3. ARTICOLI 3.1. 3.1.1. SULLE PRODUZIONI ROMANE CONCHITA 1 derensis, “Conchita” di R. Zandonai al Costanzi, «Musica» VI/12, 24.3.1912 - p. 1, col. 4 / p. 2, col. 1 Nel malinconico e piovoso pomeriggio di venerdì un gran numero d’invitati, e tra questi tutti i rappresentanti della stampa, tutti i verbosi sfaccendati dei corridoi, cento maestri, operisti in erba, falliti, si raccoglieva nella sala del Costanzi oscura, e perciò più sacra ai misteri dell’arte, per assistere alla prova generale dell’opera di Zandonai. Conchita era attesa con insolito interesse, perché sulla giovine energia di Zandonai, oggi, più che su qualunque altra si appuntano le speranze dell’Italia musicale. E giustamente. Nessuno dei tanti tentativi, dibattentisi tra l’esotismo e lo strano, tra l’esuberante e lo stitico, tra l’imitazione pedissequa e il ladroneggio sfacciato, par giunto così vicino all’affermazione quanto quello compiuto dallo Zandonai col Grillo del focolare nel 1908 a Torino e con Conchita l’anno scorso al Dal Verme di Milano. Con l’una e con l’altra opera ha mostrato di possedere due qualità che invano si desiderano in altri operisti e sinfonisti: padronanza completa di tutti i mezzi tecnici onde esprimere ogni stato d’animo o d’ambiente; volere preciso a sciogliersi da ogni laccio della tradizione o della moda a fine di conquistare una spiccata personalità. Queste due qualità costituiscono il miglior elogio che noi possiamo indirizzare a Zandonai, oggi che a Roma egli per la prima volta ha chiesto il giudizio. Non sappiamo se di dolce o di amaro avrà sapore l’acqua battesimale della critica e del pubblico romano; noi scriviamo poche doverose parole dopo la prova generale cioè dopo una prova che non ammette espressione di pensiero. Tuttavia, poiché quando questo numero di Musica correrà l’Italia la prima rappresentazione è avvenuta, non è indiscreto sintetizzare qualche impressione sul valore e sulla vitalità di Conchita. A Zandonai si farà subito e da tutti l’aspro rimprovero d’aver sciupato tesori di materia d’arte e di anima per un argomento arido, impreciso, ambiguo sia per l’elemento locale che psicologico. La figura di Conchita, bizzarra quant’altra mai, inspiegabile, non sempre simpatica, di rado commotrice, si agita come distaccata dallo sfondo, che pure è sempre vivido e colorito. L’ambiente è stato descritto dallo Zandonai con finezza e originalità, sì da non rievocare mai l’ombra di Bizet. Nella Carmen c’è la Spagna diremo superficiale, in Conchita c’è la Spagna intima, penetrata e disvelata. La trama orchestrale del primo atto, l’intermezzo nella strada (a sipario calato che sarà molto discusso), le danze del secondo atto, l’andante calmo del terzo, il preludio del quarto sono pagine genialissime pervase da un profondo folklorismo; pagine ammirate per la novità delle idee e per la strumentazione elaborata. L’azione, che si riduce a duetti tra Conchita e Mateo, a posizioni ripetute, offre all’autore spunti lirici e drammatici di alto valore musicale, ma non pare destinata a soggiogare l’animo della massa, a imprimersi e commuovere, a percorrere lo spazio e il tempo. Vorremmo errare in questo apprezzamento e saremmo lieti di rettificarlo subito: allo Zandonai è riservato il grande, l’assoluto trionfo, e se non gli proviene da Conchita e da 3.1.1/1 Roma gli auguriamo gli venga da Melenis, la sua terza opera, già compiuta, di soggetto romano. 2 r[affaello] d[e] r[ensis], “Conchita” al Costanzi, «Musica» VI/13, 31.3.1912 - p. 3, col. 1 La nuova opera di Riccardo Zandonai ebbe il meritato onore di un eletto e numeroso pubblico, che l’ascoltò con viva attenzione, che ammirò l’arte sapiente del maestro, applaudì ed evocò l’autore, formulò infine il convinto augurio che da Zandonai può provenire il capolavoro. E giustamente, perché Conchita, sotto l’aspetto puramente musicale s’avvicina di molto al capolavoro non solo per la dipintura dell’ambiente e per la struttura dei quadri, ma per il sentimento ancora e lo slancio lirico e drammatico, che agitano le figure di questa opera. Opera scenicamente e psicologicamente mancata, ma rivelatrice d’una tempra superiore di operista da cui l’Italia molto può attendersi. Nulla abbiamo da aggiungere al nostro giudizio sintetico espresso all’indomani della prova generale di Conchita, tranne che non volessimo esemplificare, dettagliare, analizzare: fatica