ANNA MARIA CAVALIERI Due storie Due vite INTRODUZIONE di Alessandro Malaguti Devo ammettere che quando ho cominciato a leggere questo romanzo, non sapevo minimamente cosa aspettarmi. Non avendo mai letto prima nulla che fosse scaturito dalla penna di Annamaria, mi sono avvicinato con una curiosità quasi morbosa, come fossi consapevole che avrei scoperto un lato di lei che mi avrebbe affascinato. Ed in effetti non mi sbagliavo poi così tanto. Il romanzo scorre sulle linee quasi parallele delle vite dei due personaggi, Giulio C. e Olimpia, con la frequenza di un pendolo che oscilla inesorabile, ora lento, ora velocissimo. Come contrappesi di un pendolo che deve essere sincronizzato, Annamaria ci porta per mano di volta in volta ad esplorare le vicende che vedono i due protagonisti vivere due esistenze apparentemente diverse, segnate da momenti di emozioni violente e da periodi piatti, silenziosi ed introversi, nei quali la vita li catapulta, loro malgrado. Conoscendo Annamaria, non ho potuto fare a meno di notare come sia stata in grado di amalgamare i tanti spunti autobiografici presenti evitando però di farne il cuore del romanzo, ma usandoli sapientemente per caratterizzare al meglio le tante sfaccettature dei personaggi, anche quelli di secondaria importanza. È interessante notare anche l’uso della sola iniziale di C. che associata al nome di Giulio richiede un certo sforzo per disabituare il pensiero ad associarla a “Cesare”. D’altro canto, proprio questo collegamento inconscio, aiuta ad delineare meglio i contorni di un uomo che, nel suo mestiere di archeologo, tanto ha a che fare con la storia antica. 7 Nonostante il romanzo sia collocato in anni ben precisi, non si tratta di un romanzo storico, né, tanto meno, il passaggio del millennio o il crollo del muro di Berlino sono eventi centrali della narrazione. L’inserimento di questi elementi, però, aiuta a dare una scansione temporale ben precisa alla crescita dei personaggi ed a contestualizzare meglio le vicende, anche sotto il profilo geografico che finisce per diventare un elemento importante della storia. Di luogo in luogo, le vite dei personaggi prendono così l’abbrivio iniziale che li porterà alla destinazione successiva attraverso periodi sempre ben delineati della loro vita. Ciascuno di questi archi di tempo carica di esperienze intense, spesso difficili, le esistenze di Giulio e Olimpia, e solo sullo sfondo appaiono, quasi vellutate, le figure costanti della loro vita: Mara, la madre di Giulio, la famiglia di Olimpia, le amicizie di lunga data; figure che affollano il passato per divenir sempre più rade, sino a scomparire con il sole che al tramonto si tuffa nel mare. Ad ogni oscillazione del pendolo, il tempo si sposta in avanti in maniera discreta e migliora la sincronia che solo nelle ultime pagine del romanzo diventa concreta e pare aver sigillo in quel senso di religiosità pacata e sommessa che si respira nelle prime pagine, dove cristianesimo ed ebraismo convivono nelle famiglie e nella storia dei protagonisti, nella più completa normalità. Non mancano i sentimenti forti, coinvolgenti, espressi in descrizioni semplici, dirette ed efficaci, capaci di suscitare emozioni davvero intense anche nei momenti in cui viene esplorato l’ambito dei sentimenti maschili, cosa non comune per un romanzo scritto in rosa. Forse non sarò il critico più obiettivo, lo ammetto, ma la lettura di queste pagine è stata più che piacevole, il testo scorre veloce, i dialoghi ben congeniati e sopra tutto, una Storia davvero appassionante. 8 GIULIO CLAUDIO TRAPASSATO REMOTO Mara Bergamin e Marco Erneti avevano vent’anni e si amavano fin da bambini. La loro non era stata neppure una scelta, era come se avessero sempre saputo che si sarebbero uniti per la vita. L’essere nati in un piccolo paese della provincia veneta, Mirano, aveva senza dubbio contribuito a facilitare lo stare insieme e creato le occasioni di incontro. Come tutti gli innamorati, spesso passavano il tempo a fare progetti sul loro avvenire, ma c’era qualcun altro che stava prendendo decisioni tali da modificare i loro pur semplici programmi. Quel 10 giugno 1940 l’urlo della folla sotto il balcone di Piazza Venezia accompagnò e coprì le loro timide ansiose domande: «E adesso? Quanto durerà?» Nessuno dei due era un fanatico e nelle loro famiglie la politica, anzi, era vissuta come una cosa da SSIORI, un lusso per chi non doveva guadagnarsi il pane con un lavoro spesso duro e stentato. Nessuno in casa loro esultò per quella vittoria certa, che in breve tempo avrebbe fatto dell’Italia, già imperiale, una grande potenza. I primi mesi di guerra furono superati con una crescente ansia ma anche con il conforto che cercavano di trovare nella fede incrollabile di quanti ripetevano le parole del Duce e dei bollettini di guerra che davano per scontato un rapido trionfo. 10 Marco, per sua fortuna, a causa di grossi problemi alla vista, aveva evitato il servizio militare e ora più che mai se ne rallegrava, sorridendo al ricordo di quando, subito dopo la visita al distretto militare, tanti coetanei desiderosi di gloriarsi con una divisa, lo avevano sbeffeggiato. Purtroppo, però, il desiderio di tranquillità, di pace, di stabilità dei due ragazzi aveva fretta, tanta fretta ed era sempre più difficile non ascoltarlo. Come la maggior parte della popolazione locale, anche le loro famiglie e loro stessi erano fedeli e praticanti cattolici, per cui il parroco don Romano era per loro un punto di riferimento, non solo religioso ma anche psicologico, un consigliere oltre che un confessore. Così, quando iniziò la nuova vera tragedia della guerra civile, capirono che non potevano più aspettare oltre: il futuro appariva sempre più’ incerto e il terrore di morire non era pari a quello di uscire dalla vita senza essere diventati i signori Erneti. Il vero problema per loro era avere una casa, un piccolo rifugio per potersi parlare e amare liberamente, senza condividere la propria intimità con le rispettive famiglie. Don Romano comprese immediatamente che poteva aiutare quei due ragazzi: la sua canonica era ampia, articolata in due ali praticamente indipendenti e una di queste sarebbe potuta diventare benissimo la prima, provvisoria dimora della nuova famiglia. I quasi due anni che seguirono non furono certo facili: a mano a mano che i tedeschi si ritiravano e il fronte si spostava, tutto diventava più rischioso, anche perché don Romano non sapeva negare il proprio aiuto a nessuno e spesso di notte sentivano movimenti e voci concitate provenire dalle stanze vicine e nel cortile della canonica. Con il cuore in gola trattenevano il respiro e si stringevano in quel vecchio grande letto che era stato il loro viaggio di nozze. Pur amandosi in modo totale, sapevano che non era quello il momento per pensare di appendere un fiocco rosa o azzurro 11 alla loro porta, aiutati in questo anche dal don che, pur non accennando mai direttamente alla questione, con varie e spiritose allusioni, condivideva la loro scelta, contro ogni direttiva contraria, civile o religiosa che fosse. E arrivò finalmente il vento dolce della primavera 1945 che portò con le rondini la fine della guerra. I primi mesi di pace furono per tutti una ubriacatura di entusiasmo e libertà ritrovata, ma presto si cominciarono a sentire anche i disagi di una ricostruzione e una ricerca di normalità che impegnavano più degli stenti della guerra. Se fino ad allora avevano potuto sopravvivere grazie all’attività di Mara, che si dava un gran daffare sia in canonica che presso alcune famiglie agiate della zona, e al lavoro di Marco nel vecchio emporio di famiglia, ora, se volevano trovare una sistemazione più indipendente, dovevano cercare altre entrate. Su questo spesso stavano la sera ad arrovellarsi, perché il negozio paterno non poteva certo mantenere decorosamente due famiglie, di cui una contava di espandersi. Certo mai avrebbero comunque voluto che la soluzione dei loro problemi si presentasse con la faccia della morte. Il padre di Marco, infatti, fu portato via improvvisamente da un ictus in una calda e placida serata dell’aprile 1946. Rimasto vedovo da poco, aveva accolto in casa sua un fratello, segnato da un carattere infantile, mite, ingenuo e totalmente non autosufficiente. Se ne era preso cura con tanto affetto finché la morte non era venuta a reclamare il suo credito. Poiché Marco era l’unico erede, lui e Mara, superato il momento del dolore, si trasferirono nella casa di famiglia, affidarono lo zio ad un pio istituto della zona e, piano piano, si dedicarono a riorganizzare l’attività commerciale, dirigendola verso il settore che in quei momenti era più richiesto. Dopo la guerra e i bombardamenti, la ricostruzione era in piena ripresa, così Marco si specializzò in tutto quanto aveva a che fare con l’edilizia e dintorni, trasformando il bazar paterno in un negozio di ferramenta. 12 Le cose si stavano mettendo bene e in paese molti cominciavano a invidiare il successo di quei due ragazzi che erano usciti dal conflitto carichi di desideri e di voglia di realizzarli, anche se solo loro sapevano quante volte avevano invece temuto di non farcela. Sull’onda di queste rosee prospettive, decisero, quindi, che poteva essere venuto il momento di pensare ad un erede. E mentre a Roma iniziava la gestazione della nuova carta costituzionale, a Mirano cominciava l’attesa del nuovo membro della famiglia Erneti. 13 OLIMPIA TRAPASSATO REMOTO Daniel Alessandri e Caterina Anselmi erano insieme ormai da alcuni anni. Facevano coppia fissa dovunque, all’interno di quella compagnia di amici che li aveva fatti incontrare. Certo, lui non passava inosservato col suo fisico atletico, la carnagione leggermente olivastra e gli occhi di un verde profondo, eppure, quando Caterina gli aveva stretto la mano per la prima volta, lo aveva giudicato un po’ troppo… troppo. Come poteva essere anche simpatico e intelligente uno che già aveva avuto in dono tante altre doti? Forse era un po’ prevenuta nei confronti di quel giovane professore di educazione fisica che, le avevano detto le amiche, insegnava al liceo classico. Lei non poteva certo dirsi una sportiva e non amava granché neppure assistere dalle gradinate di un palazzetto dello sport alle partite di pallacanestro, tuttavia, quel pomeriggio di sabato di un inizio di novembre nebbioso non aveva avuto alternative all’invito delle amiche: «Dai, andiamo a vedere la partita della 4 Torri? Ci sono dei ragazzi da sogno!». Quando si era ritrovata accanto Daniel, che seguiva con grande partecipazione le fasi dell’incontro, aveva solo cercato di immedesimarsi negli schieramenti e nei passaggi di palla per cercare di capire quali emozioni doveva dare tutto quel correre e sgambettare. All’uscita, qualcuno le aveva presentato il suo vicino, che le aveva subito sorriso e si era unito al loro gruppo per una pizza. Non ricordava nemmeno di cosa avevano parlato, visto che si 14 erano ritrovati vicini anche a tavola. Forse lei aveva risposto alle sue domande, informandolo che lavorava all’Inail, che si occupava di amministrazione, che era figlia unica e altre informazioni generiche e non compromettenti. Se quell’incontro per Caterina era passato del tutto indifferente, per Daniel invece aveva lasciato un segno: quella ragazza, piccolina ma perfetta nei suoi capelli biondi, accentuati dal castano scuro di due enormi occhi, con quell’aria così apparentemente assente, suscitava in lui una curiosità stimolante. Quando, qualche tempo dopo, ad una delle festicciole domestiche tipiche degli anni Sessanta, si erano rincontrati, Daniel era partito alla carica per cercare di conquistare quella che sembrava l’unica ragazza insensibile al suo indubbio fascino. Avevano ballato insieme varie volte e, quando qualcuno aveva abbassato le luci, lui aveva cercato di stringerla con particolare trasporto. Caterina, pur senza sembrare seccata, aveva subito ripristinato le distanze. Un paio di giorni dopo, lui le aveva telefonato: le andava di uscire insieme? Lei non aveva pronta nessuna scusa per declinare l’invito, per cui aveva voluto provocarlo chiedendogli il motivo di una tale richiesta. «Non sarei credibile se ti dicessi che mi interessa conoscerti meglio?» aveva risposto, dopo solo un breve attimo di esitazione. «Non vorrei ti facessi strane idee se accetto» aveva risposto lei. «Corriamo questo rischio?» aveva scherzato lui. Così erano usciti insieme da soli per la prima volta. Nonostante il tempo non proprio piacevole, avevano passeggiato a lungo, senza badare a dove andavano, seguendo i percorsi tortuosi delle stradine dell’antico castrum bizantino, prima di approdare davanti ad un aperitivo. Le ore erano scivolate via, come i loro passi nella nebbia e, giunta alla porta 15 di casa, Caterina aveva dovuto ammettere con se stessa che non le era dispiaciuto trascorrere così quel paio d’ore. «Ci rivediamo, allora?» le chiese Daniel. «Domani ho un rientro in ufficio, ma se vuoi…» «Posso venirti a prendere all’uscita», le propose. Così era cominciata la loro storia. Era ormai più di un mese che durava, quando, passando per via Mazzini, quasi all’incrocio con via Terranuova, Olimpia notò un certo via vai e alcune persone, che stavano entrando in un antico edificio, salutarono Daniel. «Shalom» rispose lui. «Come hai detto?» si incuriosì Caterina. «Ho solo salutato alcuni conoscenti e amici di famiglia» rispose con naturalezza. «Ma in che lingua? Sono stranieri?» insistette lei. «Come lo siamo un po’ tutti noi.» Fu la sibillina risposta di Daniel. «Non capisco…» «Siamo ebrei, non lo sapevi?» le chiese con una certa meraviglia. «No, non lo sapevo. Del resto credi che questo possa modificare il nostro rapporto?» lo sollecitò. «Assolutamente no, per quanto mi riguarda». «E dove andavano i tuoi amici?» si informò Caterina. «In sinagoga, alla funzione dello Shabat» le spiegò. «Che sarebbe?» «L’equivalente della vostra domenica, il giorno di festa, che per noi è il sabato.» le spiegò. «E tu? Non sei praticante?» «Si, mediamente, diciamo.» «Cosa vuol dire?» lo sollecitò Caterina, fermandosi e guardandolo dritto negli occhi. 16 «Che se talvolta un sabato…» stava per chiarire, quando lei lo bloccò. «Forse sono rimasta indietro io col calendario, ma oggi è ancora venerdì, se non sbaglio». «Certo, ma per noi il sabato, la festa, inizia il venerdì sera, poiché il tempo è cominciato da quando il Signore separò le tenebre, che preesistevano, dalla luce che seguì» Caterina continuava a tartassarlo di domande e Daniel soddisfaceva volentieri tutte le sue curiosità, finché, alla sua domanda di come avessero vissuto, lui e la sua famiglia, gli anni tragici del fascismo e delle leggi razziali, lo vide incupirsi ed esitare un momento. «Scusa, forse sono stata troppo indiscreta e indelicata. Lascia stare, cambiamo argomento» Cercò di giustificarsi. «No, niente affatto. Certo, sono argomenti che mi toccano molto da vicino, anche se i miei ricordi di bambino non arrivano così lontano» rispose prontamente. «Sono nato in Svizzera, dove i miei si erano rifugiati già da qualche anno prima che io nascessi, grazie all’aiuto e alla lungimiranza di alcuni zii che, già dai primi anni Trenta erano emigrati a Zurigo. In fin dei conti, la mia è stata un’infanzia dorata, visto che non potevo sapere né capire quello che stava succedendo a milioni di nostri correligionari. Ti dirò che, quando ho cominciato a studiare storia e a comprendere, almeno in parte, quanto era successo, mi sono sentito quasi un traditore.» «Perché? Avresti voluto anche tu sparire su un treno piombato e finire in fumo come tanti altri? A cosa sarebbe servito avere altre vittime in più? Non sarà meglio che qualcuno sia sopravvissuto per continuare la stirpe di Israele?» lo confortò Caterina, visibilmente partecipe dei tormenti di lui. La rivelazione dell’ebraicità di Daniel, si stupiva lei, riflettendo nei giorni seguenti, sembrava rendere quel ragazzo 17 ai suoi occhi ancora più speciale. Era sciocca a sentirla come un pregio, come una dote, di cui anche lei poteva partecipare? Fosse come fosse, da quella sera, i loro rapporti si fecero ancora più intimi. Nonostante l’età non più adolescenziale e il clima presessantottino, Caterina non aveva molte esperienze pregresse, per cui visse i primi veri rapporti con Daniel in modo intenso. Spesso parlando con amiche e colleghe, si era posta il problema della sicurezza per evitare una gravidanza che sarebbe stata intempestiva, ma non sapeva decidere quali sistemi adottare, pertanto confidava incoscientemente più nella fortuna e nell’esperienza di lui. Visto, poi, che per quasi due anni tutto era andato bene, perché preoccuparsi? Ma anche alla fortuna c’è un limite, comunque. E, infatti, puntualmente, nel novembre del 1967, accadde. Caterina, aveva da tempo comunicato in casa che aveva un ragazzo col quale usciva e si trovava bene. Alle ripetute richieste dei suoi di conoscerlo, aveva sempre risposto che non c’era fretta. Ora, invece doveva accelerare i tempi. Daniel, alla notizia del prossimo lieto evento, non si mostrò né troppo sorpreso né contrariato. «C’era da aspettarselo che sarebbe successo, prima o poi, no?» fu il suo commento. Stupita da tanta tranquillità, Caterina non poté non sospettare: «Non l’avrai mica fatto apposta, per caso?» «Ti assicuro di no, tuttavia non mi dispiace troppo. Cosa succede, in fin dei conti? Siamo maggiorenni, abbiamo un lavoro, vuol dire che metteremo su casa.» Sì, detto così, sembrava tutto facile, ma la differenza del loro credo religioso finì con l’avere un certo peso, soprattutto da parte della famiglia del futuro sposo. Che il figlio minore si sposasse non poteva che rallegrare i coniugi Alessandri, ma quando seppero che la prescelta era una goy, ci furono molte rimostranze. 18 «Ma Daniel,» lo rimproverò la madre «io avevo sempre sperato che avresti sposato una di noi, della nostra gente. Siamo rimasti così pochi, che se diluiamo ancor più il nostro sangue, finiremo con lo scomparire. Ero tanto felice, quando ti vedevo parlare con la figliola dei Sinigaglia, che immaginavo già di poterla chiamare nuora. Ti confesso, Daniel, che sono un po’ delusa da questa tua scelta. Hai pensato alle complicazioni che ci saranno per voi e soprattutto per gli eventuali figli? Come cresceranno, secondo quale religione? Tu sei l’uomo e quindi i tuoi figli non saranno mai ebrei!» «Mamma, non ci sono più le leggi razziali e quanto ai figli… lo verificheremo presto.» «Adonai, Adonai, non dirmi che…» si agitò sulla sedia. «Sì, mamma, è già in arrivo» Anche per Caterina l’annuncio non fu proprio tranquillissimo e accolto festosamente. Comunque le famiglie si incontrarono, socializzarono e fecero buon viso all’inevitabile. I due sposini cercarono, molto orgogliosamente, di dare loro il minor peso possibile, non solo sbrigando da soli tutte le varie incombenze, ma anche facendo fronte economicamente all’onere di una seppur ristretta cerimonia. Grazie, comunque ad agevolazioni bancarie e aiuti di parenti che avevano voluto mostrarsi particolarmente generosi, accesero un mutuo e acquistarono un appartamento, che iniziarono ad arredare con il minimo indispensabile. 19 GIULIO CLAUDIO PASSATO REMOTO Quando appese il fiocco azzurro all’interno della vetrina del suo negozio, Marco aveva le mani sudate e tremanti per la gioia incontenibile. Mara,donna forte e volitiva, non si era troppo crogiolata nell’accettare riguardi e attenzioni da puerpera: dopo pochissimi giorni dal parto, era scesa di nuovo in campo e si destreggiava tra mille impegni e vagiti. La scelta del nome li aveva occupati parecchio, finché si erano accordati su un doppio nome che ricordasse i loro rispettivi genitori: Giulio Claudio. «Suona bene» aveva commentato Marco, che ricordava vagamente di aver sentito nominare un Giulio Cesare quando sedeva sui banchi delle elementari. Quando fu il momento di iniziare il suo percorso scolastico, Giulio C. non si distinse certo per la docilità del carattere. Dimostrò, invece, da subito una brillante intelligenza, spiccate capacità deduttive e logiche, ma anche una decisa ostinazione nel perseguire i massimi risultati. Decisamente, quello che ormai era diventato un ragazzino, meritava di studiare, di andare ben oltre le scuole medie, che pure per Mara e Marco erano una meta ambiziosa. Anche a detta dei professori, Giulio C. aveva una netta predisposizione per le discipline umanistiche. Spesso le insegnanti avevano ascoltato con piacere e crescente entusiasmo le sue fantasie, i suoi racconti che riuscivano ad incantare anche i ragazzi più vivaci. Giulio C. pareva nato apposta per estasiare con la 20 creazione di storie meravigliose, che lui per primo viveva raccontandole. Mara, a sentire ciò, rabbrividiva ricordando il padre Giulio, noto in tutto il paese e dintorni, come un contafole meraviglioso, ricercato in tutte le stalle e casolari delle campagne, perché come sapeva raccontarle lui, le cose parevano vere. Altro che cinema o teatro, che la maggior parte del pubblico non aveva mai neanche visto in fotografia! Quando si spandeva la voce che c’era Giulio, tutti accorrevano, portandosi dietro sgabelli, vino e, nei momenti migliori, pane e salame. E ora avere un figlio che sembrava aver ereditato da un nonno sconosciuto la capacità di tenere in pugno l’attenzione di un vasto uditorio, la gratificava come un dono impensato e magnifico. Così iniziò il suo via vai per frequentare il ginnasio e il liceo classico, sopportando i disagi delle attese dei mezzi pubblici e sfruttando il tempo del viaggio per ripassare le lezioni del giorno. Ottenuta la maturità con un brillantissimo risultato, espresse il desiderio di frequentare l’università, cosa che fu accolta dai genitori con enorme orgoglio ma anche con qualche perplessità di natura economica. Giulio C., però, meritava qualunque sacrificio, anche perché la famiglia avrebbe visto realizzarsi così una grande utopia generazionale: un laureato, il primo laureato in casa Erneti! Con pazienza e parsimonia riuscirono ad amministrare il bilancio familiare: Mara, oltre al lavoro al negozio, si mise a cucire e ricamare per tutto il paese, in modo da aggiungervi di suo qualche banconota. Gli ultimi anni universitari di Giulio C. coincisero con quella che si sarebbe poi chiamata la Rivoluzione del 68, data epocale. Anche Padova fu stravolta da quella ventata parigina e le aule universitarie si trasformarono in dormitori, sale per assemblee autoconvocate, cucine improvvisate. Lezioni, appelli ed esami furono sospesi o annullati. 21 Per Giulio C.,che più proseguiva nei suoi studi, più si appassionava nel desiderio di approfondire le sue conoscenze, i proclami politici, gli slogan dei più scalmanati e il blocco dell’attività didattica erano vissuti come degli ostacoli, di fronte ai quali si sentiva impotente. Soprattutto perché tutto ciò che poteva fargli ritardare la fine degli studi gli pareva un’offesa nei confronti dei genitori che sacrificavano tempo, forze e denaro per permettergli di conquistare il titolo di «dottore in Lettere». Parecchi esami li aveva preparati con un amico e compagno di liceo che abitava in un paese vicino a Mirano. Insieme, rileggendo e traducendo l’epica omerica, si erano appassionati ai grandi eroi, alla loro totale adesione ad un ideale di valore che meritava anche il sacrificio di sé e della propria vita, perché era il prezzo di un’immortalità del nome e della memoria che superava qualunque materiale ed effimera tranquillità umana. Questo per Ettore e Achille era essere uomini: conoscere ed accettare il proprio destino di tragici eroi. E che dire poi delle grandi pagine degli storici, Tucidide, Erodoto, dalle quali balzava viva una civiltà fatta di principi, di diritti, di ordine, diversi, è vero, da quelli che ispiravano le moderne costituzioni, eppure così saldi che avevano creato e mantenuto per secoli una civiltà di cui essere orgogliosi. In poche parole, alla fine degli esami, i due amici si erano ritrovati a sognare davanti alle foto delle acropoli micenee, del Partenone, del patrimonio statuario ellenico, come due innamorati di fronte alle foto dell’amata. Il desiderio di partire verso la Grecia si faceva sempre più intenso e urgente mano a mano che si avvicinava il giorno della discussione della tesi. Con grande forza di volontà nei quattro anni regolamentari, Giulio C. uscì dall’Ateneo patavino con un 110 e lode. La gioia di tutti fu grande ma quella sua raggiunse l’apice, quando si vide consegnare una busta abbastanza appesantita da un cospicuo numero di banconote, regalo di parenti e amici. Era quello che gli ci voleva per realizzare il tour della Grecia. 22 Con una esaltante euforia, insieme all’amico, si diede da fare per organizzare la partenza, gli spostamenti, le tappe. Avrebbe voluto vedere tutto, toccare ogni pietra testimone della Storia, ma si rendeva conto che doveva restare con i piedi per terra. Così scelsero di partire nella maniera più economica, un posto ponte da Venezia a Patrasso, e di affidarsi alla proverbiale ospitalità greca per ottenere passaggi con l’autostop. La traversata dell’Adriatico, secondo la rotta inversa a quella seguita dagli antichi coloni delle metropoli elleniche, gli parve infinita: gli sembrava che la nave gli bruciasse sotto i piedi. Ma finalmente ecco apparire il porto, meta del loro sbarco. L’insieme degli odori che li accolse, una miscela di aromi dolci, forti sentori di nafta e di afrori marittimi, a tutta prima li disorientò, ma una volta entrati in uno dei tanti kafenion e riempito lo stomaco con una mielosa pasta dal sapore antico, diluita in un caffè greco (o turco), si sentirono meglio. Certo la modernità della città marittima non era il genere di benvenuto che avrebbero desiderato, ma a questo erano preparati. Fortunatamente, sia gli automobilisti greci che i turisti si dimostrarono sempre assai disponibili e così poterono spostarsi agevolmente e senza sprecare troppo tempo da Olimpia a Corinto, facendo tutto il periplo del Peloponneso a piccole tappe. Si fermarono ovviamente a Olimpia, Sparta e finalmente poterono salire alla rocca di Micene. Era il tardo pomeriggio quando passarono con timore reverenziale sotto il ciclopico architrave della Porta dei Leoni, appena in tempo prima della chiusura. Un brivido scuoteva Giulio C. mentre calpestava le pietre sulle quali, secondo Omero, aveva regnato Agamennone. «Pensa» diceva rivolto all’amico che sembrava interessato ad ogni sasso, ad ogni buco, «a quando il signore di Micene sarà uscito da qui con i suoi guerrieri, alla volta di Troia. Non ti sembra di udire il rimbombo dei loro calzari su questi lastroni, 23 non vedi il bagliore corrusco delle loro armi?» gli chiedeva quasi trasognato. E come Schlieman rileggeva Omero che, con i suoi incliti versi, aveva reso immortale un mito. «Dai, Giulio,» lo invitava l’amico ripresosi dall’estatica ammirazione, «lo sappiamo bene che questo strato non appartiene all’età dell’Atride!». «Ma cosa importa, se la corrispondenza della poesia con la storia appare così perfetta e totale!», gli rimandava. Superato l’istmo di Corinto, seguendo la strada litoranea,in direzione di Atene, furono accompagnati, per un certo tratto, dalla vista dell’isola di Salamina. Eschilo suggeriva loro le immagini dell’epico scontro navale che vide la distruzione della flotta di Serse. E poi ecco Atene, il faro della civiltà passata e presente, della democrazia, dell’arte. Fu un vero bagno nella storia e nel bello. L’Acropoli, il Museo Nazionale furono scandagliati fin nei più reposti angoli. Solo quando le forze cominciavano a calare, si accorgevano che anche lo stomaco reclamava la sua necessità di essere saziato. Allora partivano alla ricerca di qualche modesto estiatorio dove poter soddisfare la fame con i cibi più economici e nutrienti. La sera, poi, si concedevano di annaffiare la loro parca cena con una bottiglia di retsina che, oltre al pregio di essere economico, era anche tipico e dissetante. Un’altra tappa che li rapì fu il santuario di Delfi. Lo visitarono in religiosa concentrazione e si dichiararono perfettamente d’accordo col cartello all’ingresso della Via Sacra, che invitava i visitatori ad accedere a quell’ascesa con un abbigliamento consono alla natura del luogo. I cipressi che punteggiavano il percorso sembravano aggiungere severità al paesaggio. 24 Non poterono, a quel punto, non deviare verso nord, per andare a rendere omaggio ai trecento spartani di Leonida, caduti alle Termopili, per colpa di un traditore. Purtroppo i giorni erano trascorsi in fretta e il loro budget si stava ormai esaurendo. Così, dopo aver acquistato qualche doveroso souvenir e regalini vari, con la malinconia di chi è costretto a lasciare incompiuta un’impresa, si avviarono verso Patrasso, da dove la stessa nave dell’andata li avrebbe riportati a casa. Quando si imbarcarono, verso il tramonto, e videro allontanarsi la costa greca, sentirono di essere diversi dai ragazzi che erano sbarcati quasi un mese prima: una ricchezza, una saggezza mai prima sperimentata li riempiva e li aveva trasformati in uomini. Il rientro a casa fu festoso ma, nello stesso tempo mise di fronte Giulio C. alla necessità di decidere del suo futuro. La laurea in lettere era senza dubbio un buon punto di partenza. Già negli ultimi tempi, mentre si aggirava per le aule del Liviano, aveva cominciato ad immaginare come utilizzare il suo titolo: forse il suo stesso nome conteneva un destino che lo attirava verso il passato, verso la grandezza di Roma e della classicità. Quale grande soddisfazione sarebbe stata per lui andare alla ricerca di sepolte testimonianze delle radici della cultura italica! Grazie anche all’aiuto dei docenti che lo stimavano, si mise in contatto con gruppi di studi e seminari archeologici, partecipò a campagne di scavi e finalmente ottenne la specializzazione in archeologia. Per qualche anno insegnò lettere in alcuni istituti della provincia di Venezia, finché il rinvenimento, in una piccola necropoli etrusca dell’alto Lazio, di un importante e integro vaso attico con una decorazione inusuale, gli aprì definitivamente le porte della carriera di archeologo. 25 La sua capacità di comunicare in forma divulgativa anche concetti ostici o molto specialistici, gli permisero anche di pubblicare qualche articolo su diverse riviste e periodici, anche non espressamente del settore. Per qualche tempo continuò così una doppia attività di docente e pubblicista, riuscendo anche a scrivere un paio di romanzi, “Il ragazzo della Chimera” e “Le armi dell’oplita”. Dalla carta stampata al teleschermo, poi, fu questione di poco: gli venne affidata, da una emittente locale, una rubrica di carattere storico-turistico che riscosse subito un buon successo. Durante le sue ricerche per preparare articoli e relazioni, gli capitava a volte di incontrare personaggi dell’antichità appartenenti alla vita quotidiana, nomi che non comparivano sui libri di storia e che, proprio per questo, lasciavano ampio spazio a voli fantastici. Anteocle, uno schiavo greco, venduto al mercato degli schiavi di Roma, divenne il protagonista del suo nuovo romanzo “In catene”, come i precedenti, una vicenda che coniugava la Storia, quella vera, documentata e attendibile, con fantasie spesso tinte di giallo che sapevano creare quella suspense e quel pepe che offrivano ad un pubblico vasto e composito il piacere della lettura. Dal punto di vista sentimentale Giulio C. aveva vissuto per lungo tempo in una specie di savana: quasi un deserto, costellato qua e là da qualche relazione, più accettata che voluta. Durante gli anni universitari aveva ricevuto numerose sollecitazioni da parte di compagne di studi che avrebbero desiderato dividere con lui, oltre ai libri, anche momenti di più piacevoli attività. Da qualcuna si era lasciato convincere, con una certa innegabile soddisfazione per entrambi. Non aveva, però, quasi mai preso lui l’iniziativa, anche perché, a onor del vero, non ne aveva bisogno. Di tutte quelle frequentazioni, una gli era rimasta particolarmente impressa: Fabiola. 26 Alta e formosa, non ostentava, a differenza di molte altre, la propria opulenza. I lunghi, lucenti capelli neri erano quasi sempre costretti in una treccia che le ornava la schiena. Anche lei molto intelligente, forse un po’ troppo seriosa, lo aveva dapprima attratto per l’acutezza di alcune osservazioni durante le lezioni di greco. Questo lo aveva spinto ad osservarla con maggior attenzione e, quando si era accorto che lei gli si stava perdendo dietro, aveva gettato l’amo al quale lei aveva subito abboccato. Non era, comunque, stata la loro una storia troppo impegnativa, anche se era durata quasi un anno. Il perché,poi, avessero smesso di incontrarsi era stato un fatto quasi previsto da entrambi, vissuto e accettato consensualmente, senza nessun trauma. Si era sempre assolutamente opposto e aveva altrettanto strenuamente rifiutato avventure goliardiche di gruppo: il sesso per il sesso non lo interessava. Superati ormai da tempo i trent’anni, avviato verso quella che si intravedeva come una brillante carriera, Mara, alla quale non aveva mai presentato nessuna ragazza, cominciava quasi a pensare che, forse, al suo diletto figliolo, la pupilla dei suoi occhi, non interessasse il matrimonio. Poterlo avere sempre tutto per sé, anche se lontano, le appariva una grande fortuna, egoistica, certo, ma la mamma…Certo, ora che era ancora in forze, aveva ancora tanto da dare al figlio, ma quando fosse stata più in là con gli anni, chi si sarebbe preso cura di lui? Ma questi pensieri erano poi presto scacciati. Spesso amiche e vicine di casa, inorgoglite da quella quasi celebrità a porta e uscio, con voce un po’ mielosa le chiedevano: «Ma sto fiolo no se mardielo mai?» «Nol g’ha una tosa?» e Mara, gongolando: «El starà ben cussì, ciò». Giulio C. si sentiva bene davvero a casa sua. La sera, ormai, però, purtroppo raramente, quando poteva fare ritorno tra una giornata in redazione, una negli studi televisivi o settimane in giro per il mondo per motivi di studio o lavoro, gli piaceva, dopo la cena, fermarsi in cucina a parlare soprattutto col padre 27 che, nonostante non avesse compiuto studi elevati, aveva trovato la passione e la voglia di cercare di farsi una cultura, leggendo tutto ciò che poteva. Era stato lui il primo lettore delle opere del figlio e insieme ne avevano anche parlato. A volte, Giulio C. aveva dovuto riconoscere che alcune osservazioni del padre gli avevano fornito spunti interessanti per dare una svolta inaspettata alla vicenda del libro ancora in fieri. Marco era proprio un modello, come padre e come marito. Ad ogni nuovo successo del figlio, tornava a casa con una rosa per la moglie e, porgendogliela, le diceva orgogliosamente: «Grassie, mujer, questo xè anca merito tuo». Al compimento del quarantesimo anno, decise che non poteva più dividersi tra la scuola e le attività di ricerca, studi e divulgazione e lasciò definitivamente l’insegnamento. Pochi anni più tardi, un giorno Giulio C. tornò a casa con una enorme torta e un regale mazzo di fiori. A quella vista i genitori restarono basiti, tutto si aspettavano fuorché la realtà: gli avevano affidato la direzione di una spedizione archeologica in Tunisia. La missione si presentava quanto mai intrigante: riportare alla luce i resti di una antica colonia greca di cui si erano perdute le tracce, ma di cui erano emerse testimonianze lapidee e descrizioni in alcuni codici venuti alla luce qualche anno prima. «E quanto ti starà via?» Si informò subito la madre. «Non posso prevederlo con precisione, ma comunque non certo più di tre mesi. I fondi che abbiamo a disposizione non ci permettono di più. Se le cose si metteranno bene, torneremo il prossimo anno» le rispose abbracciandola Giulio C. La felicità per quell’incarico di prestigio per un attimo fu oscurata agli occhi di Mara: un arcano presentimento? Comunque, a marzo, accompagnato dagli auguri di tutti e sostenuto da un forte, virile abbraccio del padre, Giulio C. partì. 28 Quasi ogni sera chiamava casa. Le solite domande di lui: «State bene?» «Come va?» «Che c’è di nuovo?» e le solite risposte della madre e le reciproche richieste: «Cossa fasstu?» «Cossa te magni?» «No i te darà dei bissi, ah?» e scherzando si salutavano. Era trascorso ormai più di un mese: le ricerche erano lente, appesantite dall’estremità del clima e dalla scarsità di personale, anche se nelle settimane seguenti era previsto l’arrivo di un paio di studentesse da Firenze. Approfittando di una breve pausa nei lavori, Giulio C. si fiondò a casa. Voleva fare una sorpresa ai suoi. Purtroppo, però, la vera sorpresa fu per lui: trovò il padre pallido e smagrito. Cogliendo un momento di intimità con la madre, preoccupato, le chiese cosa avesse. «Ma niente!» minimizzò Mara, girandogli le spalle per scoperchiare la pentola e mescolare il sugo di vongole «Cossa vussto, no l’è più un zovinoto. El g’ha avu’ una bruta influensa». «Ma si sta curando? Cosa dice il dottore?» volle sapere Giulio C. «Ghe vol tempo, l’ha dito» lo tranquillizzò lei. «e adesso tuti a magnar» Al momento di ripartire, il padre lo strinse un po’ più forte e gli chiese: «E allora, il nuovo libro, come procede?» Giulio C. ricordò di avergli accennato, pochi mesi prima, che aveva in mente un romanzo. «Sono un po’ fermo in questo periodo, papà. Capirai, con il lavoro agli scavi, ora ho altro per la testa» gli confessò «Ma non temere, che non appena mi verranno nuove idee, sarà un piacere parlarne con te.» «Non so se sarò ancora in grado di darti qualche buon suggerimento, sai» sospirò Marco, pensando al suo futuro. 29 «Ma certo che potrai farlo, papà!» lo rassicurò lui, pensando che la sua ritrosia fosse dovuta alla sua modestia abituale. «Ciao, papà. Al mio rientro!» «Ciao, Giulio C. e non dimenticar…» «Cosa?» si voltò a chiedergli, già sulla porta. «Non dimenticarti di portarci qualche piccolo reperto come souvenir» scherzò sorridendo il padre. Nelle settimane successive gli appuntamenti telefonici gli riuscirono sempre più angoscianti. La madre gli rispondeva in modo sempre più sforzato e spesso infilava qualche frase in italiano. Questo era per lui un segnale molto negativo: sapeva bene, infatti, che Mara ricorreva alla lingua ufficiale solo in occasione di particolari stati emotivi. Non potendo più sopportare la lontananza da una situazione che sentiva stare precipitando, si prese un permesso e volò a casa. Appena entrato, si sentì svuotare di ogni energia: nella sala, nel corridoio, ovunque aleggiava un acuto odore di farmaci, disinfettante, agonia. Salì le scale mentre il cuore gli tambureggiava nelle tempie. Stava per aprire la porta della camera del padre quando, nello stesso istante, come per un arcano appuntamento, ne uscì la madre che fu appena in grado di spingerlo per farlo arretrare, mentre piangendo gli si aggrappò al collo. «È finita, Giulio mio, ormai è questione di ore». L’uso del primo solamente dei suoi nomi lo rese ancor più certo della tragedia: mai, infatti la madre lo aveva chiamato così. «Ma come, mamma, perché?» singhiozzò affondando il capo nella spalla di lei. «Non voleva farti preoccupare, ma il papà era già malato quando sei partito. Non ha voluto che ti dicessi niente…» «Ma se non fossi arrivato ora, per puro caso, sarei addirittura arrivato troppo tardi. Perché… perché bisogna 30 sempre pagare tutto ciò che di bello si ottiene?» domandava più a se stesso che a lei. «Fatti forza, Giulio. Vai a salutarlo. Forse può ancora riconoscerti.» Con gli occhi arrossati, ma asciutti, entrò con timore: aveva paura di vedere la morte sul volto del padre, di non riconoscere più in lui quei forti lineamenti che sapevano addolcirsi al solo vederlo. Quasi trattenendo il respiro, si avvicinò al letto. Il padre aveva gli occhi socchiusi ma, chissà se per effetto dei farmaci o per il cosiddetto bene della morte, appariva solo smagrito ma sereno. Anche il colorito non era terreo e ciò diede la forza a Giulio C. di sedere sul bordo del letto. A quella lieve pressione, Marco spalancò gli occhi e un sorriso di una dolcezza nuova gli si stese sul volto. «Che bello vederti, Giulio C.! Sai, stavo proprio venendoti a cercare.» «Sono qui, papà, con te. Coraggio, ti darò io la forza di andare avanti. Ricordati che ho ancora bisogno di te per il mio libro.» gli sussurrò afferrandogli le mani che lasciavano ormai trasparire le ossa. «Come lo intitolerai?» si informò. «Non saprei, non ho ancora ben definito la storia» rispose, vagando con lo sguardo sul cassettone dal quale lo osservavano i nonni dalle loro cornici. «Sai, mi piacerebbe se si potesse intitolare “Passaggi”» terminò con un soffio appena udibile. «Tutta la vita in fondo non è altro che questo… Una serie di passaggi, fino all’ultimo, il più impegnativo». «Perché no? Ci può stare proprio bene. Grazie, papà. Come al solito mi hai dato un buon suggerimento.» Giulio C. sentì che il respiro del padre si andava facendo sempre più flebile e vide i suoi occhi chiudersi, mentre le sue mani, con un ultimo sforzo, cercavano quelle del figlio. 31 Gliele strinse, quasi a volergli trasfondere la propria energia, ma poco dopo avvertì l’anima del padre abbandonarlo in un lungo, esile sospiro. E fu il silenzio. Immobile, Giulio C. rimase a contemplare quel corpo ormai vuoto, fu attraversato da una vertigine profonda e fulminea. Con uno scatto di impotente ira e dolore, scaraventò a terra tutti i medicinali che avevano accompagnato, dal ripiano del comodino, l’agonia del padre. Quando Mara udì le fiale e i flaconi andare in frantumi, si precipitò nella stanza. Madre e figlio si abbracciarono in silenzio e uscirono, come a non voler turbare col loro dolore la pace raggiunta da Marco. Dopo i funerali, Giulio C. pensò che doveva dare alla madre un motivo per attaccarsi alla vita, dopo una perdita tanto tremenda. Sapendo quanto Mara amasse essere partecipe dei suoi progetti, quanto ogni suo desiderio fosse per lei una necessità, la coinvolse nella realizzazione di un bisogno che da un po’, per lui era diventato sempre più pressante. Ormai si era reso conto che aveva bisogno di una casa più grande, semplice ma confortevole, che gli consentisse di ritrovare intatta la serenità della famiglia, degli amici, del paese, ma che, allo stesso tempo, potesse ospitare la sua già ricca biblioteca e quegli oggetti di antiquariato che con passione andava raccogliendo. Aveva bisogno di uno studio con le tecnologie utili al suo lavoro, computer, proiettori, registratori. Fu così che si mise alla ricerca del “pezzo giusto”: non voleva una casa da costruire dal nulla, ma qualcosa di vissuto, da restaurare e ristrutturare secondo le sue esigenze. Anche gli amici gli diedero una mano e così in breve, grazie anche ad un colpo di fortuna, poté trovare una tipica vecchia casona veneta, di cui i giovani eredi volevano disfarsi. Aveva anche il grande vantaggio di essere a poca distanza dalla sua e spesso, quando era bambino, vi era passato davanti. Anzi, gli pareva di ricordare di esserci anche andato a giocare con qualche piccolo coetaneo, ai tempi dei primi anni di scuola. 32 Forse fu anche per questi pur annebbiati ricordi che la casa gli apparve subito familiare. La madre accolse la notizia di questa importante novità con trepidazione: lasciare l’abitazione in cui aveva vissuto praticamente tutti suoi anni di sposa e madre e dove era morto il marito tanto amato? Giulio C. comprese la perplessità e il sentimento della madre. «Non temere» le disse sorridendo «questa casa non la venderemo mai. Anzi, non appena sarà pronta quella nuova e potremo andarci ad abitare, questa la faremo sistemare. Non per buttarla all’aria, ci faremo solo quei lavori necessari per renderla più sicura e funzionale. Mi farà piacere sapere che tu sarai qui a custodirla e ad accogliermi tutte le volte potrò tornare» finì abbracciandola. «Ti va sempre più lontan, fio mio! Chissà quanto tempo che sarò mi sola» gli rispose, mentre con le mani gli sistemava il colletto della camicia stropicciato sotto il sottile gilet. Proprio queste parole già timidamente addolcite dal dialetto familiare gli fecero capire che il dolore della madre si stava acquietando in una rassegnazione consapevole. Così trovò la forza di ripartire verso la Tunisia. Erano trascorse solo poco settimane dalla sua partenza, ma grazie alla solerzia di alcuni specializzandi e al più esperto giovane archeologo cui aveva affidato la sorveglianza dei lavori, trovò che la ricerca era progredita con successo. Era venuto alla luce una parte del basolato di una via, accanto alla quale si erano riportate alla luce anche le fondazioni di una abitazione. Quando alla sera del suo arrivo si riunirono tutti per fare il punto della situazione, tra gli studenti si alzò una ragazza. Era giovanissima, alle sue prime esperienze sul campo, ma, consapevole della sua bellezza e del suo fascino, frutto dell’unione di un francese con una tunisina, parlò sicura di sé. 33 «Professore» cominciò arrotando la erre come una carezza, «mi chiamo Charlotte Drouet e a nome di tutti i miei compagni vorrei porgerle le nostre condoglianze e farle capire che le siamo vicini.» Mentre la ragazza parlava, Giulio C. la osservava e si chiedeva come mai era stato così cieco da non averla notata prima. Il velluto nero degli occhi brillava sulla carnagione ambrata, perfetta, come di raso. Aveva una nobiltà nel portamento che la faceva subito distinguere in mezzo al gruppo di giovani studenti. Giulio C. si accorse che la stava fissando un po’ troppo insistentemente, per cui, chinando leggermente il capo sui fogli che aveva davanti sul tavolo, cercò di dissimulare il lieve imbarazzo. «Grazie, grazie Charlotte e grazie a voi tutti, ragazzi» tagliò corto, mascherando solo in parte una profonda commozione. I giorni che seguirono furono intensi: lo scavo procedeva alacremente e i reperti catalogati cominciavano già a riempire alcune casse. Forse anche proprio per la concentrazione nel lavoro, non si rese conto che il tempo passava e si avvicinavano al giorno in cui avrebbero dovuto chiudere il cantiere, in attesa di riaprirlo, se tutto andava bene, l’anno dopo. Un po’ per questo e un po’ per festeggiare il compleanno di uno degli studenti, la sera accesero un falò e si rilassarono con grigliate di pesce e bottiglie di vino, che ciascuno si era portato da casa, temendo di non trovare alcolici nella musulmana terra della loro missione. Quasi per caso, Charlotte si trovò accanto a lui davanti all’improvvisata tavola imbandita. L’odore del pesce cucinato non riusciva a sconfiggere il profumo che emanava dai suoi capelli e dal suo corpo. Era un’essenza sottile ma intensa che parlava una lingua sensuale e arcana. Pareva fatta apposta per turbare la fantasia con visioni d’oriente. 34 Giulio C. se ne colmò i sensi e, nel riempirle galantemente il piatto, le chiese: «Di dove sei?» Charlotte, illuminandolo col suo sguardo dritto negli occhi: «Sono nata a Tunisi», modulò con la musicalità del suo parlare «ma ho studiato in Francia. Sono venuta in Italia con un progetto di scambi culturali e mi sono innamorata.» «Di un fortunato mortale così caro a Venere?» cercò di scherzare «Oh! No» Si difese lei «del suo paese, delle sue bellezze, della sua arte. Lei è fortunato ad essere nato in mezzo a tante ricchezze per gli occhi!» Rispose con aria vagamente sognante. «Non mi starai dando del lei, spero» la rimproverò versandole un bicchiere di un bianco perlato «è vero che ho qualche anno più di te, ma per favore non farmelo pesare con la tua cortese formalità» la invitò, accennando ad un brindisi. «Grazie per la cordialità» gli rimandò lei toccando con il proprio il suo bicchiere, che, però, la plastica non fece tintinnare. Durante il resto della serata lui non fece che osservarla, quando era distante, per capire se avesse qualche simpatia tra gli altri componenti della squadra. Con grande piacere notò che distribuiva uniformemente sorrisi e parole un po’ a tutti, indifferentemente. Questo gli permise, qualche giorno dopo, di avvicinarla in un momento di pausa. Stranamente gli venne naturale trattarla con grande simpatia e le numerose domande personali che le rivolse non sembrarono certo un interrogatorio. Anche a lei, del resto, sembrava fare molto piacere rispondere. Non risparmiò parole e informazioni e gli descrisse la sua vita a Firenze, dove si era trasferita sia per ragioni di studio che per scelta, in quanto conquistata da quello scrigno di tesori d’arte. «Ti andrebbe di fare un bagno?» le propose improvvisamente, aspettandosi speranzoso un si. 35 «Grazie, molto volentieri.» Fu la sua risposta entusiastica. Mentre si avvicinavano alla foresteria, gli confidò di essere già stata in quella zona, diversi anni prima, perché la madre era originaria proprio di quella regione. Indossati i costumi, presi i teli di spugna, percorsero lo stretto sentiero che arrivava al mare. La calura dell’ora era alleviata da una sottile brezza. La sferzata di un’onda improvvisa li colse di sorpresa e li spinse più vicini. Fu così naturale prendersi per mano per non cadere, che si guardarono in viso stupiti e furono subito uno nelle braccia dell’altro. Quel primo bacio per Giulio C. fu come l’ingresso in un mondo nuovo e misterioso e volle più e più volte sperimentare quel passaggio, ogni volta con emozioni più intense. Charlotte assecondava con naturalezza i movimenti del mare, accarezzando con tutto il proprio corpo quello di lui. Il bagno fu dimenticato e, restando così allacciati, ritornarono sulla riva. L’urgenza dell’amore gli fece dimenticare la prudenza: crollati sui teli di spugna, si amarono con ardore e con una sintonia che aveva del divino. Giunti al culmine dell’ebbrezza, con un gemito profondo, Giulio C. si abbandonò dolcemente sul corpo meraviglioso e sudato di Charlotte. Rimasero in silenzio, finché il respiro di entrambi si fece più regolare e i sensi appagati diffondevano nel loro corpo una piacevole serenità. Quando si guardarono di nuovo, lei gli sussurrò: «Grazie, Giulio. È stato bellissimo.» «Per me di più» le rispose ancora trasognato. Ad un tratto si resero conto che dovevano tornare dagli altri. A nessuno dell’equipe sfuggirono il loro diverso modo di guardarsi, le molteplici occasioni cercate per stare soli. Nessuno, però, pensava ad intromettersi con domande imbarazzanti e si limitavano a qualche benevolo e sornione sorriso. Gli unici che non si sentivano per nulla imbarazzati 36 erano loro due, felici di condividere amore e quegli ultimi giorni di lavoro. Una sera Giulio C. ricevette la visita di un vecchio amico, compagno di liceo, che era diventato un quotatissimo architetto. A lui, Marcello, aveva affidato il compito di preparare alcuni progetti per restaurare la casa che aveva acquistata. Poiché Marcello era venuto in vacanza in Tunisia, si erano messi d’accordo per vedersi e parlare dei lavori. Quando i due amici si incontrarono, si salutarono con grande affetto e subito Giulio C. si informò: «Dimmi, hai visto mia madre di recente?» «Si, proprio tre giorni fa» lo rassicurò l’architetto «e mi ha detto di abbracciarti per lei, di ricordarti che ti aspetta con ansia. Sta bene, Giulio (tutti gli amici lo chiamavano così). È una donna forte e intelligente». «Grazie, Marcello. Ormai qui stiamo per chiudere e potrò stare un po’ a casa con lei» gli confidò. «Disturbo?» chiese quasi timidamente Charlotte, sedendosi accanto a loro. «Ma ti pare!» la accolse Giulio C. alzandosi premurosamente. «Permetti, questo è Marcello, un mio vecchio compagno di liceo. È qui vicino in vacanza e così è venuto a trovarmi. Lei è Charlotte» la presentò, mentre con un bacio le sfiorava una guancia. Dopo le doverose e formali strette di mano, i due amici ripresero a parlare, guardando i lucidi che Marcello aveva nel frattempo steso sul tavolo. «Questa se vuoi potrà essere la nostra casa» sussurrò Giulio C. all’orecchio della ragazza che lo guardò un po’ sorpresa. «Per favore, Marcello» gli disse quando rimasero di nuovo soli «se per caso vedi mia madre prima di me, non dirle di Charlotte. Voglio essere io a darle la notizia che ho trovato la donna della mia vita.» 37 «Figurati, non mi permetterei mai di essere latore di una simile novità!» Lo tranquillizzò con aria divertita e complice. Gli ultimi giorni al cantiere degli scavi l’attività fu frenetica: bisognava relazionare gli ultimi ritrovamenti, proteggere le unità stratigrafiche già passate in rassegna, chiudere tutto in attesa della ripresa dei lavori l’anno successivo. Al momento della partenza, Charlotte e Giulio C. si separarono sapendo che per qualche tempo non si sarebbero potuti rivedere: lei doveva tornare a Firenze per concludere gli studi e conseguire la specializzazione e lui doveva tornare a casa per riprendere a lavorare al libro che in quei mesi gli era cresciuto dentro. Quando a maggio Mara lo poté riabbracciare, quasi non si staccava più da lui: «Come ti xè diventato moro, fio» fu il suo spontaneo benvenuto, colpita dalla evidente abbronzatura. Una delle prime cose che fece fu recarsi a vedere come procedevano i lavori nella nuova casa: ora aveva un motivo in più per avere fretta. Il collegamento telefonico con Firenze era quotidiano. Tra un’affettuosità e l’altra, chiedeva a Charlotte come trascorreva le sue giornate e continuamente la invitava a raggiungerlo per un fine settimana. In quel mese aveva lavorato molto al romanzo e così arrivò anche il momento in cui chiuse il file con la dedica del libro “Alla memoria di mio padre”. Fu così che rivisse in una successione di nitidissimi flashback tutti i momenti più incisivi dei suoi rapporti col padre: le ansie, le gioie e i successi condivisi fino a quando aveva raccolto il suo ultimo respiro. Solo allora si rilassò sulla sedia ergonomica e, con una punta di rimpianto, pensò a quanto gli sarebbe piaciuto presentargli Charlotte che, ne era certo, lo avrebbe conquistato con il suo fascino. No, non poteva più aspettare, doveva rivederla, aveva un disperato bisogno di lei. Una volta consegnate le bozze all’editore, si mise al volante della sua potente e grintosa Alfa, deciso a raggiungere Firenze. 38 Solo quando fu in un’area di servizio alle porte di Prato, mentre si concedeva un caffè, compose il suo numero. Gli rispose una voce maschile che, alla sua richiesta di parlare con la ragazza, gli disse che non era in casa. «Quando torna, per favore?» insistette Giulio C. «Dovrebbe tornare tra un’ora. Chi debbo dire che la cerca?» rimandò lo sconosciuto. «Sono un amico di passaggio a Firenze. Le dica di aspettare…» pausa. Non sapeva se doveva preannunciarsi o farle una sorpresa. Ma perché e cosa, poi, doveva temere? «Le dica di aspettare Giulio» concluse riagganciando. In poco più di un’ora era sotto la sua casa: era un antico palazzo, un po’ cadente, ma in pieno centro storico, via dello Studio, a mezzo minuto dalla celebre cupola del Brunelleschi. Anche se la città, con tutti i suoi capolavori, lo aveva sempre estasiato, questa volta non aveva altro in mente che riabbracciare Charlotte. Quando dal citofono sentì la sua voce, temette di non riuscire ad arrampicarsi per le ripide scale di pietra serena fino all’ultimo piano, dove lei lo spettava. Fu un incontro pieno di passione, di tenerezza, di tutto. «Chi era il tuo ospite che ha risposto al telefono?» le chiese, poi, cercando di dissimulare una urgente curiosità. «Chi? Dario?» gli rispose, mentre in bagno si spazzolava i lunghi capelli neri. «È un mio compagno di studi. Abbiamo preparato diversi esami insieme. Non è di Firenze e, quando viene qua, a volte passa a salutarmi o, se ha bisogno di fermarsi, sa che può farlo.» Voltandosi verso la porta, guardando Giulio C. dritto negli occhi, aggiunse: «Perché, saresti forse geloso?» Vistosi ormai scoperto, ammise: «Come potrei non esserlo, dato che ha quasi vent’anni meno di me e a quanto pare, qui, è più di casa lui?» 39 Con un sorriso lei lo abbracciò: «Sciocco! Se tra tanti ragazzi che conosco e ho conosciuto, ho scelto te, che non sei più un ragazzo, vorrà pur dire qualcosa, no?» «Lo spero» mormorò, attirandola ancora più vicino a sé e baciandola. Furono due giornate assolutamente irripetibili quelle che trascorsero: alternavano momenti di affettuosa e passionale intimità alle normali situazioni di vita quotidiana di una coppia qualunque. Trovarono anche il tempo di visitare a Palazzo Strozzi una grande mostra dal titolo “Rinascimento nascosto.” Quando il mattino del terzo giorno si salutarono, Giulio C. la invitò nuovamente da lui. «Non ho ancora parlato di te a mia madre» le confidò «ma vorrei farlo quanto prima e vorrei che tu la conoscessi. Sarebbe felicissima di sapere che ora c’è qualcuno accanto a me.» «Appena finita la specializzazione correrò da te» promise. Al ritorno divorò l’autostrada che, stranamente, non presentò ostacoli né un traffico eccessivo. Anche per questo, poté ascoltare alcuni brani dei suoi autori preferiti: Beethoven, Mozart, Bach. Sulle onde sonore di quelle armonie, cercava intanto di pensare a come introdurre il discorso “Charlotte” con la madre. Si rendeva conto che doveva essere cauto per non farla sentire abbandonata, doveva cercare di coinvolgerla emotivamente, renderla partecipe del suo nuovo amore. L’occasione, come spesso succede, si presentò da sola, insperatamente. Una sera a cena, fu proprio Mara a iniziare un discorso che gli diede lo spunto per la grande rivelazione. «Sasstu che el fio de la veronica se marida tra un mese?» gli comunicò «Ma dai» si stupì Giulio C. «se pareva che non lo volesse nessuna» 40 «E invece…» continuò subito come se stesse parlando tra sé «però xè belo saver che el gà qualcuno che se prenederà cura de lù quando ela no ghe sarà più» «Ma cosa vai a pensare, mamma» cercò di distrarla «E no, ciò. ghe penso anca mì, sasstu» Giulio C. si alzò da tavola e le andò vicino, prendendole le mani. Le raccontò, rivivendolo con nostalgia, l’incontro con Charlotte, la loro storia, il suo desiderio di sposarla e portarla a vivere con lui nella casa che stava facendo sistemare e nella quale voleva ricavare un appartamento per lei, per averla sempre vicina. Mara si commosse e non sapeva se essere felice della felicità del figlio o temere questa donna ancora sconosciuta. Combattuta tra vari sentimenti, non poté, però, far a meno di sperare che questa ragazza diventasse per lei la figlia che non aveva avuto. Poco dopo, all’inizio dell’autunno, cominciò il battage pubblicitario per lanciare l’ultimo romanzo, che, ovviamente, aveva intitolato “Passaggi”. Furono tempi un po’ frenetici di viaggi da una grande città all’altra. Spesso Charlotte lo chiamava la sera per dargli la buona notte e lui le raccontava dei suoi impegni per seguire il suo “ultimo nato”. Ovviamente, una delle prime tappe fu una grande libreria di Venezia. In città, naturalmente, il suo nome era particolarmente noto, sia a livello professionale sia perché molti erano gli amici, i compagni di scuola. Così quel pomeriggio la sala era stipata di giovani e meno giovani. Il critico che lo introdusse e gli lasciò quasi subito la parola, non si dimenticò di avvisare il pubblico che, al termine dell’incontro, l’autore avrebbe autografato il romanzo a quanti lo avessero desiderato. Dopo che ebbe esposto per sommi capi quali erano state le sue fonti principali, quale grande importanza avessero avuto i rapporti tra la Grecia, sia metropolitana, che coloniaria, e gli 41 etruschi nella formazione del substrato culturale da cui si sarebbe acceso il grande sole di Roma, dopo che ebbe spiegato perché un personaggio apparentemente poco importante come lo schiavo del mercante, aveva poi finito col prendergli la mano e crescere fino a diventare coprotagonista, si dichiarò pronto a rispondere alle domande dell’uditorio. All’inizio non dovette far altro che ringraziare i numerosi intervenuti che si complimentavano con lui per il riuscito connubio di miti, realtà storica e una fantasia storicamente plausibile. «Dopo i complimenti d’obbligo, dottor Erneti» intervenne un’anziana ed elegante signora «le sarei grata se volesse approfondire, nei limiti del possibile, l’ipotesi che il protagonista dell’epica greca, Ulisse, e quello dell’epica romana, Enea, si siano incontrati, proprio nell’Etruria.» «La ringrazio per questa intrigante domanda.» rispose, dopo essersi schiarito la voce e mentre con lo sguardo percorreva distrattamente i visi che tanto attentamente lo osservavano nelle prime file «Certo, come lei ben capisce, non è possibile andare veramente a fondo ad una questione che ci richiederebbe ben più del tempo a nostra disposizione. Tuttavia, per essere sintetici ma nello stesso tempo chiari, bisogna dire…» e continuò accennando ai numerosi testi nei quali questa tradizione appariva. Un lungo applauso salutò la conclusione dell’incontro. Poi, piano piano, la gente cominciò ad uscire, commentando quanto aveva appena ascoltato, a sfilare davanti al tavolo degli oratori con le doverose, brave copie del libro, pronte per essere firmate dall’autore. Questa, ormai, per Giulio C. era diventata una routine: chiedeva il nome della persona che gli porgeva il romanzo e, quasi senza alzare il capo, lo scriveva velocemente sopra la sua firma che si faceva via via meno leggibile, con l’aumentare delle copie siglate. 42 «A chi lo dedico?» chiese, ormai un po’ stanco mentre, per guadagnare tempo, già apponeva a metà pagina la sua firma. «A Charlotte». Alzò gli occhi e lei era lì, a venti centimetri dal suo viso. Rimase con la penna in mano a mezz’aria, mentre lei scoppiava in una risata liberatoria per entrambi. Ovviamente, anziché una dedica, le diede un bacio e, visto che ormai la sala era vuota, se ne poterono andare indisturbati. Declinò con una scusa, forse non troppo credibile, un invito a cena da parte dei proprietari della libreria e con Charlotte sottobraccio si avviò felice verso Piazzale Roma. Col favore delle tenebre e dei vetri appannati della vettura, poterono, almeno in parte, dare libero sfogo al loro amore. «Vieni, andiamo a casa» annunciò con decisione, mentre avviava il motore. «Non sai da quanto tempo desideravo presentarti a mia madre. Sei la prima ragazza che vede con me» le disse sorridendole, mentre si voltava un attimo a guardarla «e credo sarai anche l’ultima. Mi sono sempre ripromesso di fare entrare in casa mia solo quella che poi ci sarebbe stata come mia moglie.» «Devo considerarla una richiesta di matrimonio?» lo interrogò: «E se io avessi qualche remora?» insinuò, accarezzandogli la nuca. «Aspetta che mi possa fermare da qualche parte e poi le remore te le faccio passare io, sciocca ragazza.» La minacciò ridendo. «Si, dammi pure della sciocca, ma non credi che dovremmo prima affrontare seriamente tra noi il discorso “matrimonio”?»rispose lei con voce ferma e dalla quale era sparita ogni intonazione sarcastica. Giulio C. portò l’auto giù di strada in una piazzola di sosta, spense il motore e, serio in volto, si girò verso di lei. «Credevo di averti fatto capire che tu per me sei una scelta definitiva, che ti amo senza riserve e che…» 43 «Si, Giulio,» lo interruppe lei «ma io non sto esprimendoti dei dubbi sul fatto di sposarci. Anch’io ti amo, lo sai. Ma non abbiamo mai parlato tra noi di come la pensiamo su tante cose importanti, su tante scelte di vita, che ne so, come la pensiamo riguardo la spiritualità, la religione, per esempio. Tu sei cattolico, immagino?» «Se per cattolico intendi battezzato, si; ma quanto ad esserlo veramente, a praticare la chiesa, i sacramenti ecc, direi proprio di no». E nel fare questa professione di acattolicità non poté non avere un flash di Mara che gli aveva sempre raccontato di come per lei don Romano fosse sempre stato, invece, la certezza, la fede senza dubbi, sincera e ingenua ma proprio per questo assoluta. «Non mi definisco ateo, ma certo non riesco a dare un’etichetta alle mie convinzioni religiose. E tu?» le chiese con una certa ansia. «Beh, lo sai, io sono un incrocio: mio padre era francese e quindi cattolico, ma anche lui molto poco praticante. Mia madre, invece, era musulmana e mi ha trasmesso una sostanziale fede nell’islam. È lì che stanno e sento le mie radici, molti dei miei amici sono rigidamente osservanti» Charlotte aveva parlato con una foga e una convinzione che avevano incupito anche la naturale leggerezza della sua pronuncia, quel modo di accarezzare le parole che a Giulio C. tanto piaceva. «Ho capito» rispose «ma non vedo qual è il problema» chiese deciso. «Se anche tua madre ha sposato uno straniero, non puoi considerare la nostra storia la prosecuzione di una tradizione familiare?», le fece osservare prendendole le mani. Charlotte ebbe un leggero rapido sussulto, prima di rispondere: «Non so, non mi pare così facile, Giulio.» «Cosa vorresti, che mi facessi musulmano? È questo che mi chiedi, come una specie di prova d’amore?» 