nelle ore più calde, quando il lavoro
si fermava, lui, invece, cominciava a creare delle storie:
immaginava e delineava fisicamente e psicologicamente un
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Pelagio e una Aglaia, cittadini di quella colonia di cui era alla
ricerca. Sulle loro vite di greci dell’VIII secolo A.C. costruì
una serie di racconti che intitolò “Voci antiche”.
Terminati anche per quell’anno gli scavi, che si erano
rivelati senza dubbio fruttuosi, anche se non esaustivi, dedicò
parte dell’estate alla revisione dei testi. L’editore ne fu
entusiasta e gli propose di farli uscire poco prima delle feste di
Natale, convinto di bissare il successo di “Passaggi”.
Charlotte, la madre e la casa erano i suoi tre punti fermi tra i
quali si divideva, senza, però trascurare l’attività di pubblicista.
Quando un bel giorno Marcello lo chiamò e gli annunciò:
«Il mio lavoro è finito, il contenitore è pronto, al resto devi
pensarci tu», sentì che finalmente si stava realizzando il suo
desiderio, sposare Charlotte e vivere con lei in quella che era
nata come casa “sua” e che sarebbe invece diventata “loro”.
Si precipitò a Firenze e, messala davanti al fiammeggiante
rosso di un mazzo di rose, le chiese: «Quando?» senza
aggiungere altro.
Charlotte accettò il dono che posò su un tavolino e,
abbracciandolo, gli rispose: «Appena possibile»
«Cioè?» insistette lui.
«Immagino che anche per sposarsi col rito civile occorrano
dei documenti, o no?»
«Certo, ma sono carte che si ottengono in pochi giorni» la
rassicurò.
«Già, ma forse dovrò andare in Tunisia per alcune»
prospettò lei con qualche perplessità.
«Ma dai» obiettò «ora si può fare tutto attraverso
l’ambasciata».
Quando la vide impallidire e sentì che le sue mani erano
fredde e sudate, con un groppo in gola le chiese: «Charlotte,
dimmi cosa ti spaventa. Cosa stai cercando di nascondermi?».
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A quel punto lei capì che era all’angolo, non poteva più
sfuggire: bisognava aprire il cuore e la memoria, anche se le
costava fatica e dolore.
Così gli raccontò di lei, della sua nascita. Il cognome Drouet
non era quello di un padre francese, bensì quello della madre
che lo aveva ricevuto a sua volta dal padre, cittadino di Lione.
Lei, invece, un padre non lo aveva mai conosciuto, perché chi
aveva messo incinta la madre, una volta saputo della sua
prossima venuta al mondo, aveva pensato bene di sparire.
Era quindi stata allevata solo dall’amore della madre e dei
nonni, anche se questi, in un primo momento, avevano quasi
cacciato la figlia disonorata. Fortunatamente, però, prima che
lei si affacciasse alla vita, avevano digerito il colpo e si erano
dedicati completamente a lei e alla madre.
Purtroppo, la verità lei l’aveva appresa nel peggiore dei
modi: era ormai una ragazzina, quando la classica,
immancabile e stronzissima compagna di classe, dopo un futile
litigio, le aveva sparato in faccia: «Già. Ma cosa vuoi
pretendere da una bastarda!».
La rivelazione che ne era seguita l’aveva sconvolta e anche
se la madre e i nonni avevano fatto l’impossibile per aiutarla,
quel trauma le aveva lasciato una ferita tanto profonda quanto,
per lei, vergognosa.
«Ma di che vergogna parli?» la tranquillizzò subito Giulio
C.. «Di cosa dovresti provar vergogna tu? L’unico che
dovrebbe non solo vergognarsi ma essere lapidato, è l’infame
che è sparito». La circondò con le braccia e con tutto l’affetto
di cui era capace, ma Charlotte, ancora, seppur debolmente,
singhiozzava.
«Amore, guardami» la invitò «Pensa comunque che se non
ci fosse stato quel farabutto, ora non ci saresti nemmeno tu e io
chi amerei allora?».
«Ti assicuro, Giulio» disse finalmente più tranquilla «non
sapevo proprio come fare per cercare di nasconderti la verità.
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Quando tu mi parlavi di matrimonio io ero terrorizzata, anche
se felice» gli sussurrò con un timido sorriso «perché volevo
cercare di nasconderti…»
«Basta» la interruppe deciso «ora sai che mi dispiace solo
che la tua storia ti abbia fatto soffrire così, ma a me non può
importarne di meno. E così ti ripeto ancora: quando?».
«Più presto possibile» fu la sua risposta, prima di
cominciare a baciarlo su tutto il viso.
Come aveva previsto Giulio C., tutti i documenti furono
pronti nel giro di una decina di giorni per cui, trascorso il
tempo regolamentare per le pubblicazioni, fissarono le nozze
per la fine di luglio.
Nel frattempo si dedicarono alla ricerca di un arredamento
sobrio e funzionale. Charlotte trasferì a Mirano le sue cose più
care e altrettanto fece lui, cercando di non svuotare del tutto la
sua camera, per un riguardo verso la madre.
Da sempre erano d’accordo nel volere una cerimonia intima
ed essenziale, perciò rinunciarono alle eventuali fastose e
storiche cornici dei palazzi municipali di Firenze o Venezia, a
vantaggio del piccolo e sconosciuto municipio di Mirano.
Fortunatamente anche la notizia delle nozze era passata
inosservata ai media che generalmente si occupano di star del
cinema, dello spettacolo e della musica, ma, per fortuna dei due
protagonisti, glissano sul mondo dell’arte e della cultura.
Così solo i pochi parenti e i più sinceri amici di entrambi si
unirono agli sposi quel sabato mattina.
L’affetto e la gioia di tutti gli invitati fece da adeguata
cornice alla sobria cerimonia e al brindisi benaugurate in un
discreto agriturismo nell’entroterra veneziano.
Purtroppo non poterono partire per un vero e proprio
viaggio di nozze, perché Giulio C. era impegnato nella
registrazione di una serie di trasmissioni che sarebbero andate
in onda l’autunno successivo.
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Poiché, però, una di queste ricostruiva il percorso di Giulio
Cesare nel corso della guerra contro i Galli, poterono unire i
due motivi e ritagliarsi qualche digressione per visitare alcuni
castelli e, sulla via del ritorno, fare una tappa in Provenza, per
farsi abbagliare dalla luce di Le Saint Marie de la Mere, per
riempirsi gli occhi e l’olfatto con i campi di lavanda e i girasoli
che avevano acceso le tele di Van Gogh.
Charlotte gli aveva a volte accennato al suo desiderio di
continuare l’attività di supporto didattico presso i musei
fiorentini e all’obiezione di Giulio C. : «Ma perché vuoi restare
lontano da casa, posso aiutarti a cercare un’attività a Venezia, a
Padova. Non sarebbe meglio?»
Lei ribatteva ostinata: «Ti prego, vorrei un lavoro solo mio,
qualcosa che sia solo dovuto alle mie forze, al mio valore. Non
mi piace che si dica “È la moglie di Erneti”, voglio, solo sul
lavoro, intendimi, essere semplicemente Charlotte Drouet.»
Giulio C. non osava controbattere a queste manifestazioni di
orgoglio professionale, anche perché sapeva che, nel suo
campo, si era fatta davvero valere e ora era diventata lei la
responsabile del settore.
L’attività, per fortuna, la impegnava solo nei giorni centrali
della settimana, quindi potevano trascorrere insieme un lungo
week end, dal venerdì pomeriggio fino al martedì.
A volte, Giulio C. doveva passare a Milano dall’editore o in
redazione al giornale e questo diventava un’occasione per un
breve viaggio insieme, alla ricerca di tesori artistici poco noti e
locali dove la cucina fosse ancora considerata un prodotto di
alto artigianato.
L’autunno segnò per entrambi la ripresa di un ritmo di
lavoro gratificante ed intenso.
Come previsto, i racconti di Giulio C. furono in libreria
puntualmente a novembre e il fatto di essere stato per tanto
tempo al primo posto dei best seller l’anno precedente,
contribuì a far lievitare anche quell’anno le vendite.
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Anche per questo ritenne di potersi risparmiare un po’ nei
giri di presentazione e così accettò gli inviti solo di poche
grandi librerie, alcune delle quali avevano il vantaggio di
essere vicine a casa.
Venezia, ovviamente, fu la prima e quella sera, nonostante
un fitto nebbione bagnasse e nascondesse la città, la sala non
poteva contenere tutto il pubblico, parte del quale dovette
accontentarsi di ascoltare da piccole sale comunicanti, le
vicende dei due protagonisti che la fantasia dell’autore aveva
fatto nascere in quell’angolo dell’Africa mediterranea, quando
la Grecia illuminava con la sua civiltà le terre bagnate da quel
mare benedetto dagli dei.
Durante quell’inverno, Giulio C. si mise in testa di reperire
nuovi fondi per potenziare gli scavi in Tunisia e riuscì a trovare
uno sponsor privato che, con un adeguato finanziamento, gli
permise di assumere altro personale.
Potendo procedere più speditamente, l’area archeologica fu
ben presto sondata e le fondazioni di edifici, sia pubblici sia
privati, cominciarono ad apparire e a strutturare un tessuto
abitativo ed urbanistico ormai inequivocabile: quello era stato
senza dubbio un centro di una certa importanza economica e
politica, anche se aveva avuto una breve esistenza come
colonia greca, perché presto sostituita dalla vicina e più potente
forza cartaginese.
La stampa specializzata e diverse reti televisive dedicarono
ampio spazio al ritrovamento, contribuendo a far salire le
quotazioni del tenace archeologo.
Sull’onda di questi successi professionali, Giulio C. riuscì
anche a diventare associato alla cattedra di topografia antica,
presso l’università patavina.
Mara seguiva il cammino e i successi del figlio con un
orgoglio tutto interiore, che non modificava di un'acca il suo
carattere forte e spiccio.
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Quando leggeva sui giornali che il libro di Giulio C. era
sempre più venduto, che il suo lavoro di archeologo era
premiato da importanti ritrovamenti, quando, a volte, le
capitava di vederlo in televisione, non si capacitava di come
quel personaggio, che appariva sempre più autorevole, mano a
mano che i suoi capelli imbiancavano, fosse quello stesso
bambino che, ancor prima di andare a scuola, maneggiava i
libri con sommo rispetto e tanta voglia di scoprire cosa
significassero quegli strani segni così piccoli e raggruppati, che
ne riempivano le pagine. Ricordava ancora come i primi
rapporti con le maestre fossero stati piuttosto difficili a causa
dell’impegno e della cocciutaggine di lui, che non voleva mai
smettere di provare e riprovare a scrivere “come voleva lui”,
anche quando l’orario scolastico prevedeva altre attività.
Quell’estate Giulio C. e Charlotte decisero di approfittare,
dopo la chiusura degli scavi, per trascorrere una vacanza
insieme da perfetti turisti balneari.
Il villaggio tunisino in cui scesero era un vero e proprio
paradiso artificiale, dove, però, l’acqua del Mediterraneo era
vera, una vera immensa, preziosa acquamarina.
Gli altri ospiti erano per lo più francesi e tedeschi. Il
personale, ovviamente, numeroso e del posto.
Un mattino, mentre uscivano dal loro bungalow per recarsi
al mare, incrociarono due neri addetti alla cura del giardino.
Dovevano essere un po’ alterati, perché le loro voci si
andavano alzando sempre più di tono. Quando stavano quasi
per venire alle mani, Charlotte, staccatasi da Giulio C., si
avvicinò temerariamente ai due giovani litiganti e li apostrofò
con fermezza. Pur essendo abbastanza vicino, Giulio C. non
capiva che lingua stessero parlando, ma si accorse subito della
sorpresa provata dai giardinieri nel sentirsi rispondere nel loro
stesso idioma, da quella che pensavano fosse una straniera.
Forse proprio per questo, l’intervento della ragazza funzionò
da catalizzatore, per cui gli animi di entrambi si distesero e si
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misero a parlare fitto fitto con Charlotte, mentre un leggero
sorriso spianava i lineamenti di tutti.
Quando ognuno riprese la propria strada, Charlotte si
accorse dell’aria interrogativa del marito.
«Perché mi guardi così?» gli chiese spalancando gli occhi.
«Lo sai bene che qua vicino c’è casa mia. Quei due ragazzi
sono di un villaggio vicino al mio e ti dirò che non credevo
nemmeno io di ricordare più il mio dialetto natio.» Terminò
con una certa sorpresa.
«Forse i più sorpresi sono stati loro» insinuò Giulio C.
«Forse si stavano mandando affanculo, pensando che nessuno
li capisse e invece …»
«Già e proprio questo li ha spiazzati. Se non fossero stati
così neri, avresti potuto vederli avvampare di vergogna»
concluse, prima di lasciarsi andare ad una risata argentina.
Spesso, la sera, non si univano agli altri turisti nelle varie
animazioni proposte dal solerte tour operator, ma preferivano
andarsene a spasso sotto il manto stellato, che nelle zone più
riposte del villaggio prorompeva in tutta la sua preziosa
luminosità.
Era tale la magia dell’ora, dei profumi e del silenzio che
veniva spontaneo parlare con un bisbiglio, interrotto, ogni
tanto, da un abbraccio o da un bacio.
Mentre passeggiavano così, nelle vicinanze della zona dei
servizi, prima di tornare tra i comuni mortali, una sera, furono
quasi investiti da un piccolo bolide che, inciampato nei loro
piedi, cadde a terra senza una parola né un grido.
Sorpresi e spaventati, si scossero dal loro isolamento e si
accorsero che l’autore di quello scontro era un bambino nero di
forse quattro anni che, rialzatosi, cercava, divincolandosi, di
liberarsi dalla stretta delle mani di Giulio C.
Charlotte si chinò per vedere meglio e, accarezzando quel
faccino riempito solo da due occhioni neri, provò a chiedergli
in francese se non si fosse fatto male.
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Il piccolo scuoteva la testa e stava quasi per mettersi a
piangere, quando, da dietro l’edificio delle cucine, arrivò di
corsa e trafelata una giovane donna. Era chiaramente la madre,
perché, non appena il bimbo la vide, corse a nascondere il viso
nel suo grembo. La donna gli parlò molto agitata, mentre lo
stringeva e se lo metteva in collo per abbracciarlo meglio.
Charlotte le si avvicinò per tranquillizzarla ma, nonostante il
peso del bambino, lei cercò di allontanarsi di corsa. Allora le
gridò qualcosa nel suo dialetto e quella si fermò di colpo e si
voltò come se a chiamarla fosse stato uno spettro. Depose il
piccolo a terra e, prendendo le mani di Charlotte, gliele baciava
quasi piangendo.
Giulio si era avvicinato, più per osservare la reazione delle
due figure, che il colore della pelle mimetizzava col buio della
notte, che per sentire il colloquio. Scambiate ancora poche
battute, madre e figlio si allontanarono, voltandosi ogni tanto
per salutare.
«E allora?» chiese Giulio C. «Cosa è successo?»
Il non poter capire un linguaggio lo aveva sempre fatto
sentire a disagio e ora che non comprendeva questo modo di
comunicare della moglie, la sensazione spiacevole era
ulteriormente acuita.
«Povera donna!» la commiserò Charlotte. «È una delle
inservienti di cucina e questa sera non sapeva dove e a chi
lasciare il bambino, così ha dovuto portarlo con sé. Questo,
però, è contrario al regolamento del villaggio ed era
terrorizzata che potessimo denunciarla alla direzione. Per
fortuna sono riuscita a convincerla che da noi non aveva nulla
da temere.»
«E per la seconda volta ti sei resa utile parlando la lingua dei
nativi» osservò Giulio C. con u n misto di orgoglio e invidia.
Per la sera dell’ultimo giorno della vacanza era prevista una
“festa araba”, con relativo travestimento dei turisti, che così
avrebbero svuotato il locale bazar di tutti gli abiti e accessori
più o meno fintamente orientali.
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Charlotte era divisa tra la convinzione che sarebbe stata una
specie di mascherata turistica e il desiderio di indossare un
abito simile a quelli che aveva visto per tutta la sua infanzia
attorno a lei.
Giulio C., che in parte condivideva l’incertezza della
moglie, anche se per motivi diversi, alla fine la invitò a provare
qualche abito, suggerendole le tinte più adatte a far risaltare i
colori così caldi e intensi della carnagione e degli occhi.
Charlotte si lasciò tentare ed entrò e uscì varie volte dalla
cabina di prova, abbigliata ora con rasi turchese o corallo, ora
con sete avorio o acquamarina.
L’ultimo fu proprio quello che piacque di più ad entrambi e
con quello fece il suo ingresso nel salone. Anche se Giulio C.
aveva provato alcune jalabbya alle quali Charlotte aveva
accordato il proprio favore, non se la sentì di apparire così
abbigliato e preferì avvolgersi il capo con una sciarpa indaco,
che la destrezza della moglie trasformò in un turbante tuareg.
Le foto scattate divennero per entrambi, nel giro di pochi
giorni, il ricordo tangibile di una bella vacanza.
Tornati a casa, la vita li riprese con i suoi ritmi più o meno
frenetici, gli impegni di lavoro e la gioia di ritrovarsi.
Quando, poco dopo le vacanze natalizie, un fine settimana,
Charlotte tornò da Firenze, Giulio C. si fermò ad osservarla
mentre lei apriva la borsa da viaggio e posava sul letto abiti e
oggetti personali. Tra questi lo colpì un libro che, pur
sembrando rovesciato, aveva una copertina riccamente
decorata. Osservando con più attenzione, si accorse che era un
libro in arabo.
«Cos’è?» chiese con curiosità, indicando il volume.
«Ah! Questo? È un regalo di un’amica di Firenze, una
ragazza di Tunisi alla quale ho fatto da guida i giorni scorsi»
rispose con studiata indifferenza.
«E di cosa parla?» continuò ad informarsi Giulio C.
58
«È una copia del Corano» disse Charlotte, sfogliando
qualche pagina. «Fino ad ora non mi ero mai preoccupata
granché di conoscere il libro che è alla base della fede di tanti
milioni di persone. Mi incuriosisce.» Concluse deponendolo
sul suo comodino.
Giulio C. non riusciva a spiegarsi il perché, ma, da un po’ di
tempo, quando Charlotte parlava di islam, della sua cultura,
delle sue origini, provava un senso di insicurezza, di pericolo:
era razionalmente assurdo, eppure si sentiva come se stesse
camminando sulle sabbie mobili.
Forse il suo spirito laico non poteva sintonizzarsi con quella
ricerca di un divino che, invece, sembrava così attirare la
moglie.
Anche per quell’anno gli impegni di lavoro li tennero
separati: Charlotte a Firenze era sempre più richiesta come
guida e animatrice nelle attività didattiche; Giulio C. alternava
le lezioni all’università con brevi viaggi per motivi di studio
personale o di lavoro come archeologo.
Era, però, sempre più piacevole ritrovarsi e, in alcune
occasioni, aprire la casa agli amici ed ex compagni di studi con
i quali Giulio C. era sempre rimasto in contatto e coi quali era
confortante potersi esprimere nel dialetto familiare.
Parecchi dei suoi coetanei avevano, dopo il liceo, intrapreso
facoltà universitarie che li avevano portati a diventare liberi
professionisti affermati. Qualcuno era stato condotto lontano
dal paese dal desiderio di far carriera, qualcun altro dal
matrimonio con ragazze di altre regioni, ma tutti, quando a
ferragosto o a Capodanno Giulio C. li chiamava a raccolta per
una grigliata a casa sua, accorrevano felici di ritrovarsi, per
rinnovare quella forte e virile amicizia che non era mai venuta
meno negli anni.
Anche in questo Giulio C. poteva dirsi simile ai suoi amati
eroi dell’epos classico: il valore assoluto della lealtà e
dell’amicizia.
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Quando Mara sapeva che il figlio riuniva i vecchi amici, era
felice perché aveva un’ulteriore conferma che per lui niente era
cambiato, nonostante il successo, che, fondamentalmente, era
rimasto il ragazzo di una delle tante province italiane,
moralmente sano, riservato e amabile.
A riprova di ciò, quando poteva, amava andare da solo a far
grosse spese nei supermercati della zona per procurare quanto
necessario per il banchetto. Ed era anche un consumatore assai
attento negli acquisti, perché sapeva scegliere sempre le
confezioni migliori.
A volte Mara riusciva anche a fare una scappata per salutare
quei giovani che lei aveva visto bambini o ragazzi e i cui visi
riusciva ancora a ritrovare pur sotto qualche ruga o un paio di
poderosi baffi. Questi, dal canto loro, la salutavano con affetto,
perché anche loro ricordavano la madre forte e presente che, in
certe pause, tra una versione di greco e un esercizio algebrico,
entrava decisa nella camera del figlio con generi di conforto
che erano pane e salame, ciambelle, caffè e altre fragranti e
semplici cibarie.
Quando Charlotte e Giulio C. cominciarono a progettare le
vacanze estive del 1991, si trovarono di fronte a una vasta
possibilità di scelta: lei avrebbe visto con piacere qualche paese
del nord Europa che non aveva mai visitato, ma che l’attirava
per la luce limpida e fredda e per un modo di vivere così
diverso da quelli che conosceva; lui era incerto tra un viaggio
nella terra e mare caldi della Spagna meridionale o un giro in
Turchia, per rivedere con calma il sito di Troia, sulla collina di
Hissarlik e le rovine di Efeso.
Alla fine, nessuno di questi progetti andò in porto, perché un
giorno Giulio C. ebbe un’illuminazione: non sarebbe stato
magnifico, invece, tornare dopo tanti anni nella Grecia classica
per contagiare anche la moglie con il suo amore per l’Ellade,
accompagnandola sui vari siti che tanto lo avevano affascinato
e fatto sognare quando era un giovane neolaureato?
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«Ma certo, sarà come viaggiare nel tempo» acconsentì felice
Charlotte.
Questa volta, però, non prenotò certo un posto ponte, ma un
volo diretto Venezia-Atene, da dove, con una macchina a
noleggio, avrebbe iniziato una vera e propria rievocazione non
solo storica, ma anche personale. Non vedeva l’ora di rendersi
conto di cosa avrebbe provato ritornando sull’Acropoli,
salendo sulle rocche micenee, questa volta con una moglie con
cui voleva dividere tutto, anche le emozioni più intime del
passato. Quando preparò la sua valigia, non dimenticò di
metterci anche quella vecchia edizione dei poemi omerici sulla
quale aveva preparato gli esami universitari e che lo aveva
accompagnato nel suo primo tour ellenico.
Da un certo punto di vista, l’arrivo all’aeroporto di Glifada
fu quasi sconvolgente, se paragonato all’approdo a Patrasso del
1970, non solo per la tecnologia più avanzata del mezzo di
trasporto scelto, ma soprattutto per l’intensità del traffico e il
numero dei passeggeri presenti. Si riconoscevano turisti
provenienti da tutte le parti del mondo: giapponesi, americani,
tedeschi, nord africani e tutti erano intruppati in gruppi che si
muovevano ad ondate, come sospinti da un vento di curiosità
sbrigativa.
Era ben vero che questo ormai succedeva in tutti gli
aeroporti di ogni capitale, ma, sapere che lì a pochi chilometri
c’erano i marmi del Partenone, gli procurava un senso di
stonatura.
E, quando il giorno dopo, dovette quasi farsi strada tra la
folla per avvicinarsi all’Eretteo e dovette mettersi in coda per
entrare al Museo, sorvegliato dallo sguardo vigile della civetta
sulla sua colonna, poté toccare con mano come, in quei venti
anni trascorsi dalla sua laurea, il mondo avesse camminato e
per molti, troppi, anche il bello fosse diventato un bene di
consumo, come un dentifricio o un abito.
La cordialità e l’ospitalità greca, però, non si erano troppo
affievolite, per fortuna. Anzi, quando camerieri, commercianti
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o sorveglianti nelle sale museali capivano che erano italiani,
non esitavano a far sfoggio del loro vocabolario italico e,
immancabilmente, proclamavano: «Italiani, ena faza, ena
raza».
A Giulio C. piaceva, però, invece, cercare di esprimersi in
greco, per quel poco che conosceva della lingua moderna.
Infatti, si sarebbe trovato meglio certamente a parlare con
Pericle o Aristotele, ma voleva, comunque esercitarsi per
comunicare anche con questi loro lontani pronipoti.
Ad Atene erano scesi in un albergo abbastanza centrale, ma
di piccole dimensioni e dall’aria sufficientemente ellenica.
Giulio C. non amava, se poteva scegliere, quei lussuosi, enormi
hotel che riproducono, in qualunque parte del mondo si
trovino, uno stereotipo internazionale dal gusto anonimo.
Una sera, al rientro da una piacevolissima cena consumata
in un locale della Placa, mentre ritirava la chiave della stanza,
confidò a Charlotte: «Non mi dispiacerebbe avere degli amici
greci, scambiarci visite, confrontare i nostri paesi…» e non si
accorse che, dietro di loro, una coppia di giovani che stava per
avvicinarsi al banco del portiere, aveva ascoltato quel suo
pensiero ad alta voce e l’aveva commentato con un sorriso.
La mattina dopo, il caso li fece incontrare al buffet della
prima colazione.
Il giovane marito, mentre aspettava di servirsi dal bricco del
caffè che Giulio C. stava posando, lo salutò con un cordiale,
sorridente «Buongiorno».
«Buongiorno!» rispose con entusiasmo «Italiano anche lei?»
gli chiese.
«No, ma quasi» e, dopo aver posato il contenitore termico,
tendendogli la mano, si presentò: «Mi chiamo Stavros
Balaskas. Sono dentista e ho studiato medicina e mi sono
laureato a Bologna. Ricordo ancora con enorme piacere gli
anni universitari. Ho mantenuto i rapporti con alcuni compagni
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italiani, per questo mi piace, quando posso, parlare la sua
lingua».
Giulio C. si presentò a sua volta e aggiunse: «Siamo sulla
stessa lunghezza d’onda, perché io, anche se per motivi legati
alla mia professione, ho un’enorme stima e ammirazione per il
suo paese.»
«Ieri sera, forse non se n’è accorto, ma ho sentito che diceva
a sua moglie che le piacerebbe avere amici in Grecia. Se vuole,
io posso essere uno di quelli» propose con un sorriso franco e
accattivante.
«Ne sarei felice, molto felice» accettò Giulio C. «e quindi
cominciamo col darci del tu, per favore. A me viene molto più
facile, anche considerando che sei di molto più giovane di me».
«Oh, non lasciarti ingannare dalle apparenze. Sono giovane,
sì, ma non certo un ragazzino. Ho trentacinque anni, in fin dei
conti!», gli confidò Stavros
Mentre stavano per portare al tavolo le tazze di caffè, furono
raggiunti dalle rispettive consorti, che ancora non si
conoscevano e che rimasero sorprese nel vedersi chiamare
contemporaneamente.
Raggiunti
i
mariti,
furono
reciprocamente presentate. La giovane greca si chiamava Irene
Cosmoupolos ed era segretaria presso il liceo classico di
Salonicco, dove abitava col marito.
Quella mattina, la colazione durò piuttosto a lungo, perché
tutti avevano, naturalmente, un sacco di cose da raccontare.
«Sai che ora che ci penso,» se ne uscì ad un tratto Stavros,
«credo di aver letto un tuo libro?»
«Sarà senza dubbio “Passaggi”» rispose con sicurezza
Giulio C. «È l’unico che è stato tradotto da voi. Forse, tra non
molto, uscirà anche “Voci antiche”, l’ultimo mio lavoro».
«Si, credo tu abbia ragione. Il protagonista era un mercante
etrusco di…»
«Adria» gli venne in aiuto Giulio C.
63
«Già. Complimenti, mi ha fatto davvero colpo quel finale a
sorpresa. Io non sono un esperto, né particolarmente
innamorato della Storia, ma devo riconoscere che, come le
racconti tu le cose, ti prendono. Si dice così?» chiese un po’
titubante.
«Se vuoi farmi un complimento, si dice proprio così» lo
ringraziò Giulio C.
Le due giovani ragazze avevano subito fraternizzato, anche
se con qualche difficoltà di comprensione linguistica, in quanto
l’una si esprimeva bene in francese e l’altra si trovava meglio
con l’inglese, per cui fu indispensabile attribuire a Stavros il
titolo di interprete ufficiale.
Per quel giorno ogni coppia aveva già elaborato il proprio
programma, anche perché, il giorno dopo, Charlotte e Giulio C.
avrebbero lasciato la capitale per iniziare il tour del
Peloponneso.
Così decisero di trovarsi per cena e brindare alla reciproca
conoscenza.
Charlotte e Giulio C. si diressero verso Tebe. L’antica fama
leggendaria e storica della città non era, purtroppo,
accompagnata da altrettanta ricchezza di testimonianze
archeologiche. Le poche vestigia rimaste delusero un po’
Charlotte.
«Non puoi pretendere di trovare molto del periodo pre
ellenistico, visto che nel 335 pagò per essersi sollevata contro
Alessandro Magno» le spiegò.
«Questa era, dunque, la sorte di chi si opponeva al grande
macedone? Tanta era la sua grandezza nella conquista, quanta
la sua ferocia nello schiacciare gli avversari, quindi?»
commentò Charlotte, osservando la porta di Elettra.
«Oh! Non è proprio sicurissimo che le cose siano andate
così.» La smentì Giulio C. «C’è chi sostiene che potrebbero
essere stati gli stessi greci, i vicini dei tebani, a decretarne la
distruzione, per fortuna non totale. Comunque, la presenza dei
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santuari di Dioniso e di Eracle, antenato della sua dinastia, fece
ordinare ad Alessandro di risparmiare almeno quei luoghi sacri.
Pare sia stata salvata anche la casa di Pindaro, grazie
all’ammirazione che il Macedone nutriva per il grande poeta.»
«Come mi piace ascoltarti raccontare fatti così lontani come
se ne fossi stato tu stesso testimone!» lo gratificò Charlotte,
stringendoglisi sottobraccio.
Tornando verso Atene, si fermarono al sito di Eleusi, per
respirare, almeno dall’esterno, la magia dei misteri che un
tempo vi si celebravano.
Mentre stavano per immettersi nella congestione del traffico
della capitale, Charlotte non poté fare a meno di notare il
silenzio del marito e la sua espressione concentrata.
«Non preoccuparti per il traffico: anche se tardiamo un po’ gli
amici ci aspetteranno» lo volle confortare.
«Come?» si stupì lui, voltandosi velocemente ad osservarla.
«Perché dici?»
«Ti vedo così preoccupato!» gli spiegò posando una mano
leggera sulle sue ginocchia.
Con un largo sorriso «Assolutamente no» le rispose «non
sono affatto impensierito per il traffico. Stavo pensando a
tutt’altro, invece:»
«Ah! E vuoi dirmi a cosa?» insisté Charlotte, un po’ delusa
per non aver saputo interpretare i pensieri del marito.
«Ti dirò» cominciò un po’ titubante «mi è venuta voglia di
tirar fuori un libro da questo viaggio».
«Un nuovo romanzo?» lo sollecitò
«No, non proprio» negò deciso «anzi, stavo pensando più ad
una specie di doppio giornale di bordo, quasi un parallelo tra le
antiche acropoli con i loro dei, i loro miti e le città di oggi. Il
tutto legato dal nostro viaggio».
«Interessante e impegnativo» commentò Charlotte.
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«Si, più ci penso e più vorrei riuscire a delineare i vari
percorsi e riempire di appunti epici e attuali le varie tappe.» Le
comunicò Giulio C, quasi parlasse a se stesso.
Decisero di salutare i nuovi amici con una cena da
Dionysos, che anche se non offriva una vera e propria cucina
greca, in cambio permetteva una vista dell’Acropoli da poster
delle migliori agenzie turistiche.
«Quando ero a Bologna,» raccontò Stavros «con gli amici
italiani, ho visitato Venezia e Firenze. Quello che avete di bello
voi italiani è l’unicità e la varietà delle vostre città, nessuna è
simile ad un’altra!» li complimentò riempiendosi la bocca col
suono delle c dolci che pronunciava quasi come fossero delle
zeta.
«Quando verrai a trovarci» gli promise «andremo a visitarne
altre, Treviso, Bolzano meritano anch’esse una visita.»
«Allora brindiamo al nostro prossimo incontro» propose
Charlotte tra l’entusiasmo generale, mentre si scambiavano
indirizzi e telefoni.
Mentre i coniugi greci si fermavano ancora qualche giorno
ad Atene, prima di imbarcarsi per una vacanza a Creta,
Charlotte e Giulio C. passarono in Peloponneso.
Dopo le doverose soste in Argolide e in Laconia, arrivarono
nell’Elide, dove Olimpia li aspettava con la piacevolezza della
sua piana boscosa. La vastità e la monumentalità delle rovine
compensarono Charlotte dalla delusione per la scarsità dei resti
provata a Sparta.
Accanto a Giulio C. passeggiò lentamente e a lungo tra i
rocchi delle colonne dell’Heraion, del tempio di Zeus. Ma non
potevano certo lasciare il sito senza aver calpestato il terreno
dello stadio. Arrivati alle strisce di marmo che avevano la
funzione dei moderni blocchi di partenza, lui la sfidò: «Vuoi
gareggiare?» e lei pronta: «Non dimentichi che sono una donna
e come tale esclusa dai giochi?»
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«Non avevo certo intenzione di proporti una corsa
olimpionica» ribatté «ma solo farti provare l’emozione di un
terreno così carico di storia» concluse posizionandosi
comunque per il via.
Come rispondendo ad un interno richiamo, scattò e percorse
i quasi duecento metri della distanza prevista dalla corsa
semplice.
Al termine dovette piegarsi sulle ginocchia e cercare di
riprender fiato. Nel frattempo, la moglie lo aveva raggiunto e,
guardandolo un po’ dall’alto in basso, lo canzonò: «Come
atleta, mi sembri alquanto fuori allenamento!»
«E anche fuori età, se è per questo!» concordò, mentre si
rialzava e riconquistava una respirazione più normale.
«Ma non potevo perdere l’occasione di correre sulle orme
dei protagonisti degli epinici di Pindaro.»
Entrarono, poi, nel laboratorio di Fidia, dove l’archeologo
fantasticò: «Poter veder, anche solo per un attimo, il grande
scultore alle prese con la colossale statua del dio, a plasmare
l’avorio e l’oro al suo volere per ricoprire e dar vita a quella
forma che era nella sua mente! Pensa a che tesori sono andati
perduti!»
Era ormai quasi il tramonto e il sole con i suoi raggi
restituiva agli antichi marmi una parte di quei colori coi quali
ignoti artisti avevano rivestito frontoni e statue.
Si fermarono a Patrasso per la notte e Giulio C. andò alla
ricerca di quei locali in cui era stato con l’amico vent’anni
prima. Dovette, però, accorgersi che anche qui il tempo era
passato, modificando, cancellando, uniformando interi
quartieri.
La loro vacanza era ormai alla fine e un altro aereo era
pronto ad Atene per riportarli a casa.
Come sempre, per lui, il rientro fu un misto di gioia e
nostalgia, un melange fisiologico di sentimenti che ben presto,
però, si assestarono nella quotidianità più tranquilla.
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Charlotte tornò a dividersi tra il suo lavoro e il marito.
Un giorno di fine autunno, Giulio C. si trovò a Firenze per
una ricerca e chiamò la moglie per organizzare almeno una
colazione veloce insieme.
Charlotte, felice dell’improvvisata, lo invitò : «Aspettami in
camera, prima di pranzo, vorrei almeno cambiarmi e
rinfrescarmi un po’».
Questa volta la ricerca dell’abitazione fu un po’ più faticosa,
perché la pensione presso cui Charlotte si fermava era in una
zona un po’ più periferica rispetto al suo primo appartamento.
Anche l’interno appariva più dimesso e, mentre Giulio C.
aspettava la moglie nell’ingresso, vide arrivare e uscire diversi
ragazzi e qualche ragazza dall’aspetto non proprio europeo. Le
carnagioni scure, gli occhi di carbone e, infine, la lingua, li
dichiaravano subito appartenenti, quanto meno, all’area
magrebina.
Quando Charlotte entrò sorridente, si abbracciarono e lui la
seguì nella sua stanza. Qui riconobbe almeno qualcosa di più
familiare: qualche foto, qualche oggetto personale e
l’atmosfera più “domestica” lo misero più a suo agio.
Mentre stavano per uscire, si udì bussare e
contemporaneamente una voce chiamare Charlotte. Aperta la
porta, si trovarono di fronte a un giovane alto, che indossava un
abbigliamento sportivo con la stessa naturale eleganza con cui
un lord inglese esibisce il tait.
«Non sapevo tu fossi in compagnia» esordì il ragazzo in un
francese un po’ gutturale.
«Ma no, vieni» lo invitò Charlotte, che subito presentò il
marito a Jean Pierre Alouf, un giovane tunisino.
Nello stringere la mano di Giulio C., alle solite frasi di
circostanza aggiunse: «Le faccio i miei complimenti per i suoi
libri: Charlotte mi ha fatto leggere i suoi romanzi e le assicuro
che sono stati una scoperta, una piacevole scoperta.»
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«Grazie, troppo gentile» rispose Giulio C. con un leggero
imbarazzo. «Anche lei si occupa di letteratura, di storia…?»
chiese poi.
«Oh! No, non esattamente. O meglio. Sto cominciando a
interessarmi di libri, ma solo dal punto di vista tecnico: sto
collaborando con una casa editrice per creare una collana per
l’infanzia. Anzi, avevo bisogno di sua moglie per delle
traduzioni, ma se ora non è il momento, posso ripassare più
tardi.»
«Forse è meglio», intervenne decisa Charlotte. Adesso
stiamo andando a pranzo. Ne riparliamo questa sera, se vuoi.»
«Naturalmente. Buon pranzo. E piacere di averla
conosciuta» si congedò Jean Pierre.
Mentre erano al tavolo, in attesa di una ribollita, Giulio C.
volle saperne di più e sottopose la moglie ad un fuoco di fila di
domande. Charlotte rispose con naturalezza ed in modo
esauriente, anche se, talvolta, lasciava trasparire una certa
ironica insofferenza per la curiosità del marito. Oltre all’attività
al museo, aveva iniziato a lavorare per una piccola casa editrice
italo tunisina con il compito di tradurre le più popolari fiabe
italiane per i bambini africani.
«Perché non me ne hai mai parlato prima?» volle sapere
mentre versava nei bicchieri un vivace chianti novello.
«Perché la cosa è ancora molto agli inizi e volevo farti una
sorpresa, mostrandoti il libro con la scritta: traduzione di
Charlotte Drouet.»
Chissà perché, mentre tornava a Mirano, una frase
continuava a lampeggiargli nella testa: «Posso ripassare più
tardi». E ogni volta una voce, in qualche parte nascosta del suo
io più profondo, gli chiedeva: «Ma che fai? Non sarai un
inguaribile geloso! Di che hai paura?» E anche più tardi, nel
cuore della notte, a letto, in una pausa del sonno che diventava
veglia, la sua mente lavorava, tanto che, alla fine, gli fu tutto
chiaro: non era, la sua, la comune gelosia di un marito più agee
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della moglie, non temeva Jean Pierre in quanto giovane e,
probabilmente, affascinante agli occhi di una ragazza, no, la
sua insicurezza, la sua ansia erano dovute al fatto che il
giovane era tunisino, che apparteneva alla stessa stirpe di
Charlotte, che, agli occhi di lei, rappresentava le sue radici, un
legame e un ricordo della sua terra d’origine, che potevano
avere in comune usi, lingua e tradizioni, tutto ciò che lui non
poteva certo darle.
Con lo sbiadirsi delle tenebre, anche quei foschi pensieri si
alleggerirono e, al mattino, partendo per l’università, si sentì
più calmo.
Il contatto con gli studenti, poi, fu uno stimolo in più per
gratificare il suo ego, soprattutto quando si accorgeva degli
sguardi adoranti con cui lo osservavano alcune studentesse.
Già da diverse settimane aveva cominciato a lavorare al
libro sulla Grecia. L’inizio non era stato facile: non aveva
avuto subito chiaro il taglio da dare al nuovo lavoro, ma, una
volta deciso il tono e come intrecciare il passato al presente, le
pagine avevano cominciato a comporsi quasi da sole.
Spesso si scambiavano telefonate con Stavros e Irene, che lo
mettevano al corrente dei loro programmi per le vacanze e gli
raccontavano anche di fatti di cronaca spicciola di Salonicco.
«Perché non fate una scappata da noi?» lo invitò Stavros una
sera. «Dicono che il nostro museo per gli amanti dell’arte sia
una vera goderia… non so se è giusto»
«No, Stavros» lo corresse l’amico «forse vuoi dire goduria»
«Ah! Già, proprio, hai ragione» confermò
«Chissà!» rispose Giulio C. «non abbiamo ancora fatto
progetti, a dire il vero» concluse guardando Charlotte che stava
lavorando al computer. «Ma perché invece non venite voi?»
finì per chiedere.
All’altro capo del telefono sentì un lontano bisbiglio e poi la
voce decisa di Stavros gli annunciò: «Grazie, penso proprio che
veniamo. Quale periodo è meglio per voi?»
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«Quando finiscono gli esami. Diciamo l’ultima settimana di
luglio. Per voi va bene?» si informò.
I tempi erano perfetti anche per gli amici greci, così si
salutarono, ripromettendosi di sentirsi più avanti per gli ultimi
accordi.
Posato il telefono, si avvicinò a Charlotte e la mise al
corrente di quanto programmato.
«Non credi» gli chiese lei, spegnendo il computer, dopo
aver stampato alcune pagine «che avresti dovuto almeno
domandarmi cosa ne pensavo e se il periodo di vacanza sta
bene anche a me?»
Giulio C. la osservò mentre parlava e vide nei suoi occhi
un’ombra di durezza e disappunto ben più forte di quanto le
parole non lasciavano trasparire.
«Ti chiedo scusa. Sono stato troppo frettoloso, hai ragione.
Ma pensavo che anche tu avessi voglia di rivederli» cercò di
scusarsi, avvicinandosi e cercando di abbracciarla.
Charlotte aveva nel frattempo raccolto i fogli usciti dalla
stampante e se li stringeva al petto, come fossero uno scudo per
non sentire il calore e la pressione del corpo del marito.
E mentre lui la lasciava libera «Sì, certo» rispose «anche a
me fa piacere incontrarli, ma mi avrebbe fatto piacere anche
che tu mi avessi interpellata».
«È vero, ho mancato di tatto; scusami»
«Va bene, non parliamone più» si sbrigò Charlotte.
A questo piccolo screzio seguì un periodo per lei di intensa
attività, che la tenne occupata a Firenze anche nei giorni che,
solitamente, trascorreva a casa e che la portò anche più volte a
Tunisi.
Per questo Giulio C. si buttò a capofitto nella stesura del
libro. Gli dava un profondo calore venato di sottile nostalgia
per quel periodo solare in cui aveva a portata di mano tutto ciò
che più amava: il passato, la Grecia e la moglie. Questa volta,
però, non ce la fece a terminare il libro entro l’anno e le librerie
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dovettero attender la primavera per esporre sugli scaffali
l’ultima opera di Giulio Claudio Erneti: “Nella terra degli Dei:
viaggio nella Grecia di ieri e di oggi”.
Ad ogni capitolo dedicato alla storia, al mito, alla religione,
alla politica ai grandi personaggi, premetteva alcune pagine in
cui raccontava in prima persona pensieri, emozioni, fatti e
curiosità del suo viaggio con la moglie. Erano pagine vive,
cariche dei più variegati sentimenti. Era la prima volta che
metteva a nudo una parte di sé, perché non amava darsi in
pasto ai lettori; era sempre stato molto riservato per quanto
riguardava il suo privato, eppure, questa volta, gli veniva così
naturale raccontare di come aveva cercato di far rivivere agli
occhi della moglie quel lontano passato che per lui era sempre
stato così presente, di come avessero cercato di sfuggire ai
luoghi più invasi dal turismo di massa, di come avessero
conosciuto due persone simpatiche che lo avevano legato col
filo della loro amicizia alla sua già tanto amata Grecia.
Naturalmente, quando aveva terminato la sua creatura, non
aveva avuto dubbi su a chi dedicarla: “a Charlotte, compagna
della mia vita e di questo viaggio”, furono le ultime parole con
cui chiuse il file del suo lavoro.
La critica e il pubblico dei suoi affezionati lettori accolsero
con particolare entusiasmo il libro, forse proprio anche perché
un argomento da saggio storico era trattato con un piglio nuovo
e spontaneo. Quando presentò a Charlotte la prima edizione, la
vide arrossire, mentre apriva la copertina e leggeva la dedica.
«Oh! Giulio! Grazie, è un pensiero stupendo» si commosse.
«È solo una cosa in più che ci unisce e mi è sembrato ovvio
dedicarlo a chi ha condiviso con me sia il viaggio che la fatica
della stesura.»
«Ma io ho fatto ben poco in questo senso» si schermì.
«Anzi, sono stata anch’io così impegnata che non ti ho quasi
mai chiesto nulla del libro» aggiunse mentre lo riponeva nella
borsa da viaggio che stava preparando.
72
«Sei di nuovo in partenza?» le chiese con un po’ di amaro in
bocca.
«Sì, domani ho un incontro con un sociologo tunisino che
sta scrivendo un saggio sulle fiabe europee. Poi dovrò passare a
vedere le illustrazioni: ci sono vari disegnatori che hanno
lavorato in questi mesi ma hanno stili così simili eppure così
particolari, che sarà faticoso scegliere quello più adatto.»
elencò tutto d’un fiato. E, dopo una brevissima pausa, proseguì:
«Potrebbe anche darsi che debba fare un salto a Tunisi, se va in
porto l’altra iniziativa della casa editrice.»
«Cioè?» chiese lui con ansia, osservando i movimenti
nervosi della moglie che raccoglieva qua e là quello che voleva
portare con sé.
«Forse uscirà anche l’edizione opposta: le fiabe popolari
tunisine tradotte in italiano» rispose quasi senza guardarlo,
mentre chiudeva il trolley.
«Speravo che avremmo avuto un po’ di tempo per noi» si
rammaricò in risposta.
«Abbi pazienza, Giulio» lo esortò, finalmente avvicinandosi
e sedendo sul bracciolo della sua poltrona. «È un periodo un
po’ intenso, ma vedrai che finirà e riprenderemo il nostro ritmo
più placido» cercò di confortarlo, accarezzandogli i capelli che,
si accorse con sorpresa scompigliandoglieli, stavano
velocemente imbiancando.
Proprio nei giorni in cui Charlotte era a Firenze, spedì a
Stavros e Irene una copia di “Nella terra degli Dei” con una
affettuosa dedica.
Nel giro di poco meno di un mese da Salonicco arrivò una
telefonata.
«Pronto?» rispose Charlotte che stava passando proprio
accanto al telefono.
«Sono Stavros, Charlotte. Come stai?» le chiese la voce
chiara e decisa.
73
Dopo essersi scambiati i convenevoli di pragmatica, si
informò: «Giulio C. è lì? Devo dirgli che è un…» si interruppe
indeciso alla ricerca di una parola. «Asse?» chiese titubante.
«Asse?» gli fece eco Charlotte «No, forse vuoi dire asso, cioè
grande, campione»
«Sì, sì» esultò Stavros «Ho letto il libro: è fantastico; parla
della Grecia e dei greci meglio di quanto faremmo noi. Anche
Irene, quando gliel’ho raccontato e gliene ho letto qualche
pezzo, è rimasta entusiastica» la informò
«Entusiasta» lo corresse benevolmente, salutandolo prima di
passargli il marito.
Questa volta, quando Stavros chiese di poter precisare i
tempi della vacanza in Italia, Giulio C. interpellò prontamente
la moglie: «Ci chiedono se ci va bene come periodo dal 23
luglio al 3 o 4 agosto. Arriverebbero a Venezia in aereo».
«Direi che può andare, in linea di massima» rispose
lentamente mentre rifletteva sui suoi eventuali impegni già
programmati.
«Non ti ho visto molto decisa e sicura» le fece osservare
Giulio C., dopo aver salutato l’amico.
«Hai ragione» rispose, «ma vedi, c’è tanta roba in giro in
questo periodo che veramente non ho ancora il quadro preciso
degli appuntamenti e degli spostamenti delle prossime
settimane.»
«Speriamo bene» si augurò lui. «e, comunque, ora che lo
sai, cerca di distribuire i tuoi impegni di conseguenza»
«Per quanto dipende da me, lo farò» lo rassicurò un po’
piccata «ma ci sono delle cose che non posso decidere io» ci
tenne a precisare, mettendosi a tavola per la cena.
Riviste, rotocalchi e trasmissioni televisive fecero a gara per
aggiudicarsi, nelle successive settimane, la presenza di Giulio
C. come ospite d’onore e fu oggetto di interviste, per non
parlare della critica specializzata, che aveva praticamente
vivisezionato il libro.
74
Per sua fortuna, fin da prima di sposarsi, aveva provveduto a
far cancellare il suo nome dall’elenco telefonico. Nei primi
anni della carriera non si era mai preoccupato di nascondersi e,
a volte, gli era arrivata parecchia posta da parte di lettori( e più
spesso lettrici) che cercavano di insinuarsi nel suo privato, con
il pretesto della richiesta di un autografo o rivolgendogli lodi e
complimenti per la sua attività di scrittore.
All’inizio la cosa era stata anche piacevole e gratificante, un
vero e proprio “massaggio dell’ego”, ma poi le dimensioni del
fatto erano cresciute a tal punto da farlo decidere ad entrare
nell’anonimato.
Pochi giorni prima dell’arrivo degli amici, Charlotte
ricevette una telefonata dal suo editore: erano sorti dei
problemi in seno al comitato direttivo della casa editrice.
Alcuni componenti non erano convinti che fosse una buona
idea pubblicare le fiabe in arabo, perché avrebbero potuto
urtare la suscettibilità degli islamici più integralisti. Forse era
meglio limitarsi ad una versione francese che avrebbe forse
avuto un mercato più ristretto, ma senza dubbio più sicuro e
disponibile.
Charlotte rimase al telefono un tempo che a Giulio C. parve
infinito e, quando finalmente riattaccò, la vide piuttosto
contrariata.
«Problemi?» le chiese con sollecitudine:
Lei gli espose come si erano messe le cose e poi gli rivelò:
«Il guaio è che dovrò andare a Tunisi tra due giorni per
perorare la mia causa. Non posso accettare che un lavoro così
si riduca a un testo da utilizzare solo in qualche circolo
esclusivo o in qualche scuola privata. Non è con questa
intenzione che ho lavorato» concluse visibilmente alterata
alzando la voce.
«Allora non sarai qui per il 23, naturalmente» ne dedusse
Giulio C.
75
«Evidentemente, no. Comunque, stai tranquillo, perché sarà
questione di pochi giorni. Intanto puoi accompagnarli tu da
qualche parte, mentre mi aspettate» suggerì.
E, infatti, così fu.
I primi giorni trascorsero un po’ sottotono, anche se la
simpatia di Stavros e Irene e il suo ruolo di accompagnatore
non gli consentivano di lasciar entrare nella sua mente troppi
pensieri cupi o malinconici.
Dopo essere stati a Treviso, che incantò i coniugi greci con
le sue rogge e la sua aria così signorilmente riservata, andarono
a Padova, dove Giulio C. era di casa. Infatti, incontrò qualche
collega che fu felice di presentare agli amici. Si fermarono al
Pedrocchi per un aperitivo, prima di proseguire per il Prato
della Valle.
A conclusione di quella giornata, tornati a casa, furono
raggiunti dalla telefonata di Mara che, da quando il figlio le
aveva comunicato l’arrivo della coppia di amici, non vedeva
l’ora di conoscerli e averli tutti a cena da lei.
Sarebbe stata una serata perfetta se ci fosse stata anche…
«E, Charlotte, no la ghe xè?» si informò subito Mara,
accorgendosi contemporaneamente dall’espressione del figlio,
di aver toccato un nervo scoperto.
«È a Tunisi per lavoro» la informò, mentre cercava di non
guardare la madre negli occhi.
Mara, da donna intelligente qual era, fu pronta a cambiar
discorso.
Quando poi, due giorni dopo, anche Charlotte si unì a loro,
sembrò che ogni ansia, ogni dissapore, si fossero dissipati. Ma
Giulio C., che di lei conosceva ogni minimo cambiamento
d’espressione, continuò a provare un affanno che gli
prosciugava il cuore.
Così, il soggiorno italiano di Stavros e Irene si concluse con
una stupenda gita al lago di Garda in una giornata che pareva
76
fatta apposta per fargli rimpiangere la vacanza, il paese, gli
amici.
Nei mesi seguenti, Giulio C. si sorprese più volte ad
osservare di sottecchi la moglie: cercava di verificare se nei
suoi occhi ci fosse ancora quella luce che lo aveva abbagliato
cinque anni prima. Ma dovette purtroppo convincersi che, a
volte, delle nubi la offuscavano.
«Charlotte, capisco che per te il tuo lavoro sia importante,
ma ritieni che conti anche più di noi, del nostro matrimonio?»
non poté fare a meno di chiederle un giorno in cui la vide più
tesa del solito.
«Ma che domanda mi fai?» si stupì lei, quasi sobbalzando,
colta alla sprovvista.
«Non puoi negare che da qualche tempo sei preoccupata, in
ansia, sembri stressata. Vorrei aiutarti, in qualunque modo, se
me ne dai la possibilità» cercò di tranquillizzarla.
«Grazie dell’aiuto che mi offri, ma nessuno, tranne me, può
far niente» gli rispose con un senso di scoramento.
«Ti prego non parliamone più» concluse, dopo una breve
pausa, mentre lui le si avvicinava per abbracciarla.
Quando Charlotte si sentì stretta nella sua forza e nel suo
amore, si rilassò ricambiando il suo abbraccio mentre gli occhi
liberavano quelle lacrime che da tanti giorni le bruciavano
dentro. Anche se cercava di trattenersi, non poté impedire a
qualche singulto di scuoterla. Colpito da quell’emozione
irrefrenabile, Giulio C. si sciolse dall’abbraccio per guardarla
in viso.
«Allora è davvero grave!», disse, non sapendo se cercare di
rincuorarla con la comprensione o cercare di alleggerire quella
tensione con un tono un po’ faceto.
Charlotte continuava a piangere in silenzio, cercando
disperatamente un kleenex nella borsetta posata su una sedia.
Quando, finalmente, riuscì a calmarsi, sembrò davvero più
scarica, come le nubi sgonfie e sbiadite, dopo un temporale.
77
A letto, quella sera, Giulio C. le si avvicinò con uno
struggente desiderio di darle, oltre ai piaceri dell’amore, tutta la
sua comprensione, tutto il suo appoggio, ma nello stesso istante
in cui lei si sentì sfiorare dalle sue mani, si ritrasse.
«No, ti prego, Giulio, per favore, non potrei proprio. Abbi
pazienza, scusami, ma non me la sento.» lo respinse.
Giulio C. restò come fulminato: era la prima volta che
succedeva e lui non ne capiva il motivo. Non si risentiva di
quel rifiuto nella sua qualità di maschio, quello che lo
inquietava era questa ferita nel loro rapporto, che lui credeva
inossidabile e che era una spia di una crisi da ricercare chissà
dove.
Restò per un po’ immobile, cercando di assorbire e
neutralizzare in qualche modo quel pugno nello stomaco che le
parole di Charlotte gli avevano sferrato.
Quando si rese conto che non avrebbe potuto dormire, si tirò
a sedere sul letto e accese la luce sul comodino.
«Credo che dobbiamo parlarci senza falsi pudori e senza
peli sulla lingua» le propose con una voce così seria e profonda
come mai prima lei l’aveva udita. Charlotte si voltò verso di lui
e si mise anche lei a sedere, con la schiena appoggiata agli
enormi cuscini che facevano da testiera.
«Chi è?» sparò a bruciapelo Giulio C.
Come colpita da un proiettile, Charlotte sbiancò e abbassò il
capo.
«Chi è?» ripeté questa volta con la voce leggermente
incrinata da un misto di rabbia e angoscia.
«No, Giulio, non è come credi, davvero»
«E cosa credo io? Come fai a sapere cosa penso, se da un
po’ di tempo non fai che scappare da una parte all’altra del
Mediterraneo?» le buttò addosso, cercando a fatica di moderare
il volume della voce.
78
«Sei il tipico maschio italiano che pensa che solo un altro
uomo possa fargli allontanare la moglie?» gli fece eco lei,
puntandogli in faccia gli occhi dardeggianti.
«Per favore, Charlotte, non ripariamoci dietro agli stereotipi:
non siamo i tipi», si sentì risponderle, mentre la sua mente
rincorreva le parole di lei con una differente ma angosciosa
incertezza.
«No, non c’è stato un altro, non … non so…», sussurrò,
coprendosi il volto con le mani.
«Non sono andato troppo lontano dal bersaglio, allora. Cosa
vuol dire non so…? Che non ci sei ancora andata a letto? Cosa
vuoi, il mio permesso? Godrai di più quando lo scoperai,
sapendo che io lo so?» le urlò in faccia con la voglia di ferirla.
«Per favore, Giulio, non diventare volgare, non credo di
meritarlo» fu la sua risposta.
«Scusami» si sentì in dovere di concederle,» ma forse non ti
rendi conto di cosa significhi tu per me, del terrore che ho di
perderti» disse quasi sillabando le parole.
«Se da qualche tempo ti vedevo cambiata e non ho mai detto
niente, è perché speravo sempre che saresti stata tu a dirmi
qualcosa, a parlarmi. Non ci siamo mai nascosti nulla, no? E
allora, quali colpe ho commesso, cosa ho fatto per arrivare a
questo?»
«Ma tu non hai fatto niente, non hai nessuna colpa. Ci sono
delle cose che succedono anche senza che noi le vogliamo» gli
rispose, guardandolo negli occhi con assoluta fermezza.
«E allora, arriviamo al dunque..Chi c’è, cosa c’è che ci sta
allontanando, anzi, ti sta allontanando?» volle precisare.
«Non è facile, Giulio, parlare di certe cose. Tu sei sempre
stato il migliore in tutto: con me sei sempre stato comprensivo,
disponibile, presente…»
«D’accordo,» tagliò corto «questo è dritto della medaglia,
ma ci sarà un rovescio suppongo…» la invitò deciso.
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«Non c’è un rovescio» rispose prontamente Charlotte «Non
sei tu ad essere in discussione. Vedi, da quando ho cominciato
a lavorare alla casa editrice, è come se un vento col suo soffio
avesse disperso la sabbia che ricopriva le mie radici. Ho
riscoperto un mondo al quale non pensavo più di appartenere.
Anche quando siamo stati in vacanza in Tunisia, in fin dei conti
mi interessava e mi piaceva risentire la mia lingua, la lingua
della mia infanzia, ma era come se io fossi al di qua di quel
mondo, come se lo guardassi con la lente della nostalgia o del
ricercatore. Ma quando ho cominciato a scrivere, ad avere
rapporti di lavoro con quell’ambiente, me ne sono sentita
coinvolta totalmente. Mi ci sono ritrovata dentro con la stessa
sensazione con cui calzi un paio di scarpe fatte su misura per
te. Ho capito che, forse, quella è la mia vera dimensione.» Fece
una breve pausa per guardarlo, per rendersi conto dell’effetto
prodotto dalle sue parole.