assai ingrata ad una settimana di distanza. È nostro dovere però riferire ai lettori la cronaca dell’esecuzione. L’orchestra, sotto la direzione perspicace e calorosa di Edoardo Vitale, che ha interpretata l’opera oltre che con coscienza di artista con affetto di fraternità, ha ritratto fedelmente la trama sinfonica e lirica, che arricchisce la partitura di Conchita. I due protagonisti, la Cervi-Caroli e il tenore Taccani, nelle loro parti non lievi né brevi, hanno messo tutta la loro volontà canora e scenica; ma non sappiamo quanto ci siano riusciti. Buona madre la Marek [sic] e bene il coro. Un elogio a Carlo Clausetti, primo regisseur d’Italia, primo per diritto di precedenza e per... qualità. 3 Nicola D’Atri, “Conchita” di R. Zandonai al Teatro Costanzi, «Il Giornale d’Italia», 25.3.1912 - p. 3, col. 1-2 Conchita o Zandonai? Questo è il problema: problema per la cronaca, problema per la critica. Risolverlo non sarà dovere dei posteri, è bega nostra dell’ora che passa: echeggiano suoni e commenti inspirati da un’altra sigaraia di Siviglia, più provocante e corrotta ma assai meno fatale di Carmen. In altri termini, e per la cronaca: vi fu iersera un successo per l’opera e per l’autore? Per Conchita, come libretto e come insieme di spettacolo con musica, si direbbe quasi che no, dato il riserbo del pubblico che, però, attentissimo non perdette un particolare delle scene che più offendevano la buona morale: pubblico di prima sera, naturalmente sostenuto, folto in platea e nei palchi, quindi inguantato, ma assai scarso in anfiteatro e nelle gallerie, quindi assenza di quella massa umana che cede sinceramente alle prime impressioni, buone o cattive. Successo per l’autore? Bisogna affermare risolutamente di sì. E non tanto per gli applausi, che coronarono la fine di ogni atto, applausi che raddoppiavano quando egli, chiamato, era spinto dagli artisti alla ribalta, quanto per il miracoloso salvataggio che la sua musica (non certo l’autorità del nome suo, che giungeva nuovo o quasi) andò compiendo di una serie di scene o dell’insieme del soggetto: soggetto o scene contro le quali il pubblico sarebbe insorto. La musica, una musica di cui sentiva la vitalità e il potere senza intenderne ancora né 3.1.1/2 spiegarsene il fascino, disarmava quel pubblico rendendolo innocuo e benevolo e creandogli l’obbligo morale di applaudire. Questo per la cronaca. Per la critica – parola grossa ma cosa semplice, se si parla alla buona – il problema, secondo noi, si risolve anche in osservazioni di fatto, ma, beninteso, lasciando ora da banda gli umori del pubblico di iersera o di quello di domani, e mettendoci in faccia all’opera d’arte per osservarla dopo le impressioni provate. Poiché il punto di partenza di ogni giudizio, la base spirituale della critica è l’impressione individuale: chi mai prova o sente, o chi abbandona sé stesso per ragionar solo coi criteri generali riconosciuti da tutti, costui “criticherà” sempre l’opera d’arte ma non comprenderà mai l’artista. Ora, coi criteri generali noi possiamo ridurre al nulla, in Conchita, l’opera d’arte: e ci apporremo perfettamente al vero. È Conchita, come oggetto musicato, un lavoro che abbia contenuto artistico organico e vitale? E le sue forme sceniche e quelle musicali rispondono all’ideazione originaria e originale di La femme et le Pantin, il notissimo romanzo di Pierre Louys? È facile rispondere che no. La figura di Conchita fu vista dal romanziere nella continuità delle sue azioni in cui si svolgeva logicamente il processo psicologico della sua anima perversa esaminata, analizzata dallo scrittore nelle fasi successive: tutta l’irregolarità del suo essere strano e bizzarro, del suo essere enigmatico di donna, si delinea nel romanzo come tale: il suo carattere quindi si determina al nostro intendimento e persuade. La figura di Mateo, l’amante e la vittima di Conchita, s’individua anch’essa, traverso le vicende successive, nelle sue linee, logica, chiara e persuasiva. I due esseri, sien pure immaginari o inverosimili, diventano realtà artistiche al nostro spirito. Ma tradotta in quadri scenici, la visione affatto analitica del romanziere è purtroppo caduta nel falso o nel luogo comune. Colpa di un librettista inabile? Oppure necessità fatale di ogni visione artistica che venga tradotta, trasportata dal suo campo originale in un altro? Sia comunque, le