44 Solo in quel momento Giulio C. si rese conto di non avere mai neppure lontanamente pensato che l’appartenere a due sistemi monoteistici diversi potesse creare una barriera tra loro. «No, non posso e non voglio farti sentire obbligato a qualcosa, solo perché te lo chiedo io, questo poi, no, sembrerebbe un ricatto.» rispose addolcendo il tono della voce. «E allora?» insistette lui. «Potremmo continuare a vederci, a stare insieme, senza un vincolo religioso che parrebbe privilegiare uno solo di noi. Questo potremmo sempre celebrarlo se e quando le idee ci si chiariranno.» concluse Charlotte. «Scusa, ma non capisco: cosa vuoi dire con “chiarirci le idee”? Mi pare che dei due, l’unico che non ha un ideale, una fede sicura, sono io, pertanto mi sembra da escludere la possibilità che sia tu a convertirti. Quindi la decisione spetta a me, come vedi.» Obiettò con una certa asprezza. «Ma perché? Ti ho detto che io non voglio assolutamente ricattarti. D’altronde, cosa cambia se ci vediamo senza sposarci?» Lo sollecitò. Giulio C. non rispose subito: rifletteva che anche a lui non pareva fondamentale l’esistenza di un vincolo religioso, che il loro amore bastava a se stesso, eppure cercava qualcosa che fosse come un’ancora alla quale aggrapparsi, una data da ricordare e celebrare. Il tempo passava insieme alle auto che sfrecciavano accanto a loro, condotte da qualcuno che certamente non stava disquisendo sui massimi sistemi, da persone forse solo frettolosamente dirette verso una tavola apparecchiata. Alla fine propose: «E che ne diresti di un rito civile? Il matrimonio in comune, così ci sarebbe solo una legge laica a unirci…» «Si», lo interruppe con determinazione «mi sembra una buona idea, una decisione salomonica, però ti prego, Giulio, non affrettiamo le cose. Prendiamoci qualche mese. Va bene?» 45 «Naturalmente. Vediamo anche come si mettono i nostri impegni di lavoro. Comunque, diciamo non più di cinque o sei mesi. Ok?» finì col chiederle. «Aggiudicato» accettò Charlotte e volle siglare quella specie di contratto con un lungo bacio. Quando ripartirono, Giulio C. si sentiva più forte, più sicuro: ora sapeva che quello che desiderava si sarebbe realizzato. Arrivato a casa, pregò Charlotte di attendere un attimo: voleva annunciare da solo l’arrivo di lei alla madre. Mentre Mara col figlio dalla porta di casa stava per avviarsi verso la macchina, Charlotte ne discese e le andò incontro col suo miglior sorriso stampato sul volto. «Buonasera, scusi per l’improvvisata» cominciò tendendole entrambe le mani, «ma Giulio non ha voluto avvertirla per telefono…». «Cara, vien, vien dentro. fate vardar» rispose Mara con la voce incrinata per l’emozione. Entrati nel salotto, Mara prese le mani di entrambi nelle sue: «Che siate felici, banadeti.» augurò mentre le parole si accompagnavano a due luccicanti lacrimoni. «Che ve amiate come se semo amà mì e so pare» concluse, rivolta a Charlotte, asciugandosi il viso con il dorso della mano. «E po’ basta co’stì piagnistei. bisogna far festa, fioi!». «Più che di festa, avremmo bisogno di cenare» intervenne Giulio C., stemperando così le rispettive emozioni. «Bon, vedemo cossa ghe xè in fresco» rispose Mara pronta, mentre con decisione si avviava verso la cucina. Lui sapeva che in casa sua, anche quando l’economia familiare era stata ai minimi termini, a qualunque ora si poteva essere sicuri che qualcosa da mangiare c’era sempre. Mara era eccezionale per riuscire a creare, a improvvisare un piatto per sfamare anche un ospite improvviso. 46 La cena fu allegra: Mara chiese tante notizie a Charlotte e non finiva più di meravigliarsi di come una ragazza così “esotica” (forse era la prima volta nella sua vita che usava quella parola) avesse scelto proprio suo figlio A Charlotte piaceva raccontare le storie che la madre le raccontava, quando era bambina, del piacere che le dava frequentare la scuola, a quella donna così spontanea e di animo forte e nobile. Prima di andare a dormire alle due donne pareva di conoscersi da sempre. Giulio C. aveva avuto qualche titubanza su come far accettare alla madre che avrebbero dormito insieme, che avrebbero utilizzato il divano letto del salotto, ma ancora una volta Mara lo sorprese col suo spirito pratico: perché dover fare un tale spostamento, non era più semplice se loro avessero dormito nel suo letto matrimoniale? A lei la camera del figlio sarebbe stata più che sufficiente. Bastava solo un momento per cambiare le lenzuola. Così per la prima volta in vita sua Giulio C. dormì nel letto dei genitori accanto alla donna che gli aveva riempito il cuore, i desideri e, sperava, la vita. Anche Charlotte avvertì l’emozione nuova con cui lui l’amò quella notte e seppe condividerla con una tenerezza tanto intensa da condurla da un orgasmo dolce e prolungato. Il mattino li trovò ancora abbracciati e colmi di stupore. Dopo una sostanziosa colazione già predisposta dall’efficienza di Mara, Giulio C. la accompagnò a visitare il cantiere della nuova casa. Constatò con piacere che Marcello aveva saputo interpretare fedelmente i suoi suggerimenti e le sue necessità. Charlotte si guardava intorno e si affacciava ad ogni finestra per ammirare il paesaggio così placido e così diverso da quelli cui era abituata. 47 «Allora, cosa ne dici?» le chiese ansioso di conoscere le sue impressioni. «Ti piacerà vivere qui?» «Con te, dovunque, Giulio» e gli si strinse addosso. Ovviamente nei pochi giorni trascorsi in paese, anche se tra un’escursione e l’altra nei dintorni che Giulio C. più amava, a vicini e conoscenti non sfuggì la grande notizia: il celebre concittadino aveva finalmente trovato una compagna e che compagna! Dopo quella breve pausa di relax, gli impegni di lavoro di entrambi li allontanarono di nuovo: lui ancora in giro per promuovere il romanzo, lei per cercare di mettere a fuoco i diversi progetti che era andata maturando in quegli ultimi mesi. Purtroppo, sapeva che il suo stage in Tunisia era terminato e quindi cercava altre opportunità. Sull’onda del successo di “Passaggi”, alcune testate giornalistiche si erano fatte avanti per proporre all’archeologo una collaborazione fissa come antichista, affidandogli una rubrica su settimanali di cultura e approfondimento artistico. Giulio C. valutava con attenzione tutte queste offerte, sapendo che gli sarebbero valse come titoli in caso avesse deciso, in un futuro più o meno prossimo, di ottenere un incarico all’università. Nel frattempo si doveva preparare a riprendere i lavori proprio in Tunisia, per dove a marzo sarebbe ripartito. Intanto cercava di affrettare i lavori perché la casa fosse pronta prima della successiva estate. Anche se inframmezzate da separazioni, i mesi invernali li videro scambiarsi visite e soggiorni, ora a Firenze, ora a Mirano. Le feste di fine anno furono quasi un tour de force per accettare i tanti inviti degli amici dell’uno e dell’altra, che non vedevano l’ora di conoscere il nuovo partner. Il libro di Giulio C. era diventato uno dei best seller in occasione delle feste natalizie e questo gli riusciva quanto mai 48 gradito, non solo per il fattore economico, ma anche sotto l’aspetto affettivo, perché lo aveva scritto e vissuto come un omaggio a suo padre. Charlotte aveva ottenuto anche un incarico come coordinatrice di un gruppo di giovani che effettuavano interventi didattici all’interno di musei, in collaborazione con alcuni istituti scolastici. Era un’attività che le piaceva, perché le permetteva di trasmettere ai ragazzi, non poi di tanto più giovani di lei, la sua passione per la ricerca storica e archeologica. Quando salutò Giulio C. in partenza per la Tunisia, le dispiacque un po’ dover restare, ma cercò di consolarsi pensando che l’intermittenza dei loro incontri non faceva altro che aumentare il reciproco desiderio. Approfittando delle vacanze pasquali, Charlotte volò da lui. «Non potevo lasciarmi sfuggire un’occasione così: tornare sul luogo del nostro incontro.» gli confidò al suo arrivo. «Io, invece, penso che tu sia venuta per verificare che non ci sia qualche nuova studentessa decisa a sedurmi.» La canzonò lui. «E chissà, potrebbe anche essere: il bell’archeologo, con il fascino dell’uomo vissuto che traspare da qualche filo bianco nei capelli può sempre far presa su un’anima sognante» stette allo scherzo. Chiusa dopo pochi giorni la parentesi sentimentale, Giulio C. riprese i lavori con maggior accanimento. Sentiva di essere vicino ad una scoperta decisiva per la definizione del sito della città perduta: non faceva che rileggere, meditare e confrontare le varie testimonianze e scavare con sempre maggior foga. Era un’attività che lo assorbiva quasi totalmente, ma alcuni reperti recanti iscrizioni col nome del donatore stuzzicavano anche la sua fantasia narrativa. Così nelle ore più calde, quando il lavoro si fermava, lui, invece, cominciava a creare delle storie: immaginava e delineava fisicamente e psicologicamente un 49 Pelagio e una Aglaia, cittadini di quella colonia di cui era alla ricerca. Sulle loro vite di greci dell’VIII secolo A.C. costruì una serie di racconti che intitolò “Voci antiche”. Terminati anche per quell’anno gli scavi, che si erano rivelati senza dubbio fruttuosi, anche se non esaustivi, dedicò parte dell’estate alla revisione dei testi. L’editore ne fu entusiasta e gli propose di farli uscire poco prima delle feste di Natale, convinto di bissare il successo di “Passaggi”. Charlotte, la madre e la casa erano i suoi tre punti fermi tra i quali si divideva, senza, però trascurare l’attività di pubblicista. Quando un bel giorno Marcello lo chiamò e gli annunciò: «Il mio lavoro è finito, il contenitore è pronto, al resto devi pensarci tu», sentì che finalmente si stava realizzando il suo desiderio, sposare Charlotte e vivere con lei in quella che era nata come casa “sua” e che sarebbe invece diventata “loro”. Si precipitò a Firenze e, messala davanti al fiammeggiante rosso di un mazzo di rose, le chiese: «Quando?» senza aggiungere altro. Charlotte accettò il dono che posò su un tavolino e, abbracciandolo, gli rispose: «Appena possibile» «Cioè?» insistette lui. «Immagino che anche per sposarsi col rito civile occorrano dei documenti, o no?» «Certo, ma sono carte che si ottengono in pochi giorni» la rassicurò. «Già, ma forse dovrò andare in Tunisia per alcune» prospettò lei con qualche perplessità. «Ma dai» obiettò «ora si può fare tutto attraverso l’ambasciata». Quando la vide impallidire e sentì che le sue mani erano fredde e sudate, con un groppo in gola le chiese: «Charlotte, dimmi cosa ti spaventa. Cosa stai cercando di nascondermi?». 50 A quel punto lei capì che era all’angolo, non poteva più sfuggire: bisognava aprire il cuore e la memoria, anche se le costava fatica e dolore. Così gli raccontò di lei, della sua nascita. Il cognome Drouet non era quello di un padre francese, bensì quello della madre che lo aveva ricevuto a sua volta dal padre, cittadino di Lione. Lei, invece, un padre non lo aveva mai conosciuto, perché chi aveva messo incinta la madre, una volta saputo della sua prossima venuta al mondo, aveva pensato bene di sparire. Era quindi stata allevata solo dall’amore della madre e dei nonni, anche se questi, in un primo momento, avevano quasi cacciato la figlia disonorata. Fortunatamente, però, prima che lei si affacciasse alla vita, avevano digerito il colpo e si erano dedicati completamente a lei e alla madre. Purtroppo, la verità lei l’aveva appresa nel peggiore dei modi: era ormai una ragazzina, quando la classica, immancabile e stronzissima compagna di classe, dopo un futile litigio, le aveva sparato in faccia: «Già. Ma cosa vuoi pretendere da una bastarda!». La rivelazione che ne era seguita l’aveva sconvolta e anche se la madre e i nonni avevano fatto l’impossibile per aiutarla, quel trauma le aveva lasciato una ferita tanto profonda quanto, per lei, vergognosa. «Ma di che vergogna parli?» la tranquillizzò subito Giulio C.. «Di cosa dovresti provar vergogna tu? L’unico che dovrebbe non solo vergognarsi ma essere lapidato, è l’infame che è sparito». La circondò con le braccia e con tutto l’affetto di cui era capace, ma Charlotte, ancora, seppur debolmente, singhiozzava. «Amore, guardami» la invitò «Pensa comunque che se non ci fosse stato quel farabutto, ora non ci saresti nemmeno tu e io chi amerei allora?». «Ti assicuro, Giulio» disse finalmente più tranquilla «non sapevo proprio come fare per cercare di nasconderti la verità. 51 Quando tu mi parlavi di matrimonio io ero terrorizzata, anche se felice» gli sussurrò con un timido sorriso «perché volevo cercare di nasconderti…» «Basta» la interruppe deciso «ora sai che mi dispiace solo che la tua storia ti abbia fatto soffrire così, ma a me non può importarne di meno. E così ti ripeto ancora: quando?». «Più presto possibile» fu la sua risposta, prima di cominciare a baciarlo su tutto il viso. Come aveva previsto Giulio C., tutti i documenti furono pronti nel giro di una decina di giorni per cui, trascorso il tempo regolamentare per le pubblicazioni, fissarono le nozze per la fine di luglio. Nel frattempo si dedicarono alla ricerca di un arredamento sobrio e funzionale. Charlotte trasferì a Mirano le sue cose più care e altrettanto fece lui, cercando di non svuotare del tutto la sua camera, per un riguardo verso la madre. Da sempre erano d’accordo nel volere una cerimonia intima ed essenziale, perciò rinunciarono alle eventuali fastose e storiche cornici dei palazzi municipali di Firenze o Venezia, a vantaggio del piccolo e sconosciuto municipio di Mirano. Fortunatamente anche la notizia delle nozze era passata inosservata ai media che generalmente si occupano di star del cinema, dello spettacolo e della musica, ma, per fortuna dei due protagonisti, glissano sul mondo dell’arte e della cultura. Così solo i pochi parenti e i più sinceri amici di entrambi si unirono agli sposi quel sabato mattina. L’affetto e la gioia di tutti gli invitati fece da adeguata cornice alla sobria cerimonia e al brindisi benaugurate in un discreto agriturismo nell’entroterra veneziano. Purtroppo non poterono partire per un vero e proprio viaggio di nozze, perché Giulio C. era impegnato nella registrazione di una serie di trasmissioni che sarebbero andate in onda l’autunno successivo. 52 Poiché, però, una di queste ricostruiva il percorso di Giulio Cesare nel corso della guerra contro i Galli, poterono unire i due motivi e ritagliarsi qualche digressione per visitare alcuni castelli e, sulla via del ritorno, fare una tappa in Provenza, per farsi abbagliare dalla luce di Le Saint Marie de la Mere, per riempirsi gli occhi e l’olfatto con i campi di lavanda e i girasoli che avevano acceso le tele di Van Gogh. Charlotte gli aveva a volte accennato al suo desiderio di continuare l’attività di supporto didattico presso i musei fiorentini e all’obiezione di Giulio C. : «Ma perché vuoi restare lontano da casa, posso aiutarti a cercare un’attività a Venezia, a Padova. Non sarebbe meglio?» Lei ribatteva ostinata: «Ti prego, vorrei un lavoro solo mio, qualcosa che sia solo dovuto alle mie forze, al mio valore. Non mi piace che si dica “È la moglie di Erneti”, voglio, solo sul lavoro, intendimi, essere semplicemente Charlotte Drouet.» Giulio C. non osava controbattere a queste manifestazioni di orgoglio professionale, anche perché sapeva che, nel suo campo, si era fatta davvero valere e ora era diventata lei la responsabile del settore. L’attività, per fortuna, la impegnava solo nei giorni centrali della settimana, quindi potevano trascorrere insieme un lungo week end, dal venerdì pomeriggio fino al martedì. A volte, Giulio C. doveva passare a Milano dall’editore o in redazione al giornale e questo diventava un’occasione per un breve viaggio insieme, alla ricerca di tesori artistici poco noti e locali dove la cucina fosse ancora considerata un prodotto di alto artigianato. L’autunno segnò per entrambi la ripresa di un ritmo di lavoro gratificante ed intenso. Come previsto, i racconti di Giulio C. furono in libreria puntualmente a novembre e il fatto di essere stato per tanto tempo al primo posto dei best seller l’anno precedente, contribuì a far lievitare anche quell’anno le vendite. 53 Anche per questo ritenne di potersi risparmiare un po’ nei giri di presentazione e così accettò gli inviti solo di poche grandi librerie, alcune delle quali avevano il vantaggio di essere vicine a casa. Venezia, ovviamente, fu la prima e quella sera, nonostante un fitto nebbione bagnasse e nascondesse la città, la sala non poteva contenere tutto il pubblico, parte del quale dovette accontentarsi di ascoltare da piccole sale comunicanti, le vicende dei due protagonisti che la fantasia dell’autore aveva fatto nascere in quell’angolo dell’Africa mediterranea, quando la Grecia illuminava con la sua civiltà le terre bagnate da quel mare benedetto dagli dei. Durante quell’inverno, Giulio C. si mise in testa di reperire nuovi fondi per potenziare gli scavi in Tunisia e riuscì a trovare uno sponsor privato che, con un adeguato finanziamento, gli permise di assumere altro personale. Potendo procedere più speditamente, l’area archeologica fu ben presto sondata e le fondazioni di edifici, sia pubblici sia privati, cominciarono ad apparire e a strutturare un tessuto abitativo ed urbanistico ormai inequivocabile: quello era stato senza dubbio un centro di una certa importanza economica e politica, anche se aveva avuto una breve esistenza come colonia greca, perché presto sostituita dalla vicina e più potente forza cartaginese. La stampa specializzata e diverse reti televisive dedicarono ampio spazio al ritrovamento, contribuendo a far salire le quotazioni del tenace archeologo. Sull’onda di questi successi professionali, Giulio C. riuscì anche a diventare associato alla cattedra di topografia antica, presso l’università patavina. Mara seguiva il cammino e i successi del figlio con un orgoglio tutto interiore, che non modificava di un'acca il suo carattere forte e spiccio. 54 Quando leggeva sui giornali che il libro di Giulio C. era sempre più venduto, che il suo lavoro di archeologo era premiato da importanti ritrovamenti, quando, a volte, le capitava di vederlo in televisione, non si capacitava di come quel personaggio, che appariva sempre più autorevole, mano a mano che i suoi capelli imbiancavano, fosse quello stesso bambino che, ancor prima di andare a scuola, maneggiava i libri con sommo rispetto e tanta voglia di scoprire cosa significassero quegli strani segni così piccoli e raggruppati, che ne riempivano le pagine. Ricordava ancora come i primi rapporti con le maestre fossero stati piuttosto difficili a causa dell’impegno e della cocciutaggine di lui, che non voleva mai smettere di provare e riprovare a scrivere “come voleva lui”, anche quando l’orario scolastico prevedeva altre attività. Quell’estate Giulio C. e Charlotte decisero di approfittare, dopo la chiusura degli scavi, per trascorrere una vacanza insieme da perfetti turisti balneari. Il villaggio tunisino in cui scesero era un vero e proprio paradiso artificiale, dove, però, l’acqua del Mediterraneo era vera, una vera immensa, preziosa acquamarina. Gli altri ospiti erano per lo più francesi e tedeschi. Il personale, ovviamente, numeroso e del posto. Un mattino, mentre uscivano dal loro bungalow per recarsi al mare, incrociarono due neri addetti alla cura del giardino. Dovevano essere un po’ alterati, perché le loro voci si andavano alzando sempre più di tono. Quando stavano quasi per venire alle mani, Charlotte, staccatasi da Giulio C., si avvicinò temerariamente ai due giovani litiganti e li apostrofò con fermezza. Pur essendo abbastanza vicino, Giulio C. non capiva che lingua stessero parlando, ma si accorse subito della sorpresa provata dai giardinieri nel sentirsi rispondere nel loro stesso idioma, da quella che pensavano fosse una straniera. Forse proprio per questo, l’intervento della ragazza funzionò da catalizzatore, per cui gli animi di entrambi si distesero e si 55 misero a parlare fitto fitto con Charlotte, mentre un leggero sorriso spianava i lineamenti di tutti. Quando ognuno riprese la propria strada, Charlotte si accorse dell’aria interrogativa del marito. «Perché mi guardi così?» gli chiese spalancando gli occhi. «Lo sai bene che qua vicino c’è casa mia. Quei due ragazzi sono di un villaggio vicino al mio e ti dirò che non credevo nemmeno io di ricordare più il mio dialetto natio.» Terminò con una certa sorpresa. «Forse i più sorpresi sono stati loro» insinuò Giulio C. «Forse si stavano mandando affanculo, pensando che nessuno li capisse e invece …» «Già e proprio questo li ha spiazzati. Se non fossero stati così neri, avresti potuto vederli avvampare di vergogna» concluse, prima di lasciarsi andare ad una risata argentina. Spesso, la sera, non si univano agli altri turisti nelle varie animazioni proposte dal solerte tour operator, ma preferivano andarsene a spasso sotto il manto stellato, che nelle zone più riposte del villaggio prorompeva in tutta la sua preziosa luminosità. Era tale la magia dell’ora, dei profumi e del silenzio che veniva spontaneo parlare con un bisbiglio, interrotto, ogni tanto, da un abbraccio o da un bacio. Mentre passeggiavano così, nelle vicinanze della zona dei servizi, prima di tornare tra i comuni mortali, una sera, furono quasi investiti da un piccolo bolide che, inciampato nei loro piedi, cadde a terra senza una parola né un grido. Sorpresi e spaventati, si scossero dal loro isolamento e si accorsero che l’autore di quello scontro era un bambino nero di forse quattro anni che, rialzatosi, cercava, divincolandosi, di liberarsi dalla stretta delle mani di Giulio C. Charlotte si chinò per vedere meglio e, accarezzando quel faccino riempito solo da due occhioni neri, provò a chiedergli in francese se non si fosse fatto male. 56 Il piccolo scuoteva la testa e stava quasi per mettersi a piangere, quando, da dietro l’edificio delle cucine, arrivò di corsa e trafelata una giovane donna. Era chiaramente la madre, perché, non appena il bimbo la vide, corse a nascondere il viso nel suo grembo. La donna gli parlò molto agitata, mentre lo stringeva e se lo metteva in collo per abbracciarlo meglio. Charlotte le si avvicinò per tranquillizzarla ma, nonostante il peso del bambino, lei cercò di allontanarsi di corsa. Allora le gridò qualcosa nel suo dialetto e quella si fermò di colpo e si voltò come se a chiamarla fosse stato uno spettro. Depose il piccolo a terra e, prendendo le mani di Charlotte, gliele baciava quasi piangendo. Giulio si era avvicinato, più per osservare la reazione delle due figure, che il colore della pelle mimetizzava col buio della notte, che per sentire il colloquio. Scambiate ancora poche battute, madre e figlio si allontanarono, voltandosi ogni tanto per salutare. «E allora?» chiese Giulio C. «Cosa è successo?» Il non poter capire un linguaggio lo aveva sempre fatto sentire a disagio e ora che non comprendeva questo modo di comunicare della moglie, la sensazione spiacevole era ulteriormente acuita. «Povera donna!» la commiserò Charlotte. «È una delle inservienti di cucina e questa sera non sapeva dove e a chi lasciare il bambino, così ha dovuto portarlo con sé. Questo, però, è contrario al regolamento del villaggio ed era terrorizzata che potessimo denunciarla alla direzione. Per fortuna sono riuscita a convincerla che da noi non aveva nulla da temere.» «E per la seconda volta ti sei resa utile parlando la lingua dei nativi» osservò Giulio C. con u n misto di orgoglio e invidia. Per la sera dell’ultimo giorno della vacanza era prevista una “festa araba”, con relativo travestimento dei turisti, che così avrebbero svuotato il locale bazar di tutti gli abiti e accessori più o meno fintamente orientali. 57 Charlotte era divisa tra la convinzione che sarebbe stata una specie di mascherata turistica e il desiderio di indossare un abito simile a quelli che aveva visto per tutta la sua infanzia attorno a lei. Giulio C., che in parte condivideva l’incertezza della moglie, anche se per motivi diversi, alla fine la invitò a provare qualche abito, suggerendole le tinte più adatte a far risaltare i colori così caldi e intensi della carnagione e degli occhi. Charlotte si lasciò tentare ed entrò e uscì varie volte dalla cabina di prova, abbigliata ora con rasi turchese o corallo, ora con sete avorio o acquamarina. L’ultimo fu proprio quello che piacque di più ad entrambi e con quello fece il suo ingresso nel salone. Anche se Giulio C. aveva provato alcune jalabbya alle quali Charlotte aveva accordato il proprio favore, non se la sentì di apparire così abbigliato e preferì avvolgersi il capo con una sciarpa indaco, che la destrezza della moglie trasformò in un turbante tuareg. Le foto scattate divennero per entrambi, nel giro di pochi giorni, il ricordo tangibile di una bella vacanza. Tornati a casa, la vita li riprese con i suoi ritmi più o meno frenetici, gli impegni di lavoro e la gioia di ritrovarsi. Quando, poco dopo le vacanze natalizie, un fine settimana, Charlotte tornò da Firenze, Giulio C. si fermò ad osservarla mentre lei apriva la borsa da viaggio e posava sul letto abiti e oggetti personali. Tra questi lo colpì un libro che, pur sembrando rovesciato, aveva una copertina riccamente decorata. Osservando con più attenzione, si accorse che era un libro in arabo. «Cos’è?» chiese con curiosità, indicando il volume. «Ah! Questo? È un regalo di un’amica di Firenze, una ragazza di Tunisi alla quale ho fatto da guida i giorni scorsi» rispose con studiata indifferenza. «E di cosa parla?» continuò ad informarsi Giulio C. 58 «È una copia del Corano» disse Charlotte, sfogliando qualche pagina. «Fino ad ora non mi ero mai preoccupata granché di conoscere il libro che è alla base della fede di tanti milioni di persone. Mi incuriosisce.» Concluse deponendolo sul suo comodino. Giulio C. non riusciva a spiegarsi il perché, ma, da un po’ di tempo, quando Charlotte parlava di islam, della sua cultura, delle sue origini, provava un senso di insicurezza, di pericolo: era razionalmente assurdo, eppure si sentiva come se stesse camminando sulle sabbie mobili. Forse il suo spirito laico non poteva sintonizzarsi con quella ricerca di un divino che, invece, sembrava così attirare la moglie. Anche per quell’anno gli impegni di lavoro li tennero separati: Charlotte a Firenze era sempre più richiesta come guida e animatrice nelle attività didattiche; Giulio C. alternava le lezioni all’università con brevi viaggi per motivi di studio personale o di lavoro come archeologo. Era, però, sempre più piacevole ritrovarsi e, in alcune occasioni, aprire la casa agli amici ed ex compagni di studi con i quali Giulio C. era sempre rimasto in contatto e coi quali era confortante potersi esprimere nel dialetto familiare. Parecchi dei suoi coetanei avevano, dopo il liceo, intrapreso facoltà universitarie che li avevano portati a diventare liberi professionisti affermati. Qualcuno era stato condotto lontano dal paese dal desiderio di far carriera, qualcun altro dal matrimonio con ragazze di altre regioni, ma tutti, quando a ferragosto o a Capodanno Giulio C. li chiamava a raccolta per una grigliata a casa sua, accorrevano felici di ritrovarsi, per rinnovare quella forte e virile amicizia che non era mai venuta meno negli anni. Anche in questo Giulio C. poteva dirsi simile ai suoi amati eroi dell’epos classico: il valore assoluto della lealtà e dell’amicizia. 59 Quando Mara sapeva che il figlio riuniva i vecchi amici, era felice perché aveva un’ulteriore conferma che per lui niente era cambiato, nonostante il successo, che, fondamentalmente, era rimasto il ragazzo di una delle tante province italiane, moralmente sano, riservato e amabile. A riprova di ciò, quando poteva, amava andare da solo a far grosse spese nei supermercati della zona per procurare quanto necessario per il banchetto. Ed era anche un consumatore assai attento negli acquisti, perché sapeva scegliere sempre le confezioni migliori. A volte Mara riusciva anche a fare una scappata per salutare quei giovani che lei aveva visto bambini o ragazzi e i cui visi riusciva ancora a ritrovare pur sotto qualche ruga o un paio di poderosi baffi. Questi, dal canto loro, la salutavano con affetto, perché anche loro ricordavano la madre forte e presente che, in certe pause, tra una versione di greco e un esercizio algebrico, entrava decisa nella camera del figlio con generi di conforto che erano pane e salame, ciambelle, caffè e altre fragranti e semplici cibarie. Quando Charlotte e Giulio C. cominciarono a progettare le vacanze estive del 1991, si trovarono di fronte a una vasta possibilità di scelta: lei avrebbe visto con piacere qualche paese del nord Europa che non aveva mai visitato, ma che l’attirava per la luce limpida e fredda e per un modo di vivere così diverso da quelli che conosceva; lui era incerto tra un viaggio nella terra e mare caldi della Spagna meridionale o un giro in Turchia, per rivedere con calma il sito di Troia, sulla collina di Hissarlik e le rovine di Efeso. Alla fine, nessuno di questi progetti andò in porto, perché un giorno Giulio C. ebbe un’illuminazione: non sarebbe stato magnifico, invece, tornare dopo tanti anni nella Grecia classica per contagiare anche la moglie con il suo amore per l’Ellade, accompagnandola sui vari siti che tanto lo avevano affascinato e fatto sognare quando era un giovane neolaureato? 60 «Ma certo, sarà come viaggiare nel tempo» acconsentì felice Charlotte. Questa volta, però, non prenotò certo un posto ponte, ma un volo diretto Venezia-Atene, da dove, con una macchina a noleggio, avrebbe iniziato una vera e propria rievocazione non solo storica, ma anche personale. Non vedeva l’ora di rendersi conto di cosa avrebbe provato ritornando sull’Acropoli, salendo sulle rocche micenee, questa volta con una moglie con cui voleva dividere tutto, anche le emozioni più intime del passato. Quando preparò la sua valigia, non dimenticò di metterci anche quella vecchia edizione dei poemi omerici sulla quale aveva preparato gli esami universitari e che lo aveva accompagnato nel suo primo tour ellenico. Da un certo punto di vista, l’arrivo all’aeroporto di Glifada fu quasi sconvolgente, se paragonato all’approdo a Patrasso del 1970, non solo per la tecnologia più avanzata del mezzo di trasporto scelto, ma soprattutto per l’intensità del traffico e il numero dei passeggeri presenti. Si riconoscevano turisti provenienti da tutte le parti del mondo: giapponesi, americani, tedeschi, nord africani e tutti erano intruppati in gruppi che si muovevano ad ondate, come sospinti da un vento di curiosità sbrigativa. Era ben vero che questo ormai succedeva in tutti gli aeroporti di ogni capitale, ma, sapere che lì a pochi chilometri c’erano i marmi del Partenone, gli procurava un senso di stonatura. E, quando il giorno dopo, dovette quasi farsi strada tra la folla per avvicinarsi all’Eretteo e dovette mettersi in coda per entrare al Museo, sorvegliato dallo sguardo vigile della civetta sulla sua colonna, poté toccare con mano come, in quei venti anni trascorsi dalla sua laurea, il mondo avesse camminato e per molti, troppi, anche il bello fosse diventato un bene di consumo, come un dentifricio o un abito. La cordialità e l’ospitalità greca, però, non si erano troppo affievolite, per fortuna. Anzi, quando camerieri, commercianti 61 o sorveglianti nelle sale museali capivano che erano italiani, non esitavano a far sfoggio del loro vocabolario italico e, immancabilmente, proclamavano: «Italiani, ena faza, ena raza». A Giulio C. piaceva, però, invece, cercare di esprimersi in greco, per quel poco che conosceva della lingua moderna. Infatti, si sarebbe trovato meglio certamente a parlare con Pericle o Aristotele, ma voleva, comunque esercitarsi per comunicare anche con questi loro lontani pronipoti. Ad Atene erano scesi in un albergo abbastanza centrale, ma di piccole dimensioni e dall’aria sufficientemente ellenica. Giulio C. non amava, se poteva scegliere, quei lussuosi, enormi hotel che riproducono, in qualunque parte del mondo si trovino, uno stereotipo internazionale dal gusto anonimo. Una sera, al rientro da una piacevolissima cena consumata in un locale della Placa, mentre ritirava la chiave della stanza, confidò a Charlotte: «Non mi dispiacerebbe avere degli amici greci, scambiarci visite, confrontare i nostri paesi…» e non si accorse che, dietro di loro, una coppia di giovani che stava per avvicinarsi al banco del portiere, aveva ascoltato quel suo pensiero ad alta voce e l’aveva commentato con un sorriso. La mattina dopo, il caso li fece incontrare al buffet della prima colazione. Il giovane marito, mentre aspettava di servirsi dal bricco del caffè che Giulio C. stava posando, lo salutò con un cordiale, sorridente «Buongiorno». «Buongiorno!» rispose con entusiasmo «Italiano anche lei?» gli chiese. «No, ma quasi» e, dopo aver posato il contenitore termico, tendendogli la mano, si presentò: «Mi chiamo Stavros Balaskas. Sono dentista e ho studiato medicina e mi sono laureato a Bologna. Ricordo ancora con enorme piacere gli anni universitari. Ho mantenuto i rapporti con alcuni compagni 62 italiani, per questo mi piace, quando posso, parlare la sua lingua». Giulio C. si presentò a sua volta e aggiunse: «Siamo sulla stessa lunghezza d’onda, perché io, anche se per motivi legati alla mia professione, ho un’enorme stima e ammirazione per il suo paese.» «Ieri sera, forse non se n’è accorto, ma ho sentito che diceva a sua moglie che le piacerebbe avere amici in Grecia. Se vuole, io posso essere uno di quelli» propose con un sorriso franco e accattivante. «Ne sarei felice, molto felice» accettò Giulio C. «e quindi cominciamo col darci del tu, per favore. A me viene molto più facile, anche considerando che sei di molto più giovane di me». «Oh, non lasciarti ingannare dalle apparenze. Sono giovane, sì, ma non certo un ragazzino. Ho trentacinque anni, in fin dei conti!», gli confidò Stavros Mentre stavano per portare al tavolo le tazze di caffè, furono raggiunti dalle rispettive consorti, che ancora non si conoscevano e che rimasero sorprese nel vedersi chiamare contemporaneamente. Raggiunti i mariti, furono reciprocamente presentate. La giovane greca si chiamava Irene Cosmoupolos ed era segretaria presso il liceo classico di Salonicco, dove abitava col marito. Quella mattina, la colazione durò piuttosto a lungo, perché tutti avevano, naturalmente, un sacco di cose da raccontare. «Sai che ora che ci penso,» se ne uscì ad un tratto Stavros, «credo di aver letto un tuo libro?» «Sarà senza dubbio “Passaggi”» rispose con sicurezza Giulio C. «È l’unico che è stato tradotto da voi. Forse, tra non molto, uscirà anche “Voci antiche”, l’ultimo mio lavoro». «Si, credo tu abbia ragione. Il protagonista era un mercante etrusco di…» «Adria» gli venne in aiuto Giulio C. 63 «Già. Complimenti, mi ha fatto davvero colpo quel finale a sorpresa. Io non sono un esperto, né particolarmente innamorato della Storia, ma devo riconoscere che, come le racconti tu le cose, ti prendono. Si dice così?» chiese un po’ titubante. «Se vuoi farmi un complimento, si dice proprio così» lo ringraziò Giulio C. Le due giovani ragazze avevano subito fraternizzato, anche se con qualche difficoltà di comprensione linguistica, in quanto l’una si esprimeva bene in francese e l’altra si trovava meglio con l’inglese, per cui fu indispensabile attribuire a Stavros il titolo di interprete ufficiale. Per quel giorno ogni coppia aveva già elaborato il proprio programma, anche perché, il giorno dopo, Charlotte e Giulio C. avrebbero lasciato la capitale per iniziare il tour del Peloponneso. Così decisero di trovarsi per cena e brindare alla reciproca conoscenza. Charlotte e Giulio C. si diressero verso Tebe. L’antica fama leggendaria e storica della città non era, purtroppo, accompagnata da altrettanta ricchezza di testimonianze archeologiche. Le poche vestigia rimaste delusero un po’ Charlotte. «Non puoi pretendere di trovare molto del periodo pre ellenistico, visto che nel 335 pagò per essersi sollevata contro Alessandro Magno» le spiegò. «Questa era, dunque, la sorte di chi si opponeva al grande macedone? Tanta era la sua grandezza nella conquista, quanta la sua ferocia nello schiacciare gli avversari, quindi?» commentò Charlotte, osservando la porta di Elettra. «Oh! Non è proprio sicurissimo che le cose siano andate così.» La smentì Giulio C. «C’è chi sostiene che potrebbero essere stati gli stessi greci, i vicini dei tebani, a decretarne la distruzione, per fortuna non totale. Comunque, la presenza dei 64 santuari di Dioniso e di Eracle, antenato della sua dinastia, fece ordinare ad Alessandro di risparmiare almeno quei luoghi sacri. Pare sia stata salvata anche la casa di Pindaro, grazie all’ammirazione che il Macedone nutriva per il grande poeta.» «Come mi piace ascoltarti raccontare fatti così lontani come se ne fossi stato tu stesso testimone!» lo gratificò Charlotte, stringendoglisi sottobraccio. Tornando verso Atene, si fermarono al sito di Eleusi, per respirare, almeno dall’esterno, la magia dei misteri che un tempo vi si celebravano. Mentre stavano per immettersi nella congestione del traffico della capitale, Charlotte non poté fare a meno di notare il silenzio del marito e la sua espressione concentrata. «Non preoccuparti per il traffico: anche se tardiamo un po’ gli amici ci aspetteranno» lo volle confortare. «Come?» si stupì lui, voltandosi velocemente ad osservarla. «Perché dici?» «Ti vedo così preoccupato!» gli spiegò posando una mano leggera sulle sue ginocchia. Con un largo sorriso «Assolutamente no» le rispose «non sono affatto impensierito per il traffico. Stavo pensando a tutt’altro, invece:» «Ah! E vuoi dirmi a cosa?» insisté Charlotte, un po’ delusa per non aver saputo interpretare i pensieri del marito. «Ti dirò» cominciò un po’ titubante «mi è venuta voglia di tirar fuori un libro da questo viaggio». «Un nuovo romanzo?» lo sollecitò «No, non proprio» negò deciso «anzi, stavo pensando più ad una specie di doppio giornale di bordo, quasi un parallelo tra le antiche acropoli con i loro dei, i loro miti e le città di oggi. Il tutto legato dal nostro viaggio». «Interessante e impegnativo» commentò Charlotte. 65 «Si, più ci penso e più vorrei riuscire a delineare i vari percorsi e riempire di appunti epici e attuali le varie tappe.» Le comunicò Giulio C, quasi parlasse a se stesso. Decisero di salutare i nuovi amici con una cena da Dionysos, che anche se non offriva una vera e propria cucina greca, in cambio permetteva una vista dell’Acropoli da poster delle migliori agenzie turistiche. «Quando ero a Bologna,» raccontò Stavros «con gli amici italiani, ho visitato Venezia e Firenze. Quello che avete di bello voi italiani è l’unicità e la varietà delle vostre città, nessuna è simile ad un’altra!» li complimentò riempiendosi la bocca col suono delle c dolci che pronunciava quasi come fossero delle zeta. «Quando verrai a trovarci» gli promise «andremo a visitarne altre, Treviso, Bolzano meritano anch’esse una visita.» «Allora brindiamo al nostro prossimo incontro» propose Charlotte tra l’entusiasmo generale, mentre si scambiavano indirizzi e telefoni. Mentre i coniugi greci si fermavano ancora qualche giorno ad Atene, prima di imbarcarsi per una vacanza a Creta, Charlotte e Giulio C. passarono in Peloponneso. Dopo le doverose soste in Argolide e in Laconia, arrivarono nell’Elide, dove Olimpia li aspettava con la piacevolezza della sua piana boscosa. La vastità e la monumentalità delle rovine compensarono Charlotte dalla delusione per la scarsità dei resti provata a Sparta. Accanto a Giulio C. passeggiò lentamente e a lungo tra i rocchi delle colonne dell’Heraion, del tempio di Zeus. Ma non potevano certo lasciare il sito senza aver calpestato il terreno dello stadio. Arrivati alle strisce di marmo che avevano la funzione dei moderni blocchi di partenza, lui la sfidò: «Vuoi gareggiare?» e lei pronta: «Non dimentichi che sono una donna e come tale esclusa dai giochi?» 66 «Non avevo certo intenzione di proporti una corsa olimpionica» ribatté «ma solo farti provare l’emozione di un terreno così carico di storia» concluse posizionandosi comunque per il via. Come rispondendo ad un interno richiamo, scattò e percorse i quasi duecento metri della distanza prevista dalla corsa semplice. Al termine dovette piegarsi sulle ginocchia e cercare di riprender fiato. Nel frattempo, la moglie lo aveva raggiunto e, guardandolo un po’ dall’alto in basso, lo canzonò: «Come atleta, mi sembri alquanto fuori allenamento!» «E anche fuori età, se è per questo!» concordò, mentre si rialzava e riconquistava una respirazione più normale. «Ma non potevo perdere l’occasione di correre sulle orme dei protagonisti degli epinici di Pindaro.» Entrarono, poi, nel laboratorio di Fidia, dove l’archeologo fantasticò: «Poter veder, anche solo per un attimo, il grande scultore alle prese con la colossale statua del dio, a plasmare l’avorio e l’oro al suo volere per ricoprire e dar vita a quella forma che era nella sua mente! Pensa a che tesori sono andati perduti!» Era ormai quasi il tramonto e il sole con i suoi raggi restituiva agli antichi marmi una parte di quei colori coi quali ignoti artisti avevano rivestito frontoni e statue. Si fermarono a Patrasso per la notte e Giulio C. andò alla ricerca di quei locali in cui era stato con l’amico vent’anni prima. Dovette, però, accorgersi che anche qui il tempo era passato, modificando, cancellando, uniformando interi quartieri. La loro vacanza era ormai alla fine e un altro aereo era pronto ad Atene per riportarli a casa. Come sempre, per lui, il rientro fu un misto di gioia e nostalgia, un melange fisiologico di sentimenti che ben presto, però, si assestarono nella quotidianità più tranquilla. 67 Charlotte tornò a dividersi tra il suo lavoro e il marito. Un giorno di fine autunno, Giulio C. si trovò a Firenze per una ricerca e chiamò la moglie per organizzare almeno una colazione veloce insieme. Charlotte, felice dell’improvvisata, lo invitò : «Aspettami in camera, prima di pranzo, vorrei almeno cambiarmi e rinfrescarmi un po’». Questa volta la ricerca dell’abitazione fu un po’ più faticosa, perché la pensione presso cui Charlotte si fermava era in una zona un po’ più periferica rispetto al suo primo appartamento. Anche l’interno appariva più dimesso e, mentre Giulio C. aspettava la moglie nell’ingresso, vide arrivare e uscire diversi ragazzi e qualche ragazza dall’aspetto non proprio europeo. Le carnagioni scure, gli occhi di carbone e, infine, la lingua, li dichiaravano subito appartenenti, quanto meno, all’area magrebina. Quando Charlotte entrò sorridente, si abbracciarono e lui la seguì nella sua stanza. Qui riconobbe almeno qualcosa di più familiare: qualche foto, qualche oggetto personale e l’atmosfera più “domestica” lo misero più a suo agio. Mentre stavano per uscire, si udì bussare e contemporaneamente una voce chiamare Charlotte. Aperta la porta, si trovarono di fronte a un giovane alto, che indossava un abbigliamento sportivo con la stessa naturale eleganza con cui un lord inglese esibisce il tait. «Non sapevo tu fossi in compagnia» esordì il ragazzo in un francese un po’ gutturale. «Ma no, vieni» lo invitò Charlotte, che subito presentò il marito a Jean Pierre Alouf, un giovane tunisino. Nello stringere la mano di Giulio C., alle solite frasi di circostanza aggiunse: «Le faccio i miei complimenti per i suoi libri: Charlotte mi ha fatto leggere i suoi romanzi e le assicuro che sono stati una scoperta, una piacevole scoperta.» 68 «Grazie, troppo gentile» rispose Giulio C. con un leggero imbarazzo. «Anche lei si occupa di letteratura, di storia…?» chiese poi. «Oh! No, non esattamente. O meglio. Sto cominciando a interessarmi di libri, ma solo dal punto di vista tecnico: sto collaborando con una casa editrice per creare una collana per l’infanzia. Anzi, avevo bisogno di sua moglie per delle traduzioni, ma se ora non è il momento, posso ripassare più tardi.» «Forse è meglio», intervenne decisa Charlotte. Adesso stiamo andando a pranzo. Ne riparliamo questa sera, se vuoi.» «Naturalmente. Buon pranzo. E piacere di averla conosciuta» si congedò Jean Pierre. Mentre erano al tavolo, in attesa di una ribollita, Giulio C. volle saperne di più e sottopose la moglie ad un fuoco di fila di domande. Charlotte rispose con naturalezza ed in modo esauriente, anche se, talvolta, lasciava trasparire una certa ironica insofferenza per la curiosità del marito. Oltre all’attività al museo, aveva iniziato a lavorare per una piccola casa editrice italo tunisina con il compito di tradurre le più popolari fiabe italiane per i bambini africani. «Perché non me ne hai mai parlato prima?» volle sapere mentre versava nei bicchieri un vivace chianti novello. «Perché la cosa è ancora molto agli inizi e volevo farti una sorpresa, mostrandoti il libro con la scritta: traduzione di Charlotte Drouet.» Chissà perché, mentre tornava a Mirano, una frase continuava a lampeggiargli nella testa: «Posso ripassare più tardi». E ogni volta una voce, in qualche parte nascosta del suo io più profondo, gli chiedeva: «Ma che fai? Non sarai un inguaribile geloso! Di che hai paura?» E anche più tardi, nel cuore della notte, a letto, in una pausa del sonno che diventava veglia, la sua mente lavorava, tanto che, alla fine, gli fu tutto chiaro: non era, la sua, la comune gelosia di un marito più agee 69 della moglie, non temeva Jean Pierre in quanto giovane e, probabilmente, affascinante agli occhi di una ragazza, no, la sua insicurezza, la sua ansia erano dovute al fatto che il giovane era tunisino, che apparteneva alla stessa stirpe di Charlotte, che, agli occhi di lei, rappresentava le sue radici, un legame e un ricordo della sua terra d’origine, che potevano avere in comune usi, lingua e tradizioni, tutto ciò che lui non poteva certo darle. Con lo sbiadirsi delle tenebre, anche quei foschi pensieri si alleggerirono e, al mattino, partendo per l’università, si sentì più calmo. Il contatto con gli studenti, poi, fu uno stimolo in più per gratificare il suo ego, soprattutto quando si accorgeva degli sguardi adoranti con cui lo osservavano alcune studentesse. Già da diverse settimane aveva cominciato a lavorare al libro sulla Grecia. L’inizio non era stato facile: non aveva avuto subito chiaro il taglio da dare al nuovo lavoro, ma, una volta deciso il tono e come intrecciare il passato al presente, le pagine avevano cominciato a comporsi quasi da sole. Spesso si scambiavano telefonate con Stavros e Irene, che lo mettevano al corrente dei loro programmi per le vacanze e gli raccontavano anche di fatti di cronaca spicciola di Salonicco. «Perché non fate una scappata da noi?» lo invitò Stavros una sera. «Dicono che il nostro museo per gli amanti dell’arte sia una vera goderia… non so se è giusto» «No, Stavros» lo corresse l’amico «forse vuoi dire goduria» «Ah! Già, proprio, hai ragione» confermò «Chissà!» rispose Giulio C. «non abbiamo ancora fatto progetti, a dire il vero» concluse guardando Charlotte che stava lavorando al computer. «Ma perché invece non venite voi?» finì per chiedere. All’altro capo del telefono sentì un lontano bisbiglio e poi la voce decisa di Stavros gli annunciò: «Grazie, penso proprio che veniamo. Quale periodo è meglio per voi?» 70 «Quando finiscono gli esami. Diciamo l’ultima settimana di luglio. Per voi va bene?» si informò. I tempi erano perfetti anche per gli amici greci, così si salutarono, ripromettendosi di sentirsi più avanti per gli ultimi accordi. Posato il telefono, si avvicinò a Charlotte e la mise al corrente di quanto programmato. «Non credi» gli chiese lei, spegnendo il computer, dopo aver stampato alcune pagine «che avresti dovuto almeno domandarmi cosa ne pensavo e se il periodo di vacanza sta bene anche a me?» Giulio C. la osservò mentre parlava e vide nei suoi occhi un’ombra di durezza e disappunto ben più forte di quanto le parole non lasciavano trasparire. «Ti chiedo scusa. Sono stato troppo frettoloso, hai ragione. Ma pensavo che anche tu avessi voglia di rivederli» cercò di scusarsi, avvicinandosi e cercando di abbracciarla. Charlotte aveva nel frattempo raccolto i fogli usciti dalla stampante e se li stringeva al petto, come fossero uno scudo per non sentire il calore e la pressione del corpo del marito. E mentre lui la lasciava libera «Sì, certo» rispose «anche a me fa piacere incontrarli, ma mi avrebbe fatto piacere anche che tu mi avessi interpellata». «È vero, ho mancato di tatto; scusami» «Va bene, non parliamone più» si sbrigò Charlotte. A questo piccolo screzio seguì un periodo per lei di intensa attività, che la tenne occupata a Firenze anche nei giorni che, solitamente, trascorreva a casa e che la portò anche più volte a Tunisi. Per questo Giulio C. si buttò a capofitto nella stesura del libro. Gli dava un profondo calore venato di sottile nostalgia per quel periodo solare in cui aveva a portata di mano tutto ciò che più amava: il passato, la Grecia e la moglie. Questa volta, però, non ce la fece a terminare il libro entro l’anno e le librerie 71 dovettero attender la primavera per esporre sugli scaffali l’ultima opera di Giulio Claudio Erneti: “Nella terra degli Dei: viaggio nella Grecia di ieri e di oggi”. Ad ogni capitolo dedicato alla storia, al mito, alla religione, alla politica ai grandi personaggi, premetteva alcune pagine in cui raccontava in prima persona pensieri, emozioni, fatti e curiosità del suo viaggio con la moglie. Erano pagine vive, cariche dei più variegati sentimenti. Era la prima volta che metteva a nudo una parte di sé, perché non amava darsi in pasto ai lettori; era sempre stato molto riservato per quanto riguardava il suo privato, eppure, questa volta, gli veniva così naturale raccontare di come aveva cercato di far rivivere agli occhi della moglie quel lontano passato che per lui era sempre stato così presente, di come avessero cercato di sfuggire ai luoghi più invasi dal turismo di massa, di come avessero conosciuto due persone simpatiche che lo avevano legato col filo della loro amicizia alla sua già tanto amata Grecia. Naturalmente, quando aveva terminato la sua creatura, non aveva avuto dubbi su a chi dedicarla: “a Charlotte, compagna della mia vita e di questo viaggio”, furono le ultime parole con cui chiuse il file del suo lavoro. La critica e il pubblico dei suoi affezionati lettori accolsero con particolare entusiasmo il libro, forse proprio anche perché un argomento da saggio storico era trattato con un piglio nuovo e spontaneo. Quando presentò a Charlotte la prima edizione, la vide arrossire, mentre apriva la copertina e leggeva la dedica. «Oh! Giulio! Grazie, è un pensiero stupendo» si commosse. «È solo una cosa in più che ci unisce e mi è sembrato ovvio dedicarlo a chi ha condiviso con me sia il viaggio che la fatica della stesura.» «Ma io ho fatto ben poco in questo senso» si schermì. «Anzi, sono stata anch’io così impegnata che non ti ho quasi mai chiesto nulla del libro» aggiunse mentre lo riponeva nella borsa da viaggio che stava preparando. 72 «Sei di nuovo in partenza?» le chiese con un po’ di amaro in bocca. «Sì, domani ho un incontro con un sociologo tunisino che sta scrivendo un saggio sulle fiabe europee. Poi dovrò passare a vedere le illustrazioni: ci sono vari disegnatori che hanno lavorato in questi mesi ma hanno stili così simili eppure così particolari, che sarà faticoso scegliere quello più adatto.» elencò tutto d’un fiato. E, dopo una brevissima pausa, proseguì: «Potrebbe anche darsi che debba fare un salto a Tunisi, se va in porto l’altra iniziativa della casa editrice.» «Cioè?» chiese lui con ansia, osservando i movimenti nervosi della moglie che raccoglieva qua e là quello che voleva portare con sé. «Forse uscirà anche l’edizione opposta: le fiabe popolari tunisine tradotte in italiano» rispose quasi senza guardarlo, mentre chiudeva il trolley. «Speravo che avremmo avuto un po’ di tempo per noi» si rammaricò in risposta. «Abbi pazienza, Giulio» lo esortò, finalmente avvicinandosi e sedendo sul bracciolo della sua poltrona. «È un periodo un po’ intenso, ma vedrai che finirà e riprenderemo il nostro ritmo più placido» cercò di confortarlo, accarezzandogli i capelli che, si accorse con sorpresa scompigliandoglieli, stavano velocemente imbiancando. Proprio nei giorni in cui Charlotte era a Firenze, spedì a Stavros e Irene una copia di “Nella terra degli Dei” con una affettuosa dedica. Nel giro di poco meno di un mese da Salonicco arrivò una telefonata. «Pronto?» rispose Charlotte che stava passando proprio accanto al telefono. «Sono Stavros, Charlotte. Come stai?» le chiese la voce chiara e decisa. 73 Dopo essersi scambiati i convenevoli di pragmatica, si informò: «Giulio C. è lì? Devo dirgli che è un…» si interruppe indeciso alla ricerca di una parola. «Asse?» chiese titubante. «Asse?» gli fece eco Charlotte «No, forse vuoi dire asso, cioè grande, campione» «Sì, sì» esultò Stavros «Ho letto il libro: è fantastico; parla della Grecia e dei greci meglio di quanto faremmo noi. Anche Irene, quando gliel’ho raccontato e gliene ho letto qualche pezzo, è rimasta entusiastica» la informò «Entusiasta» lo corresse benevolmente, salutandolo prima di passargli il marito. Questa volta, quando Stavros chiese di poter precisare i tempi della vacanza in Italia, Giulio C. interpellò prontamente la moglie: «Ci chiedono se ci va bene come periodo dal 23 luglio al 3 o 4 agosto. Arriverebbero a Venezia in aereo». «Direi che può andare, in linea di massima» rispose lentamente mentre rifletteva sui suoi eventuali impegni già programmati. «Non ti ho visto molto decisa e sicura» le fece osservare Giulio C., dopo aver salutato l’amico. «Hai ragione» rispose, «ma vedi, c’è tanta roba in giro in questo periodo che veramente non ho ancora il quadro preciso degli appuntamenti e degli spostamenti delle prossime settimane.» «Speriamo bene» si augurò lui. «e, comunque, ora che lo sai, cerca di distribuire i tuoi impegni di conseguenza» «Per quanto dipende da me, lo farò» lo rassicurò un po’ piccata «ma ci sono delle cose che non posso decidere io» ci tenne a precisare, mettendosi a tavola per la cena. Riviste, rotocalchi e trasmissioni televisive fecero a gara per aggiudicarsi, nelle successive settimane, la presenza di Giulio C. come ospite d’onore e fu oggetto di interviste, per non parlare della critica specializzata, che aveva praticamente vivisezionato il libro. 74 Per sua fortuna, fin da prima di sposarsi, aveva provveduto a far cancellare il suo nome dall’elenco telefonico. Nei primi anni della carriera non si era mai preoccupato di nascondersi e, a volte, gli era arrivata parecchia posta da parte di lettori( e più spesso lettrici) che cercavano di insinuarsi nel suo privato, con il pretesto della richiesta di un autografo o rivolgendogli lodi e complimenti per la sua attività di scrittore. All’inizio la cosa era stata anche piacevole e gratificante, un vero e proprio “massaggio dell’ego”, ma poi le dimensioni del fatto erano cresciute a tal punto da farlo decidere ad entrare nell’anonimato. Pochi giorni prima dell’arrivo degli amici, Charlotte ricevette una telefonata dal suo editore: erano sorti dei problemi in seno al comitato direttivo della casa editrice. Alcuni componenti non erano convinti che fosse una buona idea pubblicare le fiabe in arabo, perché avrebbero potuto urtare la suscettibilità degli islamici più integralisti. Forse era meglio limitarsi ad una versione francese che avrebbe forse avuto un mercato più ristretto, ma senza dubbio più sicuro e disponibile. Charlotte rimase al telefono un tempo che a Giulio C. parve infinito e, quando finalmente riattaccò, la vide piuttosto contrariata. «Problemi?» le chiese con sollecitudine: Lei gli espose come si erano messe le cose e poi gli rivelò: «Il guaio è che dovrò andare a Tunisi tra due giorni per perorare la mia causa. Non posso accettare che un lavoro così si riduca a un testo da utilizzare solo in qualche circolo esclusivo o in qualche scuola privata. Non è con questa intenzione che ho lavorato» concluse visibilmente alterata alzando la voce. «Allora non sarai qui per il 23, naturalmente» ne dedusse Giulio C. 75 «Evidentemente, no. Comunque, stai tranquillo, perché sarà questione di pochi giorni. Intanto puoi accompagnarli tu da qualche parte, mentre mi aspettate» suggerì. E, infatti, così fu. I primi giorni trascorsero un po’ sottotono, anche se la simpatia di Stavros e Irene e il suo ruolo di accompagnatore non gli consentivano di lasciar entrare nella sua mente troppi pensieri cupi o malinconici. Dopo essere stati a Treviso, che incantò i coniugi greci con le sue rogge e la sua aria così signorilmente riservata, andarono a Padova, dove Giulio C. era di casa. Infatti, incontrò qualche collega che fu felice di presentare agli amici. Si fermarono al Pedrocchi per un aperitivo, prima di proseguire per il Prato della Valle. A conclusione di quella giornata, tornati a casa, furono raggiunti dalla telefonata di Mara che, da quando il figlio le aveva comunicato l’arrivo della coppia di amici, non vedeva l’ora di conoscerli e averli tutti a cena da lei. Sarebbe stata una serata perfetta se ci fosse stata anche… «E, Charlotte, no la ghe xè?» si informò subito Mara, accorgendosi contemporaneamente dall’espressione del figlio, di aver toccato un nervo scoperto. «È a Tunisi per lavoro» la informò, mentre cercava di non guardare la madre negli occhi. Mara, da donna intelligente qual era, fu pronta a cambiar discorso. Quando poi, due giorni dopo, anche Charlotte si unì a loro, sembrò che ogni ansia, ogni dissapore, si fossero dissipati. Ma Giulio C., che di lei conosceva ogni minimo cambiamento d’espressione, continuò a provare un affanno che gli prosciugava il cuore. Così, il soggiorno italiano di Stavros e Irene si concluse con una stupenda gita al lago di Garda in una giornata che pareva 76 fatta apposta per fargli rimpiangere la vacanza, il paese, gli amici. Nei mesi seguenti, Giulio C. si sorprese più volte ad osservare di sottecchi la moglie: cercava di verificare se nei suoi occhi ci fosse ancora quella luce che lo aveva abbagliato cinque anni prima. Ma dovette purtroppo convincersi che, a volte, delle nubi la offuscavano. «Charlotte, capisco che per te il tuo lavoro sia importante, ma ritieni che conti anche più di noi, del nostro matrimonio?» non poté fare a meno di chiederle un giorno in cui la vide più tesa del solito. «Ma che domanda mi fai?» si stupì lei, quasi sobbalzando, colta alla sprovvista. «Non puoi negare che da qualche tempo sei preoccupata, in ansia, sembri stressata. Vorrei aiutarti, in qualunque modo, se me ne dai la possibilità» cercò di tranquillizzarla. «Grazie dell’aiuto che mi offri, ma nessuno, tranne me, può far niente» gli rispose con un senso di scoramento. «Ti prego non parliamone più» concluse, dopo una breve pausa, mentre lui le si avvicinava per abbracciarla. Quando Charlotte si sentì stretta nella sua forza e nel suo amore, si rilassò ricambiando il suo abbraccio mentre gli occhi liberavano quelle lacrime che da tanti giorni le bruciavano dentro. Anche se cercava di trattenersi, non poté impedire a qualche singulto di scuoterla. Colpito da quell’emozione irrefrenabile, Giulio C. si sciolse dall’abbraccio per guardarla in viso. «Allora è davvero grave!», disse, non sapendo se cercare di rincuorarla con la comprensione o cercare di alleggerire quella tensione con un tono un po’ faceto. Charlotte continuava a piangere in silenzio, cercando disperatamente un kleenex nella borsetta posata su una sedia. Quando, finalmente, riuscì a calmarsi, sembrò davvero più scarica, come le nubi sgonfie e sbiadite, dopo un temporale. 77 A letto, quella sera, Giulio C. le si avvicinò con uno struggente desiderio di darle, oltre ai piaceri dell’amore, tutta la sua comprensione, tutto il suo appoggio, ma nello stesso istante in cui lei si sentì sfiorare dalle sue mani, si ritrasse. «No, ti prego, Giulio, per favore, non potrei proprio. Abbi pazienza, scusami, ma non me la sento.» lo respinse. Giulio C. restò come fulminato: era la prima volta che succedeva e lui non ne capiva il motivo. Non si risentiva di quel rifiuto nella sua qualità di maschio, quello che lo inquietava era questa ferita nel loro rapporto, che lui credeva inossidabile e che era una spia di una crisi da ricercare chissà dove. Restò per un po’ immobile, cercando di assorbire e neutralizzare in qualche modo quel pugno nello stomaco che le parole di Charlotte gli avevano sferrato. Quando si rese conto che non avrebbe potuto dormire, si tirò a sedere sul letto e accese la luce sul comodino. «Credo che dobbiamo parlarci senza falsi pudori e senza peli sulla lingua» le propose con una voce così seria e profonda come mai prima lei l’aveva udita. Charlotte si voltò verso di lui e si mise anche lei a sedere, con la schiena appoggiata agli enormi cuscini che facevano da testiera. «Chi è?» sparò a bruciapelo Giulio C. Come colpita da un proiettile, Charlotte sbiancò e abbassò il capo. «Chi è?» ripeté questa volta con la voce leggermente incrinata da un misto di rabbia e angoscia. «No, Giulio, non è come credi, davvero» «E cosa credo io? Come fai a sapere cosa penso, se da un po’ di tempo non fai che scappare da una parte all’altra del Mediterraneo?» le buttò addosso, cercando a fatica di moderare il volume della voce. 78 «Sei il tipico maschio italiano che pensa che solo un altro uomo possa fargli allontanare la moglie?» gli fece eco lei, puntandogli in faccia gli occhi dardeggianti. «Per favore, Charlotte, non ripariamoci dietro agli stereotipi: non siamo i tipi», si sentì risponderle, mentre la sua mente rincorreva le parole di lei con una differente ma angosciosa incertezza. «No, non c’è stato un altro, non … non so…», sussurrò, coprendosi il volto con le mani. «Non sono andato troppo lontano dal bersaglio, allora. Cosa vuol dire non so…? Che non ci sei ancora andata a letto? Cosa vuoi, il mio permesso? Godrai di più quando lo scoperai, sapendo che io lo so?» le urlò in faccia con la voglia di ferirla. «Per favore, Giulio, non diventare volgare, non credo di meritarlo» fu la sua risposta. «Scusami» si sentì in dovere di concederle,» ma forse non ti rendi conto di cosa significhi tu per me, del terrore che ho di perderti» disse quasi sillabando le parole. «Se da qualche tempo ti vedevo cambiata e non ho mai detto niente, è perché speravo sempre che saresti stata tu a dirmi qualcosa, a parlarmi. Non ci siamo mai nascosti nulla, no? E allora, quali colpe ho commesso, cosa ho fatto per arrivare a questo?» «Ma tu non hai fatto niente, non hai nessuna colpa. Ci sono delle cose che succedono anche senza che noi le vogliamo» gli rispose, guardandolo negli occhi con assoluta fermezza. «E allora, arriviamo al dunque..Chi c’è, cosa c’è che ci sta allontanando, anzi, ti sta allontanando?» volle precisare. «Non è facile, Giulio, parlare di certe cose. Tu sei sempre stato il migliore in tutto: con me sei sempre stato comprensivo, disponibile, presente…» «D’accordo,» tagliò corto «questo è dritto della medaglia, ma ci sarà un rovescio suppongo…» la invitò deciso. 