«Per questo» continuò «quando conobbi Maurice…»
Quel nome maschile fu per Giulio C. un’esplosione atomica.
«L’hai detto finalmente» sbottò «Che bisogno avevi di fare
quell’inutile prologo, quando bastava dire «Mi sono
innamorata di un altro, di Maurice» le urlò sul viso.
«No, calmati, Giulio» lo invitò lei «Lasciami finire, non
semplificare tutto, come se fosse un copione già scritto. Ti
stavo spiegando che, quando a Tunisi, conobbi Maurice, alla
casa editrice, il trovarmi bene con lui a parlare, a lavorare, mi
parve più che naturale, perché avevamo interessi comuni,
perché faceva parte di quel mondo, di quella società nella quale
mi stavo lasciando trasportare. Se anziché Maurice si fosse
trattato di un altro o anche di una donna, non avrebbe fatto
differenza, pensavo, perché non c’entrava assolutamente nulla
con l’amore o con il sesso. Solo la frequentazione assidua di
questi ultimi tempi, lavorare insieme, uscire a cena, talvolta,
confrontarci su temi e questioni della nostra terra» (quel nostra
non lasciò indifferente Giulio C.) «ci ha molto avvicinati e
80
soltanto allora ho capito che forse Maurice non era solo un
ottimo collega» concluse come svuotata.
«Non c’è proprio niente che possa fare per riprenderti?» le
chiese con trepidazione.
«Giulio, non so, non so più niente. Comunque, anche se so
di non essergli indifferente, a Maurice non ho rivelato nulla dei
miei sentimenti e della crisi che sto attraversando» confidò con
un soffio.
Poi un sipario di plumbeo silenzio calò su di loro a separarli
con la sua inconsistente pesantezza.
Ciascuna delle due anime si arroventava in pensieri
contrastanti e contrapposti.
Quando a Giulio C. non parve più possibile resistere oltre a
quel tacito gravame, le propose: «Che ne dici se cerchiamo di
parlarne domattina?»
«Come vuoi» fu la laconica risposta di Charlotte.
Spenta la luce, ognuno si trovò di fronte ai propri dilemmi,
alle proprie paure. Ascoltavano reciprocamente il respiro vigile
e l’insonne voltarsi e rivoltarsi, ma le loro labbra restavano
mute.
Qualche ora di un sonno agitato e leggero concesse loro un
po’ di tregua.
Quando per primo Giulio C. aprì gli occhi, si soffermò ad
accarezzare con lo sguardo i lineamenti di Charlotte, che
ancora dormiva.
In silenzio si alzò e scese a preparare la colazione. Sapeva
che alla moglie piaceva sentire il profumo del caffè al
risveglio. Prese un vassoio, vi posò tutto l’occorrente ed entrò
nella camera proprio mentre lei stava aprendo gli occhi.
Incontrando quelli del marito, Charlotte accennò ad un sorriso
che, anche se un po’ tirato, non gli dispiacque.
«Buongiorno» le augurò dolcemente, posando il vassoio sul
comodino.
81
«Buongiorno. Grazie» lo ricambiò, mentre lui sedeva sul letto
accanto a lei.
Nessuno dei due riusciva a trovare le parole giuste per
riprendere il doloroso dialogo interrotto la sera prima.
Finalmente, Giulio C. trovò la forza per cominciare.
«Allora, Charlotte, cosa pensi di fare?» ma proprio mentre
lei stava per rispondere, suonò il suo telefono. Allungò il
braccio e, trovato l’apparecchio sul comodino, «Pronto!»
rispose con la voce ancora appannata dal sonno appena svanito.
Quando Giulio C. vide il cambiamento della sua espressione
e sentì come si addolciva la sua voce ad ogni parola, comprese
che non c’era più bisogno di aggiungere altro, che la loro storia
era già finita.
Non sopportando di essere muto e scomodo testimone di
quella conversazione, uscì sentendosi come un guerriero
sconfitto che lascia il terreno dello scontro.
Mentre scendeva, sentì però la moglie parlare in una lingua
piena di suoni aspirati che la rendeva ancora più sexy e
desiderabile.
Quando lo raggiunse in salotto, Giulio C. cercò, scrutandone
il viso, di capire cosa stesse provando: impossibile penetrare in
un’espressione così chiusa ed enigmatica.
Lasciatisi sedere pesantemente su una poltrona, Charlotte lo
guardava come se i suoi occhi gli passassero attraverso, come
se stessero vedendo ciò che stava dentro e oltre il marito.
«Dunque, il grande amore per l’arte, la cultura, la civiltà
dell’occidente che ti ha incantata e portata a vivere a Firenze si
è dunque già dissolto?» la interrogò, mentre pensava con
rimpianto al loro primo incontro.
«E perché? No, Giulio, non pensare che sia un’integralista,
che il mio sentirmi islamica sia inconciliabile con tutto ciò che
ho studiato e amato e che amo ancora, invece. Riconosco tutto
quello che di grande l’occidente ha prodotto nei secoli, che è
degno del più profondo rispetto.
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So bene che c’è chi vorrebbe contrapporre le due sponde del
Mediterraneo in uno scontro epocale, ma io credo che questo,
se si verificasse, sarebbe solo una rovina e una sconfitta per
entrambi. Se io ho riscoperto la cultura delle mie origini,
questo non mi rende nemica della cultura e della civiltà
dell’Europa. Come del resto» aggiunse subito «non ti ritengo
un nemico…»
«Già,» si inserì con amara ironia, «ma ora non sono più
l’elemento centrale del tuo mondo, ma un semplice accessorio
sempre più ingombrante»
Charlotte si alzò e andò alla finestra che si apriva su uno
scenario di verde che l’autunno ormai ingialliva o arrossava
con la sua tavolozza di caldi colori.
E mentre si immergeva in quel paesaggio, trovò la forza di
continuare: «Vedi, Giulio, se io non provassi più nulla per te,
non avrei motivo per essere tanto angosciata, sarebbe facile
scegliere senza voltarsi indietro. Invece, no, tutto è complicato
dal fatto che non posso fingere che tu non ci sia, che tu non sia
più nulla per me. Come potrei cancellare questi anni così pieni,
così ricchi… Io ti voglio ancora bene e questo, purtroppo per
me, rende tutto così maledettamente difficile» concluse
voltandosi verso di lui, mentre un brivido improvviso la
scuoteva e la portava ad avvicinarglisi.
Giulio C. non poté trattenersi dal prenderla tra le braccia e
stringerla con tutte le sue forze. Lei cercò la sua bocca e cercò
in quel bacio una risposta alle sue angosce, alle sue incertezze.
«Vorrei amarti, Giulio, voglio amarti» gli sussurrò.
Quelle parole furono per lui peggio di un rifiuto. Con una
dolcezza che gli costò uno sforzo immane, la scostò e,
guardandola negli occhi: «NO, Charlotte» sentenziò «l’amore
non può ubbidire ad una volontà razionale, non c’è scelta. Non
si può voler amare: o si ama e basta o non c’è alternativa».
83
Anche per lei era chiaro che tra loro non poteva esserci
ormai che un addio, anche se questo taglio rappresentava la
fine di una parte di lei stessa e della sua vita.
Ancora alcuni giorni vissuti ai margini l’uno dell’altra e
poi…
Mara, con quella finissima sensibilità femminile, si era
accorta, dopo soli pochi giorni dalla partenza di Charlotte, che
qualcosa era cambiato, ma la lettera che lei le spedì due
settimane dopo, la rintronò.
“Mara carissima,” le aveva scritto “tu che mi hai
accolto con una generosità e un affetto che non erano
motivati solo dall’amore di tuo figlio per me, tu che tante
volte ho sentito vicina come una madre, tu non potevi certo
prevedere il dolore che ti avrei dato. A te e a Giulio.
Questa mia assenza non è come tutte le altre, non è una
momentanea lontananza, in attesa di un ritorno.
Quando sono partita, sono stata troppo vigliacca per dirti
addio, guardandoti negli occhi. Già mi era costato tanto
salutare Giulio, che la mia capacità fisica e psicologica di
sopportazione del dolore altrui era completamente esaurita.
Però non posso più ora fingere con me stessa e non
cercare almeno di spiegarti perché vi ho lasciati.
Io ho amato tanto e davvero Giulio, credimi, e ancora
provo per lui un affetto speciale, ma quello che pensavo
appartenesse solo al mio passato, ai miei ricordi d’infanzia si
è invece rifatto vivo. Le mie radici etniche e religiose sono
rispuntate con una forza che mi ha stupita.
E poi…e poi…Perché è tanto difficile anche da scrivere
quello che sarà per te come un coltello affilato nelle carni?
Ma tu hai già capito, senza dubbio: ho conosciuto un
ragazzo della mia terra, uno che ho subito sentito come parte
di me stessa. E contro questo sentimento non ho potuto
lottare. Anche se la ragione cercava di parlarmi, il cuore
urlava più forte. Non ho mai tradito Giulio, però, questo non
avrei mai potuto farlo, ma non posso ingannare lui e me
stessa (per non parlare di Maurice), fingendo un amore che è
cambiato in modo tanto profondo e radicale.
84
Non odiarmi, ti prego, e perdonami, se puoi.
Charlotte
P.S. Se vorrai, puoi far leggere questa lettera a Giulio, il
cui ricordo è e sarà sempre con me. “
Ci volle più di un mese, perché Giulio C. si rendesse conto
che il vuoto che lo riempiva, il silenzio che esplodeva ogni
volta che si trovava in casa, sarebbero stati la sua condizione
permanente nei prossimi anni.
Con un misero pretesto, un giorno Mara andò a casa dal
figlio. Lo trovò al computer, la barba di parecchi giorni, un
bicchiere di Whisky accanto al mouse.
Senza dire una parola, lo abbracciò standogli alle spalle.
Lui, senza un sussulto, lasciò la tastiera e strinse nelle sue le
mani della madre. Ruotò la sedia e, alzandosi, le chiese: «Vuoi
un caffè o mi fai compagnia con un goccio di questo?» accennò
al bicchiere dal contenuto ambrato.
«No, caro, no star a imbriagarte» fu la scontata risposta.
Dopo un attimo di pausa, in cui parve che nessuno dei due
possedesse le parole per abbattere quella barriera di dolore che,
pur accomunandoli, li divideva, Mara chiese con un grido
strozzato: «Ma perché, Giulio mio, stà disgrassia?» E,
guardandolo dritto negli occhi, si rese conto che non c’era
risposta.
«No te lo meritavi, no doveva lassarte cussì. che dona, che
mujer…»
«Basta, ora, mamma» la interruppe deciso. «È stato un
brutto colpo, sì. Adesso mi sento come se mi avesse travolto
una valanga…»
«Se ti vol qualcossa, fijo mio, dime, cossa posso far…»
Con un sorriso quasi patetico cercò di consolarla. «Ma no,
mamma, niente. Cosa vuoi fare? Ho il mio lavoro, tante cose da
pensare, da fare. Supererò anche questo momento, dai!» e con
un forte abbraccio si salutarono.
85
Non aveva certo avuto voglia né tempo di pensarci, ma
anche quell’anno stava arrivando il Natale.
Se ne accorse all’improvviso una sera in cui zappingando
col telecomando, alla ricerca di un programma che lo
interessava, vide passare alcune pubblicità tipicamente
augurali. Subito la mente, con un balzo atletico, lo riportò al
Natale dell’anno precedente e vide velocemente passare, come
su uno schermo, le tante immagini della festa cui aveva invitato
tutti gli amici più cari. Dimenticatosi del programma
desiderato, spense la TV e si ritrovò in preda ad un desiderio di
fuga: senza dubbio qualche amico lo avrebbe chiamato per
fargli gli auguri e per sapere di lui e di Charlotte.
Da masochista, avrebbe dovuto, dando qualche spiegazione,
sottoporsi ad una serie di dolorose torture. Decise allora di
giocare d’anticipo: telefonare lui per primo e inventare un
viaggio che lo avrebbe tenuto lontano da casa giusto per una
quindicina di giorni. Ovviamente doveva anche prevedere e
prevenire le domande sulla moglie: forse avrebbe potuto
raccontare che aveva avuto un impegno di lavoro e, come già
altre volte era successo, era partita per Tunisi. Questo gli
avrebbe evitato altre spiegazioni che a distanza di qualche
mese, sperava, sarebbe riuscito a dare con maggior distacco e
rassegnazione.
Registrò sulla segreteria un messaggio augurale per chi lo
avesse cercato e si lasciò vivere aspettando che quei giorni di
convulsa frenesia che precedono le festività fossero archiviate
nel passato.
Trascorso con la madre un Natale intimissimo e sottotono,
durante il quale dovette cercare di non lasciare troppo
trasparire i pensieri e le angosce che lo turbavano, si era buttato
a capofitto su ricerche e riletture classiche, pensando anche ad
eventuali traduzioni di Senofonte, ad una biografia un po’
romanzata di Giulio Cesare o qualche altro personaggio
protagonista della storia antica.
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In una serata di vento freddo che sibilava anche tra le pur
nuove imposte della casa e violenti scrosci di pioggia, mentre
era immerso nella lettura del testo originale della Ciropedia, fu
scosso dall’improvviso suono del campanello. Sulle prime,
quasi quasi, era stato tentato di non rispondere, ma poi, la
curiosità di sapere chi si azzardasse ad uscire in una serata
come quella, lo fece muovere.
«Chi è?» chiese, stupendosi nell’udire la sua stessa voce,
che per tutto il giorno era rimasta inutilizzata.
«Giulio, sono Marcello. Apri, per favore, fa un freddo bestia
e sono fradicio.»
Non aveva ancora finito di parlare, che già il portone era
stato aperto e Giulio C. stava andandogli incontro per le scale.
Da quando l’architetto si era trasferito nella provincia
trentina, le occasioni per vedersi non erano state tantissime.
«Ehi! Ma sei sicuro di essere proprio tu?» si stupì dapprima
vedendo la lunga barba dell’amico.
Scrollatosi di dosso un po’ d’acqua e toltosi il piumino,
Marcello con foga si ritrovò stretto nell’abbraccio di Giulio C.
Appena entrati in salotto, il padrone di casa lo osservò e,
ostentando una normale tranquillità, gli chiese: «Ma che ci fai
qui, a quest’ora e in una serata da apocalisse?»
«Stavo tornando a Rovereto da Bologna, dove ho ultimato
un progetto, e mi sono detto che era proprio il caso di fare una
deviazione per venire a vedere come sta la mia casa. È stato
uno dei miei lavori più riusciti.» si autogratificò.
«Sì, hai ragione», confermò Giulio C. «anche se l’utilizzo
forse poteva essere migliore.» Concluse con un sospiro, mentre
prendeva due bicchieri e una bottiglia di Cartizze. Non gli
sfuggì, comunque, l’espressione mesta di Marcello che,
chinando il capo, cercava di nascondere gli occhi.
Erano troppo amici perché Giulio C. non capisse che lui
sapeva.
«Chi te l’ha detto?» chiese, riempiendo i bicchieri.
87
«Cosa, chi doveva dirmi cosa?» tentò di fare l’ignaro.
«Marcello, per favore, dai, chi ti ha detto di Charlotte?» lo
sollecitò
«E chi poteva parlarmene, secondo te? Chi altri lo sa, oltre a
te e tua madre?»
«Sei stato da lei o ti ha telefonato lei?» volle sapere.
«No, veramente, è stata lei che, nel farmi gli auguri mi ha
detto…»
«Ti avrà pregato di venire a confortare il povero marito
abbandonato» dedusse sarcastico.
«Ti sbagli, Giulio» fu la pronta risposta «Lei non voleva che
ti dicessi niente, se ci fossimo visti o sentiti. Sono stato io che
non ho potuto fare a meno di venire per cercare di…»
«Consolarmi, come si fa con un bambino che, se perde un
giocattolo, si cerca di dirottare la sua attenzione su un
surrogato» terminò con una amarezza glaciale.
«Sei ingiusto e spietato anche verso te stesso. La nostra
amicizia non è un surrogato di niente e, se non credi che
condivida il tuo stato d’animo di questi momenti, non hai
proprio più alcuna fiducia nel valore dell’amicizia vera.» si
risentì Marcello.
«Scusami» gli rispose stringendogli un braccio «allora puoi
ben capire come ora per me sia tutto nero, inutile e assurdo.
Grazie, invece, per questa improvvisata. Io non avrei avuto la
forza di cercare nessuno, ma ora che sei qui, mi sento più
tranquillo. Mi fa bene la tua presenza, la tua comprensione e
solidarietà.» gli confidò con grande sincerità, accennando ad un
brindisi.
E d’improvviso ebbe voglia di sfogarsi, di parlare, non tanto
per ricevere parole di conforto, quanto piuttosto per diminuire
la pressione che gli si era gonfiata dentro in tutti quei giorni e
che ormai l’avrebbe fatto esplodere in qualche gesto
improvviso.
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Cominciò a raccontare, quasi fosse una confessione e parlò
fino a sfinirsi.
«Ora mi pare quasi di averlo sempre saputo che non sarebbe
durato per tutta la vita, ma non pensavo che la causa sarebbe
stata questa. Così come io mi avvicinavo al suo mondo
islamico, credevo che anche lei si fosse ormai identificata
almeno un po’ con la nostra cultura o, quantomeno, ci si
sentisse pienamente a suo agio.» Terminò, finendo anche di
vuotare il bicchiere. Stava per riempirlo di nuovo, quando
l’amico gli posò la mano sul polso: «No, Giulio. La soluzione
ai problemi non è mai il vino. In fondo ad una bottiglia puoi
trovare solo un mal di testa feroce che il giorno dopo ti dilania
anche il fisico.
Senti, perché non vieni con me qualche giorno? Devo
andare a Tarquinia per un lavoro importante. È una zona
bellissima che certo conosci meglio di me…»
«Ci ho anche lavorato, al tempo della specializzazione. Con
l’equipe di studio ho scavato una tomba. Il professor Farinelli
fece un colpaccio: trovammo una grande camera, di una
famiglia importante, con un corredo integro di buccheri in
perfetto stato di conservazione e dei gioielli favolosi. Ci scrisse
anche una pubblicazione notevole, ricordo.»
Quell’accenno agli etruschi lo aveva riportato di colpo ai
suoi primi impegni come archeologo e si rivide, pieno di
entusiasmo e aspettative, con ancora davanti tanti anni che, era
sicuro, gli avrebbero portato successo professionale, fama e …
amore? Ma quando mai! Non che allora non pensasse a una
compagna, ma era come se quell’argomento se ne stesse un po’
in disparte tra i suoi altri desideri Pareva quasi, a pensarci ora,
una sorta di inconsapevole autodifesa preventiva.
«E allora, Giulio, cosa mi dici? Ti va di fare questa
scappata?» lo riscosse d’improvviso la voce dell’amico.
«Perché no?» rispose «Sarà un piacere e forse anche una
sorpresa, bella, spero, rivedere gli oggetti ritrovati allora
collocati al museo.».
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«D’accordo. Allora passo a prenderti dopodomani» stabilì
Marcello.
«E ora che fai? Te ne vai sotto questo diluvio furibondo fino
a Rovereto?» gli chiese Giulio C. «Ma fermati qua e riparti
domattina, almeno ci sarà la luce, se non proprio un tempo
migliore» lo invitò.
«Beh! Grazie Giulio. Prendo la borsa in macchina e poi ci
diamo la buonanotte.».
Prima di dormire, parlarono ancora a lungo, rievocando i
tempi del liceo, i compagni, tanti episodi che li avevano visti
insieme e che erano un forte collante per il loro rapporto.
«E il lavoro, come va?» si informò Marcello «Stai facendo
qualcosa di particolare?»
«No, per ora no «rispose «ma avrei in mente di scrivere una
specie di biografia a puntate su un grande, che so? Giulio
Cesare o Augusto. Mi piacerebbe rinchiudermi in un isolato
rifugio dove nessuno mi potesse raggiungere, stare da solo,
lontano da tutti, senza telefono e come unica compagnia della
bella musica».
«Hai trovato la lampada di Aladino, per caso?» si stupì
Marcello.
«Cosa vuoi dire?»
«Ho appena ristrutturato una casetta in uno sperduto paesino
sopra Trento, all’incirca. Io non so quando avrò il tempo di
godermelo, ad ogni modo se ti piace, puoi andarci quando e
finché vuoi.»
«Dici sul serio?»
«Assolutamente. Facciamo così: quando vuoi, facciamo un
salto e ti mostro il mio eremo.» gli propose.
«Ne sarò felicissimo. Grazie. Sei proprio un amico.»
«Te ne sei accorto solo ora?»
La luce grigia del primo mattino li trovò un po’ frastornati
ma desiderosi di un caffè e di fare qualcosa.
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La nera bevanda fu una sferzata di ulteriore vitalità. Anche
il tempo pareva essere dalla loro parte: il cielo, quella coperta
cinerea, si andava strappando qua e là, facendo squillare note di
un azzurro da porcellana.
«Devi proprio tornare a casa?» chiese speranzoso Giulio C.
«non puoi partire addirittura da qui, che siamo più vicini?»
«Purtroppo devo andare a prender dei documenti, delle
carte, dei progetti» si giustificò Marcello «Però potresti venire
tu a Rovereto con me, così partiamo direttamente da lì
domattina.»
«Quanti giorni pensi di trattenerti a Tarquinia?» si informò
«Sai, io devo riprendere l’università il dieci»
«Non temere, che saremo certo a casa per quella data».
Buttati alcuni cambi di biancheria e qualche altro indumento
nella capiente borsa da viaggio, chiusero casa. Passarono a
salutare Mara che, da un lato si sorprese nel veder partire il
figlio, ma dall’altro fu felice nel vederlo più sollevato e,
soprattutto, con qualche interesse che lo sollecitava di nuovo.
Il viaggio si rivelò piacevole e, stranamente, non ostacolato
da ingorghi autostradali.
Marcello guidava una potente BMW, dalla struttura enorme,
cosa alla quale Giulio C., da sempre amante delle veloci e
sportive Alfa GT, non era abituato. Indubbiamente, non dover
guidare e il confortevole sedile, contribuivano a rendere il
percorso disteso.
Approfittando di un tratto di strada a velocità limitata,
Marcello inserì un CD di Renato Zero che, a volume assai soft,
era una colonna sonora adeguata alla circostanza.
«Che ne dici?» gli chiese Marcello, dopo qualche minuto.
«Io di musica leggera e cantautori non me ne intendo molto.
Però, Zero mi sembra un buon musicista» rispose, cercando di
stare nel vago.
«Quello che io apprezzo in modo particolare di lui sono la
poeticità dei suoi testi e il coraggio che dimostrano».
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«Coraggio?» si stupì Giulio C. «Ah! Ti riferisci
all’esternazione della sua omosessualità?»
«Sì, anche, anzi, direi soprattutto quella» confermò il pilota.
Per un po’ non parlarono e la musica accompagnò ciascuno
dei due amici verso lontani pensieri. Quando Giulio C. si
accorse di essersi avviato per un pericoloso sentiero mentale,
che già tante altre volte gli era costato amarezza e rimpianti,
ritornò al presente e, quasi con noncuranza, chiese: «Marcello,
e tu a donne, come sei messo?».
Volgendo lo sguardo alla sua sinistra, gli apparve evidente il
sussulto dell’amico. Prontamente cercò di glissare con ironia:
«Scusami, capirai ti ha parlato un vero esperto!»
«Ma via, Giulio, lasciamo perdere l’altra metà del cielo» fu
la caustica risposta dell’architetto.
«Ma sì, hai ragione, pensiamo al nostro viaggio, piuttosto.
Sai che la tua proposta di ospitarmi nel tuo rifugio mi ha
accompagnato tutta la notte? Il sapere di avere un luogo
nascosto dove rintanarmi mi entusiasma. Ma a te non serve per
altri scopi… più …»
«Ma va a ramengo!» lo tacitò con un mezzo sorriso.
Chissà, non poté far a meno di pensare tra sé Giulio C., che
anche lui sia in un momento critico, che sia stato lasciato?
Sapeva bene, comunque, che l’amico non si era mai sposato, la
qual cosa, però, non era incompatibile con qualche storia,
magari finita male.
Si fermarono a pranzare in una trattoria nei pressi di
Vicenza, dove si trattennero un po’ a fare i turisti, invogliati
anche da un bel sole.
Quando arrivarono, l’auto si fermò davanti ad un villino
dalla tipica architettura anni trenta, dalle linee razionali e dai
colori puliti.
Appena entrati, Marcello accompagnò l’amico nella stanza
degli ospiti, su un lato della quale era accostato un enorme letto
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matrimoniale in radica di noce, coetaneo senza dubbio
dell’edificio.
«Questo è il bagno» gli fece strada, aprendo una porta a
scomparsa.
Poi lo precedette in fondo al corridoio, dove si apriva la sua
camera. Posò i bagagli e, mentre tornavano verso il salotto,
Giulio C. si complimentò. «Architetto, ti sei proprio sistemato
bene! È tutta tua questa valle?» chiese, indicando l’ampiezza
della stanza, per intendere l’estensione della casa.
«Sì, ci vivo da solo, se è questo che intendi» rispose
sbrigativo.
Decisero che avrebbero mangiato qualcosa lì, visto che
ormai era quasi ora di cena.
Mentre Marcello si destreggiava in cucina, Giulio C. fece
una doccia. Prima di entrare nella cabina con idromassaggio, si
soffermò ad osservarsi nello specchio a tre luci, che gli
rimandava un volto al quale da un po’ di tempo non dedicava
alcuna cura. Aveva lasciato crescer barba e baffi e ora, sotto
l’impietosa e forte luce, si stupiva del nuovo aspetto, della
nuova fisionomia che quei peli, alquanto brizzolati, gli
conferivano. Decise che, tutto sommato, non gli dispiaceva il
nuovo look che, però, forse, avrebbe potuto migliorare con un
misurato ridimensionamento della barba.
Meccanicamente, nel preparare in fretta il bagaglio, ci aveva
messo dentro anche il rasoio elettrico, che pure era rimasto a
riposo per parecchio tempo. Ora, però, se voleva rifilare i
contorni di una barba alla spagnola, un rasoio a lama gli
avrebbe fatto più comodo.
Dopo essersi lasciato massaggiare dal getto dell’acqua,
rivestitosi, si presentò in cucina per chiedere all’amico:
«Marcello, non è che per caso hai un rasoio a lama?» Stupito
della domanda inaspettata, si voltò verso Giulio C. e a sua volta
gli chiese: «Che intenzioni hai?»
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«Vorrei solo darmi una sistemata al pelo incolto» rispose
accarezzandosi le guance e il mento.
Rassicurato, Marcello, ritornando ai fornelli, lo informò che
nell’armadietto del bagno avrebbe trovato sicuramente quanto
cercava.
Infatti, aperte le ante, sugli scaffali trovò non solo rasoi e
lame, ma anche creme, dopobarba e un paio di forbici.
Rimase un attimo sorpreso per quell’assortimento, ma
ricordò subito la precisione e l’ospitalità pronta in ogni
momento per cui Marcello era sempre stato famoso.
Era la prima volta in vita sua che si cimentava con un lavoro
del genere ed era curioso di mettersi alla prova come barbiere.
Ci mise un po’, ma, dopo aver riempito il lavabo di una ispida
nuvola grigiastra, dovette riconoscere che il risultato non era
male.
Ripulito il bagno e sentendosi rimesso a nuovo(almeno
esteriormente), riapparve in cucina, mentre Marcello metteva
in tavola una fumante polenta che avrebbero accompagnato con
un sugo di salsiccia ai funghi, che il microonde stava
scongelando.
Colto di sorpresa, si fermò con il tagliere in mano.
«Accidenti! E chi l’avrebbe detto che sotto quella pelliccia
ci fosse un così affascinante personaggio! Se non fossi un
vecchio amico, ti farei la corte!»
«Idiota!» fu la sola parola che venne in mente a Giulio C.,
prima di cacciarsi a ridere. Si accorse, però, che invece
Marcello non rideva affatto.
«Non te la sarai presa, spero! Sentirmi fare una
dichiarazione da te, mi ha messo di buon umore, nonostante
tutto.»
«Ma non è per l’idiota, che forse mi merito…» incominciò
Marcello, ma si interruppe subito.
Colto l’imbarazzo dell’amico, propose «Dai, mettiamoci a
tavola, prima che la polenta diventi un blocco di cemento»
94
«Marcello, scusa, ma c’è forse qualcosa che non so, che
vorresti dirmi…» cercò di stimolarlo.
«Preferirei parlarne dopo cena, adesso ho una gran fame, se
permetti» rispose sedendosi a tavola.
Accompagnarono il saporito cibo con un pinot nero dal
giusto invecchiamento e si sforzarono di mantenere il dialogo
su argomenti quanto mai neutri e leggeri.
«Vieni, passiamo in salotto» invitò il padrone di casa.
«Ti va un sigaro?» chiese mentre apriva una scatola di lacca
cinese, dalla quale si sprigionò un forte aroma di tabacco.
«Grazie, da parecchio ho dimenticato che sapore ha un vero
cubano» accettò Giulio C., rigirando tra le mani il crocchiante
rotolo di tabacco.
Marcello stava già sbuffando nuvole azzurrine che si
dissolvevano attorno al suo viso.
Nell’alzarsi per prendere un posacenere, apostrofò l’amico:
«E allora, eccoci qua» esordì, sedendoglisi di fronte. «A quanto
pare è giunto il momento della confessione»
«Senti, Marcello, guarda che io non ti ho chiesto di
confessarmi proprio nulla, se non vuoi. Un amico resta tale
anche se di lui non conosciamo tutto».
«No, no. Ci conosciamo da una vita ed è solo perché non ci
possiamo vedere spesso, che non sappiamo tutto l’uno
dell’altro. Ma sono proprio contento di quest’occasione, così
inattesa, per poterci parlare senza censure».
«Hai ragione. Ti ricordi quando, poco prima della maturità,
avevamo progettato di riuscire a lavorare insieme, tu come
architetto, cosa che hai sempre desiderato, e io come
consulente artistico? Ma poi, ecco che ognuno incontra da
qualche parte il proprio destino e ci si allontana, pur
mantenendo aperto un legame affettivo e spirituale.»
«E in questi anni» riprese Marcello» non ho incontrato solo
il mio destino, ma ho anche capito veramente come sono, chi
sono e cosa voglio.»
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«Bingo!» esclamò Giulio C.» E ti pare poco?»
«No, no per niente. Infatti ora mi sento veramente bene con
me stesso e con gli altri»
Date un paio di tirate al sigaro, Marcello propose un
goccetto di una grappa speciale, morbida morbida che avevano
distillato personalmente dei suoi amici e che lui aveva
provveduto ad aromatizzare con numerosi rametti della ruta
che coltivava in giardino.
Giulio C. aveva la sensazione che l’amico cercasse tutti i
pretesti possibili per ritardare quanto più poteva la sua
rivelazione.
«Vada per il goccetto. Grazie» accettò, mentre finiva di
gustare il suo sigaro.
Forse fu proprio l’acquavite che fece trovare a Marcello le
parole giuste per cominciare.
«Insomma, Giulio, è inutile che io ci giri intorno. Da alcuni
anni ho scoperto, ho capito di essere omosessuale. Ah! Alla
buon’ora; adesso lo sai» e si scolò d’ un fiato quanto restava
nel bicchierino.
A Giulio C. il sorso di grappa che stava deglutendo andò per
traverso e tossì fino a diventare cianotico, prima di ripristinare
nella trachea il giusto tiraggio dell’aria.
«Non credevo che la mia confessione ti avrebbe fatto un
effetto così esplosivo» commentò l’architetto.
«Scusami, ma è stata una sorpresa troppo…inaspettata» si
giustificò «Capiscimi, ho avuto un attimo di defaillance» e
anche lui scolò l’ultimo goccio di liquore. «Quindi era questo
che ti tenevi dentro?» gli chiese.
«Già…non sapevo come l’avresti presa»
«E come dovrei prenderla? Non sei né il primo né l’ultimo,
anzi, direi che sei in buona compagnia. Quanti artisti, musicisti,
scrittori…» fu il primo commento di Giulio C. «Per non parlare
poi della storia, del mito classico… Lo sai anche tu che per
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greci e romani, l’omosessualità era considerata normale
nell’educazione sentimentale.»
«Sì, ma ora non siamo più in quei tempi e ti assicuro che,
all’inizio, ho avuto qualche problema. Però, ad essere sinceri, il
vero problema e la crisi esistenziale l’ho avuta prima di
rendermi conto della mia vera natura, quando, giovane e
aitante, ero circondato da belle ragazze, verso le quali, ti dirò,
non nutrivo né indifferenza né odio. Anzi! Ho avuto alcune
storie, finite più o meno in breve tempo, con donne splendide e
intelligenti.
Era anche piacevole portarle a letto, il difficile era sentirsi
sempre in sintonia con loro o viceversa, più spesso, cercare da
parte loro una comprensione, una condivisione profonda di
ogni esperienza, di ogni emozione.
Ti ripeto, non erano né delle bonazze stupide, né delle
raffinate vogliose, erano donne…donne assolutamente in
regola con tutto, anche con il quoziente d’intelligenza e dalla
personalità decisa. Ci si poteva parlare di tutto, eppure…»
«Eppure» si inserì Giulio C. «ti mancava qualcosa, non
sentivi pienamente soddisfatto il tuo desiderio di unione,
forse».
«Eh sì, più o meno questo. Mi pareva che loro si
aspettassero da me qualcosa, sempre, qualcosa… Ma anch’io
avrei voluto da loro qualcosa. Ma com’è complicato da
spiegare. Ecco perché si parla del mistero del sesso. Se fossimo
come gli animali, quanto sarebbe più naturale, istintivo e,
quindi, semplice. Invece, no, noi razza umana, abbiamo
sviluppato, evoluto in tante migliaia di anni, un cervello che ci
obbliga a pensarci, a capire,al quale dobbiamo render conto.»
«E adesso, allora, tutto chiarito?» volle sapere Giulio C.
«Sì, ora ho un amico, un ingegnere nucleare, che, spesso,
condivide con me un po’ del suo tempo. Il materiale che hai
trovato in bagno è roba sua» lo informò Marcello. «Quando ci
vediamo, facciamo delle lunghissime, liberatorie chiacchierate.
Con lui non ho bisogno di dimostrare sempre la mia virilità.
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Stiamo benissimo: a volte, amici, a volte, quasi fratelli, a
volte…amanti» finì, schiacciando il sigaro nel posacenere,
prima di riprendere.
«Vedi, quello che non sopporto è che per la gente comune io
non sarei altro che un finocchio, un culattone come quelle
checche tutte smorfie e mossettine, che, magari, nell’intimità,
si travestono anche da donne e diventano delle patetiche
maschere. Io non mi sento così, non vorrei mai essere una
donna, né che lo fosse Andrea» terminò accalorandosi.
«Ho capito benissimo, Marcello, non importa che ti scaldi.
Stai parlando con me, mica con chissà chi» cercò di
tranquillizzarlo.
Buttato un occhio all’orologio, Giulio C. vide che era
passata la mezzanotte, pertanto propose di andare a dormire,
visto che l’indomani doveva no mettersi in viaggio presto.
Quando si ritrovò al buio, però, Giulio C. ripensò al
colloquio avuto con l’amico.
«E chi l’avrebbe mai detto…Marcello» commentò tra sé.
«Però, deve essere stata davvero dura riuscire a capire di essere
così.»
Si rese conto, a quel punto, che esisteva tutto un mondo di
cui non conosceva praticamente nulla: gli omosessuali e,
comunque, anche la recente rivelazione di Marcello non
cambiava affatto l’opinione che aveva dell’amico, al quale
doveva, tra l’altro una infinita gratitudine per averlo aiutato ad
uscire dall’abisso di depressione nel quale si stava lasciando
andare.
Scivolato, per la prima volta dopo tante settimane, in un
sonno veramente ristoratore, al mattino fu svegliato da un
gradevole e morbido aroma di caffè.
Quando fu pronto e uscì dalla camera, trovò Marcello seduto
in cucina, davanti ad una colazione completa: caffè, fette
tostate, formaggi, burro, marmellate e succhi di frutta.
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«Buongiorno! Te la tratti bene, complimenti!» esordì,
mentre gli si sedeva di fronte.
«Buongiorno! Dormito bene?» gli chiese porgendogli una
fumante tazza di caffè americano. «Sì, me la tratto bene,
quando posso, il che capita di rado, purtroppo.»
La giornata si preannunciava fredda ma serena, quando si
misero in viaggio alla volta di Tarquinia.
Avevano davanti tanti chilometri, ma la confidenza e
l’amicizia, che ora più che mai li univa, contribuirono ad
abbreviare il percorso.
Anche quando percorrevano qualche tratto in silenzio,
sapevano di potersi capire, di potersi fidare reciprocamente, di
non essere soli.
Arrivati nei pressi di Bologna, Giulio C. chiese: «Ti dispiace
se facciamo una deviazione ed evitiamo di sfiorare Firenze?»
Non occorse che un secondo a Marcello per capire il motivo
di quella richiesta, per cui propose: «No, di certo no. Possiamo
uscire prima di Prato e prender per Lucca, proseguiamo fino a
Livorno e poi inforchiamo l’Aurelia. Sarà un po’ lenta e
incasinata, ma senza dubbio anche molto più panoramica.
Arrivarono ancora in tempo perché l’avaro sole invernale gli
permettesse di apprezzare il caldo colore del cotto degli antichi
palazzi. La fredda serata che seguì il tramonto non invogliava
certo a stare all’aperto, comunque Marcello accompagnò
volentieri l’amico fino alla piazza su cui si trovava il Museo
archeologico, che il giorno dopo Giulio C. avrebbe passato al
setaccio. Così, infatti, mentre l’architetto era impegnato con
sindaco e assessori vari, lui poté aggirarsi per le sale del
museo. Le numerose vetrine gli offrivano orgogliose i tanti
reperti che per lui non avevano segreti, ma che, pure, ogni volta
che li ammirava, lo sorprendevano con sensazioni e pensieri
sempre nuovi. Di questo si rallegrava con se stesso: di non
avere perso, nei lunghi anni di studio e attività sul campo, la
capacità di osservare e scoprire sempre qualcosa di diverso.
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Osservando le teste dei famosi cavalli, gli pareva di sentirne
il respiro, di poter cogliere la vivacità del loro sguardo.
«E qual è il tuo compito qui?» chiese a Marcello, quando si
ritrovarono per il pranzo.
«Si sta progettando un ampliamento e la ristrutturazione del
Museo, per renderlo più funzionale, moderno e sicuro.» rispose
con una punta di orgoglio.
«Bello!» esclamò con entusiasmo. «E hanno dato a te
l’incarico?»
«Beh! C’è stata, ovviamente una gara d’appalto e il mio
studio si è aggiudicato il lavoro».
«E per quanto riguarda poi la nuova sistemazione dei
reperti?» s’interessò Giulio C:
«Questo, naturalmente, sarà compito del direttore, non so se
d’intesa col soprintendente.
«E chi è il direttore?» si informò
«Il professor Martinelli».
«Giovanni Martinelli? Noo!» esclamò al colmo della
sorpresa.
«Lo conosci?» chiese incuriosito a sua volta Marcello
«Siamo stati in un certo senso compagni di studi
all’università. Non ci siamo frequentati molto, a dire il vero,
ma abbiamo frequentato alcuni seminari insieme.» Spiegò
all’amico, mentre gustavano una porchetta profumata di erbe
selvatiche.
«Già allora si vedeva, comunque, che lui era più interessato
alla politica dell’arte che all’arte vera e propria. Ad ogni modo,
era uno in gamba: aveva le idee chiare e sapeva essere al tempo
stesso anche un abile diplomatico, oltre che un esperto.»
«Se vuoi, domani accompagnami al museo, così ti fai una
rimpatriata con il vecchio compagno.» Gli propose. Giulio C.
non si lasciò sfuggire l’occasione.
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Quando furono introdotti nello studio del direttore da un
giovane dipendente, non fece fatica a riconoscere, nonostante
una vasta calvizie, il suo coetaneo. Era, senza dubbio
ingrassato, forse anche a causa del lavoro prevalentemente
sedentario; tuttavia i lineamenti sottili ma decisi erano rimasti
gli stessi.
Dopo aver salutato il padrone di casa, Marcello stava per
presentargli l’amico che era con lui, ma Giulio C. lo precedette.
«Tra noi non c’è bisogno di presentazioni ufficiali, non è
vero Martinelli?»
Lo sguardo puntuto del direttore si concentrò sul viso di
Giulio C. ma si vedeva che, pur aprendo tutti i cassettini della
memoria, non trovava niente che lo collegasse a quel
personaggio con tanto di barba e baffi abbondantemente
imbiancati.
«Chiedo scusa» si giustificò «ma pur notando qualcosa di
vagamente conosciuto, non riesco ad associarvi un nome o un
luogo.»
«Nemmeno se ti dico Padova, fine anni 60, università,
professor Menabrea…» e stava per proseguire con altri indizi,
quando il dottor Martinelli fu come folgorato: «Erneti!»
esclamò «Già, sei proprio tu! Ma come potevi pretendere da
uno così poco fisionomista come me, che ti riconoscesse dopo
tanti anni,e, soprattutto, sotto quel pelo sul viso?!» cercò di
assolversi per il mancato riconoscimento.
«Anche se ti ho visto di recente in televisione e su alcuni
giornali, ora sei così cambiato! A proposito, complimenti per il
tuo successo letterario. Vai alla grande!» riconobbe con sincera
ammirazione.
«Grazie, detto da te, è un complimento alquanto importante»
rispose.
«Del resto» proseguì Martinelli «c’era da aspettarselo da te
che ti saresti elevato al di sopra di tutto, storia e leggenda, con
la tua immaginazione e creatività. Ricordo ancora, ai seminari
101
di Menabrea, quando, partendo dallo studio di oggetti e fatti
che erano sotto gli occhi tutti, tu riuscivi ad elaborare ipotesi e
dar voce a riflessioni cui nessuno avrebbe mai pensato. Hai
sempre saputo coniugare il rigore dello storico,
dell’archeologo, con la fantasia del narratore».
Lievemente imbarazzato da tali elogi, Giulio C. cercava le
parole più adeguate e sincere per contraccambiare in qualche
modo. Fu lo stesso Martinelli che lo tolse dall’imbarazzo,
rivolgendosi a Marcello: «Architetto, se non le dispiace, vorrei
che discutessimo subito dei lavori, perché tra non molto» e
diede una fugace occhiata al Rolex Cellini che aveva al polso
«dovrei recarmi in campagna, in una nuova zona di scavi».
Quell’ultima parola riaccese una spia che catalizzò
l’attenzione di Giulio C.
«State portando alla luce qualcosa?» si informò ansioso.
«Abbiamo appena sottratto ai tombaroli una sepoltura del V
secolo.» Fu la pronta risposta del direttore. «Anzi, guarda un
po’ che felice circostanza, venite a vedere anche voi. Tu,
Erneti, penso sarai felice di discender nell’oltretomba etrusco,
dopo tanto tempo!»
«Non immagini quanto!» rispose con partecipata emozione.
«Anzi, vi lascio subito alle vostre scartoffie burocratiche, così
poi ci rechiamo sul sito.»
Poco più di un paio di ore dopo, seguivano con la loro l’auto
di Martinelli, che affrontava con disinvoltura le curve di uno
sterrato,che aggirava il colle di Monterozzi.
«Mi pare che ci stiamo allontanando dalla necropoli vera e
propria» commentò Giulio C. proprio mentre si accingevano a
fermarsi in una zona recintata nella quale ferveva una certa
attività.
Scesi dalla macchina, il direttore fece loro strada.
Arrivarono sull’orlo di una vasta fossa, nella quale erano al
lavoro alcuni giovani.
102
«Guarda, Erneti!» lo invitò «siamo arrivati appena in tempo,
qualche settimana fa, per sorprendere due tombaroli che
avevano saggiato la cavità della tomba e si apprestavano a
scavarla e depredarla.»
Muniti di alcune lampade, scesero nell’ipogeo.
L’odore tipico della terra, del tufo e del chiuso che per tanti
secoli avevano custodito il riposo di antiche anime, ridestò in
Giulio C. nostalgici ricordi di gioventù. E riprovò ancora la
sorpresa con cui aveva ammirato le decorazioni di un cratere
attico di V secolo che lui stesso aveva recuperato e pulito. Gli
pareva di vedere ancora le scene dei banchetti di cui quel
magnifico esemplare doveva essere stato protagonista. Data la
raffinatezza delle decorazioni, di una precisione ed eleganza
non comuni, senza dubbio era appartenuto ad una ricca
famiglia, cosa, del resto, testimoniata anche dalla grande
dimensione della tomba e dal ricchissimo corredo funerario.
«Allora, Martinelli», lo apostrofò Giulio C. «con tutto
quello che avete trovato, avrete bisogno di ulteriori
ampliamenti del museo, o no?»
«Assolutamente» confermò il direttore, mentre sostavano
nella prima camera, anche per abituarsi all’oscurità, solo
sciabolata dai fasci di luce delle lampade. «Però, credimi»
proseguì voltandosi verso di lui a sbarrargli il passo «il bello, lo
stupefacente è ancora qui»
«Cosa intendi dire?» lo sollecitò curioso Giulio C.
«Preparati ad una scena sconvolgente» lo mise in guardia,
mentre lo precedeva con la luce per offrirgli una visione
adeguata delle pareti.
Non appena anche Giulio C. fu entrato, si sentì mozzare il
fiato: sulla parete di fronte a lui campeggiava una figura
terrificante, un demone che aveva conservato tutto il vigore e
l’impatto cromatico di un rosso fiammeggiante.
Quasi impossibilitato ad esprimere qualunque impressione,
restò attonito di fronte a quella visione, mentre Marcello, che
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era rimasto sempre un passo dietro a loro, non poté trattenere
un: «Cazzo! Che meraviglia!», poi, resosi conto della sua
eccessività espressiva: «Scusate» ammise «ma non sono cose
che vedo tutti i giorni !»
Istintivamente, Giulio C. si avvicinò al dipinto: gli occhi di
quel demone, ora, sotto l’effetto delle varie luci, parevano
riprendere vita, aggredendo quegli intrusi che osavano
dissacrare, con la loro presenza curiosa e indagatrice, un luogo
che non gli apparteneva.
«Che intorno agli occhi avea di fiamme rote» recitò come in
trance.
«Come dici?» chiese Marcello, scuotendosi dal timore
estatico che lo aveva colto.
«Dante? Come c’entra?» chiese
«Già» gli rispose Giulio C. «Dante, così descrive Caronte, il
traghettatore infernale.»
«Complimenti, Erneti» intervenne pronto Martinelli
«Anch’io ho subito pensato al suo omologo etrusco Charu».
«Mi stupisce la vivacità, la modernità quasi fumettistica di
queste figure» proseguì Giulio C. «Non ha niente a che spartire
con la classicità, diciamo, delle altre tombe della necropoli
vicina. Questo è senza dubbio l’opera di un pittore locale,
espressione di un’arte solamente etrusca, che non guarda certo
alle pitture attiche.»
«Già» confermò Martinelli. «La cosa che più ci ha stupito, è
proprio questa differenza radicale di gusto e di stile.
D’altronde, la tomba è abbastanza lontana dalle altre più
celebri e che si trovano in un’area più raccolta e definita.»
«È la prima con queste caratteristiche in questa zona?» volle
sapere l’archeologo che si sentiva sempre più attratto da quella
scoperta.
«Sì. E questo ci fa sperare e pensare che non sia, però, la
sola e unica, potrebbe esserci una nuova necropoli» rispose il
direttore non celando una orgogliosa speranza.
104
Giulio C. continuava ad illuminare e osservare nei dettagli
quella figura che si stagliava in una posa di feroce aggressività
apotropaica, protendendosi verso una zona in cui dovevano
trovarsi altre figure che, però, sfortunatamente, secolari
infiltrazioni avevano reso quasi illeggibili.
Ai lati di quel demone, invece, risaltavano due enormi
draghi che, arrotolando i loro corpi, creavano ruote di un verde
smeraldino e le cui lunghe creste fiammeggianti contribuivano
a renderli ancora più spaventosi e tremendi.
Mentre Giulio C. e Marcello continuavano ad ammirare
quelle millenarie immagini, Martinelli si mise a parlare con i
suoi collaboratori che avevano, fino a quel momento,
sorvegliato e coordinato i lavori di alcuni scavatori.
Alla fine, riemersi da quella remota profondità, furono
investiti da una folata di vento che, per poco, non li respinse
nell’avello.
Stavano per arrivare ai saluti, quando il direttore li trattenne:
«Che ne direste di pranzare insieme? L’assicuro, architetto, che
Tarquinia non offre solo queste visioni d’oltretomba, ma sa
glorificare anche i palati più esigenti.»
«È vero» intervenne Giulio C. «ricordo che, tanti anni fa, da
queste parti c’era una trattoria, molto alla buona, ma molto ben
frequentata, perché faceva una cucina da far invidia alle più
numerose stelle della guida Michelin.»
«Mi fido di voi, allora!» si rallegrò Marcello
«Se volete seguirmi… non è lontano. Però, dopo, ci
andiamo a prendere il caffè a casa mia. Sono curioso di vedere
l’effetto che farà a mia moglie, vedermi arrivare con un amico
di vecchia data e così famoso,che ancora non le avevo
presentato» li informò, accingendosi a telefonare a casa.
Il pranzo fu davvero memorabile: i piatti, a base di funghi e
tartufi, li riempirono di sapori forti, intensi come le emozioni
provate al mattino nella tomba.
105
Erano passate le tre, quando, al seguito della berlina del
direttore, si fermarono davanti a un cancello che il telecomando
di Martinelli fece schiudere, rivelando una prospettiva che ben
poteva figurare sulle pagine di riviste specializzate. La casa era
stata, nei secoli passati, un casale che, sapienti mani di
restauratori avevano ristrutturato, senza tuttavia alterarne lo
spirito.
I mattoni erano stati ripuliti e il colore del cotto si sposava
gradevolmente con le severe punte verde scuro di un doppio
filare di cipressi. La costruzione era stata ingentilita, nel corso
del tempo, dall’aggiunta di una torretta che affiancava il corpo
della casa, raccordando visi con un loggiato dalle proporzioni
perfette.
Tra le colonne che lo sostenevano erano stati sistemati degli
enormi orci di Montelupo, che solo il rigore invernale aveva
privato del colore di piante fiorite.
Un paio di anfore, che, sicuramente, avevano viaggiato nella
stiva di qualche nave oneraria, era ancorato ai lati della grande
porta a vetri, al di là delle ante in legno del colore dei cipressi.
Mentre il padrone di casa stava per aprirla, la porta fu
spalancata dalla mano decisa della moglie, che li accolse
sorridendo.
«Cara, permetti che ti presenti…» esordì Martinelli, subito
interrotto dalla vivace esclamazione della signora:
«Ma che piacere, professor Erneti, fare la sua conoscenza!»
Mentre l’archeologo, ricambiandone il sorriso, porgeva la
mano alla padrona di casa, Martinelli li guardò stupito e con
un’aria così esplicitamente interrogativa, che la moglie fu
obbligata a spiegargli: «Ma, Giovanni, come puoi pensare che
una appassionata lettrice di romanzi storici come me, non
conosca uno dei nostri più brillanti scrittori e non solo…Prego,
accomodatevi» li invitò, precedendoli nell’ampio salone che
attirò subito l’attenzione professionale di Marcello. «Il nostro
architetto sta bene?» lo accolse con aria compita e un po’ più
formale.
106
«Non avrei mai immaginato che tu conoscessi l’autore di
libri che mi hanno tanto appassionata» confessò al marito,
mentre si accomodavano sui soffici cuscini di poltrone dal
design sicuramente di grande firma.
«Anzi!» rispose lui con una punta di orgoglio «Pensa che
siamo stati compagni all’università. Però io, questa mattina, ho
fatto una figura meschina, quando non l’ho riconosciuto al
primo sguardo!» confessò.
Come in risposta ad un tacito richiamo, comparve una
giovane domestica con un vassoio recante il caffè.
Giulio C. si alzò, per ricevere dalle mani della signora la sua
tazza e, nel farlo, sentì le dita di lei sfiorargli la mano, con un
gesto tutt’altro che casuale.
«Come dev’essere esaltante riuscire a creare personaggi così
realistici e complessi! Ho notato, mi corregga se sbaglio, che
nella descrizione delle figure femminili, lei dimostra una
partecipazione emotiva così…così coinvolgente che sembra
quasi stia parlando di donne realmente conosciute e amate» lo
interrogò, sedendogli accanto. «Non sarà gelosa la sua
signora?» chiese poi con aria scopertamente maliziosa.
A quelle parole, Marcello si sentì turbato per l’amico, al
quale venne prontamente in soccorso: «Si sa che agli artisti e ai
geni è lecito tutto.»
«Beh! Diciamo che tra me e mia moglie, ora c’è la più
completa autonomia» confermò l’interpellato.
Proprio in quel momento, al direttore venne in mente
qualche precisazione sui lavori da chiedere all’architetto, la
qual cosa, per un momento distolse l’attenzione di tutti da
Giulio C.
E proprio per continuare a sviare il discorso, Marcello si
complimentò poi con la padrona di casa per il buon gusto con
cui aveva saputo arredare quegli spazi così impegnativi.
E mentre la signora Augusta rispondeva con malcelato
orgoglio, spiegando che, in realtà, per arrivare ad un simile
107
risultato, aveva dovuto faticare alquanto, perché le pareva che
niente la soddisfacesse, Giulio C., pur scambiando qualche
ricordo del periodo degli studi e fingendo di interessarsi alla
carriera del direttore, in realtà rifletteva e osservava
l’atteggiamento affettato della moglie.
L’abito verde scuro era stato certo scelto apposta per
valorizzare il rosso tiziano dei capelli che non dovevano aver
lasciato da molto tempo le mani del parrucchiere. Le morbide
onde che incorniciavano il viso danzavano compici di ogni pur
lieve movimento del capo.
Il trucco leggero e sfumato, non aveva una sbavatura. Al
gesticolare delle mani, corrispondevano gli sprazzi iridescenti
delle gemme dei diversi anelli che ornavano le dita lunghe e
affusolate, dalle unghie perfettamente laccate.
«Comunque, alla lontananza fisica non si è accompagnata
quella intellettuale. Non è così, professor Erneti?» si sentì
sollecitato a rispondere, dopo una parentesi di assenza.
«Sì, anche se per strade diverse, siamo entrambi legati al
passato, anzi, facciamo del passato il nostro presente» rispose
ancora un po’ svanito.
«È davvero un bel modo di definire le vostre professioni.»
Lo complimentò. Mentre Augusta gli posava una mano sul
braccio, Giulio C. poté sentire il calore che la stretta di lei gli
comunicava.
«Qualcuno gradisce una sigaretta?» chiese, allungandosi per
aprire una scatola di tartaruga sul tavolino.
«Grazie» rispose, accettando, turbato dal contatto,
sicuramente voluto delle gambe di lei contro le sue.
Mentre le nuvole di fumo si disperdevano intorno a lui,
cominciò a sentirsi a disagio, soprattutto quando si accorse
degli sguardi d’intesa che passavano tra marito e moglie.
Non appena anche il direttore e Marcello ebbero spento le
loro sigarette, adducendo la giustificazione dell’ora ormai
108
serotina, fece capire all’amico che era il caso di togliere le
tende.
Mentre Marcello e Martinelli si accordavano per un
prossimo incontro, Augusta scomparve un momento, per
tornare, poco dopo, con un libro: era “Nella terra degli Dei”.
«Mi scusi, professore» lo bloccò quasi sulla porta,
prendendogli la mano «non posso certo farla andar via senza
che mi abbia lasciato almeno la sua firma sul suo ultimo
lavoro» gli disse, porgendogli il volume e una penna.
«Con piacere» accettò Giulio C., che non vedeva l’ora di
allontanarsi da quella casa. Scrisse velocemente “Ad una
Augusta signora” e siglò con uno svolazzo la prima pagina
della sua opera.
Quando i due amici si ritrovarono, finalmente, soli in auto, a
Marcello non sfuggì il suo respiro quasi di sollievo.
«Cominciavo a sentirmi assediato» gli confessò
«Hai fatto proprio colpo, Giulio. Complimenti!» commentò
l’amico con sarcasmo.
«Per favore, non mi prendere per il culo» rispose, senza
rendersi conto dell’involontaria e inappropriata allusione della
battuta.
«Non posso dire che gli approcci della madama non abbiano
gratificato la mia virilità, ma nello stesso tempo mi infastidiva
sentirmi come una preda braccata. E poi, dai, sotto gli occhi del
marito!» sbottò Giulio C. «Guarda qui, cosa mi ha lasciato» e
mostrò un foglietto di carta con un numero, evidentemente di
cellulare.
«Ma allora, è una cosa che avrà un seguito!» tentò di
profetizzare, mentre metteva in moto.
«Ma stai scherzando, vero?» lo rimbeccò immediatamente
«D’accordo che Martinelli non sia uno dei miei più intimi
amici, ma una tresca con la moglie è l’ultima cosa che mi
verrebbe in mente.
109
Tu sai che non sono mai stato uno che si butta sulle donne,
ma neanche essere così scopertamente concupito…»
«E già» rifletté a voce alta Marcello» tu non conosci la
signora Augusta Ferranti Pozza»
«Ferranti Pozza?» chiese incuriosito «Quel Ferranti Pozza?»
«Certo, proprio il banchiere che negli anni 70 passava per
uno dei personaggi in vista nel mondo della finanza e della
politica, visto gli agganci su cui poteva contare, logicamente
ricambiato.
«Ah!» esclamò colpito Giulio C. «Si è attaccato in alto, il
nostro direttore!»
«Beh! Ci ha provato. Perché quando ha adocchiato la
fanciulla, il periodo d’oro era ormai alla fine. Poco dopo le
nozze, infatti, ci fu una serie di casini, non mai troppo chiariti,
per cui il banchiere dovette cercare di starsene alquanto
defilato e rischiò anche la galera.
Ad ogni modo, il tuo amico si ritrovò, non si sa bene come,
dall’oggi al domani, direttore del museo.»
«Vuoi dire, allora, che il matrimonio sia stato più un affare
di interesse?»
«Certamente è stato un bel colpo per entrambi. La signora
era allora una signorina alquanto chiacchierata, come si diceva,
e, nell’ambiente, nonostante tutto, molti se la spassavano per
un po’ con il bel bocconcino, ma non ne avrebbero voluto fare
indigestione. Quando comparve Martinelli, tipo prestante e che
in società sapeva starci, al vecchio Ferranti Pozza non parve
vero poter accasare la figlia con una persona “pulita”, se
capisci cosa intendo….»