figure di Conchita e di Mateo, nel libretto e nell’opera, private per così dire di linee e tratti determinanti, presentate in alcuni e non in tutti i mutamenti della loro esistenza psicologica, diventano o assurde o inesplicabili. In fatto diventano troppo comuni: l’una ci compare come una qualunque amante peggio che dispettosa, benché vestita alla spagnuola, l’altro un pover’uomo esasperato che finisce col picchiar la sua bella, la quale, alla fine, gli si abbandona. Destituite di carattere le figure dei protagonisti, che possono essere bensì tipi del mondo reale ma non sono affatto delle realtà artistiche individuate, esse non vivono nel nostro spirito né possono infondere vitalità all’opera d’arte che su di esse s’impernia. Non solo, ma tutto il contenuto passionale del libretto perde d’intensità e si svolge in situazioni che non hanno nulla di poeticamente singolare per inspirare un musicista, il quale perciò non riceverà impulso sufficiente a una creazione caratteristica nel campo sentimentale. Creerà musica per sé stessa, bella sentita ed appropriata a una Conchita e ad un Mateo, che non sono però veramente né Conchita né Mateo. *** Ciò detto, ogni altra osservazione è superflua per dimostrare che Conchita manca, a causa del libretto, dell’elemento più essenziale per essere un’opera d’arte vitale nell’interezza del suo organismo. Gli stessi difetti, e più gravi, viziano peraltro la più parte dei melodrammi, italiani in ispecie, pochissimi dei quali resistono al giudizio critico, anche se resistono lungamente alla scena per requisiti di teatralità che, a dire il vero, non mancano nemmeno ad alcuni quadri della Conchita. Ma quest’opera s’impone, nonostante tutto, per sensazioni d’arte vere [e] profonde, che in noi sono rimaste impresse. Gli è che il musicista fuor del libretto, fuor di “Conchita” e di “Mateo” ma intorno ad essi, ha intuito un suo fantasma d’arte; ha visto i quadri più che le persone che vi agivano così debolmente: e intorno a queste ha creato un fondo, ha creato tutto un ambiente di vita. No, non è il vieto colore locale, non è la consueta musica descrittiva 3.1.1/3 composta per sapienza tecnica o senso coloristico, no: è un’anima artistica che tra la fiacca e incerta passionalità dei personaggi sente nell’atmosfera del dramma, nelle luci e nei colori di Spagna, nei ritmi della seguidilla, della jota, della malagueña, nelle cantilene che riempiono di echi suggestivi i solitari meriggi o le notti lunari popolate di amori, sente crescere in sé un’onda di poesia, che è il suo proprio lirismo. E canta questa giovane anima di musicista com’ella sa cantare e tessere suoni e carole in quell’ambiente di cui inconsciamente s’immedesima, mentre ella crede o s’illude di sentire il dramma e di esprimere l’amore così indistinto di Conchita o di Mateo. Canta e sinfonizza quei ritmi, quelle nenie, quegli echi, inconsapevolmente “lirizzando” sé stessa fra quelle indefinibili suggestioni, che a noi pure trasmette, inavvertitamente. Così iersera, con un suo linguaggio che noi non sapemmo ad altro rassomigliare, che molti non seppero intendere pure ascoltandolo, ci parlava il musicista della Conchita, Riccardo Zandonai, musicista già per ogni verso sapiente benché anima appena ventottenne, e forte, nuovo, originale temperamento di artista, sorto forse a fecondare la musica italiana. Giunge a noi qui come uno sconosciuto o quasi, e sarà – chi lo sarà ancora – misconosciuto. Ma a noi basta questa inconsistente opera d’arte che si chiama Conchita per rivelarcelo artista superiore e operista di sicuro avvenire, e nulla al mondo, nemmeno il pericolo d’ingannarci, ci trattiene dal proclamarlo. Quindi è che se l’opera musicale nella successione delle sue pagine accerta al giudizio di tutti la forza del musicista e la potenza incontestabile del sinfonista che maneggia l’orchestra a suo piacere con varietà di forme e con sicurezza di effetti, essa, a noi che l’ascoltammo senza preconcetti e profondamente, dice subito qualcosa che altri udrà più tardi. Troppo è breve lo spazio di questo scritto per dimostrare a chi parlasse di difetto d’inspirazione, di melodia, di canto, di sentimento, che queste son parole che furono avventate anche contro i più grandi musicisti, appena rivelavano la loro particolare natura, per negar loro la genialità. Ma è abbastanza lo spazio per raccomandare a chi ha una