79 «Non c’è un rovescio» rispose prontamente Charlotte «Non sei tu ad essere in discussione. Vedi, da quando ho cominciato a lavorare alla casa editrice, è come se un vento col suo soffio avesse disperso la sabbia che ricopriva le mie radici. Ho riscoperto un mondo al quale non pensavo più di appartenere. Anche quando siamo stati in vacanza in Tunisia, in fin dei conti mi interessava e mi piaceva risentire la mia lingua, la lingua della mia infanzia, ma era come se io fossi al di qua di quel mondo, come se lo guardassi con la lente della nostalgia o del ricercatore. Ma quando ho cominciato a scrivere, ad avere rapporti di lavoro con quell’ambiente, me ne sono sentita coinvolta totalmente. Mi ci sono ritrovata dentro con la stessa sensazione con cui calzi un paio di scarpe fatte su misura per te. Ho capito che, forse, quella è la mia vera dimensione.» Fece una breve pausa per guardarlo, per rendersi conto dell’effetto prodotto dalle sue parole. «Per questo» continuò «quando conobbi Maurice…» Quel nome maschile fu per Giulio C. un’esplosione atomica. «L’hai detto finalmente» sbottò «Che bisogno avevi di fare quell’inutile prologo, quando bastava dire «Mi sono innamorata di un altro, di Maurice» le urlò sul viso. «No, calmati, Giulio» lo invitò lei «Lasciami finire, non semplificare tutto, come se fosse un copione già scritto. Ti stavo spiegando che, quando a Tunisi, conobbi Maurice, alla casa editrice, il trovarmi bene con lui a parlare, a lavorare, mi parve più che naturale, perché avevamo interessi comuni, perché faceva parte di quel mondo, di quella società nella quale mi stavo lasciando trasportare. Se anziché Maurice si fosse trattato di un altro o anche di una donna, non avrebbe fatto differenza, pensavo, perché non c’entrava assolutamente nulla con l’amore o con il sesso. Solo la frequentazione assidua di questi ultimi tempi, lavorare insieme, uscire a cena, talvolta, confrontarci su temi e questioni della nostra terra» (quel nostra non lasciò indifferente Giulio C.) «ci ha molto avvicinati e 80 soltanto allora ho capito che forse Maurice non era solo un ottimo collega» concluse come svuotata. «Non c’è proprio niente che possa fare per riprenderti?» le chiese con trepidazione. «Giulio, non so, non so più niente. Comunque, anche se so di non essergli indifferente, a Maurice non ho rivelato nulla dei miei sentimenti e della crisi che sto attraversando» confidò con un soffio. Poi un sipario di plumbeo silenzio calò su di loro a separarli con la sua inconsistente pesantezza. Ciascuna delle due anime si arroventava in pensieri contrastanti e contrapposti. Quando a Giulio C. non parve più possibile resistere oltre a quel tacito gravame, le propose: «Che ne dici se cerchiamo di parlarne domattina?» «Come vuoi» fu la laconica risposta di Charlotte. Spenta la luce, ognuno si trovò di fronte ai propri dilemmi, alle proprie paure. Ascoltavano reciprocamente il respiro vigile e l’insonne voltarsi e rivoltarsi, ma le loro labbra restavano mute. Qualche ora di un sonno agitato e leggero concesse loro un po’ di tregua. Quando per primo Giulio C. aprì gli occhi, si soffermò ad accarezzare con lo sguardo i lineamenti di Charlotte, che ancora dormiva. In silenzio si alzò e scese a preparare la colazione. Sapeva che alla moglie piaceva sentire il profumo del caffè al risveglio. Prese un vassoio, vi posò tutto l’occorrente ed entrò nella camera proprio mentre lei stava aprendo gli occhi. Incontrando quelli del marito, Charlotte accennò ad un sorriso che, anche se un po’ tirato, non gli dispiacque. «Buongiorno» le augurò dolcemente, posando il vassoio sul comodino. 81 «Buongiorno. Grazie» lo ricambiò, mentre lui sedeva sul letto accanto a lei. Nessuno dei due riusciva a trovare le parole giuste per riprendere il doloroso dialogo interrotto la sera prima. Finalmente, Giulio C. trovò la forza per cominciare. «Allora, Charlotte, cosa pensi di fare?» ma proprio mentre lei stava per rispondere, suonò il suo telefono. Allungò il braccio e, trovato l’apparecchio sul comodino, «Pronto!» rispose con la voce ancora appannata dal sonno appena svanito. Quando Giulio C. vide il cambiamento della sua espressione e sentì come si addolciva la sua voce ad ogni parola, comprese che non c’era più bisogno di aggiungere altro, che la loro storia era già finita. Non sopportando di essere muto e scomodo testimone di quella conversazione, uscì sentendosi come un guerriero sconfitto che lascia il terreno dello scontro. Mentre scendeva, sentì però la moglie parlare in una lingua piena di suoni aspirati che la rendeva ancora più sexy e desiderabile. Quando lo raggiunse in salotto, Giulio C. cercò, scrutandone il viso, di capire cosa stesse provando: impossibile penetrare in un’espressione così chiusa ed enigmatica. Lasciatisi sedere pesantemente su una poltrona, Charlotte lo guardava come se i suoi occhi gli passassero attraverso, come se stessero vedendo ciò che stava dentro e oltre il marito. «Dunque, il grande amore per l’arte, la cultura, la civiltà dell’occidente che ti ha incantata e portata a vivere a Firenze si è dunque già dissolto?» la interrogò, mentre pensava con rimpianto al loro primo incontro. «E perché? No, Giulio, non pensare che sia un’integralista, che il mio sentirmi islamica sia inconciliabile con tutto ciò che ho studiato e amato e che amo ancora, invece. Riconosco tutto quello che di grande l’occidente ha prodotto nei secoli, che è degno del più profondo rispetto. 82 So bene che c’è chi vorrebbe contrapporre le due sponde del Mediterraneo in uno scontro epocale, ma io credo che questo, se si verificasse, sarebbe solo una rovina e una sconfitta per entrambi. Se io ho riscoperto la cultura delle mie origini, questo non mi rende nemica della cultura e della civiltà dell’Europa. Come del resto» aggiunse subito «non ti ritengo un nemico…» «Già,» si inserì con amara ironia, «ma ora non sono più l’elemento centrale del tuo mondo, ma un semplice accessorio sempre più ingombrante» Charlotte si alzò e andò alla finestra che si apriva su uno scenario di verde che l’autunno ormai ingialliva o arrossava con la sua tavolozza di caldi colori. E mentre si immergeva in quel paesaggio, trovò la forza di continuare: «Vedi, Giulio, se io non provassi più nulla per te, non avrei motivo per essere tanto angosciata, sarebbe facile scegliere senza voltarsi indietro. Invece, no, tutto è complicato dal fatto che non posso fingere che tu non ci sia, che tu non sia più nulla per me. Come potrei cancellare questi anni così pieni, così ricchi… Io ti voglio ancora bene e questo, purtroppo per me, rende tutto così maledettamente difficile» concluse voltandosi verso di lui, mentre un brivido improvviso la scuoteva e la portava ad avvicinarglisi. Giulio C. non poté trattenersi dal prenderla tra le braccia e stringerla con tutte le sue forze. Lei cercò la sua bocca e cercò in quel bacio una risposta alle sue angosce, alle sue incertezze. «Vorrei amarti, Giulio, voglio amarti» gli sussurrò. Quelle parole furono per lui peggio di un rifiuto. Con una dolcezza che gli costò uno sforzo immane, la scostò e, guardandola negli occhi: «NO, Charlotte» sentenziò «l’amore non può ubbidire ad una volontà razionale, non c’è scelta. Non si può voler amare: o si ama e basta o non c’è alternativa». 83 Anche per lei era chiaro che tra loro non poteva esserci ormai che un addio, anche se questo taglio rappresentava la fine di una parte di lei stessa e della sua vita. Ancora alcuni giorni vissuti ai margini l’uno dell’altra e poi… Mara, con quella finissima sensibilità femminile, si era accorta, dopo soli pochi giorni dalla partenza di Charlotte, che qualcosa era cambiato, ma la lettera che lei le spedì due settimane dopo, la rintronò. “Mara carissima,” le aveva scritto “tu che mi hai accolto con una generosità e un affetto che non erano motivati solo dall’amore di tuo figlio per me, tu che tante volte ho sentito vicina come una madre, tu non potevi certo prevedere il dolore che ti avrei dato. A te e a Giulio. Questa mia assenza non è come tutte le altre, non è una momentanea lontananza, in attesa di un ritorno. Quando sono partita, sono stata troppo vigliacca per dirti addio, guardandoti negli occhi. Già mi era costato tanto salutare Giulio, che la mia capacità fisica e psicologica di sopportazione del dolore altrui era completamente esaurita. Però non posso più ora fingere con me stessa e non cercare almeno di spiegarti perché vi ho lasciati. Io ho amato tanto e davvero Giulio, credimi, e ancora provo per lui un affetto speciale, ma quello che pensavo appartenesse solo al mio passato, ai miei ricordi d’infanzia si è invece rifatto vivo. Le mie radici etniche e religiose sono rispuntate con una forza che mi ha stupita. E poi…e poi…Perché è tanto difficile anche da scrivere quello che sarà per te come un coltello affilato nelle carni? Ma tu hai già capito, senza dubbio: ho conosciuto un ragazzo della mia terra, uno che ho subito sentito come parte di me stessa. E contro questo sentimento non ho potuto lottare. Anche se la ragione cercava di parlarmi, il cuore urlava più forte. Non ho mai tradito Giulio, però, questo non avrei mai potuto farlo, ma non posso ingannare lui e me stessa (per non parlare di Maurice), fingendo un amore che è cambiato in modo tanto profondo e radicale. 84 Non odiarmi, ti prego, e perdonami, se puoi. Charlotte P.S. Se vorrai, puoi far leggere questa lettera a Giulio, il cui ricordo è e sarà sempre con me. “ Ci volle più di un mese, perché Giulio C. si rendesse conto che il vuoto che lo riempiva, il silenzio che esplodeva ogni volta che si trovava in casa, sarebbero stati la sua condizione permanente nei prossimi anni. Con un misero pretesto, un giorno Mara andò a casa dal figlio. Lo trovò al computer, la barba di parecchi giorni, un bicchiere di Whisky accanto al mouse. Senza dire una parola, lo abbracciò standogli alle spalle. Lui, senza un sussulto, lasciò la tastiera e strinse nelle sue le mani della madre. Ruotò la sedia e, alzandosi, le chiese: «Vuoi un caffè o mi fai compagnia con un goccio di questo?» accennò al bicchiere dal contenuto ambrato. «No, caro, no star a imbriagarte» fu la scontata risposta. Dopo un attimo di pausa, in cui parve che nessuno dei due possedesse le parole per abbattere quella barriera di dolore che, pur accomunandoli, li divideva, Mara chiese con un grido strozzato: «Ma perché, Giulio mio, stà disgrassia?» E, guardandolo dritto negli occhi, si rese conto che non c’era risposta. «No te lo meritavi, no doveva lassarte cussì. che dona, che mujer…» «Basta, ora, mamma» la interruppe deciso. «È stato un brutto colpo, sì. Adesso mi sento come se mi avesse travolto una valanga…» «Se ti vol qualcossa, fijo mio, dime, cossa posso far…» Con un sorriso quasi patetico cercò di consolarla. «Ma no, mamma, niente. Cosa vuoi fare? Ho il mio lavoro, tante cose da pensare, da fare. Supererò anche questo momento, dai!» e con un forte abbraccio si salutarono. 85 Non aveva certo avuto voglia né tempo di pensarci, ma anche quell’anno stava arrivando il Natale. Se ne accorse all’improvviso una sera in cui zappingando col telecomando, alla ricerca di un programma che lo interessava, vide passare alcune pubblicità tipicamente augurali. Subito la mente, con un balzo atletico, lo riportò al Natale dell’anno precedente e vide velocemente passare, come su uno schermo, le tante immagini della festa cui aveva invitato tutti gli amici più cari. Dimenticatosi del programma desiderato, spense la TV e si ritrovò in preda ad un desiderio di fuga: senza dubbio qualche amico lo avrebbe chiamato per fargli gli auguri e per sapere di lui e di Charlotte. Da masochista, avrebbe dovuto, dando qualche spiegazione, sottoporsi ad una serie di dolorose torture. Decise allora di giocare d’anticipo: telefonare lui per primo e inventare un viaggio che lo avrebbe tenuto lontano da casa giusto per una quindicina di giorni. Ovviamente doveva anche prevedere e prevenire le domande sulla moglie: forse avrebbe potuto raccontare che aveva avuto un impegno di lavoro e, come già altre volte era successo, era partita per Tunisi. Questo gli avrebbe evitato altre spiegazioni che a distanza di qualche mese, sperava, sarebbe riuscito a dare con maggior distacco e rassegnazione. Registrò sulla segreteria un messaggio augurale per chi lo avesse cercato e si lasciò vivere aspettando che quei giorni di convulsa frenesia che precedono le festività fossero archiviate nel passato. Trascorso con la madre un Natale intimissimo e sottotono, durante il quale dovette cercare di non lasciare troppo trasparire i pensieri e le angosce che lo turbavano, si era buttato a capofitto su ricerche e riletture classiche, pensando anche ad eventuali traduzioni di Senofonte, ad una biografia un po’ romanzata di Giulio Cesare o qualche altro personaggio protagonista della storia antica. 86 In una serata di vento freddo che sibilava anche tra le pur nuove imposte della casa e violenti scrosci di pioggia, mentre era immerso nella lettura del testo originale della Ciropedia, fu scosso dall’improvviso suono del campanello. Sulle prime, quasi quasi, era stato tentato di non rispondere, ma poi, la curiosità di sapere chi si azzardasse ad uscire in una serata come quella, lo fece muovere. «Chi è?» chiese, stupendosi nell’udire la sua stessa voce, che per tutto il giorno era rimasta inutilizzata. «Giulio, sono Marcello. Apri, per favore, fa un freddo bestia e sono fradicio.» Non aveva ancora finito di parlare, che già il portone era stato aperto e Giulio C. stava andandogli incontro per le scale. Da quando l’architetto si era trasferito nella provincia trentina, le occasioni per vedersi non erano state tantissime. «Ehi! Ma sei sicuro di essere proprio tu?» si stupì dapprima vedendo la lunga barba dell’amico. Scrollatosi di dosso un po’ d’acqua e toltosi il piumino, Marcello con foga si ritrovò stretto nell’abbraccio di Giulio C. Appena entrati in salotto, il padrone di casa lo osservò e, ostentando una normale tranquillità, gli chiese: «Ma che ci fai qui, a quest’ora e in una serata da apocalisse?» «Stavo tornando a Rovereto da Bologna, dove ho ultimato un progetto, e mi sono detto che era proprio il caso di fare una deviazione per venire a vedere come sta la mia casa. È stato uno dei miei lavori più riusciti.» si autogratificò. «Sì, hai ragione», confermò Giulio C. «anche se l’utilizzo forse poteva essere migliore.» Concluse con un sospiro, mentre prendeva due bicchieri e una bottiglia di Cartizze. Non gli sfuggì, comunque, l’espressione mesta di Marcello che, chinando il capo, cercava di nascondere gli occhi. Erano troppo amici perché Giulio C. non capisse che lui sapeva. «Chi te l’ha detto?» chiese, riempiendo i bicchieri. 87 «Cosa, chi doveva dirmi cosa?» tentò di fare l’ignaro. «Marcello, per favore, dai, chi ti ha detto di Charlotte?» lo sollecitò «E chi poteva parlarmene, secondo te? Chi altri lo sa, oltre a te e tua madre?» «Sei stato da lei o ti ha telefonato lei?» volle sapere. «No, veramente, è stata lei che, nel farmi gli auguri mi ha detto…» «Ti avrà pregato di venire a confortare il povero marito abbandonato» dedusse sarcastico. «Ti sbagli, Giulio» fu la pronta risposta «Lei non voleva che ti dicessi niente, se ci fossimo visti o sentiti. Sono stato io che non ho potuto fare a meno di venire per cercare di…» «Consolarmi, come si fa con un bambino che, se perde un giocattolo, si cerca di dirottare la sua attenzione su un surrogato» terminò con una amarezza glaciale. «Sei ingiusto e spietato anche verso te stesso. La nostra amicizia non è un surrogato di niente e, se non credi che condivida il tuo stato d’animo di questi momenti, non hai proprio più alcuna fiducia nel valore dell’amicizia vera.» si risentì Marcello. «Scusami» gli rispose stringendogli un braccio «allora puoi ben capire come ora per me sia tutto nero, inutile e assurdo. Grazie, invece, per questa improvvisata. Io non avrei avuto la forza di cercare nessuno, ma ora che sei qui, mi sento più tranquillo. Mi fa bene la tua presenza, la tua comprensione e solidarietà.» gli confidò con grande sincerità, accennando ad un brindisi. E d’improvviso ebbe voglia di sfogarsi, di parlare, non tanto per ricevere parole di conforto, quanto piuttosto per diminuire la pressione che gli si era gonfiata dentro in tutti quei giorni e che ormai l’avrebbe fatto esplodere in qualche gesto improvviso. 88 Cominciò a raccontare, quasi fosse una confessione e parlò fino a sfinirsi. «Ora mi pare quasi di averlo sempre saputo che non sarebbe durato per tutta la vita, ma non pensavo che la causa sarebbe stata questa. Così come io mi avvicinavo al suo mondo islamico, credevo che anche lei si fosse ormai identificata almeno un po’ con la nostra cultura o, quantomeno, ci si sentisse pienamente a suo agio.» Terminò, finendo anche di vuotare il bicchiere. Stava per riempirlo di nuovo, quando l’amico gli posò la mano sul polso: «No, Giulio. La soluzione ai problemi non è mai il vino. In fondo ad una bottiglia puoi trovare solo un mal di testa feroce che il giorno dopo ti dilania anche il fisico. Senti, perché non vieni con me qualche giorno? Devo andare a Tarquinia per un lavoro importante. È una zona bellissima che certo conosci meglio di me…» «Ci ho anche lavorato, al tempo della specializzazione. Con l’equipe di studio ho scavato una tomba. Il professor Farinelli fece un colpaccio: trovammo una grande camera, di una famiglia importante, con un corredo integro di buccheri in perfetto stato di conservazione e dei gioielli favolosi. Ci scrisse anche una pubblicazione notevole, ricordo.» Quell’accenno agli etruschi lo aveva riportato di colpo ai suoi primi impegni come archeologo e si rivide, pieno di entusiasmo e aspettative, con ancora davanti tanti anni che, era sicuro, gli avrebbero portato successo professionale, fama e … amore? Ma quando mai! Non che allora non pensasse a una compagna, ma era come se quell’argomento se ne stesse un po’ in disparte tra i suoi altri desideri Pareva quasi, a pensarci ora, una sorta di inconsapevole autodifesa preventiva. «E allora, Giulio, cosa mi dici? Ti va di fare questa scappata?» lo riscosse d’improvviso la voce dell’amico. «Perché no?» rispose «Sarà un piacere e forse anche una sorpresa, bella, spero, rivedere gli oggetti ritrovati allora collocati al museo.». 89 «D’accordo. Allora passo a prenderti dopodomani» stabilì Marcello. «E ora che fai? Te ne vai sotto questo diluvio furibondo fino a Rovereto?» gli chiese Giulio C. «Ma fermati qua e riparti domattina, almeno ci sarà la luce, se non proprio un tempo migliore» lo invitò. «Beh! Grazie Giulio. Prendo la borsa in macchina e poi ci diamo la buonanotte.». Prima di dormire, parlarono ancora a lungo, rievocando i tempi del liceo, i compagni, tanti episodi che li avevano visti insieme e che erano un forte collante per il loro rapporto. «E il lavoro, come va?» si informò Marcello «Stai facendo qualcosa di particolare?» «No, per ora no «rispose «ma avrei in mente di scrivere una specie di biografia a puntate su un grande, che so? Giulio Cesare o Augusto. Mi piacerebbe rinchiudermi in un isolato rifugio dove nessuno mi potesse raggiungere, stare da solo, lontano da tutti, senza telefono e come unica compagnia della bella musica». «Hai trovato la lampada di Aladino, per caso?» si stupì Marcello. «Cosa vuoi dire?» «Ho appena ristrutturato una casetta in uno sperduto paesino sopra Trento, all’incirca. Io non so quando avrò il tempo di godermelo, ad ogni modo se ti piace, puoi andarci quando e finché vuoi.» «Dici sul serio?» «Assolutamente. Facciamo così: quando vuoi, facciamo un salto e ti mostro il mio eremo.» gli propose. «Ne sarò felicissimo. Grazie. Sei proprio un amico.» «Te ne sei accorto solo ora?» La luce grigia del primo mattino li trovò un po’ frastornati ma desiderosi di un caffè e di fare qualcosa. 90 La nera bevanda fu una sferzata di ulteriore vitalità. Anche il tempo pareva essere dalla loro parte: il cielo, quella coperta cinerea, si andava strappando qua e là, facendo squillare note di un azzurro da porcellana. «Devi proprio tornare a casa?» chiese speranzoso Giulio C. «non puoi partire addirittura da qui, che siamo più vicini?» «Purtroppo devo andare a prender dei documenti, delle carte, dei progetti» si giustificò Marcello «Però potresti venire tu a Rovereto con me, così partiamo direttamente da lì domattina.» «Quanti giorni pensi di trattenerti a Tarquinia?» si informò «Sai, io devo riprendere l’università il dieci» «Non temere, che saremo certo a casa per quella data». Buttati alcuni cambi di biancheria e qualche altro indumento nella capiente borsa da viaggio, chiusero casa. Passarono a salutare Mara che, da un lato si sorprese nel veder partire il figlio, ma dall’altro fu felice nel vederlo più sollevato e, soprattutto, con qualche interesse che lo sollecitava di nuovo. Il viaggio si rivelò piacevole e, stranamente, non ostacolato da ingorghi autostradali. Marcello guidava una potente BMW, dalla struttura enorme, cosa alla quale Giulio C., da sempre amante delle veloci e sportive Alfa GT, non era abituato. Indubbiamente, non dover guidare e il confortevole sedile, contribuivano a rendere il percorso disteso. Approfittando di un tratto di strada a velocità limitata, Marcello inserì un CD di Renato Zero che, a volume assai soft, era una colonna sonora adeguata alla circostanza. «Che ne dici?» gli chiese Marcello, dopo qualche minuto. «Io di musica leggera e cantautori non me ne intendo molto. Però, Zero mi sembra un buon musicista» rispose, cercando di stare nel vago. «Quello che io apprezzo in modo particolare di lui sono la poeticità dei suoi testi e il coraggio che dimostrano». 91 «Coraggio?» si stupì Giulio C. «Ah! Ti riferisci all’esternazione della sua omosessualità?» «Sì, anche, anzi, direi soprattutto quella» confermò il pilota. Per un po’ non parlarono e la musica accompagnò ciascuno dei due amici verso lontani pensieri. Quando Giulio C. si accorse di essersi avviato per un pericoloso sentiero mentale, che già tante altre volte gli era costato amarezza e rimpianti, ritornò al presente e, quasi con noncuranza, chiese: «Marcello, e tu a donne, come sei messo?». Volgendo lo sguardo alla sua sinistra, gli apparve evidente il sussulto dell’amico. Prontamente cercò di glissare con ironia: «Scusami, capirai ti ha parlato un vero esperto!» «Ma via, Giulio, lasciamo perdere l’altra metà del cielo» fu la caustica risposta dell’architetto. «Ma sì, hai ragione, pensiamo al nostro viaggio, piuttosto. Sai che la tua proposta di ospitarmi nel tuo rifugio mi ha accompagnato tutta la notte? Il sapere di avere un luogo nascosto dove rintanarmi mi entusiasma. Ma a te non serve per altri scopi… più …» «Ma va a ramengo!» lo tacitò con un mezzo sorriso. Chissà, non poté far a meno di pensare tra sé Giulio C., che anche lui sia in un momento critico, che sia stato lasciato? Sapeva bene, comunque, che l’amico non si era mai sposato, la qual cosa, però, non era incompatibile con qualche storia, magari finita male. Si fermarono a pranzare in una trattoria nei pressi di Vicenza, dove si trattennero un po’ a fare i turisti, invogliati anche da un bel sole. Quando arrivarono, l’auto si fermò davanti ad un villino dalla tipica architettura anni trenta, dalle linee razionali e dai colori puliti. Appena entrati, Marcello accompagnò l’amico nella stanza degli ospiti, su un lato della quale era accostato un enorme letto 92 matrimoniale in radica di noce, coetaneo senza dubbio dell’edificio. «Questo è il bagno» gli fece strada, aprendo una porta a scomparsa. Poi lo precedette in fondo al corridoio, dove si apriva la sua camera. Posò i bagagli e, mentre tornavano verso il salotto, Giulio C. si complimentò. «Architetto, ti sei proprio sistemato bene! È tutta tua questa valle?» chiese, indicando l’ampiezza della stanza, per intendere l’estensione della casa. «Sì, ci vivo da solo, se è questo che intendi» rispose sbrigativo. Decisero che avrebbero mangiato qualcosa lì, visto che ormai era quasi ora di cena. Mentre Marcello si destreggiava in cucina, Giulio C. fece una doccia. Prima di entrare nella cabina con idromassaggio, si soffermò ad osservarsi nello specchio a tre luci, che gli rimandava un volto al quale da un po’ di tempo non dedicava alcuna cura. Aveva lasciato crescer barba e baffi e ora, sotto l’impietosa e forte luce, si stupiva del nuovo aspetto, della nuova fisionomia che quei peli, alquanto brizzolati, gli conferivano. Decise che, tutto sommato, non gli dispiaceva il nuovo look che, però, forse, avrebbe potuto migliorare con un misurato ridimensionamento della barba. Meccanicamente, nel preparare in fretta il bagaglio, ci aveva messo dentro anche il rasoio elettrico, che pure era rimasto a riposo per parecchio tempo. Ora, però, se voleva rifilare i contorni di una barba alla spagnola, un rasoio a lama gli avrebbe fatto più comodo. Dopo essersi lasciato massaggiare dal getto dell’acqua, rivestitosi, si presentò in cucina per chiedere all’amico: «Marcello, non è che per caso hai un rasoio a lama?» Stupito della domanda inaspettata, si voltò verso Giulio C. e a sua volta gli chiese: «Che intenzioni hai?» 93 «Vorrei solo darmi una sistemata al pelo incolto» rispose accarezzandosi le guance e il mento. Rassicurato, Marcello, ritornando ai fornelli, lo informò che nell’armadietto del bagno avrebbe trovato sicuramente quanto cercava. Infatti, aperte le ante, sugli scaffali trovò non solo rasoi e lame, ma anche creme, dopobarba e un paio di forbici. Rimase un attimo sorpreso per quell’assortimento, ma ricordò subito la precisione e l’ospitalità pronta in ogni momento per cui Marcello era sempre stato famoso. Era la prima volta in vita sua che si cimentava con un lavoro del genere ed era curioso di mettersi alla prova come barbiere. Ci mise un po’, ma, dopo aver riempito il lavabo di una ispida nuvola grigiastra, dovette riconoscere che il risultato non era male. Ripulito il bagno e sentendosi rimesso a nuovo(almeno esteriormente), riapparve in cucina, mentre Marcello metteva in tavola una fumante polenta che avrebbero accompagnato con un sugo di salsiccia ai funghi, che il microonde stava scongelando. Colto di sorpresa, si fermò con il tagliere in mano. «Accidenti! E chi l’avrebbe detto che sotto quella pelliccia ci fosse un così affascinante personaggio! Se non fossi un vecchio amico, ti farei la corte!» «Idiota!» fu la sola parola che venne in mente a Giulio C., prima di cacciarsi a ridere. Si accorse, però, che invece Marcello non rideva affatto. «Non te la sarai presa, spero! Sentirmi fare una dichiarazione da te, mi ha messo di buon umore, nonostante tutto.» «Ma non è per l’idiota, che forse mi merito…» incominciò Marcello, ma si interruppe subito. Colto l’imbarazzo dell’amico, propose «Dai, mettiamoci a tavola, prima che la polenta diventi un blocco di cemento» 94 «Marcello, scusa, ma c’è forse qualcosa che non so, che vorresti dirmi…» cercò di stimolarlo. «Preferirei parlarne dopo cena, adesso ho una gran fame, se permetti» rispose sedendosi a tavola. Accompagnarono il saporito cibo con un pinot nero dal giusto invecchiamento e si sforzarono di mantenere il dialogo su argomenti quanto mai neutri e leggeri. «Vieni, passiamo in salotto» invitò il padrone di casa. «Ti va un sigaro?» chiese mentre apriva una scatola di lacca cinese, dalla quale si sprigionò un forte aroma di tabacco. «Grazie, da parecchio ho dimenticato che sapore ha un vero cubano» accettò Giulio C., rigirando tra le mani il crocchiante rotolo di tabacco. Marcello stava già sbuffando nuvole azzurrine che si dissolvevano attorno al suo viso. Nell’alzarsi per prendere un posacenere, apostrofò l’amico: «E allora, eccoci qua» esordì, sedendoglisi di fronte. «A quanto pare è giunto il momento della confessione» «Senti, Marcello, guarda che io non ti ho chiesto di confessarmi proprio nulla, se non vuoi. Un amico resta tale anche se di lui non conosciamo tutto». «No, no. Ci conosciamo da una vita ed è solo perché non ci possiamo vedere spesso, che non sappiamo tutto l’uno dell’altro. Ma sono proprio contento di quest’occasione, così inattesa, per poterci parlare senza censure». «Hai ragione. Ti ricordi quando, poco prima della maturità, avevamo progettato di riuscire a lavorare insieme, tu come architetto, cosa che hai sempre desiderato, e io come consulente artistico? Ma poi, ecco che ognuno incontra da qualche parte il proprio destino e ci si allontana, pur mantenendo aperto un legame affettivo e spirituale.» «E in questi anni» riprese Marcello» non ho incontrato solo il mio destino, ma ho anche capito veramente come sono, chi sono e cosa voglio.» 95 «Bingo!» esclamò Giulio C.» E ti pare poco?» «No, no per niente. Infatti ora mi sento veramente bene con me stesso e con gli altri» Date un paio di tirate al sigaro, Marcello propose un goccetto di una grappa speciale, morbida morbida che avevano distillato personalmente dei suoi amici e che lui aveva provveduto ad aromatizzare con numerosi rametti della ruta che coltivava in giardino. Giulio C. aveva la sensazione che l’amico cercasse tutti i pretesti possibili per ritardare quanto più poteva la sua rivelazione. «Vada per il goccetto. Grazie» accettò, mentre finiva di gustare il suo sigaro. Forse fu proprio l’acquavite che fece trovare a Marcello le parole giuste per cominciare. «Insomma, Giulio, è inutile che io ci giri intorno. Da alcuni anni ho scoperto, ho capito di essere omosessuale. Ah! Alla buon’ora; adesso lo sai» e si scolò d’ un fiato quanto restava nel bicchierino. A Giulio C. il sorso di grappa che stava deglutendo andò per traverso e tossì fino a diventare cianotico, prima di ripristinare nella trachea il giusto tiraggio dell’aria. «Non credevo che la mia confessione ti avrebbe fatto un effetto così esplosivo» commentò l’architetto. «Scusami, ma è stata una sorpresa troppo…inaspettata» si giustificò «Capiscimi, ho avuto un attimo di defaillance» e anche lui scolò l’ultimo goccio di liquore. «Quindi era questo che ti tenevi dentro?» gli chiese. «Già…non sapevo come l’avresti presa» «E come dovrei prenderla? Non sei né il primo né l’ultimo, anzi, direi che sei in buona compagnia. Quanti artisti, musicisti, scrittori…» fu il primo commento di Giulio C. «Per non parlare poi della storia, del mito classico… Lo sai anche tu che per 96 greci e romani, l’omosessualità era considerata normale nell’educazione sentimentale.» «Sì, ma ora non siamo più in quei tempi e ti assicuro che, all’inizio, ho avuto qualche problema. Però, ad essere sinceri, il vero problema e la crisi esistenziale l’ho avuta prima di rendermi conto della mia vera natura, quando, giovane e aitante, ero circondato da belle ragazze, verso le quali, ti dirò, non nutrivo né indifferenza né odio. Anzi! Ho avuto alcune storie, finite più o meno in breve tempo, con donne splendide e intelligenti. Era anche piacevole portarle a letto, il difficile era sentirsi sempre in sintonia con loro o viceversa, più spesso, cercare da parte loro una comprensione, una condivisione profonda di ogni esperienza, di ogni emozione. Ti ripeto, non erano né delle bonazze stupide, né delle raffinate vogliose, erano donne…donne assolutamente in regola con tutto, anche con il quoziente d’intelligenza e dalla personalità decisa. Ci si poteva parlare di tutto, eppure…» «Eppure» si inserì Giulio C. «ti mancava qualcosa, non sentivi pienamente soddisfatto il tuo desiderio di unione, forse». «Eh sì, più o meno questo. Mi pareva che loro si aspettassero da me qualcosa, sempre, qualcosa… Ma anch’io avrei voluto da loro qualcosa. Ma com’è complicato da spiegare. Ecco perché si parla del mistero del sesso. Se fossimo come gli animali, quanto sarebbe più naturale, istintivo e, quindi, semplice. Invece, no, noi razza umana, abbiamo sviluppato, evoluto in tante migliaia di anni, un cervello che ci obbliga a pensarci, a capire,al quale dobbiamo render conto.» «E adesso, allora, tutto chiarito?» volle sapere Giulio C. «Sì, ora ho un amico, un ingegnere nucleare, che, spesso, condivide con me un po’ del suo tempo. Il materiale che hai trovato in bagno è roba sua» lo informò Marcello. «Quando ci vediamo, facciamo delle lunghissime, liberatorie chiacchierate. Con lui non ho bisogno di dimostrare sempre la mia virilità. 97 Stiamo benissimo: a volte, amici, a volte, quasi fratelli, a volte…amanti» finì, schiacciando il sigaro nel posacenere, prima di riprendere. «Vedi, quello che non sopporto è che per la gente comune io non sarei altro che un finocchio, un culattone come quelle checche tutte smorfie e mossettine, che, magari, nell’intimità, si travestono anche da donne e diventano delle patetiche maschere. Io non mi sento così, non vorrei mai essere una donna, né che lo fosse Andrea» terminò accalorandosi. «Ho capito benissimo, Marcello, non importa che ti scaldi. Stai parlando con me, mica con chissà chi» cercò di tranquillizzarlo. Buttato un occhio all’orologio, Giulio C. vide che era passata la mezzanotte, pertanto propose di andare a dormire, visto che l’indomani doveva no mettersi in viaggio presto. Quando si ritrovò al buio, però, Giulio C. ripensò al colloquio avuto con l’amico. «E chi l’avrebbe mai detto…Marcello» commentò tra sé. «Però, deve essere stata davvero dura riuscire a capire di essere così.» Si rese conto, a quel punto, che esisteva tutto un mondo di cui non conosceva praticamente nulla: gli omosessuali e, comunque, anche la recente rivelazione di Marcello non cambiava affatto l’opinione che aveva dell’amico, al quale doveva, tra l’altro una infinita gratitudine per averlo aiutato ad uscire dall’abisso di depressione nel quale si stava lasciando andare. Scivolato, per la prima volta dopo tante settimane, in un sonno veramente ristoratore, al mattino fu svegliato da un gradevole e morbido aroma di caffè. Quando fu pronto e uscì dalla camera, trovò Marcello seduto in cucina, davanti ad una colazione completa: caffè, fette tostate, formaggi, burro, marmellate e succhi di frutta. 98 «Buongiorno! Te la tratti bene, complimenti!» esordì, mentre gli si sedeva di fronte. «Buongiorno! Dormito bene?» gli chiese porgendogli una fumante tazza di caffè americano. «Sì, me la tratto bene, quando posso, il che capita di rado, purtroppo.» La giornata si preannunciava fredda ma serena, quando si misero in viaggio alla volta di Tarquinia. Avevano davanti tanti chilometri, ma la confidenza e l’amicizia, che ora più che mai li univa, contribuirono ad abbreviare il percorso. Anche quando percorrevano qualche tratto in silenzio, sapevano di potersi capire, di potersi fidare reciprocamente, di non essere soli. Arrivati nei pressi di Bologna, Giulio C. chiese: «Ti dispiace se facciamo una deviazione ed evitiamo di sfiorare Firenze?» Non occorse che un secondo a Marcello per capire il motivo di quella richiesta, per cui propose: «No, di certo no. Possiamo uscire prima di Prato e prender per Lucca, proseguiamo fino a Livorno e poi inforchiamo l’Aurelia. Sarà un po’ lenta e incasinata, ma senza dubbio anche molto più panoramica. Arrivarono ancora in tempo perché l’avaro sole invernale gli permettesse di apprezzare il caldo colore del cotto degli antichi palazzi. La fredda serata che seguì il tramonto non invogliava certo a stare all’aperto, comunque Marcello accompagnò volentieri l’amico fino alla piazza su cui si trovava il Museo archeologico, che il giorno dopo Giulio C. avrebbe passato al setaccio. Così, infatti, mentre l’architetto era impegnato con sindaco e assessori vari, lui poté aggirarsi per le sale del museo. Le numerose vetrine gli offrivano orgogliose i tanti reperti che per lui non avevano segreti, ma che, pure, ogni volta che li ammirava, lo sorprendevano con sensazioni e pensieri sempre nuovi. Di questo si rallegrava con se stesso: di non avere perso, nei lunghi anni di studio e attività sul campo, la capacità di osservare e scoprire sempre qualcosa di diverso. 99 Osservando le teste dei famosi cavalli, gli pareva di sentirne il respiro, di poter cogliere la vivacità del loro sguardo. «E qual è il tuo compito qui?» chiese a Marcello, quando si ritrovarono per il pranzo. «Si sta progettando un ampliamento e la ristrutturazione del Museo, per renderlo più funzionale, moderno e sicuro.» rispose con una punta di orgoglio. «Bello!» esclamò con entusiasmo. «E hanno dato a te l’incarico?» «Beh! C’è stata, ovviamente una gara d’appalto e il mio studio si è aggiudicato il lavoro». «E per quanto riguarda poi la nuova sistemazione dei reperti?» s’interessò Giulio C: «Questo, naturalmente, sarà compito del direttore, non so se d’intesa col soprintendente. «E chi è il direttore?» si informò «Il professor Martinelli». «Giovanni Martinelli? Noo!» esclamò al colmo della sorpresa. «Lo conosci?» chiese incuriosito a sua volta Marcello «Siamo stati in un certo senso compagni di studi all’università. Non ci siamo frequentati molto, a dire il vero, ma abbiamo frequentato alcuni seminari insieme.» Spiegò all’amico, mentre gustavano una porchetta profumata di erbe selvatiche. «Già allora si vedeva, comunque, che lui era più interessato alla politica dell’arte che all’arte vera e propria. Ad ogni modo, era uno in gamba: aveva le idee chiare e sapeva essere al tempo stesso anche un abile diplomatico, oltre che un esperto.» «Se vuoi, domani accompagnami al museo, così ti fai una rimpatriata con il vecchio compagno.» Gli propose. Giulio C. non si lasciò sfuggire l’occasione. 100 Quando furono introdotti nello studio del direttore da un giovane dipendente, non fece fatica a riconoscere, nonostante una vasta calvizie, il suo coetaneo. Era, senza dubbio ingrassato, forse anche a causa del lavoro prevalentemente sedentario; tuttavia i lineamenti sottili ma decisi erano rimasti gli stessi. Dopo aver salutato il padrone di casa, Marcello stava per presentargli l’amico che era con lui, ma Giulio C. lo precedette. «Tra noi non c’è bisogno di presentazioni ufficiali, non è vero Martinelli?» Lo sguardo puntuto del direttore si concentrò sul viso di Giulio C. ma si vedeva che, pur aprendo tutti i cassettini della memoria, non trovava niente che lo collegasse a quel personaggio con tanto di barba e baffi abbondantemente imbiancati. «Chiedo scusa» si giustificò «ma pur notando qualcosa di vagamente conosciuto, non riesco ad associarvi un nome o un luogo.» «Nemmeno se ti dico Padova, fine anni 60, università, professor Menabrea…» e stava per proseguire con altri indizi, quando il dottor Martinelli fu come folgorato: «Erneti!» esclamò «Già, sei proprio tu! Ma come potevi pretendere da uno così poco fisionomista come me, che ti riconoscesse dopo tanti anni,e, soprattutto, sotto quel pelo sul viso?!» cercò di assolversi per il mancato riconoscimento. «Anche se ti ho visto di recente in televisione e su alcuni giornali, ora sei così cambiato! A proposito, complimenti per il tuo successo letterario. Vai alla grande!» riconobbe con sincera ammirazione. «Grazie, detto da te, è un complimento alquanto importante» rispose. «Del resto» proseguì Martinelli «c’era da aspettarselo da te che ti saresti elevato al di sopra di tutto, storia e leggenda, con la tua immaginazione e creatività. Ricordo ancora, ai seminari 101 di Menabrea, quando, partendo dallo studio di oggetti e fatti che erano sotto gli occhi tutti, tu riuscivi ad elaborare ipotesi e dar voce a riflessioni cui nessuno avrebbe mai pensato. Hai sempre saputo coniugare il rigore dello storico, dell’archeologo, con la fantasia del narratore». Lievemente imbarazzato da tali elogi, Giulio C. cercava le parole più adeguate e sincere per contraccambiare in qualche modo. Fu lo stesso Martinelli che lo tolse dall’imbarazzo, rivolgendosi a Marcello: «Architetto, se non le dispiace, vorrei che discutessimo subito dei lavori, perché tra non molto» e diede una fugace occhiata al Rolex Cellini che aveva al polso «dovrei recarmi in campagna, in una nuova zona di scavi». Quell’ultima parola riaccese una spia che catalizzò l’attenzione di Giulio C. «State portando alla luce qualcosa?» si informò ansioso. «Abbiamo appena sottratto ai tombaroli una sepoltura del V secolo.» Fu la pronta risposta del direttore. «Anzi, guarda un po’ che felice circostanza, venite a vedere anche voi. Tu, Erneti, penso sarai felice di discender nell’oltretomba etrusco, dopo tanto tempo!» «Non immagini quanto!» rispose con partecipata emozione. «Anzi, vi lascio subito alle vostre scartoffie burocratiche, così poi ci rechiamo sul sito.» Poco più di un paio di ore dopo, seguivano con la loro l’auto di Martinelli, che affrontava con disinvoltura le curve di uno sterrato,che aggirava il colle di Monterozzi. «Mi pare che ci stiamo allontanando dalla necropoli vera e propria» commentò Giulio C. proprio mentre si accingevano a fermarsi in una zona recintata nella quale ferveva una certa attività. Scesi dalla macchina, il direttore fece loro strada. Arrivarono sull’orlo di una vasta fossa, nella quale erano al lavoro alcuni giovani. 102 «Guarda, Erneti!» lo invitò «siamo arrivati appena in tempo, qualche settimana fa, per sorprendere due tombaroli che avevano saggiato la cavità della tomba e si apprestavano a scavarla e depredarla.» Muniti di alcune lampade, scesero nell’ipogeo. L’odore tipico della terra, del tufo e del chiuso che per tanti secoli avevano custodito il riposo di antiche anime, ridestò in Giulio C. nostalgici ricordi di gioventù. E riprovò ancora la sorpresa con cui aveva ammirato le decorazioni di un cratere attico di V secolo che lui stesso aveva recuperato e pulito. Gli pareva di vedere ancora le scene dei banchetti di cui quel magnifico esemplare doveva essere stato protagonista. Data la raffinatezza delle decorazioni, di una precisione ed eleganza non comuni, senza dubbio era appartenuto ad una ricca famiglia, cosa, del resto, testimoniata anche dalla grande dimensione della tomba e dal ricchissimo corredo funerario. «Allora, Martinelli», lo apostrofò Giulio C. «con tutto quello che avete trovato, avrete bisogno di ulteriori ampliamenti del museo, o no?» «Assolutamente» confermò il direttore, mentre sostavano nella prima camera, anche per abituarsi all’oscurità, solo sciabolata dai fasci di luce delle lampade. «Però, credimi» proseguì voltandosi verso di lui a sbarrargli il passo «il bello, lo stupefacente è ancora qui» «Cosa intendi dire?» lo sollecitò curioso Giulio C. «Preparati ad una scena sconvolgente» lo mise in guardia, mentre lo precedeva con la luce per offrirgli una visione adeguata delle pareti. Non appena anche Giulio C. fu entrato, si sentì mozzare il fiato: sulla parete di fronte a lui campeggiava una figura terrificante, un demone che aveva conservato tutto il vigore e l’impatto cromatico di un rosso fiammeggiante. Quasi impossibilitato ad esprimere qualunque impressione, restò attonito di fronte a quella visione, mentre Marcello, che 103 era rimasto sempre un passo dietro a loro, non poté trattenere un: «Cazzo! Che meraviglia!», poi, resosi conto della sua eccessività espressiva: «Scusate» ammise «ma non sono cose che vedo tutti i giorni !» Istintivamente, Giulio C. si avvicinò al dipinto: gli occhi di quel demone, ora, sotto l’effetto delle varie luci, parevano riprendere vita, aggredendo quegli intrusi che osavano dissacrare, con la loro presenza curiosa e indagatrice, un luogo che non gli apparteneva. «Che intorno agli occhi avea di fiamme rote» recitò come in trance. «Come dici?» chiese Marcello, scuotendosi dal timore estatico che lo aveva colto. «Dante? Come c’entra?» chiese «Già» gli rispose Giulio C. «Dante, così descrive Caronte, il traghettatore infernale.» «Complimenti, Erneti» intervenne pronto Martinelli «Anch’io ho subito pensato al suo omologo etrusco Charu». «Mi stupisce la vivacità, la modernità quasi fumettistica di queste figure» proseguì Giulio C. «Non ha niente a che spartire con la classicità, diciamo, delle altre tombe della necropoli vicina. Questo è senza dubbio l’opera di un pittore locale, espressione di un’arte solamente etrusca, che non guarda certo alle pitture attiche.» «Già» confermò Martinelli. «La cosa che più ci ha stupito, è proprio questa differenza radicale di gusto e di stile. D’altronde, la tomba è abbastanza lontana dalle altre più celebri e che si trovano in un’area più raccolta e definita.» «È la prima con queste caratteristiche in questa zona?» volle sapere l’archeologo che si sentiva sempre più attratto da quella scoperta. «Sì. E questo ci fa sperare e pensare che non sia, però, la sola e unica, potrebbe esserci una nuova necropoli» rispose il direttore non celando una orgogliosa speranza. 104 Giulio C. continuava ad illuminare e osservare nei dettagli quella figura che si stagliava in una posa di feroce aggressività apotropaica, protendendosi verso una zona in cui dovevano trovarsi altre figure che, però, sfortunatamente, secolari infiltrazioni avevano reso quasi illeggibili. Ai lati di quel demone, invece, risaltavano due enormi draghi che, arrotolando i loro corpi, creavano ruote di un verde smeraldino e le cui lunghe creste fiammeggianti contribuivano a renderli ancora più spaventosi e tremendi. Mentre Giulio C. e Marcello continuavano ad ammirare quelle millenarie immagini, Martinelli si mise a parlare con i suoi collaboratori che avevano, fino a quel momento, sorvegliato e coordinato i lavori di alcuni scavatori. Alla fine, riemersi da quella remota profondità, furono investiti da una folata di vento che, per poco, non li respinse nell’avello. Stavano per arrivare ai saluti, quando il direttore li trattenne: «Che ne direste di pranzare insieme? L’assicuro, architetto, che Tarquinia non offre solo queste visioni d’oltretomba, ma sa glorificare anche i palati più esigenti.» «È vero» intervenne Giulio C. «ricordo che, tanti anni fa, da queste parti c’era una trattoria, molto alla buona, ma molto ben frequentata, perché faceva una cucina da far invidia alle più numerose stelle della guida Michelin.» «Mi fido di voi, allora!» si rallegrò Marcello «Se volete seguirmi… non è lontano. Però, dopo, ci andiamo a prendere il caffè a casa mia. Sono curioso di vedere l’effetto che farà a mia moglie, vedermi arrivare con un amico di vecchia data e così famoso,che ancora non le avevo presentato» li informò, accingendosi a telefonare a casa. Il pranzo fu davvero memorabile: i piatti, a base di funghi e tartufi, li riempirono di sapori forti, intensi come le emozioni provate al mattino nella tomba. 105 Erano passate le tre, quando, al seguito della berlina del direttore, si fermarono davanti a un cancello che il telecomando di Martinelli fece schiudere, rivelando una prospettiva che ben poteva figurare sulle pagine di riviste specializzate. La casa era stata, nei secoli passati, un casale che, sapienti mani di restauratori avevano ristrutturato, senza tuttavia alterarne lo spirito. I mattoni erano stati ripuliti e il colore del cotto si sposava gradevolmente con le severe punte verde scuro di un doppio filare di cipressi. La costruzione era stata ingentilita, nel corso del tempo, dall’aggiunta di una torretta che affiancava il corpo della casa, raccordando visi con un loggiato dalle proporzioni perfette. Tra le colonne che lo sostenevano erano stati sistemati degli enormi orci di Montelupo, che solo il rigore invernale aveva privato del colore di piante fiorite. Un paio di anfore, che, sicuramente, avevano viaggiato nella stiva di qualche nave oneraria, era ancorato ai lati della grande porta a vetri, al di là delle ante in legno del colore dei cipressi. Mentre il padrone di casa stava per aprirla, la porta fu spalancata dalla mano decisa della moglie, che li accolse sorridendo. «Cara, permetti che ti presenti…» esordì Martinelli, subito interrotto dalla vivace esclamazione della signora: «Ma che piacere, professor Erneti, fare la sua conoscenza!» Mentre l’archeologo, ricambiandone il sorriso, porgeva la mano alla padrona di casa, Martinelli li guardò stupito e con un’aria così esplicitamente interrogativa, che la moglie fu obbligata a spiegargli: «Ma, Giovanni, come puoi pensare che una appassionata lettrice di romanzi storici come me, non conosca uno dei nostri più brillanti scrittori e non solo…Prego, accomodatevi» li invitò, precedendoli nell’ampio salone che attirò subito l’attenzione professionale di Marcello. «Il nostro architetto sta bene?» lo accolse con aria compita e un po’ più formale. 106 «Non avrei mai immaginato che tu conoscessi l’autore di libri che mi hanno tanto appassionata» confessò al marito, mentre si accomodavano sui soffici cuscini di poltrone dal design sicuramente di grande firma. «Anzi!» rispose lui con una punta di orgoglio «Pensa che siamo stati compagni all’università. Però io, questa mattina, ho fatto una figura meschina, quando non l’ho riconosciuto al primo sguardo!» confessò. Come in risposta ad un tacito richiamo, comparve una giovane domestica con un vassoio recante il caffè. Giulio C. si alzò, per ricevere dalle mani della signora la sua tazza e, nel farlo, sentì le dita di lei sfiorargli la mano, con un gesto tutt’altro che casuale. «Come dev’essere esaltante riuscire a creare personaggi così realistici e complessi! Ho notato, mi corregga se sbaglio, che nella descrizione delle figure femminili, lei dimostra una partecipazione emotiva così…così coinvolgente che sembra quasi stia parlando di donne realmente conosciute e amate» lo interrogò, sedendogli accanto. «Non sarà gelosa la sua signora?» chiese poi con aria scopertamente maliziosa. A quelle parole, Marcello si sentì turbato per l’amico, al quale venne prontamente in soccorso: «Si sa che agli artisti e ai geni è lecito tutto.» «Beh! Diciamo che tra me e mia moglie, ora c’è la più completa autonomia» confermò l’interpellato. Proprio in quel momento, al direttore venne in mente qualche precisazione sui lavori da chiedere all’architetto, la qual cosa, per un momento distolse l’attenzione di tutti da Giulio C. E proprio per continuare a sviare il discorso, Marcello si complimentò poi con la padrona di casa per il buon gusto con cui aveva saputo arredare quegli spazi così impegnativi. E mentre la signora Augusta rispondeva con malcelato orgoglio, spiegando che, in realtà, per arrivare ad un simile 107 risultato, aveva dovuto faticare alquanto, perché le pareva che niente la soddisfacesse, Giulio C., pur scambiando qualche ricordo del periodo degli studi e fingendo di interessarsi alla carriera del direttore, in realtà rifletteva e osservava l’atteggiamento affettato della moglie. L’abito verde scuro era stato certo scelto apposta per valorizzare il rosso tiziano dei capelli che non dovevano aver lasciato da molto tempo le mani del parrucchiere. Le morbide onde che incorniciavano il viso danzavano compici di ogni pur lieve movimento del capo. Il trucco leggero e sfumato, non aveva una sbavatura. Al gesticolare delle mani, corrispondevano gli sprazzi iridescenti delle gemme dei diversi anelli che ornavano le dita lunghe e affusolate, dalle unghie perfettamente laccate. «Comunque, alla lontananza fisica non si è accompagnata quella intellettuale. Non è così, professor Erneti?» si sentì sollecitato a rispondere, dopo una parentesi di assenza. «Sì, anche se per strade diverse, siamo entrambi legati al passato, anzi, facciamo del passato il nostro presente» rispose ancora un po’ svanito. «È davvero un bel modo di definire le vostre professioni.» Lo complimentò. Mentre Augusta gli posava una mano sul braccio, Giulio C. poté sentire il calore che la stretta di lei gli comunicava. «Qualcuno gradisce una sigaretta?» chiese, allungandosi per aprire una scatola di tartaruga sul tavolino. «Grazie» rispose, accettando, turbato dal contatto, sicuramente voluto delle gambe di lei contro le sue. Mentre le nuvole di fumo si disperdevano intorno a lui, cominciò a sentirsi a disagio, soprattutto quando si accorse degli sguardi d’intesa che passavano tra marito e moglie. Non appena anche il direttore e Marcello ebbero spento le loro sigarette, adducendo la giustificazione dell’ora ormai 108 serotina, fece capire all’amico che era il caso di togliere le tende. Mentre Marcello e Martinelli si accordavano per un prossimo incontro, Augusta scomparve un momento, per tornare, poco dopo, con un libro: era “Nella terra degli Dei”. «Mi scusi, professore» lo bloccò quasi sulla porta, prendendogli la mano «non posso certo farla andar via senza che mi abbia lasciato almeno la sua firma sul suo ultimo lavoro» gli disse, porgendogli il volume e una penna. «Con piacere» accettò Giulio C., che non vedeva l’ora di allontanarsi da quella casa. Scrisse velocemente “Ad una Augusta signora” e siglò con uno svolazzo la prima pagina della sua opera. Quando i due amici si ritrovarono, finalmente, soli in auto, a Marcello non sfuggì il suo respiro quasi di sollievo. «Cominciavo a sentirmi assediato» gli confessò «Hai fatto proprio colpo, Giulio. Complimenti!» commentò l’amico con sarcasmo. «Per favore, non mi prendere per il culo» rispose, senza rendersi conto dell’involontaria e inappropriata allusione della battuta. «Non posso dire che gli approcci della madama non abbiano gratificato la mia virilità, ma nello stesso tempo mi infastidiva sentirmi come una preda braccata. E poi, dai, sotto gli occhi del marito!» sbottò Giulio C. «Guarda qui, cosa mi ha lasciato» e mostrò un foglietto di carta con un numero, evidentemente di cellulare. «Ma allora, è una cosa che avrà un seguito!» tentò di profetizzare, mentre metteva in moto. «Ma stai scherzando, vero?» lo rimbeccò immediatamente «D’accordo che Martinelli non sia uno dei miei più intimi amici, ma una tresca con la moglie è l’ultima cosa che mi verrebbe in mente. 109 Tu sai che non sono mai stato uno che si butta sulle donne, ma neanche essere così scopertamente concupito…» «E già» rifletté a voce alta Marcello» tu non conosci la signora Augusta Ferranti Pozza» «Ferranti Pozza?» chiese incuriosito «Quel Ferranti Pozza?» «Certo, proprio il banchiere che negli anni 70 passava per uno dei personaggi in vista nel mondo della finanza e della politica, visto gli agganci su cui poteva contare, logicamente ricambiato. «Ah!» esclamò colpito Giulio C. «Si è attaccato in alto, il nostro direttore!» «Beh! Ci ha provato. Perché quando ha adocchiato la fanciulla, il periodo d’oro era ormai alla fine. Poco dopo le nozze, infatti, ci fu una serie di casini, non mai troppo chiariti, per cui il banchiere dovette cercare di starsene alquanto defilato e rischiò anche la galera. Ad ogni modo, il tuo amico si ritrovò, non si sa bene come, dall’oggi al domani, direttore del museo.» «Vuoi dire, allora, che il matrimonio sia stato più un affare di interesse?» «Certamente è stato un bel colpo per entrambi. La signora era allora una signorina alquanto chiacchierata, come si diceva, e, nell’ambiente, nonostante tutto, molti se la spassavano per un po’ con il bel bocconcino, ma non ne avrebbero voluto fare indigestione. Quando comparve Martinelli, tipo prestante e che in società sapeva starci, al vecchio Ferranti Pozza non parve vero poter accasare la figlia con una persona “pulita”, se capisci cosa intendo….» «Certo, certo» rispose pronto Giulio C. «Quindi, in pratica, fu un sodalizio quello che sottoscrissero: a lui un suocero così faceva molto comodo, e a lei serviva un marito da esibire con orgoglio.» 110 «Però, scusa» chiese Giulio C. «non mi pare che la carriera di Martinelli sia stata poi così esaltante. In fin dei conti è direttore di un museo di una cittadina di provincia.» «Apparentemente, ma è solo la facciata. Dietro ci sono contatti politici, appalti e sovvenzioni per il suo museo. Diamo anche onore al merito, il direttore si dà un gran daffare non solo per il suo prestigio personale. In tutto ciò, ne trae un beneficio anche l’istituzione e, di conseguenza il paese. Tutto sommato, Martinelli ha una qualche ambizione, ma vuole anche avere il tempo di godersi quello che ha. Non hai visto che casa? Forse più ambiziosa sarebbe la moglie, che lo sprona continuamente a darsi da fare.» «Per questo del da fare mi sembra se ne dia molto anche lei» sottolineò Giulio C. «Nonostante la tua sorpresa, si dice che la signora abbia preteso carta bianca, per quanto riguarda la sua vita privata e lui sa che se, a volte, lei si prende qualche… “vacanza”, anche questo fa parte del gioco. Sembra, anzi, che tutto ciò vivacizzi il loro menage». «E tu, come fai a sapere tutti questi pettegolezzi?» chiese, notevolmente incuriosito all’amico, che stava parcheggiando nel cortile dell’albergo. «È un po’ che frequento la zona di Tarquinia, per motivi di lavoro e c’è sempre chi ama diffondere le notizie un po’ piccanti che riguardano i concittadini più in vista. Il giorno dopo,andarono a curiosare tra le strette viuzze del quartiere medievale di Viterbo. In quel periodo dell’anno i turisti non erano certo molti e così i due amici poterono tranquillamente soffermarsi, vento permettendo, per alzare lo sguardo sulle torri, le bifore e gli archi che ornavano i duecenteschi palazzi. E dalla vita quasi sospesa, appartata in un angolo di superstite medioevo, si catapultarono sul dinamico nastro dell’autostrada per tornare. 111 «E ora, cosa farai?» chiese Marcello «Cosa vuoi che faccia?» rispose quasi con rassegnazione «Riprenderò l’università e cercherò di mettere a fuoco qualche argomento su cui scrivere un libro». «Anzi» proseguì, dopo una breve pausa «mi piacerebbe cominciare a lavorare al progetto che ti accennavo, per cui verrò a chiederti le chiavi del tuo paradiso privato.» «Quando vorrai. «E niente di più attivo?» insistette l’amico. «Attivo, come?» «Ho visto con che avidità guardavi le immagini della tomba di Tarquinia. Sei sicuro che non ti piacerebbe andare alla scoperta di qualcosa?» «Riprendere a scavare?» chiese, contemporaneamente a se stesso e a Marcello. «Perché no?» riconobbe «ma vorrei qualcosa di completamente nuovo, vorrei uscire dalle nostre grandi civiltà. Mah! Vedremo» concluse poi, voltandosi per seguire dal finestrino le immagini di alcune colline che sfumavano nell’orizzonte al tramonto. 112 OLIMPIA PASSATO REMOTO Quando nell’agosto del mitico 1968, proprio durante la cerimonia di apertura dei giochi olimpici del Messico, Caterina avvertì le prime doglie, Daniel, che stava seguendo lo spettacolo in TV, si precipitò al telefono e avvisò tutti. Il parto andò a meraviglia e si svolse in velocità. Quando Caterina rientrò in camera con un piccolo fagotto tra le braccia, si trovò di fronte i quattro neo nonni festanti. «E come si chiamerà questa meraviglia?» chiesero litigandosi la neonata. A dire il vero, chissà perché, i genitori non avevano pensato all’eventualità che fosse femmina, ma si erano sempre detti sicuri che sarebbe stato un bel, robusto maschietto. Così ora dovevano archiviare i vari Ariel, Emanuele e Davide per cercare qualcosa di femminile. Ne discussero in privato, provando e riprovando vari abbinamenti con il cognome, finché Daniel non propose: «Visto che ha deciso di nascere proprio all’apertura dei giochi olimpici, perché non la chiamiamo Olimpia?» Caterina restò un attimo perplessa, poi decise che le piaceva e così entrò a far parte dell’umanità Olimpia Alessandri. La sua infanzia volò via senza eccessi, né in positivo né in negativo. I primi anni di scuola materna furono contrassegnati da frequenti malattie che la costringevano a lunghe, solitarie ore in 113 casa, alternando televisione e giochi con carta e pennarelli, coi quali le piaceva creare abiti e disegni. La scuola non costituì un problema: aveva una mente agile e ricettiva, una certa pazienza nell’applicazione, pertanto i risultati conseguiti erano sempre decisamente positivi. Quello che la faceva veramente incazzare erano i commenti delle compagne di fronte ai suoi successi scolastici: «Capirai che sforzo andare bene, con il padre insegnante…» Loro non potevano sapere, ovviamente, che invece tutto era solo ed esclusivamente merito suo, visto che il padre, il pomeriggio, aveva ben altro da fare che seguirla nei compiti. Tra le ore di palestra e quelle passate al circolo con gli amici, in famiglia non ci stava molto di sicuro. Non poteva proprio dire come e quando, fatto sta che, ad un certo punto, in casa si accorsero che aveva bisogno di stare con qualcuno che la seguisse, che si mettesse al suo livello e giocasse con lei. Chi poteva avere tempo per questa attività se non i nonni? E così, infatti, iniziò una abitudine che durò anni e che, nella sua memoria, restò sempre legata a sensazioni piacevoli, calde come il tè che la nonna paterna le preparava, o dolci come gli zabaglioni della nonna materna, sempre preoccupata che non fosse abbastanza robusta. Certo che il fascino della soffitta dei nonni Alessandri restava unico e magico. Spesso si faceva accompagnare dal compiacente nonno e passava ore a rovistare tra vecchie cianfrusaglie o si azzardava a sporgere la testa fuori dall’abbaino, che le permetteva di spaziare su una distesa di tetti che solleticavano le nuvole con le loro antenne. Altrettanto unici erano i pomeriggi in cui il nonno paterno la portava con lui in sinagoga per qualche festività, di cui lei non sapeva né capiva il significato, ma che, forse, proprio per questo e per la allettante affascinazione melodica della lingua ebraica, la avvincevano. 