«Certo, certo» rispose pronto Giulio C. «Quindi, in pratica,
fu un sodalizio quello che sottoscrissero: a lui un suocero così
faceva molto comodo, e a lei serviva un marito da esibire con
orgoglio.»
110
«Però, scusa» chiese Giulio C. «non mi pare che la carriera
di Martinelli sia stata poi così esaltante. In fin dei conti è
direttore di un museo di una cittadina di provincia.»
«Apparentemente, ma è solo la facciata. Dietro ci sono
contatti politici, appalti e sovvenzioni per il suo museo. Diamo
anche onore al merito, il direttore si dà un gran daffare non
solo per il suo prestigio personale. In tutto ciò, ne trae un
beneficio anche l’istituzione e, di conseguenza il paese.
Tutto sommato, Martinelli ha una qualche ambizione, ma
vuole anche avere il tempo di godersi quello che ha. Non hai
visto che casa? Forse più ambiziosa sarebbe la moglie, che lo
sprona continuamente a darsi da fare.»
«Per questo del da fare mi sembra se ne dia molto anche lei»
sottolineò Giulio C.
«Nonostante la tua sorpresa, si dice che la signora abbia
preteso carta bianca, per quanto riguarda la sua vita privata e
lui sa che se, a volte, lei si prende qualche… “vacanza”, anche
questo fa parte del gioco. Sembra, anzi, che tutto ciò vivacizzi
il loro menage».
«E tu, come fai a sapere tutti questi pettegolezzi?» chiese,
notevolmente incuriosito all’amico, che stava parcheggiando
nel cortile dell’albergo.
«È un po’ che frequento la zona di Tarquinia, per motivi di
lavoro e c’è sempre chi ama diffondere le notizie un po’
piccanti che riguardano i concittadini più in vista.
Il giorno dopo,andarono a curiosare tra le strette viuzze del
quartiere medievale di Viterbo. In quel periodo dell’anno i
turisti non erano certo molti e così i due amici poterono
tranquillamente soffermarsi, vento permettendo, per alzare lo
sguardo sulle torri, le bifore e gli archi che ornavano i
duecenteschi palazzi.
E dalla vita quasi sospesa, appartata in un angolo di
superstite medioevo, si catapultarono sul dinamico nastro
dell’autostrada per tornare.
111
«E ora, cosa farai?» chiese Marcello
«Cosa vuoi che faccia?» rispose quasi con rassegnazione
«Riprenderò l’università e cercherò di mettere a fuoco qualche
argomento su cui scrivere un libro».
«Anzi» proseguì, dopo una breve pausa «mi piacerebbe
cominciare a lavorare al progetto che ti accennavo, per cui
verrò a chiederti le chiavi del tuo paradiso privato.»
«Quando vorrai.
«E niente di più attivo?» insistette l’amico.
«Attivo, come?»
«Ho visto con che avidità guardavi le immagini della tomba
di Tarquinia. Sei sicuro che non ti piacerebbe andare alla
scoperta di qualcosa?»
«Riprendere a scavare?» chiese, contemporaneamente a se
stesso e a Marcello. «Perché no?» riconobbe «ma vorrei
qualcosa di completamente nuovo, vorrei uscire dalle nostre
grandi civiltà. Mah! Vedremo» concluse poi, voltandosi per
seguire dal finestrino le immagini di alcune colline che
sfumavano nell’orizzonte al tramonto.
112
OLIMPIA
PASSATO REMOTO
Quando nell’agosto del mitico 1968, proprio durante la
cerimonia di apertura dei giochi olimpici del Messico, Caterina
avvertì le prime doglie, Daniel, che stava seguendo lo
spettacolo in TV, si precipitò al telefono e avvisò tutti.
Il parto andò a meraviglia e si svolse in velocità. Quando
Caterina rientrò in camera con un piccolo fagotto tra le braccia,
si trovò di fronte i quattro neo nonni festanti.
«E come si chiamerà questa meraviglia?» chiesero
litigandosi la neonata.
A dire il vero, chissà perché, i genitori non avevano pensato
all’eventualità che fosse femmina, ma si erano sempre detti
sicuri che sarebbe stato un bel, robusto maschietto. Così ora
dovevano archiviare i vari Ariel, Emanuele e Davide per
cercare qualcosa di femminile.
Ne discussero in privato, provando e riprovando vari
abbinamenti con il cognome, finché Daniel non propose:
«Visto che ha deciso di nascere proprio all’apertura dei giochi
olimpici, perché non la chiamiamo Olimpia?»
Caterina restò un attimo perplessa, poi decise che le piaceva
e così entrò a far parte dell’umanità Olimpia Alessandri.
La sua infanzia volò via senza eccessi, né in positivo né in
negativo.
I primi anni di scuola materna furono contrassegnati da
frequenti malattie che la costringevano a lunghe, solitarie ore in
113
casa, alternando televisione e giochi con carta e pennarelli, coi
quali le piaceva creare abiti e disegni.
La scuola non costituì un problema: aveva una mente agile e
ricettiva, una certa pazienza nell’applicazione, pertanto i
risultati conseguiti erano sempre decisamente positivi.
Quello che la faceva veramente incazzare erano i commenti
delle compagne di fronte ai suoi successi scolastici: «Capirai
che sforzo andare bene, con il padre insegnante…»
Loro non potevano sapere, ovviamente, che invece tutto era
solo ed esclusivamente merito suo, visto che il padre, il
pomeriggio, aveva ben altro da fare che seguirla nei compiti.
Tra le ore di palestra e quelle passate al circolo con gli amici,
in famiglia non ci stava molto di sicuro.
Non poteva proprio dire come e quando, fatto sta che, ad un
certo punto, in casa si accorsero che aveva bisogno di stare con
qualcuno che la seguisse, che si mettesse al suo livello e
giocasse con lei. Chi poteva avere tempo per questa attività se
non i nonni?
E così, infatti, iniziò una abitudine che durò anni e che, nella
sua memoria, restò sempre legata a sensazioni piacevoli, calde
come il tè che la nonna paterna le preparava, o dolci come gli
zabaglioni della nonna materna, sempre preoccupata che non
fosse abbastanza robusta.
Certo che il fascino della soffitta dei nonni Alessandri
restava unico e magico. Spesso si faceva accompagnare dal
compiacente nonno e passava ore a rovistare tra vecchie
cianfrusaglie o si azzardava a sporgere la testa fuori
dall’abbaino, che le permetteva di spaziare su una distesa di
tetti che solleticavano le nuvole con le loro antenne.
Altrettanto unici erano i pomeriggi in cui il nonno paterno la
portava con lui in sinagoga per qualche festività, di cui lei non
sapeva né capiva il significato, ma che, forse, proprio per
questo e per la allettante affascinazione melodica della lingua
ebraica, la avvincevano.
114
D’estate, invece, le vacanze scolastiche comuni, la
avvicinavano particolarmente al padre e con lui andava al
mare, dove le piaceva vederlo nuotare a forza di bracciate
vigorose che lei cercava di imitare. Forse era anche per questo
che si sentiva più affine al genitore, come carattere, piuttosto
che alla madre, sempre presa dai suoi rientri pomeridiani e
costantemente interessata a tenere d’occhio la figlia, con
domande che ad Olimpia sembravano degne di un
interrogatorio di terzo grado.
«Tra mamma e figlia ci deve essere solidarietà, complicità.
Se hai qualcosa che ti preoccupa, con chi vuoi parlarne se non
con la mamma?» la sollecitava.
Ma ad Olimpia quel dialogo non veniva spontaneo e, forse
anche perché di preoccupazioni vere e proprie non ne aveva,
non riusciva ad aprirsi. Come faceva a farle capire che certe
cose non si possono improvvisare e non si possono imporre?
Troppo era il tempo che aveva trascorso desiderando la sua
presenza, invidiando le compagne di classe e le amiche le cui
madri erano casalinghe o impegnate in lavoro part time,
sentendosi come un alieno, tenuta quasi sotto chiave per
evitarle cattive frequentazioni, che poi altro non erano che
coetanei un po’ vivaci e lasciati forse a differenza di lei, molto
più a briglia sciolta.
Quando, poi, era giunto il momento di scegliere la scuola
superiore, Caterina non avrebbe avuto dubbi: «A scuola sei
sempre andata bene, soprattutto nelle materie umanistiche, cosa
vuoi fare se non il classico? Lì, inoltre, c’è il papà, che può
sempre essere una presenza utile. Senza contare, poi, che al
classico ci vanno i migliori, sicuramente c’è una utenza
qualificata. Ci trovi i figli delle famiglie più ….delle famiglie
migliori».
Un po’ per non sentirsi guardata a vista dal padre e un po’
per ripicca verso la madre, lei scelse invece l’istituto
magistrale, motivando la sua scelta: «In fin dei conti, mi dà le
stesse possibilità del liceo; dopo posso sempre fare
115
l’università». Per fortuna, il padre, più fine psicologo, aveva
suggerito alla moglie di lasciarla decidere come voleva, visto
che si trattava del suo futuro.
Olimpia non ci aveva messo molto a capire che, per la
madre, “migliori famiglie” voleva dire più ricche. Della quasi
maniacale fissazione della madre per il denaro, si era già da
tempo accorta, fin da quando aveva dovuto accettare, nelle sue
scelte, sempre tutto ciò che costava meno. Non che lei si
sentisse attratta dalle griffe, ma, quando qualche accessorio
spopolava tra le compagne, lei aveva sempre dovuto aspettare
per averlo che stesse passando di moda, quindi costasse meno.
«Abbiamo il mutuo da pagare, non possiamo esagerare con
le spese», le spiegava, sperando di essere convincente.
Caterina e Daniel erano, comunque, felici e soddisfatti della
figlia, che, crescendo, aveva assunto un aspetto decisamente
piacevole. Troppo magra da bebè, era cresciuta alta e dritta,
ereditando dal padre, oltre al fisico slanciato, anche il colore
degli occhi, di un verde intenso e cangiante. Per non deludere
la madre, però, da lei aveva preso il biondo dei capelli, per cui
l’insieme si armonizzava gradevolmente.
Gambe lunghe, vita snella, qualche centimetro in meno nella
circonferenza del busto, era compensata da una parte bassa
rotonda e ben modellata, sulla quale i pantaloni si stendevano
con grande facilità ed efficacia estetica.
Dovette arrivare fino ai sedici anni, tuttavia, per incontrare il
vero, speciale amore, anche se quasi puramente spirituale.
Aveva vissuto con esaltante intensità e totale abbandono un
legame che avrebbe segnato la sua vita sentimentale.
Il ragazzo, più maturo di otto anni, era stato dolcissimo e la
sua cultura, la sua esperienza di “grande” l’avevano rapita.
Si erano conosciuti in montagna, durante una settimana
bianca con la famiglia. Una sera, in attesa della cena, stava
giocando a carte con alcune ragazzine, quando si era avvicinato
116
Filippo, un biondo altoatesino, che aveva chiesto di imparare il
loro gioco.
Qualche eloquente sguardo, le prime domande per
presentarsi e conoscersi. Così era cominciata. Era stata una
vicenda inaspettata ed emozionante per una come lei, cresciuta
in una famiglia, nonostante tutto, stranamente abbastanza
sessuofobica.
Era arrivata all’adolescenza con un bagaglio di ingenuità
anacronistico. La presenza indagatrice soprattutto della madre
quando la vedeva rientrare da un cinema, da una festa o altro,
le pesava come una penitenza. Aveva imparato ad essere il più
esauriente possibile nel minor tempo, per essere poi libera di
ritirarsi nella sua camera a ricordare un complimento, uno
sguardo.
Il carattere mite e l’essere figlia unica le avevano reso facile
lo stare spesso da sola. La scuola la impegnava abbastanza e
non si sentiva attratta dalle numerose compagne che uscivano
sempre, pomeriggio e sera, con amiche e amici vari. Le
sigarette che circolavano abbondantemente non la sollecitavano
ad assumere pose contestatrici. Il trucco quotidiano era
semplice e sobrio, tanto che qualche compagna la sbeffeggiava
chiedendole: «Ma da dove vieni, da un convento di clausura?».
Quando, durante l’intervallo, si confidavano le esperienze, i
problemi, le sembrava che le altre ragazze venissero da Marte:
in famiglia nessuno si preoccupava di loro, di sapere dove
andavano e cosa facevano; parecchie avevano regolarmente
rapporti con ragazzi spesso più grandi e che avevano più volte
sostituito. Così Olimpia si era ritrovata a frequentare l’altro
gruppo di coetanee che, come lei, avevano alle spalle famiglie
onnipresenti che, nonostante si fosse già negli anni 80,
pensavano di impostare il dialogo con i figli in modo
presessantottino.
Così, in fondo, si sentiva una sedicenne come tante altre; gli
unici interessi erano qualche CD dei cantanti del momento, in
particolare Boy George e i Culture Club, qualche film di
117
particolare richiamo, cercare di avvicinarsi alla moda
occhieggiata nelle vetrine, pur dovendo scegliere capi di
abbigliamento sempre sobri ed assai poco originali.
Poco prima della partenza per la montagna, quell’anno
aveva iniziato timidamente una storia con un coetaneo della
compagnia che, durante l’ultimo raduno le aveva comunicato la
sua simpatia e un paio di volte si erano trovati, uscendo dalla
scuola.
Quell’interruzione per la vacanza invernale l’aveva un po’
seccata, perché temeva che la scintilla appena scoccata, con la
lontananza, potesse spegnersi.
Poi, ecco comparire Filippo, anche lui in vacanza, studente
all’ultimo anno di Giurisprudenza, all’università di Padova.
Dopo quella prima avance durante la partita a carte, le era
successo ancora di trovarsi a tu per tu con lui e aveva visto i
suoi occhi che parevano accarezzarla. Durante una serata di
danze, giochi e allegria, aveva ballato spesso con lui e, durante
i balli di coppia, il sentire le sue braccia attorno alla vita, le
comunicava vibrazioni nuove ed intense.
La sera prima della partenza, uscì per andare a ritirare le
foto dal fotografo e Filippo le si affiancò.
La sera era fredda e serena, la neve amplificava la luce della
luna. Arrivati sotto il campanile della chiesa, si fermarono con
il naso all’aria per ammirare la bella cupola che lo copriva con
la sua tipica cipolla. Così si ritrovarono con i nasi tanto vicini
da far confondere le nuvole dei loro respiri. Fu questione di un
attimo e le loro bocche si unirono in un bacio da manuale.
«Amore, piccolo amore» le sussurrò, stringendola dolcemente.
Le parole, l’abbraccio, il sapore di quei baci le riempirono il
cuore di un’emozione infinita.
Il rientro a casa, il ritrovare le solite cose, il ritorno sui
banchi di scuola. Tutto le sembrò distante, distaccato da lei,
che era rimasta ancora abbracciata a Filippo, sotto il campanile
di montagna.
118
Certo che il suo stato d’animo doveva proprio essere
evidente, per chi aveva buoni occhi. Infatti, la sua compagna di
banco le chiese subito della vacanza e Olimpia, che non
aspettava altro, le raccontò tutto. Quando,poi, durante l’ora di
italiano, lessero il canto dell’Inferno, in cui Francesca
rammenta a Dante: “Nessun maggior dolore che ricordarsi del
tempo felice nella miseria…”, Olimpia non poté trattenersi e
chiese di uscire per liberare quel nodo che le strozzava la gola.
Qualche giorno dopo, se ne stava in camera sua ad ascoltare
Boy George che chiedeva “Do you really want to hurt me?”,
quando squillò il telefono. Appena percepì le prime sillabe di
un «Ciao, tesoro. Come stai?» che si facevano largo tra uno
stridio di freni e un altoparlante che annunciava l’arrivo di un
treno, si sentì cogliere dalla vertigine: Filippo!
Era stato a Padova per una lezione e non aveva resistito:
saperla così vicina, gli aveva fatto prendere il treno che andava
nella direzione opposta alla sua abituale. Dieci minuti dopo
sapeva cosa voleva dire essere al settimo cielo. Filippo le aveva
portato alcune foto della montagna e le commentavano mentre
il vento freddo della sera non riusciva a raffreddare i loro
spiriti.
Purtroppo, il tempo fu un battito del cuore e, così come era
arrivato, Filippo la salutò con un sussurro: «Ci vediamo la
prossima domenica».
Le sue visite si susseguirono e ogni volta per Olimpia era
come crescere, come scoprire nuovi universi. Passeggiavano,
visitavano musei e chiese e lui le parlava di progetti, di musica,
di libri. Prese l’abitudine di portarle ogni volta qualche volume
della sua ricca biblioteca. Fu così che lei incontrò la grande
letteratura. Divorò i classici russi, “Guerra e pace” compreso,
in un amen. Conobbe gli autori contemporanei, Calvino, Eco,
Bassani, Marquez. Spesso le regalava della musica: Bach,
Beethoven, Stravinsky. Si domandava come avesse fatto a
vivere fino ad allora, senza conoscere un mondo così magico,
119
capace di suscitare in lei emozioni, sentimenti, fantasie uniche
e nuove.
Certo, quando poi ne parlavano insieme, si rendeva conto
che quello che lei ne capiva era solo una briciola a confronto
del più ampio panorama che Filippo possedeva e quasi si
vergognava nel rivelargli le sue timide impressioni.
I mesi passarono così alla velocità della felicità. Quando a
settembre l’estate stava ormai addormentandosi nell’abbraccio
dell’autunno, lui le aveva proposto di ufficializzare la loro
storia, organizzando una vacanza con i genitori di Olimpia, che
così avrebbero finalmente saputo chi era il responsabile della
sua aria sempre sognante e chi fosse il mittente delle tante
lettere che riceveva.
Nelle successive settimane, tuttavia, Filippo aveva quasi
lasciato cadere l’argomento. Olimpia stava per sollecitare un
chiarimento, ma fu anticipata da una sua lettera che le diede
molto da pensare. Con assoluta noncuranza, lui le raccontava di
aver partecipato ad una simpatica festa tra amici, alla quale per
la verità era stato quasi trascinato a forza. Visto che per una
serie di motivi, la progettata vacanza era abortita ancor prima
di essere ufficializzata, Olimpia si aspettava di sentire in
Filippo un certo rimpianto, almeno un’eco della malinconia che
lei stessa provava. Invece, nelle lettere successive non avvertì
nulla di tutto ciò, anzi le sembrarono farsi di volta in volta più
distratte e di circostanza. Gli telefonò, per sentire il tono della
sua voce: le fu chiaro un malcelato sforzo di una normalità che
non c’era.
Qualche giorno dopo, ricevette posta e, pur provando un
vago senso di inquietudine nell’aprirla, non si aspettava quello
che trovò: era l’addio. Lesse la lettera una prima volta di
volata, come se cercasse, nella chiusura, un ripensamento.
Invece, più la rileggeva e più si sentiva profondamente colpita.
Ma davvero un amore così assoluto, unico, poteva finire così,
con le poche parole che una lettera, apparentemente come le
altre, le aveva portato? Oh! Non c’era che dire, Filippo aveva
120
saputo essere generoso, riconoscendole un grande valore. Le
chiedeva scusa perché era sicuro che una ragazza come lei,
dolce, sensibile, innocente, non la avrebbe mai più incontrata.
La ringraziava per tutto quello che lei aveva saputo dargli, per
averlo reso partecipe della sua crescita sentimentale e culturale.
Se tutto ora finiva, non era certo per colpa sua, ma era lui che si
era accorto di non potere più continuare a desiderare a distanza
l’amore. Le confessava che, quando a quella famosa festa,
aveva conosciuto Ornella e si era sentito attratto fisicamente da
lei, si era sentito in colpa nei suoi confronti. Non che da questa
conoscenza potesse nascere chissà che, in quanto la ragazza era
fidanzata e prossima al matrimonio, ma per lui, il solo pensiero
avuto, la fantasia di un momento intimo con lei, gli era parso
così insultante nei suoi confronti, che ora non si sentiva più
degno del suo amore così elevato.
Quante parole inutili, per assolversi da un omicidio
spirituale, pensò Olimpia, mentre un velo di lacrime le rendeva
illeggibili le parole.
Ovviamente, in casa, il suo mutamento di umore non passò
inosservato e fu costretta ad accennare per sommi capi alla
vicenda. Si rese presto conto che l’unica cosa che veramente
interessava ai suoi era che lei fosse rimasta la bambina che era
a gennaio.
Naturalmente non aveva né la voglia né la confidenza per
urlare che, forse, se si fosse di mostrata più disponibile, ora non
sarebbe stata annientata dal fulmine di quella lettera.
Una ventina di giorni dopo, trovò la forza di prendere in
mano la penna e di rispondere a quell’addio con un’unica
osservazione: «Vigliacco! Non hai nemmeno avuto il coraggio
di salutarmi guardandomi in faccia. Certe cose non si possono
scrivere.»
Però, se ci ripensava, quando, a volte, Filippo aveva cercato
in lei qualcosa di più di un bacio, la sua resistenza non era stata
provocata dalla paura del giudizio dei genitori, ma era lei stessa
a non essere veramente pronta per un rapporto fisico più
121
profondo. Quindi non poteva rimproverarsi nulla. Ben magra
consolazione, però! Restava il fatto che ora, all’avvicinarsi
dell’inverno, le sue giornate si facevano sempre più buie e
inutili. Se si rifugiava tra le pagine di un libro o tra le note di
Debussy o Chopin, non poteva non associarli a qualche
momento vissuto con Filippo e questo non faceva che
prosciugarle sempre più il cuore.
Esternamente sembrava che il suo stile di vita non fosse
cambiato: a scuola era sempre l’alunna diligente e motivata;
con il gruppo di amici, che riprese a frequentare con maggior
assiduità, aveva sempre il suo ruolo di compagna dolce e
affidabile. In famiglia era, come sempre, piuttosto riservata,
solo che ora, le cose che taceva erano molte di più e molto più
intime.
Quelli che per molte ragazze sono gli anni già di per sé
difficili dell’adolescenza, per lei furono addirittura un macigno.
Il suo modo di vedere le cose, la sua capacità di giudizio non
potevano prescindere dalla sua esperienza di amore deluso.
Anni di crisi? Sì, certo. Dal baratro in cui era precipitata non
aveva voglia di risalire, all’inizio. I primi tempi cercò quasi di
custodire dentro di sé quell’assenza, perché almeno quel vuoto
riempisse i suoi giorni. Poi, a forza di sentirsi ripetere,
dall’amica del cuore, che il tempo era suo alleato e tutte le
ferite, prima o poi, si rimarginano, aveva finito col crederlo
anche lei, anche se, da parte sua, non faceva molti sforzi per
dare una mano al grande medico.
Quegli ultimi anni di scuola li visse come dentro una nebbia,
un fumo così denso che le impediva di scorgere anche quei
cenni di simpatia e di invito che, a volte, qualche amico tentava
nei suoi confronti.
Quando, finalmente, superato l’esame di maturità, ebbe
davanti a sé tutta un’estate in cui decidere del suo destino,
scegliendo una facoltà universitaria, decise che doveva
considerare chiusa una fase della sua vita. E se doveva,
com’era giusto, dare un taglio al passato, accettando come
122
esperienza, amara, ma pur sempre esperienza di vita, ciò che le
era accaduto, pensò che doveva scegliere un ateneo lontano da
casa, che le fornisse l’alibi per restare via tutta la settimana.
Certo, non sarebbe stato facile convincere i genitori che,
nonostante anche a Ferrara ci fosse un’ampia gamma di facoltà,
era più qualificante e prestigioso rivolgersi ad istituzioni che
potevano contare su una storia e una tradizione umanistica
plurisecolari, dove poter incontrare docenti di chiara fama,
conosciuti e apprezzati anche al di fuori dell’ambiente
universitario.
Facendo leva anche sull’aspirazione materna che l’aveva
sempre spronata a cercare di mettersi in luce, di frequentare
ambienti “su”, ricordando tutte le volte che era stata invitata ad
avvicinare gente di un “certo tono”, riuscì ad essere quanto mai
convincente.
A suo favore giocò anche il fatto che il famoso, famigerato
mutuo per la casa con cui sempre aveva dovuto fare i conti,
finalmente stava per scadere.
Un gruppo di amiche le comunicò che si sarebbe iscritto a
Cà Foscari, a Venezia. Ancora incerta tra l’iscrizione a Lettere
e quella a Lingue, decise che per i primi tempi avrebbe potuto
seguire gli esami comuni alle due facoltà, riservandosi la
decisione definitiva ad un secondo momento, senza contare che
l’ateneo veneziano le forniva l’alibi migliore per la sua fuga da
Ferrara.
Di fronte ad esigenze di studio, la famiglia non poté
obiettare nulla e un giorno la madre la accompagnò a cercare
un alloggio.
I primi luoghi visitati furono, logicamente, collegi tenuti da
religiose. In quel cupo pomeriggio di fine ottobre, entrarono in
corridoi lunghi e immobili con le loro statue di santi e madonne
costrette a subire l’odore della cera per pavimenti mescolata a
quello delle candele che ardevano perennemente accanto ad
immancabili vasi di fiori sempre freschi.
123
Seguendo le severe gonne di suore, ora giovani, ora
attempate, Olimpia e la madre videro camerate, camerette,
stanze che, per quanto differenti, erano sempre uguali: una
forma attenuata di una cella carceraria, solo vagamente
ingentilita da tende inamidate.
Quello che ogni brava sorella teneva a precisare era che
l’istituto osservava un preciso regolamento che non ammetteva
deroghe: era gradita una sveglia abbastanza mattiniera che
prevedesse, magari, anche la partecipazione alla Messa. La
sera, poi, l’orario di rientro era fissato per le dieci.
Olimpia cominciava già a temere di dover finire col pentirsi
della scelta fatta e decidere, come le amiche, di fare la
pendolare.
Fortunatamente, però, la richiesta di rette, quanto mai
onerose, spinse la madre verso altre direzioni. Si passò allora a
considerare le numerose pensioni e piccoli alberghi vicini
all’università. Dopo qualche altro tentativo infruttuoso,
trovarono finalmente quello che cercavano.
Le camere della pensione erano doppie, ma non c’era
problema, perché i proprietari avevano già ricevuto molte
richieste e così avrebbe senz’altro avuto una compagna.
Era stato emozionante per Olimpia partire per Venezia,
quella mattina di metà novembre. Camminando con una
piccola valigia, si sentiva proiettata verso una nuova fase della
sua vita, tutta da scoprire, da conoscere e da costruire. Il sole
aveva deciso di accompagnarla e nel cielo, smaltato di un
azzurro freddo e pulito, sembrava un riflettore puntato sulle sue
speranze.
All’arrivo alla pensione, la accolse la sua coinquilina:
«Ciao. Io sono Laura Petrini» si presentò la ragazza che le
aveva aperto la porta della stanza. «Se l’aspetto esteriore
rispecchiava il carattere e la personalità, doveva proprio essere
un’originale», pensò Olimpia.
124
Effettivamente, Laura non passava inosservata: piuttosto
bassa di statura e con un notevole bagagliaio posteriore, che
non si peritava di esibire in pantaloni piuttosto attillati, aveva,
però, un viso dolcissimo. La pelle era levigata come porcellana
e gli occhi sembravano naturalmente perennemente truccati.
Una splendida, lucente criniera castano rossiccio si sposava
perfettamente al verde degli occhi. Sembrava che la natura,
distrattasi un momento, avesse assemblato una testa ad una
corporatura destinata ad un’altra.
«Di dove sei?» le chiese Olimpia, dopo essersi a sua volta
presentata.
«Vengo da Fano». Rispose Laura.
Dopo quelle frasi di circostanza, una volta rotto il ghiaccio,
si misero a parlare un po’ più sciolte e non tardarono a trovarsi
in sintonia su un sacco di cose. Ma un altro sacco era quello su
cui non si trovavano d’accordo: Olimpia amava bere birra o
vino a tavola, Laura si scolava bottiglie di chinotto; Olimpia
mangiava volentieri verdure, Laura era una carnivora assoluta;
Olimpia non fumava, Laura non smetteva quasi mai di
accendere sigarette; Olimpia la domenica andava a Messa,
anche se più per abitudine che per una fede che sentiva
piuttosto tiepida e incerta com’era tra gli sfarzi barocchi delle
chiese che frequentava e l’austerità della sinagoga alla quale da
bambina il nonno e il padre la portavano nelle solennità
ebraiche. Laura, a sua volta, si proclamò professante una sua
personalissima religione.
Non frequentavano le stesse lezioni, ma molto era
comunque il tempo che passavano insieme. La sera, spesso,
dopo una veloce cena alla mensa universitaria, andavano al
cinema. Scoprirono di essere entrambe appassionate di musica
classica, così, approfittando dello sconto per gli universitari,
sottoscrissero un abbonamento alla stagione sinfonica della
Fenice.
Le sere dei concerti erano frenetiche: cenavano presto e
correvano in camera a prepararsi. Era quasi un rito cercare tra i
125
soliti vestiti, pantaloni ecc, qualcosa di speciale. Anche il
trucco si faceva più ricercato e, quando lasciavano la stanza,
generalmente si sentivano soddisfatte del risultato ottenuto.
Quando in sala le luci si spegnevano, cominciava il sogno:
Olimpia spesso chiudeva gli occhi e cancellava dalla mente
tutto ciò che poteva. La musica era come una droga sublime
per lei: a volte riconosceva in quei viaggi, luoghi già visitati;
ancora, a volte, ricompariva Filippo, ma era tutto così sfumato
che ora l’animo non le si appesantiva più di dolore, ma anzi, si
sentiva riempire di uno spleen docile e tranquillo.
Una sera suonavano una pianista e un violinista tedeschi: in
programma, musiche di Schumann e Beethoven. La musica da
camera era come un gioiello, per Olimpia, la sublimazione
dell’essenza dell’armonia. Se, poi, si trattava di sonate del
grande di Bonn, si raggiungeva la perfezione assoluta. Quando,
dopo l’ultimo accordo della Sonata a Kreutzer, si librò
l’applauso del pubblico, all’accendersi delle luci, si trovò gli
occhi lucidi. Accanto a lei sedeva un ragazzo che, spesso, con
l’aiuto di una minuscola pila, aveva seguito la musica sullo
spartito. Tra un movimento e l’altro, più volte, Olimpia si era
chiesta se anche ad un musicista, conoscitore della tecnica e dei
meccanismi dell’armonia, se anche a chi è del mestiere, la
musica potesse dare le stesse emozioni che provava chi, come
lei, la sapeva solo ascoltare.
Stava per voltarsi verso Laura, quando il suo vicino le
chiese: «Perfetta l’incisività del “Presto”, non trovi? Brillante
ed estroso, proprio come voleva l’autore».
Sorpresa, Olimpia lo guardò e: «A giudicare dal risultato,
direi proprio di sì. Del resto, Beethoven ha una forza, un
carattere che devono emergere in certi passaggi.» Trovò la
prontezza di rispondere. «Anche se, forse, forse questo ritmo
così balzante, rivela in qualche passaggio l’originale diversa
destinazione del terzo movimento.»
«Musicista anche tu?» continuò lui.
126
«No, musicofila appassionata. Tu, invece, suoni direi.
Violinista?» azzardò.
«Indovinato».
«Ci avrei giurato da come seguivi i gioiosi trilli del violino
nell’Andante con variazioni».
Laura li interruppe con la sua naturale spigliatezza. «Ciao.
Io sono Laura Petrini». Appena appena sorpreso da questo
intervento, anche lui si presentò: «Lorenzo Vianello».
«E io sono Olimpia Alessandri» concluse lei.
«Perché non andiamo a bere qualcosa?» propose Lorenzo.
Le ragazze si guardarono e all’unisono risposero accettando.
Non poteva andare diversamente, visto che, oltre ad apparire
speciale in virtù della sua arte, Lorenzo si lasciava anche
guardare con piacere. Era un bel trentenne, alto, atletico, occhi
scuri e una cascata di leggere onde corvine, che gli ricadeva
sulla fronte e che lui, con un gesto frequente e spontaneo,
cercava di ricacciare più indietro. Le mani che stringevano gli
spartiti erano agili, le dita lunghe che ben potevano affrontare
anche le più acrobatiche posizioni di un capriccio di Paganini.
Nonostante quell’anno il mese di marzo si fosse presentato
più pazzo del solito, ora aprendo l’animo con il tepore e il cielo
della primavera, ora capitolando nelle più cupe tenebre
invernali, quella serata era perfetta per passeggiare: l’aria,
appena inumidita da una pioggia pomeridiana, si era poi
addolcita, asciugandosi sotto un cielo stellato nel quale una
luna, pressoché piena, brillava come una diva sul palcoscenico.
Passeggiando lentamente, commentavano i vari brani e
l’interpretazione dei valenti concertisti.
«Hai un autore che senti in modo particolare?» gli chiese ad
un tratto Olimpia.
«Un musicista particolare, direi di no, ma mi affascina
terribilmente la musica barocca. Credo che in quel periodo
siano stati scritti dei monumenti assoluti, soprattutto per il mio
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strumento. Il ritmo, a volte così stringato, di un Bach, di
Vivaldi, di Corelli non ti dà respiro» le confidò Lorenzo.
«Scommettiamo che so cosa berrà Laura?» divagò Olimpia,
quando furono davanti ad un locale di cui Lorenzo aprì loro la
porta.
«Accetto la scommessa, anche perché, in questa cantina,
non hai molta scelta» scherzò lui.
«Eh! Non, non vale» si inserì Laura «Per me una cantina è
come per Superman la criptonite!»
«Ma non ti lascerai mai tentare ad abbandonare il tuo
chinotto?» la schernì Olimpia.
«Mi dispiace, ma siamo due a uno, perciò o vino per tutti o
noi beviamo e tu guardi» le propose Lorenzo.
Entrarono in un vecchio locale, in cui sembrava che anche i
mattoni trasudassero vino, insieme al salmastro dell’umidità.
L’unico cliente stava andandosene col suo viso rubizzo e
un’allegria che sarebbe certo svanita insieme ai fumi del succo
di Bacco.
Mentre brindavano al loro incontro con un fresco prosecco,
ognuno raccontò qualcosa di sé.
Lorenzo era un giovane diplomato in violino al Benedetto
Marcello e stava costituendo un trio con amici del
conservatorio. Aveva già preso accordi con qualcuno e ora
stavano mettendo a punto un repertorio un po’ fuori dal solito.
Viveva in un piccolo appartamento al piano terra di una casa
in Calle delle Muneghe. Il fratello maggiore, sposato, abitava
con la moglie al piano di sopra di quella vecchia costruzione
che apparteneva alla loro famiglia da chissà quante
generazioni.
«Dov’è Calle delle Muneghe?» si informò Laura, posando
un bicchiere di acqua in cui nuotava una fetta di limone.
«Vicino a Campo Sant’Angelo» spiegò lui.
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«Sei proprio a due passi dal Conservatorio!» osservò
Olimpia.
Morsicchiata anche la fetta di limone, Laura guardò
l’orologio: l’una e tre quarti.
«Ragazzi, non è per farvi fretta, ma oggi è già diventato
domani e tra poco io devo essere a lezione di giapponese»,
comunicò alzandosi.
«Accidenti, è proprio tardi!», confermò Olimpia.
«Vi accompagno. Se prendiamo qualche scorciatoia in dieci
minuti siamo a casa» le tranquillizzò Lorenzo.
E fu proprio così, perché dieci minuti più tardi si salutavano
calorosamente davanti al loro albergo.
Giunte in camera, le amiche si scambiarono le rispettive
impressioni su quella nuova conoscenza: entrambe erano
rimaste favorevolmente colpite dalla simpatia, dalla sensibilità,
dall’intelligenza di quel ragazzo.
Qualche giorno dopo, Olimpia e le amiche di Ferrara
disertarono la mensa universitaria e andarono a sperimentare
un’antichissima rosticceria, che risaliva nientemeno che ai
tempi di Goldoni. Il locale, nonostante l’apparenza, era pulito:
dietro il banco, un fuoco vivace arrostiva pesci e braciole. Su
un fornello, una padella, nera di fiamme e di tempo, friggeva
pesci e molluschi dorati e dall’aria croccante. Era più che altro
un luogo da “prendi e porta via”, un take away, ma chi si
accontentava di una panca e un tavolone di quattro assi, poteva
anche mangiare sul posto.
Questo fu proprio ciò che fecero, ma, per poter pranzare,
mancava il vino.
«Non è un problema» spiegò chi era ai fornelli «Proprio qui,
girato l’angolo, ci sono delle cantine. Se andate con questa
bottiglia» disse porgendone una di vetro scuro e pesante
«potete comprarlo e portarvelo qua.»
«Benissimo» fu il coro entusiastico di risposta.
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Lasciata l’ordinazione, decisero che Olimpia, considerata
ormai veneziana di adozione, andasse a sbrigare la
commissione.
«Va bene.» Accettò «Ma poi mi lasciate tre o quattro
calamaretti in più» le ricattò uscendo in fretta.
Trovò subito il locale e si avvicinò al bancone, sul quale
erano posate alcune botti con le rispettive etichette. Un cliente,
già servito, si voltò in quel momento con due bottiglie in mano:
era Lorenzo.
Si fermarono stupiti solo un attimo, prima di scontrarsi. «Il
vino è proprio fatto per incontrarsi, a quanto pare!» le sorrise
imbarazzato per le mani occupate. «Già, sono incontri di
spirito» lo tolse dall’imbarazzo Olimpia con la battuta. «Bravo
e visto che conosci il posto, che vino mi consigli per un piatto
di pesce fritto?»
«Questo, sicuramente» rispose, alzando i suoi due acquisti.
«Non sei in mensa?» si informò.
Olimpia gli espose il programma per quel pranzo e si rese
conto che…
«Se non sono indiscreto, potrei unirmi alla vostra
compagnia? Come vedi, il vino l’ho già procurato!» si
autoinvitò, accennando alle bottiglie.
«Ma perché no? Se non ti mette a disagio essere l’unico
maschio tra sei fanciulle in fiore…» rispose, ammirandolo per
la sua riacquistata disinvoltura.
«Anzi, mi sembra giusto che qualcuno si prenda cura di voi
e vi controlli!» disse lui scortandola fuori della porta.
Quando le amiche la videro arrivare in compagnia,
cominciarono a darsi di gomito e ridacchiare di sottecchi.
Olimpia fece le presentazioni, mentre Lorenzo si
accomodava sulla panca prendendola per mano, per farla
sedere accanto a sé.
Passarono un paio d’ore in piacevoli battute, qualche
accenno ad argomenti un po’ più seri, qualche velata, ma non
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poi troppo, avance di una delle amiche, Paola, che non si
lasciava mai sfuggire l’occasione per farsi notare da un bel
ragazzo.
Quando, poi, decisero che era ora di prendere un caffè,
Lorenzo propose: «Se volete, possiamo andare a casa mia. Vi
assicuro che il mio caffè è un incanto di aromi e di gusto.»
«Grazie per l’invito», accettarono con curioso entusiasmo.
L’appartamento di Lorenzo si rivelò meno piccolo di come
ne aveva parlato. Certo, che sei ragazze, un po’ allegre per
effetto del vino ed eccitate anche dalle presenza di un maschio,
lo riempirono di profumi, di risate e di allegria.
Olimpia si guardava intorno per cercare di capire,
dall’arredamento, dagli oggetti, dai quadri, qualcosa della
personalità del proprietario. Indubbiamente aveva buon gusto,
perché aveva saputo unire diversi pezzi di antiquariato ad altri
più moderni e funzionali, in un mix personale e raffinato.
Su una delle poltrone risaltava, con il colore caldo della sua
vernice, il violino, che sembrava un ospite di rango in riposo.
Tra le due finestre che illuminavano la stanza c’era un leggio,
su cui era aperto uno spartito, una sonata per violino e basso
continuo di un autore francese che Olimpia non ricordava di
aver mai sentito. Accanto vi era una elegante sedia sul cui
schienale erano intagliati finemente una lira e altri strumenti
musicali. Tra la porta d’ingresso e quella che dava in cucina
c’era un mobile a scaffali, traboccante di libri. Staccatasi dal
gruppo, Olimpia si avvicinò a leggere sulle coste i titoli di
alcuni volumi; c’erano biografie di musicisti, testi di critica
musicale e tutto un settore della più varia narrativa italiana:
Bassani, Levi, Erneti, Fallaci, Eco.
Mentre stava per allungare la mano per prendere “In catene”
di Erneti, Lorenzo dalla cucina le chiese: «E allora, ho superato
l’esame?»
«Quale esame?» rimandò Olimpia, passando decisa in
cucina.
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«Mi è parso di vedere un particolare interesse da parte tua
nell’osservare tutto con tanta attenzione, che mi pareva di
essere sotto esame!» le rispose, alzando verso di lei uno
sguardo arguto, mentre chiudeva le due moka che aveva nel
frattempo riempito.
«Scusami» arrossì lei «non volevo certo darti questa
impressione. Ma ti confesso che mi piace molto cercare di
capire la personalità di qualcuno attraverso la sua casa.».
«Ah!» commentò Lorenzo «Non ho sbagliato di tanto,
dunque. E allora, che tipo sarei?» le chiese avvicinandosi.
«Dai, per favore» tentò di schermirsi Olimpia «Non
prendermi in giro!»
«Non ne ho nessuna intenzione, ti assicuro!» la incoraggiò,
posandole le mani sulle spalle e attirandola più vicina.
«Beh! Sei un tipo preciso, raffinato e affidabile, direi. Ciò
che di sicuro non ti manca è il gusto per il bello, ma per il bello
sobrio, poco vistoso!»
«Complimenti» le strinse le mani nelle sue, dimostrandosi
piacevolmente sorpreso «Hai fatto centro. Perché non studi
psicologia?»
Olimpia cercò invano di liberarsi dalla stretta di lui, che anzi
la voleva ancor più vicina e già stava tentando di baciarla.
Fu un momento in cui il tempo rimase sospeso, come se i
loro corpi fossero stati catturati da un’istantanea. Ma fu solo
questione di un secondo, perché, mentre il caffè diffondeva il
suo profumo, dall’altra sala arrivavano voci piuttosto decise
che reclamavano la tazza di caffè promessa.
«È in arrivo!» esclamò Lorenzo con enfasi.
A Olimpia non era sfuggito che sul tavolo era già pronto un
vassoio completo di tazzine e zuccheriera d’argento.
«Ci tratti proprio con i guanti!» osservò ironica.
«Mi piace offrire il meglio che ho», rispose lui, non
ricambiando l’ironia, ma anzi fissandola negli occhi con una
132
intensa serietà. «Soprattutto se ho ospiti di riguardo» terminò
mentre prendeva le due caffettiere.
Sollevato con cautela il vassoio, Olimpia lo precedette in
sala.
Quando tutti ebbero finito di sorseggiare il caffè, non
mancarono i commenti alla fortuna di Lorenzo di vivere a
Venezia in una casa così e qualcuno chiese con insistenza di
sentirlo suonare qualcosa.
«Non hai scuse, qui c’è tutto: la musica, il violino e il
pubblico» lo invitò una delle amiche.
«D’accordo, d’accordo» accettò Lorenzo, prendendo lo
strumento e cominciando ad accordarlo. Dopo qualche
secondo, quando fu pronto, chiese: «Avete qualche brano
particolare che desiderate ascoltare?»
Paola, a nome di tutte, rispose: «Lasciamo a te la scelta.
Quello che ritieni e che senti più adatto a questo momento».
Quando le prime note, appena sfiorate e timide, si
materializzarono, Olimpia riconobbe subito con un brivido
Traumerei di Schumann. C’era uno struggimento in quella
musica che le aveva sempre sciolto il cuore; la malinconia, il
dolore del compositore la contagiavano. Cercò di fingersi
indifferente, di mascherare le onde di emozioni che la
soffocavano, ma forse non era così brava a fingere, se Lorenzo,
proprio nei passaggi più dolci e patetici, la guardava con occhi
espressivi e penetranti. Il potere della musica fece, comunque,
effetto anche sulle amiche, perché, quando la linea melodica si
dispiegò in tutto il suo vibrato, smisero di guardarsi intorno e
sussurrare tra loro qualche sciocchezza, per prestare
unicamente ascolto a quella voce che pareva chiedere, pregare,
che voleva amore.
Svanita in un soffio l’ultima nota, Lorenzo posò arco e
strumento, mentre tutte scoppiarono ad applaudire l’interprete
di un momento così toccante.
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La commozione generale fu, per fortuna, stemperata da
un’osservazione pratica: «Ragazze, sono quasi le cinque: se
non ci fiondiamo in stazione, perdiamo il treno».
In un lampo tutte raccolsero libri e borse, salutarono con
calore il padrone di casa e Olimpia e scapparono, come foglie
cadute inseguite dal vento.
Olimpia raccolse le tazzine sparse, le posò di nuovo sul
vassoio e le riportò in cucina. Lorenzo la seguì con le
caffettiere.
«Lascia» la invitò «non vorrai anche lavarle, spero. Gli
ospiti vanno serviti e riveriti» scherzò, accennando un comico
inchino.
«Grazie, per prima» rispose Olimpia, che conservava ancora
un’eco del turbamento prodotto dalle note. «Era qualche tempo
che non ascoltavo più Schumann, ma mi fa sempre lo stesso
effetto. Non ricordo più chi mi disse, una volta, che l’arte è
dolore, la creazione è come un parto spirituale: chi crea soffre,
ma è proprio questo dolore che, poi, rende l’arte tanto preziosa.
A volte, addirittura, il prodotto sa anche comunicare la
sofferenza, il travaglio dell’autore e, allora, in questa sintonia
di emozioni, anche chi ascolta può cogliere il sublime.»
Era forse la prima volta che riusciva ad esprimere le sue
sensazioni in modo così razionale e Lorenzo, sorridendole, si
avvicinò.
«Sai, non sono tante le ragazze che hanno il coraggio di
mettere a nudo in modo così puntuale i loro sentimenti e le loro
opinioni».
Nel posare sul tavolo caffettiere e tazzine, le loro mani si
sfiorarono. Piano, con dolcezza, lui gliele prese e con le braccia
la circondò, tenendole le sue dietro la schiena. I loro corpi
erano ormai in contatto e, quando anche i visi si accostarono,
Olimpia gli porse le labbra in un bacio tenero e profondo. Si
sciolse dal suo abbraccio solo per poterlo a sua volta cingere
134
alle spalle e, continuando a baciarlo, passargli le mani tra i
morbidi riccioli.
Più e più volte si allontanarono per osservarsi, per leggersi
nello sguardo ciò che reciprocamente provavano, prima di
riunirsi nuovamente in un languido abbandono.
«Sei un dolce tesoro», sussurrò Lorenzo, sfiorandole i
capelli con le labbra. «Da quanto cercavo una ragazza come te,
che potesse capirmi, che sapesse condividere tutto con me».
Olimpia, pur in uno stato d’animo che rasentava l’estasi, pur
sapendo che anche per lei Lorenzo era un ideale realizzato, non
riusciva a vincere quella paura dell’amore che da tanti anni
ancora covava in un angolo buio del suo cuore.
«Taci, ti prego», gli sussurrò a fior di labbra. «Non dire
altro. È troppo bello questo momento, troppo assoluto, per
circoscriverlo con qualunque parola.»
Rimasero abbracciati in silenzio, finché suonò il telefono.
Controvoglia e scusandosi con lei, Lorenzo andò a rispondere.
«Sì?» chiese con voce un po’ esitante. «Certo che sto bene…
Perché? …Ma che ore sono adesso?» chiese controllando
contemporaneamente l’orologio. «Ah! Me ne ero proprio
dimenticato. Senti» continuò, guardando Olimpia con
un’espressione sofferta «Farò un po’ tardi, David, ma non ti
preoccupare. A dopo.»
Posato il ricevitore, tendendole la mano, le si avvicinò:
«L’avevo proprio scordato: dovevo incontrare un amico del
conservatorio per fare alcune prove».
«Mi dispiace, «disse Olimpia con sincera comprensione» ti
lascio subito.»
«Ma nemmeno per sogno» ribatté con voce un po’ sopra le
righe «Guarda» e intanto raccoglieva violino e spartiti «eccomi
pronto, così usciamo insieme» e finì la frase appoggiandole un
bacio sulle labbra. La consapevolezza di passeggiare insieme
per Venezia, per la prima volta da soli, li faceva galleggiare
nell’aria. Ad un certo punto, Lorenzo si fermò e le comunicò
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che lui era arrivato, anche se avrebbe preferito accompagnarla
ancora.
«No, no» lo rassicurò «hai già fatto abbastanza tardi. Ciao»
e, in punta di piedi, gli sfiorò una guancia con le labbra.
«Quando ti rivedo?» chiese Lorenzo con una punta di ansia
dietro quelle banali parole.
«Non so» rispose incerta «domani?»
«Così tardi?» si preoccupò lui «Perché non a cena?»
«Perché penso che potresti fare tardi: la musica richiede dei
tempi che non sempre si combinano con quelli dell’orologio»
sentenziò Olimpia.
«Quanta saggezza!» ironizzò. «Allora a domani. Hai
lezione?»
«Sì, finisco all’una. Poi sono libera fino alle tre.»
«Allora, all’una. Dove?»
«Nel cortile, vicino al pozzo. Buona notte»
«Non farò altro che aspettare domani. Una buona notte
anche a te». Un bacio fu il pegno per l’appuntamento fissato.
Olimpia tornò lentamente verso la sua camera, che sperava
di trovare vuota, per restare ancora in compagnia dei suoi
pensieri.
Sdraiata sul letto, accese la radio e la sintonizzò su una
stazione che trasmetteva musica sinfonica: erano i preludi di
Debussy. Quale miglior colonna sonora per inseguire e
accarezzare un sogno? Non le pareva possibile che davvero un
ragazzo come Lorenzo esistesse e la amasse.
Quando Laura rientrò, accendendo la luce, spense il sogno
di Olimpia, che sussultò sul letto: «Accidenti, cos’è scoppiata,
l’atomica?» sbottò, precipitando nella realtà.
«Stai male?» si informò premurosa Laura.
«Tutt’altro» rispose stiracchiandosi con aria felice. E le
sembrò giusto raccontarle cosa quel pomeriggio fosse stato per
lei.
136
«Beh!» fu il commento dell’amica «Che Lorenzo ti
guardasse con un certo interesse, l’avevo notato subito» volle
fare la saputona «e sono proprio contenta per te. Te lo meriti,
siete una bella coppia».
Il tempo che fino ad allora Olimpia aveva dedicato allo
studio non era stato molto, giusto i ritagli tra una lezione e
l’altra, ma da quel giorno in poi divenne ancora più sporadico.
Aveva deciso che i libri potevano aspettare la fine delle lezioni,
quando sarebbe tornata a casa e allora avrebbe cominciato sul
serio a sudarci su, cercando di concentrarsi sulle pagine delle
dispense dei corsi monografici di latino, italiano, storia, i vari
complementari.
Perciò, quando i rispettivi tempi liberi coincidevano,
Lorenzo e Olimpia se ne andavano alle Zattere a godersi il sole
dolce della primavera, oppure prendevano il vaporetto e
andavano ad esplorare isole sempre diverse e via via meno
frequentate. Era rassicurante e piacevole parlare di tutto, anche
di cose banali e di necessità quotidiane.
Un pomeriggio, tornando dalle Zattere, Olimpia si ricordò
che doveva passare in libreria, per acquistare una raccolta di
commedie di Goldoni, sulla quale avrebbe dovuto preparare
l’esame di italiano.
Era l’ultimo giorno prima delle vacanze pasquali e la
mattina dopo sarebbe tornata a Ferrara.
«Aspetta» la bloccò Lorenzo «ce l’ho quel libro. Te lo
presto volentieri, a meno che tu non lo voglia per tenerlo nella
tua biblioteca!».
«Grazie» rispose con entusiasmo «ti dirò che, pur
apprezzando il teatro di Goldoni, non ritengo di vitale
importanza inserirlo tra i miei libri. E poi» soggiunse con una
certa civetteria «preferisco studiare su una cosa tua, così ti avrò
vicino anche in quelle ore.»
«Vieni, facciamo un salto a casa così te lo do subito».
137
Con tutta calma, dando un’occhiata alle vetrine, tenendosi
per mano, si avviarono verso Calle delle Muneghe.
Ormai il giorno si stava spegnendo e i primi fanali
annunciavano il crepuscolo, che si presentava con un cielo di
turchese, al quale la laguna prestava un po’ del suo verde più
cupo.
Appena entrati, Lorenzo andò a colpo sicuro verso la libreria
e scorse col dito tutti i titoli presenti.
«Accidenti, so che c’è, ci deve essere» esordì mentre
cominciava freneticamente anche a spostare qualche volume
per cercare meglio tra quelli in seconda fila. Ovviamente riuscì
a trovarlo solo quando stava quasi per rinunciare alla ricerca.
Nel frattempo, Olimpia si era avvicinata alle sue spalle e
cercava di aiutarlo, scorrendo velocemente con gli occhi i vari
scaffali. Così, quando felice, Lorenzo si voltò esultante col
libro in mano: «Eccolo», Olimpia era lì di fronte a lui, che posò
il volume sul primo ripiano e l’abbracciò con passione.
Olimpia si stava già intenerendo al pensiero che li attendeva
una momentanea separazione e gli si aggrappò con uno
struggimento totale.
I loro baci divennero sempre più profondi, fino a cercarsi il
cuore, che correva all’impazzata su arcani, comuni sentieri.
Pur con il respiro affaticato, Lorenzo le andava ripetendo:
«Ti amo, ti amo, ti amo», modulando le parole ora con la
dolcezza, ora con la forza della passione.
«Amore. Amore, non voglio lasciarti» sussurrava Olimpia
«da troppo tempo ti aspettavo e ora non posso perderti
nemmeno per un’ora».
Dimentica di sé, Olimpia lasciava che le mani di lui la
accarezzassero teneramente, ma con una sicurezza che la
faceva impazzire. Quasi in trance, lo aiutò a svestirla e si
sorprese per la decisione con cui gli venne in soccorso per
liberarlo di indumenti che erano solo di ostacolo al dialogo dei
loro corpi.
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Il divano li accolse come un nido. Le loro bocche
continuavano a cercarsi e le mani parlavano un linguaggio
esaltante. Mai prima Olimpia aveva provato un desiderio così
estremo di essere amata, di sentire la forza di un uomo
addolcirla e riempirla di sé.
Lorenzo sapeva accogliere, intuire ogni suo volere e la
assecondava con una attesa paziente e premurosa. Quando si
sentì scossa da una vertigine, da un brivido meraviglioso,
Olimpia lo invitò: «Prendimi, ti prego, ora, prendimi».
Anche lui era ormai all’acme di una eccitazione che lo
dominava in ogni cellula e così finalmente si unì a lei.
L’accorgersi che era ancora vergine, lo fulminò e, come una
molla, lo fece alzare di scatto dal corpo di lei.
«Ma tu…» cominciò, quando lei gli chiuse la bocca con la
mano.
«Sì, sono vergine, ma voglio che sia tu il mio primo vero
amore. È tutto perfetto» finì, liberandogli la bocca per poterlo
baciare.
Quella richiesta fu per Lorenzo un impegno che sottoscrisse
con trasporto e trepidazione.
Non gli era mai successo prima di incontrare una “ragazza”,
i suoi rapporti con l’altro sesso erano sempre stati molto più
razionali, vissuti anche con emozione, ma, comunque, con
compagne che, quanto ad esperienza, ne avevano da vendere.
Il candore di Olimpia lo commosse e si rese conto
dell’importanza che quel momento assumeva per lei. Per
questo si dedicò a quell’amplesso con tutta la felicità e il
desiderio di renderlo indimenticabile per entrambi.
Un piacere folle e improvviso colse Olimpia, che gridò per
liberare quel groviglio di emozioni che sembrava soffocarla.
Quando riaprì gli occhi, per prima cosa vide quelli di
Lorenzo che la guardavano con una luce estatica. Non seppe se
fu per l’imbarazzo o per il desiderio di prolungare la gioia
provata, che li richiuse, mentre sentiva la voce di lui che le
139
sussurrava: «Sei la cosa più bella che potesse capitarmi. Sei un
misto di candore e di naturale sensualità che mi fa impazzire»
«Per favore, Lorenzo,» lo supplicò «non prenderti gioco di
me»
Quasi scandalizzato, lui la sgridò: «Ma cosa dici? Come
potrei scherzare su ciò che ormai è la mia stessa vita?»
Rimasero ancora a lungo così abbracciati a parlare, a
confidarsi tanti lontani ricordi d’infanzia, a continuare quella
complicità che la loro prima volta aveva creato tra loro.
Ad un tratto lui le propose: «Visto che dovremmo cenare,
perché, anziché uscire, non ce ne stiamo qui, nell’intimità del
nostro nido?»
«Volentieri, grazie. Ma chi cucina?» si informò Olimpia.
«Io, ti assicuro, non per vantarmi, ma in cucina non so fare
granché» rise, mettendolo in guardia.
«Ho capito; lascia fare a me. La mia vena creativa ti
stupirà!:»
Dopo la sferzata di una piacevole doccia, mentre Olimpia
terminava di asciugarsi, Lorenzo cominciò ad armeggiare ai
fornelli.
«Mi dici cosa non ti piace?» si informò alzando la voce,
perché lei potesse sentirlo attraverso la porta aperta del bagno.
«Detesto il fegato, le cervella, gli spinaci, il prosciutto cotto
e adoro le verdure, quasi tutte, il pollo e …» si interruppe
mentre si avvicinava alla cucina «adoro te.», concluse
arrivandogli alle spalle e cingendolo alla vita.
«Così non vale!» la rimproverò, voltandosi e rispondendo
con un bacio al suo abbraccio. «Non mi indurre in tentazione»
recitò, mentre entrambi scoppiavano a ridere.
Lorenzo, da par suo, apparecchiò la tavola con un’eleganza
degna di un ristorante a un’intera costellazione di stelle. Su una
tovaglia damascata color salmone, i piatti, col loro decoro
intonato, sembravano fiori e le posate dal manico verde giada i
relativi steli. I bicchieri di pesante cristallo brillavano, anche
140
per la complicità di un elegante candeliere sul quale bruciava
una candela rosa e profumata.
Olimpia aveva seguito tutte quelle operazioni con una
crescente meraviglia. Quando ebbero reso il dovuto omaggio
ad un piatto di pasta, sposato ad un sugo morbido e piccante ad
un tempo, mentre brindavano con il rosso granato di un
cabernet che spandeva il suo profumo di fiori, un po’ titubante,
Olimpia non poté non chiedergli: «Scusa, non darmi della
ficcanaso o dell’indiscreta, ma ogni volta che ci siamo visti mi
hai stupita per la naturalezza con cui ti muovi e usi oggetti così
raffinati. Sei giovane, come fai…»
E mentre stava cercando le parole più adatte per una
richiesta così delicata, lui la prevenne: «Come faccio ad avere
una casa così e tante cose belle e preziose?»
Olimpia arrossì di fronte alla formulazione così spiccia di
quanto effettivamente avrebbe voluto sapere, ma lui la mise
subito a suo agio.