certa fede in noi di riascoltare la musica di Riccardo Zandonai per sentirne la poesia nell’originalità della forma. *** In un’osservazione d’insieme, ciò che alla prima colpisce udendo la musica di Conchita è la ricchezza della strumentazione e la varietà, il brio dei ritmi; poi si notano i colori armonici che si alternano con gusto moderno, ultra-moderno talvolta, ma temperato e fuso col gusto, col senso dell’armonia classica: i disegni ritmici poi s’intrecciano con figure armoniche, si concatenano in forme che danno esistenza a veri quadri musicali nel cui mezzo si svolgono episodi melodici squisitissimi: così fiorisce intorno alla parola sul palcoscenico o intorno al canto di uno strumento in orchestra la melodia fresca, leggera, sospirosa, in mezzo alla fervida vita del ritmo. E tutto si intona al colore del quadro generale, inseguendo vivamente il senso della parola cantata, dipingendo l’episodio, incalzando l’azione: e la parola domina di continuo sulla sonorità dell’orchestra. Così l’opera s’apre col quadro della Fabrica di Siviglia: quadro ritmico, per così dire, che è tutto uno scherzo istrumentale di carattere spagnuolo, e in cui fra gli altri episodi si svolge il racconto di Conchita, racconto di un verismo musicale meraviglioso. Segue l’Intermezzo nella Strada, in istile sinfonico, in cui si ripresenta il ritmo della seguidilla e poi nel secondo atto la vivace scena del baile è tutto un magnifico affresco corale e strumentale, in cui l’operista dimostra la franchezza della sua mano e l’artista la potenzialità della concezione: la scena d’amore che chiude l’atto offre un breve quadro strumentale, in cui la melodia più dolce e sottile trova fascini nuovi nella veste armonica e strumentale. Tutto il terzo atto è una visione pittorica d’ambiente che si esplica in suoni: il preludio descrive la notte andalusa: sovra una cantilena che arriva di lontano poi sbocciano con frasi di voluttà amori misteriosi: e in questo suggestivo ambiente il musicista, con una vis drammatica forte ma contenuta in linee sobrie, imposta la scena del cancello. E nel brano 3.1.1/4 sinfonico che precede l’ultimo atto egli poi, animato da un soffio lirico squisitissimo, leva una melodia deliziosa, la melodia sua propria, discreta e gentile, così come gli vien dettata dal sentimento del quadro. Traverso questi brani sinfonici o misti di voci, traverso le scene cantabili, ricompare sempre con suggestivi richiami l’ambiente, il colore, la visione della terra spagnuola: l’unica, la vera, la profonda visione artistica, a nessun’altra somigliante e perciò caratteristica, che sia in Conchita. Un tale elemento estetico dell’opera individua l’artista, che a noi perciò si presenta capace di fantasmi suoi propri, se ha saputo averne uno speciale al soggetto musicato: e se ha saputo realizzarlo non di maniera o con la virtù della tecnica, ma con la suggestione del suo sentimento. E qui sta il sentimento, l’inspirazione, assai più che nel far cantare la voce o i violini all’unisono con larga enfasi trascinante, conforme all’abito... sentimentale che il pubblico si è andato formando in questi ultimi anni in cui operò coi retaggi ponchielliani la cosiddetta “giovane scuola”, spesso ormai senilizzante. Il grande operista italiano dell’avvenire sarà anche sinfonista, o non sarà. Riccardo Zandonai, un italiano irredento del Trentino, redime intanto l’opera nostra dalla sviolinata, che raccoglie gli ultimi trionfi nell’Isabeau del suo genialissimo maestro. Andate, andate a sentire Conchita: maledite a lei sigaraia picchiata dal suo amante e allo sconcio soggetto picchiato dalla critica e affibbiato chi sa come e perché a un giovane musicista ansioso di produrre; ma ascoltate attentamente e saprete come possa un sinfonista italiano esprimere, secondo sua natura, le melodie che mormorano nella sua anima. [...] 