114 D’estate, invece, le vacanze scolastiche comuni, la avvicinavano particolarmente al padre e con lui andava al mare, dove le piaceva vederlo nuotare a forza di bracciate vigorose che lei cercava di imitare. Forse era anche per questo che si sentiva più affine al genitore, come carattere, piuttosto che alla madre, sempre presa dai suoi rientri pomeridiani e costantemente interessata a tenere d’occhio la figlia, con domande che ad Olimpia sembravano degne di un interrogatorio di terzo grado. «Tra mamma e figlia ci deve essere solidarietà, complicità. Se hai qualcosa che ti preoccupa, con chi vuoi parlarne se non con la mamma?» la sollecitava. Ma ad Olimpia quel dialogo non veniva spontaneo e, forse anche perché di preoccupazioni vere e proprie non ne aveva, non riusciva ad aprirsi. Come faceva a farle capire che certe cose non si possono improvvisare e non si possono imporre? Troppo era il tempo che aveva trascorso desiderando la sua presenza, invidiando le compagne di classe e le amiche le cui madri erano casalinghe o impegnate in lavoro part time, sentendosi come un alieno, tenuta quasi sotto chiave per evitarle cattive frequentazioni, che poi altro non erano che coetanei un po’ vivaci e lasciati forse a differenza di lei, molto più a briglia sciolta. Quando, poi, era giunto il momento di scegliere la scuola superiore, Caterina non avrebbe avuto dubbi: «A scuola sei sempre andata bene, soprattutto nelle materie umanistiche, cosa vuoi fare se non il classico? Lì, inoltre, c’è il papà, che può sempre essere una presenza utile. Senza contare, poi, che al classico ci vanno i migliori, sicuramente c’è una utenza qualificata. Ci trovi i figli delle famiglie più ….delle famiglie migliori». Un po’ per non sentirsi guardata a vista dal padre e un po’ per ripicca verso la madre, lei scelse invece l’istituto magistrale, motivando la sua scelta: «In fin dei conti, mi dà le stesse possibilità del liceo; dopo posso sempre fare 115 l’università». Per fortuna, il padre, più fine psicologo, aveva suggerito alla moglie di lasciarla decidere come voleva, visto che si trattava del suo futuro. Olimpia non ci aveva messo molto a capire che, per la madre, “migliori famiglie” voleva dire più ricche. Della quasi maniacale fissazione della madre per il denaro, si era già da tempo accorta, fin da quando aveva dovuto accettare, nelle sue scelte, sempre tutto ciò che costava meno. Non che lei si sentisse attratta dalle griffe, ma, quando qualche accessorio spopolava tra le compagne, lei aveva sempre dovuto aspettare per averlo che stesse passando di moda, quindi costasse meno. «Abbiamo il mutuo da pagare, non possiamo esagerare con le spese», le spiegava, sperando di essere convincente. Caterina e Daniel erano, comunque, felici e soddisfatti della figlia, che, crescendo, aveva assunto un aspetto decisamente piacevole. Troppo magra da bebè, era cresciuta alta e dritta, ereditando dal padre, oltre al fisico slanciato, anche il colore degli occhi, di un verde intenso e cangiante. Per non deludere la madre, però, da lei aveva preso il biondo dei capelli, per cui l’insieme si armonizzava gradevolmente. Gambe lunghe, vita snella, qualche centimetro in meno nella circonferenza del busto, era compensata da una parte bassa rotonda e ben modellata, sulla quale i pantaloni si stendevano con grande facilità ed efficacia estetica. Dovette arrivare fino ai sedici anni, tuttavia, per incontrare il vero, speciale amore, anche se quasi puramente spirituale. Aveva vissuto con esaltante intensità e totale abbandono un legame che avrebbe segnato la sua vita sentimentale. Il ragazzo, più maturo di otto anni, era stato dolcissimo e la sua cultura, la sua esperienza di “grande” l’avevano rapita. Si erano conosciuti in montagna, durante una settimana bianca con la famiglia. Una sera, in attesa della cena, stava giocando a carte con alcune ragazzine, quando si era avvicinato 116 Filippo, un biondo altoatesino, che aveva chiesto di imparare il loro gioco. Qualche eloquente sguardo, le prime domande per presentarsi e conoscersi. Così era cominciata. Era stata una vicenda inaspettata ed emozionante per una come lei, cresciuta in una famiglia, nonostante tutto, stranamente abbastanza sessuofobica. Era arrivata all’adolescenza con un bagaglio di ingenuità anacronistico. La presenza indagatrice soprattutto della madre quando la vedeva rientrare da un cinema, da una festa o altro, le pesava come una penitenza. Aveva imparato ad essere il più esauriente possibile nel minor tempo, per essere poi libera di ritirarsi nella sua camera a ricordare un complimento, uno sguardo. Il carattere mite e l’essere figlia unica le avevano reso facile lo stare spesso da sola. La scuola la impegnava abbastanza e non si sentiva attratta dalle numerose compagne che uscivano sempre, pomeriggio e sera, con amiche e amici vari. Le sigarette che circolavano abbondantemente non la sollecitavano ad assumere pose contestatrici. Il trucco quotidiano era semplice e sobrio, tanto che qualche compagna la sbeffeggiava chiedendole: «Ma da dove vieni, da un convento di clausura?». Quando, durante l’intervallo, si confidavano le esperienze, i problemi, le sembrava che le altre ragazze venissero da Marte: in famiglia nessuno si preoccupava di loro, di sapere dove andavano e cosa facevano; parecchie avevano regolarmente rapporti con ragazzi spesso più grandi e che avevano più volte sostituito. Così Olimpia si era ritrovata a frequentare l’altro gruppo di coetanee che, come lei, avevano alle spalle famiglie onnipresenti che, nonostante si fosse già negli anni 80, pensavano di impostare il dialogo con i figli in modo presessantottino. Così, in fondo, si sentiva una sedicenne come tante altre; gli unici interessi erano qualche CD dei cantanti del momento, in particolare Boy George e i Culture Club, qualche film di 117 particolare richiamo, cercare di avvicinarsi alla moda occhieggiata nelle vetrine, pur dovendo scegliere capi di abbigliamento sempre sobri ed assai poco originali. Poco prima della partenza per la montagna, quell’anno aveva iniziato timidamente una storia con un coetaneo della compagnia che, durante l’ultimo raduno le aveva comunicato la sua simpatia e un paio di volte si erano trovati, uscendo dalla scuola. Quell’interruzione per la vacanza invernale l’aveva un po’ seccata, perché temeva che la scintilla appena scoccata, con la lontananza, potesse spegnersi. Poi, ecco comparire Filippo, anche lui in vacanza, studente all’ultimo anno di Giurisprudenza, all’università di Padova. Dopo quella prima avance durante la partita a carte, le era successo ancora di trovarsi a tu per tu con lui e aveva visto i suoi occhi che parevano accarezzarla. Durante una serata di danze, giochi e allegria, aveva ballato spesso con lui e, durante i balli di coppia, il sentire le sue braccia attorno alla vita, le comunicava vibrazioni nuove ed intense. La sera prima della partenza, uscì per andare a ritirare le foto dal fotografo e Filippo le si affiancò. La sera era fredda e serena, la neve amplificava la luce della luna. Arrivati sotto il campanile della chiesa, si fermarono con il naso all’aria per ammirare la bella cupola che lo copriva con la sua tipica cipolla. Così si ritrovarono con i nasi tanto vicini da far confondere le nuvole dei loro respiri. Fu questione di un attimo e le loro bocche si unirono in un bacio da manuale. «Amore, piccolo amore» le sussurrò, stringendola dolcemente. Le parole, l’abbraccio, il sapore di quei baci le riempirono il cuore di un’emozione infinita. Il rientro a casa, il ritrovare le solite cose, il ritorno sui banchi di scuola. Tutto le sembrò distante, distaccato da lei, che era rimasta ancora abbracciata a Filippo, sotto il campanile di montagna. 118 Certo che il suo stato d’animo doveva proprio essere evidente, per chi aveva buoni occhi. Infatti, la sua compagna di banco le chiese subito della vacanza e Olimpia, che non aspettava altro, le raccontò tutto. Quando,poi, durante l’ora di italiano, lessero il canto dell’Inferno, in cui Francesca rammenta a Dante: “Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria…”, Olimpia non poté trattenersi e chiese di uscire per liberare quel nodo che le strozzava la gola. Qualche giorno dopo, se ne stava in camera sua ad ascoltare Boy George che chiedeva “Do you really want to hurt me?”, quando squillò il telefono. Appena percepì le prime sillabe di un «Ciao, tesoro. Come stai?» che si facevano largo tra uno stridio di freni e un altoparlante che annunciava l’arrivo di un treno, si sentì cogliere dalla vertigine: Filippo! Era stato a Padova per una lezione e non aveva resistito: saperla così vicina, gli aveva fatto prendere il treno che andava nella direzione opposta alla sua abituale. Dieci minuti dopo sapeva cosa voleva dire essere al settimo cielo. Filippo le aveva portato alcune foto della montagna e le commentavano mentre il vento freddo della sera non riusciva a raffreddare i loro spiriti. Purtroppo, il tempo fu un battito del cuore e, così come era arrivato, Filippo la salutò con un sussurro: «Ci vediamo la prossima domenica». Le sue visite si susseguirono e ogni volta per Olimpia era come crescere, come scoprire nuovi universi. Passeggiavano, visitavano musei e chiese e lui le parlava di progetti, di musica, di libri. Prese l’abitudine di portarle ogni volta qualche volume della sua ricca biblioteca. Fu così che lei incontrò la grande letteratura. Divorò i classici russi, “Guerra e pace” compreso, in un amen. Conobbe gli autori contemporanei, Calvino, Eco, Bassani, Marquez. Spesso le regalava della musica: Bach, Beethoven, Stravinsky. Si domandava come avesse fatto a vivere fino ad allora, senza conoscere un mondo così magico, 119 capace di suscitare in lei emozioni, sentimenti, fantasie uniche e nuove. Certo, quando poi ne parlavano insieme, si rendeva conto che quello che lei ne capiva era solo una briciola a confronto del più ampio panorama che Filippo possedeva e quasi si vergognava nel rivelargli le sue timide impressioni. I mesi passarono così alla velocità della felicità. Quando a settembre l’estate stava ormai addormentandosi nell’abbraccio dell’autunno, lui le aveva proposto di ufficializzare la loro storia, organizzando una vacanza con i genitori di Olimpia, che così avrebbero finalmente saputo chi era il responsabile della sua aria sempre sognante e chi fosse il mittente delle tante lettere che riceveva. Nelle successive settimane, tuttavia, Filippo aveva quasi lasciato cadere l’argomento. Olimpia stava per sollecitare un chiarimento, ma fu anticipata da una sua lettera che le diede molto da pensare. Con assoluta noncuranza, lui le raccontava di aver partecipato ad una simpatica festa tra amici, alla quale per la verità era stato quasi trascinato a forza. Visto che per una serie di motivi, la progettata vacanza era abortita ancor prima di essere ufficializzata, Olimpia si aspettava di sentire in Filippo un certo rimpianto, almeno un’eco della malinconia che lei stessa provava. Invece, nelle lettere successive non avvertì nulla di tutto ciò, anzi le sembrarono farsi di volta in volta più distratte e di circostanza. Gli telefonò, per sentire il tono della sua voce: le fu chiaro un malcelato sforzo di una normalità che non c’era. Qualche giorno dopo, ricevette posta e, pur provando un vago senso di inquietudine nell’aprirla, non si aspettava quello che trovò: era l’addio. Lesse la lettera una prima volta di volata, come se cercasse, nella chiusura, un ripensamento. Invece, più la rileggeva e più si sentiva profondamente colpita. Ma davvero un amore così assoluto, unico, poteva finire così, con le poche parole che una lettera, apparentemente come le altre, le aveva portato? Oh! Non c’era che dire, Filippo aveva 120 saputo essere generoso, riconoscendole un grande valore. Le chiedeva scusa perché era sicuro che una ragazza come lei, dolce, sensibile, innocente, non la avrebbe mai più incontrata. La ringraziava per tutto quello che lei aveva saputo dargli, per averlo reso partecipe della sua crescita sentimentale e culturale. Se tutto ora finiva, non era certo per colpa sua, ma era lui che si era accorto di non potere più continuare a desiderare a distanza l’amore. Le confessava che, quando a quella famosa festa, aveva conosciuto Ornella e si era sentito attratto fisicamente da lei, si era sentito in colpa nei suoi confronti. Non che da questa conoscenza potesse nascere chissà che, in quanto la ragazza era fidanzata e prossima al matrimonio, ma per lui, il solo pensiero avuto, la fantasia di un momento intimo con lei, gli era parso così insultante nei suoi confronti, che ora non si sentiva più degno del suo amore così elevato. Quante parole inutili, per assolversi da un omicidio spirituale, pensò Olimpia, mentre un velo di lacrime le rendeva illeggibili le parole. Ovviamente, in casa, il suo mutamento di umore non passò inosservato e fu costretta ad accennare per sommi capi alla vicenda. Si rese presto conto che l’unica cosa che veramente interessava ai suoi era che lei fosse rimasta la bambina che era a gennaio. Naturalmente non aveva né la voglia né la confidenza per urlare che, forse, se si fosse di mostrata più disponibile, ora non sarebbe stata annientata dal fulmine di quella lettera. Una ventina di giorni dopo, trovò la forza di prendere in mano la penna e di rispondere a quell’addio con un’unica osservazione: «Vigliacco! Non hai nemmeno avuto il coraggio di salutarmi guardandomi in faccia. Certe cose non si possono scrivere.» Però, se ci ripensava, quando, a volte, Filippo aveva cercato in lei qualcosa di più di un bacio, la sua resistenza non era stata provocata dalla paura del giudizio dei genitori, ma era lei stessa a non essere veramente pronta per un rapporto fisico più 121 profondo. Quindi non poteva rimproverarsi nulla. Ben magra consolazione, però! Restava il fatto che ora, all’avvicinarsi dell’inverno, le sue giornate si facevano sempre più buie e inutili. Se si rifugiava tra le pagine di un libro o tra le note di Debussy o Chopin, non poteva non associarli a qualche momento vissuto con Filippo e questo non faceva che prosciugarle sempre più il cuore. Esternamente sembrava che il suo stile di vita non fosse cambiato: a scuola era sempre l’alunna diligente e motivata; con il gruppo di amici, che riprese a frequentare con maggior assiduità, aveva sempre il suo ruolo di compagna dolce e affidabile. In famiglia era, come sempre, piuttosto riservata, solo che ora, le cose che taceva erano molte di più e molto più intime. Quelli che per molte ragazze sono gli anni già di per sé difficili dell’adolescenza, per lei furono addirittura un macigno. Il suo modo di vedere le cose, la sua capacità di giudizio non potevano prescindere dalla sua esperienza di amore deluso. Anni di crisi? Sì, certo. Dal baratro in cui era precipitata non aveva voglia di risalire, all’inizio. I primi tempi cercò quasi di custodire dentro di sé quell’assenza, perché almeno quel vuoto riempisse i suoi giorni. Poi, a forza di sentirsi ripetere, dall’amica del cuore, che il tempo era suo alleato e tutte le ferite, prima o poi, si rimarginano, aveva finito col crederlo anche lei, anche se, da parte sua, non faceva molti sforzi per dare una mano al grande medico. Quegli ultimi anni di scuola li visse come dentro una nebbia, un fumo così denso che le impediva di scorgere anche quei cenni di simpatia e di invito che, a volte, qualche amico tentava nei suoi confronti. Quando, finalmente, superato l’esame di maturità, ebbe davanti a sé tutta un’estate in cui decidere del suo destino, scegliendo una facoltà universitaria, decise che doveva considerare chiusa una fase della sua vita. E se doveva, com’era giusto, dare un taglio al passato, accettando come 122 esperienza, amara, ma pur sempre esperienza di vita, ciò che le era accaduto, pensò che doveva scegliere un ateneo lontano da casa, che le fornisse l’alibi per restare via tutta la settimana. Certo, non sarebbe stato facile convincere i genitori che, nonostante anche a Ferrara ci fosse un’ampia gamma di facoltà, era più qualificante e prestigioso rivolgersi ad istituzioni che potevano contare su una storia e una tradizione umanistica plurisecolari, dove poter incontrare docenti di chiara fama, conosciuti e apprezzati anche al di fuori dell’ambiente universitario. Facendo leva anche sull’aspirazione materna che l’aveva sempre spronata a cercare di mettersi in luce, di frequentare ambienti “su”, ricordando tutte le volte che era stata invitata ad avvicinare gente di un “certo tono”, riuscì ad essere quanto mai convincente. A suo favore giocò anche il fatto che il famoso, famigerato mutuo per la casa con cui sempre aveva dovuto fare i conti, finalmente stava per scadere. Un gruppo di amiche le comunicò che si sarebbe iscritto a Cà Foscari, a Venezia. Ancora incerta tra l’iscrizione a Lettere e quella a Lingue, decise che per i primi tempi avrebbe potuto seguire gli esami comuni alle due facoltà, riservandosi la decisione definitiva ad un secondo momento, senza contare che l’ateneo veneziano le forniva l’alibi migliore per la sua fuga da Ferrara. Di fronte ad esigenze di studio, la famiglia non poté obiettare nulla e un giorno la madre la accompagnò a cercare un alloggio. I primi luoghi visitati furono, logicamente, collegi tenuti da religiose. In quel cupo pomeriggio di fine ottobre, entrarono in corridoi lunghi e immobili con le loro statue di santi e madonne costrette a subire l’odore della cera per pavimenti mescolata a quello delle candele che ardevano perennemente accanto ad immancabili vasi di fiori sempre freschi. 123 Seguendo le severe gonne di suore, ora giovani, ora attempate, Olimpia e la madre videro camerate, camerette, stanze che, per quanto differenti, erano sempre uguali: una forma attenuata di una cella carceraria, solo vagamente ingentilita da tende inamidate. Quello che ogni brava sorella teneva a precisare era che l’istituto osservava un preciso regolamento che non ammetteva deroghe: era gradita una sveglia abbastanza mattiniera che prevedesse, magari, anche la partecipazione alla Messa. La sera, poi, l’orario di rientro era fissato per le dieci. Olimpia cominciava già a temere di dover finire col pentirsi della scelta fatta e decidere, come le amiche, di fare la pendolare. Fortunatamente, però, la richiesta di rette, quanto mai onerose, spinse la madre verso altre direzioni. Si passò allora a considerare le numerose pensioni e piccoli alberghi vicini all’università. Dopo qualche altro tentativo infruttuoso, trovarono finalmente quello che cercavano. Le camere della pensione erano doppie, ma non c’era problema, perché i proprietari avevano già ricevuto molte richieste e così avrebbe senz’altro avuto una compagna. Era stato emozionante per Olimpia partire per Venezia, quella mattina di metà novembre. Camminando con una piccola valigia, si sentiva proiettata verso una nuova fase della sua vita, tutta da scoprire, da conoscere e da costruire. Il sole aveva deciso di accompagnarla e nel cielo, smaltato di un azzurro freddo e pulito, sembrava un riflettore puntato sulle sue speranze. All’arrivo alla pensione, la accolse la sua coinquilina: «Ciao. Io sono Laura Petrini» si presentò la ragazza che le aveva aperto la porta della stanza. «Se l’aspetto esteriore rispecchiava il carattere e la personalità, doveva proprio essere un’originale», pensò Olimpia. 124 Effettivamente, Laura non passava inosservata: piuttosto bassa di statura e con un notevole bagagliaio posteriore, che non si peritava di esibire in pantaloni piuttosto attillati, aveva, però, un viso dolcissimo. La pelle era levigata come porcellana e gli occhi sembravano naturalmente perennemente truccati. Una splendida, lucente criniera castano rossiccio si sposava perfettamente al verde degli occhi. Sembrava che la natura, distrattasi un momento, avesse assemblato una testa ad una corporatura destinata ad un’altra. «Di dove sei?» le chiese Olimpia, dopo essersi a sua volta presentata. «Vengo da Fano». Rispose Laura. Dopo quelle frasi di circostanza, una volta rotto il ghiaccio, si misero a parlare un po’ più sciolte e non tardarono a trovarsi in sintonia su un sacco di cose. Ma un altro sacco era quello su cui non si trovavano d’accordo: Olimpia amava bere birra o vino a tavola, Laura si scolava bottiglie di chinotto; Olimpia mangiava volentieri verdure, Laura era una carnivora assoluta; Olimpia non fumava, Laura non smetteva quasi mai di accendere sigarette; Olimpia la domenica andava a Messa, anche se più per abitudine che per una fede che sentiva piuttosto tiepida e incerta com’era tra gli sfarzi barocchi delle chiese che frequentava e l’austerità della sinagoga alla quale da bambina il nonno e il padre la portavano nelle solennità ebraiche. Laura, a sua volta, si proclamò professante una sua personalissima religione. Non frequentavano le stesse lezioni, ma molto era comunque il tempo che passavano insieme. La sera, spesso, dopo una veloce cena alla mensa universitaria, andavano al cinema. Scoprirono di essere entrambe appassionate di musica classica, così, approfittando dello sconto per gli universitari, sottoscrissero un abbonamento alla stagione sinfonica della Fenice. Le sere dei concerti erano frenetiche: cenavano presto e correvano in camera a prepararsi. Era quasi un rito cercare tra i 125 soliti vestiti, pantaloni ecc, qualcosa di speciale. Anche il trucco si faceva più ricercato e, quando lasciavano la stanza, generalmente si sentivano soddisfatte del risultato ottenuto. Quando in sala le luci si spegnevano, cominciava il sogno: Olimpia spesso chiudeva gli occhi e cancellava dalla mente tutto ciò che poteva. La musica era come una droga sublime per lei: a volte riconosceva in quei viaggi, luoghi già visitati; ancora, a volte, ricompariva Filippo, ma era tutto così sfumato che ora l’animo non le si appesantiva più di dolore, ma anzi, si sentiva riempire di uno spleen docile e tranquillo. Una sera suonavano una pianista e un violinista tedeschi: in programma, musiche di Schumann e Beethoven. La musica da camera era come un gioiello, per Olimpia, la sublimazione dell’essenza dell’armonia. Se, poi, si trattava di sonate del grande di Bonn, si raggiungeva la perfezione assoluta. Quando, dopo l’ultimo accordo della Sonata a Kreutzer, si librò l’applauso del pubblico, all’accendersi delle luci, si trovò gli occhi lucidi. Accanto a lei sedeva un ragazzo che, spesso, con l’aiuto di una minuscola pila, aveva seguito la musica sullo spartito. Tra un movimento e l’altro, più volte, Olimpia si era chiesta se anche ad un musicista, conoscitore della tecnica e dei meccanismi dell’armonia, se anche a chi è del mestiere, la musica potesse dare le stesse emozioni che provava chi, come lei, la sapeva solo ascoltare. Stava per voltarsi verso Laura, quando il suo vicino le chiese: «Perfetta l’incisività del “Presto”, non trovi? Brillante ed estroso, proprio come voleva l’autore». Sorpresa, Olimpia lo guardò e: «A giudicare dal risultato, direi proprio di sì. Del resto, Beethoven ha una forza, un carattere che devono emergere in certi passaggi.» Trovò la prontezza di rispondere. «Anche se, forse, forse questo ritmo così balzante, rivela in qualche passaggio l’originale diversa destinazione del terzo movimento.» «Musicista anche tu?» continuò lui. 126 «No, musicofila appassionata. Tu, invece, suoni direi. Violinista?» azzardò. «Indovinato». «Ci avrei giurato da come seguivi i gioiosi trilli del violino nell’Andante con variazioni». Laura li interruppe con la sua naturale spigliatezza. «Ciao. Io sono Laura Petrini». Appena appena sorpreso da questo intervento, anche lui si presentò: «Lorenzo Vianello». «E io sono Olimpia Alessandri» concluse lei. «Perché non andiamo a bere qualcosa?» propose Lorenzo. Le ragazze si guardarono e all’unisono risposero accettando. Non poteva andare diversamente, visto che, oltre ad apparire speciale in virtù della sua arte, Lorenzo si lasciava anche guardare con piacere. Era un bel trentenne, alto, atletico, occhi scuri e una cascata di leggere onde corvine, che gli ricadeva sulla fronte e che lui, con un gesto frequente e spontaneo, cercava di ricacciare più indietro. Le mani che stringevano gli spartiti erano agili, le dita lunghe che ben potevano affrontare anche le più acrobatiche posizioni di un capriccio di Paganini. Nonostante quell’anno il mese di marzo si fosse presentato più pazzo del solito, ora aprendo l’animo con il tepore e il cielo della primavera, ora capitolando nelle più cupe tenebre invernali, quella serata era perfetta per passeggiare: l’aria, appena inumidita da una pioggia pomeridiana, si era poi addolcita, asciugandosi sotto un cielo stellato nel quale una luna, pressoché piena, brillava come una diva sul palcoscenico. Passeggiando lentamente, commentavano i vari brani e l’interpretazione dei valenti concertisti. «Hai un autore che senti in modo particolare?» gli chiese ad un tratto Olimpia. «Un musicista particolare, direi di no, ma mi affascina terribilmente la musica barocca. Credo che in quel periodo siano stati scritti dei monumenti assoluti, soprattutto per il mio 127 strumento. Il ritmo, a volte così stringato, di un Bach, di Vivaldi, di Corelli non ti dà respiro» le confidò Lorenzo. «Scommettiamo che so cosa berrà Laura?» divagò Olimpia, quando furono davanti ad un locale di cui Lorenzo aprì loro la porta. «Accetto la scommessa, anche perché, in questa cantina, non hai molta scelta» scherzò lui. «Eh! Non, non vale» si inserì Laura «Per me una cantina è come per Superman la criptonite!» «Ma non ti lascerai mai tentare ad abbandonare il tuo chinotto?» la schernì Olimpia. «Mi dispiace, ma siamo due a uno, perciò o vino per tutti o noi beviamo e tu guardi» le propose Lorenzo. Entrarono in un vecchio locale, in cui sembrava che anche i mattoni trasudassero vino, insieme al salmastro dell’umidità. L’unico cliente stava andandosene col suo viso rubizzo e un’allegria che sarebbe certo svanita insieme ai fumi del succo di Bacco. Mentre brindavano al loro incontro con un fresco prosecco, ognuno raccontò qualcosa di sé. Lorenzo era un giovane diplomato in violino al Benedetto Marcello e stava costituendo un trio con amici del conservatorio. Aveva già preso accordi con qualcuno e ora stavano mettendo a punto un repertorio un po’ fuori dal solito. Viveva in un piccolo appartamento al piano terra di una casa in Calle delle Muneghe. Il fratello maggiore, sposato, abitava con la moglie al piano di sopra di quella vecchia costruzione che apparteneva alla loro famiglia da chissà quante generazioni. «Dov’è Calle delle Muneghe?» si informò Laura, posando un bicchiere di acqua in cui nuotava una fetta di limone. «Vicino a Campo Sant’Angelo» spiegò lui. 128 «Sei proprio a due passi dal Conservatorio!» osservò Olimpia. Morsicchiata anche la fetta di limone, Laura guardò l’orologio: l’una e tre quarti. «Ragazzi, non è per farvi fretta, ma oggi è già diventato domani e tra poco io devo essere a lezione di giapponese», comunicò alzandosi. «Accidenti, è proprio tardi!», confermò Olimpia. «Vi accompagno. Se prendiamo qualche scorciatoia in dieci minuti siamo a casa» le tranquillizzò Lorenzo. E fu proprio così, perché dieci minuti più tardi si salutavano calorosamente davanti al loro albergo. Giunte in camera, le amiche si scambiarono le rispettive impressioni su quella nuova conoscenza: entrambe erano rimaste favorevolmente colpite dalla simpatia, dalla sensibilità, dall’intelligenza di quel ragazzo. Qualche giorno dopo, Olimpia e le amiche di Ferrara disertarono la mensa universitaria e andarono a sperimentare un’antichissima rosticceria, che risaliva nientemeno che ai tempi di Goldoni. Il locale, nonostante l’apparenza, era pulito: dietro il banco, un fuoco vivace arrostiva pesci e braciole. Su un fornello, una padella, nera di fiamme e di tempo, friggeva pesci e molluschi dorati e dall’aria croccante. Era più che altro un luogo da “prendi e porta via”, un take away, ma chi si accontentava di una panca e un tavolone di quattro assi, poteva anche mangiare sul posto. Questo fu proprio ciò che fecero, ma, per poter pranzare, mancava il vino. «Non è un problema» spiegò chi era ai fornelli «Proprio qui, girato l’angolo, ci sono delle cantine. Se andate con questa bottiglia» disse porgendone una di vetro scuro e pesante «potete comprarlo e portarvelo qua.» «Benissimo» fu il coro entusiastico di risposta. 129 Lasciata l’ordinazione, decisero che Olimpia, considerata ormai veneziana di adozione, andasse a sbrigare la commissione. «Va bene.» Accettò «Ma poi mi lasciate tre o quattro calamaretti in più» le ricattò uscendo in fretta. Trovò subito il locale e si avvicinò al bancone, sul quale erano posate alcune botti con le rispettive etichette. Un cliente, già servito, si voltò in quel momento con due bottiglie in mano: era Lorenzo. Si fermarono stupiti solo un attimo, prima di scontrarsi. «Il vino è proprio fatto per incontrarsi, a quanto pare!» le sorrise imbarazzato per le mani occupate. «Già, sono incontri di spirito» lo tolse dall’imbarazzo Olimpia con la battuta. «Bravo e visto che conosci il posto, che vino mi consigli per un piatto di pesce fritto?» «Questo, sicuramente» rispose, alzando i suoi due acquisti. «Non sei in mensa?» si informò. Olimpia gli espose il programma per quel pranzo e si rese conto che… «Se non sono indiscreto, potrei unirmi alla vostra compagnia? Come vedi, il vino l’ho già procurato!» si autoinvitò, accennando alle bottiglie. «Ma perché no? Se non ti mette a disagio essere l’unico maschio tra sei fanciulle in fiore…» rispose, ammirandolo per la sua riacquistata disinvoltura. «Anzi, mi sembra giusto che qualcuno si prenda cura di voi e vi controlli!» disse lui scortandola fuori della porta. Quando le amiche la videro arrivare in compagnia, cominciarono a darsi di gomito e ridacchiare di sottecchi. Olimpia fece le presentazioni, mentre Lorenzo si accomodava sulla panca prendendola per mano, per farla sedere accanto a sé. Passarono un paio d’ore in piacevoli battute, qualche accenno ad argomenti un po’ più seri, qualche velata, ma non 130 poi troppo, avance di una delle amiche, Paola, che non si lasciava mai sfuggire l’occasione per farsi notare da un bel ragazzo. Quando, poi, decisero che era ora di prendere un caffè, Lorenzo propose: «Se volete, possiamo andare a casa mia. Vi assicuro che il mio caffè è un incanto di aromi e di gusto.» «Grazie per l’invito», accettarono con curioso entusiasmo. L’appartamento di Lorenzo si rivelò meno piccolo di come ne aveva parlato. Certo, che sei ragazze, un po’ allegre per effetto del vino ed eccitate anche dalle presenza di un maschio, lo riempirono di profumi, di risate e di allegria. Olimpia si guardava intorno per cercare di capire, dall’arredamento, dagli oggetti, dai quadri, qualcosa della personalità del proprietario. Indubbiamente aveva buon gusto, perché aveva saputo unire diversi pezzi di antiquariato ad altri più moderni e funzionali, in un mix personale e raffinato. Su una delle poltrone risaltava, con il colore caldo della sua vernice, il violino, che sembrava un ospite di rango in riposo. Tra le due finestre che illuminavano la stanza c’era un leggio, su cui era aperto uno spartito, una sonata per violino e basso continuo di un autore francese che Olimpia non ricordava di aver mai sentito. Accanto vi era una elegante sedia sul cui schienale erano intagliati finemente una lira e altri strumenti musicali. Tra la porta d’ingresso e quella che dava in cucina c’era un mobile a scaffali, traboccante di libri. Staccatasi dal gruppo, Olimpia si avvicinò a leggere sulle coste i titoli di alcuni volumi; c’erano biografie di musicisti, testi di critica musicale e tutto un settore della più varia narrativa italiana: Bassani, Levi, Erneti, Fallaci, Eco. Mentre stava per allungare la mano per prendere “In catene” di Erneti, Lorenzo dalla cucina le chiese: «E allora, ho superato l’esame?» «Quale esame?» rimandò Olimpia, passando decisa in cucina. 131 «Mi è parso di vedere un particolare interesse da parte tua nell’osservare tutto con tanta attenzione, che mi pareva di essere sotto esame!» le rispose, alzando verso di lei uno sguardo arguto, mentre chiudeva le due moka che aveva nel frattempo riempito. «Scusami» arrossì lei «non volevo certo darti questa impressione. Ma ti confesso che mi piace molto cercare di capire la personalità di qualcuno attraverso la sua casa.». «Ah!» commentò Lorenzo «Non ho sbagliato di tanto, dunque. E allora, che tipo sarei?» le chiese avvicinandosi. «Dai, per favore» tentò di schermirsi Olimpia «Non prendermi in giro!» «Non ne ho nessuna intenzione, ti assicuro!» la incoraggiò, posandole le mani sulle spalle e attirandola più vicina. «Beh! Sei un tipo preciso, raffinato e affidabile, direi. Ciò che di sicuro non ti manca è il gusto per il bello, ma per il bello sobrio, poco vistoso!» «Complimenti» le strinse le mani nelle sue, dimostrandosi piacevolmente sorpreso «Hai fatto centro. Perché non studi psicologia?» Olimpia cercò invano di liberarsi dalla stretta di lui, che anzi la voleva ancor più vicina e già stava tentando di baciarla. Fu un momento in cui il tempo rimase sospeso, come se i loro corpi fossero stati catturati da un’istantanea. Ma fu solo questione di un secondo, perché, mentre il caffè diffondeva il suo profumo, dall’altra sala arrivavano voci piuttosto decise che reclamavano la tazza di caffè promessa. «È in arrivo!» esclamò Lorenzo con enfasi. A Olimpia non era sfuggito che sul tavolo era già pronto un vassoio completo di tazzine e zuccheriera d’argento. «Ci tratti proprio con i guanti!» osservò ironica. «Mi piace offrire il meglio che ho», rispose lui, non ricambiando l’ironia, ma anzi fissandola negli occhi con una 132 intensa serietà. «Soprattutto se ho ospiti di riguardo» terminò mentre prendeva le due caffettiere. Sollevato con cautela il vassoio, Olimpia lo precedette in sala. Quando tutti ebbero finito di sorseggiare il caffè, non mancarono i commenti alla fortuna di Lorenzo di vivere a Venezia in una casa così e qualcuno chiese con insistenza di sentirlo suonare qualcosa. «Non hai scuse, qui c’è tutto: la musica, il violino e il pubblico» lo invitò una delle amiche. «D’accordo, d’accordo» accettò Lorenzo, prendendo lo strumento e cominciando ad accordarlo. Dopo qualche secondo, quando fu pronto, chiese: «Avete qualche brano particolare che desiderate ascoltare?» Paola, a nome di tutte, rispose: «Lasciamo a te la scelta. Quello che ritieni e che senti più adatto a questo momento». Quando le prime note, appena sfiorate e timide, si materializzarono, Olimpia riconobbe subito con un brivido Traumerei di Schumann. C’era uno struggimento in quella musica che le aveva sempre sciolto il cuore; la malinconia, il dolore del compositore la contagiavano. Cercò di fingersi indifferente, di mascherare le onde di emozioni che la soffocavano, ma forse non era così brava a fingere, se Lorenzo, proprio nei passaggi più dolci e patetici, la guardava con occhi espressivi e penetranti. Il potere della musica fece, comunque, effetto anche sulle amiche, perché, quando la linea melodica si dispiegò in tutto il suo vibrato, smisero di guardarsi intorno e sussurrare tra loro qualche sciocchezza, per prestare unicamente ascolto a quella voce che pareva chiedere, pregare, che voleva amore. Svanita in un soffio l’ultima nota, Lorenzo posò arco e strumento, mentre tutte scoppiarono ad applaudire l’interprete di un momento così toccante. 133 La commozione generale fu, per fortuna, stemperata da un’osservazione pratica: «Ragazze, sono quasi le cinque: se non ci fiondiamo in stazione, perdiamo il treno». In un lampo tutte raccolsero libri e borse, salutarono con calore il padrone di casa e Olimpia e scapparono, come foglie cadute inseguite dal vento. Olimpia raccolse le tazzine sparse, le posò di nuovo sul vassoio e le riportò in cucina. Lorenzo la seguì con le caffettiere. «Lascia» la invitò «non vorrai anche lavarle, spero. Gli ospiti vanno serviti e riveriti» scherzò, accennando un comico inchino. «Grazie, per prima» rispose Olimpia, che conservava ancora un’eco del turbamento prodotto dalle note. «Era qualche tempo che non ascoltavo più Schumann, ma mi fa sempre lo stesso effetto. Non ricordo più chi mi disse, una volta, che l’arte è dolore, la creazione è come un parto spirituale: chi crea soffre, ma è proprio questo dolore che, poi, rende l’arte tanto preziosa. A volte, addirittura, il prodotto sa anche comunicare la sofferenza, il travaglio dell’autore e, allora, in questa sintonia di emozioni, anche chi ascolta può cogliere il sublime.» Era forse la prima volta che riusciva ad esprimere le sue sensazioni in modo così razionale e Lorenzo, sorridendole, si avvicinò. «Sai, non sono tante le ragazze che hanno il coraggio di mettere a nudo in modo così puntuale i loro sentimenti e le loro opinioni». Nel posare sul tavolo caffettiere e tazzine, le loro mani si sfiorarono. Piano, con dolcezza, lui gliele prese e con le braccia la circondò, tenendole le sue dietro la schiena. I loro corpi erano ormai in contatto e, quando anche i visi si accostarono, Olimpia gli porse le labbra in un bacio tenero e profondo. Si sciolse dal suo abbraccio solo per poterlo a sua volta cingere 134 alle spalle e, continuando a baciarlo, passargli le mani tra i morbidi riccioli. Più e più volte si allontanarono per osservarsi, per leggersi nello sguardo ciò che reciprocamente provavano, prima di riunirsi nuovamente in un languido abbandono. «Sei un dolce tesoro», sussurrò Lorenzo, sfiorandole i capelli con le labbra. «Da quanto cercavo una ragazza come te, che potesse capirmi, che sapesse condividere tutto con me». Olimpia, pur in uno stato d’animo che rasentava l’estasi, pur sapendo che anche per lei Lorenzo era un ideale realizzato, non riusciva a vincere quella paura dell’amore che da tanti anni ancora covava in un angolo buio del suo cuore. «Taci, ti prego», gli sussurrò a fior di labbra. «Non dire altro. È troppo bello questo momento, troppo assoluto, per circoscriverlo con qualunque parola.» Rimasero abbracciati in silenzio, finché suonò il telefono. Controvoglia e scusandosi con lei, Lorenzo andò a rispondere. «Sì?» chiese con voce un po’ esitante. «Certo che sto bene… Perché? …Ma che ore sono adesso?» chiese controllando contemporaneamente l’orologio. «Ah! Me ne ero proprio dimenticato. Senti» continuò, guardando Olimpia con un’espressione sofferta «Farò un po’ tardi, David, ma non ti preoccupare. A dopo.» Posato il ricevitore, tendendole la mano, le si avvicinò: «L’avevo proprio scordato: dovevo incontrare un amico del conservatorio per fare alcune prove». «Mi dispiace, «disse Olimpia con sincera comprensione» ti lascio subito.» «Ma nemmeno per sogno» ribatté con voce un po’ sopra le righe «Guarda» e intanto raccoglieva violino e spartiti «eccomi pronto, così usciamo insieme» e finì la frase appoggiandole un bacio sulle labbra. La consapevolezza di passeggiare insieme per Venezia, per la prima volta da soli, li faceva galleggiare nell’aria. Ad un certo punto, Lorenzo si fermò e le comunicò 135 che lui era arrivato, anche se avrebbe preferito accompagnarla ancora. «No, no» lo rassicurò «hai già fatto abbastanza tardi. Ciao» e, in punta di piedi, gli sfiorò una guancia con le labbra. «Quando ti rivedo?» chiese Lorenzo con una punta di ansia dietro quelle banali parole. «Non so» rispose incerta «domani?» «Così tardi?» si preoccupò lui «Perché non a cena?» «Perché penso che potresti fare tardi: la musica richiede dei tempi che non sempre si combinano con quelli dell’orologio» sentenziò Olimpia. «Quanta saggezza!» ironizzò. «Allora a domani. Hai lezione?» «Sì, finisco all’una. Poi sono libera fino alle tre.» «Allora, all’una. Dove?» «Nel cortile, vicino al pozzo. Buona notte» «Non farò altro che aspettare domani. Una buona notte anche a te». Un bacio fu il pegno per l’appuntamento fissato. Olimpia tornò lentamente verso la sua camera, che sperava di trovare vuota, per restare ancora in compagnia dei suoi pensieri. Sdraiata sul letto, accese la radio e la sintonizzò su una stazione che trasmetteva musica sinfonica: erano i preludi di Debussy. Quale miglior colonna sonora per inseguire e accarezzare un sogno? Non le pareva possibile che davvero un ragazzo come Lorenzo esistesse e la amasse. Quando Laura rientrò, accendendo la luce, spense il sogno di Olimpia, che sussultò sul letto: «Accidenti, cos’è scoppiata, l’atomica?» sbottò, precipitando nella realtà. «Stai male?» si informò premurosa Laura. «Tutt’altro» rispose stiracchiandosi con aria felice. E le sembrò giusto raccontarle cosa quel pomeriggio fosse stato per lei. 136 «Beh!» fu il commento dell’amica «Che Lorenzo ti guardasse con un certo interesse, l’avevo notato subito» volle fare la saputona «e sono proprio contenta per te. Te lo meriti, siete una bella coppia». Il tempo che fino ad allora Olimpia aveva dedicato allo studio non era stato molto, giusto i ritagli tra una lezione e l’altra, ma da quel giorno in poi divenne ancora più sporadico. Aveva deciso che i libri potevano aspettare la fine delle lezioni, quando sarebbe tornata a casa e allora avrebbe cominciato sul serio a sudarci su, cercando di concentrarsi sulle pagine delle dispense dei corsi monografici di latino, italiano, storia, i vari complementari. Perciò, quando i rispettivi tempi liberi coincidevano, Lorenzo e Olimpia se ne andavano alle Zattere a godersi il sole dolce della primavera, oppure prendevano il vaporetto e andavano ad esplorare isole sempre diverse e via via meno frequentate. Era rassicurante e piacevole parlare di tutto, anche di cose banali e di necessità quotidiane. Un pomeriggio, tornando dalle Zattere, Olimpia si ricordò che doveva passare in libreria, per acquistare una raccolta di commedie di Goldoni, sulla quale avrebbe dovuto preparare l’esame di italiano. Era l’ultimo giorno prima delle vacanze pasquali e la mattina dopo sarebbe tornata a Ferrara. «Aspetta» la bloccò Lorenzo «ce l’ho quel libro. Te lo presto volentieri, a meno che tu non lo voglia per tenerlo nella tua biblioteca!». «Grazie» rispose con entusiasmo «ti dirò che, pur apprezzando il teatro di Goldoni, non ritengo di vitale importanza inserirlo tra i miei libri. E poi» soggiunse con una certa civetteria «preferisco studiare su una cosa tua, così ti avrò vicino anche in quelle ore.» «Vieni, facciamo un salto a casa così te lo do subito». 137 Con tutta calma, dando un’occhiata alle vetrine, tenendosi per mano, si avviarono verso Calle delle Muneghe. Ormai il giorno si stava spegnendo e i primi fanali annunciavano il crepuscolo, che si presentava con un cielo di turchese, al quale la laguna prestava un po’ del suo verde più cupo. Appena entrati, Lorenzo andò a colpo sicuro verso la libreria e scorse col dito tutti i titoli presenti. «Accidenti, so che c’è, ci deve essere» esordì mentre cominciava freneticamente anche a spostare qualche volume per cercare meglio tra quelli in seconda fila. Ovviamente riuscì a trovarlo solo quando stava quasi per rinunciare alla ricerca. Nel frattempo, Olimpia si era avvicinata alle sue spalle e cercava di aiutarlo, scorrendo velocemente con gli occhi i vari scaffali. Così, quando felice, Lorenzo si voltò esultante col libro in mano: «Eccolo», Olimpia era lì di fronte a lui, che posò il volume sul primo ripiano e l’abbracciò con passione. Olimpia si stava già intenerendo al pensiero che li attendeva una momentanea separazione e gli si aggrappò con uno struggimento totale. I loro baci divennero sempre più profondi, fino a cercarsi il cuore, che correva all’impazzata su arcani, comuni sentieri. Pur con il respiro affaticato, Lorenzo le andava ripetendo: «Ti amo, ti amo, ti amo», modulando le parole ora con la dolcezza, ora con la forza della passione. «Amore. Amore, non voglio lasciarti» sussurrava Olimpia «da troppo tempo ti aspettavo e ora non posso perderti nemmeno per un’ora». Dimentica di sé, Olimpia lasciava che le mani di lui la accarezzassero teneramente, ma con una sicurezza che la faceva impazzire. Quasi in trance, lo aiutò a svestirla e si sorprese per la decisione con cui gli venne in soccorso per liberarlo di indumenti che erano solo di ostacolo al dialogo dei loro corpi. 138 Il divano li accolse come un nido. Le loro bocche continuavano a cercarsi e le mani parlavano un linguaggio esaltante. Mai prima Olimpia aveva provato un desiderio così estremo di essere amata, di sentire la forza di un uomo addolcirla e riempirla di sé. Lorenzo sapeva accogliere, intuire ogni suo volere e la assecondava con una attesa paziente e premurosa. Quando si sentì scossa da una vertigine, da un brivido meraviglioso, Olimpia lo invitò: «Prendimi, ti prego, ora, prendimi». Anche lui era ormai all’acme di una eccitazione che lo dominava in ogni cellula e così finalmente si unì a lei. L’accorgersi che era ancora vergine, lo fulminò e, come una molla, lo fece alzare di scatto dal corpo di lei. «Ma tu…» cominciò, quando lei gli chiuse la bocca con la mano. «Sì, sono vergine, ma voglio che sia tu il mio primo vero amore. È tutto perfetto» finì, liberandogli la bocca per poterlo baciare. Quella richiesta fu per Lorenzo un impegno che sottoscrisse con trasporto e trepidazione. Non gli era mai successo prima di incontrare una “ragazza”, i suoi rapporti con l’altro sesso erano sempre stati molto più razionali, vissuti anche con emozione, ma, comunque, con compagne che, quanto ad esperienza, ne avevano da vendere. Il candore di Olimpia lo commosse e si rese conto dell’importanza che quel momento assumeva per lei. Per questo si dedicò a quell’amplesso con tutta la felicità e il desiderio di renderlo indimenticabile per entrambi. Un piacere folle e improvviso colse Olimpia, che gridò per liberare quel groviglio di emozioni che sembrava soffocarla. Quando riaprì gli occhi, per prima cosa vide quelli di Lorenzo che la guardavano con una luce estatica. Non seppe se fu per l’imbarazzo o per il desiderio di prolungare la gioia provata, che li richiuse, mentre sentiva la voce di lui che le 139 sussurrava: «Sei la cosa più bella che potesse capitarmi. Sei un misto di candore e di naturale sensualità che mi fa impazzire» «Per favore, Lorenzo,» lo supplicò «non prenderti gioco di me» Quasi scandalizzato, lui la sgridò: «Ma cosa dici? Come potrei scherzare su ciò che ormai è la mia stessa vita?» Rimasero ancora a lungo così abbracciati a parlare, a confidarsi tanti lontani ricordi d’infanzia, a continuare quella complicità che la loro prima volta aveva creato tra loro. Ad un tratto lui le propose: «Visto che dovremmo cenare, perché, anziché uscire, non ce ne stiamo qui, nell’intimità del nostro nido?» «Volentieri, grazie. Ma chi cucina?» si informò Olimpia. «Io, ti assicuro, non per vantarmi, ma in cucina non so fare granché» rise, mettendolo in guardia. «Ho capito; lascia fare a me. La mia vena creativa ti stupirà!:» Dopo la sferzata di una piacevole doccia, mentre Olimpia terminava di asciugarsi, Lorenzo cominciò ad armeggiare ai fornelli. «Mi dici cosa non ti piace?» si informò alzando la voce, perché lei potesse sentirlo attraverso la porta aperta del bagno. «Detesto il fegato, le cervella, gli spinaci, il prosciutto cotto e adoro le verdure, quasi tutte, il pollo e …» si interruppe mentre si avvicinava alla cucina «adoro te.», concluse arrivandogli alle spalle e cingendolo alla vita. «Così non vale!» la rimproverò, voltandosi e rispondendo con un bacio al suo abbraccio. «Non mi indurre in tentazione» recitò, mentre entrambi scoppiavano a ridere. Lorenzo, da par suo, apparecchiò la tavola con un’eleganza degna di un ristorante a un’intera costellazione di stelle. Su una tovaglia damascata color salmone, i piatti, col loro decoro intonato, sembravano fiori e le posate dal manico verde giada i relativi steli. I bicchieri di pesante cristallo brillavano, anche 140 per la complicità di un elegante candeliere sul quale bruciava una candela rosa e profumata. Olimpia aveva seguito tutte quelle operazioni con una crescente meraviglia. Quando ebbero reso il dovuto omaggio ad un piatto di pasta, sposato ad un sugo morbido e piccante ad un tempo, mentre brindavano con il rosso granato di un cabernet che spandeva il suo profumo di fiori, un po’ titubante, Olimpia non poté non chiedergli: «Scusa, non darmi della ficcanaso o dell’indiscreta, ma ogni volta che ci siamo visti mi hai stupita per la naturalezza con cui ti muovi e usi oggetti così raffinati. Sei giovane, come fai…» E mentre stava cercando le parole più adatte per una richiesta così delicata, lui la prevenne: «Come faccio ad avere una casa così e tante cose belle e preziose?» Olimpia arrossì di fronte alla formulazione così spiccia di quanto effettivamente avrebbe voluto sapere, ma lui la mise subito a suo agio. «No, non devi vergognarti: Hai perfettamente ragione a porti una simile domanda. D’altro canto, la risposta è molto semplice: è solo questione di fortuna. Non ho nessun merito se sono nato in una famiglia ricca, che ha saputo educarmi anche esteticamente. Ancora più fortunato mi ritengo, però, per aver potuto dedicarmi così liberamente a seguire la mia vocazione musicale, senza dovermi preoccupare di come mantenermi. Come vedi, sono un artista un po’ anomalo: niente a che fare con i bohemiens e con i grandi geni che hanno stentato tutta la vita e che hanno finito per arricchire poi solo i posteri. Ma noi sappiamo chi sono stati loro i veri grandi, gli immortali. Io, forse, resterò solo un dignitoso esecutore…» «Cosa fai, vai a pesca di complimenti?» lo interruppe. «No, te l’assicuro, ma se gratifichi il mio ego con qualche frase piacevole, ti garantisco che non mi dispiace», ammise con sincerità. 141 Il momento del distacco fu imbarazzante e malinconico per entrambi. «Ti accompagno alla stazione, domattina?» le chiese. «No, grazie; gli addii, anche se sono solo un arrivederci, mi lasciano sempre un sapore così amaro in bocca…» gli confidò. E così si salutarono davanti all’albergo, al quale l’aveva accompagnata. Quella volta, il ritorno a casa per Olimpia fu particolarmente penoso. Ormai si rendeva conto che le riusciva sempre più difficile fingere una normalità sentimentale, una calma piatta su tutti i fronti (erotico compreso) e così, o si rifugiava nello studio, con grande soddisfazione dei genitori, o usciva con le amiche, alle quali, però, aveva deciso di tener nascosto, per scaramanzia, gli sviluppi della sua storia con Lorenzo. Per sua fortuna, le frequenti telefonate di lui riuscì a mimetizzarle e farle passare per quelle delle amiche, Laura in testa. Quando, durante il pranzo pasquale, aprì l’uovo che Lorenzo le aveva regalato prima della partenza, stupì se stessa e la famiglia: la sorpresa era un pendente in argento, un violino completo di corde, ricciolo e ponticello, appeso ad una catenina pure in argento. «Ma che bello! Che sorpresa particolare!» furono i vari commenti. «Non può essere una delle solite sciocchezze, questa è stata messa apposta da qualcuno», insinuò la madre. «Già, per forza: Laura, sapendo che amo la musica, ha cercato qualcosa di adatto» mentì spudoratamente, ma in modo convincente. E così, alla fine, anche le vacanze vennero archiviate e Olimpia poté tornare a Venezia. Rivedere Lorenzo le comunicò la stessa felice esaltazione di quando si erano lasciati. «Che meraviglia riabbracciarti!» la accolse, quando scese dal treno. 142 «Non hai sentito in questi giorni che ero sempre con te?», gli chiese mentre appoggiava a terra la valigia, prima di baciarlo, indifferente al via vai di passeggeri. Si avviarono verso l’albergo per depositare il bagaglio e Lorenzo si informò: «Che programmi hai?». «Adesso voglio solo stare con te» «Vorrei ben vedere che tu avessi altri desideri!» esclamò lui, stringendola con una forte tenerezza. Quando furono a casa Olimpia non si meravigliò della naturalezza con cui assecondava i movimenti di Lorenzo, che cercava di realizzare il suo desiderio di unione totale con lei. Questa volta l’amore per loro fu ancora più consapevole, forte nella ricerca di un piacere già sperimentato ma da conquistare di nuovo. E fu davvero come una nuova conquista quella cui arrivarono insieme. Quando ritrovarono l’equilibrio per rivestirsi, mentre stavano uscendo. Lorenzo la fermò sulla porta e le diede una notizia che da tempo tratteneva. «Hai impegni per giovedì sera?» chiese prendendola alla larga. «Se me lo chiedi, vuol dire che hai da propormi qualcosa e quindi, anche ammesso che avessi qualche programma, sarei pronta ad annullarlo». «Ho proprio un invito per te …e Laura, se vuole» le propose, mostrandole un cartoncino. Si trattava del primo di una serie di concerti che il suo gruppo avrebbe tenuto: un trio di due violini e un violoncello. «Come puoi aver realizzato tutto questo in una decina di giorni?» non si capacitava Olimpia. «Infatti, hai ragione» le spiegò «non sarebbe certo possibile. In realtà, da diversi mesi c’era questo progetto e, per fortuna, si è concretizzato. Quando sei partita, prima delle vacanze, sapevo già tutto, ma, cosa vuoi, sono abbastanza scaramantico per decidere di parlare di una cosa solo quando è 143 definitivamente certa. Non pensare che non abbia voluto metterti al corrente per altri motivi: a dir la verità, sono stato tentato più volte di dirtelo, ma poi, chiamala debolezza, superstizione, insomma ho preferito farti una sorpresa.» Concluse. «Tutto sommato hai fatto bene. Forse sarei stata in ansia o in preda all’impazienza» lo rassicurò. «E in quale chiesa sarà?» si informò., tenendo tra le mani senza leggerlo il dépliant che le avrebbe dato tutte le informazioni. «Qui vicino, nella chiesa di Santo Stefano.» E continuò: «Sai, conosco bene il parroco, fin da quando ero bambino, chierichetto. Ha seguito tutto il mio percorso di studio, dalla laurea al diploma del conservatorio». «Laurea?» lo interrogò, stupita. «Già, anche se l’ho messa in un cassetto, ho una laurea in economia e commercio» confessò, quasi con vergogna. «Ma sei una sorpresa continua!» esclamò Olimpia, veramente stupita. «Cosa vuoi, l’ho fatto più per accontentare i miei che per me stesso. Loro sono sempre stati dell’opinione che un solido titolo di studio può sempre servire nella vita e così, visto che il commercio era l’attività che ci aveva sempre permesso, e ci permette tuttora, di vivere alla grande, ho finito quasi col convincermi anch’io che quella laurea non m i avrebbe fatto poi troppo male. Anche se, per la verità, ho sempre privilegiato gli studi musicali. Ecco, ora sai anche questo di me», concluse Lorenzo. Uscendo, continuarono a parlare e Olimpia si accorse che, mentre lui le raccontava episodi della sua adolescenza, nei quali la figura di don Giovanni emergeva come amico, consigliere, musicologo e tanto altro ancora, gli occhi gli brillavano di gioia. 144 «Lo conoscerai, gli ho accennato che ho conosciuto una ragazza speciale e anche lui desidera incontrarti. Vedrai, è un uomo eccezionale.» «Sai, Lorenzo, io non ho mai incontrato un prete così e, a dire il vero, mi riesce difficile pensare che, sotto l’abito talare, in borghese o clergyman che sia, c’è un uomo per tanti aspetti come gli altri», gli confidò. Era la prima volta che si trovavano ad affrontare un discorso così delicato e Olimpia era felice di poter conoscere il modo di vedere le cose di Lorenzo, anche in materia di religione. «Vedi» riprese lui «sono vissuto in una famiglia in cui la religiosità, dico la religiosità e non la religione, capisci? È sempre stata una regola di vita e questa regola coincideva con la morale cristiana. Spesso a casa nostra venivano sacerdoti, gesuiti, monaci e ti assicuro che erano le persone più brillanti, intelligenti e simpatiche che ho conosciuto». «Beato te!» si felicitò Olimpia, che invece aveva avuto ben altre esperienze. La sua famiglia, ora che ci rifletteva, aveva della religione (e non della religiosità) un’idea quanto mai stereotipata, bigotta e ristretta. Certamente, in materia religiosa, pesava enormemente il fatto che la famiglia paterna fosse ebrea, anche se non integralista. Quella della madre, invece, si cullava in un cattolicesimo semplice, elementare, senza punti interrogativi, attenta soprattutto alla esteriorità del culto. In sostanza, il tutto si riduceva alla messa festiva e all’imposizione, nei suoi confronti,di frequentare la parrocchia. A lei finora questo non era troppo pesato e l’aveva accettato, anche perché non aveva mai assunto una posizione critica, non si era mai interrogata su cosa credesse veramente e perché. Indubbiamente, comunque, conservava un ricordo ancora intatto dei pomeriggi trascorsi in sinagoga con il nonno, mentre 145 un rabbino rivestito di imponenti paramenti salmodiava preghiere in una lingua a lei sconosciuta. Ora, invece, trovare in Lorenzo una fede così sicura, fresca e limpida, da un lato la disorientava, dall’altro la attirava. Stava per chiedergli se anche i suoi genitori avrebbero assistito al concerto, quando si ricordò che, in uno dei primi incontri, lui l’aveva informata che da alcuni anni si erano trasferiti in America, dove avevano impiantato un’attività commerciale che andava a gonfie vele, grazie all’importazione di un made in Italy di qualità, assai richiesto dal mercato americano. «Mi dispiace solo che nei prossimi giorni avrò ben poco tempo libero», si rammaricò. «Lo immagino, ma non temere, avremo tempo per rifarci», rispose per tranquillizzarlo. Effettivamente, nei due giorni che seguirono si ritrovarono solo a cena. Forse il desiderio di vedersi, trattenuto durante tutta la giornata, mentre ognuno seguiva le proprie attività, era ciò che rendeva ancor più magico il loro incontro. La sera del concerto, Olimpia era sicura di essere più emozionata dei concertisti stessi. Era passata da Lorenzo per augurargli «in bocca al lupo», mentre questi si preparava. Per la prima volta lo vide indossare un impeccabile, elegantissimo abito scuro che, quando Laura lo vide, le fece esclamare: «Caspita! Sembra un principe!». Le due amiche sedettero in una delle prime file, in modo che, anche a luci spente, Lorenzo potesse percepire la presenza di Olimpia. Purtroppo neppure il fratello e la cognata erano presenti, in quanto, per motivi di lavoro, si trovavano in Germania e non sarebbero tornati che la settimana successiva. Il programma del concerto prevedeva sonate di Corelli e la sonata in sol maggiore di Legrenzi, la Raspona. Proprio in questo brano, il costante dialogare dei due violini, il loro rispondersi, imitarsi sopra il ritmico pulsare del basso 146 continuo (realizzato da un prezioso, splendido cembalo del 700), coinvolse la sua mente e la rese quasi trasognata interlocutrice degli strumenti stessi. Con un piacere orgoglioso sentiva, tra gli applausi che sottolineavano la fine di ogni esecuzione, i commenti di alcuni vicini che complimentavano il virtuosismo, la tecnica perfetta ma tutt’altro che meccanica o fredda del violino. Quando il concerto terminò, dopo un richiestissimo bis, Lorenzo le fece cenno di avvicinarsi. «Vai, vai, non ti preoccupare» la incitò Laura. «Si merita un dopo concerto da favola. Solo, non esagerare a chiedergli troppi bis», insinuò sorridendo. Olimpia era frastornata dalla valanga di emozioni che le era precipitata addosso e dovette attendere che Lorenzo la accompagnasse nella riservatezza della sacrestia, per sciogliersi un po’ e complimentarlo con un seppur rapido bacio. «Aspetta, un attimo» lo pregò «saluto Laura e torno.» «Aspetta tu» la bloccò «siccome ora andiamo a cena, perché non le chiedi se vuol essere dei nostri? Anche ai miei colleghi penso farebbe piacere» «Perfetta conclusione di una splendida serata. Vado e torno» si entusiasmò Olimpia. Ritrovare Laura non fu facile, perché il pubblico non aveva ancora vuotato completamente la navata e, anzi, si erano formati alcuni gruppi che continuavano a scambiarsi impressioni e pettegolezzi. La proposta di Lorenzo fu subito accettata e, quando le amiche tornarono in sacrestia, lo videro che si stava intrattenendo con una persona che, anche se in borghese, Olimpia riconobbe essere don Giovanni. E infatti, non si sbagliava, perché, non appena Lorenzo la vide, le tese la mano e, dopo aver salutato Laura, la presentò al vecchio amico. 147 «E bravo Lorenzo!» esclamò questi allegramente, battendogli una mano sulla spalla «così ti sei fatto accalappiare anche tu!» «Oh! Non so chi sia l’accalappiato e chi l’accalappiatore», intervenne Olimpia, stringendo la mano al don. «Da quando Lorenzo mi ha parlato di te, ho cercato di immaginarti e ti assicuro che non sono andato troppo lontano dalla realtà.» le confidò con aria sorniona. Olimpia lo osservava e si accorse di provare una istintiva simpatia per quel personaggio così disinvolto. «Allora, si va a cena?» li interruppe avvicinandosi l’altro violino, seguito a breve distanza dal violoncello e dalla cembalista, che si era esibita anche all’organo. Le rispettive presentazioni non richiesero molto tempo, ma risultarono informali ed efficaci. «Don Giovanni vieni con noi, ovviamente?!» sentenziò Lorenzo. «Anche se non me lo chiedevi, non vi avrei certo lasciati andare soli!» rispose prontamente, prendendoli sottobraccio, uno per parte. L’allegra comitiva si avviò verso il ristorante “Rosa rossa” e anche in quel breve tratto di strada, molte furono le risate, gli scherzi cui tutti partecipavano felici. La cena fu un ulteriore elemento di socializzazione. Quando Olimpia, senza farsi notare, osservava Laura, la vedeva intenta a parlare fitto fitto col secondo violino e ne era contenta per lei. Quando, piuttosto tardi, si salutarono, a piccoli gruppi presero strade diverse: la cembalista, il secondo violino, Laura e il violoncello partirono per primi davanti a tutti. Confermando ancora una volta la sua grande sensibilità e discrezione, don Giovanni si accomiatò da Lorenzo con un: «Omne trinum est perfectum, ma nel vostro caso direi proprio che sarei solo un perfetto terzo incomodo. Buonanotte, ragazzi, la vostra compagnia vi basta». Una stretta di mano a Lorenzo, 148 un abbraccio ad Olimpia e lo videro svoltare per una piccola calle laterale. Erano entrambi troppo eccitati, troppo felici e carichi di energia per pensare di rientrare. Così decisero di perdersi tra campielli, porteghi e calli, lasciandosi guidare solo dalla notte a da quel sole che, dentro di loro, illuminava quei momenti magici. Ad un tratto si fermarono e, seduti sui gradini di una chiesa, assistettero allo spettacolo della notte che si mutava in un accenno di alba, con un caleidoscopio di sfumature. «Forse sarebbe il caso di tornare» si riscosse Lorenzo. «Già», confermò lei, con poca convinzione, ma alzandosi lentamente in piedi. La riaccompagnò verso l’albergo che già i primi bar e panifici aprivano le serrande. «Che ne dici di un croissant e un cappuccino?» le chiese. «Che sarebbe perfetto per salutarci» rispose Olimpia, rendendosi improvvisamente conto che cominciava ad aver fame. Con una sferzata di dolci calorie, si ripresero entrambi e si diedero appuntamento per la sera. Ritornata in camera, Olimpia, pur cercando di essere il più silenziosa possibile, non poté non svegliare Laura. «Scusami», le disse «ma ho cercato di fare più piano che ho potuto», cercò di giustificarsi. «Oh! Non ti preoccupare» si stiracchiò l’amica, ancora un po’ assonnata. «Ho fatto tardi anch’io, ieri sera, ma poi mi sono addormentata come un ciocco». «Un piacevole dopo concerto?» tentò di sondare Olimpia. «Ho scoperto che il violino è una fonte di meravigliose sensazioni» rispose Laura illuminandosi tutta. «Ah! Ah!» esclamò «Mi fa piacere. E ci sarà un seguito?» «Può darsi» fece con aria misteriosa. 149 «Per il momento devo andare a lezione». «Ci pensi, Laura» continuò Olimpia, che aveva voglia di parlare, «come sarebbe bello se potessimo formare un bel quartetto?!» «Chissà…forse. Ma io non credo proprio di essere così cotta, innamorata persa come te. Non mi dispiace stare con David, ma da qui a fare dei progetti a lungo termine, ce ne corre!» concluse mentre si chiudeva nel bagno. Anche Olimpia, di lì a poco, si preparò e andò a lezione. Nonostante meccanicamente riuscisse a seguire la traduzione e il commento dei Catulli carmina, prendendo appunti sintetici e veloci, non poteva fare a meno di uscire, ogni tanto con la mente, dall’aula Besta, per ripercorrere l’itinerario notturno appena concluso. Quando alla mensa ritrovò le amiche di Ferrara, queste la apostrofarono con un: «Non credevamo di vederti, dopo una serata come quella di ieri!» «Perché?» chiese incuriosita. «Non mi dirai che non sei stata al concerto di Lorenzo?», ironizzò Paola. «E voi come lo avete saputo?», si meravigliò Olimpia. «Ce l’ha detto un passerotto!» fece l’amica. «Ma dai» intervenne un’altra «abbiamo incontrato Lorenzo e l’abbiamo visto un po’ trasognato con un accenno di occhiaie del colore dei suoi capelli. Così ci ha raccontato dei successi musicali e non solo…» lasciò in sospeso. «Beh! Allora sapete già tutto» concluse Olimpia, che avrebbe preferito tenere per sé ancora per un po’ la sua magnifica storia. «Cosa c’è? Forse abbiamo scoperto qualcosa che non volevi rivelare?», proseguì Paola col suo tono inquisitorio. «Assolutamente no. Solo avrei preferito parlarvene io con più calma e magari più in là.» volle chiarire. 