«No, non devi vergognarti: Hai perfettamente ragione a
porti una simile domanda. D’altro canto, la risposta è molto
semplice: è solo questione di fortuna. Non ho nessun merito se
sono nato in una famiglia ricca, che ha saputo educarmi anche
esteticamente. Ancora più fortunato mi ritengo, però, per aver
potuto dedicarmi così liberamente a seguire la mia vocazione
musicale, senza dovermi preoccupare di come mantenermi.
Come vedi, sono un artista un po’ anomalo: niente a che fare
con i bohemiens e con i grandi geni che hanno stentato tutta la
vita e che hanno finito per arricchire poi solo i posteri. Ma noi
sappiamo chi sono stati loro i veri grandi, gli immortali. Io,
forse, resterò solo un dignitoso esecutore…»
«Cosa fai, vai a pesca di complimenti?» lo interruppe.
«No, te l’assicuro, ma se gratifichi il mio ego con qualche
frase piacevole, ti garantisco che non mi dispiace», ammise con
sincerità.
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Il momento del distacco fu imbarazzante e malinconico per
entrambi.
«Ti accompagno alla stazione, domattina?» le chiese.
«No, grazie; gli addii, anche se sono solo un arrivederci, mi
lasciano sempre un sapore così amaro in bocca…» gli confidò.
E così si salutarono davanti all’albergo, al quale l’aveva
accompagnata.
Quella volta, il ritorno a casa per Olimpia fu particolarmente
penoso. Ormai si rendeva conto che le riusciva sempre più
difficile fingere una normalità sentimentale, una calma piatta
su tutti i fronti (erotico compreso) e così, o si rifugiava nello
studio, con grande soddisfazione dei genitori, o usciva con le
amiche, alle quali, però, aveva deciso di tener nascosto, per
scaramanzia, gli sviluppi della sua storia con Lorenzo.
Per sua fortuna, le frequenti telefonate di lui riuscì a
mimetizzarle e farle passare per quelle delle amiche, Laura in
testa.
Quando, durante il pranzo pasquale, aprì l’uovo che Lorenzo
le aveva regalato prima della partenza, stupì se stessa e la
famiglia: la sorpresa era un pendente in argento, un violino
completo di corde, ricciolo e ponticello, appeso ad una catenina
pure in argento.
«Ma che bello! Che sorpresa particolare!» furono i vari
commenti. «Non può essere una delle solite sciocchezze,
questa è stata messa apposta da qualcuno», insinuò la madre.
«Già, per forza: Laura, sapendo che amo la musica, ha
cercato qualcosa di adatto» mentì spudoratamente, ma in modo
convincente.
E così, alla fine, anche le vacanze vennero archiviate e
Olimpia poté tornare a Venezia.
Rivedere Lorenzo le comunicò la stessa felice esaltazione di
quando si erano lasciati.
«Che meraviglia riabbracciarti!» la accolse, quando scese
dal treno.
142
«Non hai sentito in questi giorni che ero sempre con te?»,
gli chiese mentre appoggiava a terra la valigia, prima di
baciarlo, indifferente al via vai di passeggeri.
Si avviarono verso l’albergo per depositare il bagaglio e
Lorenzo si informò: «Che programmi hai?».
«Adesso voglio solo stare con te»
«Vorrei ben vedere che tu avessi altri desideri!» esclamò lui,
stringendola con una forte tenerezza.
Quando furono a casa Olimpia non si meravigliò della
naturalezza con cui assecondava i movimenti di Lorenzo, che
cercava di realizzare il suo desiderio di unione totale con lei.
Questa volta l’amore per loro fu ancora più consapevole, forte
nella ricerca di un piacere già sperimentato ma da conquistare
di nuovo. E fu davvero come una nuova conquista quella cui
arrivarono insieme.
Quando ritrovarono l’equilibrio per rivestirsi, mentre
stavano uscendo. Lorenzo la fermò sulla porta e le diede una
notizia che da tempo tratteneva.
«Hai impegni per giovedì sera?» chiese prendendola alla
larga.
«Se me lo chiedi, vuol dire che hai da propormi qualcosa e
quindi, anche ammesso che avessi qualche programma, sarei
pronta ad annullarlo».
«Ho proprio un invito per te …e Laura, se vuole» le
propose, mostrandole un cartoncino.
Si trattava del primo di una serie di concerti che il suo
gruppo avrebbe tenuto: un trio di due violini e un violoncello.
«Come puoi aver realizzato tutto questo in una decina di
giorni?» non si capacitava Olimpia.
«Infatti, hai ragione» le spiegò «non sarebbe certo possibile.
In realtà, da diversi mesi c’era questo progetto e, per fortuna, si
è concretizzato. Quando sei partita, prima delle vacanze,
sapevo già tutto, ma, cosa vuoi, sono abbastanza scaramantico
per decidere di parlare di una cosa solo quando è
143
definitivamente certa. Non pensare che non abbia voluto
metterti al corrente per altri motivi: a dir la verità, sono stato
tentato più volte di dirtelo, ma poi, chiamala debolezza,
superstizione, insomma ho preferito farti una sorpresa.»
Concluse.
«Tutto sommato hai fatto bene. Forse sarei stata in ansia o in
preda all’impazienza» lo rassicurò.
«E in quale chiesa sarà?» si informò., tenendo tra le mani
senza leggerlo il dépliant che le avrebbe dato tutte le
informazioni.
«Qui vicino, nella chiesa di Santo Stefano.» E continuò:
«Sai, conosco bene il parroco, fin da quando ero bambino,
chierichetto. Ha seguito tutto il mio percorso di studio, dalla
laurea al diploma del conservatorio».
«Laurea?» lo interrogò, stupita.
«Già, anche se l’ho messa in un cassetto, ho una laurea in
economia e commercio» confessò, quasi con vergogna.
«Ma sei una sorpresa continua!» esclamò Olimpia,
veramente stupita.
«Cosa vuoi, l’ho fatto più per accontentare i miei che per me
stesso. Loro sono sempre stati dell’opinione che un solido
titolo di studio può sempre servire nella vita e così, visto che il
commercio era l’attività che ci aveva sempre permesso, e ci
permette tuttora, di vivere alla grande, ho finito quasi col
convincermi anch’io che quella laurea non m i avrebbe fatto
poi troppo male. Anche se, per la verità, ho sempre privilegiato
gli studi musicali. Ecco, ora sai anche questo di me», concluse
Lorenzo.
Uscendo, continuarono a parlare e Olimpia si accorse che,
mentre lui le raccontava episodi della sua adolescenza, nei
quali la figura di don Giovanni emergeva come amico,
consigliere, musicologo e tanto altro ancora, gli occhi gli
brillavano di gioia.
144
«Lo conoscerai, gli ho accennato che ho conosciuto una
ragazza speciale e anche lui desidera incontrarti. Vedrai, è un
uomo eccezionale.»
«Sai, Lorenzo, io non ho mai incontrato un prete così e, a
dire il vero, mi riesce difficile pensare che, sotto l’abito talare,
in borghese o clergyman che sia, c’è un uomo per tanti aspetti
come gli altri», gli confidò.
Era la prima volta che si trovavano ad affrontare un discorso
così delicato e Olimpia era felice di poter conoscere il modo di
vedere le cose di Lorenzo, anche in materia di religione.
«Vedi» riprese lui «sono vissuto in una famiglia in cui la
religiosità, dico la religiosità e non la religione, capisci? È
sempre stata una regola di vita e questa regola coincideva con
la morale cristiana. Spesso a casa nostra venivano sacerdoti,
gesuiti, monaci e ti assicuro che erano le persone più brillanti,
intelligenti e simpatiche che ho conosciuto».
«Beato te!» si felicitò Olimpia, che invece aveva avuto ben
altre esperienze.
La sua famiglia, ora che ci rifletteva, aveva della religione (e
non della religiosità) un’idea quanto mai stereotipata, bigotta e
ristretta.
Certamente, in materia religiosa, pesava enormemente il
fatto che la famiglia paterna fosse ebrea, anche se non
integralista. Quella della madre, invece, si cullava in un
cattolicesimo semplice, elementare, senza punti interrogativi,
attenta soprattutto alla esteriorità del culto.
In sostanza, il tutto si riduceva alla messa festiva e
all’imposizione, nei suoi confronti,di frequentare la parrocchia.
A lei finora questo non era troppo pesato e l’aveva accettato,
anche perché non aveva mai assunto una posizione critica, non
si era mai interrogata su cosa credesse veramente e perché.
Indubbiamente, comunque, conservava un ricordo ancora
intatto dei pomeriggi trascorsi in sinagoga con il nonno, mentre
145
un rabbino rivestito di imponenti paramenti salmodiava
preghiere in una lingua a lei sconosciuta.
Ora, invece, trovare in Lorenzo una fede così sicura, fresca e
limpida, da un lato la disorientava, dall’altro la attirava.
Stava per chiedergli se anche i suoi genitori avrebbero
assistito al concerto, quando si ricordò che, in uno dei primi
incontri, lui l’aveva informata che da alcuni anni si erano
trasferiti in America, dove avevano impiantato un’attività
commerciale che andava a gonfie vele, grazie all’importazione
di un made in Italy di qualità, assai richiesto dal mercato
americano.
«Mi dispiace solo che nei prossimi giorni avrò ben poco
tempo libero», si rammaricò.
«Lo immagino, ma non temere, avremo tempo per rifarci»,
rispose per tranquillizzarlo.
Effettivamente, nei due giorni che seguirono si ritrovarono
solo a cena. Forse il desiderio di vedersi, trattenuto durante
tutta la giornata, mentre ognuno seguiva le proprie attività, era
ciò che rendeva ancor più magico il loro incontro.
La sera del concerto, Olimpia era sicura di essere più
emozionata dei concertisti stessi. Era passata da Lorenzo per
augurargli «in bocca al lupo», mentre questi si preparava.
Per la prima volta lo vide indossare un impeccabile,
elegantissimo abito scuro che, quando Laura lo vide, le fece
esclamare: «Caspita! Sembra un principe!».
Le due amiche sedettero in una delle prime file, in modo
che, anche a luci spente, Lorenzo potesse percepire la presenza
di Olimpia. Purtroppo neppure il fratello e la cognata erano
presenti, in quanto, per motivi di lavoro, si trovavano in
Germania e non sarebbero tornati che la settimana successiva.
Il programma del concerto prevedeva sonate di Corelli e la
sonata in sol maggiore di Legrenzi, la Raspona.
Proprio in questo brano, il costante dialogare dei due violini,
il loro rispondersi, imitarsi sopra il ritmico pulsare del basso
146
continuo (realizzato da un prezioso, splendido cembalo del
700), coinvolse la sua mente e la rese quasi trasognata
interlocutrice degli strumenti stessi.
Con un piacere orgoglioso sentiva, tra gli applausi che
sottolineavano la fine di ogni esecuzione, i commenti di alcuni
vicini che complimentavano il virtuosismo, la tecnica perfetta
ma tutt’altro che meccanica o fredda del violino.
Quando il concerto terminò, dopo un richiestissimo bis,
Lorenzo le fece cenno di avvicinarsi.
«Vai, vai, non ti preoccupare» la incitò Laura. «Si merita un
dopo concerto da favola. Solo, non esagerare a chiedergli
troppi bis», insinuò sorridendo.
Olimpia era frastornata dalla valanga di emozioni che le era
precipitata addosso e dovette attendere che Lorenzo la
accompagnasse nella riservatezza della sacrestia, per sciogliersi
un po’ e complimentarlo con un seppur rapido bacio.
«Aspetta, un attimo» lo pregò «saluto Laura e torno.»
«Aspetta tu» la bloccò «siccome ora andiamo a cena, perché
non le chiedi se vuol essere dei nostri? Anche ai miei colleghi
penso farebbe piacere»
«Perfetta conclusione di una splendida serata. Vado e torno»
si entusiasmò Olimpia.
Ritrovare Laura non fu facile, perché il pubblico non aveva
ancora vuotato completamente la navata e, anzi, si erano
formati alcuni gruppi che continuavano a scambiarsi
impressioni e pettegolezzi.
La proposta di Lorenzo fu subito accettata e, quando le
amiche tornarono in sacrestia, lo videro che si stava
intrattenendo con una persona che, anche se in borghese,
Olimpia riconobbe essere don Giovanni. E infatti, non si
sbagliava, perché, non appena Lorenzo la vide, le tese la mano
e, dopo aver salutato Laura, la presentò al vecchio amico.
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«E bravo Lorenzo!» esclamò questi allegramente,
battendogli una mano sulla spalla «così ti sei fatto accalappiare
anche tu!»
«Oh! Non so chi sia l’accalappiato e chi l’accalappiatore»,
intervenne Olimpia, stringendo la mano al don.
«Da quando Lorenzo mi ha parlato di te, ho cercato di
immaginarti e ti assicuro che non sono andato troppo lontano
dalla realtà.» le confidò con aria sorniona.
Olimpia lo osservava e si accorse di provare una istintiva
simpatia per quel personaggio così disinvolto.
«Allora, si va a cena?» li interruppe avvicinandosi l’altro
violino, seguito a breve distanza dal violoncello e dalla
cembalista, che si era esibita anche all’organo.
Le rispettive presentazioni non richiesero molto tempo, ma
risultarono informali ed efficaci.
«Don Giovanni vieni con noi, ovviamente?!» sentenziò
Lorenzo.
«Anche se non me lo chiedevi, non vi avrei certo lasciati
andare soli!» rispose prontamente, prendendoli sottobraccio,
uno per parte.
L’allegra comitiva si avviò verso il ristorante “Rosa rossa” e
anche in quel breve tratto di strada, molte furono le risate, gli
scherzi cui tutti partecipavano felici.
La cena fu un ulteriore elemento di socializzazione. Quando
Olimpia, senza farsi notare, osservava Laura, la vedeva intenta
a parlare fitto fitto col secondo violino e ne era contenta per lei.
Quando, piuttosto tardi, si salutarono, a piccoli gruppi
presero strade diverse: la cembalista, il secondo violino, Laura
e il violoncello partirono per primi davanti a tutti.
Confermando ancora una volta la sua grande sensibilità e
discrezione, don Giovanni si accomiatò da Lorenzo con un:
«Omne trinum est perfectum, ma nel vostro caso direi proprio
che sarei solo un perfetto terzo incomodo. Buonanotte, ragazzi,
la vostra compagnia vi basta». Una stretta di mano a Lorenzo,
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un abbraccio ad Olimpia e lo videro svoltare per una piccola
calle laterale.
Erano entrambi troppo eccitati, troppo felici e carichi di
energia per pensare di rientrare. Così decisero di perdersi tra
campielli, porteghi e calli, lasciandosi guidare solo dalla notte a
da quel sole che, dentro di loro, illuminava quei momenti
magici.
Ad un tratto si fermarono e, seduti sui gradini di una chiesa,
assistettero allo spettacolo della notte che si mutava in un
accenno di alba, con un caleidoscopio di sfumature.
«Forse sarebbe il caso di tornare» si riscosse Lorenzo.
«Già», confermò lei, con poca convinzione, ma alzandosi
lentamente in piedi.
La riaccompagnò verso l’albergo che già i primi bar e
panifici aprivano le serrande.
«Che ne dici di un croissant e un cappuccino?» le chiese.
«Che sarebbe perfetto per salutarci» rispose Olimpia,
rendendosi improvvisamente conto che cominciava ad aver
fame.
Con una sferzata di dolci calorie, si ripresero entrambi e si
diedero appuntamento per la sera.
Ritornata in camera, Olimpia, pur cercando di essere il più
silenziosa possibile, non poté non svegliare Laura.
«Scusami», le disse «ma ho cercato di fare più piano che ho
potuto», cercò di giustificarsi.
«Oh! Non ti preoccupare» si stiracchiò l’amica, ancora un
po’ assonnata. «Ho fatto tardi anch’io, ieri sera, ma poi mi sono
addormentata come un ciocco».
«Un piacevole dopo concerto?» tentò di sondare Olimpia.
«Ho scoperto che il violino è una fonte di meravigliose
sensazioni» rispose Laura illuminandosi tutta.
«Ah! Ah!» esclamò «Mi fa piacere. E ci sarà un seguito?»
«Può darsi» fece con aria misteriosa.
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«Per il momento devo andare a lezione».
«Ci pensi, Laura» continuò Olimpia, che aveva voglia di
parlare, «come sarebbe bello se potessimo formare un bel
quartetto?!»
«Chissà…forse. Ma io non credo proprio di essere così
cotta, innamorata persa come te. Non mi dispiace stare con
David, ma da qui a fare dei progetti a lungo termine, ce ne
corre!» concluse mentre si chiudeva nel bagno.
Anche Olimpia, di lì a poco, si preparò e andò a lezione.
Nonostante meccanicamente riuscisse a seguire la traduzione e
il commento dei Catulli carmina, prendendo appunti sintetici e
veloci, non poteva fare a meno di uscire, ogni tanto con la
mente, dall’aula Besta, per ripercorrere l’itinerario notturno
appena concluso. Quando alla mensa ritrovò le amiche di
Ferrara, queste la apostrofarono con un: «Non credevamo di
vederti, dopo una serata come quella di ieri!»
«Perché?» chiese incuriosita.
«Non mi dirai che non sei stata al concerto di Lorenzo?»,
ironizzò Paola.
«E voi come lo avete saputo?», si meravigliò Olimpia.
«Ce l’ha detto un passerotto!» fece l’amica.
«Ma dai» intervenne un’altra «abbiamo incontrato Lorenzo
e l’abbiamo visto un po’ trasognato con un accenno di occhiaie
del colore dei suoi capelli. Così ci ha raccontato dei successi
musicali e non solo…» lasciò in sospeso.
«Beh! Allora sapete già tutto» concluse Olimpia, che
avrebbe preferito tenere per sé ancora per un po’ la sua
magnifica storia.
«Cosa c’è? Forse abbiamo scoperto qualcosa che non volevi
rivelare?», proseguì Paola col suo tono inquisitorio.
«Assolutamente no. Solo avrei preferito parlarvene io con
più calma e magari più in là.» volle chiarire.
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«Certo che hai fatto Bingo!» la complimentò una delle
amiche. «Un ragazzo così non si trova negli ovetti Kinder!»
«Non è che possiamo andare al caffè concerto anche oggi?»
tentò Paola, alludendo al loro primo incontro col violinista.
«Mi dispiace, ma Lorenzo è impegnato fino a sera»
comunicò Olimpia, non poi troppo dispiaciuta, se questo
voleva dire evitare che Paola ci riprovasse con i suoi sguardi
sexy.
Le settimane seguenti furono abbastanza frenetiche, in
quanto Lorenzo era impegnato ogni giorno con le prove per il
concerto successivo e Olimpia aveva deciso che, forse, sarebbe
stato meglio cominciare ad aprire i libri degli esami che voleva
dare in primo appello.
Visto che anche Lorenzo doveva lavorare, tanto valeva
impiegare quelle ore vuote in modo proficuo.
Ovviamente anche il secondo concerto fu un successo e
questo fece salire le quotazioni del trio Musica Viva.
Ciò che fu importante di quel secondo appuntamento
musicale e lo rese solenne per Olimpia fu la conoscenza di
Giuliano e Marilena, fratello e cognata di Lorenzo.
Al termine del concerto, dopo aver ricevuto complimenti a
destra e sinistra, Lorenzo si liberò prima che poté dalle tante
persone del pubblico che desideravano da lui un autografo o
una stretta di mano e, trovata Olimpia che chiacchierava
allegramente con Laura e don Giovanni, la guidò verso il fondo
della sacrestia dove Giuliano e Marilena attendevano con
curiosità di conoscerla.
Lorenzo aveva calcolato tutto: aveva voluto che
quell’incontro avvenisse in quell’occasione particolare, ma
tenendosi un po’ in disparte da un pubblico di estranei o quasi.
«Ecco, Olimpia, questi sono mio fratello Giuliano e sua
moglie Marilena» disse semplicemente.
Una stretta di mano forte e cordiale le comunicò la decisa
personalità di quello che sembrava il positivo di una foto, di cui
151
Lorenzo era il negativo. Infatti, Giuliano era sì, alto anche lui,
ma più robusto e con una composta chioma bionda dal taglio
accurato. Gli occhi avevano uno sguardo aperto, franco e
accattivante. Infatti, le prime parole che le rivolse furono di una
familiarità totale.
«È un enorme piacere conoscerti finalmente! Non puoi
immaginare quanto ci ha riempito la testa questo geniaccio con
i suoi “Olimpia fa, Olimpia dice, vado con Olimpia”. Ora che ti
conosco, ho un’ulteriore conferma del gusto raffinato di mio
fratello. Bravo Lorenzo!» esclamò poi, prendendolo
sottobraccio «non fartela scappare!»
Marilena le apparve subito di una dolcezza contagiosa. Era
una quarantenne la cui età era naturalmente scontata dalla
statura non troppo elevata e dalla corporatura minuta. I capelli
rosso Tiziano, perfettamente intonati alle deliziose efelidi,
davano al suo viso dalla carnagione chiara, un’aria di
innocenza infantile.
Con la più assoluta spontaneità Marilena la abbracciò e le
posò due baci sulle guance.
«Anch’io, sai, avevo tanta voglia di conoscerti», le
comunicò.
Olimpia non sapeva come contenere la gioia di
quell’incontro, ma la naturalezza di Marilena le fu di grande
aiuto, perché le cominciò a chiedere notizie della sua città,
Ferrara, che disse di conoscere abbastanza bene e di apprezzare
per la sapiente distribuzione di tanti tesori architettonici pur in
un contesto urbano di così breve respiro.
«Sai, ricordo» continuò «come sono rimasta sorpresa una
volta che ebbi la fortuna di sorvolare a bassa quota la città.
Quante piante, quanti giardini, quante isole di verde sono
nascoste da austere facciate di antichi palazzi».
«Già» confermò Olimpia, ora molto più sollevata e a suo
agio «sembra che questa struttura urbanistica corrisponda al
carattere dei ferraresi: non passiamo per gente molto
152
estroversa, ci teniamo dentro le cose, ma, se si riesce a trovare
la chiave giusta per entrare in sintonia, credo che non
manchino le sorprese, piacevoli sorprese. Proprio come quando
apri il portone di un palazzo e ti affacci sul verde di un parco o
di un giardino, insospettabili dalla strada.»
La chiesa dove si era tenuto il concerto era in una zona di
Venezia che Olimpia praticamente non conosceva, ma, quando
approdarono tutti al “Fogher”, il ristorante prenotato per la
cena, si sentì stranamente come a casa propria.
Laura alternava le sue confidenze a qualche battuta ora con
David ora con Giacomo, il violoncellista.
Quando alla fine della serata si salutarono tutti, Giuliano e
Marilena la invitarono a cena da loro la sera dopo, per avere il
piacere della sua compagnia.
«Il piacere sarà quantomeno reciproco» si accomiatò
Olimpia.
Mentre Lorenzo la accompagnava nel salire la scala che
portava all’appartamento del fratello, le rivelò che l’incontro
della sera precedente aveva lasciato un segno indelebile sia in
lui che nella moglie.
«Cosa vuoi, è così facile, al giorno d’oggi, trovare delle
belle ragazze, tanto belle, quanto poco adatte a chi, come me, si
ritiene un giovane anomalo, per questo tipo di società».
Salivano adagio i gradini per terminare quelle confidenze e
Lorenzo proseguì: «Forse Giuliano e Marilena non sanno che
io mi sono accorto da tempo di come mi spiassero con ansia,
come cercassero tra le mie numerose amicizie quella che
avrebbe potuto diventare qualcosa di più.
Giuro che avrebbero scommesso che mi sarei innamorato di
una compagna del conservatorio e invece…»
«E invece» lo interruppe Olimpia «anche se fu galeotta la
musica, non potevi trovare una più lontana di me dalle note».
«Ma come» le chiese, fermandosi a metà dell’ultima rampa
di scale «se hai una così squisita sensibilità musicale?»
153
«Oh! Questo può anche essere,. Grazie» confermò «ma sono
solo una fruitrice della musica. Pensa che sono talmente stonata
che, se canto, riesco a beccare le note comprese tra i tasti
bianchi e quelli neri del pianoforte!»
Lorenzo proruppe in una risata così spontanea e sonora che
provocò l’apertura della porta e la comparsa di Giuliano, che
esibiva un’aria stupita e interrogativa.
Quando Lorenzo gli rivelò il motivo della sua ilarità, anche
il fratello ne fu contagiato. Così quella, che fu la prima delle
tante cene che seguirono, si aprì nel segno della più spensierata
allegria.
I mesi estivi furono occupati da alcuni esami, che ebbero
esito più che soddisfacente, da alcune fughe a Venezia, dalle
quali tornava sempre più innamorata e felice. La sua gioia si
specchiava in quella di Lorenzo, che non finiva mai di stupirla
con le sue attenzioni, le sue gentilezze che ne facevano un
esemplare unico. Quando si confrontava con le amiche o
sentiva quello che dicevano dei rapporti tra i giovani i giornali
o i vari format televisivi a sfondo più o meno sociologico
virato al gossip, Olimpia si riteneva davvero baciata dalla
fortuna: era certamente impensabile, ad esempio, che Lorenzo
potesse prendersi qualche “vacanza” puramente sessuale.
I valori e i sentimenti che improntavano la sua vita erano solidi
come il Ponte di Rialto. In lui non c’era traccia di quelle
insicurezze, ambiguità, indifferenza che parevano invece
diffondersi sempre più tra i loro coetanei.
Ad agosto ricevette una telefonata da Laura che la invitava
al mare da lei insieme a Lorenzo. Per fortuna, verso la prima
metà del mese, gli impegni musicali gli lasciarono una
settimana libera e così accettarono l’invito.
Nonostante la vacanza, però, Lorenzo non poteva certo
lasciare a riposo il suo strumento, così, la mattina era quasi
totalmente dedicata allo studio.
154
Un mattino, mentre dopo una serie di esercizi, Lorenzo si
dilettava nell’eseguire qualche pagina d’autore, sentirono
suonare il campanello.
Aperta la porta, Laura si trovò di fronte ad un giovane
vicino di casa, un ragazzo quasi diciottenne, che sapeva
dedicarsi anche lui alla musica.
«Ciao, Laura» esordì.
«Ciao, Michele» lo salutò con sorpresa.
«Ho sentito un violino o sbaglio?» chiese.
«Sì, vieni avanti», lo invitò Laura.
«È un mio amico di Venezia che sta tenendosi in esercizio,
prima di un concerto.» e, facendogli strada, lo introdusse in
salotto.
«Lorenzo, ti presento un mio vicino musicista» disse Laura
presentando i due giovani.
«Ciao» esordì Lorenzo stringendo la mano che Michele gli
porgeva. «Cosa suoni?» gli chiese con familiarità.
«Dire che suono è forse un po’ azzardato, comunque studio
pianoforte» rispose con una punta di timidezza.
«Bene! Che ne diresti di fare qualcosa insieme?» propose
subito Lorenzo.
«Grazie della proposta, ma non mi sento proprio all’altezza,
rischierei di ferire il tuo senso musicale» si schermì Michele,
scuotendo con decisione la testa e facendo ondeggiare le
bionde ciocche di capelli, che portava alquanto lunghi.
«Ma dai!» intervenne Laura, sarebbe bellissimo sentirvi
insieme!»
«Magari!» ribadì Olimpia, che osservava con interesse
quelle schermaglie in punta di spartito.
«Beh! Se proprio volete mettermi alla gogna» si decise
«dobbiamo trasferirci da me».
«Con vero piacere!» accettò Lorenzo, mentre raccoglieva
violino e spartiti.
155
Michele abitava nella casa di fronte e, appena entrata, la
piccola compagnia notò subito il pianoforte che troneggiava
vicino alla finestra, dispiegando una elegante coda.
«Ma è uno strumento meraviglioso!» esclamò Lorenzo
avvicinandosi e liberandosi le mani. «È un bellissimo
esemplare dell’800» si esaltò, aprendo la tastiera e sedendo
sullo sgabello.
«Grazie,» rispose Michele «sì, ha un suono molto caldo e
avvolgente»
Lorenzo posò le mani sui tasti e accennò a qualche
passaggio, a qualche accordo che amplificò con il pedale.
«Ah! Ecco, per forza è così seducente: è un Anelli. Era una
fabbrica prestigiosa di Ancona, logico quindi trovarlo qui:»
Poi si sciolse in lontani ricordi e si impegnò in un Chiaro di
luna che lo stesso Beethoven avrebbe apprezzato.
«Non mi dirai che suoni anche il piano?» si stupì Laura.
«Per forza, per diplomarmi in violino ho dovuto studiarlo
ben cinque anni. In realtà, per me sono stati anche qualcuno in
più. Anzi, sai che all’inizio del mio percorso di studi musicali
avevo proprio avvicinato prima il pianoforte? Il violino è
venuto dopo, ma poi è stato un amore fedele» concluse con un
sorriso, mentre si ravviava le ciocche più indisciplinate dalla
fronte e si alzava per lasciare il posto a Michele.
«Ma chi ha più il coraggio di strimpellare adesso di fronte a
te?» fece il ragazzo con aria sconsolata.
«Ma guarda che tu tra qualche anno saprai suonare anche
molto meglio di così» lo incoraggiò Lorenzo. «Dai, facci
sentire qualcosa per scaldarti le mani», lo invitò
Michele, dopo un momento di raccoglimento, chiuse gli
occhi ed eseguì alcune pagine delle Sonate di Clementi, un
valzer di Chopin e una breve sonata di Scarlatti.
«Ma complimenti!» esclamò Lorenzo, balzando dalla
poltrona e battendogli qualche affettuosa pacca sulle spalle.
«Hai proprio del talento. Per essere così giovane, hai saputo
156
interpretare al meglio la musica che hai suonato, sia come
tecnica che come resa emotiva!»
Poi, mentre Michele rassicurato da tali elogi, si rimetteva
alla tastiera, Lorenzo lo seguì col violino, improvvisando
accompagnamenti virtuosistici su pagine di Bach.
Quell’estemporaneo concerto mise tutti di buon umore e
decisero di festeggiare con un’altra improvvisazione, questa
volta di tipo gastronomico.
«Niente di meglio che un bel piatto di spaghetti
all’amatriciana!» propose Laura entusiasticamente.
La proposta fu accettata all’unanimità, soprattutto quando
rivelò che l’autrice del sugo era stata la mamma che,
preoccupata che soffrisse la fame, prima di andare in vacanza,
le aveva riempito il frigo da farlo scoppiare.
Lorenzo era felicissimo di aver conosciuto un ragazzo che,
pur così giovane, non inseguiva le rock star e non si
rimbambiva ai ritmi ossessivi delle discoteche, ma “sentiva”
veramente la musica e la eseguiva non solo con le mani, ma
soprattutto col cuore.
Così. Ogni giorno, dopo essere stati alla spiaggia, la
Sassonia, come la chiamavano i locali, e aver nuotato almeno
per una buona mezz’ora, tutti rientravano: Michele e Lorenzo
si perdevano tra le note e Laura e Olimpia, spesso, si
divertivano in cucina o se ne andavano a spasso, tra vetrine e
bancarelle.
Furono dieci giorni di gioia solare e piena. Cosa poteva
desiderare di più, visto che era in vacanza al mare con l’amica
carissima e colui che ormai le era entrato prepotentemente nel
respiro e in ogni cellula?
Ma poiché ogni cosa mortale ha una fine, arrivò anche il
giorno del rientro. Le due amiche si sarebbero ritrovate a
novembre.
Lorenzo riprese le prove per i concerti che lo attendevano e
lei si rimise a sudare sui libri per gli esami di ottobre.
157
Spesso si ritrovava con le amiche che stavano preparando
gli stessi esami e, nelle pause caffè, il discorso non poteva non
cadere su Lorenzo. Questi flash avevano il potere di produrre
in Olimpia un effetto presenza quanto mai tonificante.
Quando a novembre iniziò il secondo anno accademico,
facendo un bilancio consuntivo si sentì pienamente soddisfatta:
considerati i due esami che avrebbe sostenuto a febbraio, era
alla pari col piano di studio presentato; sul fronte affettivo, la
situazione non poteva essere più promettente; i rapporti
familiari erano tranquilli e, nonostante in casa si vociferasse di
una simpatia veneziana, le indagini materne non erano troppo
ossessionanti.
Quando Lorenzo era a casa, Olimpia divideva il suo tempo
tra lui e le lezioni.
Quell’anno novembre era particolarmente opprimente: brevi
giornate grigie si alternavano a lunghe notti bagnate da nebbie
sempre più fitte.
Lorenzo era spesso impegnato nel suo giro di concerti che lo
portavano in diverse città d’Italia, dal nord al sud.
Durante un intervallo di una settimana, nella quale fecero
tesoro di ogni minuto per stare insieme, un mercoledì a pranzo,
le propose un pomeriggio letterario.
«Sai, oggi pomeriggio, c’è la presentazione dell’ultimo libro
di un autore nostrano. Non so se lo conosci, Giulio Claudio
Erneti.»
«No» rispose incuriosita «non ho mai letto niente di suo.
Cosa scrive?»
«Beh! Non è solo un narratore, anzi. Veramente lui è un
archeologo, un profondo conoscitore del mondo antico e
quando ne scrive si sente la partecipazione con cui vive le
vicende che inventa. Ovviamente la cornice storica entro cui le
colloca è quasi un libro di testo, tanto è documentata e
attendibile».
158
«Caspita!» esclamò Olimpia «mi hai davvero incuriosita.
Andiamoci, allora!»
«Se vuoi farti un’idea del genere letterario di Erneti,
guarda» continuò Lorenzo, alzandosi dal tavolo di cucina e
andando a togliere dalla libreria della sala uno dei libri «questo
è il suo precedente romanzo “Le armi dell’oplita”, concluse,
porgendole il volume sulla cui copertina campeggiava uno
splendido corredo di armi sullo sfondo di un tempio dorico.
Olimpia lo prese e cominciò a sfogliarlo lentamente.
«Quanto tempo mi dai per leggerlo?» gli chiese ironica.
«A me sono bastati cinque giorni» rispose, cominciando a
sparecchiare.
«Allora vedrò di battere il tuo record, tanto più che sarò
proprio sola i prossimi giorni»
Con affetto e tenerezza Lorenzo la abbracciò e: «Ti lascio in
buona compagnia, ti assicuro» le sussurrò, accennando al
romanzo.
Quando arrivarono alla libreria, c’era già parecchio pubblico
che aveva preso posto nelle prime file. Per fortuna, trovarono
due sedie libere dietro alcune signore non troppo alte di statura.
Un individuo dall’aspetto severo presentò l’autore
all’uditorio e, fortunatamente, non si dilungò troppo nel
recitare come una litania il curriculum letterario e culturale di
Erneti. Anche lo scrittore fu assai sintetico nell’esporre il
quadro storico alla base della storia.
«Mi scusi per la curiosità» intervenne poi una giovane
signora del pubblico «ma potrebbe spiegarci qual è stata la
scintilla che le ha ispirato questo nuovo lavoro?»
«Certo. Durante una campagna di scavi alla quale sto
lavorando in Tunisia, quindi, come vede, lontano dai luoghi del
romanzo, sono emerse delle lapidi con alcune iscrizioni. Non
tutte erano integre e leggibili, ma due di queste riportavano i
nomi di due personaggi che mi hanno subito preso ed è stato
facile per me immaginarli vivi, in carne ed ossa anche se in
159
altre zone del Mediterraneo. Gli intrighi, i tradimenti, la lealtà
che caratterizzano i tanti personaggi secondari li ho potuti
trovare anche ai nostri giorni e così è nato il libro.» Concluse
con naturalezza.
Un’altra mano alzata segnalò una nuova domanda in arrivo.
«Prego» diede la parola il presentatore.
«Dottor Erneti, quando scrive un romanzo o un racconto,
cosa le dà più piacere: creare un personaggio che, le assicuro,
per il lettore, almeno per me, diventa reale e coinvolgente,
oppure il ricostruire un momento storico, con tutto ciò che
comporta? Voglio dire, non si tratta solo della Storia con la S
maiuscola, ma di quella fatta di una piccola quotidianità.
Grazie!» concluse un anziano, distinto signore.
«Le dirò» cominciò a rispondere, dopo una breve esitazione
«non riesco a separare i due campi, perché i personaggi cui do
vita (la ringrazio per il complimento), non sarebbero quello che
sono, avulsi dal loro contesto storico, pertanto la creazione
psicologica e l’ambientazione storica procedono di pari passo.
È ben vero che un Pelagio, una Aglaia, un Vel Aules sono
proprio figli miei, mentre per le vicende politiche, le situazioni
sociali devo solo documentarmi e cercare di essere obiettivo e
verosimile. Ma, in sostanza, diciamo che costituiscono per me
un tutt’uno».
Terminato l’incontro, Lorenzo e Olimpia si avviarono verso
l’uscita, non senza aver prima acquistato una copia di
“Passaggi”.
«Chi lo legge per primo?» le chiese appena usciti.
«Tu, visto che io sono alle prese con “Le armi dell’oplita”»
rispose mentre si avviavano verso casa.
Qualche sera dopo li attendeva un importante evento
musicale: un concerto di Salvatore Accardo alla Fenice. Fu una
vera festa, condivisa con Laura e gli altri musicisti del gruppo.
Era la prima volta che tornavano nel luogo in cui si erano
conosciuti solo pochi mesi prima. Ovviamente per i musicisti
160
quella fu una serata storica, che si concluse con l’incontro con
il maestro per complimentarlo e avere con lui uno scambio di
opinioni tecniche.
Alternando studio e lettura, in poco più di dieci giorni
Olimpia terminò il libro di Erneti e, quando quella sera andò a
cena da Lorenzo, glielo riconsegnò.
«Allora, che ne pensi?» le chiese mentre le riempiva il
bicchiere di vino novello.
«Mi ha conquistato» fu la lapidaria risposta. Ma poi
proseguì con entusiasmo: «Ha un modo di scrivere di una
immediatezza unica: sa essere semplice ma non banale e
inaspettatamente ti sorprende con immagini di una poeticità
emozionante. Senza contare che rende moderni e universali i
personaggi che crea. Quando descrive il mercato al quale si
reca il protagonista, sembra di leggere un libro di storia, tanta è
la precisione delle descrizioni. Riesci a vederti davanti agli
occhi gli oggetti che Vel Aules tocca: pare di trovarsi in un
documentario della BBC».
«Basta, basta, ho capito che ti piace questo genere di
narrativa!» la fermò Lorenzo, sopraffatto da tanto entusiasmo.
«Spero che finirai in fretta “Passaggi”, perché sono ansiosa
di proseguire la conoscenza di questo autore» lo invitò.
«Tranquilla: tra qualche giorno te lo passo. Vedrai che…»
«Non dirmi niente» lo bloccò «voglio scoprirlo da sola».
E prima delle vacanze di Natale lo scoprì: si accorse che il
mondo greco, che tra l’altro stava studiando per l’esame di
storia antica, non era fatto solo di guerre, di duelli, ma anche di
uomini dotati di sentimenti universali e di un solido, istintivo
amore per il bello, l’ordine, l’equilibrio.
«Più conosco la civiltà greca;» confidò a Lorenzo,
rendendogli il volume, dopo l’avvincente lettura «più mi sento
orgogliosa di appartenere anch’io in fondo a quella patria
lontana. Le nostre radici sono là, anche se più o meno mutuate
dalla romanità»
161
«Certo» confermò lui «sono stati proprio i greci che hanno
considerato l’uomo misura di tutte le cose. Qualsiasi disciplina,
qualsiasi cosa tu pensi, sono stati loro a inventarla o studiarla a
fondo».
«È per questo che mi affascinano i libri di Erneti, perché ci
sento lo stesso amore che provo io per quel popolo» concluse
Olimpia.
Spesso Laura riceveva telefonate da Michele, che la pregava
di salutare i suoi amici nella speranza di rivederli presto.
A febbraio, una sera, il ragazzo le comunicò che la
settimana dopo sarebbe arrivato a Venezia in gita scolastica e
sarebbe stato felice di incontrarli tutti. Quando Lorenzo lo
seppe, fu entusiasta e fece in modo di tenersi la giornata libera.
«Michele!» gridò Laura, quando lo vide scendere dal treno,
circondato da una masnada di coetanei, tutti rigorosamente
zainati Invicta.
«Laura! Olimpia! Lorenzo! Che piacere rivedervi» esultò
abbracciandoli con lo sguardo.
«Che programma avete?» si informò Laura, scendendo i
gradini della stazione.
«Oh!» Non so cosa faranno loro «rispose noncurante
Michele indicando il gruppo che lo precedeva «io preferisco la
vostra compagnia, se volete sopportarmi. Comunque dobbiamo
prendere il treno delle 19».
«Ma non puoi allontanarti così…» lo ammonì Lorenzo.
«Veramente sono appena diventato maggiorenne, quindi…»
si vantò Michele.
«Aspetta, aspetta un momento: quella là davanti non è la
Cadorini?» chiese Laura indicando una delle accompagnatrici.
«La conosco bene, l’ho avuta anch’io come prof di lettere!
Andiamo a salutarla!» invitò tutti.
Grazie ai buoni rapporti che Laura ricordava di aver sempre
avuto con l’ex insegnante, riuscirono a strapparle il permesso
162
di accompagnare Michele in giro per Venezia, promettendo
solennemente di riportarlo all’ora della partenza.
Lorenzo fu impeccabile nel suo ruolo di cicerone, anche
perché arricchiva e vivacizzava le notizie puramente culturali e
artistiche con episodi di vita quotidiana curiosi e insoliti.
Quando la sera si salutarono, Olimpia sentì nell’abbraccio di
Michele una commozione intensa che attribuì alla sensibilità
tipica di un musicista, quale lui era senza dubbio.
Con la primavera, il sole invitava ad uscire e confondersi
con i turisti che calavano nella città in gruppi sempre più
numerosi.
Un pomeriggio in cui il cielo sereno combatteva contro scuri
e minacciosi cumuli, che a tratti oscuravano il sole, scesero dal
Ponte delle Guglie in una zona segnalata dai gialli cartelli
turistici come Ghetto.
Lorenzo si accorse dell’interesse con cui Olimpia guardava
quei cartelli scritti, oltre che in italiano, anche con lettere
ebraiche, così le chiese: «Hai mai visitato una sinagoga?»
Olimpia lo guardò con attenzione, mentre finiva di dare
ascolto ai ricordi d’infanzia che all’improvviso si erano
affollati nella sua mente.
«Questa, no» rispose «ma sono stata tante volte da bambina
in quella di Ferrara. Mio padre e mio nonno erano, sono ebrei e
a settembre andavo ad assistere alle cerimonie di Rosch
HaShana e di Yom Kippur. Mi affascinava ascoltare il rabbino
e vederlo ondeggiare mentre recitava i brani della Torah
previsti dal culto.»
Le piaceva raccontare queste cose del suo passato a
Lorenzo, era come rivelarsi a lui sotto un aspetto nuovo.
La cosa, infatti, lo stupì e Olimpia ebbe un sussulto: «Ti ho
sorpreso? Forse la tua fede così sicura ti fa preoccupare di
esserti innamorato di una mezza giudia?»
«Ma non dire fesserie!» la bloccò subito «Ho la più grande
ammirazione e un enorme rispetto per l’ebraismo, anche perché
163
è da lì che deriviamo noi cristiani. Anch’io, nonostante tutto,
sono sempre stato interessato alla conoscenza di questo antico
monoteismo. E per fortuna, anche i vari sacerdoti che ho
frequentato non erano certo eredi di quelli che un tempo
chiamavano gli ebrei “perfidi giudei”. E così, io che credevo di
poterti insegnare qualcosa, imparo invece da te che hai visto
dal vivo certe cerimonie. E poi, raccontami ancora!» la invitò.
«Cosa vuoi che ti dica? Mi ricordo che a Kippur mia nonna
preparava un tavolino dove, su una candida tovaglia, disponeva
una melagrana, una mela cotogna, una pera e un bicchier
d’acqua, coperto da un altrettanto candido tovagliolo. Su tutto
questo, poi, spargeva una manciata di chicchi di grano.
I simboli rappresentati da quei frutti allora non li conoscevo,
ma ricordo che aspettavo con ansia che lo Shoffar suonasse la
fine del digiuno per appropriarmi della melagrana che
spilluzzicavo con gusto».
Quanto tempo era che non lasciava parlare questi ricordi,
che non risentiva il gusto dolce e aspro dei chicchi di rubino di
quel frutto autunnale!
Così si ritrovarono all’interno della sinagoga con qualche
altro turista.
Com’era diversa questa da quella di Ferrara! Nei suoi
ricordi, quella di casa risplendeva del bianco delle pareti
assolutamente spoglie, se non per alcuni stucchi monocromi,
mentre questa, caso quanto mai strano, era invece decorata con
stucchi dai diversi colori.
Con l’inizio della primavera Lorenzo fu sempre più
impegnato non solo per concerti, ma anche per registrare alcuni
dischi, cosa che lo portava per diversi giorni a Milano insieme
ai suoi colleghi.
Olimpia aveva già imparato ad utilizzare queste giornate
vuote, per mettersi avanti con la preparazione di alcuni esami,
ma ciò non le impediva di andare anche un po’ a zonzo con
Laura che, come lei, a volte, si sentiva un po’ sola.
164
Già cominciavano a pensare alle prossime vacanze.
«Hai già fatto qualche progetto con Lorenzo?» le chiese un
giorno l’amica.
«Veramente no. Anche perché non sappiamo ancora quali
impegni avrà. «Rispose.» E tu? «chiese a sua volta.» Starai un
po’ con David?»
«Può darsi che qualche giorno insieme lo passeremo»
«Ti andrebbe di fare una vacanza a quattro?» la apostrofò
Olimpia «O preferite fare i piccioncini?»
«In gruppo non mi dispiacerebbe» rispose con convinzione.
La scelta della meta richiese parecchio: ognuno proponeva
qualche località, lei aveva buttato lì timidamente una Grecia,
ma poi emergevano remore, difficoltà o altri impedimenti. Alla
fine qualcuno suggerì: «E se andassimo a Roma?»
Certo non ci sarebbe stato da annoiarsi, ma, al contrario, non
sarebbe stato un po’ troppo stressante il traffico della capitale
per chi era ormai abituato al liquido scorrere del tempo sulla
laguna?
«Sai, che a dire la verità» cominciò David «io a Roma non
sono mai stato? È il colmo: ho viaggiato per tutta l’Europa,
ormai, e ancora non conosco casa mia!»
Lorenzo lo appoggiò, aggiungendo: «Io ci sono stato varie
volte,invece, ma ti assicuro che è sempre una nuova emozione
tornarci».
Laura, forse contagiata da quelle parole affermò: «Allora,
visto che siete già in due ad essere d’accordo, mi ci metto
anch’io, così Olimpia non potrà farci cambiare idea.
Io sono stata a Roma solo tanti anni fa, praticamente da
bambina e l’unica cosa che ricordo bene è la voglia di tornare
che mi prese al momento della partenza».
«Bene, e Roma sia» suggellò Lorenzo, alzando il bicchiere
per un brindisi.
165
La sola cosa che restava da decidere era la durata della
vacanza, cosa che dipendeva, non solo dagli impegni di lavoro
dei musicisti, ma anche dal budget, in particolare delle due
amiche.
Quando all’avvicinarsi dell’estate si fissarono le date dei
concerti, risultò che una settimana alla fine di luglio sarebbe
saltata fuori.
Fatti un po’ di conti, realizzarono di che cifra avrebbero
avuto bisogno e ci fu un gran daffare per riuscire a racimolare
qualche foglio di filigrana per non dover dipendere totalmente
da elargizioni familiari.
Laura, che era un tipo quanto mai estroverso e fantasioso,
riuscì a trovare qualche negozietto che cercava commesse per il
periodo pasquale e primaverile.
Anche Olimpia scovò qualche attività remunerativa: lezioni
private, servizio di dog sitter.
Così, terminati gli esami, preparati rubando anche tempo al
sonno e alle uscite con i compagni, ebbero a disposizione una
piccola somma che permise loro di presentare a casa la
richiesta di un “contributo vacanze” con la coscienza a posto.
Mentre per Laura non c’erano problemi, in quanto la
famiglia le lasciava la più ampia libertà, Olimpia dovette
rendere conto di dove andava, con chi, perché, per quanto
tempo.
Prevedendo l’inevitabile terzo grado, già subito dopo aver
deciso la vacanza, si sentiva inquieta e infastidita. Lorenzo
aveva colto, dal suo comportamento, che c’era qualcosa che la
impensieriva e così la invitò esplicitamente a parlarne insieme.
«Perché non mi dici cosa ti preoccupa? Non pensi che
dovremmo condividere anche le cose meno piacevoli? O non
ritieni che sia in grado di aiutarti in qualche modo?»
«Oh! No» lo rassicurò Olimpia «tu sei fantastico, sempre,
ma mi rompe doverti raccontare che palle mi fanno venire i
miei in certe occasioni» finì con lo sfogarsi.
166
«A proposito di che?» volle sapere.
«Ma della prossima vacanza estiva!» sbottò «Ma tu pensa se
ormai ad uno sputo dal 2000, una maggiorenne e vaccinata
deve ancora essere sottoposta ad un interrogatorio per sapere
cosa farà, dove andrà, perché…»
«Capisco che la cosa ti innervosisca» la interruppe Lorenzo
col suo tono calmo e rassicurante «ma, in fin dei conti,
vogliono solo saperti sempre al sicuro».
«Dai, Lorenzo, mi sembri proprio i miei che, quando
capiscono di essere andati un po’ troppo oltre, si giustificano
dicendo che loro lo fanno per il mio bene, perché non vogliono
che mi capiti nulla di male «lo bloccò lei, imitando la voce e le
movenze dei familiari.
«Considera, poi,» continuò Lorenzo «che non conoscono né
Laura né David e nemmeno il sottoscritto, quindi per loro
potremmo essere anche un’accolita di tossici ribelli».
Al sentire paragonare i suoi amici ad una compagnia di
disadattati asociali, Olimpia scoppiò a ridere, contagiando
anche lui che, ridiventato serio, proseguì: «Sai cosa si potrebbe
fare? Potremmo invitarli qui a Venezia per un giorno e andare
a pranzo insieme. Cosa ne dici?»
«Vedi?» rispose «Tu sai sempre trovare la soluzione
migliore» fu la sua risposta.
«In questo caso non è stato poi così difficile» si schermì
Lorenzo,» anche perché era già da tempo che pensavo di
chiederti di conoscere i tuoi. In fin dei conti, tu i miei li hai già
conosciuti, almeno una parte. I miei genitori ti salutano sempre,
quando ci sentiamo e penso che, al ritorno dalla vacanza,
verranno in Italia per un po’, così ti potranno incontrare.
Volevo farti una sorpresa, ma, come vedi, mi è scappato detto
«terminò abbracciandola.
Olimpia era rimasta esterrefatta dalla notizia e non seppe far
altro che rispondere di slancio all’abbraccio di lui.
167
Così, un sabato di aprile, tutto il quartetto si presentò alla
stazione a ricevere i suoi genitori.
Fin dalle presentazioni, Olimpia capì che, soprattutto David
e Lorenzo, cercavano in mille modi di offrire di sé
un’immagine quanto mai positiva e tranquillizzante.
E ci riuscirono in pieno.
Contrariamente alle aspettative, anche lei finì col divertirsi,
senza sentirsi costantemente sotto inchiesta.
Tra la cordialità signorile di Lorenzo, la spontaneità
contenuta di David, l’estrosità di Laura non disturbava più di
tanto, anzi…
Dopo un pranzo semplice ma gustoso alla “Rosa Rossa”,
Lorenzo propose un caffè a casa sua, ben sapendo che
l’ambiente raffinato avrebbe fatto una gran buona impressione
sui “senior”.
Quando nel pomeriggio riaccompagnarono i coniugi
Alessandri al treno, l’atmosfera che si era creata nel gruppo era
certo molto più distesa e amichevole.
«Allora, ragazzi, buona vacanza. Divertitevi e non scolatevi
troppo Frascati! «si congedò il padre, mentre stava già salendo
sul treno.
«Beh! Abbiamo rotto il ghiaccio e non è stato poi così
drammatico, no?» chiese Lorenzo per sondare l’opinione degli
altri, uscendo dalla stazione.
Olimpia tirò un sospiro di sollievo: «Fhui! Anche questa è
andata e meno peggio di quanto temessi!» dovette riconoscere.
A mano a mano che si avvicinava il giorno della partenza,
gli amici cercavano di buttar giù un programma per riuscire a
visitare e veder il massimo possibile.
«Non ci muoveremo mai da Roma o faremo qualche puntata
nei dintorni?» si informarono Laura e David.
«Voi cosa preferite?» rimandò Lorenzo.
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«Forse uscire un po’ dal caos della capitale ci aiuterebbe a
rilassarci un po’, non trovate?» chiese David, guardandosi
intorno per osservare l’espressione degli altri.
«Ma certo. Tanto più che vicino a Roma ci sono Ostia,
Tivoli, Cerveteri…» cominciò ad elencare Olimpia.
«Frena, frena» la invitò Lorenzo «non abbiamo un mese a
disposizione!»
«Hai ragione, ma cosa vuoi? Vorrei vedere tutto,
immergermi in quel mondo che vorrei tanto aver conosciuto
quando era vivo e sonoro!» dovette riconoscere con
rammarico.
Ovviamente, prima di partire, tornò a casa per preparare la
valigia. Nel cercare un paio di comodi sandali nel ripostiglio, si
ritrovò a rovistare tra le tante scatole e scatoloni dove, da anni,
venivano riposte le cose che si volevano conservare ma non
erano di uso comune e frequente.
Tra queste, l’apertura di una vecchia cassetta di legno le
provocò uno sfasamento da vertigine: c’erano in bella vista
vecchie foto di famiglia, dei bisnonni e nonni paterni, Con
un’emozione che da tempo non provava, si portò in camera
quel tesoro riscoperto e, seduta a gambe incrociate sul letto,
cominciò a vuotare lo scrigno.
I bisnonni non li aveva conosciuti, se non nelle fotografie
che i nonni tenevano sulla loro credenza. C’erano alcuni
biglietti di condoglianze, qualche vecchissimo telegramma, ma
tutto passò in secondo piano, quando si accorse che, sotto tutto
quel materiale cartaceo, c’erano qualche oggetto e qualche
piccola scatolina.
Da un sacchetto di carta estrasse una kipà nera, che le
ricordò le funzioni in sinagoga, quando il nonno la indossava.
Dentro una scatolina da gioielliere trovò uno shaddai in argento
e in un’altra un magen David. Quello lo ricordava bene: lo
aveva visto tante volte al collo del papà, quando, da bambina,
lui la faceva volare, prendendola in braccio.
169
Fu proprio quel reperto a farla riflettere: ma da quando il
papà non frequentava più la “scola”, come la chiamava il
nonno? Perché l’aveva tolta? Di questo non avevano mai
paratalo, né lei mai, prima di allora, se ne era chiesto il motivo.
Sempre assai superficiali e quasi obbligati dalla mamma
erano stati i suoi rapporti con la religione cattolica, per cui non
si era preoccupata affatto di sapere come la pensasse il padre.
Stava per riporre il tutto, quando, d’improvviso, come
ubbidendo ad un richiamo istintivo, tolse dal suo contenitore la
bella stella di David e le venne voglia di indossarla, insieme al
violino di Lorenzo. Quello che comunque non dimenticò mai di
fare fu di nasconderla sotto le magliette, per non innescare in
casa una sequela di domande da Sant’Uffizio.
Grazie ad alcune conoscenze, Lorenzo riuscì a trovare due
camere in una piccola pensione dietro S. Pietro.
«Ottima posizione» fu il commento del gruppo «Perfetto per
andare a Castel Sant’Angelo, ai Vaticani…» pensò subito
Olimpia, studiando la mappa della capitale.
E quando finalmente arrivò il giorno della partenza, tutti
erano elettrizzati: i due musicisti avevano già inaugurato con
strepitosi successi la stagione concertistica estiva; le due
amiche si erano liberate degli esami programmati, anche se non
tutti con il massimo dei voti.
«Ma che mi frega!» pensava Olimpia al proposito
«L’importante è eliminare il maggior numero di materie nel
minor tempo possibile».
Non vedeva l’ora di finire l’università, perché già si
immaginava, libera dallo studio, felice di pensare solo a
Lorenzo, di sposarlo e condividere la sua brillante carriera.
Laura, negli ultimi tempi, prima della partenza, quando le
sentiva fare questi discorsi, non sapeva che pensare: come
poteva una ragazza così intelligente, vivace, sentirsi
pienamente felice alla sola idea di vivere a fianco di un uomo,
augurandosi che fosse per tutto il resto della vita?
170
Lei, invece, attraversava un momento piacevole, sereno: il
suo rapporto con David non creava problemi a nessuno dei due.
Spesso si vedevano e stavano insieme, era esaltante far l’amore
con lui, ma se si chiedeva se avrebbe voluto che durasse per
sempre, si sentiva prendere dall’angoscia, da uno strano senso
di soffocamento. Forse anche perché sapeva che la sua laurea
l’avrebbe portata spesso all’estero e molto lontano, faceva di
tutto per non sentirsi avvinghiata da un sentimento esclusivo.
Tutto sommato le piaceva poter sempre contare su dei momenti
della giornata e su degli spazi solo suoi.
La sua indipendenza, aveva sempre pensato, non era in
vendita e non l’avrebbe mai scambiata con un sentimento
monopolizzante. Solo quando aveva capito che anche David
era un po’ come lei, era riuscita ad accettare di condividere con
lui il letto e parte del suo tempo.
La calda estate romana li accolse come peggio non avrebbe
potuto: un temporale da storia li bloccò sul grande raccordo
anulare. Dovettero attraversare anche alcune zone semi
allagate, mentre nel cielo fulmini, sempre più frequenti,
scoppiavano in veri e propri boati.
Trovato uno spiazzo libero da alberi e tralicci, che le folate
di un vento rabbioso avrebbero potuto trasformare in proiettili,
si fermarono ad attendere.
«Beh! Come inizio di vacanza non c’è male!» ironizzò
Lorenzo.
«Pensa che peggio di così non potrebbe essere, per cui ora
può solo migliorare» lo rincuorò David.
E in effetti, con la stessa velocità del lampo, il burrascoso
evento meteorologico cessò. In un batter d’occhio, il sole
trionfò e rese sfolgoranti edifici, statue, fontane. A tutti sembrò
che la città avesse voluto, anche se un pochino in ritardo e con
troppa forza, darsi una bella ripulita per festeggiare il loro
arrivo.
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Depositati i bagagli, passati sotto una tonificante doccia,
uscirono alla conquista della città.
Prima di partire avevano stilato un minuzioso programma
per ottimizzare il tempo e poter vedere tutto il possibile. Nel far
questo avevano anche cercato di conciliare i vari momenti della
giornata con i luoghi più adatti: il tramonto fu senza dubbio
esaltante dal Pincio; una mattinata fu piacevole perdendosi tra i
viali di Villa Borghese, dove poi rimasero tutto il giorno per
una full immersion di arte e archeologia alla Galleria omonima
e a Villa Giulia.