4 u. r., “Conchita” al Costanzi, «Il Tirso» IX/12, 31.3.1912 - p. 3, col. 1-2 Dopo la vigorosa affermazione fatta con la prima sua opera «Il grillo del focolare», il giovane maestro trentino Riccardo Zandonai ha musicato l’adattamento scenico del noto romanzo di Pierre Louÿs «La femme et le pantin» ottenendone l’anno scorso un invidiabile successo al Dal Verme di Milano. A Roma l’opera e l’autore erano poco noti e quindi attesi con viva curiosità anche perché si desiderava conoscere uno dei migliori ingegni musicali usciti dalla scuola di Pesaro al tempo della direzione Mascagni. E l’attesa, a giudicare dalla accoglienza favorevole fatta anche a Roma a questa Conchita, non è andata delusa. Il libretto È un vero peccato che molti drammaturgi e musicisti odierni abbiano così spiccata tendenza a portar sulle scene dei brani di patologia e sopratutto di pervertimenti sessuali. Anche questa «Conchita» appartiene alla categoria ormai troppo numerosa delle isteriche, dall’incomprensibile mutevolezza di pensiero, senza carattere, assillata da perenni contrasti tra gli impulsi naturali verso la lussuria e gli artificiosi freni che la sua mente perfida e malata le suggerisce a scatti, a periodi intermittenti. Ella non sa riuscir mai nonché simpatica almeno interessante e molto di ciò si deve anche alla necessità di restringere in poche scene il romanzo del Louÿs eliminandone quindi tutto il nesso psicologico che rende più chiari certi bruschi passaggi di carattere e di sentimento. Peggio ancora per quanto riguarda Mateo, vero fantoccio senz’anima o con anima volgare, indegno d’esser portato sulle scene. Oh, quanto siamo lontani dai tipi ormai classici ma forti ed umani di Carmen e di José! La pretesa somiglianza con Conchita e Mateo non è che apparente e dovuta più che altro all’ambiente uguale (Carmen e Conchita sono infatti ambedue sigaraie e sivigliane) e se mai la proterva Conchita potrebbe essere una Carmen riveduta e... scorretta, ahi quanto scorretta! 3.1.1/5 Non parliamo più della parte letteraria (?!) dell’“Adattamento scenico” che non torna certo ad onore dei librettisti a causa di molte e sconce volgarità e dell’oblio della sintassi e della più elementare prosodia, sì da far credere trattarsi di una delle tante ed antipoetiche “Versioni ritmiche” di libretti stranieri in italiano! La musica Era naturale che con personaggi così poco umani e sentiti il musicista si trovasse a disagio e dovesse continuamente sforzare od adattare la sua anima artistica alle pieghevolezze di quelle due anime malate che sono i due protagonisti o meglio i due attori, ché tutte le altre figure dell’opera non rappresentano proprio nulla: è insomma un eterno duetto diviso in 4 atti e poco o nulla variato giacché le situazioni, nonostante il cambiamento di scena, si somigliano troppo e la musica non fa che seguire questo incessante difetto. La musica dello Zandonai, ricca di ardimenti moderni e, oseremmo dire, ultra moderni, si distingue anche per una mutevolezza e varietà tormentosa di ritmi non sempre gradevole: basti pensare allo stucchevole ricorrere di seguidillas, di malagueñas, di jotas e simili ritmi di indole locale, al frequente uso anzi abuso di tempi in 5 (che lo Zandonai sia un fautore... del sistema metrico decimale?!). Ma questo color locale spagnuolo, che dalla classica Carmen fino alla recentissima Iberia del Debussy conosciamo ormai a menadito, è troppo vieto per noi sì da non destarci più, per avvenuta sazietà, alcun interesse o attrattiva. Abbonda la ricchezza del colore, non sempre gradito all’orecchio come avviene per l’occhio in certi quadri di pittori moderni: ma un’opera d’arte capace di pervadere veramente l’animo degli ascoltatori non deve limitarsi ad un contenuto coloristico. Anche dinanzi ad un semplice bozzetto a matita od a carbone, ma che sia tracciato da possente anima d’artista, noi possiamo restare ammirati e provar godimento estetico ben maggiore che dinanzi ad un quadro abbagliante di ricca e vivace policromia, nel quale però le figure appajano inanimate. Perciò nella musica dello Zandonai l’animo nostro pur ammirando la tecnica orchestrale, del resto non sempre di buon gusto, non si sente mai trascinato ad amare o magari ad odiare le creature che vede rappresentate sulla scena: manca insomma quel soffio di vita che conquide, che scuote attraverso la situazione scenica e la musica, non c’è nessun punto, a scena aperta (neanche con la inevitabile e ben distribuita claque) in cui uno almeno di quegli applausi spontanei, caldi prorompa e, sia pure artisticamente inopportuno, interrompa e guasti l’euritmia della scena; mai uno di quei momenti in cui l’animo dell’ascoltatore, rimasto sospeso e sofferente, raggiunga poi quell’acuto stato emotivo che fa fremere e fa sorgere dalla sedia in un grido e in un applauso. Nulla di tutto ciò: noi non sentiamo che note su note, colore, ambiente, descrizione