150 «Certo che hai fatto Bingo!» la complimentò una delle amiche. «Un ragazzo così non si trova negli ovetti Kinder!» «Non è che possiamo andare al caffè concerto anche oggi?» tentò Paola, alludendo al loro primo incontro col violinista. «Mi dispiace, ma Lorenzo è impegnato fino a sera» comunicò Olimpia, non poi troppo dispiaciuta, se questo voleva dire evitare che Paola ci riprovasse con i suoi sguardi sexy. Le settimane seguenti furono abbastanza frenetiche, in quanto Lorenzo era impegnato ogni giorno con le prove per il concerto successivo e Olimpia aveva deciso che, forse, sarebbe stato meglio cominciare ad aprire i libri degli esami che voleva dare in primo appello. Visto che anche Lorenzo doveva lavorare, tanto valeva impiegare quelle ore vuote in modo proficuo. Ovviamente anche il secondo concerto fu un successo e questo fece salire le quotazioni del trio Musica Viva. Ciò che fu importante di quel secondo appuntamento musicale e lo rese solenne per Olimpia fu la conoscenza di Giuliano e Marilena, fratello e cognata di Lorenzo. Al termine del concerto, dopo aver ricevuto complimenti a destra e sinistra, Lorenzo si liberò prima che poté dalle tante persone del pubblico che desideravano da lui un autografo o una stretta di mano e, trovata Olimpia che chiacchierava allegramente con Laura e don Giovanni, la guidò verso il fondo della sacrestia dove Giuliano e Marilena attendevano con curiosità di conoscerla. Lorenzo aveva calcolato tutto: aveva voluto che quell’incontro avvenisse in quell’occasione particolare, ma tenendosi un po’ in disparte da un pubblico di estranei o quasi. «Ecco, Olimpia, questi sono mio fratello Giuliano e sua moglie Marilena» disse semplicemente. Una stretta di mano forte e cordiale le comunicò la decisa personalità di quello che sembrava il positivo di una foto, di cui 151 Lorenzo era il negativo. Infatti, Giuliano era sì, alto anche lui, ma più robusto e con una composta chioma bionda dal taglio accurato. Gli occhi avevano uno sguardo aperto, franco e accattivante. Infatti, le prime parole che le rivolse furono di una familiarità totale. «È un enorme piacere conoscerti finalmente! Non puoi immaginare quanto ci ha riempito la testa questo geniaccio con i suoi “Olimpia fa, Olimpia dice, vado con Olimpia”. Ora che ti conosco, ho un’ulteriore conferma del gusto raffinato di mio fratello. Bravo Lorenzo!» esclamò poi, prendendolo sottobraccio «non fartela scappare!» Marilena le apparve subito di una dolcezza contagiosa. Era una quarantenne la cui età era naturalmente scontata dalla statura non troppo elevata e dalla corporatura minuta. I capelli rosso Tiziano, perfettamente intonati alle deliziose efelidi, davano al suo viso dalla carnagione chiara, un’aria di innocenza infantile. Con la più assoluta spontaneità Marilena la abbracciò e le posò due baci sulle guance. «Anch’io, sai, avevo tanta voglia di conoscerti», le comunicò. Olimpia non sapeva come contenere la gioia di quell’incontro, ma la naturalezza di Marilena le fu di grande aiuto, perché le cominciò a chiedere notizie della sua città, Ferrara, che disse di conoscere abbastanza bene e di apprezzare per la sapiente distribuzione di tanti tesori architettonici pur in un contesto urbano di così breve respiro. «Sai, ricordo» continuò «come sono rimasta sorpresa una volta che ebbi la fortuna di sorvolare a bassa quota la città. Quante piante, quanti giardini, quante isole di verde sono nascoste da austere facciate di antichi palazzi». «Già» confermò Olimpia, ora molto più sollevata e a suo agio «sembra che questa struttura urbanistica corrisponda al carattere dei ferraresi: non passiamo per gente molto 152 estroversa, ci teniamo dentro le cose, ma, se si riesce a trovare la chiave giusta per entrare in sintonia, credo che non manchino le sorprese, piacevoli sorprese. Proprio come quando apri il portone di un palazzo e ti affacci sul verde di un parco o di un giardino, insospettabili dalla strada.» La chiesa dove si era tenuto il concerto era in una zona di Venezia che Olimpia praticamente non conosceva, ma, quando approdarono tutti al “Fogher”, il ristorante prenotato per la cena, si sentì stranamente come a casa propria. Laura alternava le sue confidenze a qualche battuta ora con David ora con Giacomo, il violoncellista. Quando alla fine della serata si salutarono tutti, Giuliano e Marilena la invitarono a cena da loro la sera dopo, per avere il piacere della sua compagnia. «Il piacere sarà quantomeno reciproco» si accomiatò Olimpia. Mentre Lorenzo la accompagnava nel salire la scala che portava all’appartamento del fratello, le rivelò che l’incontro della sera precedente aveva lasciato un segno indelebile sia in lui che nella moglie. «Cosa vuoi, è così facile, al giorno d’oggi, trovare delle belle ragazze, tanto belle, quanto poco adatte a chi, come me, si ritiene un giovane anomalo, per questo tipo di società». Salivano adagio i gradini per terminare quelle confidenze e Lorenzo proseguì: «Forse Giuliano e Marilena non sanno che io mi sono accorto da tempo di come mi spiassero con ansia, come cercassero tra le mie numerose amicizie quella che avrebbe potuto diventare qualcosa di più. Giuro che avrebbero scommesso che mi sarei innamorato di una compagna del conservatorio e invece…» «E invece» lo interruppe Olimpia «anche se fu galeotta la musica, non potevi trovare una più lontana di me dalle note». «Ma come» le chiese, fermandosi a metà dell’ultima rampa di scale «se hai una così squisita sensibilità musicale?» 153 «Oh! Questo può anche essere,. Grazie» confermò «ma sono solo una fruitrice della musica. Pensa che sono talmente stonata che, se canto, riesco a beccare le note comprese tra i tasti bianchi e quelli neri del pianoforte!» Lorenzo proruppe in una risata così spontanea e sonora che provocò l’apertura della porta e la comparsa di Giuliano, che esibiva un’aria stupita e interrogativa. Quando Lorenzo gli rivelò il motivo della sua ilarità, anche il fratello ne fu contagiato. Così quella, che fu la prima delle tante cene che seguirono, si aprì nel segno della più spensierata allegria. I mesi estivi furono occupati da alcuni esami, che ebbero esito più che soddisfacente, da alcune fughe a Venezia, dalle quali tornava sempre più innamorata e felice. La sua gioia si specchiava in quella di Lorenzo, che non finiva mai di stupirla con le sue attenzioni, le sue gentilezze che ne facevano un esemplare unico. Quando si confrontava con le amiche o sentiva quello che dicevano dei rapporti tra i giovani i giornali o i vari format televisivi a sfondo più o meno sociologico virato al gossip, Olimpia si riteneva davvero baciata dalla fortuna: era certamente impensabile, ad esempio, che Lorenzo potesse prendersi qualche “vacanza” puramente sessuale. I valori e i sentimenti che improntavano la sua vita erano solidi come il Ponte di Rialto. In lui non c’era traccia di quelle insicurezze, ambiguità, indifferenza che parevano invece diffondersi sempre più tra i loro coetanei. Ad agosto ricevette una telefonata da Laura che la invitava al mare da lei insieme a Lorenzo. Per fortuna, verso la prima metà del mese, gli impegni musicali gli lasciarono una settimana libera e così accettarono l’invito. Nonostante la vacanza, però, Lorenzo non poteva certo lasciare a riposo il suo strumento, così, la mattina era quasi totalmente dedicata allo studio. 154 Un mattino, mentre dopo una serie di esercizi, Lorenzo si dilettava nell’eseguire qualche pagina d’autore, sentirono suonare il campanello. Aperta la porta, Laura si trovò di fronte ad un giovane vicino di casa, un ragazzo quasi diciottenne, che sapeva dedicarsi anche lui alla musica. «Ciao, Laura» esordì. «Ciao, Michele» lo salutò con sorpresa. «Ho sentito un violino o sbaglio?» chiese. «Sì, vieni avanti», lo invitò Laura. «È un mio amico di Venezia che sta tenendosi in esercizio, prima di un concerto.» e, facendogli strada, lo introdusse in salotto. «Lorenzo, ti presento un mio vicino musicista» disse Laura presentando i due giovani. «Ciao» esordì Lorenzo stringendo la mano che Michele gli porgeva. «Cosa suoni?» gli chiese con familiarità. «Dire che suono è forse un po’ azzardato, comunque studio pianoforte» rispose con una punta di timidezza. «Bene! Che ne diresti di fare qualcosa insieme?» propose subito Lorenzo. «Grazie della proposta, ma non mi sento proprio all’altezza, rischierei di ferire il tuo senso musicale» si schermì Michele, scuotendo con decisione la testa e facendo ondeggiare le bionde ciocche di capelli, che portava alquanto lunghi. «Ma dai!» intervenne Laura, sarebbe bellissimo sentirvi insieme!» «Magari!» ribadì Olimpia, che osservava con interesse quelle schermaglie in punta di spartito. «Beh! Se proprio volete mettermi alla gogna» si decise «dobbiamo trasferirci da me». «Con vero piacere!» accettò Lorenzo, mentre raccoglieva violino e spartiti. 155 Michele abitava nella casa di fronte e, appena entrata, la piccola compagnia notò subito il pianoforte che troneggiava vicino alla finestra, dispiegando una elegante coda. «Ma è uno strumento meraviglioso!» esclamò Lorenzo avvicinandosi e liberandosi le mani. «È un bellissimo esemplare dell’800» si esaltò, aprendo la tastiera e sedendo sullo sgabello. «Grazie,» rispose Michele «sì, ha un suono molto caldo e avvolgente» Lorenzo posò le mani sui tasti e accennò a qualche passaggio, a qualche accordo che amplificò con il pedale. «Ah! Ecco, per forza è così seducente: è un Anelli. Era una fabbrica prestigiosa di Ancona, logico quindi trovarlo qui:» Poi si sciolse in lontani ricordi e si impegnò in un Chiaro di luna che lo stesso Beethoven avrebbe apprezzato. «Non mi dirai che suoni anche il piano?» si stupì Laura. «Per forza, per diplomarmi in violino ho dovuto studiarlo ben cinque anni. In realtà, per me sono stati anche qualcuno in più. Anzi, sai che all’inizio del mio percorso di studi musicali avevo proprio avvicinato prima il pianoforte? Il violino è venuto dopo, ma poi è stato un amore fedele» concluse con un sorriso, mentre si ravviava le ciocche più indisciplinate dalla fronte e si alzava per lasciare il posto a Michele. «Ma chi ha più il coraggio di strimpellare adesso di fronte a te?» fece il ragazzo con aria sconsolata. «Ma guarda che tu tra qualche anno saprai suonare anche molto meglio di così» lo incoraggiò Lorenzo. «Dai, facci sentire qualcosa per scaldarti le mani», lo invitò Michele, dopo un momento di raccoglimento, chiuse gli occhi ed eseguì alcune pagine delle Sonate di Clementi, un valzer di Chopin e una breve sonata di Scarlatti. «Ma complimenti!» esclamò Lorenzo, balzando dalla poltrona e battendogli qualche affettuosa pacca sulle spalle. «Hai proprio del talento. Per essere così giovane, hai saputo 156 interpretare al meglio la musica che hai suonato, sia come tecnica che come resa emotiva!» Poi, mentre Michele rassicurato da tali elogi, si rimetteva alla tastiera, Lorenzo lo seguì col violino, improvvisando accompagnamenti virtuosistici su pagine di Bach. Quell’estemporaneo concerto mise tutti di buon umore e decisero di festeggiare con un’altra improvvisazione, questa volta di tipo gastronomico. «Niente di meglio che un bel piatto di spaghetti all’amatriciana!» propose Laura entusiasticamente. La proposta fu accettata all’unanimità, soprattutto quando rivelò che l’autrice del sugo era stata la mamma che, preoccupata che soffrisse la fame, prima di andare in vacanza, le aveva riempito il frigo da farlo scoppiare. Lorenzo era felicissimo di aver conosciuto un ragazzo che, pur così giovane, non inseguiva le rock star e non si rimbambiva ai ritmi ossessivi delle discoteche, ma “sentiva” veramente la musica e la eseguiva non solo con le mani, ma soprattutto col cuore. Così. Ogni giorno, dopo essere stati alla spiaggia, la Sassonia, come la chiamavano i locali, e aver nuotato almeno per una buona mezz’ora, tutti rientravano: Michele e Lorenzo si perdevano tra le note e Laura e Olimpia, spesso, si divertivano in cucina o se ne andavano a spasso, tra vetrine e bancarelle. Furono dieci giorni di gioia solare e piena. Cosa poteva desiderare di più, visto che era in vacanza al mare con l’amica carissima e colui che ormai le era entrato prepotentemente nel respiro e in ogni cellula? Ma poiché ogni cosa mortale ha una fine, arrivò anche il giorno del rientro. Le due amiche si sarebbero ritrovate a novembre. Lorenzo riprese le prove per i concerti che lo attendevano e lei si rimise a sudare sui libri per gli esami di ottobre. 157 Spesso si ritrovava con le amiche che stavano preparando gli stessi esami e, nelle pause caffè, il discorso non poteva non cadere su Lorenzo. Questi flash avevano il potere di produrre in Olimpia un effetto presenza quanto mai tonificante. Quando a novembre iniziò il secondo anno accademico, facendo un bilancio consuntivo si sentì pienamente soddisfatta: considerati i due esami che avrebbe sostenuto a febbraio, era alla pari col piano di studio presentato; sul fronte affettivo, la situazione non poteva essere più promettente; i rapporti familiari erano tranquilli e, nonostante in casa si vociferasse di una simpatia veneziana, le indagini materne non erano troppo ossessionanti. Quando Lorenzo era a casa, Olimpia divideva il suo tempo tra lui e le lezioni. Quell’anno novembre era particolarmente opprimente: brevi giornate grigie si alternavano a lunghe notti bagnate da nebbie sempre più fitte. Lorenzo era spesso impegnato nel suo giro di concerti che lo portavano in diverse città d’Italia, dal nord al sud. Durante un intervallo di una settimana, nella quale fecero tesoro di ogni minuto per stare insieme, un mercoledì a pranzo, le propose un pomeriggio letterario. «Sai, oggi pomeriggio, c’è la presentazione dell’ultimo libro di un autore nostrano. Non so se lo conosci, Giulio Claudio Erneti.» «No» rispose incuriosita «non ho mai letto niente di suo. Cosa scrive?» «Beh! Non è solo un narratore, anzi. Veramente lui è un archeologo, un profondo conoscitore del mondo antico e quando ne scrive si sente la partecipazione con cui vive le vicende che inventa. Ovviamente la cornice storica entro cui le colloca è quasi un libro di testo, tanto è documentata e attendibile». 158 «Caspita!» esclamò Olimpia «mi hai davvero incuriosita. Andiamoci, allora!» «Se vuoi farti un’idea del genere letterario di Erneti, guarda» continuò Lorenzo, alzandosi dal tavolo di cucina e andando a togliere dalla libreria della sala uno dei libri «questo è il suo precedente romanzo “Le armi dell’oplita”, concluse, porgendole il volume sulla cui copertina campeggiava uno splendido corredo di armi sullo sfondo di un tempio dorico. Olimpia lo prese e cominciò a sfogliarlo lentamente. «Quanto tempo mi dai per leggerlo?» gli chiese ironica. «A me sono bastati cinque giorni» rispose, cominciando a sparecchiare. «Allora vedrò di battere il tuo record, tanto più che sarò proprio sola i prossimi giorni» Con affetto e tenerezza Lorenzo la abbracciò e: «Ti lascio in buona compagnia, ti assicuro» le sussurrò, accennando al romanzo. Quando arrivarono alla libreria, c’era già parecchio pubblico che aveva preso posto nelle prime file. Per fortuna, trovarono due sedie libere dietro alcune signore non troppo alte di statura. Un individuo dall’aspetto severo presentò l’autore all’uditorio e, fortunatamente, non si dilungò troppo nel recitare come una litania il curriculum letterario e culturale di Erneti. Anche lo scrittore fu assai sintetico nell’esporre il quadro storico alla base della storia. «Mi scusi per la curiosità» intervenne poi una giovane signora del pubblico «ma potrebbe spiegarci qual è stata la scintilla che le ha ispirato questo nuovo lavoro?» «Certo. Durante una campagna di scavi alla quale sto lavorando in Tunisia, quindi, come vede, lontano dai luoghi del romanzo, sono emerse delle lapidi con alcune iscrizioni. Non tutte erano integre e leggibili, ma due di queste riportavano i nomi di due personaggi che mi hanno subito preso ed è stato facile per me immaginarli vivi, in carne ed ossa anche se in 159 altre zone del Mediterraneo. Gli intrighi, i tradimenti, la lealtà che caratterizzano i tanti personaggi secondari li ho potuti trovare anche ai nostri giorni e così è nato il libro.» Concluse con naturalezza. Un’altra mano alzata segnalò una nuova domanda in arrivo. «Prego» diede la parola il presentatore. «Dottor Erneti, quando scrive un romanzo o un racconto, cosa le dà più piacere: creare un personaggio che, le assicuro, per il lettore, almeno per me, diventa reale e coinvolgente, oppure il ricostruire un momento storico, con tutto ciò che comporta? Voglio dire, non si tratta solo della Storia con la S maiuscola, ma di quella fatta di una piccola quotidianità. Grazie!» concluse un anziano, distinto signore. «Le dirò» cominciò a rispondere, dopo una breve esitazione «non riesco a separare i due campi, perché i personaggi cui do vita (la ringrazio per il complimento), non sarebbero quello che sono, avulsi dal loro contesto storico, pertanto la creazione psicologica e l’ambientazione storica procedono di pari passo. È ben vero che un Pelagio, una Aglaia, un Vel Aules sono proprio figli miei, mentre per le vicende politiche, le situazioni sociali devo solo documentarmi e cercare di essere obiettivo e verosimile. Ma, in sostanza, diciamo che costituiscono per me un tutt’uno». Terminato l’incontro, Lorenzo e Olimpia si avviarono verso l’uscita, non senza aver prima acquistato una copia di “Passaggi”. «Chi lo legge per primo?» le chiese appena usciti. «Tu, visto che io sono alle prese con “Le armi dell’oplita”» rispose mentre si avviavano verso casa. Qualche sera dopo li attendeva un importante evento musicale: un concerto di Salvatore Accardo alla Fenice. Fu una vera festa, condivisa con Laura e gli altri musicisti del gruppo. Era la prima volta che tornavano nel luogo in cui si erano conosciuti solo pochi mesi prima. Ovviamente per i musicisti 160 quella fu una serata storica, che si concluse con l’incontro con il maestro per complimentarlo e avere con lui uno scambio di opinioni tecniche. Alternando studio e lettura, in poco più di dieci giorni Olimpia terminò il libro di Erneti e, quando quella sera andò a cena da Lorenzo, glielo riconsegnò. «Allora, che ne pensi?» le chiese mentre le riempiva il bicchiere di vino novello. «Mi ha conquistato» fu la lapidaria risposta. Ma poi proseguì con entusiasmo: «Ha un modo di scrivere di una immediatezza unica: sa essere semplice ma non banale e inaspettatamente ti sorprende con immagini di una poeticità emozionante. Senza contare che rende moderni e universali i personaggi che crea. Quando descrive il mercato al quale si reca il protagonista, sembra di leggere un libro di storia, tanta è la precisione delle descrizioni. Riesci a vederti davanti agli occhi gli oggetti che Vel Aules tocca: pare di trovarsi in un documentario della BBC». «Basta, basta, ho capito che ti piace questo genere di narrativa!» la fermò Lorenzo, sopraffatto da tanto entusiasmo. «Spero che finirai in fretta “Passaggi”, perché sono ansiosa di proseguire la conoscenza di questo autore» lo invitò. «Tranquilla: tra qualche giorno te lo passo. Vedrai che…» «Non dirmi niente» lo bloccò «voglio scoprirlo da sola». E prima delle vacanze di Natale lo scoprì: si accorse che il mondo greco, che tra l’altro stava studiando per l’esame di storia antica, non era fatto solo di guerre, di duelli, ma anche di uomini dotati di sentimenti universali e di un solido, istintivo amore per il bello, l’ordine, l’equilibrio. «Più conosco la civiltà greca;» confidò a Lorenzo, rendendogli il volume, dopo l’avvincente lettura «più mi sento orgogliosa di appartenere anch’io in fondo a quella patria lontana. Le nostre radici sono là, anche se più o meno mutuate dalla romanità» 161 «Certo» confermò lui «sono stati proprio i greci che hanno considerato l’uomo misura di tutte le cose. Qualsiasi disciplina, qualsiasi cosa tu pensi, sono stati loro a inventarla o studiarla a fondo». «È per questo che mi affascinano i libri di Erneti, perché ci sento lo stesso amore che provo io per quel popolo» concluse Olimpia. Spesso Laura riceveva telefonate da Michele, che la pregava di salutare i suoi amici nella speranza di rivederli presto. A febbraio, una sera, il ragazzo le comunicò che la settimana dopo sarebbe arrivato a Venezia in gita scolastica e sarebbe stato felice di incontrarli tutti. Quando Lorenzo lo seppe, fu entusiasta e fece in modo di tenersi la giornata libera. «Michele!» gridò Laura, quando lo vide scendere dal treno, circondato da una masnada di coetanei, tutti rigorosamente zainati Invicta. «Laura! Olimpia! Lorenzo! Che piacere rivedervi» esultò abbracciandoli con lo sguardo. «Che programma avete?» si informò Laura, scendendo i gradini della stazione. «Oh!» Non so cosa faranno loro «rispose noncurante Michele indicando il gruppo che lo precedeva «io preferisco la vostra compagnia, se volete sopportarmi. Comunque dobbiamo prendere il treno delle 19». «Ma non puoi allontanarti così…» lo ammonì Lorenzo. «Veramente sono appena diventato maggiorenne, quindi…» si vantò Michele. «Aspetta, aspetta un momento: quella là davanti non è la Cadorini?» chiese Laura indicando una delle accompagnatrici. «La conosco bene, l’ho avuta anch’io come prof di lettere! Andiamo a salutarla!» invitò tutti. Grazie ai buoni rapporti che Laura ricordava di aver sempre avuto con l’ex insegnante, riuscirono a strapparle il permesso 162 di accompagnare Michele in giro per Venezia, promettendo solennemente di riportarlo all’ora della partenza. Lorenzo fu impeccabile nel suo ruolo di cicerone, anche perché arricchiva e vivacizzava le notizie puramente culturali e artistiche con episodi di vita quotidiana curiosi e insoliti. Quando la sera si salutarono, Olimpia sentì nell’abbraccio di Michele una commozione intensa che attribuì alla sensibilità tipica di un musicista, quale lui era senza dubbio. Con la primavera, il sole invitava ad uscire e confondersi con i turisti che calavano nella città in gruppi sempre più numerosi. Un pomeriggio in cui il cielo sereno combatteva contro scuri e minacciosi cumuli, che a tratti oscuravano il sole, scesero dal Ponte delle Guglie in una zona segnalata dai gialli cartelli turistici come Ghetto. Lorenzo si accorse dell’interesse con cui Olimpia guardava quei cartelli scritti, oltre che in italiano, anche con lettere ebraiche, così le chiese: «Hai mai visitato una sinagoga?» Olimpia lo guardò con attenzione, mentre finiva di dare ascolto ai ricordi d’infanzia che all’improvviso si erano affollati nella sua mente. «Questa, no» rispose «ma sono stata tante volte da bambina in quella di Ferrara. Mio padre e mio nonno erano, sono ebrei e a settembre andavo ad assistere alle cerimonie di Rosch HaShana e di Yom Kippur. Mi affascinava ascoltare il rabbino e vederlo ondeggiare mentre recitava i brani della Torah previsti dal culto.» Le piaceva raccontare queste cose del suo passato a Lorenzo, era come rivelarsi a lui sotto un aspetto nuovo. La cosa, infatti, lo stupì e Olimpia ebbe un sussulto: «Ti ho sorpreso? Forse la tua fede così sicura ti fa preoccupare di esserti innamorato di una mezza giudia?» «Ma non dire fesserie!» la bloccò subito «Ho la più grande ammirazione e un enorme rispetto per l’ebraismo, anche perché 163 è da lì che deriviamo noi cristiani. Anch’io, nonostante tutto, sono sempre stato interessato alla conoscenza di questo antico monoteismo. E per fortuna, anche i vari sacerdoti che ho frequentato non erano certo eredi di quelli che un tempo chiamavano gli ebrei “perfidi giudei”. E così, io che credevo di poterti insegnare qualcosa, imparo invece da te che hai visto dal vivo certe cerimonie. E poi, raccontami ancora!» la invitò. «Cosa vuoi che ti dica? Mi ricordo che a Kippur mia nonna preparava un tavolino dove, su una candida tovaglia, disponeva una melagrana, una mela cotogna, una pera e un bicchier d’acqua, coperto da un altrettanto candido tovagliolo. Su tutto questo, poi, spargeva una manciata di chicchi di grano. I simboli rappresentati da quei frutti allora non li conoscevo, ma ricordo che aspettavo con ansia che lo Shoffar suonasse la fine del digiuno per appropriarmi della melagrana che spilluzzicavo con gusto». Quanto tempo era che non lasciava parlare questi ricordi, che non risentiva il gusto dolce e aspro dei chicchi di rubino di quel frutto autunnale! Così si ritrovarono all’interno della sinagoga con qualche altro turista. Com’era diversa questa da quella di Ferrara! Nei suoi ricordi, quella di casa risplendeva del bianco delle pareti assolutamente spoglie, se non per alcuni stucchi monocromi, mentre questa, caso quanto mai strano, era invece decorata con stucchi dai diversi colori. Con l’inizio della primavera Lorenzo fu sempre più impegnato non solo per concerti, ma anche per registrare alcuni dischi, cosa che lo portava per diversi giorni a Milano insieme ai suoi colleghi. Olimpia aveva già imparato ad utilizzare queste giornate vuote, per mettersi avanti con la preparazione di alcuni esami, ma ciò non le impediva di andare anche un po’ a zonzo con Laura che, come lei, a volte, si sentiva un po’ sola. 164 Già cominciavano a pensare alle prossime vacanze. «Hai già fatto qualche progetto con Lorenzo?» le chiese un giorno l’amica. «Veramente no. Anche perché non sappiamo ancora quali impegni avrà. «Rispose.» E tu? «chiese a sua volta.» Starai un po’ con David?» «Può darsi che qualche giorno insieme lo passeremo» «Ti andrebbe di fare una vacanza a quattro?» la apostrofò Olimpia «O preferite fare i piccioncini?» «In gruppo non mi dispiacerebbe» rispose con convinzione. La scelta della meta richiese parecchio: ognuno proponeva qualche località, lei aveva buttato lì timidamente una Grecia, ma poi emergevano remore, difficoltà o altri impedimenti. Alla fine qualcuno suggerì: «E se andassimo a Roma?» Certo non ci sarebbe stato da annoiarsi, ma, al contrario, non sarebbe stato un po’ troppo stressante il traffico della capitale per chi era ormai abituato al liquido scorrere del tempo sulla laguna? «Sai, che a dire la verità» cominciò David «io a Roma non sono mai stato? È il colmo: ho viaggiato per tutta l’Europa, ormai, e ancora non conosco casa mia!» Lorenzo lo appoggiò, aggiungendo: «Io ci sono stato varie volte,invece, ma ti assicuro che è sempre una nuova emozione tornarci». Laura, forse contagiata da quelle parole affermò: «Allora, visto che siete già in due ad essere d’accordo, mi ci metto anch’io, così Olimpia non potrà farci cambiare idea. Io sono stata a Roma solo tanti anni fa, praticamente da bambina e l’unica cosa che ricordo bene è la voglia di tornare che mi prese al momento della partenza». «Bene, e Roma sia» suggellò Lorenzo, alzando il bicchiere per un brindisi. 165 La sola cosa che restava da decidere era la durata della vacanza, cosa che dipendeva, non solo dagli impegni di lavoro dei musicisti, ma anche dal budget, in particolare delle due amiche. Quando all’avvicinarsi dell’estate si fissarono le date dei concerti, risultò che una settimana alla fine di luglio sarebbe saltata fuori. Fatti un po’ di conti, realizzarono di che cifra avrebbero avuto bisogno e ci fu un gran daffare per riuscire a racimolare qualche foglio di filigrana per non dover dipendere totalmente da elargizioni familiari. Laura, che era un tipo quanto mai estroverso e fantasioso, riuscì a trovare qualche negozietto che cercava commesse per il periodo pasquale e primaverile. Anche Olimpia scovò qualche attività remunerativa: lezioni private, servizio di dog sitter. Così, terminati gli esami, preparati rubando anche tempo al sonno e alle uscite con i compagni, ebbero a disposizione una piccola somma che permise loro di presentare a casa la richiesta di un “contributo vacanze” con la coscienza a posto. Mentre per Laura non c’erano problemi, in quanto la famiglia le lasciava la più ampia libertà, Olimpia dovette rendere conto di dove andava, con chi, perché, per quanto tempo. Prevedendo l’inevitabile terzo grado, già subito dopo aver deciso la vacanza, si sentiva inquieta e infastidita. Lorenzo aveva colto, dal suo comportamento, che c’era qualcosa che la impensieriva e così la invitò esplicitamente a parlarne insieme. «Perché non mi dici cosa ti preoccupa? Non pensi che dovremmo condividere anche le cose meno piacevoli? O non ritieni che sia in grado di aiutarti in qualche modo?» «Oh! No» lo rassicurò Olimpia «tu sei fantastico, sempre, ma mi rompe doverti raccontare che palle mi fanno venire i miei in certe occasioni» finì con lo sfogarsi. 166 «A proposito di che?» volle sapere. «Ma della prossima vacanza estiva!» sbottò «Ma tu pensa se ormai ad uno sputo dal 2000, una maggiorenne e vaccinata deve ancora essere sottoposta ad un interrogatorio per sapere cosa farà, dove andrà, perché…» «Capisco che la cosa ti innervosisca» la interruppe Lorenzo col suo tono calmo e rassicurante «ma, in fin dei conti, vogliono solo saperti sempre al sicuro». «Dai, Lorenzo, mi sembri proprio i miei che, quando capiscono di essere andati un po’ troppo oltre, si giustificano dicendo che loro lo fanno per il mio bene, perché non vogliono che mi capiti nulla di male «lo bloccò lei, imitando la voce e le movenze dei familiari. «Considera, poi,» continuò Lorenzo «che non conoscono né Laura né David e nemmeno il sottoscritto, quindi per loro potremmo essere anche un’accolita di tossici ribelli». Al sentire paragonare i suoi amici ad una compagnia di disadattati asociali, Olimpia scoppiò a ridere, contagiando anche lui che, ridiventato serio, proseguì: «Sai cosa si potrebbe fare? Potremmo invitarli qui a Venezia per un giorno e andare a pranzo insieme. Cosa ne dici?» «Vedi?» rispose «Tu sai sempre trovare la soluzione migliore» fu la sua risposta. «In questo caso non è stato poi così difficile» si schermì Lorenzo,» anche perché era già da tempo che pensavo di chiederti di conoscere i tuoi. In fin dei conti, tu i miei li hai già conosciuti, almeno una parte. I miei genitori ti salutano sempre, quando ci sentiamo e penso che, al ritorno dalla vacanza, verranno in Italia per un po’, così ti potranno incontrare. Volevo farti una sorpresa, ma, come vedi, mi è scappato detto «terminò abbracciandola. Olimpia era rimasta esterrefatta dalla notizia e non seppe far altro che rispondere di slancio all’abbraccio di lui. 167 Così, un sabato di aprile, tutto il quartetto si presentò alla stazione a ricevere i suoi genitori. Fin dalle presentazioni, Olimpia capì che, soprattutto David e Lorenzo, cercavano in mille modi di offrire di sé un’immagine quanto mai positiva e tranquillizzante. E ci riuscirono in pieno. Contrariamente alle aspettative, anche lei finì col divertirsi, senza sentirsi costantemente sotto inchiesta. Tra la cordialità signorile di Lorenzo, la spontaneità contenuta di David, l’estrosità di Laura non disturbava più di tanto, anzi… Dopo un pranzo semplice ma gustoso alla “Rosa Rossa”, Lorenzo propose un caffè a casa sua, ben sapendo che l’ambiente raffinato avrebbe fatto una gran buona impressione sui “senior”. Quando nel pomeriggio riaccompagnarono i coniugi Alessandri al treno, l’atmosfera che si era creata nel gruppo era certo molto più distesa e amichevole. «Allora, ragazzi, buona vacanza. Divertitevi e non scolatevi troppo Frascati! «si congedò il padre, mentre stava già salendo sul treno. «Beh! Abbiamo rotto il ghiaccio e non è stato poi così drammatico, no?» chiese Lorenzo per sondare l’opinione degli altri, uscendo dalla stazione. Olimpia tirò un sospiro di sollievo: «Fhui! Anche questa è andata e meno peggio di quanto temessi!» dovette riconoscere. A mano a mano che si avvicinava il giorno della partenza, gli amici cercavano di buttar giù un programma per riuscire a visitare e veder il massimo possibile. «Non ci muoveremo mai da Roma o faremo qualche puntata nei dintorni?» si informarono Laura e David. «Voi cosa preferite?» rimandò Lorenzo. 168 «Forse uscire un po’ dal caos della capitale ci aiuterebbe a rilassarci un po’, non trovate?» chiese David, guardandosi intorno per osservare l’espressione degli altri. «Ma certo. Tanto più che vicino a Roma ci sono Ostia, Tivoli, Cerveteri…» cominciò ad elencare Olimpia. «Frena, frena» la invitò Lorenzo «non abbiamo un mese a disposizione!» «Hai ragione, ma cosa vuoi? Vorrei vedere tutto, immergermi in quel mondo che vorrei tanto aver conosciuto quando era vivo e sonoro!» dovette riconoscere con rammarico. Ovviamente, prima di partire, tornò a casa per preparare la valigia. Nel cercare un paio di comodi sandali nel ripostiglio, si ritrovò a rovistare tra le tante scatole e scatoloni dove, da anni, venivano riposte le cose che si volevano conservare ma non erano di uso comune e frequente. Tra queste, l’apertura di una vecchia cassetta di legno le provocò uno sfasamento da vertigine: c’erano in bella vista vecchie foto di famiglia, dei bisnonni e nonni paterni, Con un’emozione che da tempo non provava, si portò in camera quel tesoro riscoperto e, seduta a gambe incrociate sul letto, cominciò a vuotare lo scrigno. I bisnonni non li aveva conosciuti, se non nelle fotografie che i nonni tenevano sulla loro credenza. C’erano alcuni biglietti di condoglianze, qualche vecchissimo telegramma, ma tutto passò in secondo piano, quando si accorse che, sotto tutto quel materiale cartaceo, c’erano qualche oggetto e qualche piccola scatolina. Da un sacchetto di carta estrasse una kipà nera, che le ricordò le funzioni in sinagoga, quando il nonno la indossava. Dentro una scatolina da gioielliere trovò uno shaddai in argento e in un’altra un magen David. Quello lo ricordava bene: lo aveva visto tante volte al collo del papà, quando, da bambina, lui la faceva volare, prendendola in braccio. 169 Fu proprio quel reperto a farla riflettere: ma da quando il papà non frequentava più la “scola”, come la chiamava il nonno? Perché l’aveva tolta? Di questo non avevano mai paratalo, né lei mai, prima di allora, se ne era chiesto il motivo. Sempre assai superficiali e quasi obbligati dalla mamma erano stati i suoi rapporti con la religione cattolica, per cui non si era preoccupata affatto di sapere come la pensasse il padre. Stava per riporre il tutto, quando, d’improvviso, come ubbidendo ad un richiamo istintivo, tolse dal suo contenitore la bella stella di David e le venne voglia di indossarla, insieme al violino di Lorenzo. Quello che comunque non dimenticò mai di fare fu di nasconderla sotto le magliette, per non innescare in casa una sequela di domande da Sant’Uffizio. Grazie ad alcune conoscenze, Lorenzo riuscì a trovare due camere in una piccola pensione dietro S. Pietro. «Ottima posizione» fu il commento del gruppo «Perfetto per andare a Castel Sant’Angelo, ai Vaticani…» pensò subito Olimpia, studiando la mappa della capitale. E quando finalmente arrivò il giorno della partenza, tutti erano elettrizzati: i due musicisti avevano già inaugurato con strepitosi successi la stagione concertistica estiva; le due amiche si erano liberate degli esami programmati, anche se non tutti con il massimo dei voti. «Ma che mi frega!» pensava Olimpia al proposito «L’importante è eliminare il maggior numero di materie nel minor tempo possibile». Non vedeva l’ora di finire l’università, perché già si immaginava, libera dallo studio, felice di pensare solo a Lorenzo, di sposarlo e condividere la sua brillante carriera. Laura, negli ultimi tempi, prima della partenza, quando le sentiva fare questi discorsi, non sapeva che pensare: come poteva una ragazza così intelligente, vivace, sentirsi pienamente felice alla sola idea di vivere a fianco di un uomo, augurandosi che fosse per tutto il resto della vita? 170 Lei, invece, attraversava un momento piacevole, sereno: il suo rapporto con David non creava problemi a nessuno dei due. Spesso si vedevano e stavano insieme, era esaltante far l’amore con lui, ma se si chiedeva se avrebbe voluto che durasse per sempre, si sentiva prendere dall’angoscia, da uno strano senso di soffocamento. Forse anche perché sapeva che la sua laurea l’avrebbe portata spesso all’estero e molto lontano, faceva di tutto per non sentirsi avvinghiata da un sentimento esclusivo. Tutto sommato le piaceva poter sempre contare su dei momenti della giornata e su degli spazi solo suoi. La sua indipendenza, aveva sempre pensato, non era in vendita e non l’avrebbe mai scambiata con un sentimento monopolizzante. Solo quando aveva capito che anche David era un po’ come lei, era riuscita ad accettare di condividere con lui il letto e parte del suo tempo. La calda estate romana li accolse come peggio non avrebbe potuto: un temporale da storia li bloccò sul grande raccordo anulare. Dovettero attraversare anche alcune zone semi allagate, mentre nel cielo fulmini, sempre più frequenti, scoppiavano in veri e propri boati. Trovato uno spiazzo libero da alberi e tralicci, che le folate di un vento rabbioso avrebbero potuto trasformare in proiettili, si fermarono ad attendere. «Beh! Come inizio di vacanza non c’è male!» ironizzò Lorenzo. «Pensa che peggio di così non potrebbe essere, per cui ora può solo migliorare» lo rincuorò David. E in effetti, con la stessa velocità del lampo, il burrascoso evento meteorologico cessò. In un batter d’occhio, il sole trionfò e rese sfolgoranti edifici, statue, fontane. A tutti sembrò che la città avesse voluto, anche se un pochino in ritardo e con troppa forza, darsi una bella ripulita per festeggiare il loro arrivo. 171 Depositati i bagagli, passati sotto una tonificante doccia, uscirono alla conquista della città. Prima di partire avevano stilato un minuzioso programma per ottimizzare il tempo e poter vedere tutto il possibile. Nel far questo avevano anche cercato di conciliare i vari momenti della giornata con i luoghi più adatti: il tramonto fu senza dubbio esaltante dal Pincio; una mattinata fu piacevole perdendosi tra i viali di Villa Borghese, dove poi rimasero tutto il giorno per una full immersion di arte e archeologia alla Galleria omonima e a Villa Giulia. I primi giorni trascorsero febbrili ed avvincenti, soprattutto per Olimpia che avrebbe voluto avere i cento occhi di Argo per poter ammirare, contemplare contemporaneamente tutto quel patrimonio. Pur se così occupata a saziare la sua voglia di conoscere, non poteva, a volte, non notare come Laura rispondesse quasi a monosillabi a David e come spesso lui cercasse di rimanere un po’ arretrato rispetto al resto del gruppo. Le dispiaceva che gli amici non condividessero a pieno la gioia della vacanza e delle continue scoperte artistiche che tanto la riempivano di traboccante contentezza. Una sera capitarono a cena in un piccolo locale a via de’Coronari: l’atmosfera era intima, sia per la sola presenza, oltre a loro, di una coppia di tedeschi, sia per una sapiente illuminazione fatta di candele e torce profumate. In un angolo, in fondo alla lunga sala, c’era un pianoforte e Lorenzo, di ritorno da una sosta in bagno, non poté far a meno di metter mano alla tastiera. Il suono era morbido, suadente e, sotto il tocco delicato dell’improvvisato pianista, le note vagavano nell’aria, come iridescenti bolle di sapone. Catturato dalla magia del suono, Lorenzo si lasciò andare all’inseguimento di accordi e di melodie che gli nascevano spontanee. Pur con qualche incertezza, cercò di ricordare qualche brano di Schumann, 172 mentre il proprietario, il personale e i due tedeschi gli si avvicinavano in silenzio. Lasciate spegnere le ultime note, il pubblico applaudì con calore e non lesinò complimenti al concertista. «Ammazzalo, quanto sei forte!» lo apostrofò il cuoco. «Grazie. Ho solo voluto provare a me stesso se ancora mi ricordavo qualcosa» rispose con modestia Lorenzo, mentre si alzava. «Come? Non è un musicista di professione?» gli chiese il proprietario. «Musicista sì» confessò «ma il mio strumento è il violino». «Veramente? Ma che bella coincidenza!» proseguì «Anche mio figlio studia violino. Fa solo il terzo anno, ma mi dicono che prometta bene». Olimpia, Laura e David si erano avvicinati anche loro, felici del successo di quell’estemporanea esibizione. «Scusate» fece Lorenzo, avvicinandosi agli amici «ma ora vorrei finire la cena, per la quale devo ora farle io i complimenti». «Immagino che sarà qui in vacanza?!» lo seguì il proprietario. «Già e i miei amici ormai avranno bevuto anche il caffè» cercò di disimpegnarsi. «Ma se volesse venire a suonare qualcosa nelle prossime sere, ne sarei felicissimo» «Grazie della proposta, ma vede…» stava per continuare, quando David gli si affiancò «Averlo saputo, potevamo portare gli strumenti!» «Come? Anche lei musicista?» si inserì Ettore Giovannini, come si presentò il ristoratore. «Sì, anch’io violinista.» rispose accennando un elegante inchino. 173 «Ma questo è troppo bello. Se permette, vado a cercare lo strumento di mio figlio, così potrà deliziarci anche lei.» Si entusiasmò il padrone di casa. E infatti, di lì a poco, tornò con un astuccio dal quale estrasse un violino che, immediatamente, i due musicisti riconobbero come un normale prodotto di fabbrica, lontano dalla qualità dei loro strumenti. Iniziò così un avvincente happening, in cui i due amici si scambiavano i ruoli: prima esecutore e poi ascoltatore, finché Lorenzo ritornò al piano e accompagnò David in alcune pagine di un repertorio romantico che, anche se non era proprio il loro preferito, riuscì tuttavia ad esaltare la ristretta platea. Rinunciando a seguire con attenzione lo spettacolo, Olimpia preferì restarsene in disparte con Laura per cercare di farla parlare e sapere cosa la infastidiva. «Dai, Laura, dimmi cosa c’è che non va. Cosa è successo tra te e David?» la spronò. «È così evidente?» le rispose con la domanda. «Assolutamente» sentenziò «e non vorrei che per qualche motivo c’entrassimo Lorenzo e io.» «Ma cosa dici?» si stupì Laura «Ma niente affatto. È che, evidentemente, la continua e costante presenza reciproca ci sta asfissiando. Sono convinta che se avessimo fatto vacanze separate, saremmo i più felici innamorati del mondo». «Mi dispiace» la confortò Olimpia, posandole una mano sul braccio «Vuol dire che, quando torniamo, ve ne starete per un po’ lontani» «Già, ma, cosa vuoi?» proseguì Laura «credo di averlo temuto già prima di partire, che avremmo corso questo rischio, anche se non è mica la fine del mondo. Effettivamente, David è un’ottima compagnia, ma le nostre autonomie si scontrano anziché integrarsi, come è per te e Lorenzo. E ora, dai!» la invitò Laura, cambiando completamente tono «Godiamoci questo momento di indiretta celebrità» 174 Così tra un accordo, una melodia, un trillo, si fece tanto tardi che il titolare, accortosi del movimento del personale verso le cucine, capì che era ora di chiudere. «Mi dispiace enormemente, ragazzi, ma purtroppo devo chiudere, se voglio evitare una multa salata. Comunque, è stata una serata meravigliosa. Non so come ringraziarvi, siete stati una compagnia fantastica. Quando potrò avere la gioia di riascoltarvi?» Lorenzo rispose per tutti: «Credo che dovrà aspettare qualche occasione ufficiale. Alla fine dell’estate abbiamo un paio di concerti, a Tivoli e a Fiuggi. Sarà un piacere anche per noi incontrarla di nuovo.» «Mi raccomando» volle assicurarsi Giovannini «non dimenticate di avvisarmi, quando sarete in zona!» e per essere certo che non lo scordassero, diede ad ognuno un bigliettino del locale. Ogni giorno musei, palazzi, chiese svelavano agli occhi di Olimpia un patrimonio artistico sempre vario e ricchissimo. Si sentiva come un bambino nel paese dei balocchi. La cosa che più la lasciò senza fiato fu la vastità inaspettata di Villa Adriana. «Ma io non credevo che fosse grande come una città!» si sorprese, cercando di immaginare il Canopo circondato da porticati, statue e illuminato a festa nelle sere di ricevimenti. Tornata dalla vacanza, si sentì arricchita sia da tutto quanto aveva ammirato, sia dalla consapevolezza che il suo rapporto con Lorenzo si faceva sempre più totale, coinvolgente. Sapeva bene, comunque, che l’autunno avrebbe significato nuovi periodi di lontananza, ma la certezza del sentimento che li univa rendeva, in un certo senso, dolce anche la malinconia. Il calendario, settimana dopo settimana, si assottigliava e, tra una lezione, un esame, una pausa di riposo, arrivò anche una nuova estate. Avevano appena cominciato a fare qualche progetto di vacanza, quando una sera Lorenzo le annunciò: 175 «Temo che non avremo molto tempo quest’anno per andare insieme da qualche parte. Le date dei concerti sono piuttosto ravvicinate e a luglio mi hanno chiamato a Boston per una serie di lezioni in un college. All’inizio non volevo andare, ma poi ho visto questo» e le mostrò un articolo tratto da una rivista musicale. Anche se non troppo abile nel tradurre dall’inglese, Olimpia riuscì a capire che si trattava di una specie di master, di corso di specializzazione di tipo didattico. «Vedi» le spiegò Lorenzo, posando le pagine su un tavolino «sembra quasi fatto apposta per me: come vedi, è sempre a Boston e le date si conciliano benissimo. Mi dispiace molto, credimi,» le confidò, serrandola tra le braccia «ma sono quelle occasioni che non capitano sempre». «Non ti preoccupare» cercò di tranquillizzarlo «non credo che ci ameremo di meno per questo. No?» gli chiese respingendo con uno sforzo durissimo le lacrime che sentiva affiorare. «Ma come puoi dubitarne» fu la decisa risposta di Lorenzo, prima di baciarla con tutta la dolcezza di cui era capace. Il contributo che Olimpia e Lorenzo diedero ai bilanci delle poste e della Sip fu davvero notevole: lettere e telefonate erano frequentissime e varie. A volte, prevaleva una nota di intensa nostalgia, a volte le notizie di cronaca personale li rallegravano. Di cose da comunicare ne avevano un sacco e, così, per fortuna, c’era sempre qualcosa che polarizzava la loro attenzione, in modo che pensavano un po’ meno al tempo che ancora li avrebbe tenuti lontani. Quando si ritrovarono, non riuscirono a capacitarsi di come avessero potuto sopportare quella separazione, visto che ora non potevano fare a meno di stringersi, guardarsi, parlare sempre fitto fitto tra loro in ogni momento. Lui le parlò dei tanti ragazzi che aveva conosciuto e con alcuni dei quali si era subito sentito in sintonia. «E …le ragazze? Com’erano?» lo interruppe Olimpia. 176 «Ragazze? Quali ragazze?» chiese stupito Lorenzo. «Beh! Non sei mica stato in seminario!» cercò di scherzare «Ci saranno state anche delle musiciste» chiarì, calcando la voce sulle desinenze femminili. «Ma sì» riconobbe lui «Certo che c’erano anche delle ragazze, è ovvio. Ma a me credi importasse?» le chiese guardandola fisso e dritto negli occhi. Una sera di fine settembre, proprio mentre stavano cenando, il telefono di Lorenzo suonò e, dopo un «Pronto» lui cominciò a dialogare in un fluente tedesco. Olimpia riuscì a capire il proprio nome tra una serie di suoni che per lei erano privi di significato e aspettò, curiosa, che posasse il telefono. «Che sorpresa! Era uno dei ragazzi che ho conosciuto a Boston. Si chiama Andreas Wegener. Sta vicino a Berlino ovest e suona anche lui in un piccolo complesso, un quartetto, mi pare. Forse ci vedremo, perché verrà per un giro di concerti in Italia.» Le raccontò Lorenzo, tutto entusiasta. «Sbaglio o ho sentito il mio nome?» gli chiese Olimpia. «Sì, naturale, gli ho parlato di te. Sa che sono legatissimo, per mia fortuna. Pensa che avrebbe voluto farmi conoscere sua sorella Greta, che farebbe carte false per sposare un italiano!» Olimpia si lasciò sfuggire un «Ah!» deciso e molto sonoro. Quando, qualche tempo dopo, ebbe l’occasione di conoscere Andreas, dovette convincersi che pareva fatto apposta per andar d’accordo con Lorenzo. Il quartetto Orpheus, di cui faceva parte, tenne un concerto a Cà Giustinian e, ovviamente, non se lo lasciarono scappare. Non capendo il tedesco, Olimpia cercava di scambiare qualche frase con i ragazzi tedeschi in un inglese un po’ scolastico ma efficace. Fu proprio durante la permanenza a Venezia dei musicisti germanici che una sera la televisione trasmise un fatto epocale: l’abbattimento del muro di Berlino. 177 Com’era logico, questo divenne con il gruppo dei nuovi amici l’argomento del giorno. Mentre Olimpia credeva che questo avvenimento avrebbe entusiasmato senza riserve lo spirito teutonico degli ospiti, quando restarono soli, dopo una cena italo- tedesca, Lorenzo le spiegò che Andreas gli aveva espresso anche alcune riserve. «Ma allora» gli chiese, «Andreas non è contento della riunificazione del suo paese? Cos’è, un filocomunista?» «Macché!» la smentì deciso «Figurati che, anzi, ha degli amici che abitano nella DDR, per cui sa bene come hanno vissuto finora di là dalla cortina di ferro. Praticamente, è come se fossero sempre stati dei bambini: lo Stato era come un padre che mantiene i propri figli, impedendogli di avere preoccupazioni, pensieri, ma anche privandoli della libertà di desiderare, annullando ogni aspirazione. Più o meno gli dicevano: “Voi non dovete pensare a niente, c’è lo Stato che pensa per voi e vi assicura lavoro, cibo e vi organizza anche il tempo libero”. Non a caso, se ci pensi, lo sport nei paesi dell’est, e in particolare in DDR, ha sempre avuto molto seguito ed è stato praticato da un sacco di giovani». «E allora, come mai, se tutto era così perfettamente pianificato, ora si è arrivati a questo… questa …rivoluzione?» chiese Olimpia, vivamente interessata. «Perché non puoi spegnere l’anima dell’uomo. L’uomo è un animale politico, ma la politica non è solo fatta di piani quinquennali, di economia, di classi operaie. L’uomo è anche individuo, spirito, pensiero e queste cose non puoi circoscriverle con un muro. Senza contare l’elemento etnico: come puoi pensare di tener separato un popolo che, per tanti secoli della sua storia, non ha fatto altro che aspirare ad una unità culturale e politica, a volte, purtroppo, anche con conseguenze disastrose. Il pangermanesimo, la Gross Deutschland, sotto sotto, anche al di là della cortina di ferro, ha continuato a esistere, a condizionare gli animi più sensibili». 178 «Beh! Allora non dovrebbero essere tutti felici per questo evento? Anche i tedeschi hanno avuto il loro Risorgimento, come l’Italia dell’Ottocento!» commentò Olimpia. «Non è così semplice!» la fece riflettere Lorenzo. «Prova ad immaginare come potranno sentirsi i cittadini dell’est messi a confronto con i fratelli occidentali. Saranno loro, senza dubbio, a sopportare un grosso, enorme sacrificio. Dovranno cercare di compiere, nel minor tempo possibile, tutto quel cammino, quel progresso che l’occidente ha compiuto in circa mezzo secolo. Ma ti immagini cosa sarà, per gente abituata a lavorare come dipendente dello stato garantista, ritrovarsi a mettersi in discussione, in concorrenza costante con i vicini, con i colleghi, cercare di diventare imprenditori, commercianti, gente che lavora e che rischia, anche, in proprio? E il problema della moneta? Il marco è forte, solido anche per noi italiani, ma per chi era abituato a dei soldi che non poteva spender altro che a casa sua, è un cambio da fantascienza. È logico e giustificabile l’entusiasmo dato dal veder cadere una barriera che ha contraddistinto un’epoca, ma adesso cominceranno i veri problemi e soprattutto per chi non è più un ragazzo. Vedrai se non ci sarà chi dirà che stava meglio quando stava peggio!» Dopo quei giorni trascorsi tra un concerto e una disamina della nuova situazione tedesca, Lorenzo, Andreas e gli altri compagni rimasero in stretto contatto, tanto che cominciarono a programmare, per l’estate successiva, un giro per Berlino e dintorni. Laura, per parte sua, aveva già deciso che sarebbe partita per il Giappone, dove aveva intenzione di fermarsi anche un paio di mesi. Avrebbe cercato un lavoro come ragazza alla pari o qualsiasi altra cosa che le permettesse anche di frequentare un corso di giapponese. Mano a mano che si avvicinava il giorno della partenza era sempre più elettrizzata; in lei, come al solito, si mescolavano i sentimenti più contrastanti: una lieve nota malinconica per allontanarsi da David era, però, allietata dalla attesa di nuove esperienze e conoscenze. 179 «Era il maggio odoroso e tu solevi così menare il giorno», rileggeva Olimpia, mentre cercava di sviscerare le sfumature più recondite dei Canti leopardiani, corso monografico dell’esame di italiano. Stiracchiandosi dopo due ore di studio, le venne spontaneo pensare ad alta voce, mentre spingeva lo sguardo fuori dalla finestra socchiusa, dalla quale le arrivavano voci gioiose di giovani allegri. «È il maggio odoroso e io meno il giorno su queste sudate carte» sospirò alzandosi per prendere dal frigo un bicchiere di tè freddo. «Ci sarebbero altri modi ben più piacevoli, però, di impiegare le giornate». Infatti Lorenzo era partito perché gli amici tedeschi volevano organizzare qualcosa per festeggiare a novembre il primo anniversario della caduta del muro. Volevano anche fargli fare un giro e tastare un po’ il terreno anche in alcune città dell’ex DDR. Quando, alla sera, Lorenzo la chiamava, avevano preso l’abitudine di scherzare sul fatto che lui le avesse affidato la casa, chiedendole, non solo di dare acqua e luce alle piante, ma soprattutto, di riempirla con il suo profumo, la sua voce, perché gli piaceva immaginarla lì, quando si sentivano. «Si’, sono la domestica del Maestro Vianello» gli rispondeva a volte, ridendo. «Il maestro Vianello non è in casa. Lasciate un messaggio…» inventò, con voce seria e impersonale da segreteria telefonica, quando quel pomeriggio andò a rispondere, ma si stupì e si riscosse subito, quando, anziché Lorenzo, sentì, inaspettatamente, un don Giovanni dal tono grave e asciutto. «Ciao Olimpia». «Oh! Scusi,don, credevo…» «Sì, sì, immagino» la interruppe «Vorrei parlarti, Olimpia. Posso passare?» 180 «Certamente; lo sa bene che lei è di casa qui» «Bene. A tra poco, allora.» Dall’appartamento di Giuliano le pareva di udire un certo tramestio: il telefono suonava e si susseguivano brevi, inudibili conversazioni. Sentì aprirsi la porta del piano di sopra, proprio mentre stava per andare ad accogliere il prete. Nell’ingresso si incontrarono tutti: Giuliano aveva gli occhi rossi, Marilena aveva il naso nascosto in un fazzoletto che sembrava ormai fradicio e don Giovanni, ancora sulla porta, aprì le braccia in un gesto insieme di sconforto e di offerta di rifugio. «Ma cosa c’è? Che succede? Mi volete spiegare?» chiese Olimpia con ansia crescente, guardando ora l’uno ora gli altri. Toccò a Marilena, più per caso che per calcolo, rivelarle l’accaduto. Ma prima di parlare, la serrò in un abbraccio da togliere il respiro. «Lorenzo» cominciò con voce rotta e titubante «ha avuto un incidente con la macchina. C’è stato uno scontro, vicino a Lipsia.» Non poté proseguire subito, perché Olimpia si divincolava e cercava di guardarla in viso, ma lei sapeva che, se l’avesse avuta di fronte, non avrebbe trovato la forza di dirle che Lorenzo era morto. Non poteva sopportare di spararle quel proiettile negli occhi, prima che nel cuore. «Dov’è? Come sta??» chiedeva cercando di sciogliersi dal suo abbraccio. «Sii forte!» intervenne don Giovanni, mentre cercava di inghiottire dolore e lacrime. A quelle parole, Olimpia si riscosse e, smessa la sua lotta tra le braccia di Marilena, tese una mano verso il prete. Allentatasi la stretta, si liberò per rivolgersi a lui, che la ricevette, mentre lei, come in trance, chiedeva: «Allora… è …morto?» Nessuno poté risponderle, d’altronde non serviva: ormai nessuna parola avrebbe più avuto senso. 181 Rientrarono tutti nel salotto, dove c’erano ancora i suoi libri aperti sul tavolo. Giuliano le prese le mani e la guardò a lungo, quasi volesse cercare in lei una risposta, temendo uno scoppio di pianto, uno svenimento. Con una calma assurda e innaturale, Olimpia, gli occhi asciutti, come se avessero esaurito già tutte le lacrime, proclamò: «No, no, non è vero. Voi volete mettermi alla prova, vedere come reagisco… Non è così?» chiese, guardandoli come se li vedesse per la prima volta. «Olimpia, senti…» cercò di parlarle il don. «Andate via, per favore», chiese con tono supplice. «Vi prego, andate via. Lasciatemi» ripeté ancora flebilmente, mentre si allontanava lei verso la porta d’ingresso. «Andate via!» urlò con quanto fiato aveva e tanto improvvisamente che tutti sussultarono. E continuò a ripetere quell’ordine, quell’invito, con una varietà di toni sempre più sfumati: «Andate via, andate via…» Giuliano andò in cucina e tornò con un bicchiere d’acqua che le porse, ma Olimpia spiazzò tutti dirigendosi decisa verso la camera da letto, richiudendo con forza la porta con la chiave. Marilena si riscosse e cercò di prendere in mano la situazione: «Non possiamo lasciarla così. Ci vorrebbe un medico, qualche sedativo…» «Già, forse avremmo dovuto pensarci prima, ma come si può avere la freddezza, la lucidità in momenti come questi.» rifletté Giuliano, lasciandosi sedere pesantemente in poltrona. «Quando arriveranno i tuoi?» chiese poi al marito. «Dovremmo pensare noi ad organizzare tutto. Vai, Giuliano, vai tu con don Giovanni, se può accompagnarti. Io resto qui e cercherò di convincerla ad uscire, di parlarle.» Dalla camera da letto non giungeva un lamento e Marilena, preoccupata, si avvicinò. 182 «Olimpia, per favore, ti prego, apri. Lascia che almeno piangiamo insieme!» Ma Olimpia era insensibile a tutto: si sentiva come una pietra gettata in fondo a un baratro. Si era andata a rannicchiare in un angolo, per terra, tra il muro e il comodino, dalla parte di Lorenzo. Un fachiro non avrebbe potuto tenere più a lungo la totale immobilità. La stanza si riempì, a poco a poco, di ombre, che, poi, divennero un unico buio che la avvolse. Fu il telefono che la fece sobbalzare all’improvviso, prima che Marilena rispondesse. Ormai la notizia doveva essere circolata tra gli amici, i colleghi del conservatorio e chissà quanti avrebbero cercato di sapere… «Olimpia?! Ho preparato qualcosa da mangiare, vieni», la invitò, anche se con poca speranza di essere ascoltata. E invece, la porta si aprì e Olimpia, come un’apparizione, emerse dal buio, accecata dalle luci accese. Purtroppo, certe necessità fisiche reclamavano di essere soddisfatte e il bagno, di cui aveva urgente bisogno, l’aveva costretta ad uscire. Marilena ne approfittò per cercare di avvicinarla, ma riuscì solo a parlarle attraverso la porta chiusa. «Olimpia, è vero, quello che è successo è una tragedia, un dramma impensabile e insopportabile. Posso immaginare cosa provi, come ti senti ora, ma credi che anche per Giuliano e per me sia facile questo momento? Lorenzo era suo fratello e hai visto anche tu quanto forte fosse il loro legame. Dobbiamo cercare di essere uniti e farci forza a vicenda. La perdita che abbiamo subito è enorme, ora ci sembra di avere un buco vuoto al posto del cuore, ma dobbiamo prepararci intanto per salutare degnamente Lorenzo e poi sarà il tempo del rimpianto e del ricordo», concluse singhiozzando. Quando finalmente Olimpia uscì e se la trovò di fronte, muta e senza forze, non poté fare altro che abbracciarla. Non avrebbe mai pensato che un dolore così tremendo potesse avere un effetto anestetizzante: era vuota, priva di ogni 183 sensazione, di ogni desiderio. «Forse la morte è questa» pensò ad un certo punto. «Chissà se è difficile morire» chiese ad alta voce, mentre Marilena l’aveva convinta e costretta a bere almeno qualcosa. «Mio Dio!» si spaventò, «Ma cosa stai pensando? Per favore, Olimpia, ritorna in te!» Nei giorni che seguirono, senza quasi che lei se ne accorgesse, non rimase mai sola: Giuliano, anche se molto indaffarato per le incombenze della grave circostanza, aveva cercato di creare una specie di turni di guardia. Laura rimase a lungo ogni giorno con lei, ma Olimpia non parlava, non permetteva a nessuno di scalfire la solitudine da cui si sentiva avvinghiata. L’incontro con i genitori di Lorenzo, che tante volte aveva immaginato, avvenne in una sera di temporale, di quelli che la primavera, a volte, come una donna bella e capricciosa, scatena quasi a voler sorprendere tutti con la propria forza. Loro, che l’avevano vista solo nelle numerose foto che il figlio aveva spedito in America, stentarono a riconoscere in quei buchi infossati, quegli occhi così grandi e ridenti. Anche loro, d’altronde, erano totalmente trasformati, azzerati da quella rapina. Giuliano non ebbe bisogno di presentarli, comunque, tanto che la madre, non appena se la trovò di fronte, con la voce rotta e ridotta ad un sussurro, dichiarò: «No, non così, non dovevamo incontrarci in questo modo, per questo atroce dolore! Anche tu gli volevi bene e avrei tanto voluto averti come una nuova figlia. Che destino!» Olimpia guardava quei due distinti coniugi, che tante volte aveva immaginato: il padre era, apparentemente, il più forte, chiuso in un dolore asciutto, quasi altero; la sua statura gli permetteva di tenere abbracciata con grande naturalezza la moglie, che gli arrivava alle spalle e che, spesso, durante il servizio funebre, nascondeva il viso contro il suo petto. 184 Amici musicisti e colleghi del conservatorio avevano voluto rendere omaggio a Lorenzo suonando il Requiem di Mozart. Quelle note parevano scritte apposta per esasperare l’asprezza del dolore di Olimpia: non c’era consolazione in quella musica, non la speranza di una pace eterna nella quale tutti ritrovarsi, ma un senso di vertigine da cui piombare in un abisso. Era la prima volta che assisteva ad un funerale a Venezia: quello scivolare sull’acqua delle gondole nere era la metafora stessa della vita e della morte. I genitori di Olimpia avevano detto e fatto di tutto per convincerla a lasciare Venezia e tornare a casa, a riprendere i contatti con le amiche di un tempo, ma lei era stata irremovibile: voleva e doveva restare lì, continuare ancora a cercare e respirare l’eco del profumo di Lorenzo sul suo cuscino, nei suoi vestiti, ad accarezzare quegli spartiti, fitti di segni a matita, frutto delle sue lunghe prove. David, dopo aver trascorso qualche giorno in preda ai forti vapori dell’alcol cui si era abbondantemente dedicato, non faceva che ripetere a tutti: «Non avrebbe dovuto lasciare il gruppo per andare a fare il solista nell’alto dei cieli». Anche Giacomo era annichilito: gli pareva che il suo violoncello non cantasse più, non avesse più voce, ora che non poteva più sostenere con le sue note il canto del violino di Lorenzo. Se una grande confidenza e facilità di dialogo con i genitori non l’aveva mai avuta, ora più che mai Olimpia si sentiva sola, non potendo confidare né all’uno né all’altro, quanto le mancasse Lorenzo, anche fisicamente. Le amiche di Ferrara, a turno, cercavano di trascinarla fuori di casa, di stimolarla a riprendere in mano i libri. «Dai, Olimpia, lo sai che il lavoro e lo studio sono spesso una buona terapia antidolore!» 