I primi giorni trascorsero febbrili ed avvincenti, soprattutto
per Olimpia che avrebbe voluto avere i cento occhi di Argo per
poter ammirare, contemplare contemporaneamente tutto quel
patrimonio.
Pur se così occupata a saziare la sua voglia di conoscere,
non poteva, a volte, non notare come Laura rispondesse quasi a
monosillabi a David e come spesso lui cercasse di rimanere un
po’ arretrato rispetto al resto del gruppo.
Le dispiaceva che gli amici non condividessero a pieno la
gioia della vacanza e delle continue scoperte artistiche che
tanto la riempivano di traboccante contentezza.
Una sera capitarono a cena in un piccolo locale a via
de’Coronari: l’atmosfera era intima, sia per la sola presenza,
oltre a loro, di una coppia di tedeschi, sia per una sapiente
illuminazione fatta di candele e torce profumate. In un angolo,
in fondo alla lunga sala, c’era un pianoforte e Lorenzo, di
ritorno da una sosta in bagno, non poté far a meno di metter
mano alla tastiera.
Il suono era morbido, suadente e, sotto il tocco delicato
dell’improvvisato pianista, le note vagavano nell’aria, come
iridescenti bolle di sapone. Catturato dalla magia del suono,
Lorenzo si lasciò andare all’inseguimento di accordi e di
melodie che gli nascevano spontanee. Pur con qualche
incertezza, cercò di ricordare qualche brano di Schumann,
172
mentre il proprietario, il personale e i due tedeschi gli si
avvicinavano in silenzio.
Lasciate spegnere le ultime note, il pubblico applaudì con
calore e non lesinò complimenti al concertista.
«Ammazzalo, quanto sei forte!» lo apostrofò il cuoco.
«Grazie. Ho solo voluto provare a me stesso se ancora mi
ricordavo qualcosa» rispose con modestia Lorenzo, mentre si
alzava.
«Come? Non è un musicista di professione?» gli chiese il
proprietario.
«Musicista sì» confessò «ma il mio strumento è il violino».
«Veramente? Ma che bella coincidenza!» proseguì «Anche
mio figlio studia violino. Fa solo il terzo anno, ma mi dicono
che prometta bene».
Olimpia, Laura e David si erano avvicinati anche loro, felici
del successo di quell’estemporanea esibizione.
«Scusate» fece Lorenzo, avvicinandosi agli amici «ma ora
vorrei finire la cena, per la quale devo ora farle io i
complimenti».
«Immagino che sarà qui in vacanza?!» lo seguì il
proprietario.
«Già e i miei amici ormai avranno bevuto anche il caffè»
cercò di disimpegnarsi.
«Ma se volesse venire a suonare qualcosa nelle prossime
sere, ne sarei felicissimo»
«Grazie della proposta, ma vede…» stava per continuare,
quando David gli si affiancò «Averlo saputo, potevamo portare
gli strumenti!»
«Come? Anche lei musicista?» si inserì Ettore Giovannini,
come si presentò il ristoratore.
«Sì, anch’io violinista.» rispose accennando un elegante
inchino.
173
«Ma questo è troppo bello. Se permette, vado a cercare lo
strumento di mio figlio, così potrà deliziarci anche lei.» Si
entusiasmò il padrone di casa.
E infatti, di lì a poco, tornò con un astuccio dal quale
estrasse un violino che, immediatamente, i due musicisti
riconobbero come un normale prodotto di fabbrica, lontano
dalla qualità dei loro strumenti.
Iniziò così un avvincente happening, in cui i due amici si
scambiavano i ruoli: prima esecutore e poi ascoltatore, finché
Lorenzo ritornò al piano e accompagnò David in alcune pagine
di un repertorio romantico che, anche se non era proprio il loro
preferito, riuscì tuttavia ad esaltare la ristretta platea.
Rinunciando a seguire con attenzione lo spettacolo, Olimpia
preferì restarsene in disparte con Laura per cercare di farla
parlare e sapere cosa la infastidiva.
«Dai, Laura, dimmi cosa c’è che non va. Cosa è successo tra
te e David?» la spronò.
«È così evidente?» le rispose con la domanda.
«Assolutamente» sentenziò «e non vorrei che per qualche
motivo c’entrassimo Lorenzo e io.»
«Ma cosa dici?» si stupì Laura «Ma niente affatto. È che,
evidentemente, la continua e costante presenza reciproca ci sta
asfissiando. Sono convinta che se avessimo fatto vacanze
separate, saremmo i più felici innamorati del mondo».
«Mi dispiace» la confortò Olimpia, posandole una mano sul
braccio «Vuol dire che, quando torniamo, ve ne starete per un
po’ lontani»
«Già, ma, cosa vuoi?» proseguì Laura «credo di averlo
temuto già prima di partire, che avremmo corso questo rischio,
anche se non è mica la fine del mondo. Effettivamente, David è
un’ottima compagnia, ma le nostre autonomie si scontrano
anziché integrarsi, come è per te e Lorenzo. E ora, dai!» la
invitò Laura, cambiando completamente tono «Godiamoci
questo momento di indiretta celebrità»
174
Così tra un accordo, una melodia, un trillo, si fece tanto tardi
che il titolare, accortosi del movimento del personale verso le
cucine, capì che era ora di chiudere.
«Mi dispiace enormemente, ragazzi, ma purtroppo devo
chiudere, se voglio evitare una multa salata. Comunque, è stata
una serata meravigliosa. Non so come ringraziarvi, siete stati
una compagnia fantastica. Quando potrò avere la gioia di
riascoltarvi?»
Lorenzo rispose per tutti: «Credo che dovrà aspettare
qualche occasione ufficiale. Alla fine dell’estate abbiamo un
paio di concerti, a Tivoli e a Fiuggi. Sarà un piacere anche per
noi incontrarla di nuovo.»
«Mi raccomando» volle assicurarsi Giovannini «non
dimenticate di avvisarmi, quando sarete in zona!» e per essere
certo che non lo scordassero, diede ad ognuno un bigliettino
del locale.
Ogni giorno musei, palazzi, chiese svelavano agli occhi di
Olimpia un patrimonio artistico sempre vario e ricchissimo. Si
sentiva come un bambino nel paese dei balocchi.
La cosa che più la lasciò senza fiato fu la vastità inaspettata
di Villa Adriana.
«Ma io non credevo che fosse grande come una città!» si
sorprese, cercando di immaginare il Canopo circondato da
porticati, statue e illuminato a festa nelle sere di ricevimenti.
Tornata dalla vacanza, si sentì arricchita sia da tutto quanto
aveva ammirato, sia dalla consapevolezza che il suo rapporto
con Lorenzo si faceva sempre più totale, coinvolgente.
Sapeva bene, comunque, che l’autunno avrebbe significato
nuovi periodi di lontananza, ma la certezza del sentimento che
li univa rendeva, in un certo senso, dolce anche la malinconia.
Il calendario, settimana dopo settimana, si assottigliava e,
tra una lezione, un esame, una pausa di riposo, arrivò anche
una nuova estate. Avevano appena cominciato a fare qualche
progetto di vacanza, quando una sera Lorenzo le annunciò:
175
«Temo che non avremo molto tempo quest’anno per andare
insieme da qualche parte. Le date dei concerti sono piuttosto
ravvicinate e a luglio mi hanno chiamato a Boston per una serie
di lezioni in un college. All’inizio non volevo andare, ma poi
ho visto questo» e le mostrò un articolo tratto da una rivista
musicale. Anche se non troppo abile nel tradurre dall’inglese,
Olimpia riuscì a capire che si trattava di una specie di master,
di corso di specializzazione di tipo didattico.
«Vedi» le spiegò Lorenzo, posando le pagine su un tavolino
«sembra quasi fatto apposta per me: come vedi, è sempre a
Boston e le date si conciliano benissimo. Mi dispiace molto,
credimi,» le confidò, serrandola tra le braccia «ma sono quelle
occasioni che non capitano sempre».
«Non ti preoccupare» cercò di tranquillizzarlo «non credo
che ci ameremo di meno per questo. No?» gli chiese
respingendo con uno sforzo durissimo le lacrime che sentiva
affiorare.
«Ma come puoi dubitarne» fu la decisa risposta di Lorenzo,
prima di baciarla con tutta la dolcezza di cui era capace.
Il contributo che Olimpia e Lorenzo diedero ai bilanci delle
poste e della Sip fu davvero notevole: lettere e telefonate erano
frequentissime e varie. A volte, prevaleva una nota di intensa
nostalgia, a volte le notizie di cronaca personale li
rallegravano. Di cose da comunicare ne avevano un sacco e,
così, per fortuna, c’era sempre qualcosa che polarizzava la loro
attenzione, in modo che pensavano un po’ meno al tempo che
ancora li avrebbe tenuti lontani.
Quando si ritrovarono, non riuscirono a capacitarsi di come
avessero potuto sopportare quella separazione, visto che ora
non potevano fare a meno di stringersi, guardarsi, parlare
sempre fitto fitto tra loro in ogni momento.
Lui le parlò dei tanti ragazzi che aveva conosciuto e con
alcuni dei quali si era subito sentito in sintonia.
«E …le ragazze? Com’erano?» lo interruppe Olimpia.
176
«Ragazze? Quali ragazze?» chiese stupito Lorenzo.
«Beh! Non sei mica stato in seminario!» cercò di scherzare
«Ci saranno state anche delle musiciste» chiarì, calcando la
voce sulle desinenze femminili.
«Ma sì» riconobbe lui «Certo che c’erano anche delle
ragazze, è ovvio. Ma a me credi importasse?» le chiese
guardandola fisso e dritto negli occhi.
Una sera di fine settembre, proprio mentre stavano cenando,
il telefono di Lorenzo suonò e, dopo un «Pronto» lui cominciò
a dialogare in un fluente tedesco. Olimpia riuscì a capire il
proprio nome tra una serie di suoni che per lei erano privi di
significato e aspettò, curiosa, che posasse il telefono.
«Che sorpresa! Era uno dei ragazzi che ho conosciuto a
Boston. Si chiama Andreas Wegener. Sta vicino a Berlino
ovest e suona anche lui in un piccolo complesso, un quartetto,
mi pare. Forse ci vedremo, perché verrà per un giro di concerti
in Italia.» Le raccontò Lorenzo, tutto entusiasta.
«Sbaglio o ho sentito il mio nome?» gli chiese Olimpia.
«Sì, naturale, gli ho parlato di te. Sa che sono legatissimo,
per mia fortuna. Pensa che avrebbe voluto farmi conoscere sua
sorella Greta, che farebbe carte false per sposare un italiano!»
Olimpia si lasciò sfuggire un «Ah!» deciso e molto sonoro.
Quando, qualche tempo dopo, ebbe l’occasione di conoscere
Andreas, dovette convincersi che pareva fatto apposta per
andar d’accordo con Lorenzo. Il quartetto Orpheus, di cui
faceva parte, tenne un concerto a Cà Giustinian e, ovviamente,
non se lo lasciarono scappare.
Non capendo il tedesco, Olimpia cercava di scambiare
qualche frase con i ragazzi tedeschi in un inglese un po’
scolastico ma efficace.
Fu proprio durante la permanenza a Venezia dei musicisti
germanici che una sera la televisione trasmise un fatto epocale:
l’abbattimento del muro di Berlino.
177
Com’era logico, questo divenne con il gruppo dei nuovi
amici l’argomento del giorno.
Mentre Olimpia credeva che questo avvenimento avrebbe
entusiasmato senza riserve lo spirito teutonico degli ospiti,
quando restarono soli, dopo una cena italo- tedesca, Lorenzo le
spiegò che Andreas gli aveva espresso anche alcune riserve.
«Ma allora» gli chiese, «Andreas non è contento della
riunificazione del suo paese? Cos’è, un filocomunista?»
«Macché!» la smentì deciso «Figurati che, anzi, ha degli
amici che abitano nella DDR, per cui sa bene come hanno
vissuto finora di là dalla cortina di ferro. Praticamente, è come
se fossero sempre stati dei bambini: lo Stato era come un padre
che mantiene i propri figli, impedendogli di avere
preoccupazioni, pensieri, ma anche privandoli della libertà di
desiderare, annullando ogni aspirazione. Più o meno gli
dicevano: “Voi non dovete pensare a niente, c’è lo Stato che
pensa per voi e vi assicura lavoro, cibo e vi organizza anche il
tempo libero”. Non a caso, se ci pensi, lo sport nei paesi
dell’est, e in particolare in DDR, ha sempre avuto molto
seguito ed è stato praticato da un sacco di giovani».
«E allora, come mai, se tutto era così perfettamente
pianificato, ora si è arrivati a questo… questa …rivoluzione?»
chiese Olimpia, vivamente interessata.
«Perché non puoi spegnere l’anima dell’uomo. L’uomo è un
animale politico, ma la politica non è solo fatta di piani
quinquennali, di economia, di classi operaie. L’uomo è anche
individuo, spirito, pensiero e queste cose non puoi
circoscriverle con un muro. Senza contare l’elemento etnico:
come puoi pensare di tener separato un popolo che, per tanti
secoli della sua storia, non ha fatto altro che aspirare ad una
unità culturale e politica, a volte, purtroppo, anche con
conseguenze disastrose. Il pangermanesimo, la Gross
Deutschland, sotto sotto, anche al di là della cortina di ferro, ha
continuato a esistere, a condizionare gli animi più sensibili».
178
«Beh! Allora non dovrebbero essere tutti felici per questo
evento? Anche i tedeschi hanno avuto il loro Risorgimento,
come l’Italia dell’Ottocento!» commentò Olimpia.
«Non è così semplice!» la fece riflettere Lorenzo. «Prova ad
immaginare come potranno sentirsi i cittadini dell’est messi a
confronto con i fratelli occidentali. Saranno loro, senza dubbio,
a sopportare un grosso, enorme sacrificio. Dovranno cercare di
compiere, nel minor tempo possibile, tutto quel cammino, quel
progresso che l’occidente ha compiuto in circa mezzo secolo.
Ma ti immagini cosa sarà, per gente abituata a lavorare come
dipendente dello stato garantista, ritrovarsi a mettersi in
discussione, in concorrenza costante con i vicini, con i colleghi,
cercare di diventare imprenditori, commercianti, gente che
lavora e che rischia, anche, in proprio? E il problema della
moneta? Il marco è forte, solido anche per noi italiani, ma per
chi era abituato a dei soldi che non poteva spender altro che a
casa sua, è un cambio da fantascienza. È logico e giustificabile
l’entusiasmo dato dal veder cadere una barriera che ha
contraddistinto un’epoca, ma adesso cominceranno i veri
problemi e soprattutto per chi non è più un ragazzo. Vedrai se
non ci sarà chi dirà che stava meglio quando stava peggio!»
Dopo quei giorni trascorsi tra un concerto e una disamina
della nuova situazione tedesca, Lorenzo, Andreas e gli altri
compagni rimasero in stretto contatto, tanto che cominciarono
a programmare, per l’estate successiva, un giro per Berlino e
dintorni. Laura, per parte sua, aveva già deciso che sarebbe
partita per il Giappone, dove aveva intenzione di fermarsi
anche un paio di mesi. Avrebbe cercato un lavoro come
ragazza alla pari o qualsiasi altra cosa che le permettesse anche
di frequentare un corso di giapponese.
Mano a mano che si avvicinava il giorno della partenza era
sempre più elettrizzata; in lei, come al solito, si mescolavano i
sentimenti più contrastanti: una lieve nota malinconica per
allontanarsi da David era, però, allietata dalla attesa di nuove
esperienze e conoscenze.
179
«Era il maggio odoroso e tu solevi così menare il giorno»,
rileggeva Olimpia, mentre cercava di sviscerare le sfumature
più recondite dei Canti leopardiani, corso monografico
dell’esame di italiano.
Stiracchiandosi dopo due ore di studio, le venne spontaneo
pensare ad alta voce, mentre spingeva lo sguardo fuori dalla
finestra socchiusa, dalla quale le arrivavano voci gioiose di
giovani allegri.
«È il maggio odoroso e io meno il giorno su queste sudate
carte» sospirò alzandosi per prendere dal frigo un bicchiere di
tè freddo. «Ci sarebbero altri modi ben più piacevoli, però, di
impiegare le giornate».
Infatti Lorenzo era partito perché gli amici tedeschi
volevano organizzare qualcosa per festeggiare a novembre il
primo anniversario della caduta del muro. Volevano anche
fargli fare un giro e tastare un po’ il terreno anche in alcune
città dell’ex DDR.
Quando, alla sera, Lorenzo la chiamava, avevano preso
l’abitudine di scherzare sul fatto che lui le avesse affidato la
casa, chiedendole, non solo di dare acqua e luce alle piante, ma
soprattutto, di riempirla con il suo profumo, la sua voce, perché
gli piaceva immaginarla lì, quando si sentivano.
«Si’, sono la domestica del Maestro Vianello» gli
rispondeva a volte, ridendo.
«Il maestro Vianello non è in casa. Lasciate un
messaggio…» inventò, con voce seria e impersonale da
segreteria telefonica, quando quel pomeriggio andò a
rispondere, ma si stupì e si riscosse subito, quando, anziché
Lorenzo, sentì, inaspettatamente, un don Giovanni dal tono
grave e asciutto.
«Ciao Olimpia».
«Oh! Scusi,don, credevo…»
«Sì, sì, immagino» la interruppe
«Vorrei parlarti, Olimpia. Posso passare?»
180
«Certamente; lo sa bene che lei è di casa qui»
«Bene. A tra poco, allora.»
Dall’appartamento di Giuliano le pareva di udire un certo
tramestio: il telefono suonava e si susseguivano brevi, inudibili
conversazioni. Sentì aprirsi la porta del piano di sopra, proprio
mentre stava per andare ad accogliere il prete.
Nell’ingresso si incontrarono tutti: Giuliano aveva gli occhi
rossi, Marilena aveva il naso nascosto in un fazzoletto che
sembrava ormai fradicio e don Giovanni, ancora sulla porta,
aprì le braccia in un gesto insieme di sconforto e di offerta di
rifugio.
«Ma cosa c’è? Che succede? Mi volete spiegare?» chiese
Olimpia con ansia crescente, guardando ora l’uno ora gli altri.
Toccò a Marilena, più per caso che per calcolo, rivelarle
l’accaduto. Ma prima di parlare, la serrò in un abbraccio da
togliere il respiro.
«Lorenzo» cominciò con voce rotta e titubante «ha avuto un
incidente con la macchina. C’è stato uno scontro, vicino a
Lipsia.» Non poté proseguire subito, perché Olimpia si
divincolava e cercava di guardarla in viso, ma lei sapeva che,
se l’avesse avuta di fronte, non avrebbe trovato la forza di dirle
che Lorenzo era morto. Non poteva sopportare di spararle quel
proiettile negli occhi, prima che nel cuore.
«Dov’è? Come sta??» chiedeva cercando di sciogliersi dal
suo abbraccio.
«Sii forte!» intervenne don Giovanni, mentre cercava di
inghiottire dolore e lacrime.
A quelle parole, Olimpia si riscosse e, smessa la sua lotta tra
le braccia di Marilena, tese una mano verso il prete. Allentatasi
la stretta, si liberò per rivolgersi a lui, che la ricevette, mentre
lei, come in trance, chiedeva: «Allora… è …morto?»
Nessuno poté risponderle, d’altronde non serviva: ormai
nessuna parola avrebbe più avuto senso.
181
Rientrarono tutti nel salotto, dove c’erano ancora i suoi libri
aperti sul tavolo.
Giuliano le prese le mani e la guardò a lungo, quasi volesse
cercare in lei una risposta, temendo uno scoppio di pianto, uno
svenimento.
Con una calma assurda e innaturale, Olimpia, gli occhi
asciutti, come se avessero esaurito già tutte le lacrime,
proclamò: «No, no, non è vero. Voi volete mettermi alla prova,
vedere come reagisco… Non è così?» chiese, guardandoli
come se li vedesse per la prima volta.
«Olimpia, senti…» cercò di parlarle il don.
«Andate via, per favore», chiese con tono supplice.
«Vi prego, andate via. Lasciatemi» ripeté ancora flebilmente,
mentre si allontanava lei verso la porta d’ingresso.
«Andate via!» urlò con quanto fiato aveva e tanto
improvvisamente che tutti sussultarono. E continuò a ripetere
quell’ordine, quell’invito, con una varietà di toni sempre più
sfumati: «Andate via, andate via…»
Giuliano andò in cucina e tornò con un bicchiere d’acqua
che le porse, ma Olimpia spiazzò tutti dirigendosi decisa verso
la camera da letto, richiudendo con forza la porta con la chiave.
Marilena si riscosse e cercò di prendere in mano la
situazione: «Non possiamo lasciarla così. Ci vorrebbe un
medico, qualche sedativo…»
«Già, forse avremmo dovuto pensarci prima, ma come si
può avere la freddezza, la lucidità in momenti come questi.»
rifletté Giuliano, lasciandosi sedere pesantemente in poltrona.
«Quando arriveranno i tuoi?» chiese poi al marito.
«Dovremmo pensare noi ad organizzare tutto. Vai, Giuliano,
vai tu con don Giovanni, se può accompagnarti. Io resto qui e
cercherò di convincerla ad uscire, di parlarle.»
Dalla camera da letto non giungeva un lamento e Marilena,
preoccupata, si avvicinò.
182
«Olimpia, per favore, ti prego, apri. Lascia che almeno
piangiamo insieme!» Ma Olimpia era insensibile a tutto: si
sentiva come una pietra gettata in fondo a un baratro.
Si era andata a rannicchiare in un angolo, per terra, tra il
muro e il comodino, dalla parte di Lorenzo. Un fachiro non
avrebbe potuto tenere più a lungo la totale immobilità.
La stanza si riempì, a poco a poco, di ombre, che, poi,
divennero un unico buio che la avvolse. Fu il telefono che la
fece sobbalzare all’improvviso, prima che Marilena
rispondesse. Ormai la notizia doveva essere circolata tra gli
amici, i colleghi del conservatorio e chissà quanti avrebbero
cercato di sapere…
«Olimpia?! Ho preparato qualcosa da mangiare, vieni», la
invitò, anche se con poca speranza di essere ascoltata. E
invece, la porta si aprì e Olimpia, come un’apparizione, emerse
dal buio, accecata dalle luci accese. Purtroppo, certe necessità
fisiche reclamavano di essere soddisfatte e il bagno, di cui
aveva urgente bisogno, l’aveva costretta ad uscire. Marilena ne
approfittò per cercare di avvicinarla, ma riuscì solo a parlarle
attraverso la porta chiusa.
«Olimpia, è vero, quello che è successo è una tragedia, un
dramma impensabile e insopportabile. Posso immaginare cosa
provi, come ti senti ora, ma credi che anche per Giuliano e per
me sia facile questo momento? Lorenzo era suo fratello e hai
visto anche tu quanto forte fosse il loro legame. Dobbiamo
cercare di essere uniti e farci forza a vicenda. La perdita che
abbiamo subito è enorme, ora ci sembra di avere un buco vuoto
al posto del cuore, ma dobbiamo prepararci intanto per salutare
degnamente Lorenzo e poi sarà il tempo del rimpianto e del
ricordo», concluse singhiozzando.
Quando finalmente Olimpia uscì e se la trovò di fronte,
muta e senza forze, non poté fare altro che abbracciarla.
Non avrebbe mai pensato che un dolore così tremendo
potesse avere un effetto anestetizzante: era vuota, priva di ogni
183
sensazione, di ogni desiderio. «Forse la morte è questa» pensò
ad un certo punto.
«Chissà se è difficile morire» chiese ad alta voce, mentre
Marilena l’aveva convinta e costretta a bere almeno qualcosa.
«Mio Dio!» si spaventò, «Ma cosa stai pensando? Per
favore, Olimpia, ritorna in te!»
Nei giorni che seguirono, senza quasi che lei se ne
accorgesse, non rimase mai sola: Giuliano, anche se molto
indaffarato per le incombenze della grave circostanza, aveva
cercato di creare una specie di turni di guardia.
Laura rimase a lungo ogni giorno con lei, ma Olimpia non
parlava, non permetteva a nessuno di scalfire la solitudine da
cui si sentiva avvinghiata.
L’incontro con i genitori di Lorenzo, che tante volte aveva
immaginato, avvenne in una sera di temporale, di quelli che la
primavera, a volte, come una donna bella e capricciosa, scatena
quasi a voler sorprendere tutti con la propria forza.
Loro, che l’avevano vista solo nelle numerose foto che il
figlio aveva spedito in America, stentarono a riconoscere in
quei buchi infossati, quegli occhi così grandi e ridenti.
Anche loro, d’altronde, erano totalmente trasformati,
azzerati da quella rapina.
Giuliano non ebbe bisogno di presentarli, comunque, tanto
che la madre, non appena se la trovò di fronte, con la voce rotta
e ridotta ad un sussurro, dichiarò: «No, non così, non
dovevamo incontrarci in questo modo, per questo atroce
dolore! Anche tu gli volevi bene e avrei tanto voluto averti
come una nuova figlia. Che destino!»
Olimpia guardava quei due distinti coniugi, che tante volte
aveva immaginato: il padre era, apparentemente, il più forte,
chiuso in un dolore asciutto, quasi altero; la sua statura gli
permetteva di tenere abbracciata con grande naturalezza la
moglie, che gli arrivava alle spalle e che, spesso, durante il
servizio funebre, nascondeva il viso contro il suo petto.
184
Amici musicisti e colleghi del conservatorio avevano voluto
rendere omaggio a Lorenzo suonando il Requiem di Mozart.
Quelle note parevano scritte apposta per esasperare
l’asprezza del dolore di Olimpia: non c’era consolazione in
quella musica, non la speranza di una pace eterna nella quale
tutti ritrovarsi, ma un senso di vertigine da cui piombare in un
abisso.
Era la prima volta che assisteva ad un funerale a Venezia:
quello scivolare sull’acqua delle gondole nere era la metafora
stessa della vita e della morte.
I genitori di Olimpia avevano detto e fatto di tutto per
convincerla a lasciare Venezia e tornare a casa, a riprendere i
contatti con le amiche di un tempo, ma lei era stata
irremovibile: voleva e doveva restare lì, continuare ancora a
cercare e respirare l’eco del profumo di Lorenzo sul suo
cuscino, nei suoi vestiti, ad accarezzare quegli spartiti, fitti di
segni a matita, frutto delle sue lunghe prove.
David, dopo aver trascorso qualche giorno in preda ai forti
vapori dell’alcol cui si era abbondantemente dedicato, non
faceva che ripetere a tutti: «Non avrebbe dovuto lasciare il
gruppo per andare a fare il solista nell’alto dei cieli».
Anche Giacomo era annichilito: gli pareva che il suo
violoncello non cantasse più, non avesse più voce, ora che non
poteva più sostenere con le sue note il canto del violino di
Lorenzo.
Se una grande confidenza e facilità di dialogo con i genitori
non l’aveva mai avuta, ora più che mai Olimpia si sentiva sola,
non potendo confidare né all’uno né all’altro, quanto le
mancasse Lorenzo, anche fisicamente.
Le amiche di Ferrara, a turno, cercavano di trascinarla fuori
di casa, di stimolarla a riprendere in mano i libri.
«Dai, Olimpia, lo sai che il lavoro e lo studio sono spesso
una buona terapia antidolore!»
185
Ma queste erano tutte parole che, a volte, quasi la
infastidivano.
Ma, nonostante tutto, il tempo passava e la forza dell’istinto
di sopravvivenza della specie umana ebbe ragione anche della
voglia di morire che, ogni tanto, la allettava.
Così, alla fine, con una passività che non si era mai
riconosciuta, aveva accettato l’idea di cambiare totalmente vita,
trasferendosi anche con l’università.
Fu una decisione maturata lentamente, perché le pareva che
sarebbe stato un nuovo addio a Lorenzo, dal quale ancora non
si sentiva separata, ma, comunque, ad un tratto si accorse che
non aveva più voglia di lottare con chi la invitava a tornare a
Ferrara, genitori o amiche che fossero.
A lungo e più volte ne parlò a Giuliano e Marilena, che
vedeva molto preoccupati per lei, per la sua salute, per i suoi
studi. Anche per loro Olimpia era un ricordo vivente di
Lorenzo e le erano legatissimi, ma si rendevano conto che non
poteva restare legata ad un passato sul quale era calato
tragicamente un sipario definitivo.
Del resto anche diverse compagne si erano trasferite
nell’ateneo cittadino e le offrivano con piacere di aiutarla ad
inserirvisi.
Certo, quello che le costò più fatica, non fu tanto l’adattarsi
ad un diverso ambiente di studi, quanto piuttosto dover tornare
a vivere in famiglia, a dover render conto delle uscite, delle
compagnie frequentate, a dover condividere per forza, almeno
una parte (senza dubbio quella più superficiale) dei propri
pensieri.
Fu questo malessere che le diede la spinta per cercare di
rendersi autonoma il prima possibile.
Così macinò libri su libri, facendo la spola tra la facoltà, la
biblioteca e la sua camera, dove restava per ore, quasi sempre
dopo cena, a studiare e preparare un esame dietro l’altro.
186
I genitori, che la vedevano così motivata allo studio, si
congratulavano con lei, non potendo immaginare che per
Olimpia il tutto era finalizzato alla ricerca di un lavoro e
all’uscita di casa.
Quando dovette decidere la tesi, non ebbe dubbi: storia della
musica, il cui esame le aveva fruttato un trenta e una grande
soddisfazione personale per come era stato condotto con il
docente. Le era sembrato di conversare con un coetaneo, più
che sostenere un esame.
Le era parso di sentire attorno a lei una presenza amica, un
conforto; per lei, che credeva nella sopravvivenza dello spirito,
non c’erano dubbi: Lorenzo era accanto a lei.
La scelta dell’argomento fu un po’ più ardua, perché lei, in
fin dei conti, non era musicista e doveva quindi cercare
qualcosa che le permettesse di coniugare la musica con qualche
altro ambito artistico o storico sul quale si sentisse più ferrata.
Grazie anche all’aiuto del docente, che aveva apprezzato le
sue considerazioni sui Brandeburghesi di Bach e che la
indirizzò verso qualcosa di locale, del periodo d’oro della storia
estense, trovò un quasi sconosciuto musicologo e teorico del
‘500, che inserì in un discorso più ampiamente culturale.
La preparazione della tesi la occupò per diversi mesi, ma le
diede anche la sensazione di stare facendo finalmente qualcosa
di personale, che la gratificava.
Ogni tanto, specie i primi tempi dopo il suo rientro a
Ferrara, quando un sapore agrodolce di rimpianto riaffiorava,
faceva una scappata a Venezia, a trovare Giuliano e Marilena.
Non trovava, però, mai il coraggio di entrare nell’appartamento
del piano terra che era rimasto sempre vuoto.
«Non ce la sentiamo di toccare nulla, di togliere neppure il
nome sul campanello», le confidò una volta Marilena.
«Ogni tanto vado a dare aria alle stanze, a ripulire dalla
polvere, ma preferisco lasciare tutto così, come se Lorenzo
187
dovesse tornare all’improvviso.» Confermò Giuliano. «Sarò un
idiota, ma è più forte di me!»
«No, hai ragione. Ti capisco benissimo» Convenne anche
Olimpia. «Sarebbe quasi blasfemo sapere che dentro ci vive
qualche estraneo»
Quando seppero che si sarebbe laureata, non vollero
mancare, quando discusse la tesi e si unirono a genitori e amici
per festeggiarla.
Tutto sommato, per Olimpia quello fu un giorno speciale,
una data da evidenziare sul calendario. Sarebbe stato difficile
dimenticarla, anche perché i genitori, per rendere ancor più
solenne l’evento, le fecero trovare, come regalo di laurea, le
chiavi di una macchina. Ovviamente questo le fece un enorme
piacere, perché le sarebbe stata utile in caso avesse dovuto
raggiungere scuole fuori città. Tuttavia, se le avessero chiesto
cosa desiderava, forse, gli avrebbe fatto spendere meno,
chiedendo i soldi per un viaggio, quel viaggio in Grecia che era
stato solo un fugace pensiero poco prima che Lorenzo se ne
andasse.
188
GIULIO C.
PASSATO PROSSIMO
Ma, come spesso succede, il suo destino doveva portarlo in ben
altre direzioni.
Troppo distratto mentalmente per continuare a tenere le sue
lezioni universitarie, si prese un riposo sabbatico e viaggiò, per
allontanarsi dal suo ieri, per fuggire da quei sussulti del cuore
che lo tramortivano, quando un’immagine gli riproponeva
memorie ancora troppo brucianti.
Tra un viaggio in Sud America e uno in Cina, fece ritorno a
casa, per qualche settimana, con grande gioia di Mara, che se lo
coccolò con le sue prelibatezze gastronomiche.
Una sera, mentre rimetteva un po’ d’ordine nei suoi ricordi
di viaggio al computer, squillò il telefono.
«Ti trovo, finalmente, giramondo!» lo apostrofò Marcello.
«Ehilà! Come stai?» rispose, felice di risentire l’amico, dopo
una lunga assenza di notizie.
Dopo essersi reciprocamente informati sulle ultime novità,
Marcello gli espose il motivo principale che lo aveva spinto a
chiamarlo.
«Ti ricordi che quando andammo a Tarquinia ti parlai di
Andrea?»
«Certo, l’ingegnere nucleare» assentì pronto.
«Esatto. Non ti ho detto, però, che ha un fratello minore,
Fabio, un tipo in gamba, un giovane con dei solidi attributi»
ironizzò. «Ha fatto studi scientifici, ma ora, mentre si sta
189
laureando in ingegneria con indirizzo astronomico, ha scoperto
una passione irrefrenabile per l’archeologia, anche se diventerà
un astronomo».
«Cosa vorrebbe, farmi l’oroscopo?» scherzò Giulio C.,
equivocando volutamente la materia, non riuscendo a capire
perché veniva contattato proprio lui.
«Ma dai, non dire fesserie, mona» lo zittì Marcello.
«Vorrebbe cercare di unire ambiti così lontani e, almeno a
prima vista, inconciliabili, come la storia, l’archeologia e
l’astronomia.».
Giulio C. restò un momento bloccato da una sorpresa totale.
«Ci sei? Pronto?» lo sollecitò l’amico.
«Sì, sì, lasciami pensare un momento» lo rassicurò. «Certo,
sono campi molto… come dire, forse non facilmente
conciliabili».
«Senti, perché non fai un salto qui a trovarmi: Andrea e suo
fratello sono qui, così potete parlarvi e vedrai che un terreno
comune finirete per trovarlo», lo invitò.
«Ma, scusa, e a cosa gli servo io? Cosa vuole esattamente?
Io non so proprio come…»
«Non preoccuparti» lo tranquillizzò l’architetto «Lui ha già
una mezza idea, ma vorrebbe un consiglio da qualcuno che di
storia ne sa più di lui»
«Senti, ti va bene se arrivo dopodomani?»
«Perfetto. A presto, allora».si congedò Marcello «E grazie»
«Ma figurati, sarà un piacere».
Giulio C. pensava che, effettivamente, sarebbe stato un
piacere veder l’amico, raccontare dei luoghi lontani che aveva
interiorizzato, delle tante esperienze vissute in quei mesi. Al
contrario, non era entusiasta dell’incontro con quel quasi
laureato che chissà quante idiozie aveva accumulato nel pur
piccolo spazio tra le sopracciglia e i capelli.
190
Più si avvicinava alla casa dell’amico, più avrebbe voluto
che quella conoscenza si fosse già concretizzata e, dopo i
convenevoli di rito, senza sembrare troppo scortese, fosse
magari già sulla via del ritorno.
Invece… dopo lo scambio di alcune riflessioni e diverse
battute di una conversazione spontanea, piacevole e brillante,
sentì di doversi nettamente ricredere: il ragazzo sapeva il fatto
suo, aveva davvero una cultura e una preparazione non comuni,
accompagnate da un tratto umano franco e da un sorriso
accattivante.
Alto e slanciato, aveva l’aspetto del vero “bravo ragazzo”,
del primo della classe, ma di quel genere quanto mai raro di
quelli che non se la tirano per niente, anzi, chiedono quasi
scusa per essere belli, intelligenti e sempre all’altezza della
situazione.
Durante la cena si complimentò con Fabio per le sue
notevoli doti naturali e per la sua cultura, solida e vasta.
«Professor Erneti» lo ricambiò «non può creder quanto le
sue parole mi gratifichino e mi spronino a proseguire. Vede»
continuò, non riuscendo a nascondere una certa emozione «io
la ammiro dai suoi primi romanzi e per me lei è un maestro
difficilmente eguagliabile. Le sue trasmissioni, poi, mi tengono
attaccato al televisore, come una calamita.»
«Adesso tocca a me sentirmi in imbarazzo» sentenziò
Giulio C.
«Ma perché non la piantate con tutte queste sbrodolate
reciproche?» intervenne Marcello
E Andrea rincarò: «Va bene, siete due grandi e allora,
perché non facciamo 1 a 1 e palla al centro?»
Tra una risata collettiva e un brindisi la conversazione
proseguì nell’interesse generale, fin quando gli argomenti si
fecero più specifici, tendenti a sondare i reciproci interessi dei
due studiosi.
191
A quel punto, Marcello e Andrea dichiararono che per loro
era giunta l’ora del coprifuoco.
«Ma che ora è, davvero è già così tardi?» chiese stupito
Giulio C.
«No, sono appena le tre, ma…» cominciò il padrone di casa
«Accidenti! Non credevo!» Si meravigliò.
«Ma non c’è problema. Se volete, adesso ce ne andiamo tutti
a dormire e domattina…»
«Domattina» proseguì Giulio C. «se a Fabio va bene, ce ne
andiamo da me, così proseguiamo i nostri discorsi».
«Sarà un enorme piacere, professore!» accettò con palese
entusiasmo.
«A patto, però, che la smettiamo con i vari professore e
deferenze varie. Non facciamo prima a darci del tu?»
«Felicissimo, grazie»
I giorni trascorsi con Fabio furono per Giulio C. una sferzata
di vitalità e nuovo entusiasmo. Non gli pareva vero aver
conosciuto uno che, per età, avrebbe potuto essergli figlio, ma
col quale poteva parlare e disquisire quasi da pari a pari.
Gli piaceva lasciarsi trascinare da quel vigore, da quella
forza vitale e creativa che Fabio gli comunicava. Alcune idee
del giovane lo stuzzicarono e gli misero il fuoco nel cervello.
Quando Fabio se ne andò, Giulio C. continuò a pensare, a
macinare idee, ipotesi di lavoro.
Nei mesi seguenti, si scambiarono parecchie visite e insieme
andarono a scartabellare archivi, musei, biblioteche.
E così arrivarono a concretizzare una bozza di programma:
un ciclo di trasmissioni di archeoastronomia. In ogni puntata
avrebbero esaminato la volta celeste, presente in un
determinato sito archeologico in una certa data. Fabio avrebbe
analizzato il cielo, pianeti, costellazioni, con qualche
ammiccante escursione astrologica, mentre Giulio C. avrebbe
illustrato il lato più strettamente storico della vicenda.
192
Certo, non sarebbero state cose proprio per tutti i palati, ma
le doti divulgative dei due autori avrebbero senz’altro reso
digeribili molti concetti.
Una volta puntualizzati alcuni dettagli e, soprattutto, dopo
aver festeggiato il 110 e lode della laurea di Fabio, partirono
decisi per sottoporre il loro progetto al network per il quale
lavorava Giulio C.
Seguirono incontri con dirigenti, con il C.d.A., furono
necessarie alcune limatine e qualche ritocco, ma, alla fine,
ottennero l’ok.
Così, inizialmente in seconda serata, andò in onda nel
gennaio 1995, la prima puntata de “La cintura di Orione”.
L’indice di ascolto non fu molto alto, ma in compenso
arrivarono molte testimonianze di telespettatori entusiasti:
finalmente un programma al di sopra delle solite spazzature
televisive; complimenti ai curatori e a chi aveva creduto in quel
tipo di trasmissione; originale l’impostazione e suggestiva la
scenografia ecc. ecc.
Col procedere delle puntate, il target si andò allargando con
grande soddisfazione di Fabio e Giulio C.
Mara, che cercava di seguire la produzione televisiva del
figlio, spesso si sentiva spaesata di fronte a quelle dotte
disquisizioni.
«Ma come fasstu a saver tute ste robe?» si stupiva
«Mamma, non avrò studiato tanti anni per niente, vero?»
faceva il modesto «e poi Fabio ci mette molto del suo, sai?»
concludeva, rallegrandosi per aver incontrato un ragazzo così
intellettualmente dotato.
Visto il successo della trasmissione, dopo il primo anno di
programmazione e una sosta per la versione estiva del
palinsesto, “La cintura di Orione” riprese in prima serata.
Gli impegni televisivi, tuttavia, non impedivano a Giulio C.
di seguire anche altre attività: aveva ripreso l’università, aveva
partecipato a scavi in luoghi remoti dell’Asia e dell’Africa e in
193
siti più domestici, qua e là per l’Italia, curava rubriche su
riviste specialistiche e veniva maturando un nuovo romanzo
che, come una malattia, ogni tanto, si riacutizzava e lo portava
a passare giornate intere al computer. L’idea gli era venuta
dopo che, nel 1994, in uno scavo ai limiti di Valle Garzetta,
una delle valli deltizie del Po, che avevano visto fiorire la
civiltà etrusca di Spina, aveva riportato alla luce uno splendido
corredo funebre, comprendente, tra gli altri, svariati piatti da
pesce. Le rappresentazioni della fauna ittica non erano certo
una novità, visto che al Museo Archeologico di Ferrara se ne
conservavano numerosi esemplari, ma quello che li rendeva
unici era la presenza dell’anguilla. Questo tipo particolare di
pesce era molto conosciuto e apprezzato anche in epoca etrusca
ma, stranamente, nessun pittore, né di ceramica attica, né di
quella locale, aveva mai pensato di rappresentarlo.
Essendo, quindi, un unicum, alla cosa fu dato un certo
rilievo nell’ambiente, tanto che, nel giugno 1997, proprio nelle
sale del museo ferrarese, si era inaugurata una mostra su
“Il pesce degli Etruschi: di Spina in spina”. Il catalogo relativo
fu presentato nel corso di un incontro che Giulio C. fu
chiamato, ovviamente, a presiedere.
La rappresentazione dello sfuggente pesce era di un
realismo e di una finezza eccellenti. Spesso la
accompagnavano esemplari di pescatrice ed altri più comuni
pesci dell’Adriatico, sempre delineati con una precisione quasi
scientifica, tanto che ormai si parlava di un “pittore
dell’anguilla”.
Negli anni precedenti, aveva avuto modo di conoscere,
proprio a Ferrara, il soprintendente dei beni archeologici
dell’Emilia-Romagna, Ludovico Bennati, un personaggio col
quale si trovò subito in sintonia.
Contrariamente a Giovanni Martinelli, Bennati era il
classico studioso, lontano dai bizantinismi della politica e, se
era arrivato a quell’incarico, lo doveva solo alle sue grandi
capacità, alla cultura che si era fatto, non pensando quasi ad
194
altro. Anche fisicamente non era certo l’azzimato manager:
sembrava più l’Einstein della celebre fotografia linguacciuta.
La sua intelligenza, però, era inversamente proporzionale alla
cura che dedicava all’abbigliamento.
Aveva fatto molto piacere a Giulio C. incontrarlo, qualche
tempo dopo, un giorno a Bologna, nelle sale
dell’Archiginnasio, in occasione di una mostra su dei reperti di
epoca romana emersi durante uno scavo.
«Che piacere, Erneti! Se mi avesse detto che intendeva
venire a vedere la mostra, l’avrei aspettata.» gli aveva detto con
entusiasmo, andandogli incontro.
«Grazie, Bennati! Ma non sapevo neanche io quando avrei
trovato il tempo per farlo.» Era stata la sua risposta, unita ad
una calorosa stretta di mano.
«Si vede proprio che non siamo più dei ventenni!» aveva
osservato il soprintendente con un pizzico di malinconica
rassegnazione. «Se fossimo giovani, saremmo passati
immediatamente ad un confidenziale tu».
«E chi ci impedisce di farlo da ora in poi?» chiese Giulio C.,
sentendo aumentare la simpatia per quel personaggio in jeans e
giacca alquanto stazzonata.
La giornata si concluse con una cena a due in una trattoria
della vecchia Bologna.
Tra un tortellino e l’altro, ebbe conferma, chiacchierando
piacevolmente, della profonda conoscenza di Bennati del
mondo etrusco. Anche per lui quel popolo, pur ancora così
nebbioso per tanti aspetti, era sempre stato un argomento
stimolante e, in qualche piega del suo cervello, giaceva il
desiderio di dedicarvisi con uno studio particolareggiato.
Si può dire che “La Padania Etrusca”, saggio a quattro mani, di
Ludovico Bennati e Giulio C. Erneti, fu impostato proprio sulla
tovaglia a riquadri bianchi e rossi di quella trattoria ma fu
messa nero su bianco nella casetta sperduta tra i monti che
Marcello prestò con grande piacere all’amico.
195
L’opera fu particolarmente apprezzata nell’ambiente degli
studiosi, in quanto univa all’approfondita analisi di tutti i
ritrovamenti padani dall’età villanoviana in poi, la facilità di
lettura e la chiarezza dell’esposizione cronologica del
popolamento da parte degli etruschi.
L’uscita del saggio nelle librerie, proprio a ridosso della
stagione estiva, si doveva rivelare quanto mai determinante per
il futuro di Giulio C e per il suo incontro con René Montreaux.
Docente emerito di storia medievale alla Sorbona, Montreaux
amava trascorrere quasi ogni anno almeno una parte delle sue
vacanze in Italia, alternando soggiorni in luoghi di villeggiatura
a puntate culturali nelle tante città d’arte o in piccoli centri
dall’illustre passato.
Quell’anno, dopo essere stato in luglio sulle Dolomiti, aveva
voluto fermarsi a Venezia. Nonostante i quasi ottant’anni, il
professor Montreax aveva ancora un fisico scattante e asciutto
che gli permetteva di camminare con passo spedito anche per
lunghi tragitti.
Dopo la morte della moglie, non avendo avuto figli, aveva
dedicato tutto il suo tempo all’università, sprofondandosi in
studi, ricerche, senza trascurare i rapporti con i suoi studenti.
Amava, anzi, riceverli spesso e intrattenersi con quelli più
motivati e sensibili a certe problematiche, con quelli che
consideravano lo studio un piacere, un privilegio di cui mai
troppo ci si saziava.
Arrivato ormai in là con gli anni, la sua fama era diventata
un onore anche per chi poteva dire di essere stato suo allievo. Il
carattere piuttosto anticonformista e la scarsa propensione al
compromesso, gli avevano, però, procurato anche numerosi
detrattori, che lui considerava immancabili, come le pulci per
un cane.
Aveva pure pubblicato numerosi saggi che, tra gli addetti ai
lavori, erano considerati un caposaldo fondamentale sui vari
aspetti della società francese dell’alto medioevo.
196
Da francese purosangue, non poteva non appassionarsi alla
figura di Vercingetorige e, spesso, amava definirsi un gallo,
alludendo al passato della sua stirpe. Tuttavia, riconosceva che,
se Roma aveva avuto ragione degli indomiti guerrieri galli, ciò
significava che la capacità organizzativa delle sue legioni, le
sue leggi, la ponevano su un piano superiore. Anche per
questo, forse, si sentiva attratto dall’Italia con una sorta di
amore e odio, o, forse più che odio, invidia.
Spesso, infatti, amava ripetere che, se generalmente, i
francesi ostentano una snobbante superiorità nei confronti dei
cugini italiani, lo fanno perché, in realtà, sotto sotto, si sentono
inferiori. Quando esternava queste sue opinioni, erano parecchi
quelli che, nell’ambiente dell’ateneo parigino e non solo,
storcevano il naso e scuotevano il capo infastiditi.
«È vero, noi abbiamo avuto l’Illuminismo, la Rivoluzione,
Napoleone, ma prima c’è stata Roma con i suoi Cesare,
Augusto e i grandi imperatori filosofi Adriano e Marc’Aurelio»
riconosceva, suscitando non poche contestazioni tra i suoi
interlocutori d’oltralpe.
Uscito da Palazzo Grassi, aveva avuto voglia di passeggiare
e si era diretto verso San Marco, lasciandosi catturare da alcune
vetrine di antiquari e librerie.
Gli piaceva osservare se, tra i libri italiani, ci fosse qualcosa
a lui familiare e così decise di entrare a curiosare un po’ tra gli
scaffali della Toletta.
Fu così che gli capitò tra le mani “Padania Etrusca”. Ormai
l’italiano per lui era quasi una seconda lingua, fu quindi
naturale acquistarne una copia.
Le pagine di Bennati ed Erneti gli tennero compagnia quella
sera in albergo e il mattino dopo si svegliò con il desiderio di
conoscere di persona gli autori.
Finita la lettura del libro, era conclusa anche la sua vacanza
italiana. Raramente gli era capitato di essere ansioso di
prendere l’aereo, mezzo che lo metteva sempre un po’ in
197
agitazione e argomento sul quale più volte aveva discusso con
la moglie che, al contrario, amava provare quel vago senso di
spaesamento e vertigine che accompagna spesso il decollo. Ma
questa volta, invece, non vedeva l’ora di essere nel suo studio a
Parigi, per contattare la casa editrice italiana e saperne di più
sui due studiosi.
Attraverso internet aveva avuto parecchie informazioni
biografiche su di loro, ma l’età non più verdeggiante, gli faceva
preferire sempre il contatto umano diretto, che riteneva
insostituibile per instaurare un rapporto interpersonale di
lavoro.
Una piovosa giornata autunnale che era appena iniziata con
un grigiore penetrante, si annunciò in casa Erneti con una
telefonata.
Il nome Montreax non gli era certo sconosciuto, ma mai
avrebbe pensato di essere chiamato da colui che era noto per
essere uno dei massimi medievisti.
Superati i convenevoli di rito, lo studioso francese gli spiegò
che l’ultimo suo saggio sugli etruschi gli aveva procurato un
irrefrenabile attacco di rabbia.
«La sua scrittura, Erneti, è così densa ma piacevole, che,
sinceramente, vorrei io riuscire ad essere altrettanto lineare e
godibile», gli spiegò, non senza qualche fatica nell’ammettere
quello che considerava un suo limite: non sapersi liberare dal
tono altisonante di una lingua dotta e a volte un po’
arcaicizzante.
«Lei mi fa troppo onore, professore» rispose un po’
imbarazzato, mentre la sua naturale modestia lo spingeva ad
aggiungere «Inoltre ha visto che non è tutta opera mia. Ho
avuto un collega molto dotato che mi ha validamente
supportato.»
«OH! Lo so e la prego di estendere al professor Bennati il
mio apprezzamento più sentito. Non le nascondo che mi
piacerebbe molto incontrare entrambi.»
198
«Sarebbe un piacere anche per me, un grande piacere, le
assicuro.»
«Lei, Erneti, che è ancora giovane, non avrebbe voglia di
respirare un po’ d’aria di Parigi? Io verrei volentieri in Italia,
ma vede, ne sono tornato da poco e non sempre le mie forze
ubbidiscono ai miei desideri», mentì volutamente sulle sue
condizioni fisiche, che erano tutt’altro che precarie, allo scopo
di invogliarlo ad una visita da lui.
«Una scappata potrei farla senza troppi problemi,
professore» rispose un po’ emozionato ed incuriosito per
quell’invito da parte di un personaggio prestigioso.
A questo primo colloquio altri ne seguirono e tutte le
settimane si inviavano lunghe e-mail.
Bennati, contattato anche lui dal docente, comunicò a
Giulio C. che gli avrebbe fatto piacere conoscerlo
personalmente.
«Che ne diresti, Ludovico, di accettare l’invito di Montreaux
e di passare qualche giorno a Parigi?» gli chiese una sera al
telefono.
«Direi che ne sarei entusiasta. Figurati se ad uno scapolo
solitario come me, non fa piacere trascorrere qualche tempo in
piacevole compagnia, specie ora che tutti sono presi dalla
fregola di procurarsi un invito per capodanno.»
E così, proprio per un puro caso, i due ormai amici si
ritrovarono alla vigilia del mitico capodanno 2000 in volo per
una Parigi ancora più scintillante e agghindata che mai.
Quando si erano sentiti, prima della partenza, Montreaux
aveva assicurato a Giulio C. che li avrebbe aspettati
all’aeroporto e sarebbe stato ben lieto di averli suoi ospiti in
una casa che da troppo tempo condivideva ormai solo con un
enorme gatto soriano.
Quando si furono sistemati nel confortevole appartamento di
Rue du Chemin Vert, Giulio C. constatò che, mai come in quel
199
caso, l’ambiente domestico rispecchiava il carattere e la
personalità del proprietario.
La sobria eleganza dell’insieme era rappresentata da alcuni
mobili di alto antiquariato e da un enorme numero di quadri di
tutte le dimensioni, di epoche e scuole diverse, che
tappezzavano le pareti. Quasi in ogni stanza c’erano libri. Su
tavoli, sedie, poltrone, comòde si impilavano pubblicazioni,
testi, saggi storici più o meno recenti. Il clou, ovviamente, era
nello studio: praticamente una boiserie occultata, da terra a
soffitto, da libri, volumi, tomi, raccolte di riviste, il tutto
recante i segni inequivocabili di letture e consultazioni ripetute.
La scrivania, invece, era ordinatissima: varie pile di carte e
documenti facevano quasi da perimetro fortificato ad un ampio
spazio centrale su cui regnavano computer e unità periferiche,
che denotavano dimestichezza con le tecnologie informatiche.
Quando Montreaux lo aveva invitato, Giulio C., oltre alla
emozione, aveva avuto anche un attimo di perplessità: come
sarebbe stato passare intere giornate con uno studioso anziano
e mai visto prima? Non sarebbe stato un capodanno un po’
troppo palloso e monotematico?
Già dalle prime conversazioni, invece, dovette riconoscere
la sorprendente eccezionalità di quell’uomo, ancora così
prestante, con quell’aria da filosofo greco, grazie ad una ormai
assestata calvizie, bilanciata da un candido residuo di lunghi
capelli che gli coprivano abbondantemente il collo e da una
altrettanto candida barba fluente fin sul petto.
«Vede, caro Erneti, l’età avanzata ha anche i suoi vantaggi:
posso permettermi di dimenticare il barbiere, con un notevole
risparmio di tempo e denaro. Inoltre questa barba, così
imponente, mi protegge la gola dai rigori dell’inverno e mi
permette di evitare i passati quotidiani litigi con il nodo della
cravatta, che lascio sempre più spesso appesa nell’armadio.
Anche lei, comunque, non ha resistito a lasciarsi ricoprire le
guance, anche se in modo ben più accurato del mio. E chi se ne
importa se qualcuno tra i miei azzimati colleghi della Sorbona
200
mi chiama l’incolto, chissà se giocando anche sull’ambiguità
del vocabolo…» e dopo un sospiro profondo continuò: «Solo la
mia Amelie mi voleva sempre tirato a lucido, ma per lei lo
facevo volentieri. Essere al suo fianco era per me una tale gioia
che niente, nessun sacrificio sarebbe stato eccessivo.»
Mentre parlavano, silenziosamente, aveva fatto la sua
apparizione un meraviglioso gatto soriano.
Si muoveva con la innata grazia,elegante ed aristocratica,
dei felini e come fosse talmente sicuro di sé, da non degnare
nulla di uno sguardo. Giunto davanti alle poltrone del salotto,
alzò il muso e sembrò voler guardare in faccia le persone che
conversavano. Si fermò un attimo, osservò il padrone di casa,
come a chiedere: «Ma chi sono questi?», poi, forse volendosi
rispondere da solo, se ne andò a far conoscenza con gli ospiti,
annusando a lungo scarpe, gambe e le mani che loro gli
tendevano e dalle quali si degnò di accettare qualche carezza.
«Bon Bon!» lo salutò Montreax, «sono amici, come vedi!»
E poi, rivolto ai due italiani: «Questo è il mio compagno Bon
Bon. Siamo insieme da quasi cinque anni, da quando lo trovai
sotto il cassonetto dell’immondizia, una sera di neve.
L’inverno, il buio, il freddo mi avevano particolarmente
immalinconito; il ricordo di Amelie che, involontariamente,
continuava a proiettarsi dentro i miei occhi, non faceva che
acuire la mia solitudine. Pensieri tremendi mi sfioravano
quando, proprio mentre cercavo le chiavi aprire il portone,
queste mi caddero. Nel chinarmi, vidi qualcosa muoversi sotto
il cassonetto e mi accorsi che era un gattino. Gli tesi la mano
per cercare di prenderlo, pensando che, forse, così facendo, lo
avrei solo spaventato di più e invece, quella specie di gomitolo
freddo e bagnato venne a cercare il calore della mia mano.
Fortunatamente, una famiglia del palazzo aveva un gatto e
chiesi a loro cibo e consulenza per riuscire ad allevare la prima
bestiola della mia vita. Bon Bon…»
«Scusi, ma come mai un nome così dolce, quasi femminile,
per un maschio piuttosto solido e robusto. D’accordo che allora
201
era un cucciolo…» chiese Giulio C., mentre cercava di
socializzare con la bestiola.
«Già, perché lei pensa al cioccolatino, ad un dolcetto»
rispose il professore «ma invece il nome è la ripetizione della
prima sillaba di Bonaparte».
«Nientemeno!» intervenne Bennati.
«Quando mi resi conto che io e lui avremmo condiviso le
nostre reciproche esistenze, mi chiesi come chiamarlo. Stavo
leggendo, in quel periodo, un saggio sul Grande Corso e mi
parve fosse un nome adatto, ma chiamare una cosettina così
minuta Napoleone, così lungo e altisonante, mi sembrò forzato.
Mai, d’altronde, l’avrei chiamato Napi o simili storpiature. Il
cognome, invece, poteva prestarsi a qualche aggiustamento,
così lo accorciai in Bon. Da qui al raddoppio, il passo è stato
naturale.»
Mentre Montreax ricordava, Giulio C. aveva focalizzato, in
mezzo a libri e soprammobili, alcune fotografie che ritraevano
una coppia di probabili sessantenni che, nel sorridere
all’obiettivo, parevano voler comunicare una loro gioia intima,
una complicità allegra e totale che arrivava dritta a chi li
osservava.
Lo sguardo di Giulio C. non sfuggì al professore, che
continuò, con una certa commozione: «Sì, Erneti, quella è…
anzi, era la mia Amelie. Quanto siamo stati bene insieme, come
siamo stati felici! Ci capivamo magicamente, senza bisogno di
parlarci. Spesso ci capitava di prevenire i reciproci pensieri e
desideri. Se avessimo avuto almeno un figlio, la nostra unione
sarebbe stata più che perfetta, invece…
Per un po’ ne abbiamo sofferto: possibile che tutto il nostro
amore non potesse materializzarsi in una creatura da crescere,
da circondare con tutto il bene e i beni di cui disponevamo?