e ci accorgiamo man mano della desolante vacuità di vera musica, nonostante questo vuoto sia parzialmente dissimulato da una ricca polifonia o da effetti di cattivo gusto. Anche lo Zandonai infatti non sa salvarsi dall’abuso, sopratutto al I. atto, delle esclamazioni, delle strida, di quelle orribili notine acefale che servono appunto a ritmare le grida, le risate e simili e che fan così cattiva impressione a chi scorra la partitura e perfino la riduzione per canto e pianoforte: difetto che sembra pervadere i nostri moderni compositori italiani (informi ad es. la Fanciulla del West che ne possiede pagine intere!). Ma tutto ciò non è musica: è snaturamento della musica, è falso verismo, è volgare effetto plateale. Qualche sprazzo o tentativo di contenuto musicale appare timido qua e là come ad esempio nel I. atto alle parole di Mateo: «Fa che tu sei una fanciulla» e più oltre «Bada Conchita, non mi giocare»; nel 2. atto «L’ora divina affretto» o «Quello che ad altri basta a me non basta» e simili: ma allora purtroppo si affacciano somiglianze di opere più o meno moderne che vanno fino al punto di far credere (come nel 2. atto) ad una copia del Sogno della Manon di Massenet con relativa “casetta bianca”. 3.1.1/6 Via, speriamo che in ciò non consista l’avvenire o, sia pure, il divenire della giovane scuola lirica italiana: frattanto consoliamoci... coll’augurio di sentir presto il Nerone (che ormai sembra finito sul serio) del vecchio-giovane Boito! L’esecuzione Piena di slancio e di effetto da parte di tutti: il maestro Vitale ha concertato e diretto magnificamente con vera anima d’artista la difficile partitura; la sig. Cervi-Caroli, sagrificata a rappresentare una figura così poco attraente e poco confacente alle sue attitudini di soprano drammatico, ha saputo peraltro con la sua arte squisita nobilitare la perfida Conchita, renderla un po’ meno sgradita ed in alcuni momenti quasi interessante; il tenore Taccani, vero fulcro della attuale stagione lirica, ha dovuto mettere a dura prova i suoi resistenti mezzi vocali e ha dato tutta l’efficacia possibile alla sciocca figura di Mateo. Benissimo gli altri, molto ben istruiti i cori difficilissimi, decorosa la messa in scena. Nessuna richiesta di bis. Numerosi applausi alla fine di ogni atto e chiamate agli esecutori e all’autore. 5 Gino Gori, Avvenimenti teatrali - La Conchita(*) e il Candelaio, «Il Tirso» IX/12, 31.3.1912 p. 2, col. 1-2-3-4 La Conchita di Riccardo Zandonai ci ha rivelato un musicista insigne. Tutti i critici, quali più quali meno, lo hanno riconosciuto. Primo fra tutti Nicola D’Atri, che nei suoi giudizi è sempre equilibrato e geniale. Ma tutti, d’altra parte, hanno riconosciuto e a ragione che la musica in quest’opera è qualcosa di reciso dal libretto, un che a parte, una superba espressione del temperamento lirico del maestro, sbocciata non si sa come su dal più sterile dei drammi che possano immaginarsi, da un abbominio letterario come quello che fu perpetrato con gli elementi di un noto romanzo dai signori Vaucaire e Zangarini. Mi pare inutile riferirne ai lettori l’argomento; se n’è parlato e detto male da tutti, sì che non farei qui che ripetere cose già note. Don Mateo de Diaz ama Conchita; Conchita sigaraia lo ama e non lo ama, lo porta per il naso, l’abbindola e l’infinocchia, fino a che il bravo uomo, insatirito ed esasperato, perde le staffe e somministra una pioppa di scapaccioni alla baldracca invereconda; la quale, che è che non è, al veleno di tanto argomento cade fra le braccia di Don Mateo come un’educanda di 16 anni. Il dramma (ed è poi un dramma?) si distende su questa trama per 4 atti, interpunti d’episodi supremamente antimusicali, d’un color slavato e con versi slombati, dove il frasario più piatto e plebeo si pompeggia nella sua grossolanità che vorrebbe essere verismo. È una palude stagnante; né ci son caratteri, vita interiore, vita d’ambiente, luce d’arte, intuizione delle cose; uno dei tanti libretti che appartengono alla gloriosa schiera dei suoi confratelli italiani. Zandonai su di esso ha spiccato un volo e ha scritto pagine di grande musica: le quali, in verità, né commentano né lumeggiano quanto in quello v’è malamente acciabattato: fenomeno non nuovo nella storia del nostro teatro lirico e che mi spinge a dire qui alcune mie osservazioni, brevemente. [...] Dalla stessa condizione