185 Ma queste erano tutte parole che, a volte, quasi la infastidivano. Ma, nonostante tutto, il tempo passava e la forza dell’istinto di sopravvivenza della specie umana ebbe ragione anche della voglia di morire che, ogni tanto, la allettava. Così, alla fine, con una passività che non si era mai riconosciuta, aveva accettato l’idea di cambiare totalmente vita, trasferendosi anche con l’università. Fu una decisione maturata lentamente, perché le pareva che sarebbe stato un nuovo addio a Lorenzo, dal quale ancora non si sentiva separata, ma, comunque, ad un tratto si accorse che non aveva più voglia di lottare con chi la invitava a tornare a Ferrara, genitori o amiche che fossero. A lungo e più volte ne parlò a Giuliano e Marilena, che vedeva molto preoccupati per lei, per la sua salute, per i suoi studi. Anche per loro Olimpia era un ricordo vivente di Lorenzo e le erano legatissimi, ma si rendevano conto che non poteva restare legata ad un passato sul quale era calato tragicamente un sipario definitivo. Del resto anche diverse compagne si erano trasferite nell’ateneo cittadino e le offrivano con piacere di aiutarla ad inserirvisi. Certo, quello che le costò più fatica, non fu tanto l’adattarsi ad un diverso ambiente di studi, quanto piuttosto dover tornare a vivere in famiglia, a dover render conto delle uscite, delle compagnie frequentate, a dover condividere per forza, almeno una parte (senza dubbio quella più superficiale) dei propri pensieri. Fu questo malessere che le diede la spinta per cercare di rendersi autonoma il prima possibile. Così macinò libri su libri, facendo la spola tra la facoltà, la biblioteca e la sua camera, dove restava per ore, quasi sempre dopo cena, a studiare e preparare un esame dietro l’altro. 186 I genitori, che la vedevano così motivata allo studio, si congratulavano con lei, non potendo immaginare che per Olimpia il tutto era finalizzato alla ricerca di un lavoro e all’uscita di casa. Quando dovette decidere la tesi, non ebbe dubbi: storia della musica, il cui esame le aveva fruttato un trenta e una grande soddisfazione personale per come era stato condotto con il docente. Le era sembrato di conversare con un coetaneo, più che sostenere un esame. Le era parso di sentire attorno a lei una presenza amica, un conforto; per lei, che credeva nella sopravvivenza dello spirito, non c’erano dubbi: Lorenzo era accanto a lei. La scelta dell’argomento fu un po’ più ardua, perché lei, in fin dei conti, non era musicista e doveva quindi cercare qualcosa che le permettesse di coniugare la musica con qualche altro ambito artistico o storico sul quale si sentisse più ferrata. Grazie anche all’aiuto del docente, che aveva apprezzato le sue considerazioni sui Brandeburghesi di Bach e che la indirizzò verso qualcosa di locale, del periodo d’oro della storia estense, trovò un quasi sconosciuto musicologo e teorico del ‘500, che inserì in un discorso più ampiamente culturale. La preparazione della tesi la occupò per diversi mesi, ma le diede anche la sensazione di stare facendo finalmente qualcosa di personale, che la gratificava. Ogni tanto, specie i primi tempi dopo il suo rientro a Ferrara, quando un sapore agrodolce di rimpianto riaffiorava, faceva una scappata a Venezia, a trovare Giuliano e Marilena. Non trovava, però, mai il coraggio di entrare nell’appartamento del piano terra che era rimasto sempre vuoto. «Non ce la sentiamo di toccare nulla, di togliere neppure il nome sul campanello», le confidò una volta Marilena. «Ogni tanto vado a dare aria alle stanze, a ripulire dalla polvere, ma preferisco lasciare tutto così, come se Lorenzo 187 dovesse tornare all’improvviso.» Confermò Giuliano. «Sarò un idiota, ma è più forte di me!» «No, hai ragione. Ti capisco benissimo» Convenne anche Olimpia. «Sarebbe quasi blasfemo sapere che dentro ci vive qualche estraneo» Quando seppero che si sarebbe laureata, non vollero mancare, quando discusse la tesi e si unirono a genitori e amici per festeggiarla. Tutto sommato, per Olimpia quello fu un giorno speciale, una data da evidenziare sul calendario. Sarebbe stato difficile dimenticarla, anche perché i genitori, per rendere ancor più solenne l’evento, le fecero trovare, come regalo di laurea, le chiavi di una macchina. Ovviamente questo le fece un enorme piacere, perché le sarebbe stata utile in caso avesse dovuto raggiungere scuole fuori città. Tuttavia, se le avessero chiesto cosa desiderava, forse, gli avrebbe fatto spendere meno, chiedendo i soldi per un viaggio, quel viaggio in Grecia che era stato solo un fugace pensiero poco prima che Lorenzo se ne andasse. 188 GIULIO C. PASSATO PROSSIMO Ma, come spesso succede, il suo destino doveva portarlo in ben altre direzioni. Troppo distratto mentalmente per continuare a tenere le sue lezioni universitarie, si prese un riposo sabbatico e viaggiò, per allontanarsi dal suo ieri, per fuggire da quei sussulti del cuore che lo tramortivano, quando un’immagine gli riproponeva memorie ancora troppo brucianti. Tra un viaggio in Sud America e uno in Cina, fece ritorno a casa, per qualche settimana, con grande gioia di Mara, che se lo coccolò con le sue prelibatezze gastronomiche. Una sera, mentre rimetteva un po’ d’ordine nei suoi ricordi di viaggio al computer, squillò il telefono. «Ti trovo, finalmente, giramondo!» lo apostrofò Marcello. «Ehilà! Come stai?» rispose, felice di risentire l’amico, dopo una lunga assenza di notizie. Dopo essersi reciprocamente informati sulle ultime novità, Marcello gli espose il motivo principale che lo aveva spinto a chiamarlo. «Ti ricordi che quando andammo a Tarquinia ti parlai di Andrea?» «Certo, l’ingegnere nucleare» assentì pronto. «Esatto. Non ti ho detto, però, che ha un fratello minore, Fabio, un tipo in gamba, un giovane con dei solidi attributi» ironizzò. «Ha fatto studi scientifici, ma ora, mentre si sta 189 laureando in ingegneria con indirizzo astronomico, ha scoperto una passione irrefrenabile per l’archeologia, anche se diventerà un astronomo». «Cosa vorrebbe, farmi l’oroscopo?» scherzò Giulio C., equivocando volutamente la materia, non riuscendo a capire perché veniva contattato proprio lui. «Ma dai, non dire fesserie, mona» lo zittì Marcello. «Vorrebbe cercare di unire ambiti così lontani e, almeno a prima vista, inconciliabili, come la storia, l’archeologia e l’astronomia.». Giulio C. restò un momento bloccato da una sorpresa totale. «Ci sei? Pronto?» lo sollecitò l’amico. «Sì, sì, lasciami pensare un momento» lo rassicurò. «Certo, sono campi molto… come dire, forse non facilmente conciliabili». «Senti, perché non fai un salto qui a trovarmi: Andrea e suo fratello sono qui, così potete parlarvi e vedrai che un terreno comune finirete per trovarlo», lo invitò. «Ma, scusa, e a cosa gli servo io? Cosa vuole esattamente? Io non so proprio come…» «Non preoccuparti» lo tranquillizzò l’architetto «Lui ha già una mezza idea, ma vorrebbe un consiglio da qualcuno che di storia ne sa più di lui» «Senti, ti va bene se arrivo dopodomani?» «Perfetto. A presto, allora».si congedò Marcello «E grazie» «Ma figurati, sarà un piacere». Giulio C. pensava che, effettivamente, sarebbe stato un piacere veder l’amico, raccontare dei luoghi lontani che aveva interiorizzato, delle tante esperienze vissute in quei mesi. Al contrario, non era entusiasta dell’incontro con quel quasi laureato che chissà quante idiozie aveva accumulato nel pur piccolo spazio tra le sopracciglia e i capelli. 190 Più si avvicinava alla casa dell’amico, più avrebbe voluto che quella conoscenza si fosse già concretizzata e, dopo i convenevoli di rito, senza sembrare troppo scortese, fosse magari già sulla via del ritorno. Invece… dopo lo scambio di alcune riflessioni e diverse battute di una conversazione spontanea, piacevole e brillante, sentì di doversi nettamente ricredere: il ragazzo sapeva il fatto suo, aveva davvero una cultura e una preparazione non comuni, accompagnate da un tratto umano franco e da un sorriso accattivante. Alto e slanciato, aveva l’aspetto del vero “bravo ragazzo”, del primo della classe, ma di quel genere quanto mai raro di quelli che non se la tirano per niente, anzi, chiedono quasi scusa per essere belli, intelligenti e sempre all’altezza della situazione. Durante la cena si complimentò con Fabio per le sue notevoli doti naturali e per la sua cultura, solida e vasta. «Professor Erneti» lo ricambiò «non può creder quanto le sue parole mi gratifichino e mi spronino a proseguire. Vede» continuò, non riuscendo a nascondere una certa emozione «io la ammiro dai suoi primi romanzi e per me lei è un maestro difficilmente eguagliabile. Le sue trasmissioni, poi, mi tengono attaccato al televisore, come una calamita.» «Adesso tocca a me sentirmi in imbarazzo» sentenziò Giulio C. «Ma perché non la piantate con tutte queste sbrodolate reciproche?» intervenne Marcello E Andrea rincarò: «Va bene, siete due grandi e allora, perché non facciamo 1 a 1 e palla al centro?» Tra una risata collettiva e un brindisi la conversazione proseguì nell’interesse generale, fin quando gli argomenti si fecero più specifici, tendenti a sondare i reciproci interessi dei due studiosi. 191 A quel punto, Marcello e Andrea dichiararono che per loro era giunta l’ora del coprifuoco. «Ma che ora è, davvero è già così tardi?» chiese stupito Giulio C. «No, sono appena le tre, ma…» cominciò il padrone di casa «Accidenti! Non credevo!» Si meravigliò. «Ma non c’è problema. Se volete, adesso ce ne andiamo tutti a dormire e domattina…» «Domattina» proseguì Giulio C. «se a Fabio va bene, ce ne andiamo da me, così proseguiamo i nostri discorsi». «Sarà un enorme piacere, professore!» accettò con palese entusiasmo. «A patto, però, che la smettiamo con i vari professore e deferenze varie. Non facciamo prima a darci del tu?» «Felicissimo, grazie» I giorni trascorsi con Fabio furono per Giulio C. una sferzata di vitalità e nuovo entusiasmo. Non gli pareva vero aver conosciuto uno che, per età, avrebbe potuto essergli figlio, ma col quale poteva parlare e disquisire quasi da pari a pari. Gli piaceva lasciarsi trascinare da quel vigore, da quella forza vitale e creativa che Fabio gli comunicava. Alcune idee del giovane lo stuzzicarono e gli misero il fuoco nel cervello. Quando Fabio se ne andò, Giulio C. continuò a pensare, a macinare idee, ipotesi di lavoro. Nei mesi seguenti, si scambiarono parecchie visite e insieme andarono a scartabellare archivi, musei, biblioteche. E così arrivarono a concretizzare una bozza di programma: un ciclo di trasmissioni di archeoastronomia. In ogni puntata avrebbero esaminato la volta celeste, presente in un determinato sito archeologico in una certa data. Fabio avrebbe analizzato il cielo, pianeti, costellazioni, con qualche ammiccante escursione astrologica, mentre Giulio C. avrebbe illustrato il lato più strettamente storico della vicenda. 192 Certo, non sarebbero state cose proprio per tutti i palati, ma le doti divulgative dei due autori avrebbero senz’altro reso digeribili molti concetti. Una volta puntualizzati alcuni dettagli e, soprattutto, dopo aver festeggiato il 110 e lode della laurea di Fabio, partirono decisi per sottoporre il loro progetto al network per il quale lavorava Giulio C. Seguirono incontri con dirigenti, con il C.d.A., furono necessarie alcune limatine e qualche ritocco, ma, alla fine, ottennero l’ok. Così, inizialmente in seconda serata, andò in onda nel gennaio 1995, la prima puntata de “La cintura di Orione”. L’indice di ascolto non fu molto alto, ma in compenso arrivarono molte testimonianze di telespettatori entusiasti: finalmente un programma al di sopra delle solite spazzature televisive; complimenti ai curatori e a chi aveva creduto in quel tipo di trasmissione; originale l’impostazione e suggestiva la scenografia ecc. ecc. Col procedere delle puntate, il target si andò allargando con grande soddisfazione di Fabio e Giulio C. Mara, che cercava di seguire la produzione televisiva del figlio, spesso si sentiva spaesata di fronte a quelle dotte disquisizioni. «Ma come fasstu a saver tute ste robe?» si stupiva «Mamma, non avrò studiato tanti anni per niente, vero?» faceva il modesto «e poi Fabio ci mette molto del suo, sai?» concludeva, rallegrandosi per aver incontrato un ragazzo così intellettualmente dotato. Visto il successo della trasmissione, dopo il primo anno di programmazione e una sosta per la versione estiva del palinsesto, “La cintura di Orione” riprese in prima serata. Gli impegni televisivi, tuttavia, non impedivano a Giulio C. di seguire anche altre attività: aveva ripreso l’università, aveva partecipato a scavi in luoghi remoti dell’Asia e dell’Africa e in 193 siti più domestici, qua e là per l’Italia, curava rubriche su riviste specialistiche e veniva maturando un nuovo romanzo che, come una malattia, ogni tanto, si riacutizzava e lo portava a passare giornate intere al computer. L’idea gli era venuta dopo che, nel 1994, in uno scavo ai limiti di Valle Garzetta, una delle valli deltizie del Po, che avevano visto fiorire la civiltà etrusca di Spina, aveva riportato alla luce uno splendido corredo funebre, comprendente, tra gli altri, svariati piatti da pesce. Le rappresentazioni della fauna ittica non erano certo una novità, visto che al Museo Archeologico di Ferrara se ne conservavano numerosi esemplari, ma quello che li rendeva unici era la presenza dell’anguilla. Questo tipo particolare di pesce era molto conosciuto e apprezzato anche in epoca etrusca ma, stranamente, nessun pittore, né di ceramica attica, né di quella locale, aveva mai pensato di rappresentarlo. Essendo, quindi, un unicum, alla cosa fu dato un certo rilievo nell’ambiente, tanto che, nel giugno 1997, proprio nelle sale del museo ferrarese, si era inaugurata una mostra su “Il pesce degli Etruschi: di Spina in spina”. Il catalogo relativo fu presentato nel corso di un incontro che Giulio C. fu chiamato, ovviamente, a presiedere. La rappresentazione dello sfuggente pesce era di un realismo e di una finezza eccellenti. Spesso la accompagnavano esemplari di pescatrice ed altri più comuni pesci dell’Adriatico, sempre delineati con una precisione quasi scientifica, tanto che ormai si parlava di un “pittore dell’anguilla”. Negli anni precedenti, aveva avuto modo di conoscere, proprio a Ferrara, il soprintendente dei beni archeologici dell’Emilia-Romagna, Ludovico Bennati, un personaggio col quale si trovò subito in sintonia. Contrariamente a Giovanni Martinelli, Bennati era il classico studioso, lontano dai bizantinismi della politica e, se era arrivato a quell’incarico, lo doveva solo alle sue grandi capacità, alla cultura che si era fatto, non pensando quasi ad 194 altro. Anche fisicamente non era certo l’azzimato manager: sembrava più l’Einstein della celebre fotografia linguacciuta. La sua intelligenza, però, era inversamente proporzionale alla cura che dedicava all’abbigliamento. Aveva fatto molto piacere a Giulio C. incontrarlo, qualche tempo dopo, un giorno a Bologna, nelle sale dell’Archiginnasio, in occasione di una mostra su dei reperti di epoca romana emersi durante uno scavo. «Che piacere, Erneti! Se mi avesse detto che intendeva venire a vedere la mostra, l’avrei aspettata.» gli aveva detto con entusiasmo, andandogli incontro. «Grazie, Bennati! Ma non sapevo neanche io quando avrei trovato il tempo per farlo.» Era stata la sua risposta, unita ad una calorosa stretta di mano. «Si vede proprio che non siamo più dei ventenni!» aveva osservato il soprintendente con un pizzico di malinconica rassegnazione. «Se fossimo giovani, saremmo passati immediatamente ad un confidenziale tu». «E chi ci impedisce di farlo da ora in poi?» chiese Giulio C., sentendo aumentare la simpatia per quel personaggio in jeans e giacca alquanto stazzonata. La giornata si concluse con una cena a due in una trattoria della vecchia Bologna. Tra un tortellino e l’altro, ebbe conferma, chiacchierando piacevolmente, della profonda conoscenza di Bennati del mondo etrusco. Anche per lui quel popolo, pur ancora così nebbioso per tanti aspetti, era sempre stato un argomento stimolante e, in qualche piega del suo cervello, giaceva il desiderio di dedicarvisi con uno studio particolareggiato. Si può dire che “La Padania Etrusca”, saggio a quattro mani, di Ludovico Bennati e Giulio C. Erneti, fu impostato proprio sulla tovaglia a riquadri bianchi e rossi di quella trattoria ma fu messa nero su bianco nella casetta sperduta tra i monti che Marcello prestò con grande piacere all’amico. 195 L’opera fu particolarmente apprezzata nell’ambiente degli studiosi, in quanto univa all’approfondita analisi di tutti i ritrovamenti padani dall’età villanoviana in poi, la facilità di lettura e la chiarezza dell’esposizione cronologica del popolamento da parte degli etruschi. L’uscita del saggio nelle librerie, proprio a ridosso della stagione estiva, si doveva rivelare quanto mai determinante per il futuro di Giulio C e per il suo incontro con René Montreaux. Docente emerito di storia medievale alla Sorbona, Montreaux amava trascorrere quasi ogni anno almeno una parte delle sue vacanze in Italia, alternando soggiorni in luoghi di villeggiatura a puntate culturali nelle tante città d’arte o in piccoli centri dall’illustre passato. Quell’anno, dopo essere stato in luglio sulle Dolomiti, aveva voluto fermarsi a Venezia. Nonostante i quasi ottant’anni, il professor Montreax aveva ancora un fisico scattante e asciutto che gli permetteva di camminare con passo spedito anche per lunghi tragitti. Dopo la morte della moglie, non avendo avuto figli, aveva dedicato tutto il suo tempo all’università, sprofondandosi in studi, ricerche, senza trascurare i rapporti con i suoi studenti. Amava, anzi, riceverli spesso e intrattenersi con quelli più motivati e sensibili a certe problematiche, con quelli che consideravano lo studio un piacere, un privilegio di cui mai troppo ci si saziava. Arrivato ormai in là con gli anni, la sua fama era diventata un onore anche per chi poteva dire di essere stato suo allievo. Il carattere piuttosto anticonformista e la scarsa propensione al compromesso, gli avevano, però, procurato anche numerosi detrattori, che lui considerava immancabili, come le pulci per un cane. Aveva pure pubblicato numerosi saggi che, tra gli addetti ai lavori, erano considerati un caposaldo fondamentale sui vari aspetti della società francese dell’alto medioevo. 196 Da francese purosangue, non poteva non appassionarsi alla figura di Vercingetorige e, spesso, amava definirsi un gallo, alludendo al passato della sua stirpe. Tuttavia, riconosceva che, se Roma aveva avuto ragione degli indomiti guerrieri galli, ciò significava che la capacità organizzativa delle sue legioni, le sue leggi, la ponevano su un piano superiore. Anche per questo, forse, si sentiva attratto dall’Italia con una sorta di amore e odio, o, forse più che odio, invidia. Spesso, infatti, amava ripetere che, se generalmente, i francesi ostentano una snobbante superiorità nei confronti dei cugini italiani, lo fanno perché, in realtà, sotto sotto, si sentono inferiori. Quando esternava queste sue opinioni, erano parecchi quelli che, nell’ambiente dell’ateneo parigino e non solo, storcevano il naso e scuotevano il capo infastiditi. «È vero, noi abbiamo avuto l’Illuminismo, la Rivoluzione, Napoleone, ma prima c’è stata Roma con i suoi Cesare, Augusto e i grandi imperatori filosofi Adriano e Marc’Aurelio» riconosceva, suscitando non poche contestazioni tra i suoi interlocutori d’oltralpe. Uscito da Palazzo Grassi, aveva avuto voglia di passeggiare e si era diretto verso San Marco, lasciandosi catturare da alcune vetrine di antiquari e librerie. Gli piaceva osservare se, tra i libri italiani, ci fosse qualcosa a lui familiare e così decise di entrare a curiosare un po’ tra gli scaffali della Toletta. Fu così che gli capitò tra le mani “Padania Etrusca”. Ormai l’italiano per lui era quasi una seconda lingua, fu quindi naturale acquistarne una copia. Le pagine di Bennati ed Erneti gli tennero compagnia quella sera in albergo e il mattino dopo si svegliò con il desiderio di conoscere di persona gli autori. Finita la lettura del libro, era conclusa anche la sua vacanza italiana. Raramente gli era capitato di essere ansioso di prendere l’aereo, mezzo che lo metteva sempre un po’ in 197 agitazione e argomento sul quale più volte aveva discusso con la moglie che, al contrario, amava provare quel vago senso di spaesamento e vertigine che accompagna spesso il decollo. Ma questa volta, invece, non vedeva l’ora di essere nel suo studio a Parigi, per contattare la casa editrice italiana e saperne di più sui due studiosi. Attraverso internet aveva avuto parecchie informazioni biografiche su di loro, ma l’età non più verdeggiante, gli faceva preferire sempre il contatto umano diretto, che riteneva insostituibile per instaurare un rapporto interpersonale di lavoro. Una piovosa giornata autunnale che era appena iniziata con un grigiore penetrante, si annunciò in casa Erneti con una telefonata. Il nome Montreax non gli era certo sconosciuto, ma mai avrebbe pensato di essere chiamato da colui che era noto per essere uno dei massimi medievisti. Superati i convenevoli di rito, lo studioso francese gli spiegò che l’ultimo suo saggio sugli etruschi gli aveva procurato un irrefrenabile attacco di rabbia. «La sua scrittura, Erneti, è così densa ma piacevole, che, sinceramente, vorrei io riuscire ad essere altrettanto lineare e godibile», gli spiegò, non senza qualche fatica nell’ammettere quello che considerava un suo limite: non sapersi liberare dal tono altisonante di una lingua dotta e a volte un po’ arcaicizzante. «Lei mi fa troppo onore, professore» rispose un po’ imbarazzato, mentre la sua naturale modestia lo spingeva ad aggiungere «Inoltre ha visto che non è tutta opera mia. Ho avuto un collega molto dotato che mi ha validamente supportato.» «OH! Lo so e la prego di estendere al professor Bennati il mio apprezzamento più sentito. Non le nascondo che mi piacerebbe molto incontrare entrambi.» 198 «Sarebbe un piacere anche per me, un grande piacere, le assicuro.» «Lei, Erneti, che è ancora giovane, non avrebbe voglia di respirare un po’ d’aria di Parigi? Io verrei volentieri in Italia, ma vede, ne sono tornato da poco e non sempre le mie forze ubbidiscono ai miei desideri», mentì volutamente sulle sue condizioni fisiche, che erano tutt’altro che precarie, allo scopo di invogliarlo ad una visita da lui. «Una scappata potrei farla senza troppi problemi, professore» rispose un po’ emozionato ed incuriosito per quell’invito da parte di un personaggio prestigioso. A questo primo colloquio altri ne seguirono e tutte le settimane si inviavano lunghe e-mail. Bennati, contattato anche lui dal docente, comunicò a Giulio C. che gli avrebbe fatto piacere conoscerlo personalmente. «Che ne diresti, Ludovico, di accettare l’invito di Montreaux e di passare qualche giorno a Parigi?» gli chiese una sera al telefono. «Direi che ne sarei entusiasta. Figurati se ad uno scapolo solitario come me, non fa piacere trascorrere qualche tempo in piacevole compagnia, specie ora che tutti sono presi dalla fregola di procurarsi un invito per capodanno.» E così, proprio per un puro caso, i due ormai amici si ritrovarono alla vigilia del mitico capodanno 2000 in volo per una Parigi ancora più scintillante e agghindata che mai. Quando si erano sentiti, prima della partenza, Montreaux aveva assicurato a Giulio C. che li avrebbe aspettati all’aeroporto e sarebbe stato ben lieto di averli suoi ospiti in una casa che da troppo tempo condivideva ormai solo con un enorme gatto soriano. Quando si furono sistemati nel confortevole appartamento di Rue du Chemin Vert, Giulio C. constatò che, mai come in quel 199 caso, l’ambiente domestico rispecchiava il carattere e la personalità del proprietario. La sobria eleganza dell’insieme era rappresentata da alcuni mobili di alto antiquariato e da un enorme numero di quadri di tutte le dimensioni, di epoche e scuole diverse, che tappezzavano le pareti. Quasi in ogni stanza c’erano libri. Su tavoli, sedie, poltrone, comòde si impilavano pubblicazioni, testi, saggi storici più o meno recenti. Il clou, ovviamente, era nello studio: praticamente una boiserie occultata, da terra a soffitto, da libri, volumi, tomi, raccolte di riviste, il tutto recante i segni inequivocabili di letture e consultazioni ripetute. La scrivania, invece, era ordinatissima: varie pile di carte e documenti facevano quasi da perimetro fortificato ad un ampio spazio centrale su cui regnavano computer e unità periferiche, che denotavano dimestichezza con le tecnologie informatiche. Quando Montreaux lo aveva invitato, Giulio C., oltre alla emozione, aveva avuto anche un attimo di perplessità: come sarebbe stato passare intere giornate con uno studioso anziano e mai visto prima? Non sarebbe stato un capodanno un po’ troppo palloso e monotematico? Già dalle prime conversazioni, invece, dovette riconoscere la sorprendente eccezionalità di quell’uomo, ancora così prestante, con quell’aria da filosofo greco, grazie ad una ormai assestata calvizie, bilanciata da un candido residuo di lunghi capelli che gli coprivano abbondantemente il collo e da una altrettanto candida barba fluente fin sul petto. «Vede, caro Erneti, l’età avanzata ha anche i suoi vantaggi: posso permettermi di dimenticare il barbiere, con un notevole risparmio di tempo e denaro. Inoltre questa barba, così imponente, mi protegge la gola dai rigori dell’inverno e mi permette di evitare i passati quotidiani litigi con il nodo della cravatta, che lascio sempre più spesso appesa nell’armadio. Anche lei, comunque, non ha resistito a lasciarsi ricoprire le guance, anche se in modo ben più accurato del mio. E chi se ne importa se qualcuno tra i miei azzimati colleghi della Sorbona 200 mi chiama l’incolto, chissà se giocando anche sull’ambiguità del vocabolo…» e dopo un sospiro profondo continuò: «Solo la mia Amelie mi voleva sempre tirato a lucido, ma per lei lo facevo volentieri. Essere al suo fianco era per me una tale gioia che niente, nessun sacrificio sarebbe stato eccessivo.» Mentre parlavano, silenziosamente, aveva fatto la sua apparizione un meraviglioso gatto soriano. Si muoveva con la innata grazia,elegante ed aristocratica, dei felini e come fosse talmente sicuro di sé, da non degnare nulla di uno sguardo. Giunto davanti alle poltrone del salotto, alzò il muso e sembrò voler guardare in faccia le persone che conversavano. Si fermò un attimo, osservò il padrone di casa, come a chiedere: «Ma chi sono questi?», poi, forse volendosi rispondere da solo, se ne andò a far conoscenza con gli ospiti, annusando a lungo scarpe, gambe e le mani che loro gli tendevano e dalle quali si degnò di accettare qualche carezza. «Bon Bon!» lo salutò Montreax, «sono amici, come vedi!» E poi, rivolto ai due italiani: «Questo è il mio compagno Bon Bon. Siamo insieme da quasi cinque anni, da quando lo trovai sotto il cassonetto dell’immondizia, una sera di neve. L’inverno, il buio, il freddo mi avevano particolarmente immalinconito; il ricordo di Amelie che, involontariamente, continuava a proiettarsi dentro i miei occhi, non faceva che acuire la mia solitudine. Pensieri tremendi mi sfioravano quando, proprio mentre cercavo le chiavi aprire il portone, queste mi caddero. Nel chinarmi, vidi qualcosa muoversi sotto il cassonetto e mi accorsi che era un gattino. Gli tesi la mano per cercare di prenderlo, pensando che, forse, così facendo, lo avrei solo spaventato di più e invece, quella specie di gomitolo freddo e bagnato venne a cercare il calore della mia mano. Fortunatamente, una famiglia del palazzo aveva un gatto e chiesi a loro cibo e consulenza per riuscire ad allevare la prima bestiola della mia vita. Bon Bon…» «Scusi, ma come mai un nome così dolce, quasi femminile, per un maschio piuttosto solido e robusto. D’accordo che allora 201 era un cucciolo…» chiese Giulio C., mentre cercava di socializzare con la bestiola. «Già, perché lei pensa al cioccolatino, ad un dolcetto» rispose il professore «ma invece il nome è la ripetizione della prima sillaba di Bonaparte». «Nientemeno!» intervenne Bennati. «Quando mi resi conto che io e lui avremmo condiviso le nostre reciproche esistenze, mi chiesi come chiamarlo. Stavo leggendo, in quel periodo, un saggio sul Grande Corso e mi parve fosse un nome adatto, ma chiamare una cosettina così minuta Napoleone, così lungo e altisonante, mi sembrò forzato. Mai, d’altronde, l’avrei chiamato Napi o simili storpiature. Il cognome, invece, poteva prestarsi a qualche aggiustamento, così lo accorciai in Bon. Da qui al raddoppio, il passo è stato naturale.» Mentre Montreax ricordava, Giulio C. aveva focalizzato, in mezzo a libri e soprammobili, alcune fotografie che ritraevano una coppia di probabili sessantenni che, nel sorridere all’obiettivo, parevano voler comunicare una loro gioia intima, una complicità allegra e totale che arrivava dritta a chi li osservava. Lo sguardo di Giulio C. non sfuggì al professore, che continuò, con una certa commozione: «Sì, Erneti, quella è… anzi, era la mia Amelie. Quanto siamo stati bene insieme, come siamo stati felici! Ci capivamo magicamente, senza bisogno di parlarci. Spesso ci capitava di prevenire i reciproci pensieri e desideri. Se avessimo avuto almeno un figlio, la nostra unione sarebbe stata più che perfetta, invece… Per un po’ ne abbiamo sofferto: possibile che tutto il nostro amore non potesse materializzarsi in una creatura da crescere, da circondare con tutto il bene e i beni di cui disponevamo? Avevamo anche pensato di adottare un bambino, ma poi, le difficoltà burocratiche, il sapere che, per quanto desiderato e amato, non sarebbe mai stato sangue nostro, alla fine, ci hanno dissuasi. Così siamo ancora più bastati a noi stessi: abbiamo 202 condiviso tutto, anche quella cosa tragica e beffarda che è la morte.» Come se avesse intuito che c’era bisogno di lui, Bon Bon, dopo aver girato attorno a tutti, con un balzo elegante, planò sulle ginocchia del professore e gli si strusciò contro il petto, ricevendone in cambio carezze dolci e prolungate. Giulio C. resosi conto che la rievocazione stava prendendo una piega un po’ troppo dolorosa (e non solo per il diretto interessato), cercò di allentare la tensione offrendo una sigaretta. Guardandosi intorno, si accorse dell’assoluta mancanza di posacenere, per cui, prima ancora che Montreaux parlasse, ne aveva dedotto che lì nessuno fumava. «No, grazie» gli confermò Montreaux «sono ormai dieci anni che non fumo più.» «Complimenti» lo lodò Giulio C., mentre non sapeva se accendersi comunque una Gauloise o desistere per solidarietà, almeno temporanea. «Non dev’essere stato facile smettere dopo una vita da fumatore» commentò Bennati. «Oh! Purtroppo più facile di quanto anch’io non pensassi» rispose pronto. «Vede, è stato per me una specie di contratto, di patto. Se fossi credente, direi di voto. Quando i medici mi dissero che per Amelie non c’era più nulla da fare, non potei accettare l’idea di vederla soffrire a lungo, di vederla deperire, così lentamente, fino a spegnersi nella rabbia e nel dolore. Così, chiesi, non so neppure io a chi, una specie di grazia; il mio fu un voto alla rovescia: pregai che la morte arrivasse veloce, rapida come uno scippatore giovane e violento. Almeno questo mi fu concesso: nel giro di poche settimane lei se ne andò, riuscendo a non soffrire troppo, grazie anche alla morfina. Per me il tabacco era sempre stato un fedele compagno di lavoro. Quante fumate di pipa mi sono fatto, soprattutto durante le mie letture notturne. Tuttavia la concessione di una grazia come quella fu una motivazione sufficiente a farmi spegnere per sempre pipa e sigari.» 203 Concluse, alzandosi per offrire un cognac ai suoi ospiti. Ancor prima che il professore si alzasse, Bon Bon aveva percepito che lo avrebbe fatto e lo aveva preceduto, balzando sul tappeto. Datasi una rapida sistemata al pelo, si avviò deciso, con la coda dritta come un periscopio, verso il suo angolo preferito. «Ma ora, se permettete, penso che ne abbiate avuto abbastanza delle lagnose rimembranze di un vecchio chiacchierone. Credo che avrete senz’altro voglia e bisogno di immergervi nell’atmosfera frizzante delle feste. Qui attorno ci sono diversi locali dove potrete mangiare, sentire musica, ballare e…» «Per quanto mi riguarda» non lo lasciò finire Bennati «non amo troppo la ressa vociante. Preferisco un’atmosfera più raccolta.» «Per me è lo stesso: il tempo delle baldorie è finito» sottolineò Giulio C. «Ma cosa dice, Erneti, lei è ancora un ragazzo e anzi, ci penso solo ora e mi scuso infinitamente, ma forse io l’ho distolta dalla sua famiglia. Lei è sposato, no?» si ricordò tutto ad un tratto. «No, non esattamente, non più almeno» e, vuoi per l’atmosfera rilassata e confidenziale, vuoi per la disarmante spontaneità con cui Montreaux li aveva messi a parte delle sue vicende personali, anche Giulio C. si sentì invogliato a rivelare la sua storia. «Abbia pazienza, Erneti, la prego, ma sa, noi vecchi siamo in fondo un po’ dei masochisti. Forse perché, pensando che la vita può essere dolore e che a noi della vita ne resta ben poca, ci pare di soffrire meno uscendone. Così, amiamo ricordare le difficoltà, le tribolazioni passate, sapendo che, per fortuna, ce ne toccheranno ancora poche.» «E adesso» proseguì poi alzandosi deciso dalla poltrona «vi caccio fuori a forza. Andate almeno a …» 204 «Senta professore» lo interruppe Bennati «credo che anche Erneti sia d’accordo con me: perché non ce ne andiamo tutti e tre insieme in qualche locale che lei conoscerà senz’altro meglio di noi e ci deliziamo il palato con qualche specialità del posto?» «Bravo Bennati, mi hai letto nel pensiero» concordò prontamente Giulio C. «Sì, certo, i locali giusti non mancano. Siamo vicini al Marais, nel cuore della Parigi più esclusiva e misteriosa» ammise l’anziano professore. «Aspettate un secondo. Faccio una telefonata e poi… Vedrete, staremo benissimo» promise sicuro ed eccitato. E in effetti, quella che trascorsero fu una piacevolissima, tranquilla serata tra persone che parevano conoscersi da sempre. L’ambiente del piccolo bistrot era intimo, caldo, reso accogliente anche da musiche discrete che veleggiavano tra i pochi tavoli, accarezzando le voci sussurrate degli ospiti: due coppie di giovani innamorati, tre signore di una mezza età molto ben portata, un piccolo gruppo misto, che con una contenuta allegria, accompagnavano i tre studiosi verso la mezzanotte. «Professore, ben tornato!» lo apostrofò al suo ingresso un giovane cameriere. «Ciao, Valery» gli rispose sorridendo di gusto. «Mi fa piacere vederla in compagnia» proseguì il garçonne, facendo strada verso un tavolo un po’ defilato, con le sedie che poggiavano lo schienale inclinato. «Ecco il suo tavolo, professore. Prego, signori.» Li invitò, precedendoli e sistemando le sedie. «Grazie, Valery. Sei sempre il migliore. Come va?» si informò con sincero interessamento, mentre prendevano posto. «Bene, professore, grazie. Ho già dato altri due esami, ma quello che sto preparando ora, temo, dovrò sudarlo parecchio.» 205 «Forza, allora, dacci dentro e se non va subito al primo colpo, non importa; come si dice: ritenta, sarai più fortunato. L’importante è avere sempre la volontà di andare avanti.» Lo incoraggiò Montreaux, prima che Valery si allontanasse per andare a prendere la lista delle consumazioni. Scorrendo il menù, il professore li mise a parte della storia del ragazzo. «Sembra quasi una telenovela, si dice così, vero? Valery è il fratello minore di una mia ex studentessa, una ragazza unica, sia per le sue doti naturali, sia per la sfortuna che l’ha perseguitata. Stava quasi laureandosi, quando in un incidente aereo sono periti entrambi i genitori. Le sue condizioni economiche ne hanno notevolmente risentito, così come, ovviamente, il suo equilibrio affettivo e psicologico. In più si è dovuta prendere cura di Valery, che all’epoca era appena un ragazzino e che è rimasto scioccato dal colpo. Nonni non ce n’erano, o meglio, anzi, peggio, la nonna materna era ricoverata, già da qualche anno, in un istituto per malati di Alzheimer…» «Anche questa…» si inserì Bennati, con sincera commiserazione. «Aveva ragione a definirla una telenovela. Purtroppo questa è vera e realmente tragica per i due ragazzi» convenne Giulio C. che, posata la sua lista, partecipava al racconto del professore, che proseguì: «Naturalmente non era ancora finita la serie nera… Il giorno che Claudine stava discutendo la tesi, vennero a interromperla: Valery era stato ricoverato, colto da malore per una overdose. Accompagnai io la sorella all’ospedale. Ricordo ancora come si abbandonò sulla sedia della sala d’attesa, accartocciandosi su se stessa, quasi volesse sparire. Non ne so molto di psicologia, ma la sua pareva proprio la classica posizione fetale, come se volesse rientrare in un utero protettivo e sfuggire a quell’angoscia. Telefonai ad Amelie, che venne subito e cercammo di confortarla. Rimase da noi per un po’, finché, 206 finalmente, Valery uscì dal coma. Insieme a lei cercammo il posto migliore per curarlo, per disintossicarlo. Vivemmo con lei i giorni della disperazione, della ripresa, della speranza, così ci affezionammo, logicamente, ad entrambi.» «Lo credo bene, sono esperienze che legano più di un vincolo di sangue» commentò Giulio C. «Certo, anche Amelie diceva sempre che era come se quelli fossero diventati nostri figli. Li chiamava i nostri ragazzi. Almeno, prima di lasciarci, ha fatto in tempo a vedere Valery ristabilito.» «E ora, Claudine dov’è, cosa fa?» si informò Bennati «Aveva appena incominciato a lavorare in una casa editrice, quando questa fallì e dovette, d’improvviso, cambiare lavoro. Mentre si guardava attorno, incontrò un inglese, un diplomatico. Lei, all’inizio, non volle esporsi troppo: si sentiva molto responsabile per il fratello, ma lui la seppe circondare di tante attenzioni che, alla fine, lei dovette arrendersi (molto volentieri, penso) e lo sposò. Per Valery fu quasi un nuovo colpo: razionalmente accettava la cosa, capiva che la sorella aveva il diritto di vivere la sua vita, di andare incontro al suo destino, ma il suo subconscio rifiutava che un estraneo si inserisse nel suo rapporto con la sorella, che gliela distraesse. Ci affidammo ad uno psicologo per aiutarlo a capirsi, a non lacerarsi in una dicotomia affettiva ed esistenziale. Anche la scomparsa di Amelie, più o meno in quel periodo, non facilitò certo le cose a nessuno.» «Professore, mi scusi, ma questa storia sembra quasi un romanzo. Non ha pensato di raccontarla in un libro?» intervenne Giulio C. «No, vede figliolo… Mi scusi, è vero che per età potrebbe pure esserlo, ma lei è anche e soprattutto uno studioso, un professore, un collega. Perdoni ad un vecchio qualche debolezza e caduta di stile.» Si scusò quasi commosso Montreaux 207 «Ma cosa dice, professore. Quale debolezza? La sua cortesia, la sua cordialità mi lusingano veramente» lo rassicurò pronto Giulio C. «Un libro, diceva?» proseguì poi «non ci ho neppure pensato. I fatti mi avevano troppo coinvolto perché avessi la necessaria obiettività per raccontarli.» Mentre poi gustavano sapori sottili e coinvolgenti, Giulio C. chiese notizie della sorella di Valery, la cui vicenda era rimasta in sospeso. «Già, Claudine e il suo diplomatico. Il matrimonio sembrò funzionare e, quando il marito fu mandato in Germania, Valery seguì la sorella. Egoisticamente, devo ammettere che quegli anni per me furono alquanto vuoti. Ci sentivamo spesso, ogni tanto passavano a trovarmi, volevano che andassi da loro, mi ripetevano sempre che la camera degli ospiti mi aspettava, ma io non volevo inserirmi in un matrimonio così recente… Poi, qualche anno dopo, il diplomatico fu inviato in un paese asiatico, non ricordo se Corea, Indonesia… Valery era cresciuto ed in grado di badare a se stesso, così non volle accompagnare la sorella e preferì tornare a Parigi. Quando me lo disse, confesso di essere stato contento di poterlo seguire ancora, di essergli vicino se avesse avuto bisogno di consigli.» E, come a voler rivivere quei momenti, il professore s’interruppe per scolare il vino che era rimasto nel bicchiere. «E fu meglio così» proseguì poi «perché gli fu risparmiata la crisi coniugale di Claudine, che sfociò in pochi mesi in un divorzio contrastato di cui Valery venne a conoscenza solo quando la sorella tornò a Parigi, per riflettere su cosa fare del lungo resto della sua vita. I due fratelli, a casa mia, parlarono, parlammo perché anch’io, naturalmente, fui coinvolto, addolorato e preoccupato. Possibile che la malasorte, la sfortuna, ancora volessero perseguitare quella ragazza che già tanto aveva patito?» si chiese ancora incredulo. «Ma i giovani, per fortuna, hanno anche tante risorse, tante capacità di reagire, di non soccombere. Sono come un elastico, 208 che può tendersi fino all’inverosimile, ma poi ritorna alle sue normali dimensioni. Così, anche quella prova fu superata e Claudine accettò un incarico in Germania, dove vive tuttora», concluse Montreax. Ormai da tempo la cena era stata suggellata da un cognac, il cui profumo aleggiava ancora nei balloon, quando Valery si avvicinò e con aria quasi complice, rivolto solo al professore, gli sussurrò: «Sa, professore, tra un paio di giorni arriva Claudine.» Quelle parole ebbero il potere di illuminare il viso dell’anziano docente: «E me lo dici solo adesso? Che bello! Appena arriva, mandala subito da me» e, rivolto ai suoi ospiti: «Così potrete conoscerla anche voi. Vi assicuro che vale la pena, vero Valery?» chiese tutto eccitato per la bella notizia. Due giorni dopo, mentre stava versando il cibo nella ciotola di Bon Bon, squillò il telefono. Giulio C. era il più vicino all’apparecchio e Montreaux lo pregò di rispondere. Sentì dapprima, in risposta al suo «Hello» una lieve esitazione e poi, una voce femminile, allegra e veloce, in un francese che gli aprì un varco di ricordi, che chiedeva: «Non è il professor Montreaux. Ho forse sbagliato numero?» Giulio C. non fece troppa fatica nell’adeguarsi alla lingua e rispose che il numero era giusto, lui era un ospite del professore e le avrebbe passato subito il padrone di casa. «Grazie» rispose chi aveva chiamato «Gli dica, per favore che c’è Claudine». «Oh!» non poté trattenersi dall’esclamare «allora la conosco anch’io». «Sì?» lo interrogò «Qual è il suo nome?» «No, no» continuò Giulio C. «lei non mi conosce e a dire la verità io so di lei per quello che Valery e il professore mi hanno raccontato.» «Così conosce mio fratello?» 209 «Già, un ottimo ragazzo. Ma, ecco, le passo il professore» concluse, passando il telefono a Montreaux, che nel frattempo era arrivato. Discretamente, si ritirò per lasciarli parlare in piena libertà. Poco dopo, Montreaux gli annunciò: «Tra un po’ ci raggiungerà Claudine. Passeremo una bella serata insieme, vedrete. Se permettete, vado a prepararmi.» Il clima di attesa che si era creato, rendeva Bennati e Giulio C. ansiosi di conoscere la ragazza, che aveva avuto il potere di trasformare il loro anfitrione, da vecchio pantofolaio, in un elegante e distinto vegliardo. Montreaux aveva, infatti, curato il suo abbigliamento, al punto da illuminarlo con qualche goccia di colonia. La scampanellata che annunciò l’arrivo di Claudine, parve a Giulio C. pari all’esuberanza della sua voce al telefono. Quando fece la sua comparsa al braccio del padrone di casa, gli sguardi dei due italiani furono immediatamente catturati dalla sua figura, alta e slanciata, quasi efebica. «Buonasera!» esordì in un italiano compiacente, mentre si avvicinava tendendo la mano. «Buonasera» risposero, quasi all’unisono, Bennati e Giulio C. Sedutisi in salotto, Claudine mise al corrente Montreaux degli ultimi avvenimenti relativi al suo lavoro presso un’agenzia di informazioni e comunicazione. Mentre lei parlava, gli occhi del professore brillavano di compiacimento. «Ma ora, professore, basta parlare di me. Mi dica qualcosa di lei e dei suoi ospiti, piuttosto.» Lo interruppe, mentre lui stava per chiederle ancora qualcosa. «Oh! Sì, hai ragione» rispose pronto «è stato un vero colpo di fulmine e di fortuna incontrare due persone così squisite» e iniziò a raccontare di come aveva conosciuto lo scrittore italiano attraverso un suo libro e di come lui fosse stato così disponibile a venire ad incontrarlo. 210 La conversazione procedeva spontanea e fitta, creando una piacevole atmosfera confidenziale. «Quindi, professor Erneti, anche lei ha viaggiato molto, allora?» chiese Claudine con fare spigliato. «Sì, naturalmente, e non sempre solo per lavoro.» Confermò Giulio C. «Anche se ho scoperto che si può essere lontani anche non muovendosi da casa. Molto lontani da se stessi.» «È vero anche il contrario, però» gli fece eco lei «Non le è mai successo di essere lontanissimo dal suo habitat, eppure di essere sempre lì, sempre presente, magari proprio quando meno lo vorrebbe?» «Assolutamente sì, ed è la sensazione peggiore. Sembra di essere in trappola: vorresti fuggire da quella prigione senza sbarre che è la tua mente, sono i tuoi pensieri, i tuoi ricordi che non puoi abbandonare da nessuna parte.» «Ma che brutta piega sta prendendo questo discorso!» li interruppe Montreaux. «Io proporrei una bella cena, che ne dite?» La proposta fu accettata con entusiasmo. «Purtroppo Valery questa sera lavora.» Li informò Claudine «Lo sa, professore, che mi sono convertita al vegetariano?» e proseguì: «Pensi che un collega tedesco mi ha dato l’indirizzo di un locale proprio qui vicino, “La saladiere”, un nome che è tutto un programma». «Beh, penso che se anche nessuno di noi è della tua stessa idea, una cena diversa per una volta non ci ucciderà di certo», accettò il professore, alzandosi e invitando tutti a seguirlo. Più volte, durante la cena, Giulio C. si sorprese a considerare quella presenza femminile così viva, così spontanea… La osservava, mentre lei si accalorava nel parlare, e, non sapendo neppure perché, si rendeva conto che quella figura longilinea, quei capelli biondi, chiari e folti, quegli occhi di porcellana, di un azzurro profondo e deciso, lo turbavano. 211 Aveva dunque ragione Foscolo, quando definiva Ulisse “bello di fama e di sventura”? Sì, perché anche Claudine brillava per la fama che Montreaux le aveva costruito attorno e quanto a sventura, poi… Scherzarono e brindarono, perché Claudine aveva sentenziato che vegetariani va bene, ma astemi, no mai! Quando uscirono erano allegri, si sentivano leggeri, ben disposti, quasi desiderosi di prolungare quella serata all’infinito. Purtroppo, Montreaux, nell’accennare un passo di danza, inciampò e, se non ci fosse stato Bennati a trattenerlo, sarebbe finito lungo disteso sul boulevard. «Ah! Ragazzi» fu la pronta battuta dell’infortunato «Spesso, soprattutto quando sono contento, dimentico che non ho più l’età per permettermi questi sprazzi». «Venga, professore» lo sorresse Bennati «la accompagniamo a casa». «Ma no, per carità, non ci pensi neppure» rifiutò deciso. «Credo che il mio amico abbia ragione, invece» concordò Giulio C. «Sentite» proclamò con fare solenne Bennati «facciamo così: io, che sono un po’ troppo allegro andante, accompagno volentieri il professore e voi andate a spasso o…» «Questo mi pare già meglio come progetto. Venga, Bennati, le offro un bicchiere del mio cognac preferito, come viatico per la buona notte» gli propose Montreaux. «E così siamo stati abbandonati al nostro destino» disse Giulio C., non appena si ritrovò solo al fianco di Claudine. «Dispiaciuto?» lo interrogò lei con aria sbarazzina, guardandolo maliziosamente. Giulio C. non rispose: l’attirò a sé, la strinse mentre con la bocca cercava ogni lembo del suo viso, del suo collo che sentiva caldo e profumato. 212 Claudine rispose con trasporto al suo bacio, schiudendo le labbra, mentre il suo corpo aderiva ai muscoli tonici di lui. Le loro mani si muovevano, ora dolci, ora prepotenti in un’esplorazione reciproca che li faceva ansimare. Solo uno scroscio di pioggia fredda e pungente, li fece staccare. «Non ricordavo più cosa fosse un bacio» gli confidò lei, mentre cercavano un riparo, scendendo di corsa i gradini di una stazione del metro. «Vuoi ripassare ancora?» le chiese, prima di circondarla protettivo con le braccia e senza darle la possibilità di rispondere, chiudendole la bocca con la sua. Mai come in quell’occasione Giulio C. apprezzò l’efficienza del Metrò parigino, che gli permise in meno di mezz’ora di trovarsi in un appartamento, solo con Claudine che pareva anche lei bruciare dall’ansia di fare l’amore. Furono momenti di esaltazione: immemore di qualsiasi cosa che non fosse la ragazza che stringeva, al cui corpo si avviluppava come a volerla fagocitare. Claudine rispondeva alle sue sollecitazioni con un entusiasmo contagioso. Più e più volte si sopraffecero a vicenda, finché, esausti, sazi, si abbandonarono e giacquero uno a fianco all’altro. Lentamente, mano a mano che sfumava l’oblio della passione, mentre la coscienza riprendeva il controllo della mente, Giulio C. si analizzò: voltandosi sul fianco, osservava Claudine che dormiva già e d’un tratto gli parve che quel momento presente fosse solo una proiezione della sua mente. Chi era quella donna, cosa pensava, cosa amava, come si accordava con il suo io? Mentre così si interrogava, lei si voltò e aprì gli occhi. «Grazie. È stata un’emozione intensa. Mi piace fare l’amore con te» gli sussurrò con la voce un po’ arrochita dal breve sonno e dal vino. 213 «Posso dire altrettanto» le sorrise Giulio C. «Mi stai studiando come se fossi un reperto archeologico appartenente ad un passato remoto» lo stupì Claudine, fissandolo con decisione. «Scusa, cercavo di rendermi conto di com’è fatta la donna che è stata capace di coinvolgermi fino a questo punto, quando temevo…pensavo che non avrei mai più potuto…» «Per me era lo stesso» concordò lei «anch’io credevo che non avrei mai più permesso a nessuno di appropriarsi dei miei sentimenti più fragili». A lungo rimasero ancora piacevolmente insieme, ora abbracciati, ora fianco a fianco, confessandosi i pensieri più riposti, i ricordi più belli o più dolorosi. Ciascuno mise a nudo il proprio io, finché Claudine, con una subitaneità che lo colpì, si alzò e, correndo verso il bagno, gli gridò: «Adesso basta pensare all’astratto, diamo un po’ di soddisfazione anche al nostro stomaco. Ti va?» gli chiese con una determinazione che non ammetteva altra risposta che un sì. Più tardi, quando Giulio C. si ritrovò da solo, si sorprese a pensare che quella notte, quella giornata trascorsa con Claudine erano state per lui come una terapia, gli avevano dato una carica psicofisica enorme: si sentiva di nuovo sicuro di sé, con tanta voglia di fare, di lavorare, di scrivere. Pareva che tutto il suo essere non chiedesse che di esprimersi, di agire. Gli pareva di stare rivivendo e, quando Montreaux gli chiese se gli sarebbe piaciuto tenere un corso alla Sorbona, accettò con grande entusiasmo. «Badi,» lo informò con una modestia tanto inaccettabile quanto sincera «che la mia presentazione non sarà nulla a confronto del suo curriculum! Come le ho detto, non sono esattamente il più popolare, quanto ad amici ed estimatori, ma so di poter contare sulle amicizie giuste. E poi lei ha già abbastanza titoli di merito per conto suo». 214 «Lei sarà il mio anfitrione e l’essere stato notato da lei, sarà per me un punto d’onore da aggiungere alla mia storia professionale», lo smentì Giulio C., mentre si stringevano calorosamente la mano. E quando lui e Bennati salutarono il loro compitissimo ospite, Giulio C. non poté non pensare che, tutto sommato, la partenza era più spiacevole e malinconica perché lasciava un vero amico che perché si allontanava da Claudine. Tornato a casa, si trovò sommerso da e-mail e posta cartacea, per non parlare della segreteria telefonica. «Ehilà! Vagabondo!» lo salutò la voce del primo messaggio: era Stavros. «Mica mai farti vivo, eh? Se non ti cerco io… Bell’amico!» continuava allegramente «Come state? Spero siate felici come me e Irene: siamo appena diventati genitori di Alèxandros. Richiamateci, per favore. Vi abbracciamo. Ciao.» Quelle richieste al plurale gli ricordarono che non aveva più sentito da tempo gli amici greci, perché, da quando Charlotte se ne era andata, aveva praticamente dimenticato anche gli amici che, in qualche modo, erano collegati a lei, a loro due. Così quella sera decise che era ora di riprendere possesso di tutta la sua vita e si accorse che poteva anche voltarsi indietro a ricordare, a raccontare, senza per questo sentirsi perso. La telefonata a Stavros fu lunga e certo più imbarazzante per l’amico che per lui. «Lo dicevo io che doveva essere successo qualcosa, perché non rispondessi a telefonate e lettere varie» commentò Stavros. «Mi dispiace, Giulio, mi dispiace molto». «Grazie, Stavros, ma ormai è passato, per fortuna. Ora ho in mente tante cose, tanti progetti. Ah! Senti! Vedete le televisioni italiane?» «Assolutamente sì, abbiamo la parabola» gli assicurò. «Allora, se vuoi vedermi, sto facendo un programma storico astronomico» lo informò, fornendogli poi tutti i relativi dettagli. 215 «Non pensi di venire a scaldarti un po’ in Grecia, quest’anno?» gli chiese speranzoso. «Può essere e comunque mi farebbe molto piacere», fu la vaga risposta. Voleva fare una sorpresa all’amico, visto che sapeva che “Nella terra degli Dei” stava per essere tradotto in greco e quindi sarebbe sicuramente andato per la promozione del libro. Così in quell’estate del 2000 si ritrovò in giro per la Grecia a presentare quel libro che continuava a recare una dedica così sorpassata, ormai anacronistica e che, tuttavia non si sentiva di rinnegare. Lo accompagnava una giovane ragazza, dolcissima e timida ma efficiente, che la casa editrice gli aveva affiancato. Era lei, Anthula, che aveva in pugno la situazione logistica e lo portava ora in una libreria, ora in un circolo culturale, finché, verso la fine del tour promozionale, Giulio C., dopo averla ringraziata per tutte le premure usategli, le comunicò che intendeva prendersi qualche giorno di licenza per andare da solo a Salonicco, a trovare degli amici (e sperò che Anthula capisse quanto questa condizione fosse necessaria per lui, senza sentirla come un’ingrata sgarberia). «Professore, la prego, se posso esserle utile … Desidera che vada a prenotarle un volo…» «Senta, Anthula, lei è stata fin troppo cortese nei miei riguardi e io la ringrazio infinitamente, ma davvero, le assicuro che muovermi in Grecia non è un problema per me, anzi mi piace fare da solo e confrontarmi con le varie situazioni della vita quotidiana. E poi, lei è così giovane, avrà sicuramente qualche persona con cui preferirà passare il suo tempo, piuttosto che scarrozzare un maturo…» Non poté finire la frase, perché il rossore che improvvisamente fece avvampare il viso della ragazza fu più eloquente di qualsiasi risposta. 216 «Ma certo, lei ha ragione, professore. Non volevo essere invadente. Allora», riuscì a proferire mentre gli tendeva la mano «arrivederci. Buon viaggio e piacevole soggiorno con…i suoi amici.» Quella leggera, imbarazzata pausa finale suggerì a Giulio C. che, forse, Anthula aveva frainteso il suo desiderio di andarsene in giro da solo, attribuendolo, sicuramente, ad una qualche fanciulla tessalonicese in sua trepida attesa. Questo pensiero gli suscitò un incontenibile accenno di risata che, messolo di buon umore, fu un ottimo viatico per il pur breve volo Atene- Salonicco. Ritrovare i vecchi amici fu una piacevole rimpatriata. Non gli sfuggì che sia Irene sia Stavros facevano di tutto per evitare ogni accenno agli anni trascorsi, così non poté non ringraziarli per la loro delicatezza. «Ma non temere, Stavros, ormai, come ti dicevo, la cicatrice è solida e anche urtarla non mi dà problemi». «Grande Giulio!» lo complimentò l’amico affettuosamente, insieme ad una solida manata sulle spalle. Poiché Irene non allattava e avevano una validissima baby sitter, i neo genitori si presero una fugace vacanza, per portare in giro lo scrittore e archeologo, come lo presentavano orgogliosamente agli amici. Ovviamente Giulio C. si commosse davanti ai resti della tomba di Filippo il Macedone, pensando anche e soprattutto che stava osservando cose che il grande Alessandro aveva sicuramente visto, toccato. E proprio mentre osservava quegli oggetti così preziosi, quel colore solare dell’oro dei diademi, cominciò a maturare un abbozzo per uno studio o un romanzo incentrato sul rapporto, sempre così difficile, specie a quei livelli, tra un padre con grandi sogni e progetti e un figlio che cominciava a chiedersi se sarebbe rimasto qualcosa da fare anche per lui. Forse era anche il pensiero del piccolo Alèxandros Balaskas, ma gli pareva di essere quanto mai sensibile al discorso figli. 217 Gli era particolarmente piaciuta la frase con cui il neo papà glielo aveva presentato: «Questo, Giulio, è il mio primo passo verso l’immortalità o, quantomeno, verso la sopravvivenza». «Come?» aveva chiesto incuriosito. «Sì, finché ci sarà qualcuno che porta il mio DNA, che mi ricorda, potrò dire di essere in qualche modo ancora vivo». «Vero. Hai ragione», rifletté Giulio C. mentre, spontaneamente, gli riaffioravano alla mente i versi dei Sepolcri foscoliani. «E così non ti manca il lavoro, mi pare!» concluse Stavros dopo che Giulio C. lo ebbe messo al corrente dei suoi impegni e progetti. «Perché non vieni a tirar fuori qualcosa anche qui da noi?» lo invitò «Magari, mi piacerebbe molto, magari proprio lavorando con qualche collega greco.» Fu la sua risposta entusiastica. «Forse la cosa non è poi così difficile, sai?» lo incuriosì l’amico. «Dai, Stavros, cosa dici?» «Il nostro vicino è professore del nostro ateneo, un esperto grecista. Vuoi conoscerlo? Magari da cosa nasce cosa, come dite voi!» «Sarò felicissimo di incontrarlo!» «Benissimo» si inserì Irene «lo invitiamo a cena, allora. Così potete fare una lunga chiacchierata. È una persona simpatica e cordiale, vedrai.» Effettivamente, Nikos Papadinos corrispose in pieno alla descrizione che ne aveva fatto Irene. Giulio C. non lo avrebbe più lasciato andar via: riuscivano a dialogare tra loro proprio nella lingua di Socrate! Che emozioni suscitò in Giulio C. quell’esperienza! Quando gli espresse il suo desiderio di fare qualcosa insieme, Papadinos sembrò impazzire di felicità. Si sarebbe attivato subito per organizzare un corso destinato a pochi, 218 selezionati studenti della sua università e Giulio C. avrebbe sottoposto il progetto alla sua facoltà. Quando si salutarono, erano entrambi certissimi che si sarebbero rivisti molto presto, con pale e scopette in mano. Fu una vacanza breve ma intensa e salutare. Quando tornò a casa, trovò una mail di Montreaux che gli annunciava che, per il successivo anno accademico, gli era stato affidato un corso alla Sorbona. La sua idea di studiare i rapporti tra Romani e Galli, specie analizzando vari aspetti della vita quotidiana, sui quali Roma aveva profondamente inciso, aveva, da un lato, un po’ preoccupato gli esponenti più sciovinisti del consiglio di facoltà, ma, dall’altro, aveva invece trovato consensi negli elementi più aperti e lontani da ogni forma di integralismo. Così nel 2001 tornò a Parigi, questa volta in qualità di «monsieur le professeur». Logicamente, Montreaux non aveva ammesso scuse: doveva tornare a stare da lui. «Guardi, Erneti,» gli disse la prima sera, dopo una cena a base di piatti un po’ anonimi che la domestica filippina, Angelina, gli aveva preparato «io sono vecchio, ma non così rincoglionato…» «..nito, professore, mi scusi, si dice rincoglionito» lo corresse sorridendo. «Grazie, figliolo. Allora, non così rincoglionito, dicevo, da non ricordare che alla sua età si hanno ancora dei… delle… come dire…» si inceppò imbarazzato. «Desideri sessuali, vuol dire?» gli venne incontro. «Precisamente, grazie. Quindi, se avrà voglia di compagnia, se vorrà uscire, stare fuori anche tutte le notti, non c’è nessun problema. Se troverà tempo e modo di divertirsi, ne sarò felicissimo» e aggiunse «e non ha bisogno di cercare nessuna giustificazione. Lei è libero, adulto e …» «E vaccinato!» concluse per lui Giulio C. Mentre Bon Bon gli saltava sulle ginocchia e ronfava la sua beatitudine, come se 219 avesse capito la battuta del nuovo amico: «Lei è un ospite perfetto, professore» non poté fare a meno di congratularsi con lui. «Oh! Senta, poi, mi pare che sia venuto il momento di smettere tutte le formalità e, a dispetto degli anni che ci separano, siamo colleghi, in fondo e quindi propongo di darci del tu e chiamarci per nome, Giulio. Va bene?» «Ne sono felicissimo e onorato, Pierre» lo contraccambiò con entusiasmo. Logicamente la cosa andava solennizzata e sancita con un brindisi del cognac delle grandi occasioni. Le notti che Giulio C. trascorse fuori furono quelle che passò con Claudine, quando lei tornava per qualche giorno a Parigi. Quegli incontri, spesso quasi improvvisi, gli piacevano, lo caricavano. Non poteva dire di esserci abituato, ma era anzi sempre un piacere scoprire come rotolarsi nel letto di Claudine lo rimettesse ogni volta a nuovo. «Come un motore, dopo aver subito una revisione e un tagliando» gli venne da pensare una sera e stava quasi per comunicarlo a lei, ma si fermò in tempo, perché si rese conto che non doveva essere poi un gran bel complimento per la ragazza che gli dormiva a fianco. Quando terminò il suo corso alla Sorbona, propose al suo ospite di venire con lui in Italia, dove lo avrebbe portato in giro con molto piacere e, soprattutto, gli avrebbe fatto conoscere sua madre. «Molto volentieri, Giulio. Anche lei è rimasta sola, quindi penso che ci capiremo splendidamente». «Guarda, che lei è una donna speciale, ma semplice, istintiva, non ha compiuto studi elevati» lo volle preparare. «E con questo? Credi forse che giudichi le persone dal loro titolo di studio? Ehi, per chi mi prendi?» lo rimproverò risentito. «Non sono mica un imbecille! E poi, una donna che 220 ha cresciuto un figlio come te, deve essere per forza eccezionale!» Infatti, come aveva previsto, Montreaux, appena conosciuta Mara, ebbe la conferma che era davvero una gran donna: la sua semplicità era così diretta che ne rimase affascinato. In fondo, studi a parte, avevano tante cose che li avvicinavano: la giovinezza da tempo appassita, la perdita del compagno, la guerra vissuta tra ansie, paure e speranze. La sola cosa che metteva Mara un po’ a disagio era dover parlare in italiano. «Cucinare mi ha sempre piaciuto molto» gli confessò, quando Montreaux fece onore e complimentò la prima cena a casa sua. Così, anche l’affiatamento tra sua madre e lo studioso francese fu un elemento di coesione tra quest’ultimo e Giulio C. A quella prima visita ne seguirono parecchie altre e Mara, ogni volta, si stupiva di come un personaggio colto, importante, straniero amasse anche starsene seduto in cucina a guardarla mentre spignattava e lui cercasse di imparare anche qualche parola di veneziano. Montreaux si teneva costantemente in contatto con Giulio C. che aveva preso l’abitudine di confidargli i suoi programmi di lavoro, i suoi progetti, i suoi pensieri. A volte, gli pareva di aver trovato un prezioso sostituto della mai dimenticata figura paterna. Anche se la storia di cui si occupava espressamente Montreaux non era quella di cui Giulio C. era esperto, fu a lui che, piano piano, lo scrittore rivelò la gestazione del nuovo romanzo su Alessandro Magno. Benedisse chi aveva inventato internet e la possibilità di chattare, quando, ritiratosi nell’eremo di Marcello, si dedicò alla stesura definitiva del libro. Confrontarsi con Montreaux era diventato per lui, oltre che un piacere, una necessità, un conforto. Gli sembrava che parlandone all’amico, si chiarissero anche a lui tante incertezze, tanti dubbi. 