Avevamo anche pensato di adottare un bambino, ma poi, le
difficoltà burocratiche, il sapere che, per quanto desiderato e
amato, non sarebbe mai stato sangue nostro, alla fine, ci hanno
dissuasi. Così siamo ancora più bastati a noi stessi: abbiamo
202
condiviso tutto, anche quella cosa tragica e beffarda che è la
morte.»
Come se avesse intuito che c’era bisogno di lui, Bon Bon,
dopo aver girato attorno a tutti, con un balzo elegante, planò
sulle ginocchia del professore e gli si strusciò contro il petto,
ricevendone in cambio carezze dolci e prolungate.
Giulio C. resosi conto che la rievocazione stava prendendo
una piega un po’ troppo dolorosa (e non solo per il diretto
interessato), cercò di allentare la tensione offrendo una
sigaretta. Guardandosi intorno, si accorse dell’assoluta
mancanza di posacenere, per cui, prima ancora che Montreaux
parlasse, ne aveva dedotto che lì nessuno fumava.
«No, grazie» gli confermò Montreaux «sono ormai dieci
anni che non fumo più.»
«Complimenti» lo lodò Giulio C., mentre non sapeva se
accendersi comunque una Gauloise o desistere per solidarietà,
almeno temporanea.
«Non dev’essere stato facile smettere dopo una vita da
fumatore» commentò Bennati.
«Oh! Purtroppo più facile di quanto anch’io non pensassi»
rispose pronto. «Vede, è stato per me una specie di contratto, di
patto. Se fossi credente, direi di voto. Quando i medici mi
dissero che per Amelie non c’era più nulla da fare, non potei
accettare l’idea di vederla soffrire a lungo, di vederla deperire,
così lentamente, fino a spegnersi nella rabbia e nel dolore.
Così, chiesi, non so neppure io a chi, una specie di grazia; il
mio fu un voto alla rovescia: pregai che la morte arrivasse
veloce, rapida come uno scippatore giovane e violento. Almeno
questo mi fu concesso: nel giro di poche settimane lei se ne
andò, riuscendo a non soffrire troppo, grazie anche alla
morfina. Per me il tabacco era sempre stato un fedele
compagno di lavoro. Quante fumate di pipa mi sono fatto,
soprattutto durante le mie letture notturne. Tuttavia la
concessione di una grazia come quella fu una motivazione
sufficiente a farmi spegnere per sempre pipa e sigari.»
203
Concluse, alzandosi per offrire un cognac ai suoi ospiti. Ancor
prima che il professore si alzasse, Bon Bon aveva percepito che
lo avrebbe fatto e lo aveva preceduto, balzando sul tappeto.
Datasi una rapida sistemata al pelo, si avviò deciso, con la coda
dritta come un periscopio, verso il suo angolo preferito.
«Ma ora, se permettete, penso che ne abbiate avuto
abbastanza delle lagnose rimembranze di un vecchio
chiacchierone. Credo che avrete senz’altro voglia e bisogno di
immergervi nell’atmosfera frizzante delle feste. Qui attorno ci
sono diversi locali dove potrete mangiare, sentire musica,
ballare e…»
«Per quanto mi riguarda» non lo lasciò finire Bennati «non
amo troppo la ressa vociante. Preferisco un’atmosfera più
raccolta.»
«Per me è lo stesso: il tempo delle baldorie è finito»
sottolineò Giulio C.
«Ma cosa dice, Erneti, lei è ancora un ragazzo e anzi, ci
penso solo ora e mi scuso infinitamente, ma forse io l’ho
distolta dalla sua famiglia. Lei è sposato, no?» si ricordò tutto
ad un tratto.
«No, non esattamente, non più almeno» e, vuoi per
l’atmosfera rilassata e confidenziale, vuoi per la disarmante
spontaneità con cui Montreaux li aveva messi a parte delle sue
vicende personali, anche Giulio C. si sentì invogliato a rivelare
la sua storia.
«Abbia pazienza, Erneti, la prego, ma sa, noi vecchi siamo
in fondo un po’ dei masochisti. Forse perché, pensando che la
vita può essere dolore e che a noi della vita ne resta ben poca,
ci pare di soffrire meno uscendone. Così, amiamo ricordare le
difficoltà, le tribolazioni passate, sapendo che, per fortuna, ce
ne toccheranno ancora poche.»
«E adesso» proseguì poi alzandosi deciso dalla poltrona «vi
caccio fuori a forza. Andate almeno a …»
204
«Senta professore» lo interruppe Bennati «credo che anche
Erneti sia d’accordo con me: perché non ce ne andiamo tutti e
tre insieme in qualche locale che lei conoscerà senz’altro
meglio di noi e ci deliziamo il palato con qualche specialità del
posto?»
«Bravo Bennati, mi hai letto nel pensiero» concordò
prontamente Giulio C.
«Sì, certo, i locali giusti non mancano. Siamo vicini al
Marais, nel cuore della Parigi più esclusiva e misteriosa»
ammise l’anziano professore. «Aspettate un secondo. Faccio
una telefonata e poi… Vedrete, staremo benissimo» promise
sicuro ed eccitato.
E in effetti, quella che trascorsero fu una piacevolissima,
tranquilla serata tra persone che parevano conoscersi da
sempre.
L’ambiente del piccolo bistrot era intimo, caldo, reso
accogliente anche da musiche discrete che veleggiavano tra i
pochi tavoli, accarezzando le voci sussurrate degli ospiti: due
coppie di giovani innamorati, tre signore di una mezza età
molto ben portata, un piccolo gruppo misto, che con una
contenuta allegria, accompagnavano i tre studiosi verso la
mezzanotte.
«Professore, ben tornato!» lo apostrofò al suo ingresso un
giovane cameriere.
«Ciao, Valery» gli rispose sorridendo di gusto.
«Mi fa piacere vederla in compagnia» proseguì il garçonne,
facendo strada verso un tavolo un po’ defilato, con le sedie che
poggiavano lo schienale inclinato. «Ecco il suo tavolo,
professore. Prego, signori.» Li invitò, precedendoli e
sistemando le sedie.
«Grazie, Valery. Sei sempre il migliore. Come va?» si
informò con sincero interessamento, mentre prendevano posto.
«Bene, professore, grazie. Ho già dato altri due esami, ma
quello che sto preparando ora, temo, dovrò sudarlo parecchio.»
205
«Forza, allora, dacci dentro e se non va subito al primo
colpo, non importa; come si dice: ritenta, sarai più fortunato.
L’importante è avere sempre la volontà di andare avanti.» Lo
incoraggiò Montreaux, prima che Valery si allontanasse per
andare a prendere la lista delle consumazioni.
Scorrendo il menù, il professore li mise a parte della storia
del ragazzo.
«Sembra quasi una telenovela, si dice così, vero? Valery è il
fratello minore di una mia ex studentessa, una ragazza unica,
sia per le sue doti naturali, sia per la sfortuna che l’ha
perseguitata. Stava quasi laureandosi, quando in un incidente
aereo sono periti entrambi i genitori. Le sue condizioni
economiche ne hanno notevolmente risentito, così come,
ovviamente, il suo equilibrio affettivo e psicologico. In più si è
dovuta prendere cura di Valery, che all’epoca era appena un
ragazzino e che è rimasto scioccato dal colpo. Nonni non ce
n’erano, o meglio, anzi, peggio, la nonna materna era
ricoverata, già da qualche anno, in un istituto per malati di
Alzheimer…»
«Anche questa…» si inserì Bennati, con sincera
commiserazione.
«Aveva ragione a definirla una telenovela. Purtroppo questa
è vera e realmente tragica per i due ragazzi» convenne Giulio
C. che, posata la sua lista, partecipava al racconto del
professore, che proseguì:
«Naturalmente non era ancora finita la serie nera… Il giorno
che Claudine stava discutendo la tesi, vennero a interromperla:
Valery era stato ricoverato, colto da malore per una overdose.
Accompagnai io la sorella all’ospedale. Ricordo ancora come
si abbandonò sulla sedia della sala d’attesa, accartocciandosi su
se stessa, quasi volesse sparire. Non ne so molto di psicologia,
ma la sua pareva proprio la classica posizione fetale, come se
volesse rientrare in un utero protettivo e sfuggire a
quell’angoscia. Telefonai ad Amelie, che venne subito e
cercammo di confortarla. Rimase da noi per un po’, finché,
206
finalmente, Valery uscì dal coma. Insieme a lei cercammo il
posto migliore per curarlo, per disintossicarlo. Vivemmo con
lei i giorni della disperazione, della ripresa, della speranza, così
ci affezionammo, logicamente, ad entrambi.»
«Lo credo bene, sono esperienze che legano più di un
vincolo di sangue» commentò Giulio C.
«Certo, anche Amelie diceva sempre che era come se quelli
fossero diventati nostri figli. Li chiamava i nostri ragazzi.
Almeno, prima di lasciarci, ha fatto in tempo a vedere Valery
ristabilito.»
«E ora, Claudine dov’è, cosa fa?» si informò Bennati
«Aveva appena incominciato a lavorare in una casa editrice,
quando questa fallì e dovette, d’improvviso, cambiare lavoro.
Mentre si guardava attorno, incontrò un inglese, un
diplomatico. Lei, all’inizio, non volle esporsi troppo: si sentiva
molto responsabile per il fratello, ma lui la seppe circondare di
tante attenzioni che, alla fine, lei dovette arrendersi (molto
volentieri, penso) e lo sposò. Per Valery fu quasi un nuovo
colpo: razionalmente accettava la cosa, capiva che la sorella
aveva il diritto di vivere la sua vita, di andare incontro al suo
destino, ma il suo subconscio rifiutava che un estraneo si
inserisse nel suo rapporto con la sorella, che gliela distraesse.
Ci affidammo ad uno psicologo per aiutarlo a capirsi, a non
lacerarsi in una dicotomia affettiva ed esistenziale. Anche la
scomparsa di Amelie, più o meno in quel periodo, non facilitò
certo le cose a nessuno.»
«Professore, mi scusi, ma questa storia sembra quasi un
romanzo. Non ha pensato di raccontarla in un libro?»
intervenne Giulio C.
«No, vede figliolo… Mi scusi, è vero che per età potrebbe
pure esserlo, ma lei è anche e soprattutto uno studioso, un
professore, un collega. Perdoni ad un vecchio qualche
debolezza e caduta di stile.»
Si scusò quasi commosso Montreaux
207
«Ma cosa dice, professore. Quale debolezza? La sua
cortesia, la sua cordialità mi lusingano veramente» lo rassicurò
pronto Giulio C.
«Un libro, diceva?» proseguì poi «non ci ho neppure
pensato. I fatti mi avevano troppo coinvolto perché avessi la
necessaria obiettività per raccontarli.»
Mentre poi gustavano sapori sottili e coinvolgenti, Giulio C.
chiese notizie della sorella di Valery, la cui vicenda era rimasta
in sospeso.
«Già, Claudine e il suo diplomatico. Il matrimonio sembrò
funzionare e, quando il marito fu mandato in Germania, Valery
seguì la sorella. Egoisticamente, devo ammettere che quegli
anni per me furono alquanto vuoti. Ci sentivamo spesso, ogni
tanto passavano a trovarmi, volevano che andassi da loro, mi
ripetevano sempre che la camera degli ospiti mi aspettava, ma
io non volevo inserirmi in un matrimonio così recente… Poi,
qualche anno dopo, il diplomatico fu inviato in un paese
asiatico, non ricordo se Corea, Indonesia… Valery era
cresciuto ed in grado di badare a se stesso, così non volle
accompagnare la sorella e preferì tornare a Parigi. Quando me
lo disse, confesso di essere stato contento di poterlo seguire
ancora, di essergli vicino se avesse avuto bisogno di consigli.»
E, come a voler rivivere quei momenti, il professore
s’interruppe per scolare il vino che era rimasto nel bicchiere.
«E fu meglio così» proseguì poi «perché gli fu risparmiata la
crisi coniugale di Claudine, che sfociò in pochi mesi in un
divorzio contrastato di cui Valery venne a conoscenza solo
quando la sorella tornò a Parigi, per riflettere su cosa fare del
lungo resto della sua vita. I due fratelli, a casa mia, parlarono,
parlammo perché anch’io, naturalmente, fui coinvolto,
addolorato e preoccupato. Possibile che la malasorte, la
sfortuna, ancora volessero perseguitare quella ragazza che già
tanto aveva patito?» si chiese ancora incredulo.
«Ma i giovani, per fortuna, hanno anche tante risorse, tante
capacità di reagire, di non soccombere. Sono come un elastico,
208
che può tendersi fino all’inverosimile, ma poi ritorna alle sue
normali dimensioni. Così, anche quella prova fu superata e
Claudine accettò un incarico in Germania, dove vive tuttora»,
concluse Montreax.
Ormai da tempo la cena era stata suggellata da un cognac, il
cui profumo aleggiava ancora nei balloon, quando Valery si
avvicinò e con aria quasi complice, rivolto solo al professore,
gli sussurrò: «Sa, professore, tra un paio di giorni arriva
Claudine.»
Quelle parole ebbero il potere di illuminare il viso
dell’anziano docente: «E me lo dici solo adesso? Che bello!
Appena arriva, mandala subito da me» e, rivolto ai suoi ospiti:
«Così potrete conoscerla anche voi. Vi assicuro che vale la
pena, vero Valery?» chiese tutto eccitato per la bella notizia.
Due giorni dopo, mentre stava versando il cibo nella ciotola
di Bon Bon, squillò il telefono. Giulio C. era il più vicino
all’apparecchio e Montreaux lo pregò di rispondere.
Sentì dapprima, in risposta al suo «Hello» una lieve
esitazione e poi, una voce femminile, allegra e veloce, in un
francese che gli aprì un varco di ricordi, che chiedeva: «Non è
il professor Montreaux. Ho forse sbagliato numero?» Giulio C.
non fece troppa fatica nell’adeguarsi alla lingua e rispose che il
numero era giusto, lui era un ospite del professore e le avrebbe
passato subito il padrone di casa.
«Grazie» rispose chi aveva chiamato «Gli dica, per favore
che c’è Claudine».
«Oh!» non poté trattenersi dall’esclamare «allora la conosco
anch’io».
«Sì?» lo interrogò «Qual è il suo nome?»
«No, no» continuò Giulio C. «lei non mi conosce e a dire la
verità io so di lei per quello che Valery e il professore mi
hanno raccontato.»
«Così conosce mio fratello?»
209
«Già, un ottimo ragazzo. Ma, ecco, le passo il professore»
concluse, passando il telefono a Montreaux, che nel frattempo
era arrivato.
Discretamente, si ritirò per lasciarli parlare in piena libertà.
Poco dopo, Montreaux gli annunciò: «Tra un po’ ci
raggiungerà Claudine. Passeremo una bella serata insieme,
vedrete. Se permettete, vado a prepararmi.»
Il clima di attesa che si era creato, rendeva Bennati e Giulio
C. ansiosi di conoscere la ragazza, che aveva avuto il potere di
trasformare il loro anfitrione, da vecchio pantofolaio, in un
elegante e distinto vegliardo. Montreaux aveva, infatti, curato il
suo abbigliamento, al punto da illuminarlo con qualche goccia
di colonia.
La scampanellata che annunciò l’arrivo di Claudine, parve a
Giulio C. pari all’esuberanza della sua voce al telefono.
Quando fece la sua comparsa al braccio del padrone di casa,
gli sguardi dei due italiani furono immediatamente catturati
dalla sua figura, alta e slanciata, quasi efebica.
«Buonasera!» esordì in un italiano compiacente, mentre si
avvicinava tendendo la mano.
«Buonasera» risposero, quasi all’unisono, Bennati e
Giulio C.
Sedutisi in salotto, Claudine mise al corrente Montreaux
degli ultimi avvenimenti relativi al suo lavoro presso
un’agenzia di informazioni e comunicazione. Mentre lei
parlava, gli occhi del professore brillavano di compiacimento.
«Ma ora, professore, basta parlare di me. Mi dica qualcosa
di lei e dei suoi ospiti, piuttosto.» Lo interruppe, mentre lui
stava per chiederle ancora qualcosa.
«Oh! Sì, hai ragione» rispose pronto «è stato un vero colpo
di fulmine e di fortuna incontrare due persone così squisite» e
iniziò a raccontare di come aveva conosciuto lo scrittore
italiano attraverso un suo libro e di come lui fosse stato così
disponibile a venire ad incontrarlo.
210
La conversazione procedeva spontanea e fitta, creando una
piacevole atmosfera confidenziale.
«Quindi, professor Erneti, anche lei ha viaggiato molto,
allora?» chiese Claudine con fare spigliato.
«Sì, naturalmente, e non sempre solo per lavoro.» Confermò
Giulio C. «Anche se ho scoperto che si può essere lontani
anche non muovendosi da casa. Molto lontani da se stessi.»
«È vero anche il contrario, però» gli fece eco lei «Non le è
mai successo di essere lontanissimo dal suo habitat, eppure di
essere sempre lì, sempre presente, magari proprio quando meno
lo vorrebbe?»
«Assolutamente sì, ed è la sensazione peggiore. Sembra di
essere in trappola: vorresti fuggire da quella prigione senza
sbarre che è la tua mente, sono i tuoi pensieri, i tuoi ricordi che
non puoi abbandonare da nessuna parte.»
«Ma che brutta piega sta prendendo questo discorso!» li
interruppe Montreaux. «Io proporrei una bella cena, che ne
dite?»
La proposta fu accettata con entusiasmo. «Purtroppo Valery
questa sera lavora.» Li informò Claudine «Lo sa, professore,
che mi sono convertita al vegetariano?» e proseguì: «Pensi che
un collega tedesco mi ha dato l’indirizzo di un locale proprio
qui vicino, “La saladiere”, un nome che è tutto un
programma».
«Beh, penso che se anche nessuno di noi è della tua stessa
idea, una cena diversa per una volta non ci ucciderà di certo»,
accettò il professore, alzandosi e invitando tutti a seguirlo.
Più volte, durante la cena, Giulio C. si sorprese a
considerare quella presenza femminile così viva, così
spontanea…
La osservava, mentre lei si accalorava nel parlare, e, non
sapendo neppure perché, si rendeva conto che quella figura
longilinea, quei capelli biondi, chiari e folti, quegli occhi di
porcellana, di un azzurro profondo e deciso, lo turbavano.
211
Aveva dunque ragione Foscolo, quando definiva Ulisse
“bello di fama e di sventura”? Sì, perché anche Claudine
brillava per la fama che Montreaux le aveva costruito attorno e
quanto a sventura, poi…
Scherzarono e brindarono, perché Claudine aveva
sentenziato che vegetariani va bene, ma astemi, no mai!
Quando uscirono erano allegri, si sentivano leggeri, ben
disposti, quasi desiderosi di prolungare quella serata
all’infinito.
Purtroppo, Montreaux, nell’accennare un passo di danza,
inciampò e, se non ci fosse stato Bennati a trattenerlo, sarebbe
finito lungo disteso sul boulevard.
«Ah! Ragazzi» fu la pronta battuta dell’infortunato «Spesso,
soprattutto quando sono contento, dimentico che non ho più
l’età per permettermi questi sprazzi».
«Venga,
professore»
lo
sorresse
Bennati
«la
accompagniamo a casa».
«Ma no, per carità, non ci pensi neppure» rifiutò deciso.
«Credo che il mio amico abbia ragione, invece» concordò
Giulio C.
«Sentite» proclamò con fare solenne Bennati «facciamo
così: io, che sono un po’ troppo allegro andante, accompagno
volentieri il professore e voi andate a spasso o…»
«Questo mi pare già meglio come progetto. Venga, Bennati,
le offro un bicchiere del mio cognac preferito, come viatico per
la buona notte» gli propose Montreaux.
«E così siamo stati abbandonati al nostro destino» disse
Giulio C., non appena si ritrovò solo al fianco di Claudine.
«Dispiaciuto?» lo interrogò lei con aria sbarazzina,
guardandolo maliziosamente.
Giulio C. non rispose: l’attirò a sé, la strinse mentre con la
bocca cercava ogni lembo del suo viso, del suo collo che
sentiva caldo e profumato.
212
Claudine rispose con trasporto al suo bacio, schiudendo le
labbra, mentre il suo corpo aderiva ai muscoli tonici di lui. Le
loro mani si muovevano, ora dolci, ora prepotenti in
un’esplorazione reciproca che li faceva ansimare.
Solo uno scroscio di pioggia fredda e pungente, li fece
staccare.
«Non ricordavo più cosa fosse un bacio» gli confidò lei,
mentre cercavano un riparo, scendendo di corsa i gradini di una
stazione del metro.
«Vuoi ripassare ancora?» le chiese, prima di circondarla
protettivo con le braccia e senza darle la possibilità di
rispondere, chiudendole la bocca con la sua.
Mai come in quell’occasione Giulio C. apprezzò l’efficienza
del Metrò parigino, che gli permise in meno di mezz’ora di
trovarsi in un appartamento, solo con Claudine che pareva
anche lei bruciare dall’ansia di fare l’amore.
Furono momenti di esaltazione: immemore di qualsiasi cosa
che non fosse la ragazza che stringeva, al cui corpo si
avviluppava come a volerla fagocitare.
Claudine rispondeva alle sue sollecitazioni con un
entusiasmo contagioso. Più e più volte si sopraffecero a
vicenda, finché, esausti, sazi, si abbandonarono e giacquero
uno a fianco all’altro.
Lentamente, mano a mano che sfumava l’oblio della
passione, mentre la coscienza riprendeva il controllo della
mente, Giulio C. si analizzò: voltandosi sul fianco, osservava
Claudine che dormiva già e d’un tratto gli parve che quel
momento presente fosse solo una proiezione della sua mente.
Chi era quella donna, cosa pensava, cosa amava, come si
accordava con il suo io? Mentre così si interrogava, lei si voltò
e aprì gli occhi.
«Grazie. È stata un’emozione intensa. Mi piace fare l’amore
con te» gli sussurrò con la voce un po’ arrochita dal breve
sonno e dal vino.
213
«Posso dire altrettanto» le sorrise Giulio C.
«Mi stai studiando come se fossi un reperto archeologico
appartenente ad un passato remoto» lo stupì Claudine,
fissandolo con decisione.
«Scusa, cercavo di rendermi conto di com’è fatta la donna
che è stata capace di coinvolgermi fino a questo punto, quando
temevo…pensavo che non avrei mai più potuto…»
«Per me era lo stesso» concordò lei «anch’io credevo che
non avrei mai più permesso a nessuno di appropriarsi dei miei
sentimenti più fragili».
A lungo rimasero ancora piacevolmente insieme, ora
abbracciati, ora fianco a fianco, confessandosi i pensieri più
riposti, i ricordi più belli o più dolorosi.
Ciascuno mise a nudo il proprio io, finché Claudine, con una
subitaneità che lo colpì, si alzò e, correndo verso il bagno, gli
gridò: «Adesso basta pensare all’astratto, diamo un po’ di
soddisfazione anche al nostro stomaco. Ti va?» gli chiese con
una determinazione che non ammetteva altra risposta che un sì.
Più tardi, quando Giulio C. si ritrovò da solo, si sorprese a
pensare che quella notte, quella giornata trascorsa con Claudine
erano state per lui come una terapia, gli avevano dato una
carica psicofisica enorme: si sentiva di nuovo sicuro di sé, con
tanta voglia di fare, di lavorare, di scrivere. Pareva che tutto il
suo essere non chiedesse che di esprimersi, di agire. Gli pareva
di stare rivivendo e, quando Montreaux gli chiese se gli
sarebbe piaciuto tenere un corso alla Sorbona, accettò con
grande entusiasmo.
«Badi,» lo informò con una modestia tanto inaccettabile
quanto sincera «che la mia presentazione non sarà nulla a
confronto del suo curriculum! Come le ho detto, non sono
esattamente il più popolare, quanto ad amici ed estimatori, ma
so di poter contare sulle amicizie giuste. E poi lei ha già
abbastanza titoli di merito per conto suo».
214
«Lei sarà il mio anfitrione e l’essere stato notato da lei, sarà
per me un punto d’onore da aggiungere alla mia storia
professionale», lo smentì Giulio C., mentre si stringevano
calorosamente la mano.
E quando lui e Bennati salutarono il loro compitissimo
ospite, Giulio C. non poté non pensare che, tutto sommato, la
partenza era più spiacevole e malinconica perché lasciava un
vero amico che perché si allontanava da Claudine.
Tornato a casa, si trovò sommerso da e-mail e posta
cartacea, per non parlare della segreteria telefonica.
«Ehilà! Vagabondo!» lo salutò la voce del primo messaggio:
era Stavros. «Mica mai farti vivo, eh? Se non ti cerco io…
Bell’amico!» continuava allegramente «Come state? Spero
siate felici come me e Irene: siamo appena diventati genitori di
Alèxandros. Richiamateci, per favore. Vi abbracciamo. Ciao.»
Quelle richieste al plurale gli ricordarono che non aveva più
sentito da tempo gli amici greci, perché, da quando Charlotte se
ne era andata, aveva praticamente dimenticato anche gli amici
che, in qualche modo, erano collegati a lei, a loro due.
Così quella sera decise che era ora di riprendere possesso di
tutta la sua vita e si accorse che poteva anche voltarsi indietro a
ricordare, a raccontare, senza per questo sentirsi perso.
La telefonata a Stavros fu lunga e certo più imbarazzante per
l’amico che per lui.
«Lo dicevo io che doveva essere successo qualcosa, perché
non rispondessi a telefonate e lettere varie» commentò Stavros.
«Mi dispiace, Giulio, mi dispiace molto».
«Grazie, Stavros, ma ormai è passato, per fortuna. Ora ho in
mente tante cose, tanti progetti. Ah! Senti! Vedete le televisioni
italiane?»
«Assolutamente sì, abbiamo la parabola» gli assicurò.
«Allora, se vuoi vedermi, sto facendo un programma storico
astronomico» lo informò, fornendogli poi tutti i relativi
dettagli.
215
«Non pensi di venire a scaldarti un po’ in Grecia,
quest’anno?» gli chiese speranzoso.
«Può essere e comunque mi farebbe molto piacere», fu la
vaga risposta. Voleva fare una sorpresa all’amico, visto che
sapeva che “Nella terra degli Dei” stava per essere tradotto in
greco e quindi sarebbe sicuramente andato per la promozione
del libro.
Così in quell’estate del 2000 si ritrovò in giro per la Grecia a
presentare quel libro che continuava a recare una dedica così
sorpassata, ormai anacronistica e che, tuttavia non si sentiva di
rinnegare.
Lo accompagnava una giovane ragazza, dolcissima e timida
ma efficiente, che la casa editrice gli aveva affiancato. Era lei,
Anthula, che aveva in pugno la situazione logistica e lo portava
ora in una libreria, ora in un circolo culturale, finché, verso la
fine del tour promozionale, Giulio C., dopo averla ringraziata
per tutte le premure usategli, le comunicò che intendeva
prendersi qualche giorno di licenza per andare da solo a
Salonicco, a trovare degli amici (e sperò che Anthula capisse
quanto questa condizione fosse necessaria per lui, senza
sentirla come un’ingrata sgarberia).
«Professore, la prego, se posso esserle utile … Desidera che
vada a prenotarle un volo…»
«Senta, Anthula, lei è stata fin troppo cortese nei miei
riguardi e io la ringrazio infinitamente, ma davvero, le assicuro
che muovermi in Grecia non è un problema per me, anzi mi
piace fare da solo e confrontarmi con le varie situazioni della
vita quotidiana. E poi, lei è così giovane, avrà sicuramente
qualche persona con cui preferirà passare il suo tempo,
piuttosto che scarrozzare un maturo…»
Non poté finire la frase, perché il rossore che
improvvisamente fece avvampare il viso della ragazza fu più
eloquente di qualsiasi risposta.
216
«Ma certo, lei ha ragione, professore. Non volevo essere
invadente. Allora», riuscì a proferire mentre gli tendeva la
mano «arrivederci. Buon viaggio e piacevole soggiorno con…i
suoi amici.» Quella leggera, imbarazzata pausa finale suggerì a
Giulio C. che, forse, Anthula aveva frainteso il suo desiderio di
andarsene in giro da solo, attribuendolo, sicuramente, ad una
qualche fanciulla tessalonicese in sua trepida attesa.
Questo pensiero gli suscitò un incontenibile accenno di
risata che, messolo di buon umore, fu un ottimo viatico per il
pur breve volo Atene- Salonicco.
Ritrovare i vecchi amici fu una piacevole rimpatriata. Non
gli sfuggì che sia Irene sia Stavros facevano di tutto per evitare
ogni accenno agli anni trascorsi, così non poté non ringraziarli
per la loro delicatezza.
«Ma non temere, Stavros, ormai, come ti dicevo, la cicatrice
è solida e anche urtarla non mi dà problemi».
«Grande Giulio!» lo complimentò l’amico affettuosamente,
insieme ad una solida manata sulle spalle.
Poiché Irene non allattava e avevano una validissima baby
sitter, i neo genitori si presero una fugace vacanza, per portare
in giro lo scrittore e archeologo, come lo presentavano
orgogliosamente agli amici.
Ovviamente Giulio C. si commosse davanti ai resti della
tomba di Filippo il Macedone, pensando anche e soprattutto
che stava osservando cose che il grande Alessandro aveva
sicuramente visto, toccato. E proprio mentre osservava quegli
oggetti così preziosi, quel colore solare dell’oro dei diademi,
cominciò a maturare un abbozzo per uno studio o un romanzo
incentrato sul rapporto, sempre così difficile, specie a quei
livelli, tra un padre con grandi sogni e progetti e un figlio che
cominciava a chiedersi se sarebbe rimasto qualcosa da fare
anche per lui.
Forse era anche il pensiero del piccolo Alèxandros Balaskas,
ma gli pareva di essere quanto mai sensibile al discorso figli.
217
Gli era particolarmente piaciuta la frase con cui il neo papà
glielo aveva presentato: «Questo, Giulio, è il mio primo passo
verso l’immortalità o, quantomeno, verso la sopravvivenza».
«Come?» aveva chiesto incuriosito.
«Sì, finché ci sarà qualcuno che porta il mio DNA, che mi
ricorda, potrò dire di essere in qualche modo ancora vivo».
«Vero. Hai ragione», rifletté Giulio C. mentre,
spontaneamente, gli riaffioravano alla mente i versi dei
Sepolcri foscoliani.
«E così non ti manca il lavoro, mi pare!» concluse Stavros
dopo che Giulio C. lo ebbe messo al corrente dei suoi impegni
e progetti. «Perché non vieni a tirar fuori qualcosa anche qui da
noi?» lo invitò
«Magari, mi piacerebbe molto, magari proprio lavorando
con qualche collega greco.» Fu la sua risposta entusiastica.
«Forse la cosa non è poi così difficile, sai?» lo incuriosì
l’amico.
«Dai, Stavros, cosa dici?»
«Il nostro vicino è professore del nostro ateneo, un esperto
grecista. Vuoi conoscerlo? Magari da cosa nasce cosa, come
dite voi!»
«Sarò felicissimo di incontrarlo!»
«Benissimo» si inserì Irene «lo invitiamo a cena, allora.
Così potete fare una lunga chiacchierata. È una persona
simpatica e cordiale, vedrai.»
Effettivamente, Nikos Papadinos corrispose in pieno alla
descrizione che ne aveva fatto Irene. Giulio C. non lo avrebbe
più lasciato andar via: riuscivano a dialogare tra loro proprio
nella lingua di Socrate! Che emozioni suscitò in Giulio C.
quell’esperienza!
Quando gli espresse il suo desiderio di fare qualcosa
insieme, Papadinos sembrò impazzire di felicità. Si sarebbe
attivato subito per organizzare un corso destinato a pochi,
218
selezionati studenti della sua università e Giulio C. avrebbe
sottoposto il progetto alla sua facoltà.
Quando si salutarono, erano entrambi certissimi che si
sarebbero rivisti molto presto, con pale e scopette in mano.
Fu una vacanza breve ma intensa e salutare. Quando tornò a
casa, trovò una mail di Montreaux che gli annunciava che, per
il successivo anno accademico, gli era stato affidato un corso
alla Sorbona. La sua idea di studiare i rapporti tra Romani e
Galli, specie analizzando vari aspetti della vita quotidiana, sui
quali Roma aveva profondamente inciso, aveva, da un lato, un
po’ preoccupato gli esponenti più sciovinisti del consiglio di
facoltà, ma, dall’altro, aveva invece trovato consensi negli
elementi più aperti e lontani da ogni forma di integralismo.
Così nel 2001 tornò a Parigi, questa volta in qualità di
«monsieur le professeur».
Logicamente, Montreaux non aveva ammesso scuse: doveva
tornare a stare da lui.
«Guardi, Erneti,» gli disse la prima sera, dopo una cena a
base di piatti un po’ anonimi che la domestica filippina,
Angelina, gli aveva preparato «io sono vecchio, ma non così
rincoglionato…»
«..nito, professore, mi scusi, si dice rincoglionito» lo
corresse sorridendo.
«Grazie, figliolo. Allora, non così rincoglionito, dicevo, da
non ricordare che alla sua età si hanno ancora dei… delle…
come dire…» si inceppò imbarazzato.
«Desideri sessuali, vuol dire?» gli venne incontro.
«Precisamente, grazie. Quindi, se avrà voglia di compagnia,
se vorrà uscire, stare fuori anche tutte le notti, non c’è nessun
problema. Se troverà tempo e modo di divertirsi, ne sarò
felicissimo» e aggiunse «e non ha bisogno di cercare nessuna
giustificazione. Lei è libero, adulto e …»
«E vaccinato!» concluse per lui Giulio C. Mentre Bon Bon
gli saltava sulle ginocchia e ronfava la sua beatitudine, come se
219
avesse capito la battuta del nuovo amico: «Lei è un ospite
perfetto, professore» non poté fare a meno di congratularsi con
lui.
«Oh! Senta, poi, mi pare che sia venuto il momento di
smettere tutte le formalità e, a dispetto degli anni che ci
separano, siamo colleghi, in fondo e quindi propongo di darci
del tu e chiamarci per nome, Giulio. Va bene?»
«Ne sono felicissimo e onorato, Pierre» lo contraccambiò
con entusiasmo.
Logicamente la cosa andava solennizzata e sancita con un
brindisi del cognac delle grandi occasioni.
Le notti che Giulio C. trascorse fuori furono quelle che
passò con Claudine, quando lei tornava per qualche giorno a
Parigi.
Quegli incontri, spesso quasi improvvisi, gli piacevano, lo
caricavano. Non poteva dire di esserci abituato, ma era anzi
sempre un piacere scoprire come rotolarsi nel letto di Claudine
lo rimettesse ogni volta a nuovo.
«Come un motore, dopo aver subito una revisione e un
tagliando» gli venne da pensare una sera e stava quasi per
comunicarlo a lei, ma si fermò in tempo, perché si rese conto
che non doveva essere poi un gran bel complimento per la
ragazza che gli dormiva a fianco.
Quando terminò il suo corso alla Sorbona, propose al suo
ospite di venire con lui in Italia, dove lo avrebbe portato in giro
con molto piacere e, soprattutto, gli avrebbe fatto conoscere
sua madre.
«Molto volentieri, Giulio. Anche lei è rimasta sola, quindi
penso che ci capiremo splendidamente».
«Guarda, che lei è una donna speciale, ma semplice,
istintiva, non ha compiuto studi elevati» lo volle preparare.
«E con questo? Credi forse che giudichi le persone dal loro
titolo di studio? Ehi, per chi mi prendi?» lo rimproverò
risentito. «Non sono mica un imbecille! E poi, una donna che
220
ha cresciuto un figlio come te, deve essere per forza
eccezionale!»
Infatti, come aveva previsto, Montreaux, appena conosciuta
Mara, ebbe la conferma che era davvero una gran donna: la sua
semplicità era così diretta che ne rimase affascinato. In fondo,
studi a parte, avevano tante cose che li avvicinavano: la
giovinezza da tempo appassita, la perdita del compagno, la
guerra vissuta tra ansie, paure e speranze.
La sola cosa che metteva Mara un po’ a disagio era dover
parlare in italiano. «Cucinare mi ha sempre piaciuto molto» gli
confessò, quando Montreaux fece onore e complimentò la
prima cena a casa sua.
Così, anche l’affiatamento tra sua madre e lo studioso
francese fu un elemento di coesione tra quest’ultimo e
Giulio C.
A quella prima visita ne seguirono parecchie altre e Mara,
ogni volta, si stupiva di come un personaggio colto, importante,
straniero amasse anche starsene seduto in cucina a guardarla
mentre spignattava e lui cercasse di imparare anche qualche
parola di veneziano.
Montreaux si teneva costantemente in contatto con Giulio C.
che aveva preso l’abitudine di confidargli i suoi programmi di
lavoro, i suoi progetti, i suoi pensieri. A volte, gli pareva di
aver trovato un prezioso sostituto della mai dimenticata figura
paterna.
Anche se la storia di cui si occupava espressamente
Montreaux non era quella di cui Giulio C. era esperto, fu a lui
che, piano piano, lo scrittore rivelò la gestazione del nuovo
romanzo su Alessandro Magno. Benedisse chi aveva inventato
internet e la possibilità di chattare, quando, ritiratosi nell’eremo
di Marcello, si dedicò alla stesura definitiva del libro.
Confrontarsi con Montreaux era diventato per lui, oltre che un
piacere, una necessità, un conforto. Gli sembrava che
parlandone all’amico, si chiarissero anche a lui tante
incertezze, tanti dubbi.
221
Aveva quasi terminato il lavoro, quando sentì rinascere
dentro di sé il desiderio di rimettersi in campo, di tornare a
scavare, proprio in Grecia.
Fu proprio il destino, quel Fato che tante volte aveva
evocato nei suoi romanzi, a fargli trovare un cantiere che aveva
bisogno di qualcuno che lo facesse rivivere.
Qualche anno prima, casualmente, in un’isola piccola e
trascurata tra le tante altre che circondano la Grecia, erano
emersi i pezzi di una grande, splendida statua, di estrema
finezza e, soprattutto con ancora evidenti tracce di colore. Il
tutto era stato di nuovo sotterrato in attesa di fondi e di
qualcuno desideroso di sondare il terreno intorno.
Il suo desiderio di creare un team che unisse studenti italiani
e greci si sposò a meraviglia con quel luogo ancora da
esplorare. Nicos Papadinos fu entusiasta almeno quanto lui.
Mentre stava organizzandosi per la partenza, sentì
impellente il desiderio di fare una scappata a Parigi a salutare
Montreaux. Era certo che la cosa gli avrebbe fatto piacere,
perché l’anziano professore amava sentire raccontare dalla sua
viva voce progetti, aspettative e tutto quanto riguardava il suo
lavoro.
«Ma certo, Giulio, ti vedrò con gioia e ti aspetto quanto
prima. Grazie di aver pensato anche a questo vecchio
impiastro, prima di partire» gli rispose, quando gli preannunciò
la sua visita.
Da qualche mese non si vedevano e Giulio C. era
particolarmente ansioso di incontrarlo, anche perché Mara gli
aveva preparato un pacchetto, un regalo che, senza dubbio, lui
non si aspettava.
Montreaux lo accolse sulla porta d’ingresso e, nella luce
forte e fredda del vano scala, il suo viso parve a Giulio C. un
po’ smagrito e pallido.
«Pierre! Ciao. Come stai, come va?» chiese abbracciandolo
con affetto.
222
«Ben, bene, grazie» rispose, aggiungendo subito «come può
stare bene un vecchio, s’intende!»
Scherzarono un po’ sulla civetteria del professore che,
secondo Giulio C., insisteva sulla sua età, unicamente per
ricevere complimenti e smentite. A dire il vero, però, quella
volta gli costò doverlo rassicurare sulla prestanza fisica e su
come lo aveva trovato sempre uguale.
Nel corso della serata, in più occasioni, Giulio C. tentò di
sondare lo stato di salute dell’amico, il quale, invece, si
dimostrò abilissimo nel glissare ogni volta, trovando sempre
nuovi, interessanti argomenti di conversazione.
Fu un piacevole, fugace soggiorno che permise a Giulio C.
anche di incontrare Claudine, ripassando un repertorio erotico
che lo lasciava sempre totalmente soddisfatto, ma di una
sazietà tale da non spasimare di voler ripetere a breve
l’esperienza. Del resto, anche Claudine era contenta di amare e
sapersi amata così, senza obblighi, senza impegni, nella più
totale libertà per entrambi.
Raggiungere il sito degli scavi fu una vera avventura e,
quando, finalmente, nel maggio 2004 Giulio C. si trovò alla
guida di un gruppo di una decina di ragazzi delle due
nazionalità, partì alla carica, preso da una smania che gli dava
forza e lo rendeva instancabile.
Un paio di giovani erano stati suoi studenti e il ritrovarli gli
diede una grande gioia, soprattutto quando uno dei due gli
confidò: «Professore, le confesso che all’università eravamo in
parecchi a seguire le sue lezioni sentendoci dei privilegiati,
come forse si potevano sentire i giovani greci che ascoltavano
Socrate o Aristotele».
«Grazie, Antolini, ma ti prego, non darmi troppi motivi per
coltivare il mio narcisismo», gli rispose, sentendosi, però, quasi
lievitare di orgoglio.
223
Il cantiere si rivelava ogni giorno sorprendente: pareva che
ogni pezzo recuperato ne richiamasse altri. Le varie unità
stratigrafiche li stupivano con le loro ricchezze.
I ragazzi erano fantastici: Demetrios, Georgios, Melina,
Angheliki, provenienti da varie località della Grecia
peninsulare, erano dotati di una solida preparazione e lavorare
con i colleghi italiani stimolava in loro la voglia di figurare
sempre al meglio. Così la reciproca emulazione andava a tutto
vantaggio del lavoro, che procedeva spedito.
Spesso, la sera, dopo una doccia, chiamava Mara,che lo
tranquillizzava sempre circa la sua salute.
«Ghò sempre tante cosse da far, fijo mio, che vien sera che
no me ne acorgo» gli rispondeva, quando lui voleva sapere
come passava le sue giornate. «Ghe xè tante vecie da aijutar,
qua intorno, tante amighe carampane, che mi me sento una
putela.»
Una sera gli comunicò di aver ricevuto posta da Parigi:
Montreaux le mandava i suoi saluti, la ringraziava per il
pensiero che Giulio C. gli aveva portato da parte sua e le
chiedeva di ricordarlo sempre con affetto e simpatia.
Quel pomeriggio di metà giugno, chissà come, sentì il
bisogno di chiamare Parigi: nulla, il telefono squillava
inutilmente.
La cosa non gli piacque, ma pensò che, forse, data la bella
stagione, Montreaux poteva aver sentito il desiderio di andare
da qualche parte, magari con Valery o Claudine. Ne approfittò
per chiamare la ragazza, giustificandosi con la voglia di sentire
la sua voce, che era poi una mezza verità o una mezza
menzogna. Comunque, seppe che lei non era a Parigi e anche
con lei era da qualche tempo che il professore non si faceva
vivo.
Il giorno dopo riprovò a chiamare e, questa volta, da Rue du
Chemin Vert, ci fu una risposta, ma non era Montreaux, bensì
una voce femminile che si qualificò come infermiera.
224
«Il professore sta riposando, ma dopo l’intervento, lei
capisce, è molto provato».
«Come, intervento?» chiese Giulio C. con voce allarmata.
«Come, non sa?» gli rimandò stupita.» La settimana scorsa
il professore è stato operato per un tumore allo stomaco.»
«Come? Un tumore? Ma come sta ora?» insistette Giulio C.
«Cosa vuole, l’età non è certo di aiuto e in più pare che il
paziente non abbia molta voglia di combattere questa
battaglia».
Il telefono gli tremò nelle mani e non trovò subito le parole
per chiedere ancora. In quello spazio di silenzio, l’infermiera si
preparò a congedarsi: «La prego di scusarmi, ma ora devo
andare. Il professore si è svegliato e avrà sicuramente bisogno
di qualcosa.»
«Mi raccomando» quasi ansimò per trattenerla
all’apparecchio «lo saluti per me, gli dica che, appena potrò,
verrò di persona, ma se ha voglia di chiamarmi, le do il mio
cellulare. Gli faccia forza, gli dica che ho voglia di rivederlo in
piena forma. Lo abbracci per me».
Dopo quella rivelazione sconvolgente, Giulio C. cominciava
a pensare a come poter scappare a vedere com’era la situazione
reale e sentiva salirgli alla gola un sapore conosciuto di
amarezza e impotenza.
Stava ancora combattendo con questa spiacevole
sensazione, quando suonò il telefono.
«Non ti si può nascondere proprio niente, eh?» gli arrivò la
voce stanca e flebile di Montreaux
«Pierre!» esclamò «Vecchio disgraziato, come hai potuto
pensare di celarmi una cosa simile? Perché non mi hai detto
nulla quando ci siamo visti l’ultima volta?»
«Cambiava forse qualcosa?» sospirò in risposta il
professore.
«Avrei almeno potuto…»
225
«Potuto niente», finì per lui Montreaux.
«Ma almeno avrei cercato di esserti vicino al telefono».
«E dai, Giulio!» lo spronò con un po’ più di energia
«La malattia, la morte sono una questione personale. Questa
volta tocca a me».
«Ti proibisco di avere di questi pensieri. L’intervento è
andato bene e ora devi solo cercare di lottare…»
«Lottare?» lo interruppe pronto «E per che cosa, per chi?
Credimi, tutto sommato, sono contento di seguire Amelie. Sai,
sto sforzandomi di credere che qualcosa di noi resti e che, in
qualche modo, nonostante il disfacimento del corpo, si possano
ritrovare le persone care. Non è facile per un materialista come
me, ma, ormai, è solo questa speranza, o questa illusione, se
preferisci, che mi può dare un po’ di conforto.»
«Pierre, non posso credere di doverti perdere. Per favore,
fallo per me, resta, aggrappati alla vita…» Giulio C. sentiva gli
occhi inumidirsi e la lingua impastarsi in bocca.
«Beh! Sai a cosa mi sto aggrappando da qualche giorno? Al
tuo romanzo su Alessandro. È sempre qui sul mio comodino e,
appena mi sento un po’ in forze, ne leggo parecchie pagine.
Che penna favolosa sei, Giulio!»
«Grazie, Pierre, le tue parole mi riempiono di orgoglio. Ma
perché non ti fai fare un po’ di lettura dalla tua infermiera?» gli
suggerì.
«Ma per carità! Quella parla solo francese e non voglio che
sciupi malamente quello che in italiano tu hai saputo rendere
così bene!»
«Senti, Pierre, allora continua a leggere e ci risentiamo tra
qualche giorno, così mi potrai dare il tuo parere su questa mia
ultima fatica».
«Certo, Giulio, certo. Sarò ben lieto di discutere con te a
proposito di un gigante come Alessandro. Chissà, se Filippo
fosse stato un padre e un marito devoto, la sua vita sarebbe
stata diversa?» chiese dubbioso.
226
«Proprio tu, uno storico, mi fai questa domanda?» gli
rispose meravigliato «Che possibilità abbiamo di un riscontro?
Sai bene che la storia è una e una sola».
«Già, ma qualche volta è bello anche lasciarsi prendere
dall’immaginazione e crearci una storia nostra, inventare un
nuovo corso degli eventi. Ci può far sentire un po’ simili agli
dei.»
Mentre Montreaux parlava, Giulio C. ne sentiva la voce
diventare sempre più flebile, finché, dopo un secondo di
silenzio, sentì la voce femminile «Scusi, ma ora il professore è
molto stanco e la deve salutare. A risentirla.»
Anche dopo che la comunicazione fu interrotta, Giulio C.
continuò a tenere stretto il telefono, come se questo lo potesse
legare ancora all’amico lontano.
Gli parve interminabile quella fila di giornate che si impose
di lasciar passare prima di richiamarlo.
Quando, con sua sorpresa, sentì subito la voce di
Montreaux, anziché quella dell’infermiera, ebbe un sussulto di
gioia. «Pierre! Buonasera. Come stai?»
«Oh! Giulio! Che piacere mi dà la tua voce» lo ricambiò
l’amico «Non so se essere contento, ma mi dicono che va
meglio».
«Sei il solito stravagante!» commentò «Come puoi non
essere contento se ti senti più in forze».
«E allora, la tua lettura come va?» chiese subito con
malcelata impazienza.
«Purtroppo, ho già terminato il libro e mi pare di aver detto
addio ad una persona cara» gli confidò.
«Così simpatico ti è riuscito il mio Alessandro?»
«Non solo simpatico, ma degno di grande rispetto e
ammirazione. Pensare alla sua età e a quello che ha compiuto,
ha davvero del prodigio. Tu, che come me, non sei padre, come
hai fatto a calarti così efficacemente nei rapporti tra genitore e
227
figlio, a essere così reale, quando riporti dialoghi e monologhi
di personaggi dalla statura così enorme?»
«Forse proprio perché enormi, non comuni, mi sono
sembrati assoluti e incomparabili. Non c’erano termini di
paragone e quindi…»
«Come al solito, la tua modestia rende tutto così semplice!»
lo elogiò.
Purtroppo, proprio mentre stava per salutarlo e dargli
appuntamento telefonico per il giorno dopo, le batterie del
cellulare lo lasciarono a secco.
«Pazienza!» si consolò «Ci sentiamo domani. Buonanotte
Pierre!» augurò.
Invece il giorno dopo, un imprevisto lo tenne impegnato
tutto il giorno e in grande apprensione: durante il lavoro agli
scavi, uno dei ragazzi italiani rimase ferito in un incidente e lui,
sentendosi responsabile, in qualità di direttore, seguì tutte le
incombenze sia burocratiche che mediche. Fortunatamente, la
cosa si risolse con conseguenze assai meno gravi di quanto
temuto all’inizio, ma per Giulio C. fu una giornata di notevole
stress.
Il mattino dopo fu proprio il telefono a svegliarlo.
«Sì? Pronto» rispose, alzandosi ancora un po’ assonnato e
dopo aver ciancicato prima di riuscire ad agguantare
l’apparecchio dal comodino ingombro di sveglia, libri e molto
altro.
«Professor Erneti?» chiese una voce un po’ imbarazzata
«Sì, chi parla?» domandò, sentendosi montare dentro
un’ansia che gli azzannava il respiro.
«Sono l’infermiera del professor Montreaux. Il professore
mi ha pregata, tempo fa, di chiamarla se… se le sue
condizioni… la sua salute…» la donna si faceva sempre più
titubante.
«Oddio, no!» si sentì quasi gridare.
228
«Il professore si è molto aggravato e abbiamo dovuto
portarlo in ospedale. Se lei vuole e può venire, non so se
riuscirà a trovarlo ancora cosciente.»
Giulio C. si sentì vacillare, ma ebbe la forza e la lucidità di
spiegare che, da dove si trovava, non sapeva quanto tempo
avrebbe impiegato per arrivare, ma la assicurò che avrebbe
fatto l’impossibile per essere a Parigi nel minor tempo
possibile.
«Gli porti i miei saluti, i miei auguri. Lo abbracci per me e
gli dica di aspettarmi. La prego» concluse, ormai con un
groppo alla gola.
«Certo, certo. Stia tranquillo che il professore sa quanto lei
gli sia affezionato» cercò di consolarlo.
La giornata passò ad organizzare il lavoro agli scavi in vista
della sua partenza e a cercare disperatamente di arrivare a
Parigi prima possibile, aiutato in ciò, anche da alcuni ragazzi
che avevano qualche amicizia in una agenzia di viaggi ateniese.
Avrebbe strappato le ali a Pegaso per volare via subito.
Purtroppo non era facile mantenersi in contatto con
l’infermiera che, essendo quasi sempre in ospedale, teneva il
telefono spento. Quando, finalmente Giulio C. atterrò, mentre
attendeva il taxi, riuscì miracolosamente e parlarle.
«Sto arrivando, mademoiselle. Come sta?»
«Alterna momenti di lucidità ad altri di incoscienza. I
medici non danno troppe speranze.»
No, non era preparato ad un addio. Come avrebbe potuto
confortare qualcuno, se era lui che si sentiva prostrato e
inconsolabile per quella imminente perdita?
Quando si trovò di fronte il volto teso e pallido della donna,
che non aveva mai incontrato prima, sentì, all’improvviso, una
forza insperata, un desiderio di trovarsi accanto all’amico nel
momento del suo passo estremo.
229
«Vada, professore.» Lo accolse lei, rimettendosi a sedere.
«È assopito, ma forse può avvertire la sua presenza, che gli
sarà di conforto».
Giulio C. entrò, temendo che il cupo tamburo del suo cuore
fosse così forte da destare il paziente. Si avvicinò al letto,
mentre rivedeva in un rapido scorrere di immagini, i tanti
piacevoli momenti trascorsi con l’amico. Sorrise al ricordo
della caduta di Montreaux, la sera in cui aveva fatto l’amore
con Claudine per la prima volta.
«Oh! Giulio! Che bello vedere finalmente un volto
sorridente!» anche se debole, la voce del paziente lo fece
sobbalzare.
«Pierre!» lo salutò, con enfasi. «Stavo ricordando alcune
delle tue stravaganze.» Spiegò, stringendogli la mano ossuta e
fredda. «Come va? Hai freddo?» chiese ansiosamente.
«Ma no, no. Non soffro e questo è già molto, ti assicuro.
Non immagini quanto mi faccia piacere averti vicino in questo
momento. Avrei tante cose da dirti, non so se avrò tempo e
forza a sufficienza.»
«Ma certo che mi dirai tutto quello che vuoi, ma con calma,
Pierre, adagio.» Lo rassicurò, sentendo il lieve affanno che
aveva accompagnato le sue parole.
In quel momento entrò un medico seguito da un’infermiera.
«Scusi, ma il professore è molto debole, non lo stanchi. Ora,
per cortesia, esca un momento, dobbiamo somministrargli
alcuni farmaci.» Lo informò il giovane dottore.
Giulio C., stringendo sempre la mano dell’amico, lo salutò:
«Non temere, Pierre. Sono qua fuori e tra un po’ ritorno.
A dopo.»
Uscendo, si trattenne a parlare con l’infermiera che aveva
assistito Montreaux in tutti quei giorni.
Non si poteva certo definirla una bella ragazza, troppo
spigolosa e senza alcuna cura estetica. Pallida e senza trucco,
aveva, però, l’aria di chi si prende seriamente a cuore il proprio
230
lavoro. A Giulio C. faceva venire in mente quelle ragazze
allevate in un convento di suore e che, anche da adulte,
conservano una sostanziale indifferenza per il proprio aspetto
fisico. Tutto il suo impegno lo riversava nel lavoro, che, senza
dubbio, percepiva come una missione. Giulio C. le fu grato per
le cure e le premure che aveva avuto per il suo assistito e
questo gliela fece apparire preziosa.
Quando vide uscire il medico, gli si avvicinò e chiese
notizie dell’amico.
«Purtroppo, non possiamo fare granché» fu la sconsolata
risposta del dottore. «Vede, l’intervento tentato non ha risolto il
problema che in piccola parte. Aggiunga a questo che il
paziente non ha mostrato di tenere molto a vivere ancora.
Peccato, una persona di valore !» aggiunse.
«Pensavo di trovare qualche collega dell’università, qualche
persona della cultura parigina…» gli confessò con rammarico.
«Sì, è venuto qualcuno a chiedere di lui, anche dei giovani,
ma il professore era stato tassativo, non aveva voluto che
lasciassimo passare nessuno. Così, dopo i primi giorni, non si è
più vista anima viva. Solo qualche vero amico e collega ha
continuato a telefonare.» Spiegò il dottore.
Giulio C. suggerì all’infermiera, che gli aveva detto di
chiamarsi Marie, di uscire, di andare a distrarsi un po’, ora che
c’era lui e avrebbe potuto tornare verso sera. Ringraziandolo,
lei disse che avrebbe approfittato di quella pausa per fare una
scappata a casa a dar da mangiare a Bon Bon.
«Sapesse quante volte il professore mi ha fatto promettere di
prendermi cura di lui, quando…» non riuscì a finire la frase.
Rientrato subito dopo nella stanza, trovò Pierre
addormentato. Si sedette nella poltrona di fianco al letto e
rivolta verso il capo dell’amico, dal cui corpo uscivano alcune
cannule e fili, collegati a monitor e flaconi di liquidi appesi a
trespoli, come frutti di un albero asettico.
231
Chissà quanto tempo passò così, spiando il più lieve
movimento, tendendo l’orecchio a cogliere il più flebile
sospiro! Comunque, ad un tratto Pierre aprì gli occhi e gli
sorrise, o così volle credere lui.
«Ancora qui? Giulio, sei impagabile. Venuto apposta per
assistere questo vecchio che, nonostante tutto, non riesce ad
andarsene e continua a rompere le scatole …» Pierre restava
fedele al suo spirito anche in quella circostanza.
«Se ti dà fastidio la mia presenza, posso sempre
andarmene.» stette allo scherzo.
«Sai bene che aspettavo solo te per accomiatarmi dal
mondo. Valery è stato qui nei giorni scorsi, ma vedessi come
era affranto! Mi faceva sentire in colpa, averlo qua vicino. Non
faceva che asciugarsi gli occhi, giustificandosi con un
raffreddore inesistente. Gli ho fatto dire da Marie che non
c’erano problemi, che tutto era sotto controllo e poteva andare
tranquillo. Gli ho telefonato anche ieri, per tranquillizzarlo
perché altrimenti me lo sarei ritrovato qui ancora. Spero che la
vita sia benevola con lui, se lo merita.»
«E Claudine?» non poté non chiedere.
«Aspettavo la tua domanda!» esclamò con un tentativo di
risata, che gli provocò un violento spasmo di tosse, per fortuna
breve.
«Perché?» gli chiese, fingendosi stupito Giulio C.
«Beh! Non crederai che non sappia… di te e di lei!» fu
pronto a rivelargli. «Da quando ti ha conosciuto, l’ho vista
più… vivace ed espansiva. L’amore fa sempre bene, a tutti.»
«Veramente…» Giulio C. voleva chiarire che il suo rapporto
con la ragazza non era forse come lo intendeva lui, che non si
sentivano, né lui, né lei, legati per la vita, ma ancora una volta,
Pierre lo meravigliò con la sua perspicacia.
«Certo, Giulio, non sto parlando dell’Amore con la
maiuscola, di quello che abbiamo conosciuto Amelie ed io. Ma
l’amore ha tante facce, tanti modi di manifestarsi. L’importante
232
è che sia uguale per entrambi gli interessati. E questo mi pare
sia il vostro caso, o sbaglio?»
«E quando mai sbagli tu, Pierre?!» concordò compiaciuto.
«Sì, ci capiamo e, in fondo, abbiamo bisogno delle stesse cose.
L’importante è non farsi soffrire e riuscire a godere di quanto
spontaneamente ci si dà, senza obblighi o doveri, né legali, né
affettivi.»