di cose è nato il libretto della Conchita. Zandonai che, come ripeto, è un gran musicista, forse colui che scaccerà di nido molti Guidi, è stato un timido o un illuso. Forse più timido che illuso. Si tratta sempre per un giovane di vincere quella indomabile bestia che è il pubblico e un po’ bisogna ammansarla, offrirle roba che le aggradi, che sia di suo gusto. Ci dette, forse per questo, Conchita. Ma Zandonai ha una sua parola nuova da dire. Zandonai sa, e per questo tutte le mie simpatie più incondizionate son per lui, che la musica la quale manca all’Italia è la grande musica che parli con le sue cento voci dall’orchestra 3.1.1/7 sapiente, non la romanza dalle larghe volute, priva d’ogni significazione poetica, e dove si dispiega solo l’acrobatismo canoro di un tenore analfabeta o di una signora ignorante. Zandonai sa e s’è accorto, come non hanno sembrato d’accorgersi né Mascagni né Puccini, che la musica vera e grande non è suono, ma poesia: non motivo isolato e campato nel vuoto, ma treccia di motivi; non vaporosità facilona, ma tocco magico che suscita entro di noi quel mondo che l’artista ha sempre in sé, incomunicabile altrimenti, e originale. “Suggerire la vita”: questo pare abbia voluto fare il maestro trentino e a questo è certo riuscito con perfetta arte, con vivo sfarzo, con intensa ispirazione contenuta e potente. Forse da lui l’Italia potrebbe avere l’opera che aspetta; e certo l’avrà se, abbandonando tutte le Conchite di questo mondo e di quell’altro, svolgerà la sua musica più sua attorno al più suo dei fantasmi che gli s’imponga prepotente nello spirito, improntato del suo più personale suggello. [...] -----------(*) Leggo ora in tipografia il notevole articolo del nostro critico musicale sulla Conchita di R. Zandonai. [Cfr. n. 4, n.d.r.] I nostri giudizi sono in parte divergenti. Non esito tuttavia a pubblicare questi miei appunti, i quali del resto hanno un carattere più letterario che altro, ritenendo che la valutazione estetica d’un’opera d’arte risulta non di rado dal gusto, dalle tendenze e dalle aspirazioni di chi giudica; e che ai lettori del Tirso – il quale è palestra di libera discussione – non sarà discaro conoscere idee e fatti che per avventura possono militare in favore o contro l’opera recentissima del giovane Maestro. 6 A[driano] Belli, “Conchita” del mo Zandonai al Teatro Costanzi, «Il Corriere d’Italia», 25.3.1912 - p. 5, col. 1-2-3 IL LIBRETTO Non è forse un vero peccato che un ingegno forte e robusto, un musicista colto e geniale abbia sprecato la sua energia e la sua dottrina intorno ad un soggettaccio come quello che Vaucaire e Zangarini hanno preparato per Riccardo Zandonai? Il romanzo da cui è stato tratto il libretto è uno dei più realisti e dei più brutali che si conoscano; in esso l’azione si svolge tutta in un ambiente di degenerazione e di sensualità: Conchita, una psicopatica, e Mateo, un imbecille, non ci interessano mai e mai ci appassionano; ma ci disgustano e ci irritano. Il soggetto, che non abbiamo potuto naturalmente riassumere per i nostri lettori, se può avere un aperto valore per alcuni studiosi i quali vogliano esaminarne il “caso patologico”, non è degno certo di essere reso popolare a mezzo del teatro. Se fu grave sbaglio ridurlo per le scene di prosa, maggiore e inconcepibile errore è stato quello di formare con esso un libretto per musica. La prima riduzione si dice fosse stata fatta per una sedicente artista a cui era venuto lo schiribizzo di formare un “grande spettacolo...” per tutti coloro che vedono la più perfetta espressione dell’arte drammatica solo nel sudiciume di certe pochades. Ma questa riduzione per la musica a quale scopo? Forse quel repugnante soggetto ha in sé elementi lirici; oppure la figura impurissima, calcolatrice, viziosa e perversa della protagonista poteva eccitare davvero la fantasia di un musicista? Né si può dire che il Vaucaire e lo Zangarini siano riusciti a renderci simpatica Conchita nella sua veste poetica; la quale è povera, è sciatta e brutta, con un linguaggio da trivio e delle imagini volgarissime; anzi è così irritante tutto il procedere di questa ragazza che quando al termine dell’opera Mateo nel colmo dell’ira ha finalmente uno scatto di ribellione e si sfoga brutalmente sopra la donna che lo ha fino allora torturato con tanta raffinata perversità e la batte e la calpesta, è quasi