221 Aveva quasi terminato il lavoro, quando sentì rinascere dentro di sé il desiderio di rimettersi in campo, di tornare a scavare, proprio in Grecia. Fu proprio il destino, quel Fato che tante volte aveva evocato nei suoi romanzi, a fargli trovare un cantiere che aveva bisogno di qualcuno che lo facesse rivivere. Qualche anno prima, casualmente, in un’isola piccola e trascurata tra le tante altre che circondano la Grecia, erano emersi i pezzi di una grande, splendida statua, di estrema finezza e, soprattutto con ancora evidenti tracce di colore. Il tutto era stato di nuovo sotterrato in attesa di fondi e di qualcuno desideroso di sondare il terreno intorno. Il suo desiderio di creare un team che unisse studenti italiani e greci si sposò a meraviglia con quel luogo ancora da esplorare. Nicos Papadinos fu entusiasta almeno quanto lui. Mentre stava organizzandosi per la partenza, sentì impellente il desiderio di fare una scappata a Parigi a salutare Montreaux. Era certo che la cosa gli avrebbe fatto piacere, perché l’anziano professore amava sentire raccontare dalla sua viva voce progetti, aspettative e tutto quanto riguardava il suo lavoro. «Ma certo, Giulio, ti vedrò con gioia e ti aspetto quanto prima. Grazie di aver pensato anche a questo vecchio impiastro, prima di partire» gli rispose, quando gli preannunciò la sua visita. Da qualche mese non si vedevano e Giulio C. era particolarmente ansioso di incontrarlo, anche perché Mara gli aveva preparato un pacchetto, un regalo che, senza dubbio, lui non si aspettava. Montreaux lo accolse sulla porta d’ingresso e, nella luce forte e fredda del vano scala, il suo viso parve a Giulio C. un po’ smagrito e pallido. «Pierre! Ciao. Come stai, come va?» chiese abbracciandolo con affetto. 222 «Ben, bene, grazie» rispose, aggiungendo subito «come può stare bene un vecchio, s’intende!» Scherzarono un po’ sulla civetteria del professore che, secondo Giulio C., insisteva sulla sua età, unicamente per ricevere complimenti e smentite. A dire il vero, però, quella volta gli costò doverlo rassicurare sulla prestanza fisica e su come lo aveva trovato sempre uguale. Nel corso della serata, in più occasioni, Giulio C. tentò di sondare lo stato di salute dell’amico, il quale, invece, si dimostrò abilissimo nel glissare ogni volta, trovando sempre nuovi, interessanti argomenti di conversazione. Fu un piacevole, fugace soggiorno che permise a Giulio C. anche di incontrare Claudine, ripassando un repertorio erotico che lo lasciava sempre totalmente soddisfatto, ma di una sazietà tale da non spasimare di voler ripetere a breve l’esperienza. Del resto, anche Claudine era contenta di amare e sapersi amata così, senza obblighi, senza impegni, nella più totale libertà per entrambi. Raggiungere il sito degli scavi fu una vera avventura e, quando, finalmente, nel maggio 2004 Giulio C. si trovò alla guida di un gruppo di una decina di ragazzi delle due nazionalità, partì alla carica, preso da una smania che gli dava forza e lo rendeva instancabile. Un paio di giovani erano stati suoi studenti e il ritrovarli gli diede una grande gioia, soprattutto quando uno dei due gli confidò: «Professore, le confesso che all’università eravamo in parecchi a seguire le sue lezioni sentendoci dei privilegiati, come forse si potevano sentire i giovani greci che ascoltavano Socrate o Aristotele». «Grazie, Antolini, ma ti prego, non darmi troppi motivi per coltivare il mio narcisismo», gli rispose, sentendosi, però, quasi lievitare di orgoglio. 223 Il cantiere si rivelava ogni giorno sorprendente: pareva che ogni pezzo recuperato ne richiamasse altri. Le varie unità stratigrafiche li stupivano con le loro ricchezze. I ragazzi erano fantastici: Demetrios, Georgios, Melina, Angheliki, provenienti da varie località della Grecia peninsulare, erano dotati di una solida preparazione e lavorare con i colleghi italiani stimolava in loro la voglia di figurare sempre al meglio. Così la reciproca emulazione andava a tutto vantaggio del lavoro, che procedeva spedito. Spesso, la sera, dopo una doccia, chiamava Mara,che lo tranquillizzava sempre circa la sua salute. «Ghò sempre tante cosse da far, fijo mio, che vien sera che no me ne acorgo» gli rispondeva, quando lui voleva sapere come passava le sue giornate. «Ghe xè tante vecie da aijutar, qua intorno, tante amighe carampane, che mi me sento una putela.» Una sera gli comunicò di aver ricevuto posta da Parigi: Montreaux le mandava i suoi saluti, la ringraziava per il pensiero che Giulio C. gli aveva portato da parte sua e le chiedeva di ricordarlo sempre con affetto e simpatia. Quel pomeriggio di metà giugno, chissà come, sentì il bisogno di chiamare Parigi: nulla, il telefono squillava inutilmente. La cosa non gli piacque, ma pensò che, forse, data la bella stagione, Montreaux poteva aver sentito il desiderio di andare da qualche parte, magari con Valery o Claudine. Ne approfittò per chiamare la ragazza, giustificandosi con la voglia di sentire la sua voce, che era poi una mezza verità o una mezza menzogna. Comunque, seppe che lei non era a Parigi e anche con lei era da qualche tempo che il professore non si faceva vivo. Il giorno dopo riprovò a chiamare e, questa volta, da Rue du Chemin Vert, ci fu una risposta, ma non era Montreaux, bensì una voce femminile che si qualificò come infermiera. 224 «Il professore sta riposando, ma dopo l’intervento, lei capisce, è molto provato». «Come, intervento?» chiese Giulio C. con voce allarmata. «Come, non sa?» gli rimandò stupita.» La settimana scorsa il professore è stato operato per un tumore allo stomaco.» «Come? Un tumore? Ma come sta ora?» insistette Giulio C. «Cosa vuole, l’età non è certo di aiuto e in più pare che il paziente non abbia molta voglia di combattere questa battaglia». Il telefono gli tremò nelle mani e non trovò subito le parole per chiedere ancora. In quello spazio di silenzio, l’infermiera si preparò a congedarsi: «La prego di scusarmi, ma ora devo andare. Il professore si è svegliato e avrà sicuramente bisogno di qualcosa.» «Mi raccomando» quasi ansimò per trattenerla all’apparecchio «lo saluti per me, gli dica che, appena potrò, verrò di persona, ma se ha voglia di chiamarmi, le do il mio cellulare. Gli faccia forza, gli dica che ho voglia di rivederlo in piena forma. Lo abbracci per me». Dopo quella rivelazione sconvolgente, Giulio C. cominciava a pensare a come poter scappare a vedere com’era la situazione reale e sentiva salirgli alla gola un sapore conosciuto di amarezza e impotenza. Stava ancora combattendo con questa spiacevole sensazione, quando suonò il telefono. «Non ti si può nascondere proprio niente, eh?» gli arrivò la voce stanca e flebile di Montreaux «Pierre!» esclamò «Vecchio disgraziato, come hai potuto pensare di celarmi una cosa simile? Perché non mi hai detto nulla quando ci siamo visti l’ultima volta?» «Cambiava forse qualcosa?» sospirò in risposta il professore. «Avrei almeno potuto…» 225 «Potuto niente», finì per lui Montreaux. «Ma almeno avrei cercato di esserti vicino al telefono». «E dai, Giulio!» lo spronò con un po’ più di energia «La malattia, la morte sono una questione personale. Questa volta tocca a me». «Ti proibisco di avere di questi pensieri. L’intervento è andato bene e ora devi solo cercare di lottare…» «Lottare?» lo interruppe pronto «E per che cosa, per chi? Credimi, tutto sommato, sono contento di seguire Amelie. Sai, sto sforzandomi di credere che qualcosa di noi resti e che, in qualche modo, nonostante il disfacimento del corpo, si possano ritrovare le persone care. Non è facile per un materialista come me, ma, ormai, è solo questa speranza, o questa illusione, se preferisci, che mi può dare un po’ di conforto.» «Pierre, non posso credere di doverti perdere. Per favore, fallo per me, resta, aggrappati alla vita…» Giulio C. sentiva gli occhi inumidirsi e la lingua impastarsi in bocca. «Beh! Sai a cosa mi sto aggrappando da qualche giorno? Al tuo romanzo su Alessandro. È sempre qui sul mio comodino e, appena mi sento un po’ in forze, ne leggo parecchie pagine. Che penna favolosa sei, Giulio!» «Grazie, Pierre, le tue parole mi riempiono di orgoglio. Ma perché non ti fai fare un po’ di lettura dalla tua infermiera?» gli suggerì. «Ma per carità! Quella parla solo francese e non voglio che sciupi malamente quello che in italiano tu hai saputo rendere così bene!» «Senti, Pierre, allora continua a leggere e ci risentiamo tra qualche giorno, così mi potrai dare il tuo parere su questa mia ultima fatica». «Certo, Giulio, certo. Sarò ben lieto di discutere con te a proposito di un gigante come Alessandro. Chissà, se Filippo fosse stato un padre e un marito devoto, la sua vita sarebbe stata diversa?» chiese dubbioso. 226 «Proprio tu, uno storico, mi fai questa domanda?» gli rispose meravigliato «Che possibilità abbiamo di un riscontro? Sai bene che la storia è una e una sola». «Già, ma qualche volta è bello anche lasciarsi prendere dall’immaginazione e crearci una storia nostra, inventare un nuovo corso degli eventi. Ci può far sentire un po’ simili agli dei.» Mentre Montreaux parlava, Giulio C. ne sentiva la voce diventare sempre più flebile, finché, dopo un secondo di silenzio, sentì la voce femminile «Scusi, ma ora il professore è molto stanco e la deve salutare. A risentirla.» Anche dopo che la comunicazione fu interrotta, Giulio C. continuò a tenere stretto il telefono, come se questo lo potesse legare ancora all’amico lontano. Gli parve interminabile quella fila di giornate che si impose di lasciar passare prima di richiamarlo. Quando, con sua sorpresa, sentì subito la voce di Montreaux, anziché quella dell’infermiera, ebbe un sussulto di gioia. «Pierre! Buonasera. Come stai?» «Oh! Giulio! Che piacere mi dà la tua voce» lo ricambiò l’amico «Non so se essere contento, ma mi dicono che va meglio». «Sei il solito stravagante!» commentò «Come puoi non essere contento se ti senti più in forze». «E allora, la tua lettura come va?» chiese subito con malcelata impazienza. «Purtroppo, ho già terminato il libro e mi pare di aver detto addio ad una persona cara» gli confidò. «Così simpatico ti è riuscito il mio Alessandro?» «Non solo simpatico, ma degno di grande rispetto e ammirazione. Pensare alla sua età e a quello che ha compiuto, ha davvero del prodigio. Tu, che come me, non sei padre, come hai fatto a calarti così efficacemente nei rapporti tra genitore e 227 figlio, a essere così reale, quando riporti dialoghi e monologhi di personaggi dalla statura così enorme?» «Forse proprio perché enormi, non comuni, mi sono sembrati assoluti e incomparabili. Non c’erano termini di paragone e quindi…» «Come al solito, la tua modestia rende tutto così semplice!» lo elogiò. Purtroppo, proprio mentre stava per salutarlo e dargli appuntamento telefonico per il giorno dopo, le batterie del cellulare lo lasciarono a secco. «Pazienza!» si consolò «Ci sentiamo domani. Buonanotte Pierre!» augurò. Invece il giorno dopo, un imprevisto lo tenne impegnato tutto il giorno e in grande apprensione: durante il lavoro agli scavi, uno dei ragazzi italiani rimase ferito in un incidente e lui, sentendosi responsabile, in qualità di direttore, seguì tutte le incombenze sia burocratiche che mediche. Fortunatamente, la cosa si risolse con conseguenze assai meno gravi di quanto temuto all’inizio, ma per Giulio C. fu una giornata di notevole stress. Il mattino dopo fu proprio il telefono a svegliarlo. «Sì? Pronto» rispose, alzandosi ancora un po’ assonnato e dopo aver ciancicato prima di riuscire ad agguantare l’apparecchio dal comodino ingombro di sveglia, libri e molto altro. «Professor Erneti?» chiese una voce un po’ imbarazzata «Sì, chi parla?» domandò, sentendosi montare dentro un’ansia che gli azzannava il respiro. «Sono l’infermiera del professor Montreaux. Il professore mi ha pregata, tempo fa, di chiamarla se… se le sue condizioni… la sua salute…» la donna si faceva sempre più titubante. «Oddio, no!» si sentì quasi gridare. 228 «Il professore si è molto aggravato e abbiamo dovuto portarlo in ospedale. Se lei vuole e può venire, non so se riuscirà a trovarlo ancora cosciente.» Giulio C. si sentì vacillare, ma ebbe la forza e la lucidità di spiegare che, da dove si trovava, non sapeva quanto tempo avrebbe impiegato per arrivare, ma la assicurò che avrebbe fatto l’impossibile per essere a Parigi nel minor tempo possibile. «Gli porti i miei saluti, i miei auguri. Lo abbracci per me e gli dica di aspettarmi. La prego» concluse, ormai con un groppo alla gola. «Certo, certo. Stia tranquillo che il professore sa quanto lei gli sia affezionato» cercò di consolarlo. La giornata passò ad organizzare il lavoro agli scavi in vista della sua partenza e a cercare disperatamente di arrivare a Parigi prima possibile, aiutato in ciò, anche da alcuni ragazzi che avevano qualche amicizia in una agenzia di viaggi ateniese. Avrebbe strappato le ali a Pegaso per volare via subito. Purtroppo non era facile mantenersi in contatto con l’infermiera che, essendo quasi sempre in ospedale, teneva il telefono spento. Quando, finalmente Giulio C. atterrò, mentre attendeva il taxi, riuscì miracolosamente e parlarle. «Sto arrivando, mademoiselle. Come sta?» «Alterna momenti di lucidità ad altri di incoscienza. I medici non danno troppe speranze.» No, non era preparato ad un addio. Come avrebbe potuto confortare qualcuno, se era lui che si sentiva prostrato e inconsolabile per quella imminente perdita? Quando si trovò di fronte il volto teso e pallido della donna, che non aveva mai incontrato prima, sentì, all’improvviso, una forza insperata, un desiderio di trovarsi accanto all’amico nel momento del suo passo estremo. 229 «Vada, professore.» Lo accolse lei, rimettendosi a sedere. «È assopito, ma forse può avvertire la sua presenza, che gli sarà di conforto». Giulio C. entrò, temendo che il cupo tamburo del suo cuore fosse così forte da destare il paziente. Si avvicinò al letto, mentre rivedeva in un rapido scorrere di immagini, i tanti piacevoli momenti trascorsi con l’amico. Sorrise al ricordo della caduta di Montreaux, la sera in cui aveva fatto l’amore con Claudine per la prima volta. «Oh! Giulio! Che bello vedere finalmente un volto sorridente!» anche se debole, la voce del paziente lo fece sobbalzare. «Pierre!» lo salutò, con enfasi. «Stavo ricordando alcune delle tue stravaganze.» Spiegò, stringendogli la mano ossuta e fredda. «Come va? Hai freddo?» chiese ansiosamente. «Ma no, no. Non soffro e questo è già molto, ti assicuro. Non immagini quanto mi faccia piacere averti vicino in questo momento. Avrei tante cose da dirti, non so se avrò tempo e forza a sufficienza.» «Ma certo che mi dirai tutto quello che vuoi, ma con calma, Pierre, adagio.» Lo rassicurò, sentendo il lieve affanno che aveva accompagnato le sue parole. In quel momento entrò un medico seguito da un’infermiera. «Scusi, ma il professore è molto debole, non lo stanchi. Ora, per cortesia, esca un momento, dobbiamo somministrargli alcuni farmaci.» Lo informò il giovane dottore. Giulio C., stringendo sempre la mano dell’amico, lo salutò: «Non temere, Pierre. Sono qua fuori e tra un po’ ritorno. A dopo.» Uscendo, si trattenne a parlare con l’infermiera che aveva assistito Montreaux in tutti quei giorni. Non si poteva certo definirla una bella ragazza, troppo spigolosa e senza alcuna cura estetica. Pallida e senza trucco, aveva, però, l’aria di chi si prende seriamente a cuore il proprio 230 lavoro. A Giulio C. faceva venire in mente quelle ragazze allevate in un convento di suore e che, anche da adulte, conservano una sostanziale indifferenza per il proprio aspetto fisico. Tutto il suo impegno lo riversava nel lavoro, che, senza dubbio, percepiva come una missione. Giulio C. le fu grato per le cure e le premure che aveva avuto per il suo assistito e questo gliela fece apparire preziosa. Quando vide uscire il medico, gli si avvicinò e chiese notizie dell’amico. «Purtroppo, non possiamo fare granché» fu la sconsolata risposta del dottore. «Vede, l’intervento tentato non ha risolto il problema che in piccola parte. Aggiunga a questo che il paziente non ha mostrato di tenere molto a vivere ancora. Peccato, una persona di valore !» aggiunse. «Pensavo di trovare qualche collega dell’università, qualche persona della cultura parigina…» gli confessò con rammarico. «Sì, è venuto qualcuno a chiedere di lui, anche dei giovani, ma il professore era stato tassativo, non aveva voluto che lasciassimo passare nessuno. Così, dopo i primi giorni, non si è più vista anima viva. Solo qualche vero amico e collega ha continuato a telefonare.» Spiegò il dottore. Giulio C. suggerì all’infermiera, che gli aveva detto di chiamarsi Marie, di uscire, di andare a distrarsi un po’, ora che c’era lui e avrebbe potuto tornare verso sera. Ringraziandolo, lei disse che avrebbe approfittato di quella pausa per fare una scappata a casa a dar da mangiare a Bon Bon. «Sapesse quante volte il professore mi ha fatto promettere di prendermi cura di lui, quando…» non riuscì a finire la frase. Rientrato subito dopo nella stanza, trovò Pierre addormentato. Si sedette nella poltrona di fianco al letto e rivolta verso il capo dell’amico, dal cui corpo uscivano alcune cannule e fili, collegati a monitor e flaconi di liquidi appesi a trespoli, come frutti di un albero asettico. 231 Chissà quanto tempo passò così, spiando il più lieve movimento, tendendo l’orecchio a cogliere il più flebile sospiro! Comunque, ad un tratto Pierre aprì gli occhi e gli sorrise, o così volle credere lui. «Ancora qui? Giulio, sei impagabile. Venuto apposta per assistere questo vecchio che, nonostante tutto, non riesce ad andarsene e continua a rompere le scatole …» Pierre restava fedele al suo spirito anche in quella circostanza. «Se ti dà fastidio la mia presenza, posso sempre andarmene.» stette allo scherzo. «Sai bene che aspettavo solo te per accomiatarmi dal mondo. Valery è stato qui nei giorni scorsi, ma vedessi come era affranto! Mi faceva sentire in colpa, averlo qua vicino. Non faceva che asciugarsi gli occhi, giustificandosi con un raffreddore inesistente. Gli ho fatto dire da Marie che non c’erano problemi, che tutto era sotto controllo e poteva andare tranquillo. Gli ho telefonato anche ieri, per tranquillizzarlo perché altrimenti me lo sarei ritrovato qui ancora. Spero che la vita sia benevola con lui, se lo merita.» «E Claudine?» non poté non chiedere. «Aspettavo la tua domanda!» esclamò con un tentativo di risata, che gli provocò un violento spasmo di tosse, per fortuna breve. «Perché?» gli chiese, fingendosi stupito Giulio C. «Beh! Non crederai che non sappia… di te e di lei!» fu pronto a rivelargli. «Da quando ti ha conosciuto, l’ho vista più… vivace ed espansiva. L’amore fa sempre bene, a tutti.» «Veramente…» Giulio C. voleva chiarire che il suo rapporto con la ragazza non era forse come lo intendeva lui, che non si sentivano, né lui, né lei, legati per la vita, ma ancora una volta, Pierre lo meravigliò con la sua perspicacia. «Certo, Giulio, non sto parlando dell’Amore con la maiuscola, di quello che abbiamo conosciuto Amelie ed io. Ma l’amore ha tante facce, tanti modi di manifestarsi. L’importante 232 è che sia uguale per entrambi gli interessati. E questo mi pare sia il vostro caso, o sbaglio?» «E quando mai sbagli tu, Pierre?!» concordò compiaciuto. «Sì, ci capiamo e, in fondo, abbiamo bisogno delle stesse cose. L’importante è non farsi soffrire e riuscire a godere di quanto spontaneamente ci si dà, senza obblighi o doveri, né legali, né affettivi.» «Un po’ amara forse come filosofia di vita, ma realistica e sincera. Mi piaci ancora di più, e proprio ora che debbo andarmene.» Sospirò, cercando di sollevarsi dai cuscini «Le sole cose mie che mi importano e che vorrei affidare a chi sa apprezzarle, sono Bon Bon e i miei libri.» Cominciò a confidare, mentre il respiro si faceva sempre più faticoso e le parole si diradavano nella loro successione. «Pierre, non preoccuparti. Bon Bon è in buone mani: Marie è appena andata a dargli da mangiare.» Lo tranquillizzò. «Sai che quando ho dovuto cercare una infermiera, tra le condizioni che ho posto c’era l’amore per i gatti?» Ormai, Giulio C. faceva fatica a sentire quanto Pierre gli diceva e lo sforzo per capire era un elemento di angoscia in più. «Riposa, Pierre» lo invitò «non stancarti. Parleremo ancora più tardi». «Più tardi, potrebbe essere troppo tardi, Giulio. Quello che devo dirti, devo dirtelo ora» Giulio C. si avvicinò ancora di più e col volto a un palmo da quello dell’amico poté sentirne tutta la fatica e l’ansia di finire. Il bip dei monitor si fece sempre meno regolare e, quando Pierre con una smorfia smise di parlare, lui suonò il campanello per chiamare il medico. Strinse forte la mano dell’amico, che parve rispondere socchiudendo gli occhi. «Chi chiami?» gli chiese in un soffio quasi inudibile «Non ho più bisogno di niente, ormai. Lasciatemi andare…» 233 «Pierre…» In quel momento si aprì la porta ed entrò lo stesso medico con cui aveva parlato. Controllò i vari apparecchi e, rivolto a Giulio C. bisbigliò: «È questione di poco, coraggio. Le assicuro che non sta soffrendo più di lei.» Aggiustato il flusso della flebo, uscì. «Giulio, i miei libri… Te li raccomando, voglio che li abbia tu. Forse non tutti ti interesseranno, ma ce ne sono alcuni importanti…» lo sforzo di quelle parole lo sfinì. «Certo, Pierre. Sai bene che li terrò cari. Il loro valore è doppio, oltre a quello intrinseco sono preziosi, perché appartenuti a te.» Non ci fu risposta: Montreaux fece per aprire la bocca, ma la richiuse insieme agli occhi. Il respiro era solo un lieve ansito. Come se avesse avvertito la necessità della sua presenza, il medico entrò. «Credo che sia alla fine» sussurrò Giulio. «Sì, ormai non può più sentirla. Mi chiami quando…» gli disse aprendo la porta per andarsene. Giulio C. accennò di sì solo con il capo. Rimase a guardare il volto dell’amico che era già oltre e irraggiungibile per lui. Sembrava quasi che, più si staccava dalla vita, più si distendessero i suoi lineamenti. La barba e i capelli si confondevano con il candore delle lenzuola e gli davano un’aria immateriale, eterea. Stava per alzarsi dalla poltrona per cercare di bere un goccio d’acqua, quando sentì un rantolo, un sospiro e … più nulla. Ora non c’era proprio più niente da fare, se non ricordare quanto di importante gli aveva insegnato quel grande uomo che aveva voluto uscire dalla vita in punta di piedi. Telefonò all’infermiera che, pur essendo preparata alla notizia, non riuscì a dirgli molto, soffocata dal pianto. 234 «Mi sono trattenuta a casa del professore. Le dispiacerebbe venire qui? Ho alcune cose da farle vedere e da darle. L’aspetto.» «A tra poco» rispose riponendo il telefono. Si fermò ancora un momento accanto al letto per dare l’addio definitivo all’amico, quindi uscì. Incrociando il medico, gli disse che era tutto finito e lo salutò mestamente. Quando entrò in quella casa, dove aveva trascorso tante ore piacevoli, conversando amabilmente di tutto con Pierre, ebbe un sussulto: molti mobili, quadri, che aveva ammirato non c’erano più. Al loro posto restavano solo delle forme vuote, le impronte che gli oggetti avevano lasciato sull’intonaco delle pareti: gli pareva che tutto fosse irreale, solo un brutto sogno. Marie aveva gli occhi rossi e anche il viso appariva congestionato, sicché il contrasto con il pallore abituale della ragazza, la faceva apparire assurdamente più viva. «Venga» lo accolse «il professore ha lasciato alcune disposizioni che penso lei debba leggere subito.» Gli disse porgendogli una busta chiusa. «Cos’è successo?» chiese guardandosi intorno avvilito. «Legga» lo invitò «capirà ogni cosa» gli rispose, accompagnandolo verso il salotto, nel quale erano rimaste poltrone e divano. Giulio C. aprì con mani tremanti la busta: era una sorta di testamento. «Queste sono le mie ultime volontà, scritte mentre sono perfettamente cosciente e consapevole della spietatezza di alcuni miei giudizi, ma ormai…posso finalmente permettermi la sincerità più totale. Innanzitutto, desidero essere sepolto accanto ad Amelie, dopo un funerale semplice e per pochi intimi. Se chi si occuperà di tutto, vorrà comunicare la mia dipartita ad esequie avvenute, ne sarò felicissimo. Spero che i miei colleghi mi saranno grati se gli risparmierò lo sgradevole compito di mostrarsi ipocritamente addolorati. Poiché non ho mai condiviso la smania di pubblicità che anima alcuni di 235 loro, vorrei, però, che almeno in questa occasione, evitassero di mettersi in mostra con inopportune commemorazioni funebri, che in passato, in analoghe circostanze, hanno suscitato più noia e ironia che commozione, vero Jarrod, vero Blanchard? Forse qualcosa di quello che ho scritto, in tanti anni di studio e insegnamento, resterà valido ancora per diverso tempo e chi leggerà i miei libri sarà il mio erede. E adesso veniamo a te, Giulio C. So che avresti apprezzato la quadreria e i mobili che si trovavano nel mio appartamento e io sarei stato ben felice di sapere che li avresti usati e guardati tu, ma, purtroppo, quanto è rimasto, è già stato tutto inventariato da due avvoltoi, nipoti scriteriati e imbecilli. Avevo un fratello, Michel, che purtroppo morì durante la seconda guerra mondiale. Ha avuto la ulteriore disgrazia di diventare padre di due nullità, che per fortuna, morendo ancora giovane, non ha fatto in tempo a vedere degenerare come hanno fatto. La madre non si è mai molto curata di loro, specie dopo che si è risposata. Di lei non ho più saputo nulla, dei due rapaci, invece ho avuto notizie quando morì Amelie, in quanto si fecero rappresentare da un notaio per conoscere l’entità della loro parte di eredità. Fu una cosa spiacevolissima, puoi immaginare quanto io fossi nelle condizioni di spirito adatte a sopportare la loro avidità. Comunque, in quella occasione, sapendo che non esistevano altri eredi, si sono premurati di mettere le mani su tutto quanto ci sarebbe stato alla mia morte. Per evitare di impinguare ulteriormente quei due parassiti e per sostenere, invece, qualcuno che ha dato prova di essere un ragazzo d’oro, ho venduto parecchio per capitalizzare una cifra che sarà senz’altro spesa meglio di quanto avrebbero fatto i miei sciagurati consanguinei. Marie ti consegnerà la chiave di una cassetta di sicurezza della mia banca: vacci quanto prima, perché tutto quello che c’è è tuo,a parte una cosa che consegnerai, per favore a Valery, al quale ho già fatto in modo che arrivi una mia lettera di congedo. Spero solo di lasciarti un buon ricordo di me e addio. Pierre Montreax 236 Finita la lettura, che gli costò un magone amaro, alzando il viso dalla lettera, si trovò di fronte gli occhi lucidi di Marie, che gli porgeva una piccola chiave. «Questa è per lei. Lei sa quello che deve fare». Adempì anche a quel compito e si stupì del contenuto della cassetta. Pierre aveva voluto lasciare a lui le cose che, solitamente, in quelle circostanze si lasciano a un figlio: un orologio d’oro da taschino, un libretto con parecchi euro, che avrebbe dovuto consegnare a Valery, un bronzetto, che Giulio C. datò al XIV secolo, di pregevole fattura, una miniatura su rame che ricordava il celebre libro d’ore dei fratelli Limbourg. Riposto tutto quanto con cura nella borsa che aveva portato con sé, uscì. Quella sera si accollò il penoso compito di sostenere Valery, che gli parve tremendamente depresso e avvilito. «Sai bene quanto Pierre ti fosse affezionato» gli disse mentre bevevano una birra al bistrò dove il ragazzo lavorava «quindi non ti meraviglierai di quanto sto per darti.» Prese dalla tasca della giacca il libretto e glielo porse. Valery non lo aprì neppure, ma lo strinse al petto mentre le lacrime gli rigavano le guance. «Non ti interessa sapere quanto ti ha lasciato?» gli chiese, anche per distrarlo. «La cifra non potrebbe cambiare la stima che avevo e ho di lui» rispose. «Ma potrebbe forse cambiare un po’ la tua vita.» Lo stuzzicò. Incuriosito, Valery aprì il libretto e lesse la cifra: il suo volto passò dal pallore al rossore e di nuovo impallidì nel giro di pochi attimi. «Come vedi, ora potrai dedicarti solo ai tuoi studi, non avrai più bisogno di lavorare, se non vorrai!» gli suggerì «Cosa ho fatto io per meritare un affetto così … duraturo?» si chiese mettendo in tasca il libretto, dopo averlo accarezzato. 237 «Pierre aveva capito che la vita ti aveva già messo troppo alla prova e gli è piaciuto rappresentare per te una specie di compenso, di giustizia.» Commentò Giulio C., prima di salutarlo. Due giorni dopo, fece in modo che il desiderio di Pierre di andarsene in sordina si realizzasse. Conoscendo il pensiero dell’amico riguardo la religione, gli assicurò unicamente il conforto di un breve e sentito saluto da parte sua, di Valery, alla presenza di Marie e di pochissimi altri amici, quei pochi che lui aveva stimato in vita e non gli avevano mai fatto mancare il loro apprezzamento. Claudine gli telefonò la sera prima delle esequie. Era molto provata anche lei, ma purtroppo, pur desiderandolo con tutto il cuore, non riusciva ad essere presente, perché in quei giorni c’erano importanti convegni cui doveva necessariamente partecipare. «È straziante dover dire addio ancora ad un padre e non poterlo fare di persona. Ti prego, Giulio» lo supplicò «stai vicino a Valery.» Non fu difficile farlo per Giulio C., anche perché il ragazzo diede prova di un grande autocontrollo e capacità di incassare quel nuovo colpo. Mentre stava per prenotare il volo di rientro, un SMS di Claudine lo informò che stava tornando: inaspettatamente, sarebbe arrivata a Parigi e gli chiedeva se potevano incontrarsi. L’orario del suo volo pareva calcolato apposta per incrociare quello di Giulio C. Avrebbero avuto giusto il tempo di salutarsi. Quando si videro in lontananza, si corsero incontro, si guardarono negli occhi e si abbracciarono, ma a nessuno dei due venne la voglia di baciarsi. «Strano» disse Giulio C. «non avrei mai immaginato, quando ci siamo salutati l’ultima volta, che ci saremmo trovati così…» «Così stonati vuoi dire?» terminò lei. 238 «Sì, è esattamente la sensazione che provo» confermò, mentre si sedevano ad un tavolino di un bar. «Non ricordo di aver mai provato prima queste emozioni» continuò Claudine «il forte dolore si sta affievolendo, ma mi sembra di essere un oggetto. Quando morirono i miei, certo, il colpo fu terribile, devastante, mi parve che non avrei più potuto vivere una vita normale. Mi ci volle parecchio tempo, ma, alla fine, cominciai a risalire la china e, forse anche grazie all’impegno di dovermi prendere cura di Valery, mi sentii di nuovo viva e vitale. Ora, non so, credo di essere come una lastra di marmo: tutto mi scivola sopra, indifferente. Passerà anche questo momento, comunque…» «Per Valery ora non devi preoccuparti, ad ogni modo» la sollevò. «Sì, mi ha detto che Pierre ha pensato anche al suo futuro. Che uomo unico è stato! Sai che mi sento privilegiata per aver goduto della sua amicizia e della sua protezione!?» gli confidò Si guardavano con intensità e ognuno pareva avere sulle labbra delle parole che faticavano ad uscire. «È stato merito di Pierre se ci siamo conosciuti.» ricordò Giulio C. «Già ed è stato bello, vero?» gli chiese, mentre sorseggiava distrattamente il suo caffè. «È stato?» chiese «Non sembra anche a te che sia meglio lasciarci così, senza alcuna scena madre? Mi ha fatto molto piacere rivederti, Giulio, ma sai bene anche tu che non abbiamo mai voluto fare progetti o programmi. Questo ci ha accomunati forse più di qualunque promessa o vincolo legale. Siamo stati bene insieme, no?» «Veramente. Anche io non ho rimpianti, ma solo piacevoli ricordi e di questo ti ringrazio. Abbiamo avuto una bella storia ed è ancora più unica perché finisce così, lasciandoci di comune accordo, visto che per entrambi non ci sono più motivi 239 per tenere aperto un discorso che si è esaurito gradualmente, in modo indolore.» «Grazie Giulio, per la tua comprensione, per come sei…» Pur tra il rumore di sottofondo, Giulio C. riuscì a sentire che stavano chiamando il suo volo. «Ciao, Claudine. Questo è il mio volo, debbo andare. Ti auguro tutto il bene possibile e se ci sarà l’occasione di rivederci, ne sarò felice.» «Ciao, Giulio. Anche a te solo il meglio. Chissà se le nostre strade si incroceranno ancora?» Quando si alzarono, si abbracciarono e, dopo essersi chiariti in quel pur breve discorso, si sentirono vicini e solidali. Furono questi sentimenti che li spinsero a salutarsi con un bacio che non aveva più nulla di passionale, ma era più forte di ogni desiderio erotico, era un sigillo che sanciva un nuovo tipo di legame, fatto di solidarietà, di comprensione, di stima reciproca e di addio. Volando verso la Grecia, Giulio C. si sentiva stranamente leggero, solo Mara lo legava al suo paese, non aveva più, o meglio, non sentiva più radici, legami con persone con cui condividere le sue emozioni. Gli amici, Marcello in primis, erano una ricchezza, ma, lo sapeva bene, ognuno aveva la propria vita… «E via!» pensò atterrando ad Atene «ricominciamo a far rivivere il passato, guardando al futuro!» Era ansioso di riprendere i contatti con quei giovani che vedevano in lui un modello, un maestro e che anche per lui rappresentavano un valore in estimabile. 240 OLIMPIA PASSATO PROSSIMO Si aspettava molto da quel 1992, che era appena iniziato, anche perché aveva già cominciato a prepararsi per il concorso a cattedre: non doveva, non poteva fallire; superare quella prova voleva dire per lei iniziare una nuova vita, conquistare la tanto sospirata indipendenza. Quando iniziò ad essere chiamata per qualche supplenza ed entrò per la prima volta in un’aula per andare a sedersi dall’altra parte della cattedra, si stupì al pensiero dell’effetto che avrebbe fatto agli allievi che le stavano di fronte. Ricordava ancora troppo bene come, a lei adolescente, sembravano vecchie quelle insegnanti che pure avevano la sua età attuale. Troppo vivi e freschi erano nella sua memoria episodi di vita scolastica per non essere in grado di capire certi atteggiamenti dei ragazzi. Non le fu dunque difficile entrare in confidenza con loro e ciò, a volte, andò a scapito della disciplina che le costava un po’ fatica tenere. Inaspettatamente, invece, trovò maggiori problemi nel relazionarsi con quelli che ora erano colleghi che, essendo più anziani e di ruolo, la snobbavano e, spesso, non la salutavano neppure. «Alla faccia dell’educazione!» pensava. «E questi dovrebbero essere gli educatori, quelli che formano le menti, le personalità di domani?!» 241 In casa cominciava a preparare il terreno per il giorno in cui si sarebbe trasferita, ancora non sapeva dove. Giuliano e Marilena seguivano i suoi passi, tenendosi costantemente in contatto con lei e questo, a volte, le procurava un rigurgito di nostalgico rimpianto, di malinconia, ma si accorgeva anche che, poco alla volta, le loro telefonate, le visite reciproche cominciavano ad acquistare valore per se stesse e non più perché supportate dal ricordo di Lorenzo. Finalmente, con fatica, ma anche con enorme soddisfazione, si trovò al di là dell’ostacolo: ora era a tutti gli effetti una professoressa di lettere alla scuola media. Mentre faceva tirocinio in una classe, conobbe una ragazza, anche lei fresca vincitrice di concorso di una cattedra di matematica. «Ciao. Io sono Patrizia Feletti, matematica» si era presentata, molto alla spiccia, completando l’autopresentazione con una sapida osservazione dialettale: «Con st’il zzuc, an s’fa gnanc di caplazz!» Simpatizzarono subito: spesso si trovavano in sala insegnanti per un caffè e Olimpia non finiva di stupirsi della spontaneità di quella ragazza acqua e sapone. Acqua e sapone in tutti i sensi: sia per la genuina naturalezza del modo di fare, sia per l’assoluta assenza di ogni civetteria o cosmesi. Del resto, il profilo dalla dantesca rassomiglianza avrebbe certo stonato con i colori di qualsivoglia maquillage. Anche se finirono per essere collocate in paesi piuttosto lontani, restarono in contatto e spesso si trovavano per un cinema, una pizza, un teatro, finché una sera Patrizia la sorprese con una rivelazione bomba. Era l’inverno del 1994 e mancava ormai poco alle vacanze di Natale, perciò la telefonata dell’amica non la sorprese più di tanto. «Ciao!» squillò la voce al telefono «ti va di uscire stasera?» le chiese a bruciapelo. 242 «Volentieri!» accettò Olimpia. «Che si fa?» «Passo a prenderti verso le otto e poi andiamo a farci una pizza in un posto tranquillo.» le comunicò, dando già per scontato che il programma le andasse bene. «D’accordo. A più tardi, allora!», concluse riattaccando. Quando si trovarono sedute davanti ad un boccale di bionda e amara birra tedesca, Patrizia esplose: «Ho deciso di chiedere il trasferimento a Milano» e si attaccò al bicchiere, mentre Olimpia elaborava velocemente la notizia. «Per chi?» le venne spontaneo chiedere. «Come, per chi? Non perché?» «Senti,» tagliò corto, deglutendo una fresca sorsata «se hai preso una decisione del genere, ci deve essere sotto un uomo». «Vacca, se sei astuta!» la complimentò con il suo solito colorito vocabolario. «È vero. Mi sposo ad aprile e…» «Ma che ti venga un colero!» le fece eco Olimpia. «Così, tutto in una volta! Non mi hai mai parlato di nessuno e ora salta fuori che ti sposi. Ma sei sicura?» «Certissima, tranquilla!» «Vuoi darmi qualche altra informazione o sono cose coperte dal segreto istruttorio?» incalzò, riprendendosi dalla sorpresa. E Patrizia le raccontò che, durante l’estate, aveva conosciuto al mare un tipo stratosferico: fisico da modello, cervello da premio Nobel, simpatia da vendere. Era un promotore finanziario e di soldi gliene dovevano girare parecchi, perché si trattava alla grande: macchina, vestiti, accessori, regali…tutto al meglio. «Beh! Allora, quando sarai la moglie di Hans Bruckner, non troverai neppure il tempo di insegnare, visto che dovrai impegnarti a fondo per spendere tutti i soldi che guadagna!» la canzonò Olimpia, solo un po’ dispiaciuta al pensiero di perdere un’amica. «Che culo che hai! Ha anche un nome esotico, 243 questo miracolo!» concluse, linguazzandosi le labbra dalla schiuma biancastra. Quello pareva proprio il suo anno fortunato, perché a Patrizia non poteva andare meglio di così: il matrimonio fu, nonostante tutto, sobrio anche se raffinatissimo, la crociera del viaggio di nozze sembrava una puntata di una soap opera americana e a giugno ebbe il trasferimento. Non fu avara nel raccontare tutto ad Olimpia, subito dopo il suo ritorno e lei ascoltandola si rallegrava per la felicità dell’amica. Per i primi mesi, dopo il trasferimento, si sentirono spesso e la neo signora Bruckner l’invitò a Milano in occasione delle prossime vacanze di Pasqua. «Allora ci sentiamo la prossima settimana, così fissiamo gli orari.» le promise Patrizia, una sera nel salutarla al telefono. Anche Olimpia non vedeva l’ora di incontrarla, perché aveva anche lei qualcosa di nuovo: aveva finalmente trovato una casa e, finito l’anno scolastico, ci si sarebbe insediata. Certo, chiamarla casa era un po’ esagerato, ma per lei era perfetta. Era una vecchia mansarda, con un bel terrazzo e lei pensava già di appenderci un cartiglio con il motto ariostesco «Parva sed apta mihi». Visto che da Milano non aveva ancora avuto conferma per la visita fissata, Olimpia pensò di prevenire l’amica con una telefonata, un paio di giorni prima della data di cui avevano parlato. Non si sorprese troppo nel non trovare nessuno in casa e decise che avrebbe riprovato all’ora di cena. Ma anche quel secondo tentativo fallì, come pure quelli fatti il giorno successivo. Olimpia non sapeva cosa pensare: è vero che Patrizia era un po’ imprevedibile nelle sue decisioni, ma riteneva che, se avesse deciso di partire per qualche vacanza estemporanea, l’avrebbe comunque avvisata. Poiché telefonicamente non riusciva a raggiungere l’amica, neppure sul cellulare, provò con 244 un telegramma, cui però non fece seguito alcuna risposta. Pur preoccupata per quell’inspiegabile silenzio, non sapendo come contattarla, cercò di mettersi il cuore in pace. In questo fu anche aiutata dagli impegni per il suo trasloco. Anche i colleghi le avevano dato una mano per i lavori necessari, così, quando a settembre si dichiarò soddisfatta del risultato, ricambiò tutti con una cena inaugurale e benaugurante. Il posto era un po’ angusto, ma le otto persone invitate riuscirono a passare una allegra, piacevole serata. Ovviamente, aveva invitato anche Laura, con la quale si era sempre tenuta in contatto e che aveva seguito, sulla carta o per telefono, nelle sue numerose peregrinazioni. Delle sue amiche era stata l’unica a laurearsi a Cà Foscari, anche perché di atenei in cui si imparasse il giapponese non ce n’erano molti altri. Lo spirito indipendente di Laura, logicamente, non aveva resistito a lungo al legame monogamico con David che, in tutti quegli anni, aveva avuto diversi successori. Tra i suoi volumi Olimpia aveva numerosi segnalibri che erano le cartoline esotiche inviatele dall’amica. Purtroppo, la sera dell’inaugurazione della casa, Laura era impegnata come interprete ad un convegno che si teneva ad Osaka. «Ti prometto, però, che non appena avrò qualche giorno libero, verrò a trovarti, così mi dovrai ospitare nel tuo regno!», le assicurò quando Olimpia l’aveva chiamata. «Immagino che quando avrai tempo tu, io sarò già in pensione!» la canzonò bonariamente, riconoscendo che aveva davvero voglia di rivedere l’amica. Nonostante tutto non aveva neppure rinunciato a cercare Patrizia, ma, purtroppo, ogni tentativo era rimasto infruttuoso. La sua nuova situazione logistica si rivelò per Olimpia quanto mai soddisfacente: era orgogliosa di quel luogo suo, pieno di lei, dei suoi pensieri, delle sue cose, dei suoi ricordi, della sua libertà. Libertà di andare, venire, uscire, ma anche di starsene tranquilla tra i libri, la musica e la TV. 245 Chissà come, ma si era ritrovata, a volte, qualche domenica pomeriggio a seguire con crescente passione, le gare di Formula 1. Il mondo dei motori, la velocità, i pericoli affrontati con decisione dai piloti migliori, pennellando le curve dei vari circuiti, esercitavano su di lei un fascino indiscutibile. A volte, la sera, soprattutto in inverno, mentre correggeva dei compiti o sfogliava qualche testo per la lezione del giorno dopo, teneva accesa, in sottofondo, la televisione, cui, di tanto in tanto, rivolgeva un minuto di attenzione. Quella sera era particolarmente inquieta: la giornata era stata pesante, con le cinque ore di lezione e le tre dei consigli di classe, pertanto non aveva proprio voglia di impegnarsi in alcun modo. Girellando tra i vari canali televisivi, capitò su una trasmissione che stava iniziando proprio allora: “La cintura di Orione” era il titolo che stava sfumando, subito seguito dai nomi dei due conduttori, Fabio Valeri e Giulio Claudio Erneti. Quel nome le illuminò i ricordi: poteva essere proprio quell’Erneti veneziano che con Lorenzo era andata a sentire un pomeriggio in libreria? Quando apparve sul teleschermo l’immagine di Istambul, vista dal Corno d’Oro, la telecamera zumò su un’imbarcazione per dare un primo piano di… Era proprio lui, Olimpia lo riconobbe, soprattutto dalla voce, perché, effettivamente, l’aspetto dello scrittore era molto cambiato. Il viso, ora, era ornato da un giro di barba e baffi bianchissimi, come pure candido era il caschetto di capelli che il vento scompigliava. Il viso virile, dalla carnagione abbronzata, forse dalle lunghe giornate di scavo, pensò affascinata, con le labbra così marcate, le ricordava quello dei bronzi di Riace. Olimpia non sapeva se l’attenzione che le si era accesa fosse motivata dal luogo esotico o dalla presenza di un personaggio che per lei, era comunque legato al ricordo di Lorenzo. Fosse come fosse, d’improvviso la stanchezza e l’opacità della mente furono cancellate e si trovò a seguire quelle immagini con una partecipazione e un interesse incalzanti. 246 D’altro canto, l’argomento non poteva non coinvolgerla, visto che trattava della conquista di Gerusalemme da parte dei Crociati il 15 luglio 1099. Curiosa era, poi, quell’analisi del cielo, quella visione della volta celeste sulla città santa, in quella data, come se, dopo aver assistito alla violenza, agli scontri sulla terra, l’obiettivo della memoria storica si librasse nelle sfere celesti, alla ricerca di ordine, equilibrio e armonia. Da allora cercò di non mancare mai all’appuntamento settimanale con “La cintura di Orione”, tanto che si fece regalare un videoregistratore dai suoi, in occasione del successivo compleanno. Spesso, per dovere o per piacere, bazzicava gli scaffali di librerie e biblioteche, così le venne la curiosità di andare alla ricerca delle pubblicazioni di Giulio Claudio Erneti. Scoprì, così, che, oltre a “Voci antiche” e a quelle che conosceva già, erano anche stati pubblicati “Il ragazzo della Chimera”, “Le armi dell’oplita” e ”Nella terra degli Dei: viaggio nella Grecia di ieri e di oggi”. Logicamente uscì con quell’ultimo libro, che la convinse ancora di più di come il desiderio di conoscere quel paese le stesse crescendo dentro. D’altronde, per chi, come lei, doveva insegnare anche la storia classica e l’epos omerico, era indispensabile una spedizione sul campo. Ma il libro le rivelò anche la personalità, la fisicità dello scrittore che le piaceva seguire in televisione nei suoi viaggi insieme al tempo e alle stelle. Fu così che, pagina dopo pagina, trasmissione dopo trasmissione, scoprì di nutrire per quel personaggio, a lei ormai così familiare, un’ammirazione, una simpatia assolutamente speciali: fascino e carisma personali in lui si sommavano a quelli delle materie di cui era esperto conoscitore e divulgatore. Quando quel pomeriggio, ormai alla fine dell’anno scolastico, sbiciclettando per via Garibaldi, l’occhio le cadde su una locandina appesa nella vetrina di una libreria, per poco non ruzzolò dalla sella, per una frenata bruciante: la settimana seguente, nelle sale del Museo Archeologico, lo scrittore e 247 archeologo Giulio Claudio Erneti avrebbe presenziato all’inaugurazione di una mostra di reperti etruschi, recentemente recuperati. Il resto si sbiadì ai suoi occhi, ma quello che aveva letto le bastava. Che occasione poter incontrare il suo mito letterario (solo letterario?)! Diligentemente si annotò giorno e ora: per quella data non poteva prendere impegni. Già, lei sicuramente si sarebbe tenuta libera, ma il lavoro glielo avrebbe concesso? Tre giorni dopo ci sarebbe stata la riunione preliminare per l’inizio degli esami di licenza e lì avrebbe conosciuto il calendario dei suoi impegni. Il presidente, in apertura di seduta, disse subito che i giorni degli orali li avrebbe decisi durante le prove scritte, così Olimpia visse quelle giornate come sui carboni ardenti, finché non saltò fuori, naturalmente, che il pomeriggio archeologico lei lo avrebbe passato a scuola. «Ma porca vacca, boia miseria!» scancherava mentalmente «Ma ti pareva che non andasse a finire così! Ma possibile che con tanti giorni …no, proprio quello lì dovevo beccare! No, no, bisogna che senta se riusciamo a fare un cambio di sezioni.» Andò a chieder ad ogni collega del corso parallelo se avrebbe avuto qualche problema ad invertire una delle sedute degli orali e nessuno le fece difficoltà, ma il destino… Il collega di educazione fisica, scusandosi molto, le comunicò che non era possibile a causa di altri impegni in altre scuole e quindi… «Ma quando mi capiterà più un’occasione così?» si tormentava Olimpia, mentre riguardava l’appunto con la data, come se, a forza di guardarlo, questa potesse mutare. «Chissà se almeno ci spicciassimo e potessi arrivare per la conclusione!», si augurava, pur con poca convinzione, rileggendo «ore 17». 248 Alle tre di quel fatidico 20 giugno, Olimpia iniziò la sua sessione di esami. Per fortuna, gli alunni da interrogare erano quasi tutti i migliori, per cui, si riprometteva di essere rapida. Purtroppo non aveva tenuto conto delle solite pittime, che non stanno bene se non scandagliano anche i dettagli più minuscoli di ogni argomento. «Bravissimo, come sempre, Curti!» esclamò gongolando la Raffoni di matematica. «E, senti un po’,» continuò gonfiandosi di orgoglio, «prova a spiegare, come sai fare tu, a questi signori» e indicava con la mano i colleghi, come se volesse scusarsi di fronte all’alunno per la loro ignoranza «la teoria della selezione della specie, secondo le varie ipotesi succedutesi nel tempo.» Il povero Curti, sudando, cominciò la sua dotta esposizione, con linguaggio appropriato e un piglio sicuro, anche se il sudore che gli colava dalla fronte, indicava chiaramente che avrebbe preferito salutare tutti e andarsene a rinfrescarsi con un gelato. Olimpia cercò di supportarlo: «Benissimo, Curti. Sei sempre stato attento e impegnato. Io credo che forse…» stava per aggiungere un «possa bastare», quando la Raffoni, come espulsa da una molla, scattò in piedi e l’investì: «Ma come ti permetti di interrompere un mio alunno, mentre sta rispondendo alla mia domanda?» Olimpia, che non poteva certo prevedere una reazione del genere, rimase senza parole, in piedi, alle spalle del candidato, dove le piaceva, ogni tanto, andare a posizionarsi, per diluire la tensione da plotone di esecuzione che, in certi momenti, si veniva a creare. Fu la collega di inglese che intervenne al suo posto: «Veramente, se permetti, Curti è alunno di tutti noi e non tua esclusiva proprietà. E poi, proprio perché lo conosciamo bene, non mi sembra il caso ci sia bisogno di torchiarlo a lungo.» 249 A quel punto, Olimpia, ripresasi dallo stupore, si ricordò di essere la coordinatrice del consiglio di classe e, così, ritornata al suo posto, propose: «Se nessuno dei colleghi ha altro da aggiungere, credo che potremmo congedare il povero Curti». Si guardò attorno e notò con piacere che, Raffoni a parte, gli altri docenti annuivano e sorridevano sollevati. Ma la tempesta non era finita lì, perché la mano dell’alunno era ancora sulla maniglia della porta, che una nuova bordata di urla si scatenò. «Non mi era mai capitato in tanti anni di insegnamento di essere sbeffeggiata in questo modo! Ma chi ti credi di essere, ragazzina?!» Evidentemente, l’età già pensionabile stava procurando alla Raffoni incontenibili attacchi di schizofrenica ira, che la facevano avvampare in viso, come una caldaia troppo sotto pressione. Olimpia, che a sentirsi dare della ragazzina, si sarebbe messa a ridere, con un autocontrollo molto britannico, cercò di placarla: «Ti ringrazio per la ragazzina, ma io non avevo nessuna intenzione di sbeffeggiarti né di mancarti di rispetto. Solo, mi pareva che non avessimo bisogno di altre conferme per dare a Curti un “Ottimo”». I colleghi intervennero per confermare e, conoscendo da anni il soggetto, per assicurare alla anziana docente la loro stima incondizionata. La collega di educazione artistica aveva approfittato di quella pausa per eclissarsi ma, dopo pochi minuti, era rientrata con una serie di coppe e coppette gelato. «Adesso, dai, pausa per tutti e rinfreschiamoci la bocca!» invitò con un entusiasmo forse un po’ sopra le righe. Così, un po’ di fredda dolcezza aiutò a riportare il clima entro i limiti della sobrietà. Olimpia, tuttavia, era quanto mai contrariata da quell’happening che le aveva sottratto altro tempo prezioso. 250 Tra un candidato e l’altro teneva d’occhio l’orologio e lo vedeva procedere inesorabile. Quando, finalmente, ebbero stilato anche l’ultimo giudizio, erano passate le sette. «Tardi, troppo tardi!» si diceva, mentre pedalava come una furia verso il Museo. Con i capelli scarmigliati, il viso sudato(e non solo quello), arrivò proprio in tempo per vedere chiudere il cancello. Anche se se lo aspettava, fu un brutto colpo. Sconsolata, se ne tornò a casa, cercando conforto nel pensiero che, anche per quell’anno, la scuola era ormai finita e per due mesi niente e nessuno avrebbe interferito con i suoi progetti. Avrebbe, comunque, continuato a seguire l’attività dello scrittore veneziano alla televisione e dalle pagine dei suoi libri. In diverse occasioni, a scuola, aveva utilizzato le registrazioni di alcune puntate de “La cintura di Orione”: per approfondire e vivacizzare qualche lezione aveva fatto visionare ai ragazzi le cassette che aveva, via via, accumulato sugli scaffali della libreria. Quando le stoppava, in certi punti, per rispondere a qualche domanda o per esplicitare qualche concetto che nel filmato era sottinteso, si sentiva lievitare, immaginandosi al fianco dei conduttori che, comunque, riuscivano a far presa anche su un pubblico così giovane e scarsamente motivato. Tutto sommato, raggiunti i trent’anni, Olimpia non era malcontenta di sé: il lavoro, anche se spesso faticoso psicologicamente, le piaceva; i rapporti con i colleghi erano aperti e con qualcuno anche molto cordiali. A dire il vero, nell’ambiente della scuola, il personale era quasi prevalentemente femminile e ciò, a volte, creava delle situazioni e un’atmosfera un po’ particolari, da harem, pensava tra sé. Talvolta si soffermava a considerare le persone conosciute in quegli ultimi anni e doveva ammettere che, anche se avesse 251 avuto voglia di trovare un partner, non c’era nessuno che le sarebbe piaciuto, nessun maschio, in quegli ultimi anni era stato capace di riaccendere in lei il desiderio di amare e sentirsi amata. Le pareva che nessuno tra i suoi conoscenti avesse tutte quelle qualità intellettuali e fisiche che lei cercava. D’altronde, qual era il problema? Aveva alcune amiche che condividevano con lei cinema, teatro, palestra e qualche serata di baldoria casalinga, quando la coglieva un raptus cucinandi e si ritrovavano a ridere come sceme davanti a una bottiglia di vino ormai vuota. Anche quell’anno scolastico era ormai in dirittura d’arrivo e bisognava cominciare a festeggiare. «Rispondi tu, per favore?» urlò dai fornelli a Claudia, l’amica e collega con cui quella sera divideva la sua voglia di allegria. «Sì, pronto?» la sentì rispondere. «Un momento, te la passo subito. È per te, si chiama Patrizia!» le bisbigliò nel passarle il cordless. «Ciao, Olimpia. Spero mi ricordi ancora, vero?» chiese una voce squillante e decisa. «Patrizia? Ma… non dirmi… Ma come… cosa» era tanta la sorpresa che non riusciva a formulare nessuna domanda. Per fortuna Patrizia, con la sua solita maniera spiccia, le raccontò in breve la sua storia più recente, da quando non si erano più sentite, alla vigilia di quella mancata visita a Milano. Il punto centrale della cronaca era che il matrimonio di Patrizia era durato praticamente un anno, fintanto che… «Avremo modo di parlarne a voce», le rispose alla sua richiesta di maggiori dettagli. «Ma dai!» si entusiasmò Olimpia «Non mi dire che vieni a Ferrara!» «Certo e non solo per una vacanza» le confermò l’amica. «Ho chiesto il ri-trasferimento e, anche se un po’ in culo al mondo, anzi, alla provincia, torno casa.» 252 «Dove ti hanno messo?» «A Mesola. Un altro po’ e andavo a scuola col passaporto!» scherzò Patrizia. «Però! Non è il massimo della comodità, ma intanto…» cercò di minimizzare. «Ma sì, che mi frega! Mi alzerò col buio in inverno, ma non ho mica dei ciroli da allattare!» le confermò l’amica con decisione. Così, non appena terminarono gli impegni scolastici, Patrizia si trasferì nella sua città d’origine e una delle prime amiche che cercò fu Olimpia. «Sei sempre uguale!» le disse, dopo un caloroso abbraccio. «Anche tu non scherzi» la ricambiò. «D’altra parte è presto ancora per cominciare a invecchiare, non trovi?» chiese, mentre si accomodavano in poltrona. «E allora, dimmi,» volle sapere Olimpia «Com’è andata?» «La mia storia?» prese tempo «Oh! Ti assicuro che se me lo avessero detto, non ci avrei creduto. Beviamo qualcosa, ti dispiace?» «Scusa, ma se non hai voglia di parlarne, lascia perdere. Passiamo alla domanda di riserva!» la tranquillizzò, mentre dal frigo prendeva le bottiglie di succo di frutta e di te’. «Figurati!» la smentì con fermezza Patrizia. «No, no. Ti assicuro che ho voglia di parlarne con un’amica comprensiva come te!» «Dev’essere stato un fulmine a ciel sereno, visto che, quando ci siamo sentite l’ultima volta, mi è parso tutto tranquillo. O sbaglio?» la sollecitò. «Infatti!» confermò Patrizia, mentre posava il bicchiere quasi vuoto sul tavolino. «Avevamo programmato, per dopo la tua visita, una breve fuga “romantica”» Patrizia aveva l’abilità, nel parlare, di far sentire anche le virgolette e le parentesi. 253 «Stavo finendo gli ultimi acquisti in centro prima di passare dal parrucchiere, quando questo mi ha telefonato per spostare l’appuntamento. Così sono tornata a casa con più di un’ora di anticipo». «Basta, non dirmi altro. L’hai trovato a letto con la tua migliore amica. È un classico!» la interruppe Olimpia per risparmiarle l’imbarazzata confidenza. «No, magari» la sorprese Patrizia, versandosi un secondo bicchiere di bibita. «L’ho sorpreso col suo miglior amico!» «Coosa?» tossì Olimpia che non riuscì a finire il suo succo di frutta. «Già! Ti assicuro che anch’io sono rimasta… non so mica come. Subito non sono riuscita a realizzare quello che vedevo. Dopo qualche eternità di un gelo immobile, Hans mi ha pregata di uscire dalla camera: si vestiva e poi avremmo parlato. Io l’ho preso in parola, ma sono uscita di casa addirittura. Non so cosa ho fatto: credo di aver girato per qualche ora, mentre sentivo come un’ebete, il cellulare che continuava a suonare. «So che era già buio quando sono rientrata. La camera era in perfetto ordine e Hans mi aspettava seduto in salotto. Ovviamente, l’amico era sparito.» «Dio, che storia!» non poté trattenersi Olimpia. «Già, ma il peggio sai qual è? Che ha parlato per un’ora cercando di convincermi che lui mi amava, come sempre, come prima, ma sentiva anche un bisogno incontenibile di un rapporto diverso, omo... ma questo non condizionava minimamente il nostro legame». «No, aspetta;» la fermò Olimpia «vuoi dire che a lui andava bene scopare con te, fare il marito e poi avere anche…» «Certo, un bel culo virile, come optional. Non sapevo se ridere o piangere, te lo giuro. Mi pareva una cosa così enorme che non sapevo cosa dire. Qualche termine abbastanza intonato alla situazione l’ho trovato, comunque. Gli ho dato del pervertito, del busone travestito, dello schifoso paraculo e non 254 so cos’altro. E sai cos’ha avuto il coraggio di rispondermi? Che io ero una povera provinciale se non capivo che in certi ambienti queste cose erano normali, che la “diversità”, quella, cioè stare da una parte e dall’altra, è indice di maggior apertura mentale, di modernità, di mancanza di pregiudizi, di disinvoltura intellettuale. Io gli ho ribattuto che preferivo essere una povera provinciale che dividere il mio letto con qualche terzo incomodo, uomo o donna che fosse. «Lui ha cercato ancora di convincermi, di ammansirmi, ma io ero così disgustata che, il giorno dopo, ho fatto le valigie e me ne sono andata. Il seguito, penso, te lo immagini: cercare un posto dove andare, continuare a lavorare e questo non è stato solo un peso, mi ha anche aiutato ad avere qualche altro pensiero che non fosse quella fastidiosa immagine fissa che continuava a tormentarmi giorno e notte.» «Ma perché non mi hai chiamato, perché non ti sei fatta sentire prima?» la rimproverò Olimpia. «Ti giuro che non avevo proprio voglia di vedere o parlare con nessuno. Era come se avessi il vuoto assoluto attorno.» «Posso capirti. Quando ti senti cadere il mondo addosso, sei convinta che nessuno possa fare niente per te. Deve passare del tempo, perché tu possa di nuovo considerare il mondo che ti circonda» dovette ammettere. «Così, ora, eccomi qua, pronta a ripartire dal via!» scherzò Patrizia. «Ti dirò» le confessò Olimpia «mai avrei voluto che ti succedesse questo cataclisma, ma sono almeno contenta che, comunque, adesso ci si possa vedere più spesso. Almeno lo spero!» «Perché, tu hai qualche legame che ti limita?» le chiese preoccupata. «Io?» sussultò «ma neanche… ma niente al mondo, figurati!» la tranquillizzò. «E allora, vedrai che ce la spasseremo, eccome!» 255 Pochi giorni dopo, un’altra sorpresa: Laura si trovava a Fano, dopo ferragosto, per una breve rimpatriata e l’avrebbe rivista volentieri. «Quando vieni?» le chiese con decisione. «È un invito o un ordine di servizio?» le rimandò scherzando. «Dai, abbiamo un sacco di cose da raccontarci. Ti aspetto al più presto.» le rispose con tono più conciliante. Così, dopo diversi anni, Olimpia tornò dove aveva vissuto una vacanza felice con Lorenzo. Laura la accolse con calore e lei si rese conto che rivedere quelle stanze non la faceva tremare di angoscia, ma, stranamente, anzi, il riaffiorare di quei momenti felici la faceva sentire ricca per qualcosa che aveva avuto, che era stato solo suo, anche se, purtroppo, ora si chiamava ricordo. Quando quel pomeriggio suonò il campanello, Laura le annunciò: «Questo è Michele. Quando ha saputo che venivi è stato felicissimo e mi ha detto che ti avrebbe salutato con piacere.» «Oh! Michele!» lo accolse Olimpia con entusiasmo, andandogli incontro. «Lasciati guardare: caspita! Sei cambiato parecchio in questi anni. Metti quasi soggezione con questa barba» scherzò accarezzandogliela. «L’hai fatta crescere per compensare il taglio dei capelli?» chiese osservando che le morbide onde di un tempo erano cadute sotto le forbici di un barbiere. «Olimpia! Che voglia di vederti avevo! Anche tu stai bene, mi pare!» la ricambiò prendendole le mani e tenendola davanti a sé. «Questo potrai dirlo tu, dottore!» intervenne Laura. «Dottore?» gli chiese stupita Olimpia. «Di fresca laurea.» confermò. 