«Un po’ amara forse come filosofia di vita, ma realistica e
sincera. Mi piaci ancora di più, e proprio ora che debbo
andarmene.» Sospirò, cercando di sollevarsi dai cuscini
«Le sole cose mie che mi importano e che vorrei affidare a
chi sa apprezzarle, sono Bon Bon e i miei libri.» Cominciò a
confidare, mentre il respiro si faceva sempre più faticoso e le
parole si diradavano nella loro successione.
«Pierre, non preoccuparti. Bon Bon è in buone mani: Marie
è appena andata a dargli da mangiare.» Lo tranquillizzò.
«Sai che quando ho dovuto cercare una infermiera, tra le
condizioni che ho posto c’era l’amore per i gatti?»
Ormai, Giulio C. faceva fatica a sentire quanto Pierre gli
diceva e lo sforzo per capire era un elemento di angoscia in
più.
«Riposa, Pierre» lo invitò «non stancarti. Parleremo ancora
più tardi».
«Più tardi, potrebbe essere troppo tardi, Giulio. Quello che
devo dirti, devo dirtelo ora»
Giulio C. si avvicinò ancora di più e col volto a un palmo da
quello dell’amico poté sentirne tutta la fatica e l’ansia di finire.
Il bip dei monitor si fece sempre meno regolare e, quando
Pierre con una smorfia smise di parlare, lui suonò il
campanello per chiamare il medico.
Strinse forte la mano dell’amico, che parve rispondere
socchiudendo gli occhi.
«Chi chiami?» gli chiese in un soffio quasi inudibile «Non
ho più bisogno di niente, ormai. Lasciatemi andare…»
233
«Pierre…»
In quel momento si aprì la porta ed entrò lo stesso medico
con cui aveva parlato. Controllò i vari apparecchi e, rivolto a
Giulio C. bisbigliò: «È questione di poco, coraggio. Le assicuro
che non sta soffrendo più di lei.» Aggiustato il flusso della
flebo, uscì.
«Giulio, i miei libri… Te li raccomando, voglio che li abbia
tu. Forse non tutti ti interesseranno, ma ce ne sono alcuni
importanti…» lo sforzo di quelle parole lo sfinì.
«Certo, Pierre. Sai bene che li terrò cari. Il loro valore è
doppio, oltre a quello intrinseco sono preziosi, perché
appartenuti a te.»
Non ci fu risposta: Montreaux fece per aprire la bocca, ma la
richiuse insieme agli occhi. Il respiro era solo un lieve ansito.
Come se avesse avvertito la necessità della sua presenza, il
medico entrò.
«Credo che sia alla fine» sussurrò Giulio.
«Sì, ormai non può più sentirla. Mi chiami quando…» gli
disse aprendo la porta per andarsene.
Giulio C. accennò di sì solo con il capo.
Rimase a guardare il volto dell’amico che era già oltre e
irraggiungibile per lui. Sembrava quasi che, più si staccava
dalla vita, più si distendessero i suoi lineamenti. La barba e i
capelli si confondevano con il candore delle lenzuola e gli
davano un’aria immateriale, eterea.
Stava per alzarsi dalla poltrona per cercare di bere un goccio
d’acqua, quando sentì un rantolo, un sospiro e … più nulla. Ora
non c’era proprio più niente da fare, se non ricordare quanto di
importante gli aveva insegnato quel grande uomo che aveva
voluto uscire dalla vita in punta di piedi. Telefonò
all’infermiera che, pur essendo preparata alla notizia, non riuscì
a dirgli molto, soffocata dal pianto.
234
«Mi sono trattenuta a casa del professore. Le dispiacerebbe
venire qui? Ho alcune cose da farle vedere e da darle.
L’aspetto.»
«A tra poco» rispose riponendo il telefono.
Si fermò ancora un momento accanto al letto per dare
l’addio definitivo all’amico, quindi uscì. Incrociando il medico,
gli disse che era tutto finito e lo salutò mestamente.
Quando entrò in quella casa, dove aveva trascorso tante ore
piacevoli, conversando amabilmente di tutto con Pierre, ebbe
un sussulto: molti mobili, quadri, che aveva ammirato non
c’erano più. Al loro posto restavano solo delle forme vuote, le
impronte che gli oggetti avevano lasciato sull’intonaco delle
pareti: gli pareva che tutto fosse irreale, solo un brutto sogno.
Marie aveva gli occhi rossi e anche il viso appariva
congestionato, sicché il contrasto con il pallore abituale della
ragazza, la faceva apparire assurdamente più viva.
«Venga» lo accolse «il professore ha lasciato alcune
disposizioni che penso lei debba leggere subito.» Gli disse
porgendogli una busta chiusa.
«Cos’è successo?» chiese guardandosi intorno avvilito.
«Legga» lo invitò «capirà ogni cosa» gli rispose,
accompagnandolo verso il salotto, nel quale erano rimaste
poltrone e divano.
Giulio C. aprì con mani tremanti la busta: era una sorta di
testamento.
«Queste sono le mie ultime volontà, scritte mentre sono
perfettamente cosciente e consapevole della spietatezza di
alcuni miei giudizi, ma ormai…posso finalmente permettermi
la sincerità più totale.
Innanzitutto, desidero essere sepolto accanto ad Amelie,
dopo un funerale semplice e per pochi intimi. Se chi si
occuperà di tutto, vorrà comunicare la mia dipartita ad
esequie avvenute, ne sarò felicissimo. Spero che i miei
colleghi mi saranno grati se gli risparmierò lo sgradevole
compito di mostrarsi ipocritamente addolorati. Poiché non
ho mai condiviso la smania di pubblicità che anima alcuni di
235
loro, vorrei, però, che almeno in questa occasione, evitassero
di mettersi in mostra con inopportune commemorazioni
funebri, che in passato, in analoghe circostanze, hanno
suscitato più noia e ironia che commozione, vero Jarrod,
vero Blanchard?
Forse qualcosa di quello che ho scritto, in tanti anni di
studio e insegnamento, resterà valido ancora per diverso
tempo e chi leggerà i miei libri sarà il mio erede.
E adesso veniamo a te, Giulio C.
So che avresti apprezzato la quadreria e i mobili che si
trovavano nel mio appartamento e io sarei stato ben felice di
sapere che li avresti usati e guardati tu, ma, purtroppo,
quanto è rimasto, è già stato tutto inventariato da due
avvoltoi, nipoti scriteriati e imbecilli.
Avevo un fratello, Michel, che purtroppo morì durante la
seconda guerra mondiale. Ha avuto la ulteriore disgrazia di
diventare padre di due nullità, che per fortuna, morendo
ancora giovane, non ha fatto in tempo a vedere degenerare
come hanno fatto. La madre non si è mai molto curata di
loro, specie dopo che si è risposata. Di lei non ho più saputo
nulla, dei due rapaci, invece ho avuto notizie quando morì
Amelie, in quanto si fecero rappresentare da un notaio per
conoscere l’entità della loro parte di eredità. Fu una cosa
spiacevolissima, puoi immaginare quanto io fossi nelle
condizioni di spirito adatte a sopportare la loro avidità.
Comunque, in quella occasione, sapendo che non esistevano
altri eredi, si sono premurati di mettere le mani su tutto
quanto ci sarebbe stato alla mia morte. Per evitare di
impinguare ulteriormente quei due parassiti e per sostenere,
invece, qualcuno che ha dato prova di essere un ragazzo
d’oro, ho venduto parecchio per capitalizzare una cifra che
sarà senz’altro spesa meglio di quanto avrebbero fatto i miei
sciagurati consanguinei. Marie ti consegnerà la chiave di
una cassetta di sicurezza della mia banca: vacci quanto
prima, perché tutto quello che c’è è tuo,a parte una cosa che
consegnerai, per favore a Valery, al quale ho già fatto in
modo che arrivi una mia lettera di congedo.
Spero solo di lasciarti un buon ricordo di me e addio.
Pierre Montreax
236
Finita la lettura, che gli costò un magone amaro, alzando il
viso dalla lettera, si trovò di fronte gli occhi lucidi di Marie,
che gli porgeva una piccola chiave.
«Questa è per lei. Lei sa quello che deve fare».
Adempì anche a quel compito e si stupì del contenuto della
cassetta. Pierre aveva voluto lasciare a lui le cose che,
solitamente, in quelle circostanze si lasciano a un figlio: un
orologio d’oro da taschino, un libretto con parecchi euro, che
avrebbe dovuto consegnare a Valery, un bronzetto, che
Giulio C. datò al XIV secolo, di pregevole fattura, una
miniatura su rame che ricordava il celebre libro d’ore dei
fratelli Limbourg. Riposto tutto quanto con cura nella borsa che
aveva portato con sé, uscì.
Quella sera si accollò il penoso compito di sostenere Valery,
che gli parve tremendamente depresso e avvilito.
«Sai bene quanto Pierre ti fosse affezionato» gli disse
mentre bevevano una birra al bistrò dove il ragazzo lavorava
«quindi non ti meraviglierai di quanto sto per darti.»
Prese dalla tasca della giacca il libretto e glielo porse.
Valery non lo aprì neppure, ma lo strinse al petto mentre le
lacrime gli rigavano le guance.
«Non ti interessa sapere quanto ti ha lasciato?» gli chiese,
anche per distrarlo.
«La cifra non potrebbe cambiare la stima che avevo e ho di
lui» rispose.
«Ma potrebbe forse cambiare un po’ la tua vita.» Lo
stuzzicò.
Incuriosito, Valery aprì il libretto e lesse la cifra: il suo volto
passò dal pallore al rossore e di nuovo impallidì nel giro di
pochi attimi.
«Come vedi, ora potrai dedicarti solo ai tuoi studi, non avrai
più bisogno di lavorare, se non vorrai!» gli suggerì
«Cosa ho fatto io per meritare un affetto così … duraturo?»
si chiese mettendo in tasca il libretto, dopo averlo accarezzato.
237
«Pierre aveva capito che la vita ti aveva già messo troppo
alla prova e gli è piaciuto rappresentare per te una specie di
compenso, di giustizia.» Commentò Giulio C., prima di
salutarlo.
Due giorni dopo, fece in modo che il desiderio di Pierre di
andarsene in sordina si realizzasse. Conoscendo il pensiero
dell’amico riguardo la religione, gli assicurò unicamente il
conforto di un breve e sentito saluto da parte sua, di Valery,
alla presenza di Marie e di pochissimi altri amici, quei pochi
che lui aveva stimato in vita e non gli avevano mai fatto
mancare il loro apprezzamento. Claudine gli telefonò la sera
prima delle esequie. Era molto provata anche lei, ma purtroppo,
pur desiderandolo con tutto il cuore, non riusciva ad essere
presente, perché in quei giorni c’erano importanti convegni cui
doveva necessariamente partecipare.
«È straziante dover dire addio ancora ad un padre e non
poterlo fare di persona. Ti prego, Giulio» lo supplicò «stai
vicino a Valery.»
Non fu difficile farlo per Giulio C., anche perché il ragazzo
diede prova di un grande autocontrollo e capacità di incassare
quel nuovo colpo.
Mentre stava per prenotare il volo di rientro, un SMS di
Claudine lo informò che stava tornando: inaspettatamente,
sarebbe arrivata a Parigi e gli chiedeva se potevano incontrarsi.
L’orario del suo volo pareva calcolato apposta per incrociare
quello di Giulio C. Avrebbero avuto giusto il tempo di
salutarsi.
Quando si videro in lontananza, si corsero incontro, si
guardarono negli occhi e si abbracciarono, ma a nessuno dei
due venne la voglia di baciarsi.
«Strano» disse Giulio C. «non avrei mai immaginato,
quando ci siamo salutati l’ultima volta, che ci saremmo trovati
così…»
«Così stonati vuoi dire?» terminò lei.
238
«Sì, è esattamente la sensazione che provo» confermò,
mentre si sedevano ad un tavolino di un bar.
«Non ricordo di aver mai provato prima queste emozioni»
continuò Claudine «il forte dolore si sta affievolendo, ma mi
sembra di essere un oggetto. Quando morirono i miei, certo, il
colpo fu terribile, devastante, mi parve che non avrei più potuto
vivere una vita normale. Mi ci volle parecchio tempo, ma, alla
fine, cominciai a risalire la china e, forse anche grazie
all’impegno di dovermi prendere cura di Valery, mi sentii di
nuovo viva e vitale. Ora, non so, credo di essere come una
lastra di marmo: tutto mi scivola sopra, indifferente. Passerà
anche questo momento, comunque…»
«Per Valery ora non devi preoccuparti, ad ogni modo» la
sollevò.
«Sì, mi ha detto che Pierre ha pensato anche al suo futuro.
Che uomo unico è stato! Sai che mi sento privilegiata per aver
goduto della sua amicizia e della sua protezione!?» gli confidò
Si guardavano con intensità e ognuno pareva avere sulle
labbra delle parole che faticavano ad uscire.
«È stato merito di Pierre se ci siamo conosciuti.» ricordò
Giulio C.
«Già ed è stato bello, vero?» gli chiese, mentre sorseggiava
distrattamente il suo caffè.
«È stato?» chiese
«Non sembra anche a te che sia meglio lasciarci così, senza
alcuna scena madre? Mi ha fatto molto piacere rivederti,
Giulio, ma sai bene anche tu che non abbiamo mai voluto fare
progetti o programmi. Questo ci ha accomunati forse più di
qualunque promessa o vincolo legale. Siamo stati bene
insieme, no?»
«Veramente. Anche io non ho rimpianti, ma solo piacevoli
ricordi e di questo ti ringrazio. Abbiamo avuto una bella storia
ed è ancora più unica perché finisce così, lasciandoci di
comune accordo, visto che per entrambi non ci sono più motivi
239
per tenere aperto un discorso che si è esaurito gradualmente, in
modo indolore.»
«Grazie Giulio, per la tua comprensione, per come sei…»
Pur tra il rumore di sottofondo, Giulio C. riuscì a sentire che
stavano chiamando il suo volo.
«Ciao, Claudine. Questo è il mio volo, debbo andare. Ti
auguro tutto il bene possibile e se ci sarà l’occasione di
rivederci, ne sarò felice.»
«Ciao, Giulio. Anche a te solo il meglio. Chissà se le nostre
strade si incroceranno ancora?»
Quando si alzarono, si abbracciarono e, dopo essersi chiariti
in quel pur breve discorso, si sentirono vicini e solidali. Furono
questi sentimenti che li spinsero a salutarsi con un bacio che
non aveva più nulla di passionale, ma era più forte di ogni
desiderio erotico, era un sigillo che sanciva un nuovo tipo di
legame, fatto di solidarietà, di comprensione, di stima reciproca
e di addio.
Volando verso la Grecia, Giulio C. si sentiva stranamente
leggero, solo Mara lo legava al suo paese, non aveva più, o
meglio, non sentiva più radici, legami con persone con cui
condividere le sue emozioni. Gli amici, Marcello in primis,
erano una ricchezza, ma, lo sapeva bene, ognuno aveva la
propria vita…
«E via!» pensò atterrando ad Atene «ricominciamo a far
rivivere il passato, guardando al futuro!»
Era ansioso di riprendere i contatti con quei giovani che
vedevano in lui un modello, un maestro e che anche per lui
rappresentavano un valore in estimabile.
240
OLIMPIA
PASSATO PROSSIMO
Si aspettava molto da quel 1992, che era appena iniziato, anche
perché aveva già cominciato a prepararsi per il concorso a
cattedre: non doveva, non poteva fallire; superare quella prova
voleva dire per lei iniziare una nuova vita, conquistare la tanto
sospirata indipendenza.
Quando iniziò ad essere chiamata per qualche supplenza ed
entrò per la prima volta in un’aula per andare a sedersi
dall’altra parte della cattedra, si stupì al pensiero dell’effetto
che avrebbe fatto agli allievi che le stavano di fronte.
Ricordava ancora troppo bene come, a lei adolescente,
sembravano vecchie quelle insegnanti che pure avevano la sua
età attuale.
Troppo vivi e freschi erano nella sua memoria episodi di
vita scolastica per non essere in grado di capire certi
atteggiamenti dei ragazzi. Non le fu dunque difficile entrare in
confidenza con loro e ciò, a volte, andò a scapito della
disciplina che le costava un po’ fatica tenere.
Inaspettatamente, invece, trovò maggiori problemi nel
relazionarsi con quelli che ora erano colleghi che, essendo più
anziani e di ruolo, la snobbavano e, spesso, non la salutavano
neppure.
«Alla faccia dell’educazione!» pensava. «E questi
dovrebbero essere gli educatori, quelli che formano le menti, le
personalità di domani?!»
241
In casa cominciava a preparare il terreno per il giorno in cui
si sarebbe trasferita, ancora non sapeva dove.
Giuliano e Marilena seguivano i suoi passi, tenendosi
costantemente in contatto con lei e questo, a volte, le procurava
un rigurgito di nostalgico rimpianto, di malinconia, ma si
accorgeva anche che, poco alla volta, le loro telefonate, le
visite reciproche cominciavano ad acquistare valore per se
stesse e non più perché supportate dal ricordo di Lorenzo.
Finalmente, con fatica, ma anche con enorme soddisfazione,
si trovò al di là dell’ostacolo: ora era a tutti gli effetti una
professoressa di lettere alla scuola media.
Mentre faceva tirocinio in una classe, conobbe una ragazza,
anche lei fresca vincitrice di concorso di una cattedra di
matematica.
«Ciao. Io sono Patrizia Feletti, matematica» si era
presentata, molto alla spiccia, completando l’autopresentazione
con una sapida osservazione dialettale: «Con st’il zzuc, an s’fa
gnanc di caplazz!»
Simpatizzarono subito: spesso si trovavano in sala
insegnanti per un caffè e Olimpia non finiva di stupirsi della
spontaneità di quella ragazza acqua e sapone. Acqua e sapone
in tutti i sensi: sia per la genuina naturalezza del modo di fare,
sia per l’assoluta assenza di ogni civetteria o cosmesi. Del
resto, il profilo dalla dantesca rassomiglianza avrebbe certo
stonato con i colori di qualsivoglia maquillage.
Anche se finirono per essere collocate in paesi piuttosto
lontani, restarono in contatto e spesso si trovavano per un
cinema, una pizza, un teatro, finché una sera Patrizia la
sorprese con una rivelazione bomba.
Era l’inverno del 1994 e mancava ormai poco alle vacanze
di Natale, perciò la telefonata dell’amica non la sorprese più di
tanto.
«Ciao!» squillò la voce al telefono «ti va di uscire stasera?»
le chiese a bruciapelo.
242
«Volentieri!» accettò Olimpia. «Che si fa?»
«Passo a prenderti verso le otto e poi andiamo a farci una
pizza in un posto tranquillo.» le comunicò, dando già per
scontato che il programma le andasse bene.
«D’accordo. A più tardi, allora!», concluse riattaccando.
Quando si trovarono sedute davanti ad un boccale di bionda
e amara birra tedesca, Patrizia esplose: «Ho deciso di chiedere
il trasferimento a Milano» e si attaccò al bicchiere, mentre
Olimpia elaborava velocemente la notizia.
«Per chi?» le venne spontaneo chiedere.
«Come, per chi? Non perché?»
«Senti,» tagliò corto, deglutendo una fresca sorsata «se hai
preso una decisione del genere, ci deve essere sotto un uomo».
«Vacca, se sei astuta!» la complimentò con il suo solito
colorito vocabolario. «È vero. Mi sposo ad aprile e…»
«Ma che ti venga un colero!» le fece eco Olimpia. «Così,
tutto in una volta! Non mi hai mai parlato di nessuno e ora salta
fuori che ti sposi. Ma sei sicura?»
«Certissima, tranquilla!»
«Vuoi darmi qualche altra informazione o sono cose coperte
dal segreto istruttorio?» incalzò, riprendendosi dalla sorpresa.
E Patrizia le raccontò che, durante l’estate, aveva conosciuto
al mare un tipo stratosferico: fisico da modello, cervello da
premio Nobel, simpatia da vendere. Era un promotore
finanziario e di soldi gliene dovevano girare parecchi, perché si
trattava alla grande: macchina, vestiti, accessori, regali…tutto
al meglio.
«Beh! Allora, quando sarai la moglie di Hans Bruckner, non
troverai neppure il tempo di insegnare, visto che dovrai
impegnarti a fondo per spendere tutti i soldi che guadagna!» la
canzonò Olimpia, solo un po’ dispiaciuta al pensiero di perdere
un’amica. «Che culo che hai! Ha anche un nome esotico,
243
questo miracolo!» concluse, linguazzandosi le labbra dalla
schiuma biancastra.
Quello pareva proprio il suo anno fortunato, perché a
Patrizia non poteva andare meglio di così: il matrimonio fu,
nonostante tutto, sobrio anche se raffinatissimo, la crociera del
viaggio di nozze sembrava una puntata di una soap opera
americana e a giugno ebbe il trasferimento.
Non fu avara nel raccontare tutto ad Olimpia, subito dopo il
suo ritorno e lei ascoltandola si rallegrava per la felicità
dell’amica.
Per i primi mesi, dopo il trasferimento, si sentirono spesso e
la neo signora Bruckner l’invitò a Milano in occasione delle
prossime vacanze di Pasqua.
«Allora ci sentiamo la prossima settimana, così fissiamo gli
orari.» le promise Patrizia, una sera nel salutarla al telefono.
Anche Olimpia non vedeva l’ora di incontrarla, perché
aveva anche lei qualcosa di nuovo: aveva finalmente trovato
una casa e, finito l’anno scolastico, ci si sarebbe insediata.
Certo, chiamarla casa era un po’ esagerato, ma per lei era
perfetta. Era una vecchia mansarda, con un bel terrazzo e lei
pensava già di appenderci un cartiglio con il motto ariostesco
«Parva sed apta mihi».
Visto che da Milano non aveva ancora avuto conferma per
la visita fissata, Olimpia pensò di prevenire l’amica con una
telefonata, un paio di giorni prima della data di cui avevano
parlato. Non si sorprese troppo nel non trovare nessuno in casa
e decise che avrebbe riprovato all’ora di cena. Ma anche quel
secondo tentativo fallì, come pure quelli fatti il giorno
successivo.
Olimpia non sapeva cosa pensare: è vero che Patrizia era un
po’ imprevedibile nelle sue decisioni, ma riteneva che, se
avesse deciso di partire per qualche vacanza estemporanea,
l’avrebbe comunque avvisata. Poiché telefonicamente non
riusciva a raggiungere l’amica, neppure sul cellulare, provò con
244
un telegramma, cui però non fece seguito alcuna risposta. Pur
preoccupata per quell’inspiegabile silenzio, non sapendo come
contattarla, cercò di mettersi il cuore in pace. In questo fu
anche aiutata dagli impegni per il suo trasloco. Anche i
colleghi le avevano dato una mano per i lavori necessari, così,
quando a settembre si dichiarò soddisfatta del risultato,
ricambiò tutti con una cena inaugurale e benaugurante.
Il posto era un po’ angusto, ma le otto persone invitate
riuscirono a passare una allegra, piacevole serata. Ovviamente,
aveva invitato anche Laura, con la quale si era sempre tenuta in
contatto e che aveva seguito, sulla carta o per telefono, nelle
sue numerose peregrinazioni. Delle sue amiche era stata l’unica
a laurearsi a Cà Foscari, anche perché di atenei in cui si
imparasse il giapponese non ce n’erano molti altri. Lo spirito
indipendente di Laura, logicamente, non aveva resistito a lungo
al legame monogamico con David che, in tutti quegli anni,
aveva avuto diversi successori. Tra i suoi volumi Olimpia
aveva numerosi segnalibri che erano le cartoline esotiche
inviatele dall’amica. Purtroppo, la sera dell’inaugurazione della
casa, Laura era impegnata come interprete ad un convegno che
si teneva ad Osaka.
«Ti prometto, però, che non appena avrò qualche giorno
libero, verrò a trovarti, così mi dovrai ospitare nel tuo regno!»,
le assicurò quando Olimpia l’aveva chiamata.
«Immagino che quando avrai tempo tu, io sarò già in
pensione!» la canzonò bonariamente, riconoscendo che aveva
davvero voglia di rivedere l’amica.
Nonostante tutto non aveva neppure rinunciato a cercare
Patrizia, ma, purtroppo, ogni tentativo era rimasto infruttuoso.
La sua nuova situazione logistica si rivelò per Olimpia
quanto mai soddisfacente: era orgogliosa di quel luogo suo,
pieno di lei, dei suoi pensieri, delle sue cose, dei suoi ricordi,
della sua libertà. Libertà di andare, venire, uscire, ma anche di
starsene tranquilla tra i libri, la musica e la TV.
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Chissà come, ma si era ritrovata, a volte, qualche domenica
pomeriggio a seguire con crescente passione, le gare di
Formula 1. Il mondo dei motori, la velocità, i pericoli affrontati
con decisione dai piloti migliori, pennellando le curve dei vari
circuiti, esercitavano su di lei un fascino indiscutibile.
A volte, la sera, soprattutto in inverno, mentre correggeva
dei compiti o sfogliava qualche testo per la lezione del giorno
dopo, teneva accesa, in sottofondo, la televisione, cui, di tanto
in tanto, rivolgeva un minuto di attenzione.
Quella sera era particolarmente inquieta: la giornata era stata
pesante, con le cinque ore di lezione e le tre dei consigli di
classe, pertanto non aveva proprio voglia di impegnarsi in
alcun modo. Girellando tra i vari canali televisivi, capitò su una
trasmissione che stava iniziando proprio allora: “La cintura di
Orione” era il titolo che stava sfumando, subito seguito dai
nomi dei due conduttori, Fabio Valeri e Giulio Claudio Erneti.
Quel nome le illuminò i ricordi: poteva essere proprio
quell’Erneti veneziano che con Lorenzo era andata a sentire un
pomeriggio in libreria? Quando apparve sul teleschermo
l’immagine di Istambul, vista dal Corno d’Oro, la telecamera
zumò su un’imbarcazione per dare un primo piano di… Era
proprio lui, Olimpia lo riconobbe, soprattutto dalla voce,
perché, effettivamente, l’aspetto dello scrittore era molto
cambiato. Il viso, ora, era ornato da un giro di barba e baffi
bianchissimi, come pure candido era il caschetto di capelli che
il vento scompigliava. Il viso virile, dalla carnagione
abbronzata, forse dalle lunghe giornate di scavo, pensò
affascinata, con le labbra così marcate, le ricordava quello dei
bronzi di Riace. Olimpia non sapeva se l’attenzione che le si
era accesa fosse motivata dal luogo esotico o dalla presenza di
un personaggio che per lei, era comunque legato al ricordo di
Lorenzo. Fosse come fosse, d’improvviso la stanchezza e
l’opacità della mente furono cancellate e si trovò a seguire
quelle immagini con una partecipazione e un interesse
incalzanti.
246
D’altro canto, l’argomento non poteva non coinvolgerla,
visto che trattava della conquista di Gerusalemme da parte dei
Crociati il 15 luglio 1099. Curiosa era, poi, quell’analisi del
cielo, quella visione della volta celeste sulla città santa, in
quella data, come se, dopo aver assistito alla violenza, agli
scontri sulla terra, l’obiettivo della memoria storica si librasse
nelle sfere celesti, alla ricerca di ordine, equilibrio e armonia.
Da allora cercò di non mancare mai all’appuntamento
settimanale con “La cintura di Orione”, tanto che si fece
regalare un videoregistratore dai suoi, in occasione del
successivo compleanno.
Spesso, per dovere o per piacere, bazzicava gli scaffali di
librerie e biblioteche, così le venne la curiosità di andare alla
ricerca delle pubblicazioni di Giulio Claudio Erneti. Scoprì,
così, che, oltre a “Voci antiche” e a quelle che conosceva già,
erano anche stati pubblicati “Il ragazzo della Chimera”, “Le
armi dell’oplita” e ”Nella terra degli Dei: viaggio nella Grecia
di ieri e di oggi”. Logicamente uscì con quell’ultimo libro, che
la convinse ancora di più di come il desiderio di conoscere quel
paese le stesse crescendo dentro. D’altronde, per chi, come lei,
doveva insegnare anche la storia classica e l’epos omerico, era
indispensabile una spedizione sul campo. Ma il libro le rivelò
anche la personalità, la fisicità dello scrittore che le piaceva
seguire in televisione nei suoi viaggi insieme al tempo e alle
stelle.
Fu così che, pagina dopo pagina, trasmissione dopo
trasmissione, scoprì di nutrire per quel personaggio, a lei ormai
così familiare, un’ammirazione, una simpatia assolutamente
speciali: fascino e carisma personali in lui si sommavano a
quelli delle materie di cui era esperto conoscitore e divulgatore.
Quando quel pomeriggio, ormai alla fine dell’anno
scolastico, sbiciclettando per via Garibaldi, l’occhio le cadde su
una locandina appesa nella vetrina di una libreria, per poco non
ruzzolò dalla sella, per una frenata bruciante: la settimana
seguente, nelle sale del Museo Archeologico, lo scrittore e
247
archeologo Giulio Claudio Erneti avrebbe presenziato
all’inaugurazione di una mostra di reperti etruschi,
recentemente recuperati.
Il resto si sbiadì ai suoi occhi, ma quello che aveva letto le
bastava. Che occasione poter incontrare il suo mito letterario
(solo letterario?)! Diligentemente si annotò giorno e ora: per
quella data non poteva prendere impegni.
Già, lei sicuramente si sarebbe tenuta libera, ma il lavoro
glielo avrebbe concesso?
Tre giorni dopo ci sarebbe stata la riunione preliminare per
l’inizio degli esami di licenza e lì avrebbe conosciuto il
calendario dei suoi impegni.
Il presidente, in apertura di seduta, disse subito che i giorni
degli orali li avrebbe decisi durante le prove scritte, così
Olimpia visse quelle giornate come sui carboni ardenti, finché
non saltò fuori, naturalmente, che il pomeriggio archeologico
lei lo avrebbe passato a scuola.
«Ma porca vacca, boia miseria!» scancherava mentalmente
«Ma ti pareva che non andasse a finire così! Ma possibile che
con tanti giorni …no, proprio quello lì dovevo beccare! No, no,
bisogna che senta se riusciamo a fare un cambio di sezioni.»
Andò a chieder ad ogni collega del corso parallelo se
avrebbe avuto qualche problema ad invertire una delle sedute
degli orali e nessuno le fece difficoltà, ma il destino… Il
collega di educazione fisica, scusandosi molto, le comunicò
che non era possibile a causa di altri impegni in altre scuole e
quindi…
«Ma quando mi capiterà più un’occasione così?» si
tormentava Olimpia, mentre riguardava l’appunto con la data,
come se, a forza di guardarlo, questa potesse mutare.
«Chissà se almeno ci spicciassimo e potessi arrivare per la
conclusione!», si augurava, pur con poca convinzione,
rileggendo «ore 17».
248
Alle tre di quel fatidico 20 giugno, Olimpia iniziò la sua
sessione di esami. Per fortuna, gli alunni da interrogare erano
quasi tutti i migliori, per cui, si riprometteva di essere rapida.
Purtroppo non aveva tenuto conto delle solite pittime, che non
stanno bene se non scandagliano anche i dettagli più minuscoli
di ogni argomento.
«Bravissimo, come sempre, Curti!» esclamò gongolando la
Raffoni di matematica.
«E, senti un po’,» continuò gonfiandosi di orgoglio, «prova
a spiegare, come sai fare tu, a questi signori» e indicava con la
mano i colleghi, come se volesse scusarsi di fronte all’alunno
per la loro ignoranza «la teoria della selezione della specie,
secondo le varie ipotesi succedutesi nel tempo.»
Il povero Curti, sudando, cominciò la sua dotta esposizione,
con linguaggio appropriato e un piglio sicuro, anche se il
sudore che gli colava dalla fronte, indicava chiaramente che
avrebbe preferito salutare tutti e andarsene a rinfrescarsi con un
gelato.
Olimpia cercò di supportarlo: «Benissimo, Curti. Sei sempre
stato attento e impegnato. Io credo che forse…» stava per
aggiungere un «possa bastare», quando la Raffoni, come
espulsa da una molla, scattò in piedi e l’investì: «Ma come ti
permetti di interrompere un mio alunno, mentre sta
rispondendo alla mia domanda?»
Olimpia, che non poteva certo prevedere una reazione del
genere, rimase senza parole, in piedi, alle spalle del candidato,
dove le piaceva, ogni tanto, andare a posizionarsi, per diluire la
tensione da plotone di esecuzione che, in certi momenti, si
veniva a creare.
Fu la collega di inglese che intervenne al suo posto:
«Veramente, se permetti, Curti è alunno di tutti noi e non tua
esclusiva proprietà. E poi, proprio perché lo conosciamo bene,
non mi sembra il caso ci sia bisogno di torchiarlo a lungo.»
249
A quel punto, Olimpia, ripresasi dallo stupore, si ricordò di
essere la coordinatrice del consiglio di classe e, così, ritornata
al suo posto, propose: «Se nessuno dei colleghi ha altro da
aggiungere, credo che potremmo congedare il povero Curti». Si
guardò attorno e notò con piacere che, Raffoni a parte, gli altri
docenti annuivano e sorridevano sollevati.
Ma la tempesta non era finita lì, perché la mano dell’alunno
era ancora sulla maniglia della porta, che una nuova bordata di
urla si scatenò.
«Non mi era mai capitato in tanti anni di insegnamento di
essere sbeffeggiata in questo modo! Ma chi ti credi di essere,
ragazzina?!»
Evidentemente, l’età già pensionabile stava procurando alla
Raffoni incontenibili attacchi di schizofrenica ira, che la
facevano avvampare in viso, come una caldaia troppo sotto
pressione.
Olimpia, che a sentirsi dare della ragazzina, si sarebbe
messa a ridere, con un autocontrollo molto britannico, cercò di
placarla: «Ti ringrazio per la ragazzina, ma io non avevo
nessuna intenzione di sbeffeggiarti né di mancarti di rispetto.
Solo, mi pareva che non avessimo bisogno di altre conferme
per dare a Curti un “Ottimo”».
I colleghi intervennero per confermare e, conoscendo da
anni il soggetto, per assicurare alla anziana docente la loro
stima incondizionata.
La collega di educazione artistica aveva approfittato di
quella pausa per eclissarsi ma, dopo pochi minuti, era rientrata
con una serie di coppe e coppette gelato.
«Adesso, dai, pausa per tutti e rinfreschiamoci la bocca!»
invitò con un entusiasmo forse un po’ sopra le righe.
Così, un po’ di fredda dolcezza aiutò a riportare il clima
entro i limiti della sobrietà.
Olimpia, tuttavia, era quanto mai contrariata da
quell’happening che le aveva sottratto altro tempo prezioso.
250
Tra un candidato e l’altro teneva d’occhio l’orologio e lo
vedeva procedere inesorabile.
Quando, finalmente, ebbero stilato anche l’ultimo giudizio,
erano passate le sette.
«Tardi, troppo tardi!» si diceva, mentre pedalava come una
furia verso il Museo.
Con i capelli scarmigliati, il viso sudato(e non solo quello),
arrivò proprio in tempo per vedere chiudere il cancello.
Anche se se lo aspettava, fu un brutto colpo. Sconsolata, se
ne tornò a casa, cercando conforto nel pensiero che, anche per
quell’anno, la scuola era ormai finita e per due mesi niente e
nessuno avrebbe interferito con i suoi progetti. Avrebbe,
comunque, continuato a seguire l’attività dello scrittore
veneziano alla televisione e dalle pagine dei suoi libri.
In diverse occasioni, a scuola, aveva utilizzato le
registrazioni di alcune puntate de “La cintura di Orione”: per
approfondire e vivacizzare qualche lezione aveva fatto
visionare ai ragazzi le cassette che aveva, via via, accumulato
sugli scaffali della libreria. Quando le stoppava, in certi punti,
per rispondere a qualche domanda o per esplicitare qualche
concetto che nel filmato era sottinteso, si sentiva lievitare,
immaginandosi al fianco dei conduttori che, comunque,
riuscivano a far presa anche su un pubblico così giovane e
scarsamente motivato.
Tutto sommato, raggiunti i trent’anni, Olimpia non era
malcontenta di sé: il lavoro, anche se spesso faticoso
psicologicamente, le piaceva; i rapporti con i colleghi erano
aperti e con qualcuno anche molto cordiali.
A dire il vero, nell’ambiente della scuola, il personale era
quasi prevalentemente femminile e ciò, a volte, creava delle
situazioni e un’atmosfera un po’ particolari, da harem, pensava
tra sé.
Talvolta si soffermava a considerare le persone conosciute
in quegli ultimi anni e doveva ammettere che, anche se avesse
251
avuto voglia di trovare un partner, non c’era nessuno che le
sarebbe piaciuto, nessun maschio, in quegli ultimi anni era
stato capace di riaccendere in lei il desiderio di amare e sentirsi
amata. Le pareva che nessuno tra i suoi conoscenti avesse tutte
quelle qualità intellettuali e fisiche che lei cercava.
D’altronde, qual era il problema? Aveva alcune amiche che
condividevano con lei cinema, teatro, palestra e qualche serata
di baldoria casalinga, quando la coglieva un raptus cucinandi e
si ritrovavano a ridere come sceme davanti a una bottiglia di
vino ormai vuota.
Anche quell’anno scolastico era ormai in dirittura d’arrivo e
bisognava cominciare a festeggiare.
«Rispondi tu, per favore?» urlò dai fornelli a Claudia,
l’amica e collega con cui quella sera divideva la sua voglia di
allegria.
«Sì, pronto?» la sentì rispondere. «Un momento, te la passo
subito. È per te, si chiama Patrizia!» le bisbigliò nel passarle il
cordless.
«Ciao, Olimpia. Spero mi ricordi ancora, vero?» chiese una
voce squillante e decisa.
«Patrizia? Ma… non dirmi… Ma come… cosa» era tanta la
sorpresa che non riusciva a formulare nessuna domanda. Per
fortuna Patrizia, con la sua solita maniera spiccia, le raccontò
in breve la sua storia più recente, da quando non si erano più
sentite, alla vigilia di quella mancata visita a Milano.
Il punto centrale della cronaca era che il matrimonio di
Patrizia era durato praticamente un anno, fintanto che…
«Avremo modo di parlarne a voce», le rispose alla sua
richiesta di maggiori dettagli.
«Ma dai!» si entusiasmò Olimpia «Non mi dire che vieni a
Ferrara!»
«Certo e non solo per una vacanza» le confermò l’amica.
«Ho chiesto il ri-trasferimento e, anche se un po’ in culo al
mondo, anzi, alla provincia, torno casa.»
252
«Dove ti hanno messo?»
«A Mesola. Un altro po’ e andavo a scuola col passaporto!»
scherzò Patrizia.
«Però! Non è il massimo della comodità, ma intanto…»
cercò di minimizzare.
«Ma sì, che mi frega! Mi alzerò col buio in inverno, ma non
ho mica dei ciroli da allattare!» le confermò l’amica con
decisione.
Così, non appena terminarono gli impegni scolastici,
Patrizia si trasferì nella sua città d’origine e una delle prime
amiche che cercò fu Olimpia.
«Sei sempre uguale!» le disse, dopo un caloroso abbraccio.
«Anche tu non scherzi» la ricambiò. «D’altra parte è presto
ancora per cominciare a invecchiare, non trovi?» chiese,
mentre si accomodavano in poltrona.
«E allora, dimmi,» volle sapere Olimpia «Com’è andata?»
«La mia storia?» prese tempo «Oh! Ti assicuro che se me lo
avessero detto, non ci avrei creduto. Beviamo qualcosa, ti
dispiace?»
«Scusa, ma se non hai voglia di parlarne, lascia perdere.
Passiamo alla domanda di riserva!» la tranquillizzò, mentre dal
frigo prendeva le bottiglie di succo di frutta e di te’.
«Figurati!» la smentì con fermezza Patrizia. «No, no. Ti
assicuro che ho voglia di parlarne con un’amica comprensiva
come te!»
«Dev’essere stato un fulmine a ciel sereno, visto che,
quando ci siamo sentite l’ultima volta, mi è parso tutto
tranquillo. O sbaglio?» la sollecitò.
«Infatti!» confermò Patrizia, mentre posava il bicchiere
quasi vuoto sul tavolino.
«Avevamo programmato, per dopo la tua visita, una breve
fuga “romantica”» Patrizia aveva l’abilità, nel parlare, di far
sentire anche le virgolette e le parentesi.
253
«Stavo finendo gli ultimi acquisti in centro prima di passare
dal parrucchiere, quando questo mi ha telefonato per spostare
l’appuntamento. Così sono tornata a casa con più di un’ora di
anticipo».
«Basta, non dirmi altro. L’hai trovato a letto con la tua
migliore amica. È un classico!» la interruppe Olimpia per
risparmiarle l’imbarazzata confidenza.
«No, magari» la sorprese Patrizia, versandosi un secondo
bicchiere di bibita. «L’ho sorpreso col suo miglior amico!»
«Coosa?» tossì Olimpia che non riuscì a finire il suo succo
di frutta.
«Già! Ti assicuro che anch’io sono rimasta… non so mica
come. Subito non sono riuscita a realizzare quello che vedevo.
Dopo qualche eternità di un gelo immobile, Hans mi ha pregata
di uscire dalla camera: si vestiva e poi avremmo parlato. Io l’ho
preso in parola, ma sono uscita di casa addirittura. Non so cosa
ho fatto: credo di aver girato per qualche ora, mentre sentivo
come un’ebete, il cellulare che continuava a suonare.
«So che era già buio quando sono rientrata. La camera era in
perfetto ordine e Hans mi aspettava seduto in salotto.
Ovviamente, l’amico era sparito.»
«Dio, che storia!» non poté trattenersi Olimpia.
«Già, ma il peggio sai qual è? Che ha parlato per un’ora
cercando di convincermi che lui mi amava, come sempre, come
prima, ma sentiva anche un bisogno incontenibile di un
rapporto diverso, omo... ma questo non condizionava
minimamente il nostro legame».
«No, aspetta;» la fermò Olimpia «vuoi dire che a lui andava
bene scopare con te, fare il marito e poi avere anche…»
«Certo, un bel culo virile, come optional. Non sapevo se
ridere o piangere, te lo giuro. Mi pareva una cosa così enorme
che non sapevo cosa dire. Qualche termine abbastanza intonato
alla situazione l’ho trovato, comunque. Gli ho dato del
pervertito, del busone travestito, dello schifoso paraculo e non
254
so cos’altro. E sai cos’ha avuto il coraggio di rispondermi? Che
io ero una povera provinciale se non capivo che in certi
ambienti queste cose erano normali, che la “diversità”, quella,
cioè stare da una parte e dall’altra, è indice di maggior apertura
mentale, di modernità, di mancanza di pregiudizi, di
disinvoltura intellettuale. Io gli ho ribattuto che preferivo
essere una povera provinciale che dividere il mio letto con
qualche terzo incomodo, uomo o donna che fosse.
«Lui ha cercato ancora di convincermi, di ammansirmi, ma
io ero così disgustata che, il giorno dopo, ho fatto le valigie e
me ne sono andata. Il seguito, penso, te lo immagini: cercare un
posto dove andare, continuare a lavorare e questo non è stato
solo un peso, mi ha anche aiutato ad avere qualche altro
pensiero che non fosse quella fastidiosa immagine fissa che
continuava a tormentarmi giorno e notte.»
«Ma perché non mi hai chiamato, perché non ti sei fatta
sentire prima?» la rimproverò Olimpia.
«Ti giuro che non avevo proprio voglia di vedere o parlare
con nessuno. Era come se avessi il vuoto assoluto attorno.»
«Posso capirti. Quando ti senti cadere il mondo addosso, sei
convinta che nessuno possa fare niente per te. Deve passare del
tempo, perché tu possa di nuovo considerare il mondo che ti
circonda» dovette ammettere.
«Così, ora, eccomi qua, pronta a ripartire dal via!» scherzò
Patrizia.
«Ti dirò» le confessò Olimpia «mai avrei voluto che ti
succedesse questo cataclisma, ma sono almeno contenta che,
comunque, adesso ci si possa vedere più spesso. Almeno lo
spero!»
«Perché, tu hai qualche legame che ti limita?» le chiese
preoccupata.
«Io?» sussultò «ma neanche… ma niente al mondo,
figurati!» la tranquillizzò.
«E allora, vedrai che ce la spasseremo, eccome!»
255
Pochi giorni dopo, un’altra sorpresa: Laura si trovava a
Fano, dopo ferragosto, per una breve rimpatriata e l’avrebbe
rivista volentieri.
«Quando vieni?» le chiese con decisione.
«È un invito o un ordine di servizio?» le rimandò
scherzando.
«Dai, abbiamo un sacco di cose da raccontarci. Ti aspetto al
più presto.» le rispose con tono più conciliante.
Così, dopo diversi anni, Olimpia tornò dove aveva vissuto
una vacanza felice con Lorenzo.
Laura la accolse con calore e lei si rese conto che rivedere
quelle stanze non la faceva tremare di angoscia, ma,
stranamente, anzi, il riaffiorare di quei momenti felici la faceva
sentire ricca per qualcosa che aveva avuto, che era stato solo
suo, anche se, purtroppo, ora si chiamava ricordo.
Quando quel pomeriggio suonò il campanello, Laura le
annunciò: «Questo è Michele. Quando ha saputo che venivi è
stato felicissimo e mi ha detto che ti avrebbe salutato con
piacere.»
«Oh! Michele!» lo accolse Olimpia con entusiasmo,
andandogli incontro.
«Lasciati guardare: caspita! Sei cambiato parecchio in questi
anni. Metti quasi soggezione con questa barba» scherzò
accarezzandogliela. «L’hai fatta crescere per compensare il
taglio dei capelli?» chiese osservando che le morbide onde di
un tempo erano cadute sotto le forbici di un barbiere.
«Olimpia! Che voglia di vederti avevo! Anche tu stai bene,
mi pare!» la ricambiò prendendole le mani e tenendola davanti
a sé.
«Questo potrai dirlo tu, dottore!» intervenne Laura.
«Dottore?» gli chiese stupita Olimpia.
«Di fresca laurea.» confermò.
256
«Complimenti, Michele. E con la musica, come va? Suoni
ancora?»
«Certo! È la mia seconda passione. E ogni volta che mi
siedo al pianoforte non posso non ricordare…»
«Già.» Lo interruppe prontamente Olimpia «Sono stati
giorni felici».
«Te ne auguro tanti ancora!» le sorrise Michele.
Nei giorni che rimase a Fano, Laura non smise di proporle
nuotate, sole, gite culturali e gastronomiche nell’entroterra.
Durante quegli spostamenti in macchina, Olimpia scoprì che
Michele, loro assiduo accompagnatore, era diventato molto
meno timido e, anzi, sicuro di sé, le faceva divertire con battute
fulminee, per le quali ridevano come matte.
Una sera lui le invitò nel piccolo appartamento nel quale si
era trasferito, portandosi dietro il pianoforte che occupava,
praticamente, tutto lo spazio del soggiorno.
Le stupì con una cena fredda e golosa e, mentre stavano per
gustare un sorbetto al limone, il cellulare di Laura li interruppe.
«Scusate» fece lei, alzandosi e appartandosi un momento.
Quando tornò, poco dopo, era visibilmente contrariata.
«Brutte notizie?» si preoccupò Olimpia.
«Oh! No. Però, accidenti!» brontolò Laura prima di
chiederle: «Sei proprio decisa a partire domani?»
«Sì, ho già il treno prenotato e…»
«Perché mi hanno chiesto se sono disponibile a far da
interprete. Mi è difficile rifiutare, perché è un amico dei miei. È
titolare di un calzaturificio, è sempre stato molto gentile con la
mia famiglia e adesso ha un problema. Il suo interprete si è
ammalato all’ultimo momento e domani gli arriva un
importante cliente da Tokyo».
«Ma certo, capisco. Non ti preoccupare» la tranquillizzò
Olimpia,
«Ma mi secca che proprio l’ultimo giorno…»
257
«Vorrà dire che domattina ci salutiamo presto e…speriamo
non passino ancora altri anni prima di rivederci!»
«Che ne dici» intervenne Michele «se sostituisco io Laura e
ti accompagno io al treno?»
«Ti ringrazio, ma non dovete sentirvi obbligati a scortarmi!»
«Ma quale obbligo!?» la smentì lui.
Il mattino dopo, stava per chiudere la valigia, dopo aver
abbracciato Laura che se ne era andata con un biscotto ancora
tra le labbra, quando sentì il campanello: era Michele.
«Ciao! Sei pronta?» le chiese.
«Quasi. È ancora presto, non ti aspettavo».
«Ho pensato che prima di partire poteva farti piacere fare un
ultimo giro o…» Non finì la frase, perché, parlando, le si era
avvicinato e ora la stava baciando con una foga che lasciò
Olimpia stupefatta e travolta.
Quando riuscì a liberarsi dal suo abbraccio non poté trovare
le parole: non sapeva se era più arrabbiata o più sorpresa.
Michele continuava ad abbracciarla, stringerla, a cercare la
sua bocca.
Olimpia opponeva una sempre più debole resistenza, perché
di colpo si era resa conto che la cosa le dava un piacere fisico
intenso, profondo.
«No, Michele. Cosa fai? Cosa ti salta in mente. Lasciami.»
si sentiva dire, ma le sue mani intanto gli cingevano il collo.
«Da quanto tempo desideravo farlo!» le confessò lui mentre
cominciava a spogliarla. «Da quando ti ho conosciuta, ti ho
desiderata. Mi piaci da impazzire» le confessò, mentre il
respiro si faceva sempre più corto e affannoso.
Olimpia, perso ogni controllo, ora faceva a gara con lui per
liberarlo di ogni indumento e, quando sentì sul suo corpo la
prepotente virilità di lui, lo guidò impaziente.
«Dio! Che meraviglia» le sussurrava all’orecchio, mentre si
muoveva sempre più freneticamente. Olimpia non ricordava
258
più da quanto tempo non si era sentita così innalzata e in una
dimensione al di fuori dello spazio e del tempo. La danza dei
loro corpi fu lunga ed estenuante, finché, fradici di sudore e
ansanti, si trovarono a guardarsi negli occhi.
Dopo qualche momento di straniamento, rinsavita, Olimpia
si rese conto di quanto era accaduto.
«Ma cosa abbiamo fatto, Michele!?»
«Qualcosa di sublime, visto il risultato», fu la sua risposta
entusiastica.
«Ma ti rendi conto che..»
«Che cosa? Che ho qualche anno meno di te, che stai per
partire e non sappiamo se vorremo o potremo rivederci?» le
enunciò.
«Beh! Più o meno proprio questo. Che senso ha? Perché?»
«Ma quante domande!» si sbrigò lui. «Perché tutti questi
interrogativi? Ti è piaciuto? Direi di sì, da come reagivi. E
allora va bene così» commentò maliziosamente.
«Ad essere sincera, sì, mi è piaciuto, ma non mi era mai
capitato, che così,all’improvviso…»
«E allora, vieni, forse anche questo non ti è mai capitato».
Con decisione la travolse e cominciò a sollecitarla con maestria
per portarla all’acme del desiderio che in lui si era già riacceso.
Quando un’ondata di un piacere quasi feroce la sconvolse,
Olimpia ebbe voglia di urlare, di liberare tutta quell’energia
che per tanto tempo le era rimasta dentro, costretta e
dimenticata.
«Che pazzi siamo!» commentò mentre si sedeva sul letto e
scuoteva la testa per dare una rapida e sommaria sistemata ai
capelli.
«E non è meraviglioso impazzire, ogni tanto?» le chiese
Michele, baciandole l’incavo dell’inguine.
«Credo che ora dovrei andare. Che ore sono?», gli chiese
all’improvviso.
259
«Quasi mezzogiorno.» Rispose Michele, dopo una rapida
occhiata allo Swatch al polso.
«Coosa? Non è possibile! Ho perso il treno, aiuto!» urlò
Olimpia.
«Beh! Calma. Chi se ne frega, non è mica l’ultimo, no?»
«No, ma avevo prenotato il posto e ora…»
«Senti, mi va di fare un viaggetto: che ne dici se ti porto io a
Ferrara?» le chiese col sorriso più radioso.
«Ma tu non hai niente da fare?»
«Per ora ancora no. E tu?»
«Io sì, purtroppo. Domani alle 9 ho un collegio docenti»
ricordò.
«Ragione di più per essere a casa alla svelta, no?»
Il viaggio in macchina fu piacevolissimo: Michele guidava
sicuro e veloce e, ogni tanto, le accarezzava le gambe,
facendola rabbrividire di piacere.
Arrivati a casa, Olimpia ebbe un attimo di imbarazzo: non
aveva mai ospitato un amico, tanto meno un amante.
Michele, invece, pareva perfettamente a suo agio.
«Così è qui che abiti!» osservò, guardandosi intorno. «C’è
molto ordine, si vede che ci vivi da sola. Ti occorre qualcuno
che movimenti un po’ le tue giornate e, soprattutto, le tue
nottate!» insinuò lui, togliendosi la camicia e prendendole le
mani.
«Già.» Confermò Olimpia «Mi fa uno strano effetto vedere
un maschio qua dentro.»
«Sono il primo, quindi?» la interrogò, già prevedendo la
risposta.
«Di questo tipo, sì» confermò Olimpia, accennando alla loro
ormai svelata nudità.
«Molto eccitante!» fu il suo commento, prima di annullare
ogni pensiero di lei con la forza orgogliosa del suo sesso.
260
Quando, il mattino dopo, Olimpia ritrovò a scuola i colleghi,
le parve di essere tornata in una vita, in un mondo precedenti e
che ora non le appartenevano più.
Non le fu facile dimenticare le emozioni provate fino a
poche ore prima con Michele che, da amante instancabile, le
aveva fatto recuperare in un giorno tutte le mancate esperienze
erotiche di parecchi anni.
A volte, mentre il preside o una collega si perdevano in
discorsi teorici, vuoti e banali, lei si rifugiava nella memoria
recente e ripercorreva la cronaca del suo rapporto con quel
ragazzo che aveva saputo toglierla da un lungo sopore.
«Se immaginassero cosa penso in questo momento!» si
scopriva a riflettere, sorridendo nel guardarsi attorno.
Senza aver capito molto di quanto era stato deciso in quella
riunione, volò a casa, non sapendo se vi avrebbe trovato ancora
il suo “ospite”.
Aperta la porta, in soggiorno trovò un quadro desolante:
Michele aveva fatto colazione, una colazione completa, a
giudicare dalle stoviglie usate, e aveva lasciato tutto sul tavolo
e nel lavello.
«Ah!» commentò alquanto contrariata e, proprio mentre
stava per cominciare a riordinare, suonò il campanello.
«Sono io. Non ho le chiavi, naturalmente. Vuoi aprirmi, per
favore?» le chiese Michele al citofono.
«Credevi che me ne fossi andato così, senza salutare?» le
chiese abbracciandola, appena entrato.
«Temevo proprio di sì, lasciandomi questo come ricordo.»
Lo redarguì, accennando al disordine.
«Certo, non sono un perfettino, ma non mi sognerei mai di
lasciare un biglietto da visita così poco allettante», le rispose
cominciando lui pure a riordinare.
Ma quanto era cambiato quel ragazzo, nel giro di quegli
anni, non poteva fare a meno di riflettere, ricordando quando lo
aveva conosciuto, timido e ammirato di fronte a Lorenzo.
261
Quando, un paio di giorni dopo, lui tornò a Fano, Olimpia
non sapeva se e quando si sarebbero rivisti. Non avevano
assolutamente parlato di futuro, di progetti, di impegni
reciproci e per lei questo, tutto sommato era un bene, perché le
lasciava il tempo per metabolizzare l’accaduto, per sentirsi
libera di assolversi da un colpo di testa che l’aveva inebriata e
le aveva restituito la sua giovinezza.
«Ricordati che, quando vorrai fare qualche altra pazzia, io
sono sempre pronto!» le aveva quasi urlato, mentre già
scendeva le scale, dopo averla salutata.
Stranamente Olimpia si era scoperta per nulla immalinconita
da quella separazione, forse da quell’addio.
Com’erano diversi i distacchi da Lorenzo che, ogni volta, le
lasciavano un grosso magone che impiegava alcuni giorni a
sciogliersi.
Ora, invece, proprio mentre si scioglieva dal suo ultimo
abbraccio, aveva addirittura pensato a chiedergli di salutare
Laura per lei.
In quell’inverno, comunque, fece qualche scappata a Fano,
per ricambiare le diverse visite di Michele e avevano anche
cominciato a fare qualche accenno alla prossima estate, ma
Olimpia non si sentiva friggere di impazienza, all’idea di una
vacanza a due.
Infatti, preferì andarsene a zonzo per l’Italia e dintorni, a
caccia di siti archeologici, musei e concerti. Spesso, i suoi
erano veri e propri raid solitari, che le permettevano di gustare
a pieno l’atmosfera evocata da un rudere, da un reperto o da un
dipinto carico di suggestioni simboliche, che amava cercare di
decifrare.
Potendo, cercava, comunque di essere a casa nei pomeriggi
dei Gran Premi di Formula 1, sport al quale si era andata
sempre più appassionando in quegli ultimi tempi, diventando
una fervente tifosa delle rosse di Maranello.
262
Quando provava ad osservarsi dall’esterno, le veniva
spontaneo paragonarsi ad un’anziana britannica ancora legata
all’idea del classico gran tour ottocentesco. Le scappava da
ridere a quell’idea, ma, in effetti, doveva riconoscere che
l’immagine era azzeccata.
«Beh! Quest’anno mi va così» si diceva, accorgendosi che,
solo qualche volta, sentiva un certo richiamo che le faceva
desiderare la presenza di Michele.
Come arrivavano in fretta anche le lunghe serate invernali e
come altrettanto in fretta era subito giorno, un nuovo giorno
con i suoi impegni, le sue incazzature a scuola, le sue risate con
amici e colleghe.
Patrizia era una delle sue assidue frequentazioni e, spesso, si
facevano compagnia, organizzando insieme qualche vacanza.
Patrizia era una patita del nuoto e non perdeva occasione per
frequentare piscine e zone balneari. Olimpia cercava, dal canto
suo, di contagiarla, invece, con la visitazione di luoghi d’arte o
incontri culturali, ma scarsi e scoraggianti erano i risultati.
Per questo, doveva ammetterlo, sentiva un po’ la mancanza
di Laura, che se ne andava in giro per il mondo, anche se per
lavoro, ma che, lo sapeva, riusciva sempre a dedicare qualche
ora a concerti, mostre e altri eventi culturali.
La lettura dell’ultimo libro di Erneti, “Io, figlio di Filippo”,
le riaccese la fiamma dell’amore per l’Ellade.
Quando, durante le vacanze di Natale 2003, ospitò Laura,
aveva ancora sul tavolino il romanzo dello scrittore veneziano.
«Interessante» commentò l’amica, sfogliandolo. «Ma poteva
più semplicemente intitolarlo “Alessandro” o qualcosa del
genere».
«No!» rispose pronta Olimpia, che aveva compreso e
condiviso il punto di vista dell’autore. «È una visione molto
particolare del grande Macedone. Vuole soprattutto focalizzare
l’attenzione sul rapporto tra Filippo e il figlio, ancora troppo
bambino, ma già consapevole, in un certo senso, di essere
263
destinato a qualcosa di epico, anche se non sa ancora cosa; di
fronte alle imprese paterne si esalta, ma si preoccupa anche
perché capisce che, per superarlo, dovrà diventare un dio.»
«L’ombra di un padre ingombrante, quindi?!» chiese Laura,
posando il libro.
«Sì, certo».
Laura, intanto, stava leggendo alcune note nel risguardo di
copertina, quando, ad un tratto, ricordò: «Ah! Ecco da dove
viene Kosta!»
«Costa?» la interrogò Olimpia, che non aveva, ovviamente,
potuto sentire la diversa forza dell’iniziale del nome.
«Sì, un amico greco che ho conosciuto a Venezia.»
«Dai, hai un amico greco e non mi dici niente?»
«Perché tutta questa meraviglia? Ho detto greco, mica
marziano!» si stupì l’amica.
«Perché per me la Grecia è un’utopia, un sogno. Adoro quel
paese, anche se non ci sono mai stata, ma farei di tutto per
visitarla. E i greci credo siano degli esseri fortunati, sia per
tutto quello che hanno fatto in passato, sia per la meraviglia del
paese che abitano. E tu ne conosci uno, quindi?»
«Sì, ma è un amico, davvero, anche se un grande amico» e
le raccontò di come lo aveva conosciuto durante gli anni
dell’università. Era diventato pediatra, laureandosi a Padova. I
genitori,erano proprio originari di Vergina, ma avevano sempre
trascorso le vacanze estive in una piccolissima isola, vicina a
Idros, paese natale dei bisnonni, di cui avevano mantenuto la
casa e che lui ricordava ancora come il luogo felice della sua
infanzia.
«Pensa,» continuò Laura «che mi diceva che ancora ha la
casa su quest’isoletta e mi aveva pure invitata ad andarci in
vacanza, visto che lui non può mai farlo. Di soldi ne deve fare
a palate, perché, solo per motivi affettivi, ha fatto ristrutturare
la vecchia casa di famiglia che deve essere diventata un vero
gioiello».
264
«E tu non hai accettato un invito così?» la travolse Olimpia
con il suo stupore.
«Ma a fare cosa, in un luogo che, credo, non sia neanche
segnato sulle carte geografiche? Dai, dai, finisci di pulire le tue
verdure che tra poco arriva Patrizia!»
Quella sera avevano programmato una cenetta a tre.
Anche mentre la serata si accendeva fra il vino, il chinotto e
le risate, Olimpia continuava a pensare alla casa sull’isola
greca. Quando proprio non poté più trattenersi, chiese: «Senti
un po’, Laura. Credi che il tuo amico greco ti affitterebbe la
casa per portarci in vacanza qualcuno?»
Patrizia, stupita da quella richiesta, per lei incomprensibile,
volle saperne di più e Laura la mise al corrente dell’antefatto.
«Allora mi associo alla richiesta di Olimpia, se permettete!»
fu la sua pronta conclusione.
«Sapete che mi avete contagiata con la vostra eccitazione?!
Appena torno a casa, chiamo Kosta e sento cosa ne dice, poi vi
faccio sapere.»
«Sì, ti prego. Ci conto davvero»
«Dai, mi raccomando, non dimenticarlo», risposero quasi
all’unisono, prima di un ultimo brindisi.
Laura fu di parola, perché prima della fine del mese,
comunicò ad Olimpia che l’amico era stato felicissimo della
sua richiesta e che non vedeva l’ora che qualcuno andasse ad
aprirgli un po’ la casa della sua infanzia.
«Quando gli ho detto che volevamo sapere quanto chiedeva
per l’affitto, per poco non mi sbatte il telefono in faccia. Mi ha
chiesto se volevo offenderlo o se era uno scherzo!», le telefonò
una sera.
«Ma dai, non possiamo fare le mantenute. Io e Patrizia
neanche lo conosciamo!» cercò di insistere Olimpia.
«Senti, io gliel’ho chiesto e richiesto, ma non c’è stato
niente da fare. Mi ha detto che il favore glielo facciamo noi.
265
L’unica cosa che mi ha chiesto in cambio, è una cortesia:
portare per lui un fiore sulla tomba dei genitori, che hanno
voluto essere sepolti nel piccolo cimitero del paese. E poi, lo
sai come sono fatti i greci…»
La cosa più difficile di quella vacanza fu trovare un periodo
che andasse bene per tutte. Bisognava anche tener conto che ad
agosto ci sarebbero state le olimpiadi ad Atene, quindi era
senz’altro preferibile andare in luglio.
«Perfetto!» fu il commento di Olimpia, una volta decisa la
data della partenza
«Pensa che nuotate nel mare greco!» pregustava Patrizia.
«Visto che è così vicina ad Atene, riusciremo, vero? A farci
una scappata. Guarda che l’isola è proprio ad un tiro di sasso
dalla costa, ci faremo una gita, ovviamente, no?» si entusiasmò
Olimpia.
E così il luglio 2004 fu la prima volta in Grecia di Olimpia.
266
OLIMPIA
PRESENTE
«Ne era davvero valsa la pena», pensava Olimpia,
stiracchiandosi pigramente, mentre si godeva il silenzio e la
piacevole brezza di quelle prime ore del mattino che la
appagavano.
Distesa su una sedia sdraio, i sensi accarezzati da un alito
dolce, profumato di mare e forti essenze mediterranee,
ripensava al viaggio di pochi giorni prima, che l’aveva portata,
insieme a Laura e Patrizia, in quella specie di paradiso.
Era stata una quasi avventura arrivarci, perché avevano
dovuto servirsi di tutti i mezzi possibili: aereo, aliscafo e una
barchetta, vecchia forse quanto Ulisse. Per fortuna, Kosta
aveva fornito loro indicazioni precise e circostanziate e il suo
nome era, su quell’isola, una specie di passepartout.
La casa si era presentata come uno di quei gioielli da isole
felici, che provocano l’invidia dei comuni mortali, lettori di
riviste di viaggio. Affacciata su una piccolissima insenatura,
squillava dei suoi bianchi e azzurri ancora nuovi e si
compiaceva delle ombre di alcune piante che, come strumenti
musicali, il vento faceva vibrare e sussurrare. Intorno,
praticamente niente altro e in distanza, invece, la presenza
umana era rappresentata da una zona, alle prime pendici di un
leggerissimo declivio, in cui lavorava un gruppo di quelli che a
lei erano parsi operai. Chissà che non stessero iniziando lavori
per la creazione di qualche nuovo villaggio turistico, aveva
pensato con un po’ di malinconia, paventando lo
267
stravolgimento naturalistico e culturale che la cosa avrebbe
sicuramente prodotto.
Una stretta stradina sterrata separava la zona litoranea da
quella degli scavi e lei non aveva mai sentito la curiosità di
andare a indagare.
L’interno della casa era un fresco riparo dalla canicola del
giorno. Le pareti imbiancate di calce facevano da sfondo
perfetto ai pochi mobili, scuri, di artigianato popolare ma
sobrio. Che non fosse un edificio destinato ad essere affittato,
era dimostrato dalla presenza delle foto alle pareti e dei
soprammobili: tutti oggetti estremamente personali, da
rispettare in virtù della storia che li accompagnava
sicuramente.
Per non disturbarsi a vicenda, visto che il posto c’era, le
amiche si erano scelte una camera ciascuna, locali che si
trovavano al piano superiore.
Olimpia ci si era subito sentita a suo agio e le piaceva un
sacco, appena sveglia, scendere a ricevere le immagini e i
profumi di quella natura che pareva quasi incontaminata. Le
amiche preferivano dormire a lungo e, così, per lei, quelle ore
erano diventate una piacevole abitudine privata. Leggeva,
pensava, ascoltava le musiche preferite e incamerava il
panorama per poterlo poi riassaporare nei lunghi mesi di lavoro
e di inverno. L’unica cosa di cui sentiva la mancanza era
l’antenna parabolica per vedere la TV italiana. Non che la
seguisse sempre, ma, quando la domenica del gran premio di
Magny Cours e di Silverstone, si era dovuta accontentare della
telecronaca in greco, si era sentita privata di una parte
importante della esaltazione per le vittorie di Schumacher, di
cui ormai era diventata una sfegatata tifosa.
Da un paio di giorni aveva preso a girellare attorno alla casa
un piccolo gattino tigrato, sbarcato chissà da dove,
abbandonato chissà da chi, e lei, che aveva sempre avuto un
debole per i felini, ma che non aveva mai prima voluto o potuto
farsi schiavizzare da un animaletto miagolante, si era subito
268
sentita attratta da lui, tanto da cominciare a sfamarlo e
coccolarlo. La “cosina viva”, come era stato immediatamente
soprannominato, sembrava fatto apposta per farsi stropicciare:
non appena Olimpia se lo prendeva tra le braccia o se lo
accoccolava sulle ginocchia, quello iniziava a ronfare in
stereofonia. Bello, nella sua felinità, aveva da se stesso evocato
il nome più adatto: Kalos, una delle poche parole di greco che
il suo esiguo vocabolario le consentiva
Quando, quella mattina, si era persa nelle sue fantasticherie,
quasi addormentandosi con il micio in braccio, quello, ad un
certo punto, aveva deciso di partire in esplorazione e se ne era
sceso, dirigendosi verso una macchia di cespugli che cresceva
un po’ polverosamente al di là della strada.
Quando Olimpia si riebbe dal suo quasi sogno, non
trovandolo più, si guardò intorno e, non vedendolo da nessuna
parte, si alzò e si avviò verso l’unico luogo in cui poteva
nascondersi il briccone.
«Kalos! Kalos!» cominciò a chiamare, con voce sempre più
ad alto volume.
Come in risposta ai suoi ripetuti richiami, ad un tratto, dai
cespugli si materializzò un ragazzino, questo le parve data la
statura, che teneva maldestramente tra le mani il gattino.
Quando le fu più vicino, Olimpia si accorse che non era proprio
un ragazzino. Anche se giovane, era pur sempre un ragazzo e
solo la mancanza di qualche centimetro in verticale l’aveva
ingannata.
«Is this you are looking for?» le chiese, mostrandole la
bestiola che si stava acciambellando tra le sue mani per
sistemarsi meglio.
Il sollievo di Olimpia fu tale da farle dimenticare anche le
poche, semplici parole inglesi di una risposta affermativa e,
istintivamente, lo ricompensò con un: «Sì, certo. Grazie.»
269
«Ah! Ma sei italiana anche tu?!» fu la risposta dal tono
interrogativo del giovane, che, senza attendere altro, si
presentò: «Ciao. Io sono Jacopo Antinori.»
«Di Firenze, vero?» le venne spontaneo, pronunciando la
città con la e più aperta che poté.
«Naturalmente. E tu, di dove sei?»
«Olimpia Alessandri, di Ferrara.» Fu la sua sintetica
autopresentazione.
«Bella città! Complimenti!» commentò con convinzione
Jacopo.
«Grazie, detto da un fiorentino è una opinione di un certo
peso. Cosa fai in questo angolo dimenticato della Grecia?» gli
chiese incuriosita.
«Sono uno degli archeologi che lavorano agli scavi laggiù.»
Le rispose, indicando la zona dei lavori.
«Scavi? Archeologo? Meno male, temevo stessero
lavorando ad un albergo o a roba simile!»
«No, no, non temere. Stiamo riscoprendo il passato, non
deturpando il presente!» le fece eco lui. «E tu, sei in vacanza?»
«Sì, sono con due amiche e abitiamo nell’unica casa che
puoi vedere qua attorno».
«Unica anche quanto a bellezza. Non sai quanto abbiamo
cercato di sapere chi è il proprietario, per averla in affitto, ma
tutti ci hanno detto che non era possibile. Allora come avete
fatto ad arrivarci voi?» le chiese con molta serietà.
Olimpia sorrise e poi gli raccontò il perché e il percome di
quella vacanza, pur senza svelare il nome del fortunato
proprietario della loro residenza.
«Fortunatamente, l’isola si percorre anche a piedi, per cui
anche l’unico albergo che esiste in paese ci permette di arrivare
al lavoro in pochi minuti. E quando non sei in vacanza, cosa
fai?» si informò.
270
«Insegno lettere alle medie. Per questo, forse, la tua attività
mi entusiasma tanto. Deformazione professionale!»
Mentre parlavano, Jacopo le aveva passato Kalos, che si era
messo beatamente a dormire coccolato dalle sue carezze.
«Beh! Credo che sia ora di dare inizio ai lavori anche per
oggi» decise e: «Ciao, allora, credo che ci rivedremo, no? In
fondo siamo vicini di…casa!» concluse.
Intanto anche Laura e Patrizia li avevano raggiunti e così si
conobbero tutti, augurandosi di ritrovarsi presto.
E presto si rividero, davvero, perché la sera dopo Jacopo
venne a chiamarle, direttamente a casa, per invitarle a una
grigliata, per festeggiare un compleanno.
Le tre ragazze ebbero così modo di incontrare anche i
giovani greci e familiarizzare con tutto il gruppo. Olimpia era
felice, anche perché questo le permetteva di osservare da vicino
gli oggetti, vecchi di più di due millenni, che erano stati
recuperati in quei giorni. L’emozionava sempre pensare alla
storia delle cose del passato, immaginare le persone e gli
avvenimenti di cui erano state protagoniste. Forse questa
grande passione per l’antichità era riuscita anche a trasmetterla
ai suoi alunni, perché le ore di Storia erano vissute da quasi
tutta la classe con emozionanti aspettative.
Quella serata era stata una piacevolissima esperienza: i canti
popolari che i ragazzi greci avevano intonato e di cui lei non
capiva le parole, le richiamavano alla mente antiche storie, miti
e leggende che quel popolo aveva saputo creare, anche grazie
ai suoi cantori. L’ouzo scorreva fresco e profumato dalle
bottiglie nei bicchieri e inebriava, anche perché accompagnato
dalla coperta del cielo che incastonava la luce ammiccante
delle stelle.
Laura e Patrizia si facevano pazze risate con Demetrios e
Georgios, che, saputo della laurea in giapponese, non smetteva
di chiedere a Laura come si dicevano le cose più sconce nella
lingua dei samurai.
271
Pochi giorni dopo, una mattina, Jacopo chiamò Olimpia
dalla porta di casa.
«Ciao, Jacopo. Tutto bene?» lo salutò un po’ sorpresa per
l’ora inadatta ad una visita.
«Sì, grazie. Volevamo chiedervi un favore.» Iniziò, mentre
posava a terra una sporta piena di bottiglie. «Stasera torna il
nostro capo e vorremmo salutarlo e dargli il bentornato, ma il
frigo che abbiamo è strapieno e queste non ci stanno.» le disse
alzando con qualche difficoltà la borsa. «Non è che potreste
ospitarle nel vostro frigo?»
«Ma certo, non c’è problema. Vieni dentro!» lo invitò.
«Allora, un’altra festa?» gli chiese con un sorriso mentre lo
precedeva in cucina.
«No, non proprio una festa, visto che è reduce dal funerale
di un amico. Non credo sarà dell’umore giusto per folleggiare,
ma vorremmo fargli sentire, comunque, che siamo felici che sia
tornato.» Raccontò, cominciando ad armeggiare con le bottiglie
per farle entrare tutte nello spazio un po’ ristretto del frigo.
«Mi dispiace.» Si rammaricò Olimpia. «Perdere qualcuno ti
lascia sempre stranito, ti senti..» non finì la frase perché
Patrizia irruppe come una meteora in cucina e volle sapere: «Ti
senti come?»
«Niente, stavamo commentando un fatto. Jacopo ci lascia in
fresco queste bottiglie per stasera, visto che brinderanno al
ritorno del loro capo. Piuttosto, per che ora vi servono?»
«Direi verso le 8! C’è qualche problema?» chiese Jacopo
guardando entrambe.
«No, no. Per quell’ora saremo certamente a casa. Ci
facciamo il giro dell’isola in barca» lo informò Patrizia,
pregustando la felicità di lunghi bagni e spiagge libere.
La giornata fu, ovviamente, piena, satura di sole, di mare, di
salsedine sulla pelle. Quando tornarono, nel tardo pomeriggio,
erano ubriache per il calore immagazzinato. Avevano appena
finito di rinfrescarsi sotto il getto di una doccia, che avrebbero
272
voluto infinita, quando Olimpia si sentì chiamare da Jacopo.
Senza uscire, dalla finestra della cucina, lo saluto
distrattamente, mentre lo invitava ad entrare.
«Ciao. Vi siete divertite?» chiese lui allegramente.
«Abbiamo fatto di tutto: tuffi, nuotate e corse sulla
spiaggia.» Lo informò.
«Direi che vi siete abbrustolite per bene!» notò, osservando
l’abbronzatura accesa delle ragazze.
Olimpia, intanto, aveva recuperato le bottiglie e gliele stava
consegnando.
«Grazie. Siete pronte?» chiese Jacopo.
«Per cosa, scusa?» si stupì Olimpia.
«Per venire con noi a bere queste! Il nostro capo vuole
ringraziarvi di persona e farebbe piacere a tutti stare un po’
insieme!»
«Ti ringrazio, ma non so se è il caso…» rispose un po’
titubante, mentre lo accompagnava verso la porta.
«Dai, non fatevi pregare!» le sgridò bonariamente, mentre
Olimpia lo precedeva fuori. Alzando lo sguardo verso gli scavi,
credette di avere una visione.
«È quello il vostro capo?» gli chiese, indicando una figura
che risaltava per il candore immacolato dei capelli.
«Sì, è…» stava per rispondere Jacopo, ma Olimpia lo
precedette: «Ma è Giulio Claudio Erneti!» disse quasi urlando.
«Sì. Lo conosci?»
«Ma naturalmente! È un mito quell’uomo per me! Adoro i
suoi libri e seguo tutte le sue trasmissioni in TV. Mio dio, non
posso crederci!» si esaltò, correndo in casa e tornando con un
libro che mostrò a Jacopo.
«Guarda! Sto rileggendo questo proprio adesso!» gli
confidò, tendendogli la sua copia di “Nella terra degli Dei”.
273
«Dai! Ne sarà felicissimo! Allora, venite?» le sollecitò.
«Puoi giurarci!» accettò Olimpia con un entusiasmo che non
riusciva più a contenere e mentre le amiche raccoglievano le
loro borse.
274
OLIMPIA E GIULIO C.
PRESENTE
Jacopo le precedette e, arrivati sul sito, fece le presentazioni.
Olimpia era rimasta per ultima, anche perché, ad essere sincera,
le gambe le tremavano per l’emozione.
«E questa è Olimpia Alessandri, di Ferrara.» Concluse
Jacopo mentre Giulio C. le tendeva la mano.
«Dire che sono senza parole, non è abbastanza, visto che da
anni aspettavo il piacere di incontrarla.» Riuscì a dire tutto
d’un fiato.
«Addirittura?» chiese lo scrittore sorridendo.
«Già, da quando non riuscii a venire alla presentazione della
mostra sui piatti da pesce al museo archeologico. Purtroppo ero
impegnata con la scuola…» cercò di spiegare.
«Forse i suoi insegnanti avrebbero potuto giustificare la sua
assenza, se dovuta a motivi culturali, no?» suggerì con aria un
po’ maliziosa.
«Veramente io ero una degli insegnanti e stavamo facendo
gli esami di licenza media…» chiarì Olimpia.
«La credevo ancora dall’altra parte della cattedra, davvero!»
Per fortuna di Olimpia, la pelle, fortemente tostata dal sole,
non lasciò trasparire la sua emozione.
«Così, siamo quasi colleghi o, meglio, lo siamo stati, visto
che, tanti anni fa, ormai, anch’io ho insegnato. Senza
dimenticare che lo faccio tutt’ora, anche se all’università».
275
«Classificarmi collega…mi fa troppo onore, la ringrazio.»
Rispose Olimpia, sempre più sorpresa dalla facilità con cui
riusciva a dialogare con quello che, fino a poco prima, era stato
per lei solo un mito astratto e irraggiungibile.
Mentre parlavano, Jacopo si era avvicinato e lei si accorse
che aveva in mano il suo volume de “Nella terra degli Dei”.
«Guardi, prof» disse, tendendo il libro a Giulio C. «Se le
dice che è una sua lettrice assidua, le può credere, perché
adesso sta leggendo questo!»
«Jacopo! Il mio libro! Come hai fatto a… Non ti avevo
autorizzato …» Olimpia era al colmo dell’imbarazzo, perché
aveva riempito le pagine bianche del libro di note, riflessioni,
commenti molto personali e ora temeva fortemente che
finissero sotto gli occhi dell’autore.
«Scusa! Pensavo che ti facesse piacere fartelo autografare.
Un’occasione così non capita sempre, o sbaglio?» cercò di
scusarsi Jacopo.
«Questo è certo, ma non vorrei esibire le mie sciocchezze.»
Si giustificò lei, mentre già Giulio C. sfogliava il testo.
«Perché ti vergogni? Quello che hai scritto sarà senza
dubbio frutto di impressioni, opinioni sincere e, quindi, molto
interessanti per l’autore, ti assicuro.» La tranquillizzò,
passando al tu con una naturalezza che la colpì.
Patrizia si avvicinò e porse a tutti un bicchiere di retsina,
cosa che servì a sciogliere la tensione di Olimpia. Dimenticato
il libro, tutti si dedicarono a far sì che il vino non avesse il
tempo di scaldarsi. Laura, incredibile a dirsi, non si era lasciata
minimamente contagiare dal profumo resinoso e continuava
imperterrita a professare la sua intolleranza all’alcool.
«Grazie, ragazzi.» disse Giulio C. a voce alta, alzandosi in
piedi e mostrando il bicchiere alla compagnia. «Mi fa sentire
bene la vostra calorosa accoglienza e un grazie anche a chi ci
ha permesso di gustare questo vino alla giusta temperatura!»
finì, rivolgendosi alle tre ragazze.
276
Per Olimpia quella serata fu un miracolo che si esaudiva:
troppe volte aveva immaginato di trovarsi a tu per tu con quel
personaggio di cui ammirava praticamente tutto, ma anche
nelle sue più rosee aspettative, l’incontro poteva avvenire ad
una conferenza, in una libreria, comunque in luogo pubblico e
gremito di lettori, storici, critici, gente, cioè, in grado di farla
sentire inadeguata nella sua ignoranza della lingua e della
letteratura greca. Invece, vai a scoprire com’è imprevedibile la
vita! Ecco che, mentre è in vacanza ti ritrova di fronte a sé
l’autore che le aveva saputo accendere la fantasia, la voglia di
conoscere, l’amore per i classici.
Stava riflettendo sull’unicità di quanto le era accaduto, persa
nei suoi pensieri, considerando che per quell’incontro non vi
poteva essere cornice più idonea del luogo dove si trovavano,
mentre si alzava per andare a riempirsi di nuovo il bicchiere,
quando, alle sue spalle, sentì la voce di Giulio C.: «Anche a te
piace questo vino così particolare?!»
Voltatasi con un sussulto, lo ringraziò con un sorriso,
mentre lui le versava il retsina ancora bello fresco e: «Direi che
di greco mi piace tutto! Le confesso, però, che purtroppo, non
ho fatto il classico e, mai come da quando ho letto i suoi libri,
sento la mancanza della conoscenza diretta della lingua e della
cultura antica di questa terra.» Disse, mettendo a nudo i suoi
più riposti rimpianti e convinzioni.
«A questo si può sempre porre rimedio, volendo! Inoltre
penso che, se si ama totalmente qualcosa, ci si può sentire in
sintonia e coglierne tanti aspetti attraverso delle intuizioni, più
efficaci della conoscenza pedante e libresca.»
«Grazie, mi incoraggia e mi conforta molto. E pensare che è
proprio colpa mia se non sono diventata, a suo tempo, una
liceale!» gli confidò, raccontandogli il suo trascorso di
studentessa e il suo rifiuto delle proposte materne.
Quando avvertirono i primi brividi portati da un rinforzare
della brezza notturna, cominciarono a salutarsi e le amiche
tornarono un po’ troppo allegre verso casa.
277
Laura e Patrizia, vista la luce che illuminava lo sguardo di
Olimpia, la sfotterono bonariamente, ma a lei non poteva
importare di meno: dopo l’incontro di quella sera, avrebbe
sopportato anche un collegio docenti non stop di otto ore.
Si sentiva talmente euforica che non poteva certo mettersi a
dormire: l’unica cosa che poteva aiutarla a rilassarsi era la
lettura, ma il libro più adatto era rimasto… Dove? Si chiese
Olimpia, balzando a sedere sul letto. «Dio, fa che non vada
perso!» si augurò, pensandolo nelle mani di Jacopo.
Anche se, alla fine, riuscì a dormire solo qualche ora,
quando si svegliò al mattino, come al solito abbastanza presto,
si sentiva ancora carica di energia e felicità.
Uscì a godersi il fresco portato da quelle prime ore del
giorno. Si assicurò l’auricolare del suo MP3 e si sdraiò, cullata
dalle note delle Gymnopèdies di Satie.
Niente avrebbe potuto offuscare quel momento di perfetta
sintonia tra il suo umore e la tranquillità dell’ora mattutina, si
compiaceva tra sé. E invece, all’improvviso, un’ombra le passò
davanti agli occhi, che, anche se chiusi, la percepirono
spaventandola.
Balzata a sedere e sbarrati gli occhi, per poco non si scontrò
con Giulio C. che, silenziosamente, le stava posando il suo
libro sul tavolino accanto.
«Chiedo scusa» si premurò di dirle, appena la vide così
sorpresa «Non volevo spaventarti, ero passato solo per lasciarti
il tuo libro e ringraziarti. Visto che non potevi certo
immaginare che le avrei lette, le parole di elogio che mi hai
riservato mi hanno riempito di orgoglio.»
«Temevo che sarebbe andata a finire così! Giuro che a
Jacopo la faccio pagare. Mi sento come se qualcuno mi avesse
sorpresa a rubare!»
«Mi pare tu abbia ben poca autostima. Perché tanta paura
del giudizio altrui?»
278
«Direi che non ho alcun motivo per ergermi a critica
letteraria. Inoltre ho forse sconfinato in considerazioni sul suo
privato, che avrei potuto tenere per me, nella mia mente.»
Tentò di giustificarsi.
«Non hai nessuna colpa al riguardo, visto che lo stesso
autore si è lasciato andare a confessioni personali e quindi
passibili di commenti da parte dei lettori.» La rassicurò.
Olimpia si era alzata e si era liberata dell’auricolare. Lo
stava posando sul tavolino, quando lo scrittore le chiese: «Cosa
ascoltavi, prima che ti venissi a interrompere?»
«Satie, le Gymnopèdies. Adoro questo genere di musica.»
«Anch’io adoro la musica. Soprattutto quando scrivo, mi
piace spararmi a palla nelle orecchie i ritmi più adatti al genere
e al momento. Per fortuna posso contare su qualche
collaboratore che mi prepara sempre nuove compilation ad
hoc.» Le confidò.
«Non è che avrebbe tempo per un caffè?» azzardò Olimpia.
«Grazie, molto volentieri, specie se quello locale» rispose,
togliendosi i forti occhiali scuri e rivolgendole un sorriso
aperto e solare. Ad Olimpia, comunque, non sfuggì l’occhiata
di lui al magen David che le oscillava al collo.
«Anche a me piace molto. È così morbido e tipico di un
popolo che non fa niente in fretta, che appezza e gusta anche i
piccoli piaceri quotidiani!» concordò lei, felice di condividere
quella preferenza con lo scrittore.
Mentre rientrava in cucina, gli chiese. «Amaro? Dolce?»
«Amaro, grazie»
«Benissimo, così li preparo insieme, visto che anch’io lo
bevo sketos.»
«Brava, risposta da manuale del turista! Si comincia dalle
cose di tutti i giorni e poi si allarga la propria conoscenza della
lingua alle cose astratte, ai concetti.»
279
Mentre Olimpia in cucina poneva sul fuoco il bricco con
l’acqua, si augurava che le sue amiche avessero ancora una
buona riserva di sonno, per permetterle di restare ancora un po’
a parlare a tu per tu con quel fantastico personaggio.
Mentre sorseggiava il caffè, Olimpia prese il libro e, alla
prima pagina interna, lesse tre righe dedicatele dall’autore: «La
favola dimostra che torniamo sempre a quelle cose per le quali
abbiamo un interesse. Esopo». Al di sopra di quelle ce n’erano
altre, in caratteri greci, che erano, evidentemente, l’originale e
di cui lei riuscì a riconoscere solo diversi pi greco, alfa e poco
altro.
«È un invito allo studio di questa lingua?», chiese
sorridendo, indicando la pagina aperta.
«Anche, certo.» Confermò Giulio C.
Olimpia non perdeva occasione per memorizzare ogni
minima espressione di quel volto che, pur segnato da qualche
ruga, aveva una vivacità e un magnetismo che la adescavano
visceralmente. E quando, a volte, si accorgeva che,nonostante
l’apparente indifferenza, lui pareva attratto dal suo ciondolo
ebraico, si sentiva come studiata e non riusciva a comprendere
il significato dell’interesse di lui.
Proprio mentre stavano posando le tazzine, apparvero Laura
e Patrizia, che, sorprese, salutarono con entusiasmo.
«Bene!» concluse Giulio C., alzandosi. «È ora di iniziare a
lavorare. Buona giornata a chi invece può spassarsela!» augurò
andandosene.
La giornata, specie per Olimpia, non poteva certamente
iniziare meglio. Per tutto il giorno cercò di mantenere in bocca
il sapore di quel caffè speciale e nel ricordo le parole scambiate
con Giulio C.
«Che cretina!» si diceva, quando si sorprendeva a
rinfrescare nella memoria e nell’emozione la sorpresa provata
nel trovarsi di fronte quei capelli candidi, scompigliati appena
dalla discreta brezza mattutina. «Forse pensi di essere ancora
280
una adolescente alle prese con un invincibile complesso
edipico! Faresti bene a svegliarti e darti una guardata allo
specchio per renderti conto che gli anni sono passati e che un
incontro casuale, anche se con un mito, non vuol dire niente.»
«Ma chi se ne frega!» si rispondeva, arrabbiata con la sua
parte razionale che la voleva tenere legata a terra, mentre lei
voleva volare. «Pensa a quando da settembre ritornerò a
combattere tra i banchi e rivedrò e accarezzerò tutti i miei
ricordi di questa vacanza! Ma che forza mi darà ripensare a
questi giorni e con quanta foga cercherò di convincere i miei
mostrini che disseppellire il passato può essere di un fascino
indescrivibile!».
Quella mattina, non sapeva perché, ma Giulio C. si sentiva
più elettrizzato del solito: dopo il caffè si era dedicato con
particolare carica anche ai lavori più di routine e, stranamente,
a tratti risentiva nelle orecchie le note cullanti di Satie.
Nei giorni seguenti, quasi senza accorgersene, prima di
iniziare l’attività allo scavo, cercava la figura longilinea e
bionda di Olimpia: se la scorgeva sola, deviava dal suo tragitto
abituale e andava a scambiare qualche piacevolezza con lei,
che si sentiva miracolata dalla presenza dello scrittore.
Una sera Olimpia e le amiche decisero di andare a cena in
paese, in una trattoria tanto tipica quanto unica: non ve n’erano
altre.
Sedute ad uno dei tavoli che, coperti da un rustico porticato,
offrivano una vista da incanto del mare che spegneva i suoi
colori all’arrivo della sera, chiesero, per cominciare, un giro di
ouzo e una enorme bottiglia d’acqua. Mentre aspettavano
l’aperitivo, arrivarono alcuni dei ragazzi dello scavo, con in
testa al gruppo Jacopo e Giulio C.
«Salve!» salutarono con entusiasmo i nuovi arrivati.
«Avete già cenato?» chiese Jacopo.
«Veramente, siamo appena arrivate.» Rispose subito Laura.
281
«Allora possiamo farvi compagnia e cenare insieme?»
chiese Giulio C. avvicinandosi.
Demetrios, con grande naturalezza, si diede da fare per
aiutare il proprietario ad allungare il loro tavolo e disporre
attorno le sedie occorrenti.
Naturalmente, il cibo, anche se saporito e fragrante di aromi
ellenici, non fu il centro dell’attenzione di nessuno: tutti
gustavano ogni boccone, ma i sensi erano stimolati e soddisfatti
soprattutto dalla reciproca compagnia.
Erano talmente intenti a parlare e, spesso, a ridere, che
nessuno fece caso al tipo strampalato che passò, d’un tratto,
proprio alle loro spalle. Solo quando questi fu dietro ad
Olimpia, il suo gesto e l’immediata reazione di lei gelarono
l’allegria generale. Né lei, né le amiche capivano cosa diceva
quello che sembrava un ubriaco e che, mentre urlava, con un
gesto fulmineo, strappò dal collo di Olimpia la catenina.
Istintivamente,lei si portò le mani al collo, più per cercare,
inutilmente, di trattenere i due ciondoli, che per sentire quel
sottile filo di sangue, che lo strappo violento aveva causato.
Fu un putiferio immediato: Giulio C. e i ragazzi greci si
buttarono addosso all’aggressore e lo immobilizzarono, mentre
il proprietario accorreva, non solo per dar manforte, ma
soprattutto per investire di calci e improperi quello che aveva
interrotto una serata tanto piacevole.
Se non fossero intervenute le amiche di Olimpia e le giovani
archeologhe, forse, per l’energumeno si sarebbe messa molto
male.
Laura, intanto, mantenendosi calma, aveva cercato subito di
portare aiuto ad Olimpia, cercando e trovando cotone e alcol
per disinfettare l’abrasione provocata dallo strappo.
Tra un calcio e uno sputo l’autore della violenza fu
allontanato e inseguito per un po’ dai giovani della compagnia.
282
Il proprietario, intanto, avvicinatosi ad Olimpia, cercava di
spiegarle che era mortificato per quanto era successo e le
chiedeva di perdonarlo.
«Ma lei non ne ha nessuna colpa!» cercava di
tranquillizzarlo lei, assistita da Melina che faceva da interprete
e mentre si tamponava il collo, sudando per il bruciore del
disinfettante.
Quando, dopo un po’, si ristabilì un clima più disteso, fu la
stessa Melina che le spiegò l’accaduto.
«Quello è un balordo, uno spostato, che abita dall’altra parte
dell’isola. È un violento e non ha mai fatto mistero delle sue
simpatie filonaziste. Quando ha visto il tuo scudo di David, non
gli è parso vero di potersi sfogare su una di quelli che, secondo
lui, sono i nemici da combattere.» Le raccontò la ragazza con
un tono di voce da cui trasparivano il rancore e
l’incomprensione per tanta stupidità e violenza.
«Veramente, io non sono proprio ebrea» si sentì di dover
chiarire Olimpia. «Mio padre e la sua famiglia lo sono, ma io
potrei essere, tutt’al più, un’ebrea ad honorem o una
simpatizzante» finì, sorridendo, mentre anche Giulio C. le si
avvicinava, con in mano un bicchiere di vino.
«Ho recuperato questo, ma non credo sia tutto…» le disse,
tendendole anche l’altra mano, nel cui palmo le apparve la
stella a sei punte.
«Oh! Grazie!» lo gratificò col suo miglior sorriso. «Infatti,
c’era qualcos’altro, qualcosa di speciale…che non potrò più
riavere.» Finì, quasi con un sospiro.
«Mi dispiace enormemente. Posso fare qualcosa?» tentò.
«A meno che lei non abbia qualche potere capace di vincere
la Nera Signora, temo proprio di no».rispose un po’ sibillina.
«Se potessi tanto, vi avrei già fatto ricorso anche per me
stesso.» Le confidò.
Olimpia avrebbe volentieri continuato e approfondito
l’argomento, per conoscere quali dolori lo avevano segnato, ma
283
le amiche, ancora un po’ in ansia per lei, vennero a
interrompere quel magico momento di intimità che si era
appena creato.
«Tutto a posto?» si interessò Patrizia, circondandole le
spalle con le braccia.
«Ma sì, grazie!» rispose, con un leggero accento di
disappunto, che, fortunatamente, l’amica non percepì.
Tutti si diedero un gran daffare per ricreare l’atmosfera di
allegria, tanto bruscamente interrotta e, in linea di massima, i
tentativi ebbero qualche effetto.
Nicos, il proprietario, accese a tutto volume uno stereo, che
diffuse le note avvolgenti di un sirtaki. I giovani greci,
dispostisi in cerchio, le braccia aperte, posate sulle spalle dei
compagni ai loro fianchi, presero a danzare con eleganza.
Olimpia era sempre stata affascinata da quel modo di
ballare, che, secondo lei, era quanto di più virile si potesse
immaginare nel ballo. Quel circolo di giovani in movimento le
ricordava certi cortei e scene dipinte su antichi crateri e la
teneva avvinta ad osservare, con gli occhi che le brillavano per
l’emozione.
A Giulio C. non era sfuggita la sua partecipazione alla scena
e, con un gesto improvviso, la prese per mano e la trascinò fino
al fianco dei ballerini, che si aprirono per accoglierli.
Sentire il forte braccio di lui premere sulle sue spalle le
diede un brivido e si volse a guardarlo, quasi trasognata.
Anche Giulio C. non era rimasto indifferente al calore del
braccio di lei che, anche se più lieve, gli trasmetteva in tutto il
corpo un formicolio ipnotizzante.
Il ritmo crescente e incalzante della danza la ubriacò e,
quando la musica cessò, faticò alquanto a rendersi conto di
dove si trovava e con chi era.
Quando si salutarono, venne spontaneo a tutti abbracciarsi
con calore.
284
Tornando verso casa, le tre amiche erano talmente cariche di
sensazioni, anche contrastanti, che non riuscivano a smettere di
raccontarsele e confidarsi reciprocamente.
Riuscire ad abbandonarsi al sonno fu impresa titanica per
Olimpia, che restò ore a girarsi nel letto facendo scorrere, come
una pellicola, le scene più emozionanti di quella serata.
Quando la luce rosata dell’aurora filtrò dalla finestra della
sua stanza, decise che era inutile restare ancora: aveva bisogno
di uscire, di correre, di nuotare.
Non aveva mai pensato di fare un bagno in quelle ore ancora
così fresche, ma questa era la mattina giusta per provare.
Con un pizzico di timore, avanzò lentamente nell’acqua
turchese e, con un grido liberatorio, si abbandonò al liquido
abbraccio. Nuotò a lungo, finché non avvertì un urgente
desiderio di calorie: si accorse di avere una fame da fachiro e si
avvicinò alla riva.
Giunta nella sua postazione preferita, dove aveva lasciato il
telo di spugna, sul quale Kalos si era prontamente
acciambellato, si diede a frizionarsi con vigore i capelli,
tenendo la testa rovesciata e gli occhi chiusi.
Quando li riaprì, si accorse della presenza di Giulio C., che
la stava osservando, forse già da un po’, anche se da una certa
distanza. Quando vide la sua mano agitarsi in un saluto, lo
ricambiò, accennando ad un invito a raggiungerla.
«Buongiorno! Dormito bene?» le chiese.
«Forse sì, ma non molto, comunque. Credo di non essermi
mai alzata così presto in vita mia!»
«Com’è il mare a quest’ora?» le domandò.
«Una sferzata di energia e direi il massimo per iniziare una
giornata» dichiarò, continuando a massaggiarsi i capelli.
«Anch’io non ho dormito molto: mi succede, come a tutti,
credo, quando sono troppo carico di sensazioni speciali e di
curiosità insoddisfatte.»
285
«Curiosità… sul lavoro?» indagò Olimpia con
circospezione.
«No, no» smentì lui, prontamente. «Per tutto quello che è
successo ieri sera.»
«Vorrebbe saperne di più sul tizio dell’irruzione?», gli
chiese, gli occhi negli occhi.
«Veramente, mi piacerebbe sapere qualcosa di più su di te.»
Rispose, sostenendo il suo sguardo.
«Oh! Ma di me non c’è poi molto da sapere. Non ho niente
di speciale, mi creda!»
«Ti va di parlare di quello che hai perso e che, da quanto hai
lasciato intendere, doveva essere unico?» le chiese con un tono
fatto di gentile preghiera.
Mentre si sedevano, in quell’angolo del cortile appena
sfiorato da un sole ancora tiepido, Olimpia si trovò a
raccontare, forse per la prima volta, la sua vicenda. E Lorenzo
rivisse nel ricordo, nel racconto di quella favola tragica che era
stata il loro incontro, la loro storia, la cui memoria da tempo si
era assestata in lei con una tenerezza appagante. Anche il
rimpianto, ormai, aveva trasmigrato in un rassegnato tepore,
che ovattava ogni emozione, ogni sentimento appartenenti a
quegli anni.
Mentre lei raccontava, Giulio C. non smetteva di osservarla
e i suoi occhi, morbidi e dolci nella loro vivacità, seguivano i
vari momenti con crescente simpatia e partecipazione.
«Sono eventi che fanno crescere in fretta e costruiscono un
carattere forte, senza dubbio. È un prezzo alto da pagare per
aver goduto dell’incontro con qualcuno di speciale.» La
confortò.
Olimpia, dopo il lungo racconto, si sentiva come svuotata e
nel contempo serena, libera, come una nave che ha tolto gli
ormeggi dal porto.
Per questo lo apostrofò d’un tratto: «Cosa ne direbbe se ora
le offrissi una colazione tonificante? Io mi sento svenire dalla
286
fame!» gli confidò, mentre si alzava e si dirigeva verso la
cucina.
«Penso di non essere mai stato più d’accordo con nessuna
proposta!» accettò con entusiasmo.
Mentre si avviava a preparare caffè e qualche cosa di dolce,
Laura e Patrizia si materializzarono e, con il loro allegro saluto
la fecero quasi sobbalzare. Visto dalla finestra l’ospite che
attendeva la colazione promessa, si affaccendarono a portare
fuori tutto l’occorrente.
Mentre gustavano con tutti i sensi il caffè, Giulio C. notò il
giornale dimenticato da giorni su una sedia. Era l’unico che
Olimpia aveva trovato, due giorni dopo la gara di F1 di
Silverstone.
Alzatosi, lo prese e vi diede una rapida scorsa.
«Un po’ inusuale trovare un giornale sportivo in una casa di
ragazze sole!» commentò guardandole.
«Se, però, una è una ferrarista assatanata, non è poi così
strano» fu la pronta risposta di Laura, che scambiò un’occhiata
eloquente con Olimpia.
«Sarai felice anche tu di come si è messo il mondiale,
allora?» le chiese
«No, guardi, la malata è Olimpia!» lo informò prontamente
Patrizia.
«Ah! Bene! Hai visto il Gran Premio?» domandò, finendo di
sorseggiare il caffè.
«Sì, ma purtroppo, non abbiamo la parabola e mi sono
dovuta accontentare della telecronaca in greco. Che sia stato un
trionfo rosso, non ho fatto fatica a capirlo, ma mi sono persa
molto dell’atmosfera e i commenti dei nostri cronisti!».
«Se volete, per la prossima corsa, il 25, ad Hockenheim,
potete venire al nostro albergo. Non sarà l’Hilton, ma la
parabola ce l’ha!» le invitò alzandosi.
287
«Guardi che lo considero un impegno!» si entusiasmò
Olimpia «Non lo dimentico di certo».
«Farai bene!» concordò. «Potremo approfittarne per una
bicchierata generale, soprattutto se…»
«Zitto!!! Non si dice niente, prima!» lo redarguì con forza,
legata com’era a pratiche scaramantiche.
Nei giorni che seguirono, Giulio C. dovette assentarsi per
andare ad Atene, per motivi di lavoro. L’università lo aveva
contattato per averlo come visiting professor e voleva rendersi
conto di persona di com’era l’ambiente. Quando tornò, tre
giorni dopo, si presentò a casa delle ragazze, sperando di
trovare Olimpia, sola come al solito, nelle prime ore del
mattino. Fu sorpreso, invece, nel trovare vuota la sua sdraio e
nessun segno di una assenza momentanea, anzi, ad esame più
attento, notò le finestre chiuse, il silenzio totale. Solo Kalos si
aggirava un po’ spaesato, prima di decidere di accoccolarsi
sullo zerbino, non senza aver espresso il suo disappunto con
una serie di miagolii. Non potevano essere partite per restare
via a lungo, rifletté, visto che avevano lasciato la biancheria
stesa al sole.
Piuttosto deluso e, soprattutto, sorpreso per l’effetto che
quel mancato incontro faceva su di lui, se ne andò al cantiere.
Nel corso della giornata, si sorprendeva spesso ad alzare il
capo e guardare in direzione della casa in cui nulla cambiava.
Fortunatamente, nel pomeriggio, il ritrovamento di una
pregevolissima statua intatta, raffigurante un atleta incoronato
per una vittoria, lo assorbì tanto che solo poco prima di
chiudere rivolse ancora uno sguardo alla ricerca di un segno di
vita. Fu allora che si accorse che la casa era di nuovo aperta.
Felice, si avviò per salutare le tre amiche e, proprio mentre
stava per decidere se annunciarsi suonando il campanello o
chiamare a viva voce, Olimpia si affacciò ad una finestra.
«Buonasera! Ciao! Bentornate!» l’apostrofò vivacemente.
288
«Grazie! Abbiamo fatto un giretto qua intorno con una
barchetta di un pescatore! Si figuri se Patrizia si lasciava
scappare l’occasione di una full immersion nel mare e nel sole.
Comunque, è sempre affascinante vedere la costa dal mare.
Tutto bene?» gli chiese poi. «Non la abbiamo vista per qualche
giorno! Pensavamo ci fosse qualche problema!» si giustificò,
usando un plurale che sentiva esclusivamente ipocrita.
Giulio C. spiegò volentieri la sua assenza e, appena Olimpia
sentì “Atene”, si illuminò di entusiasmo.
«La prossima settimana vorremmo farci un salto. Sarebbe
assurdo essere così vicine, anche se disagiate come mezzi di
comunicazione, e non avere visto neppure il Partenone!»
«Vorrei ben vedere che ve ne andaste dall’isola senza essere
passate dalla capitale!» approvò lui. «Intanto, ho pensato di
rimediare, almeno in parte, al danno che hai subito.» Le disse,
tendendole un sacchettino di stoffa blu.
Olimpia, sorpresa, con le mani incerte, armeggiava per
estrarre un contenuto, che intuiva leggero e morbido. Sciolto il
fiocchetto che lo legava, lo vuotò e si trovò sul palmo della
mano una lucente catenina d’argento.
«No! Grazie, ma non doveva! Sembra quasi che si sia
sentito in colpa per quanto accaduto e non è proprio il caso! Mi
dispiace molto che abbia…» non sapeva come terminare per
sottolineare la sua meraviglia e ringraziarlo di un pensiero
tanto gentile.
«Nessun problema!» la tranquillizzò lui. «Atene è piena di
negozietti di argenterie locali e, quando l’ho vista in una
vetrina, non ho potuto non prenderla!»
Intanto anche altri ragazzi si unirono in un saluto e qualcuno
lanciò l’idea di cenare insieme. Nicos, felice di rivederli dopo
lo spiacevole incidente, li accolse con la sua espansività.
Mentre aspettavano la grigliata di pesce, il cellulare di
Giulio C. si fece sentire.
«Scusate!» rispose alla chiamata, alzandosi dalla tavola.
289
Allontanatosi di quel tanto che bastava per non essere
distratto dalle allegre voci dei giovani, già sollecitati dal vino
migliore di Nicos, tornò poco dopo.
«Tutto ok, prof?» si informò Jacopo.
«Sì, sì!» confermò, sorridendo mentre riprendeva il suo
posto di fronte ad Olimpia. «La prossima settimana dovrò fare
un salto ad Atene.» piccola pausa di riflessione e poi: «Allora,
si va insieme?» chiese lasciando vagare lo sguardo dall’una
all’altra delle tre amiche.
«Sarebbe una favola: concludere la nostra vacanza con la
visita ad Atene in tanta compagnia…» si entusiasmò subito
Olimpia, cercando negli occhi delle altre la sua stessa
emozione.
Ovviamente, la domenica pomeriggio, seguita da Laura, si
presentò all’albergo in paese, con l’adrenalina che aveva
sostituito tutto il sangue nelle vene, sia per l’attesa del Gran
Premio che per la prospettiva di seguire la corsa
condividendone i brividi con qualcuno in grado di capirla.
Il nuovo trionfo di Schumacher diede la stura a balli e inni
esultanti: ormai il Mondiale era tutto Ferrari.
Quando tre giorni dopo le amiche chiusero la casa in
quell’ora ancora incerta del primo mattino, Olimpia si sentiva
elettrizzata come quando partiva in gita scolastica con la sua
classe.
Giulio C. aveva programmato i suoi impegni in modo da
tenersi libero per il pomeriggio e poter fare da guida alle tre
ragazze, che la mattina si dedicarono a passeggiare per le
strade attorno all’Acropoli. Olimpia non si stancava di tenere
gli occhi fissi sul Partenone, quella meraviglia bianca che
torreggiava nella sua aristocratica bellezza. Il tempio più
famoso di tutta la Grecia aveva perso nei millenni le tinte forti
di cui i pittori contemporanei di Pericle lo avevano rivestito,
ma anche così, rifletteva Olimpia, era ugualmente affascinante,
anzi, quasi di più.
290
Nelle ore ancora molto calde del pomeriggio, l’allegra,
piccola schiera salì la rampa dei Propilei. Giulio C. non si
stancava di animare quel luogo, così ricco di storia e di arte,
con nozioni, aneddoti e curiosità che tenevano le ragazze
avvinte.
Mentre si dirigevano in taxi all’albergo, che lui aveva
prenotato, Giulio C. chiese:
«Credo che non abbiate mai visto spettacolo più bello e
completo del tramonto a Capo Sounion. Vi va di fare questa
esperienza? Vedrete un indimenticabile connubio tra arte e
paesaggio!»
«Ma certo!» «Senz’altro!» «Grazie, assolutamente sì!»
concordarono, quasi ad una voce.
Arrivate alla reception, Laura ebbe un sussulto, quando vide
avvicinarsi un ragazzo alto e dall’andatura dinoccolata.
«No! Non è possibile! Franz! Sei proprio tu?!»
Era proprio lui, un tedesco di Monaco che aveva conosciuto
in giro per il mondo, non ricordava più dove, ma invece non
poteva dimenticare la sua simpatia e le serate di confidenze
reciproche, davanti a bicchieri di chinotto, che lui, forte
bevitore di birra, guardava con aria tra lo schifato e il
compassionevole.
«Laura!» esclamò, tendendole le braccia, che lei strinse con
affetto. «Wie geht’s dir?»
Da lì in poi si lanciarono in un fitto scambio di domande e
risposte, inframmezzate da sorrisi e aperte risate, finché Laura
fece cenno alle amiche e Giulio C. che si erano fermati a
distanza di sicurezza.
Fece le doverose presentazioni, scoprendo che anche
l’amico conosceva, di fama, lo scrittore e archeologo
veneziano.
Mentre stavano per salutarsi prima di salire in camera, Franz
richiamò Laura e le chiese qualcosa cui lei rispose scuotendo il
capo e accennando alle amiche poco più in là.
291
«Qualcosa che non va?» si informò Patrizia.
«No, no. Solo Franz mi chiedeva se volevo andare con il suo
gruppo ad ascoltare un concerto di un gruppo rock, gli Iron
Maiden, che sa essere sempre stato una mia passione»
«E qual è il problema?» intervenne Giulio C.
«Che non mi pare molto corretto andarmene per i fatti miei
e lasciarvi soli!»
«Credo si possa sicuramente risolvere l’impasse.» Suggerì
lui «Vediamo innanzitutto cosa vorresti fare tu e…»
«Il fatto è che sono molto titubante, perché vorrei poter
essere in entrambi i posti» confessò.
Saputo che il concerto sarebbe iniziato alle 10, ogni
incertezza scomparve, perché il sole a quell’ora se ne sarebbe
certo già sparito oltre l’orizzonte e Laura avrebbe potuto
correre a frastornarsi e trapanarsi i timpani con i decibel della
sua musica preferita.
Dopo una rapida rinfrescata, si ritrovarono nella hall e si
sistemarono in alcuni taxi, che partirono sparati nel traffico di
Atene. Le poche decine di chilometri furono riempite da
piacevoli chiacchiere e confessioni di reciproci ricordi.
Giulio C., anche se non ve n’era bisogno, aveva cercato di
solleticare la loro curiosità, creando un’aspettativa
assolutamente da record. Nonostante ciò, quando le ragazze si
trovarono a salire verso le colonne e i pilastri della cella del
tempio di Poseidone, ogni commento fu inadeguato ad
esprimere le loro emozioni. Il fluire di numerose colonne di
turisti era la riprova del potere evocativo del luogo in quel
particolare momento della giornata.
Olimpia si era fermata, un po’ più indietro degli altri, per
immaginare di essere sola a lasciarsi inondare, come quei resti
di antichi edifici, dalla luce calda e preziosa di un sole che era
come non lo aveva mai visto.
292
Immersa in quello spettacolo, non si era accorta di essere
rimasta separata dal resto del gruppo, finché non si sentì
chiamare.
«Eccoti finalmente!» l’apostrofò Laura, seguita dagli altri.
«Che ne dici se ora noi torniamo e ce ne andiamo al concerto?»
chiese, già prevedendo la risposta positiva di Olimpia.
«Penso che sia ora e che dovrete anche correre un po’!»
rispose infatti, sperando che non si notasse la sua premura di
rimanere ancora un po’ in silenzio per conto suo.
«A qualcuno dispiace se anch’io mi unisco al gruppo dei
rockettari?» intervenne Patrizia. «Io il mare preferisco vederlo
più da vicino, tutto sommato, anche se questo panorama non
andava assolutamente perso, devo ammetterlo!»
«Non vi preoccupate» assicurò Giulio C. «Saprò fare io
buona guardia alla vostra amica. Ci rivediamo in albergo. Buon
divertimento!»
Quando Olimpia vide il gruppo vociante che si buttava a
correre in discesa alla ricerca delle macchine, non realizzò
subito che era rimasta sola con Giulio C. al suo fianco, gli
occhi vaganti dalle colonne rosate, al sole, che ormai si stava
spegnendo in un mare di fuoco.
Molti altri turisti stavano tornando e loro due, invece, si
muovevano contro corrente.
«È ovvio che Tucidide abbia scritto “Amiamo il bello, ma
con compostezza”!» riconobbe Olimpia. «Come poteva essere
altrimenti, se, fin dalla nascita, un greco aveva davanti dagli
occhi spettacoli come questo! Per questo popolo fortunato il
bello era una abitudine quotidiana!»
«Infatti» confermò Giulio C. «Si può dire che il Bello, come
canone estetico l’abbiano inventato loro!»
Olimpia si lasciava avvolgere da quell’atmosfera, ormai
quasi spenta, ma che continuava ad emanare profumi, essenze
penetranti e afrodisiache.
293
Quando sentì la mano di lui posarsi suoi fianchi, ebbe un
fremito e, voltatasi, trovò il viso di lui così vicino al suo da
distinguere anche le pagliuzze dorate nei suoi occhi. Le sue
labbra, che a lei ricordavano quelle, così marcate e virili, dei
bronzi di Riace, si stavano schiudendo alla ricerca delle sue. Fu
un attimo e lei si scostò, combattuta tra un desiderio struggente
di abbandonarsi e un rigurgito di razionalità che la allontanava.
Giulio C. la trattenne.
«No, la prego, per favore. Non lo faccia!» lo pregò quasi in
un sussurro.
«Non lo desideri forse anche tu?» le mormorò.
«Non saprei dire quanto e da quanto tempo!» confessò,
chinando il capo, per sfuggire a quegli occhi che la indagavano.
«Allora, perché no?» insistette lui.
«Perché…» esitò «perché è tutto troppo perfetto e quasi
ovvio. La vacanza può fare di questi scherzi: tutto sembra
naturale, ma poi…»
«Se è per questo, ti ricordo che io non sono in vacanza per
niente!» ribatté, avvicinando di nuovo il viso.
«Dimentica forse che c’è qualcosa, o meglio, qualcuno, che
ce lo impedisce?» volle ricordargli.
«Non capisco. Scusa, pensavo tu fossi libera…»
«Infatti!» confermò lei, mentre la sua incertezza si faceva
sempre più vacillante. «Non dicevo per me… Se non sbaglio,
proprio il libro “Nella terra degli Dei” portava una dedica
molto eloquente!» rispose, ricordando quante volte aveva
tentato di immaginare come poteva essere la donna che aveva
avuto il privilegio di condividere vita e opera con lui.
«Ah! Per quello dicevi?» rispose lui, con un evidente senso
di sollievo, che trasparve dal intensità lieto della voce. «Guarda
la data, allora! Negli anni le cose possono cambiare e tanto!»
Le prese le mani e la guidò verso una panchina che pareva
attendere proprio loro. Mentre ormai il buio diventava il nuovo
interprete su quel palcoscenico che li circondava, Giulio C.,
294
finalmente con estrema naturalezza, raccontò la sua storia con
Charlotte, accorgendosi di sentirsi ormai lontano e quasi
estraneo ai momenti che rievocava. Quando descrisse le cause
che avevano annullato il suo rapporto con la moglie e come in
lei si fosse riaccesa prepotentemente un’appartenenza etnica
assolutamente esclusiva e intollerante, Olimpia non poté non
mormorare: «Ecco perché forse, allora lei…»
«Sì? Cosa?» la interrogò.
«Non mi spiegavo il perché del suo interesse per questo!»
gli rispose mostrando il pendente del magen David.
«Già, temevo un altro baluardo insormontabile!»
«Non è stato certo un bel momento, ma, come vedi, e come
anche tu hai imparato, la vita è anche altro e oltre.» Concluse.
«Penso che, come dice lei..» stava per confermare Olimpia.
«E adesso se non impari a darmi del tu e non mi baci fino ad
Atene, giuro a Poseidone che ti lascio qui da sola !»
Qualche minuto più tardi, la panchina era vuota e solo uno
spicchio di luna dialogava con il mare.
295
FUTURO
OLIMPIA E GIULIO C.
?
296
Sommario
INTRODUZIONE.......................................................................5
GIULIO CLAUDIO
TRAPASSATO REMOTO...........................................................10
OLIMPIA
TRAPASSATO REMOTO...........................................................14
GIULIO CLAUDIO
PASSATO REMOTO...............................................................20
OLIMPIA
PASSATO REMOTO.............................................................113
GIULIO C.
PASSATO PROSSIMO...........................................................189
OLIMPIA
PASSATO PROSSIMO...........................................................241
OLIMPIA
PRESENTE........................................................................267
OLIMPIA E GIULIO C.
PRESENTE........................................................................275
FUTURO
OLIMPIA E GIULIO C...........................................................296
© Copyright 2009 Anna Maria Cavalieri
Responsabile della pubblicazione Anna Maria Cavalieri
Libro pubblicato a spese dell’autore
Stampato in Italia presso Cromografica Roma S.r.l., Roma,
per Gruppo Editoriale L’Espresso S.p.A.
L’autore è un utente del sito
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