256 «Complimenti, Michele. E con la musica, come va? Suoni ancora?» «Certo! È la mia seconda passione. E ogni volta che mi siedo al pianoforte non posso non ricordare…» «Già.» Lo interruppe prontamente Olimpia «Sono stati giorni felici». «Te ne auguro tanti ancora!» le sorrise Michele. Nei giorni che rimase a Fano, Laura non smise di proporle nuotate, sole, gite culturali e gastronomiche nell’entroterra. Durante quegli spostamenti in macchina, Olimpia scoprì che Michele, loro assiduo accompagnatore, era diventato molto meno timido e, anzi, sicuro di sé, le faceva divertire con battute fulminee, per le quali ridevano come matte. Una sera lui le invitò nel piccolo appartamento nel quale si era trasferito, portandosi dietro il pianoforte che occupava, praticamente, tutto lo spazio del soggiorno. Le stupì con una cena fredda e golosa e, mentre stavano per gustare un sorbetto al limone, il cellulare di Laura li interruppe. «Scusate» fece lei, alzandosi e appartandosi un momento. Quando tornò, poco dopo, era visibilmente contrariata. «Brutte notizie?» si preoccupò Olimpia. «Oh! No. Però, accidenti!» brontolò Laura prima di chiederle: «Sei proprio decisa a partire domani?» «Sì, ho già il treno prenotato e…» «Perché mi hanno chiesto se sono disponibile a far da interprete. Mi è difficile rifiutare, perché è un amico dei miei. È titolare di un calzaturificio, è sempre stato molto gentile con la mia famiglia e adesso ha un problema. Il suo interprete si è ammalato all’ultimo momento e domani gli arriva un importante cliente da Tokyo». «Ma certo, capisco. Non ti preoccupare» la tranquillizzò Olimpia, «Ma mi secca che proprio l’ultimo giorno…» 257 «Vorrà dire che domattina ci salutiamo presto e…speriamo non passino ancora altri anni prima di rivederci!» «Che ne dici» intervenne Michele «se sostituisco io Laura e ti accompagno io al treno?» «Ti ringrazio, ma non dovete sentirvi obbligati a scortarmi!» «Ma quale obbligo!?» la smentì lui. Il mattino dopo, stava per chiudere la valigia, dopo aver abbracciato Laura che se ne era andata con un biscotto ancora tra le labbra, quando sentì il campanello: era Michele. «Ciao! Sei pronta?» le chiese. «Quasi. È ancora presto, non ti aspettavo». «Ho pensato che prima di partire poteva farti piacere fare un ultimo giro o…» Non finì la frase, perché, parlando, le si era avvicinato e ora la stava baciando con una foga che lasciò Olimpia stupefatta e travolta. Quando riuscì a liberarsi dal suo abbraccio non poté trovare le parole: non sapeva se era più arrabbiata o più sorpresa. Michele continuava ad abbracciarla, stringerla, a cercare la sua bocca. Olimpia opponeva una sempre più debole resistenza, perché di colpo si era resa conto che la cosa le dava un piacere fisico intenso, profondo. «No, Michele. Cosa fai? Cosa ti salta in mente. Lasciami.» si sentiva dire, ma le sue mani intanto gli cingevano il collo. «Da quanto tempo desideravo farlo!» le confessò lui mentre cominciava a spogliarla. «Da quando ti ho conosciuta, ti ho desiderata. Mi piaci da impazzire» le confessò, mentre il respiro si faceva sempre più corto e affannoso. Olimpia, perso ogni controllo, ora faceva a gara con lui per liberarlo di ogni indumento e, quando sentì sul suo corpo la prepotente virilità di lui, lo guidò impaziente. «Dio! Che meraviglia» le sussurrava all’orecchio, mentre si muoveva sempre più freneticamente. Olimpia non ricordava 258 più da quanto tempo non si era sentita così innalzata e in una dimensione al di fuori dello spazio e del tempo. La danza dei loro corpi fu lunga ed estenuante, finché, fradici di sudore e ansanti, si trovarono a guardarsi negli occhi. Dopo qualche momento di straniamento, rinsavita, Olimpia si rese conto di quanto era accaduto. «Ma cosa abbiamo fatto, Michele!?» «Qualcosa di sublime, visto il risultato», fu la sua risposta entusiastica. «Ma ti rendi conto che..» «Che cosa? Che ho qualche anno meno di te, che stai per partire e non sappiamo se vorremo o potremo rivederci?» le enunciò. «Beh! Più o meno proprio questo. Che senso ha? Perché?» «Ma quante domande!» si sbrigò lui. «Perché tutti questi interrogativi? Ti è piaciuto? Direi di sì, da come reagivi. E allora va bene così» commentò maliziosamente. «Ad essere sincera, sì, mi è piaciuto, ma non mi era mai capitato, che così,all’improvviso…» «E allora, vieni, forse anche questo non ti è mai capitato». Con decisione la travolse e cominciò a sollecitarla con maestria per portarla all’acme del desiderio che in lui si era già riacceso. Quando un’ondata di un piacere quasi feroce la sconvolse, Olimpia ebbe voglia di urlare, di liberare tutta quell’energia che per tanto tempo le era rimasta dentro, costretta e dimenticata. «Che pazzi siamo!» commentò mentre si sedeva sul letto e scuoteva la testa per dare una rapida e sommaria sistemata ai capelli. «E non è meraviglioso impazzire, ogni tanto?» le chiese Michele, baciandole l’incavo dell’inguine. «Credo che ora dovrei andare. Che ore sono?», gli chiese all’improvviso. 259 «Quasi mezzogiorno.» Rispose Michele, dopo una rapida occhiata allo Swatch al polso. «Coosa? Non è possibile! Ho perso il treno, aiuto!» urlò Olimpia. «Beh! Calma. Chi se ne frega, non è mica l’ultimo, no?» «No, ma avevo prenotato il posto e ora…» «Senti, mi va di fare un viaggetto: che ne dici se ti porto io a Ferrara?» le chiese col sorriso più radioso. «Ma tu non hai niente da fare?» «Per ora ancora no. E tu?» «Io sì, purtroppo. Domani alle 9 ho un collegio docenti» ricordò. «Ragione di più per essere a casa alla svelta, no?» Il viaggio in macchina fu piacevolissimo: Michele guidava sicuro e veloce e, ogni tanto, le accarezzava le gambe, facendola rabbrividire di piacere. Arrivati a casa, Olimpia ebbe un attimo di imbarazzo: non aveva mai ospitato un amico, tanto meno un amante. Michele, invece, pareva perfettamente a suo agio. «Così è qui che abiti!» osservò, guardandosi intorno. «C’è molto ordine, si vede che ci vivi da sola. Ti occorre qualcuno che movimenti un po’ le tue giornate e, soprattutto, le tue nottate!» insinuò lui, togliendosi la camicia e prendendole le mani. «Già.» Confermò Olimpia «Mi fa uno strano effetto vedere un maschio qua dentro.» «Sono il primo, quindi?» la interrogò, già prevedendo la risposta. «Di questo tipo, sì» confermò Olimpia, accennando alla loro ormai svelata nudità. «Molto eccitante!» fu il suo commento, prima di annullare ogni pensiero di lei con la forza orgogliosa del suo sesso. 260 Quando, il mattino dopo, Olimpia ritrovò a scuola i colleghi, le parve di essere tornata in una vita, in un mondo precedenti e che ora non le appartenevano più. Non le fu facile dimenticare le emozioni provate fino a poche ore prima con Michele che, da amante instancabile, le aveva fatto recuperare in un giorno tutte le mancate esperienze erotiche di parecchi anni. A volte, mentre il preside o una collega si perdevano in discorsi teorici, vuoti e banali, lei si rifugiava nella memoria recente e ripercorreva la cronaca del suo rapporto con quel ragazzo che aveva saputo toglierla da un lungo sopore. «Se immaginassero cosa penso in questo momento!» si scopriva a riflettere, sorridendo nel guardarsi attorno. Senza aver capito molto di quanto era stato deciso in quella riunione, volò a casa, non sapendo se vi avrebbe trovato ancora il suo “ospite”. Aperta la porta, in soggiorno trovò un quadro desolante: Michele aveva fatto colazione, una colazione completa, a giudicare dalle stoviglie usate, e aveva lasciato tutto sul tavolo e nel lavello. «Ah!» commentò alquanto contrariata e, proprio mentre stava per cominciare a riordinare, suonò il campanello. «Sono io. Non ho le chiavi, naturalmente. Vuoi aprirmi, per favore?» le chiese Michele al citofono. «Credevi che me ne fossi andato così, senza salutare?» le chiese abbracciandola, appena entrato. «Temevo proprio di sì, lasciandomi questo come ricordo.» Lo redarguì, accennando al disordine. «Certo, non sono un perfettino, ma non mi sognerei mai di lasciare un biglietto da visita così poco allettante», le rispose cominciando lui pure a riordinare. Ma quanto era cambiato quel ragazzo, nel giro di quegli anni, non poteva fare a meno di riflettere, ricordando quando lo aveva conosciuto, timido e ammirato di fronte a Lorenzo. 261 Quando, un paio di giorni dopo, lui tornò a Fano, Olimpia non sapeva se e quando si sarebbero rivisti. Non avevano assolutamente parlato di futuro, di progetti, di impegni reciproci e per lei questo, tutto sommato era un bene, perché le lasciava il tempo per metabolizzare l’accaduto, per sentirsi libera di assolversi da un colpo di testa che l’aveva inebriata e le aveva restituito la sua giovinezza. «Ricordati che, quando vorrai fare qualche altra pazzia, io sono sempre pronto!» le aveva quasi urlato, mentre già scendeva le scale, dopo averla salutata. Stranamente Olimpia si era scoperta per nulla immalinconita da quella separazione, forse da quell’addio. Com’erano diversi i distacchi da Lorenzo che, ogni volta, le lasciavano un grosso magone che impiegava alcuni giorni a sciogliersi. Ora, invece, proprio mentre si scioglieva dal suo ultimo abbraccio, aveva addirittura pensato a chiedergli di salutare Laura per lei. In quell’inverno, comunque, fece qualche scappata a Fano, per ricambiare le diverse visite di Michele e avevano anche cominciato a fare qualche accenno alla prossima estate, ma Olimpia non si sentiva friggere di impazienza, all’idea di una vacanza a due. Infatti, preferì andarsene a zonzo per l’Italia e dintorni, a caccia di siti archeologici, musei e concerti. Spesso, i suoi erano veri e propri raid solitari, che le permettevano di gustare a pieno l’atmosfera evocata da un rudere, da un reperto o da un dipinto carico di suggestioni simboliche, che amava cercare di decifrare. Potendo, cercava, comunque di essere a casa nei pomeriggi dei Gran Premi di Formula 1, sport al quale si era andata sempre più appassionando in quegli ultimi tempi, diventando una fervente tifosa delle rosse di Maranello. 262 Quando provava ad osservarsi dall’esterno, le veniva spontaneo paragonarsi ad un’anziana britannica ancora legata all’idea del classico gran tour ottocentesco. Le scappava da ridere a quell’idea, ma, in effetti, doveva riconoscere che l’immagine era azzeccata. «Beh! Quest’anno mi va così» si diceva, accorgendosi che, solo qualche volta, sentiva un certo richiamo che le faceva desiderare la presenza di Michele. Come arrivavano in fretta anche le lunghe serate invernali e come altrettanto in fretta era subito giorno, un nuovo giorno con i suoi impegni, le sue incazzature a scuola, le sue risate con amici e colleghe. Patrizia era una delle sue assidue frequentazioni e, spesso, si facevano compagnia, organizzando insieme qualche vacanza. Patrizia era una patita del nuoto e non perdeva occasione per frequentare piscine e zone balneari. Olimpia cercava, dal canto suo, di contagiarla, invece, con la visitazione di luoghi d’arte o incontri culturali, ma scarsi e scoraggianti erano i risultati. Per questo, doveva ammetterlo, sentiva un po’ la mancanza di Laura, che se ne andava in giro per il mondo, anche se per lavoro, ma che, lo sapeva, riusciva sempre a dedicare qualche ora a concerti, mostre e altri eventi culturali. La lettura dell’ultimo libro di Erneti, “Io, figlio di Filippo”, le riaccese la fiamma dell’amore per l’Ellade. Quando, durante le vacanze di Natale 2003, ospitò Laura, aveva ancora sul tavolino il romanzo dello scrittore veneziano. «Interessante» commentò l’amica, sfogliandolo. «Ma poteva più semplicemente intitolarlo “Alessandro” o qualcosa del genere». «No!» rispose pronta Olimpia, che aveva compreso e condiviso il punto di vista dell’autore. «È una visione molto particolare del grande Macedone. Vuole soprattutto focalizzare l’attenzione sul rapporto tra Filippo e il figlio, ancora troppo bambino, ma già consapevole, in un certo senso, di essere 263 destinato a qualcosa di epico, anche se non sa ancora cosa; di fronte alle imprese paterne si esalta, ma si preoccupa anche perché capisce che, per superarlo, dovrà diventare un dio.» «L’ombra di un padre ingombrante, quindi?!» chiese Laura, posando il libro. «Sì, certo». Laura, intanto, stava leggendo alcune note nel risguardo di copertina, quando, ad un tratto, ricordò: «Ah! Ecco da dove viene Kosta!» «Costa?» la interrogò Olimpia, che non aveva, ovviamente, potuto sentire la diversa forza dell’iniziale del nome. «Sì, un amico greco che ho conosciuto a Venezia.» «Dai, hai un amico greco e non mi dici niente?» «Perché tutta questa meraviglia? Ho detto greco, mica marziano!» si stupì l’amica. «Perché per me la Grecia è un’utopia, un sogno. Adoro quel paese, anche se non ci sono mai stata, ma farei di tutto per visitarla. E i greci credo siano degli esseri fortunati, sia per tutto quello che hanno fatto in passato, sia per la meraviglia del paese che abitano. E tu ne conosci uno, quindi?» «Sì, ma è un amico, davvero, anche se un grande amico» e le raccontò di come lo aveva conosciuto durante gli anni dell’università. Era diventato pediatra, laureandosi a Padova. I genitori,erano proprio originari di Vergina, ma avevano sempre trascorso le vacanze estive in una piccolissima isola, vicina a Idros, paese natale dei bisnonni, di cui avevano mantenuto la casa e che lui ricordava ancora come il luogo felice della sua infanzia. «Pensa,» continuò Laura «che mi diceva che ancora ha la casa su quest’isoletta e mi aveva pure invitata ad andarci in vacanza, visto che lui non può mai farlo. Di soldi ne deve fare a palate, perché, solo per motivi affettivi, ha fatto ristrutturare la vecchia casa di famiglia che deve essere diventata un vero gioiello». 264 «E tu non hai accettato un invito così?» la travolse Olimpia con il suo stupore. «Ma a fare cosa, in un luogo che, credo, non sia neanche segnato sulle carte geografiche? Dai, dai, finisci di pulire le tue verdure che tra poco arriva Patrizia!» Quella sera avevano programmato una cenetta a tre. Anche mentre la serata si accendeva fra il vino, il chinotto e le risate, Olimpia continuava a pensare alla casa sull’isola greca. Quando proprio non poté più trattenersi, chiese: «Senti un po’, Laura. Credi che il tuo amico greco ti affitterebbe la casa per portarci in vacanza qualcuno?» Patrizia, stupita da quella richiesta, per lei incomprensibile, volle saperne di più e Laura la mise al corrente dell’antefatto. «Allora mi associo alla richiesta di Olimpia, se permettete!» fu la sua pronta conclusione. «Sapete che mi avete contagiata con la vostra eccitazione?! Appena torno a casa, chiamo Kosta e sento cosa ne dice, poi vi faccio sapere.» «Sì, ti prego. Ci conto davvero» «Dai, mi raccomando, non dimenticarlo», risposero quasi all’unisono, prima di un ultimo brindisi. Laura fu di parola, perché prima della fine del mese, comunicò ad Olimpia che l’amico era stato felicissimo della sua richiesta e che non vedeva l’ora che qualcuno andasse ad aprirgli un po’ la casa della sua infanzia. «Quando gli ho detto che volevamo sapere quanto chiedeva per l’affitto, per poco non mi sbatte il telefono in faccia. Mi ha chiesto se volevo offenderlo o se era uno scherzo!», le telefonò una sera. «Ma dai, non possiamo fare le mantenute. Io e Patrizia neanche lo conosciamo!» cercò di insistere Olimpia. «Senti, io gliel’ho chiesto e richiesto, ma non c’è stato niente da fare. Mi ha detto che il favore glielo facciamo noi. 265 L’unica cosa che mi ha chiesto in cambio, è una cortesia: portare per lui un fiore sulla tomba dei genitori, che hanno voluto essere sepolti nel piccolo cimitero del paese. E poi, lo sai come sono fatti i greci…» La cosa più difficile di quella vacanza fu trovare un periodo che andasse bene per tutte. Bisognava anche tener conto che ad agosto ci sarebbero state le olimpiadi ad Atene, quindi era senz’altro preferibile andare in luglio. «Perfetto!» fu il commento di Olimpia, una volta decisa la data della partenza «Pensa che nuotate nel mare greco!» pregustava Patrizia. «Visto che è così vicina ad Atene, riusciremo, vero? A farci una scappata. Guarda che l’isola è proprio ad un tiro di sasso dalla costa, ci faremo una gita, ovviamente, no?» si entusiasmò Olimpia. E così il luglio 2004 fu la prima volta in Grecia di Olimpia. 266 OLIMPIA PRESENTE «Ne era davvero valsa la pena», pensava Olimpia, stiracchiandosi pigramente, mentre si godeva il silenzio e la piacevole brezza di quelle prime ore del mattino che la appagavano. Distesa su una sedia sdraio, i sensi accarezzati da un alito dolce, profumato di mare e forti essenze mediterranee, ripensava al viaggio di pochi giorni prima, che l’aveva portata, insieme a Laura e Patrizia, in quella specie di paradiso. Era stata una quasi avventura arrivarci, perché avevano dovuto servirsi di tutti i mezzi possibili: aereo, aliscafo e una barchetta, vecchia forse quanto Ulisse. Per fortuna, Kosta aveva fornito loro indicazioni precise e circostanziate e il suo nome era, su quell’isola, una specie di passepartout. La casa si era presentata come uno di quei gioielli da isole felici, che provocano l’invidia dei comuni mortali, lettori di riviste di viaggio. Affacciata su una piccolissima insenatura, squillava dei suoi bianchi e azzurri ancora nuovi e si compiaceva delle ombre di alcune piante che, come strumenti musicali, il vento faceva vibrare e sussurrare. Intorno, praticamente niente altro e in distanza, invece, la presenza umana era rappresentata da una zona, alle prime pendici di un leggerissimo declivio, in cui lavorava un gruppo di quelli che a lei erano parsi operai. Chissà che non stessero iniziando lavori per la creazione di qualche nuovo villaggio turistico, aveva pensato con un po’ di malinconia, paventando lo 267 stravolgimento naturalistico e culturale che la cosa avrebbe sicuramente prodotto. Una stretta stradina sterrata separava la zona litoranea da quella degli scavi e lei non aveva mai sentito la curiosità di andare a indagare. L’interno della casa era un fresco riparo dalla canicola del giorno. Le pareti imbiancate di calce facevano da sfondo perfetto ai pochi mobili, scuri, di artigianato popolare ma sobrio. Che non fosse un edificio destinato ad essere affittato, era dimostrato dalla presenza delle foto alle pareti e dei soprammobili: tutti oggetti estremamente personali, da rispettare in virtù della storia che li accompagnava sicuramente. Per non disturbarsi a vicenda, visto che il posto c’era, le amiche si erano scelte una camera ciascuna, locali che si trovavano al piano superiore. Olimpia ci si era subito sentita a suo agio e le piaceva un sacco, appena sveglia, scendere a ricevere le immagini e i profumi di quella natura che pareva quasi incontaminata. Le amiche preferivano dormire a lungo e, così, per lei, quelle ore erano diventate una piacevole abitudine privata. Leggeva, pensava, ascoltava le musiche preferite e incamerava il panorama per poterlo poi riassaporare nei lunghi mesi di lavoro e di inverno. L’unica cosa di cui sentiva la mancanza era l’antenna parabolica per vedere la TV italiana. Non che la seguisse sempre, ma, quando la domenica del gran premio di Magny Cours e di Silverstone, si era dovuta accontentare della telecronaca in greco, si era sentita privata di una parte importante della esaltazione per le vittorie di Schumacher, di cui ormai era diventata una sfegatata tifosa. Da un paio di giorni aveva preso a girellare attorno alla casa un piccolo gattino tigrato, sbarcato chissà da dove, abbandonato chissà da chi, e lei, che aveva sempre avuto un debole per i felini, ma che non aveva mai prima voluto o potuto farsi schiavizzare da un animaletto miagolante, si era subito 268 sentita attratta da lui, tanto da cominciare a sfamarlo e coccolarlo. La “cosina viva”, come era stato immediatamente soprannominato, sembrava fatto apposta per farsi stropicciare: non appena Olimpia se lo prendeva tra le braccia o se lo accoccolava sulle ginocchia, quello iniziava a ronfare in stereofonia. Bello, nella sua felinità, aveva da se stesso evocato il nome più adatto: Kalos, una delle poche parole di greco che il suo esiguo vocabolario le consentiva Quando, quella mattina, si era persa nelle sue fantasticherie, quasi addormentandosi con il micio in braccio, quello, ad un certo punto, aveva deciso di partire in esplorazione e se ne era sceso, dirigendosi verso una macchia di cespugli che cresceva un po’ polverosamente al di là della strada. Quando Olimpia si riebbe dal suo quasi sogno, non trovandolo più, si guardò intorno e, non vedendolo da nessuna parte, si alzò e si avviò verso l’unico luogo in cui poteva nascondersi il briccone. «Kalos! Kalos!» cominciò a chiamare, con voce sempre più ad alto volume. Come in risposta ai suoi ripetuti richiami, ad un tratto, dai cespugli si materializzò un ragazzino, questo le parve data la statura, che teneva maldestramente tra le mani il gattino. Quando le fu più vicino, Olimpia si accorse che non era proprio un ragazzino. Anche se giovane, era pur sempre un ragazzo e solo la mancanza di qualche centimetro in verticale l’aveva ingannata. «Is this you are looking for?» le chiese, mostrandole la bestiola che si stava acciambellando tra le sue mani per sistemarsi meglio. Il sollievo di Olimpia fu tale da farle dimenticare anche le poche, semplici parole inglesi di una risposta affermativa e, istintivamente, lo ricompensò con un: «Sì, certo. Grazie.» 269 «Ah! Ma sei italiana anche tu?!» fu la risposta dal tono interrogativo del giovane, che, senza attendere altro, si presentò: «Ciao. Io sono Jacopo Antinori.» «Di Firenze, vero?» le venne spontaneo, pronunciando la città con la e più aperta che poté. «Naturalmente. E tu, di dove sei?» «Olimpia Alessandri, di Ferrara.» Fu la sua sintetica autopresentazione. «Bella città! Complimenti!» commentò con convinzione Jacopo. «Grazie, detto da un fiorentino è una opinione di un certo peso. Cosa fai in questo angolo dimenticato della Grecia?» gli chiese incuriosita. «Sono uno degli archeologi che lavorano agli scavi laggiù.» Le rispose, indicando la zona dei lavori. «Scavi? Archeologo? Meno male, temevo stessero lavorando ad un albergo o a roba simile!» «No, no, non temere. Stiamo riscoprendo il passato, non deturpando il presente!» le fece eco lui. «E tu, sei in vacanza?» «Sì, sono con due amiche e abitiamo nell’unica casa che puoi vedere qua attorno». «Unica anche quanto a bellezza. Non sai quanto abbiamo cercato di sapere chi è il proprietario, per averla in affitto, ma tutti ci hanno detto che non era possibile. Allora come avete fatto ad arrivarci voi?» le chiese con molta serietà. Olimpia sorrise e poi gli raccontò il perché e il percome di quella vacanza, pur senza svelare il nome del fortunato proprietario della loro residenza. «Fortunatamente, l’isola si percorre anche a piedi, per cui anche l’unico albergo che esiste in paese ci permette di arrivare al lavoro in pochi minuti. E quando non sei in vacanza, cosa fai?» si informò. 270 «Insegno lettere alle medie. Per questo, forse, la tua attività mi entusiasma tanto. Deformazione professionale!» Mentre parlavano, Jacopo le aveva passato Kalos, che si era messo beatamente a dormire coccolato dalle sue carezze. «Beh! Credo che sia ora di dare inizio ai lavori anche per oggi» decise e: «Ciao, allora, credo che ci rivedremo, no? In fondo siamo vicini di…casa!» concluse. Intanto anche Laura e Patrizia li avevano raggiunti e così si conobbero tutti, augurandosi di ritrovarsi presto. E presto si rividero, davvero, perché la sera dopo Jacopo venne a chiamarle, direttamente a casa, per invitarle a una grigliata, per festeggiare un compleanno. Le tre ragazze ebbero così modo di incontrare anche i giovani greci e familiarizzare con tutto il gruppo. Olimpia era felice, anche perché questo le permetteva di osservare da vicino gli oggetti, vecchi di più di due millenni, che erano stati recuperati in quei giorni. L’emozionava sempre pensare alla storia delle cose del passato, immaginare le persone e gli avvenimenti di cui erano state protagoniste. Forse questa grande passione per l’antichità era riuscita anche a trasmetterla ai suoi alunni, perché le ore di Storia erano vissute da quasi tutta la classe con emozionanti aspettative. Quella serata era stata una piacevolissima esperienza: i canti popolari che i ragazzi greci avevano intonato e di cui lei non capiva le parole, le richiamavano alla mente antiche storie, miti e leggende che quel popolo aveva saputo creare, anche grazie ai suoi cantori. L’ouzo scorreva fresco e profumato dalle bottiglie nei bicchieri e inebriava, anche perché accompagnato dalla coperta del cielo che incastonava la luce ammiccante delle stelle. Laura e Patrizia si facevano pazze risate con Demetrios e Georgios, che, saputo della laurea in giapponese, non smetteva di chiedere a Laura come si dicevano le cose più sconce nella lingua dei samurai. 271 Pochi giorni dopo, una mattina, Jacopo chiamò Olimpia dalla porta di casa. «Ciao, Jacopo. Tutto bene?» lo salutò un po’ sorpresa per l’ora inadatta ad una visita. «Sì, grazie. Volevamo chiedervi un favore.» Iniziò, mentre posava a terra una sporta piena di bottiglie. «Stasera torna il nostro capo e vorremmo salutarlo e dargli il bentornato, ma il frigo che abbiamo è strapieno e queste non ci stanno.» le disse alzando con qualche difficoltà la borsa. «Non è che potreste ospitarle nel vostro frigo?» «Ma certo, non c’è problema. Vieni dentro!» lo invitò. «Allora, un’altra festa?» gli chiese con un sorriso mentre lo precedeva in cucina. «No, non proprio una festa, visto che è reduce dal funerale di un amico. Non credo sarà dell’umore giusto per folleggiare, ma vorremmo fargli sentire, comunque, che siamo felici che sia tornato.» Raccontò, cominciando ad armeggiare con le bottiglie per farle entrare tutte nello spazio un po’ ristretto del frigo. «Mi dispiace.» Si rammaricò Olimpia. «Perdere qualcuno ti lascia sempre stranito, ti senti..» non finì la frase perché Patrizia irruppe come una meteora in cucina e volle sapere: «Ti senti come?» «Niente, stavamo commentando un fatto. Jacopo ci lascia in fresco queste bottiglie per stasera, visto che brinderanno al ritorno del loro capo. Piuttosto, per che ora vi servono?» «Direi verso le 8! C’è qualche problema?» chiese Jacopo guardando entrambe. «No, no. Per quell’ora saremo certamente a casa. Ci facciamo il giro dell’isola in barca» lo informò Patrizia, pregustando la felicità di lunghi bagni e spiagge libere. La giornata fu, ovviamente, piena, satura di sole, di mare, di salsedine sulla pelle. Quando tornarono, nel tardo pomeriggio, erano ubriache per il calore immagazzinato. Avevano appena finito di rinfrescarsi sotto il getto di una doccia, che avrebbero 272 voluto infinita, quando Olimpia si sentì chiamare da Jacopo. Senza uscire, dalla finestra della cucina, lo saluto distrattamente, mentre lo invitava ad entrare. «Ciao. Vi siete divertite?» chiese lui allegramente. «Abbiamo fatto di tutto: tuffi, nuotate e corse sulla spiaggia.» Lo informò. «Direi che vi siete abbrustolite per bene!» notò, osservando l’abbronzatura accesa delle ragazze. Olimpia, intanto, aveva recuperato le bottiglie e gliele stava consegnando. «Grazie. Siete pronte?» chiese Jacopo. «Per cosa, scusa?» si stupì Olimpia. «Per venire con noi a bere queste! Il nostro capo vuole ringraziarvi di persona e farebbe piacere a tutti stare un po’ insieme!» «Ti ringrazio, ma non so se è il caso…» rispose un po’ titubante, mentre lo accompagnava verso la porta. «Dai, non fatevi pregare!» le sgridò bonariamente, mentre Olimpia lo precedeva fuori. Alzando lo sguardo verso gli scavi, credette di avere una visione. «È quello il vostro capo?» gli chiese, indicando una figura che risaltava per il candore immacolato dei capelli. «Sì, è…» stava per rispondere Jacopo, ma Olimpia lo precedette: «Ma è Giulio Claudio Erneti!» disse quasi urlando. «Sì. Lo conosci?» «Ma naturalmente! È un mito quell’uomo per me! Adoro i suoi libri e seguo tutte le sue trasmissioni in TV. Mio dio, non posso crederci!» si esaltò, correndo in casa e tornando con un libro che mostrò a Jacopo. «Guarda! Sto rileggendo questo proprio adesso!» gli confidò, tendendogli la sua copia di “Nella terra degli Dei”. 273 «Dai! Ne sarà felicissimo! Allora, venite?» le sollecitò. «Puoi giurarci!» accettò Olimpia con un entusiasmo che non riusciva più a contenere e mentre le amiche raccoglievano le loro borse. 274 OLIMPIA E GIULIO C. PRESENTE Jacopo le precedette e, arrivati sul sito, fece le presentazioni. Olimpia era rimasta per ultima, anche perché, ad essere sincera, le gambe le tremavano per l’emozione. «E questa è Olimpia Alessandri, di Ferrara.» Concluse Jacopo mentre Giulio C. le tendeva la mano. «Dire che sono senza parole, non è abbastanza, visto che da anni aspettavo il piacere di incontrarla.» Riuscì a dire tutto d’un fiato. «Addirittura?» chiese lo scrittore sorridendo. «Già, da quando non riuscii a venire alla presentazione della mostra sui piatti da pesce al museo archeologico. Purtroppo ero impegnata con la scuola…» cercò di spiegare. «Forse i suoi insegnanti avrebbero potuto giustificare la sua assenza, se dovuta a motivi culturali, no?» suggerì con aria un po’ maliziosa. «Veramente io ero una degli insegnanti e stavamo facendo gli esami di licenza media…» chiarì Olimpia. «La credevo ancora dall’altra parte della cattedra, davvero!» Per fortuna di Olimpia, la pelle, fortemente tostata dal sole, non lasciò trasparire la sua emozione. «Così, siamo quasi colleghi o, meglio, lo siamo stati, visto che, tanti anni fa, ormai, anch’io ho insegnato. Senza dimenticare che lo faccio tutt’ora, anche se all’università». 275 «Classificarmi collega…mi fa troppo onore, la ringrazio.» Rispose Olimpia, sempre più sorpresa dalla facilità con cui riusciva a dialogare con quello che, fino a poco prima, era stato per lei solo un mito astratto e irraggiungibile. Mentre parlavano, Jacopo si era avvicinato e lei si accorse che aveva in mano il suo volume de “Nella terra degli Dei”. «Guardi, prof» disse, tendendo il libro a Giulio C. «Se le dice che è una sua lettrice assidua, le può credere, perché adesso sta leggendo questo!» «Jacopo! Il mio libro! Come hai fatto a… Non ti avevo autorizzato …» Olimpia era al colmo dell’imbarazzo, perché aveva riempito le pagine bianche del libro di note, riflessioni, commenti molto personali e ora temeva fortemente che finissero sotto gli occhi dell’autore. «Scusa! Pensavo che ti facesse piacere fartelo autografare. Un’occasione così non capita sempre, o sbaglio?» cercò di scusarsi Jacopo. «Questo è certo, ma non vorrei esibire le mie sciocchezze.» Si giustificò lei, mentre già Giulio C. sfogliava il testo. «Perché ti vergogni? Quello che hai scritto sarà senza dubbio frutto di impressioni, opinioni sincere e, quindi, molto interessanti per l’autore, ti assicuro.» La tranquillizzò, passando al tu con una naturalezza che la colpì. Patrizia si avvicinò e porse a tutti un bicchiere di retsina, cosa che servì a sciogliere la tensione di Olimpia. Dimenticato il libro, tutti si dedicarono a far sì che il vino non avesse il tempo di scaldarsi. Laura, incredibile a dirsi, non si era lasciata minimamente contagiare dal profumo resinoso e continuava imperterrita a professare la sua intolleranza all’alcool. «Grazie, ragazzi.» disse Giulio C. a voce alta, alzandosi in piedi e mostrando il bicchiere alla compagnia. «Mi fa sentire bene la vostra calorosa accoglienza e un grazie anche a chi ci ha permesso di gustare questo vino alla giusta temperatura!» finì, rivolgendosi alle tre ragazze. 276 Per Olimpia quella serata fu un miracolo che si esaudiva: troppe volte aveva immaginato di trovarsi a tu per tu con quel personaggio di cui ammirava praticamente tutto, ma anche nelle sue più rosee aspettative, l’incontro poteva avvenire ad una conferenza, in una libreria, comunque in luogo pubblico e gremito di lettori, storici, critici, gente, cioè, in grado di farla sentire inadeguata nella sua ignoranza della lingua e della letteratura greca. Invece, vai a scoprire com’è imprevedibile la vita! Ecco che, mentre è in vacanza ti ritrova di fronte a sé l’autore che le aveva saputo accendere la fantasia, la voglia di conoscere, l’amore per i classici. Stava riflettendo sull’unicità di quanto le era accaduto, persa nei suoi pensieri, considerando che per quell’incontro non vi poteva essere cornice più idonea del luogo dove si trovavano, mentre si alzava per andare a riempirsi di nuovo il bicchiere, quando, alle sue spalle, sentì la voce di Giulio C.: «Anche a te piace questo vino così particolare?!» Voltatasi con un sussulto, lo ringraziò con un sorriso, mentre lui le versava il retsina ancora bello fresco e: «Direi che di greco mi piace tutto! Le confesso, però, che purtroppo, non ho fatto il classico e, mai come da quando ho letto i suoi libri, sento la mancanza della conoscenza diretta della lingua e della cultura antica di questa terra.» Disse, mettendo a nudo i suoi più riposti rimpianti e convinzioni. «A questo si può sempre porre rimedio, volendo! Inoltre penso che, se si ama totalmente qualcosa, ci si può sentire in sintonia e coglierne tanti aspetti attraverso delle intuizioni, più efficaci della conoscenza pedante e libresca.» «Grazie, mi incoraggia e mi conforta molto. E pensare che è proprio colpa mia se non sono diventata, a suo tempo, una liceale!» gli confidò, raccontandogli il suo trascorso di studentessa e il suo rifiuto delle proposte materne. Quando avvertirono i primi brividi portati da un rinforzare della brezza notturna, cominciarono a salutarsi e le amiche tornarono un po’ troppo allegre verso casa. 277 Laura e Patrizia, vista la luce che illuminava lo sguardo di Olimpia, la sfotterono bonariamente, ma a lei non poteva importare di meno: dopo l’incontro di quella sera, avrebbe sopportato anche un collegio docenti non stop di otto ore. Si sentiva talmente euforica che non poteva certo mettersi a dormire: l’unica cosa che poteva aiutarla a rilassarsi era la lettura, ma il libro più adatto era rimasto… Dove? Si chiese Olimpia, balzando a sedere sul letto. «Dio, fa che non vada perso!» si augurò, pensandolo nelle mani di Jacopo. Anche se, alla fine, riuscì a dormire solo qualche ora, quando si svegliò al mattino, come al solito abbastanza presto, si sentiva ancora carica di energia e felicità. Uscì a godersi il fresco portato da quelle prime ore del giorno. Si assicurò l’auricolare del suo MP3 e si sdraiò, cullata dalle note delle Gymnopèdies di Satie. Niente avrebbe potuto offuscare quel momento di perfetta sintonia tra il suo umore e la tranquillità dell’ora mattutina, si compiaceva tra sé. E invece, all’improvviso, un’ombra le passò davanti agli occhi, che, anche se chiusi, la percepirono spaventandola. Balzata a sedere e sbarrati gli occhi, per poco non si scontrò con Giulio C. che, silenziosamente, le stava posando il suo libro sul tavolino accanto. «Chiedo scusa» si premurò di dirle, appena la vide così sorpresa «Non volevo spaventarti, ero passato solo per lasciarti il tuo libro e ringraziarti. Visto che non potevi certo immaginare che le avrei lette, le parole di elogio che mi hai riservato mi hanno riempito di orgoglio.» «Temevo che sarebbe andata a finire così! Giuro che a Jacopo la faccio pagare. Mi sento come se qualcuno mi avesse sorpresa a rubare!» «Mi pare tu abbia ben poca autostima. Perché tanta paura del giudizio altrui?» 278 «Direi che non ho alcun motivo per ergermi a critica letteraria. Inoltre ho forse sconfinato in considerazioni sul suo privato, che avrei potuto tenere per me, nella mia mente.» Tentò di giustificarsi. «Non hai nessuna colpa al riguardo, visto che lo stesso autore si è lasciato andare a confessioni personali e quindi passibili di commenti da parte dei lettori.» La rassicurò. Olimpia si era alzata e si era liberata dell’auricolare. Lo stava posando sul tavolino, quando lo scrittore le chiese: «Cosa ascoltavi, prima che ti venissi a interrompere?» «Satie, le Gymnopèdies. Adoro questo genere di musica.» «Anch’io adoro la musica. Soprattutto quando scrivo, mi piace spararmi a palla nelle orecchie i ritmi più adatti al genere e al momento. Per fortuna posso contare su qualche collaboratore che mi prepara sempre nuove compilation ad hoc.» Le confidò. «Non è che avrebbe tempo per un caffè?» azzardò Olimpia. «Grazie, molto volentieri, specie se quello locale» rispose, togliendosi i forti occhiali scuri e rivolgendole un sorriso aperto e solare. Ad Olimpia, comunque, non sfuggì l’occhiata di lui al magen David che le oscillava al collo. «Anche a me piace molto. È così morbido e tipico di un popolo che non fa niente in fretta, che appezza e gusta anche i piccoli piaceri quotidiani!» concordò lei, felice di condividere quella preferenza con lo scrittore. Mentre rientrava in cucina, gli chiese. «Amaro? Dolce?» «Amaro, grazie» «Benissimo, così li preparo insieme, visto che anch’io lo bevo sketos.» «Brava, risposta da manuale del turista! Si comincia dalle cose di tutti i giorni e poi si allarga la propria conoscenza della lingua alle cose astratte, ai concetti.» 279 Mentre Olimpia in cucina poneva sul fuoco il bricco con l’acqua, si augurava che le sue amiche avessero ancora una buona riserva di sonno, per permetterle di restare ancora un po’ a parlare a tu per tu con quel fantastico personaggio. Mentre sorseggiava il caffè, Olimpia prese il libro e, alla prima pagina interna, lesse tre righe dedicatele dall’autore: «La favola dimostra che torniamo sempre a quelle cose per le quali abbiamo un interesse. Esopo». Al di sopra di quelle ce n’erano altre, in caratteri greci, che erano, evidentemente, l’originale e di cui lei riuscì a riconoscere solo diversi pi greco, alfa e poco altro. «È un invito allo studio di questa lingua?», chiese sorridendo, indicando la pagina aperta. «Anche, certo.» Confermò Giulio C. Olimpia non perdeva occasione per memorizzare ogni minima espressione di quel volto che, pur segnato da qualche ruga, aveva una vivacità e un magnetismo che la adescavano visceralmente. E quando, a volte, si accorgeva che,nonostante l’apparente indifferenza, lui pareva attratto dal suo ciondolo ebraico, si sentiva come studiata e non riusciva a comprendere il significato dell’interesse di lui. Proprio mentre stavano posando le tazzine, apparvero Laura e Patrizia, che, sorprese, salutarono con entusiasmo. «Bene!» concluse Giulio C., alzandosi. «È ora di iniziare a lavorare. Buona giornata a chi invece può spassarsela!» augurò andandosene. La giornata, specie per Olimpia, non poteva certamente iniziare meglio. Per tutto il giorno cercò di mantenere in bocca il sapore di quel caffè speciale e nel ricordo le parole scambiate con Giulio C. «Che cretina!» si diceva, quando si sorprendeva a rinfrescare nella memoria e nell’emozione la sorpresa provata nel trovarsi di fronte quei capelli candidi, scompigliati appena dalla discreta brezza mattutina. «Forse pensi di essere ancora 280 una adolescente alle prese con un invincibile complesso edipico! Faresti bene a svegliarti e darti una guardata allo specchio per renderti conto che gli anni sono passati e che un incontro casuale, anche se con un mito, non vuol dire niente.» «Ma chi se ne frega!» si rispondeva, arrabbiata con la sua parte razionale che la voleva tenere legata a terra, mentre lei voleva volare. «Pensa a quando da settembre ritornerò a combattere tra i banchi e rivedrò e accarezzerò tutti i miei ricordi di questa vacanza! Ma che forza mi darà ripensare a questi giorni e con quanta foga cercherò di convincere i miei mostrini che disseppellire il passato può essere di un fascino indescrivibile!». Quella mattina, non sapeva perché, ma Giulio C. si sentiva più elettrizzato del solito: dopo il caffè si era dedicato con particolare carica anche ai lavori più di routine e, stranamente, a tratti risentiva nelle orecchie le note cullanti di Satie. Nei giorni seguenti, quasi senza accorgersene, prima di iniziare l’attività allo scavo, cercava la figura longilinea e bionda di Olimpia: se la scorgeva sola, deviava dal suo tragitto abituale e andava a scambiare qualche piacevolezza con lei, che si sentiva miracolata dalla presenza dello scrittore. Una sera Olimpia e le amiche decisero di andare a cena in paese, in una trattoria tanto tipica quanto unica: non ve n’erano altre. Sedute ad uno dei tavoli che, coperti da un rustico porticato, offrivano una vista da incanto del mare che spegneva i suoi colori all’arrivo della sera, chiesero, per cominciare, un giro di ouzo e una enorme bottiglia d’acqua. Mentre aspettavano l’aperitivo, arrivarono alcuni dei ragazzi dello scavo, con in testa al gruppo Jacopo e Giulio C. «Salve!» salutarono con entusiasmo i nuovi arrivati. «Avete già cenato?» chiese Jacopo. «Veramente, siamo appena arrivate.» Rispose subito Laura. 281 «Allora possiamo farvi compagnia e cenare insieme?» chiese Giulio C. avvicinandosi. Demetrios, con grande naturalezza, si diede da fare per aiutare il proprietario ad allungare il loro tavolo e disporre attorno le sedie occorrenti. Naturalmente, il cibo, anche se saporito e fragrante di aromi ellenici, non fu il centro dell’attenzione di nessuno: tutti gustavano ogni boccone, ma i sensi erano stimolati e soddisfatti soprattutto dalla reciproca compagnia. Erano talmente intenti a parlare e, spesso, a ridere, che nessuno fece caso al tipo strampalato che passò, d’un tratto, proprio alle loro spalle. Solo quando questi fu dietro ad Olimpia, il suo gesto e l’immediata reazione di lei gelarono l’allegria generale. Né lei, né le amiche capivano cosa diceva quello che sembrava un ubriaco e che, mentre urlava, con un gesto fulmineo, strappò dal collo di Olimpia la catenina. Istintivamente,lei si portò le mani al collo, più per cercare, inutilmente, di trattenere i due ciondoli, che per sentire quel sottile filo di sangue, che lo strappo violento aveva causato. Fu un putiferio immediato: Giulio C. e i ragazzi greci si buttarono addosso all’aggressore e lo immobilizzarono, mentre il proprietario accorreva, non solo per dar manforte, ma soprattutto per investire di calci e improperi quello che aveva interrotto una serata tanto piacevole. Se non fossero intervenute le amiche di Olimpia e le giovani archeologhe, forse, per l’energumeno si sarebbe messa molto male. Laura, intanto, mantenendosi calma, aveva cercato subito di portare aiuto ad Olimpia, cercando e trovando cotone e alcol per disinfettare l’abrasione provocata dallo strappo. Tra un calcio e uno sputo l’autore della violenza fu allontanato e inseguito per un po’ dai giovani della compagnia. 282 Il proprietario, intanto, avvicinatosi ad Olimpia, cercava di spiegarle che era mortificato per quanto era successo e le chiedeva di perdonarlo. «Ma lei non ne ha nessuna colpa!» cercava di tranquillizzarlo lei, assistita da Melina che faceva da interprete e mentre si tamponava il collo, sudando per il bruciore del disinfettante. Quando, dopo un po’, si ristabilì un clima più disteso, fu la stessa Melina che le spiegò l’accaduto. «Quello è un balordo, uno spostato, che abita dall’altra parte dell’isola. È un violento e non ha mai fatto mistero delle sue simpatie filonaziste. Quando ha visto il tuo scudo di David, non gli è parso vero di potersi sfogare su una di quelli che, secondo lui, sono i nemici da combattere.» Le raccontò la ragazza con un tono di voce da cui trasparivano il rancore e l’incomprensione per tanta stupidità e violenza. «Veramente, io non sono proprio ebrea» si sentì di dover chiarire Olimpia. «Mio padre e la sua famiglia lo sono, ma io potrei essere, tutt’al più, un’ebrea ad honorem o una simpatizzante» finì, sorridendo, mentre anche Giulio C. le si avvicinava, con in mano un bicchiere di vino. «Ho recuperato questo, ma non credo sia tutto…» le disse, tendendole anche l’altra mano, nel cui palmo le apparve la stella a sei punte. «Oh! Grazie!» lo gratificò col suo miglior sorriso. «Infatti, c’era qualcos’altro, qualcosa di speciale…che non potrò più riavere.» Finì, quasi con un sospiro. «Mi dispiace enormemente. Posso fare qualcosa?» tentò. «A meno che lei non abbia qualche potere capace di vincere la Nera Signora, temo proprio di no».rispose un po’ sibillina. «Se potessi tanto, vi avrei già fatto ricorso anche per me stesso.» Le confidò. Olimpia avrebbe volentieri continuato e approfondito l’argomento, per conoscere quali dolori lo avevano segnato, ma 283 le amiche, ancora un po’ in ansia per lei, vennero a interrompere quel magico momento di intimità che si era appena creato. «Tutto a posto?» si interessò Patrizia, circondandole le spalle con le braccia. «Ma sì, grazie!» rispose, con un leggero accento di disappunto, che, fortunatamente, l’amica non percepì. Tutti si diedero un gran daffare per ricreare l’atmosfera di allegria, tanto bruscamente interrotta e, in linea di massima, i tentativi ebbero qualche effetto. Nicos, il proprietario, accese a tutto volume uno stereo, che diffuse le note avvolgenti di un sirtaki. I giovani greci, dispostisi in cerchio, le braccia aperte, posate sulle spalle dei compagni ai loro fianchi, presero a danzare con eleganza. Olimpia era sempre stata affascinata da quel modo di ballare, che, secondo lei, era quanto di più virile si potesse immaginare nel ballo. Quel circolo di giovani in movimento le ricordava certi cortei e scene dipinte su antichi crateri e la teneva avvinta ad osservare, con gli occhi che le brillavano per l’emozione. A Giulio C. non era sfuggita la sua partecipazione alla scena e, con un gesto improvviso, la prese per mano e la trascinò fino al fianco dei ballerini, che si aprirono per accoglierli. Sentire il forte braccio di lui premere sulle sue spalle le diede un brivido e si volse a guardarlo, quasi trasognata. Anche Giulio C. non era rimasto indifferente al calore del braccio di lei che, anche se più lieve, gli trasmetteva in tutto il corpo un formicolio ipnotizzante. Il ritmo crescente e incalzante della danza la ubriacò e, quando la musica cessò, faticò alquanto a rendersi conto di dove si trovava e con chi era. Quando si salutarono, venne spontaneo a tutti abbracciarsi con calore. 284 Tornando verso casa, le tre amiche erano talmente cariche di sensazioni, anche contrastanti, che non riuscivano a smettere di raccontarsele e confidarsi reciprocamente. Riuscire ad abbandonarsi al sonno fu impresa titanica per Olimpia, che restò ore a girarsi nel letto facendo scorrere, come una pellicola, le scene più emozionanti di quella serata. Quando la luce rosata dell’aurora filtrò dalla finestra della sua stanza, decise che era inutile restare ancora: aveva bisogno di uscire, di correre, di nuotare. Non aveva mai pensato di fare un bagno in quelle ore ancora così fresche, ma questa era la mattina giusta per provare. Con un pizzico di timore, avanzò lentamente nell’acqua turchese e, con un grido liberatorio, si abbandonò al liquido abbraccio. Nuotò a lungo, finché non avvertì un urgente desiderio di calorie: si accorse di avere una fame da fachiro e si avvicinò alla riva. Giunta nella sua postazione preferita, dove aveva lasciato il telo di spugna, sul quale Kalos si era prontamente acciambellato, si diede a frizionarsi con vigore i capelli, tenendo la testa rovesciata e gli occhi chiusi. Quando li riaprì, si accorse della presenza di Giulio C., che la stava osservando, forse già da un po’, anche se da una certa distanza. Quando vide la sua mano agitarsi in un saluto, lo ricambiò, accennando ad un invito a raggiungerla. «Buongiorno! Dormito bene?» le chiese. «Forse sì, ma non molto, comunque. Credo di non essermi mai alzata così presto in vita mia!» «Com’è il mare a quest’ora?» le domandò. «Una sferzata di energia e direi il massimo per iniziare una giornata» dichiarò, continuando a massaggiarsi i capelli. «Anch’io non ho dormito molto: mi succede, come a tutti, credo, quando sono troppo carico di sensazioni speciali e di curiosità insoddisfatte.» 285 «Curiosità… sul lavoro?» indagò Olimpia con circospezione. «No, no» smentì lui, prontamente. «Per tutto quello che è successo ieri sera.» «Vorrebbe saperne di più sul tizio dell’irruzione?», gli chiese, gli occhi negli occhi. «Veramente, mi piacerebbe sapere qualcosa di più su di te.» Rispose, sostenendo il suo sguardo. «Oh! Ma di me non c’è poi molto da sapere. Non ho niente di speciale, mi creda!» «Ti va di parlare di quello che hai perso e che, da quanto hai lasciato intendere, doveva essere unico?» le chiese con un tono fatto di gentile preghiera. Mentre si sedevano, in quell’angolo del cortile appena sfiorato da un sole ancora tiepido, Olimpia si trovò a raccontare, forse per la prima volta, la sua vicenda. E Lorenzo rivisse nel ricordo, nel racconto di quella favola tragica che era stata il loro incontro, la loro storia, la cui memoria da tempo si era assestata in lei con una tenerezza appagante. Anche il rimpianto, ormai, aveva trasmigrato in un rassegnato tepore, che ovattava ogni emozione, ogni sentimento appartenenti a quegli anni. Mentre lei raccontava, Giulio C. non smetteva di osservarla e i suoi occhi, morbidi e dolci nella loro vivacità, seguivano i vari momenti con crescente simpatia e partecipazione. «Sono eventi che fanno crescere in fretta e costruiscono un carattere forte, senza dubbio. È un prezzo alto da pagare per aver goduto dell’incontro con qualcuno di speciale.» La confortò. Olimpia, dopo il lungo racconto, si sentiva come svuotata e nel contempo serena, libera, come una nave che ha tolto gli ormeggi dal porto. Per questo lo apostrofò d’un tratto: «Cosa ne direbbe se ora le offrissi una colazione tonificante? Io mi sento svenire dalla 286 fame!» gli confidò, mentre si alzava e si dirigeva verso la cucina. «Penso di non essere mai stato più d’accordo con nessuna proposta!» accettò con entusiasmo. Mentre si avviava a preparare caffè e qualche cosa di dolce, Laura e Patrizia si materializzarono e, con il loro allegro saluto la fecero quasi sobbalzare. Visto dalla finestra l’ospite che attendeva la colazione promessa, si affaccendarono a portare fuori tutto l’occorrente. Mentre gustavano con tutti i sensi il caffè, Giulio C. notò il giornale dimenticato da giorni su una sedia. Era l’unico che Olimpia aveva trovato, due giorni dopo la gara di F1 di Silverstone. Alzatosi, lo prese e vi diede una rapida scorsa. «Un po’ inusuale trovare un giornale sportivo in una casa di ragazze sole!» commentò guardandole. «Se, però, una è una ferrarista assatanata, non è poi così strano» fu la pronta risposta di Laura, che scambiò un’occhiata eloquente con Olimpia. «Sarai felice anche tu di come si è messo il mondiale, allora?» le chiese «No, guardi, la malata è Olimpia!» lo informò prontamente Patrizia. «Ah! Bene! Hai visto il Gran Premio?» domandò, finendo di sorseggiare il caffè. «Sì, ma purtroppo, non abbiamo la parabola e mi sono dovuta accontentare della telecronaca in greco. Che sia stato un trionfo rosso, non ho fatto fatica a capirlo, ma mi sono persa molto dell’atmosfera e i commenti dei nostri cronisti!». «Se volete, per la prossima corsa, il 25, ad Hockenheim, potete venire al nostro albergo. Non sarà l’Hilton, ma la parabola ce l’ha!» le invitò alzandosi. 287 «Guardi che lo considero un impegno!» si entusiasmò Olimpia «Non lo dimentico di certo». «Farai bene!» concordò. «Potremo approfittarne per una bicchierata generale, soprattutto se…» «Zitto!!! Non si dice niente, prima!» lo redarguì con forza, legata com’era a pratiche scaramantiche. Nei giorni che seguirono, Giulio C. dovette assentarsi per andare ad Atene, per motivi di lavoro. L’università lo aveva contattato per averlo come visiting professor e voleva rendersi conto di persona di com’era l’ambiente. Quando tornò, tre giorni dopo, si presentò a casa delle ragazze, sperando di trovare Olimpia, sola come al solito, nelle prime ore del mattino. Fu sorpreso, invece, nel trovare vuota la sua sdraio e nessun segno di una assenza momentanea, anzi, ad esame più attento, notò le finestre chiuse, il silenzio totale. Solo Kalos si aggirava un po’ spaesato, prima di decidere di accoccolarsi sullo zerbino, non senza aver espresso il suo disappunto con una serie di miagolii. Non potevano essere partite per restare via a lungo, rifletté, visto che avevano lasciato la biancheria stesa al sole. Piuttosto deluso e, soprattutto, sorpreso per l’effetto che quel mancato incontro faceva su di lui, se ne andò al cantiere. Nel corso della giornata, si sorprendeva spesso ad alzare il capo e guardare in direzione della casa in cui nulla cambiava. Fortunatamente, nel pomeriggio, il ritrovamento di una pregevolissima statua intatta, raffigurante un atleta incoronato per una vittoria, lo assorbì tanto che solo poco prima di chiudere rivolse ancora uno sguardo alla ricerca di un segno di vita. Fu allora che si accorse che la casa era di nuovo aperta. Felice, si avviò per salutare le tre amiche e, proprio mentre stava per decidere se annunciarsi suonando il campanello o chiamare a viva voce, Olimpia si affacciò ad una finestra. «Buonasera! Ciao! Bentornate!» l’apostrofò vivacemente. 288 «Grazie! Abbiamo fatto un giretto qua intorno con una barchetta di un pescatore! Si figuri se Patrizia si lasciava scappare l’occasione di una full immersion nel mare e nel sole. Comunque, è sempre affascinante vedere la costa dal mare. Tutto bene?» gli chiese poi. «Non la abbiamo vista per qualche giorno! Pensavamo ci fosse qualche problema!» si giustificò, usando un plurale che sentiva esclusivamente ipocrita. Giulio C. spiegò volentieri la sua assenza e, appena Olimpia sentì “Atene”, si illuminò di entusiasmo. «La prossima settimana vorremmo farci un salto. Sarebbe assurdo essere così vicine, anche se disagiate come mezzi di comunicazione, e non avere visto neppure il Partenone!» «Vorrei ben vedere che ve ne andaste dall’isola senza essere passate dalla capitale!» approvò lui. «Intanto, ho pensato di rimediare, almeno in parte, al danno che hai subito.» Le disse, tendendole un sacchettino di stoffa blu. Olimpia, sorpresa, con le mani incerte, armeggiava per estrarre un contenuto, che intuiva leggero e morbido. Sciolto il fiocchetto che lo legava, lo vuotò e si trovò sul palmo della mano una lucente catenina d’argento. «No! Grazie, ma non doveva! Sembra quasi che si sia sentito in colpa per quanto accaduto e non è proprio il caso! Mi dispiace molto che abbia…» non sapeva come terminare per sottolineare la sua meraviglia e ringraziarlo di un pensiero tanto gentile. «Nessun problema!» la tranquillizzò lui. «Atene è piena di negozietti di argenterie locali e, quando l’ho vista in una vetrina, non ho potuto non prenderla!» Intanto anche altri ragazzi si unirono in un saluto e qualcuno lanciò l’idea di cenare insieme. Nicos, felice di rivederli dopo lo spiacevole incidente, li accolse con la sua espansività. Mentre aspettavano la grigliata di pesce, il cellulare di Giulio C. si fece sentire. «Scusate!» rispose alla chiamata, alzandosi dalla tavola. 289 Allontanatosi di quel tanto che bastava per non essere distratto dalle allegre voci dei giovani, già sollecitati dal vino migliore di Nicos, tornò poco dopo. «Tutto ok, prof?» si informò Jacopo. «Sì, sì!» confermò, sorridendo mentre riprendeva il suo posto di fronte ad Olimpia. «La prossima settimana dovrò fare un salto ad Atene.» piccola pausa di riflessione e poi: «Allora, si va insieme?» chiese lasciando vagare lo sguardo dall’una all’altra delle tre amiche. «Sarebbe una favola: concludere la nostra vacanza con la visita ad Atene in tanta compagnia…» si entusiasmò subito Olimpia, cercando negli occhi delle altre la sua stessa emozione. Ovviamente, la domenica pomeriggio, seguita da Laura, si presentò all’albergo in paese, con l’adrenalina che aveva sostituito tutto il sangue nelle vene, sia per l’attesa del Gran Premio che per la prospettiva di seguire la corsa condividendone i brividi con qualcuno in grado di capirla. Il nuovo trionfo di Schumacher diede la stura a balli e inni esultanti: ormai il Mondiale era tutto Ferrari. Quando tre giorni dopo le amiche chiusero la casa in quell’ora ancora incerta del primo mattino, Olimpia si sentiva elettrizzata come quando partiva in gita scolastica con la sua classe. Giulio C. aveva programmato i suoi impegni in modo da tenersi libero per il pomeriggio e poter fare da guida alle tre ragazze, che la mattina si dedicarono a passeggiare per le strade attorno all’Acropoli. Olimpia non si stancava di tenere gli occhi fissi sul Partenone, quella meraviglia bianca che torreggiava nella sua aristocratica bellezza. Il tempio più famoso di tutta la Grecia aveva perso nei millenni le tinte forti di cui i pittori contemporanei di Pericle lo avevano rivestito, ma anche così, rifletteva Olimpia, era ugualmente affascinante, anzi, quasi di più. 290 Nelle ore ancora molto calde del pomeriggio, l’allegra, piccola schiera salì la rampa dei Propilei. Giulio C. non si stancava di animare quel luogo, così ricco di storia e di arte, con nozioni, aneddoti e curiosità che tenevano le ragazze avvinte. Mentre si dirigevano in taxi all’albergo, che lui aveva prenotato, Giulio C. chiese: «Credo che non abbiate mai visto spettacolo più bello e completo del tramonto a Capo Sounion. Vi va di fare questa esperienza? Vedrete un indimenticabile connubio tra arte e paesaggio!» «Ma certo!» «Senz’altro!» «Grazie, assolutamente sì!» concordarono, quasi ad una voce. Arrivate alla reception, Laura ebbe un sussulto, quando vide avvicinarsi un ragazzo alto e dall’andatura dinoccolata. «No! Non è possibile! Franz! Sei proprio tu?!» Era proprio lui, un tedesco di Monaco che aveva conosciuto in giro per il mondo, non ricordava più dove, ma invece non poteva dimenticare la sua simpatia e le serate di confidenze reciproche, davanti a bicchieri di chinotto, che lui, forte bevitore di birra, guardava con aria tra lo schifato e il compassionevole. «Laura!» esclamò, tendendole le braccia, che lei strinse con affetto. «Wie geht’s dir?» Da lì in poi si lanciarono in un fitto scambio di domande e risposte, inframmezzate da sorrisi e aperte risate, finché Laura fece cenno alle amiche e Giulio C. che si erano fermati a distanza di sicurezza. Fece le doverose presentazioni, scoprendo che anche l’amico conosceva, di fama, lo scrittore e archeologo veneziano. Mentre stavano per salutarsi prima di salire in camera, Franz richiamò Laura e le chiese qualcosa cui lei rispose scuotendo il capo e accennando alle amiche poco più in là. 291 «Qualcosa che non va?» si informò Patrizia. «No, no. Solo Franz mi chiedeva se volevo andare con il suo gruppo ad ascoltare un concerto di un gruppo rock, gli Iron Maiden, che sa essere sempre stato una mia passione» «E qual è il problema?» intervenne Giulio C. «Che non mi pare molto corretto andarmene per i fatti miei e lasciarvi soli!» «Credo si possa sicuramente risolvere l’impasse.» Suggerì lui «Vediamo innanzitutto cosa vorresti fare tu e…» «Il fatto è che sono molto titubante, perché vorrei poter essere in entrambi i posti» confessò. Saputo che il concerto sarebbe iniziato alle 10, ogni incertezza scomparve, perché il sole a quell’ora se ne sarebbe certo già sparito oltre l’orizzonte e Laura avrebbe potuto correre a frastornarsi e trapanarsi i timpani con i decibel della sua musica preferita. Dopo una rapida rinfrescata, si ritrovarono nella hall e si sistemarono in alcuni taxi, che partirono sparati nel traffico di Atene. Le poche decine di chilometri furono riempite da piacevoli chiacchiere e confessioni di reciproci ricordi. Giulio C., anche se non ve n’era bisogno, aveva cercato di solleticare la loro curiosità, creando un’aspettativa assolutamente da record. Nonostante ciò, quando le ragazze si trovarono a salire verso le colonne e i pilastri della cella del tempio di Poseidone, ogni commento fu inadeguato ad esprimere le loro emozioni. Il fluire di numerose colonne di turisti era la riprova del potere evocativo del luogo in quel particolare momento della giornata. Olimpia si era fermata, un po’ più indietro degli altri, per immaginare di essere sola a lasciarsi inondare, come quei resti di antichi edifici, dalla luce calda e preziosa di un sole che era come non lo aveva mai visto. 292 Immersa in quello spettacolo, non si era accorta di essere rimasta separata dal resto del gruppo, finché non si sentì chiamare. «Eccoti finalmente!» l’apostrofò Laura, seguita dagli altri. «Che ne dici se ora noi torniamo e ce ne andiamo al concerto?» chiese, già prevedendo la risposta positiva di Olimpia. «Penso che sia ora e che dovrete anche correre un po’!» rispose infatti, sperando che non si notasse la sua premura di rimanere ancora un po’ in silenzio per conto suo. «A qualcuno dispiace se anch’io mi unisco al gruppo dei rockettari?» intervenne Patrizia. «Io il mare preferisco vederlo più da vicino, tutto sommato, anche se questo panorama non andava assolutamente perso, devo ammetterlo!» «Non vi preoccupate» assicurò Giulio C. «Saprò fare io buona guardia alla vostra amica. Ci rivediamo in albergo. Buon divertimento!» Quando Olimpia vide il gruppo vociante che si buttava a correre in discesa alla ricerca delle macchine, non realizzò subito che era rimasta sola con Giulio C. al suo fianco, gli occhi vaganti dalle colonne rosate, al sole, che ormai si stava spegnendo in un mare di fuoco. Molti altri turisti stavano tornando e loro due, invece, si muovevano contro corrente. «È ovvio che Tucidide abbia scritto “Amiamo il bello, ma con compostezza”!» riconobbe Olimpia. «Come poteva essere altrimenti, se, fin dalla nascita, un greco aveva davanti dagli occhi spettacoli come questo! Per questo popolo fortunato il bello era una abitudine quotidiana!» «Infatti» confermò Giulio C. «Si può dire che il Bello, come canone estetico l’abbiano inventato loro!» Olimpia si lasciava avvolgere da quell’atmosfera, ormai quasi spenta, ma che continuava ad emanare profumi, essenze penetranti e afrodisiache. 293 Quando sentì la mano di lui posarsi suoi fianchi, ebbe un fremito e, voltatasi, trovò il viso di lui così vicino al suo da distinguere anche le pagliuzze dorate nei suoi occhi. Le sue labbra, che a lei ricordavano quelle, così marcate e virili, dei bronzi di Riace, si stavano schiudendo alla ricerca delle sue. Fu un attimo e lei si scostò, combattuta tra un desiderio struggente di abbandonarsi e un rigurgito di razionalità che la allontanava. Giulio C. la trattenne. «No, la prego, per favore. Non lo faccia!» lo pregò quasi in un sussurro. «Non lo desideri forse anche tu?» le mormorò. «Non saprei dire quanto e da quanto tempo!» confessò, chinando il capo, per sfuggire a quegli occhi che la indagavano. «Allora, perché no?» insistette lui. «Perché…» esitò «perché è tutto troppo perfetto e quasi ovvio. La vacanza può fare di questi scherzi: tutto sembra naturale, ma poi…» «Se è per questo, ti ricordo che io non sono in vacanza per niente!» ribatté, avvicinando di nuovo il viso. «Dimentica forse che c’è qualcosa, o meglio, qualcuno, che ce lo impedisce?» volle ricordargli. «Non capisco. Scusa, pensavo tu fossi libera…» «Infatti!» confermò lei, mentre la sua incertezza si faceva sempre più vacillante. «Non dicevo per me… Se non sbaglio, proprio il libro “Nella terra degli Dei” portava una dedica molto eloquente!» rispose, ricordando quante volte aveva tentato di immaginare come poteva essere la donna che aveva avuto il privilegio di condividere vita e opera con lui. «Ah! Per quello dicevi?» rispose lui, con un evidente senso di sollievo, che trasparve dal intensità lieto della voce. «Guarda la data, allora! Negli anni le cose possono cambiare e tanto!» Le prese le mani e la guidò verso una panchina che pareva attendere proprio loro. Mentre ormai il buio diventava il nuovo interprete su quel palcoscenico che li circondava, Giulio C., 294 finalmente con estrema naturalezza, raccontò la sua storia con Charlotte, accorgendosi di sentirsi ormai lontano e quasi estraneo ai momenti che rievocava. Quando descrisse le cause che avevano annullato il suo rapporto con la moglie e come in lei si fosse riaccesa prepotentemente un’appartenenza etnica assolutamente esclusiva e intollerante, Olimpia non poté non mormorare: «Ecco perché forse, allora lei…» «Sì? Cosa?» la interrogò. «Non mi spiegavo il perché del suo interesse per questo!» gli rispose mostrando il pendente del magen David. «Già, temevo un altro baluardo insormontabile!» «Non è stato certo un bel momento, ma, come vedi, e come anche tu hai imparato, la vita è anche altro e oltre.» Concluse. «Penso che, come dice lei..» stava per confermare Olimpia. «E adesso se non impari a darmi del tu e non mi baci fino ad Atene, giuro a Poseidone che ti lascio qui da sola !» Qualche minuto più tardi, la panchina era vuota e solo uno spicchio di luna dialogava con il mare. 295 FUTURO OLIMPIA E GIULIO C. ? 296 Sommario INTRODUZIONE.......................................................................5 GIULIO CLAUDIO TRAPASSATO REMOTO...........................................................10 OLIMPIA TRAPASSATO REMOTO...........................................................14 GIULIO CLAUDIO PASSATO REMOTO...............................................................20 OLIMPIA PASSATO REMOTO.............................................................113 GIULIO C. PASSATO PROSSIMO...........................................................189 OLIMPIA PASSATO PROSSIMO...........................................................241 OLIMPIA PRESENTE........................................................................267 OLIMPIA E GIULIO C. PRESENTE........................................................................275 FUTURO OLIMPIA E GIULIO C...........................................................296 © Copyright 2009 Anna Maria Cavalieri Responsabile della pubblicazione Anna Maria Cavalieri Libro pubblicato a spese dell’autore Stampato in Italia presso Cromografica Roma S.r.l., Roma, per Gruppo Editoriale L’Espresso S.p.A. L’autore è un utente del sito