un senso di soddisfazione che anima lo spettatore. Ora che tutto questo sia degno di portarsi sulla scena e glorificarsi con la musica non comprendo né so 3.1.1/8 spiegare questa brutta tendenza del nostro teatro. Finora il teatro lirico era rimasto immune da tutto questo fango nauseante; ma ora sembra che la cattiva tendenza si propaghi. Soggetti come questi non musicabili, insuscettibili e indegni di musica, non possono divertire un pubblico di buon gusto e senza un alto senso di poesia non può esservi vera ispirazione per un musicista. I librettisti dell’avvenire potranno credere che un giorno sarà possibile idealizzare musicalmente le gesta... pornografiche di tutte le Conchite di questo mondo o le compiacenti aberrazioni di una madre, o che sarà perfettamente poetizzabile l’ambiente asfissiante di un café-chantant di infimo ordine e le grida scomposte e gli urli bestiali di una folla alcoolizzata; che in avvenire potranno anche musicarsi i pugni e i calci di un uomo bestiale sopra una donna e che sia perfino concepibile che l’affetto di questa nasca e cresca in rapporto diretto delle violenze che riceve; tutto può darsi, ma speriamo che questo... rinnovamento del teatro sia molto lontano, e siccome allora noi non ci saremo più, oggi abbiamo tutto il diritto di ribellarci. L’arte che noi ci ostiniamo ancora a considerare come una vergine pura e bella, esce da tutto questo fango di soggetti immorali non solo bruttamente insozzata, ma lurida e ripugnante come una vergogna da trivio. E la musica naturalmente si vendica e si ribella: il musicista che da quelle situazioni non può ricevere alcuna suggestione si dibatte penosamente chiedendo al suo cuore e alla sua fantasia espressioni non sentite e quindi artificiali. Libretto peggiore di questo certo non si era mai visto sino ad oggi, e non parlo solo del soggetto ma anche della forma, dei versi, delle situazioni. L’azione imbellettata inutilmente con episodi di nessun valore procede lenta e senza interesse, e tutto si riduce a quattro grandi duetti che suppergiù terminano tutti nella stessa situazione; le parole usate sono le più triviali e basse che si possano immaginare e i versi fanno correre il pensiero a quelli famosi del tanto bistrattato Francesco Maria Piave! In altri termini al povero Zandonai è stato dato un libretto che a tutto si prestava meno che a spronare ed eccitare la fantasia di un musicista; ed il giovane maestro ha fatto tutto quello che poteva fare, riuscendo perfino a non stancare il pubblico. Galvanizzando l’azione con la potenza della sua virtù istrumentale. LA MUSICA Riccardo Zandonai ci si presenta certo come un musicista di straordinario valore; in Italia al presente non credo vi sia chi possa uguagliarlo nel difficile magistero istrumentale. Egli non solo possiede l’assoluta padronanza di tutte le risorse tecniche, la conoscenza assoluta di tutti i segreti della moderna orchestrazione; ma sa essere simpaticamente audace nella ricerca di effetti nuovi e pronto e sicuro nelle “trovate” geniali sempre efficaci. Lo Zandonai, se ha potuto prendere le mosse nella sua produzione dalle moderne formule dell’arte francese, ha saputo però ben presto liberarsi da qualsiasi traccia di imitazione e formarsi uno stile tutto proprio, una personalità artistica spiccatissima. Potranno discutersi i suoi principî estetici; ma non può negarsi che egli ci si presenti come artista da prendersi in grande considerazione e dal quale possiamo e dobbiamo molto sperare. “Musica per gli occhi” potrebbe definirsi questa Conchita, dove è tutto un succedersi di sensazioni visive ora abbaglianti ora pallide, ora accese ora smorte; un insieme di colori svariatissimi disposti con molto buon gusto, con efficacia di contrasti, con varietà di toni, con rilievo di chiaroscuri. Come colorista Riccardo Zandonai non ha pari: egli si mostra artista completo, raffinato, squisito, alle volte anche troppo fine per la massa del pubblico che ad una prima audizione non può entrare d’un tratto in quell’atmosfera di irrealtà, di sogno, di forme indefinite, nuove e iridescenti in cui vaga la sua musica. Vi sono quadri così veri e suggestivi che difficilmente è possibile dimenticare. Nel preludio del terzo atto ad esempio la pittura 3.1.1/9 musicale è così vera e convincente, quelle voci lontane che svaniscono e si perdono, quei suoni incerti e indefiniti dànno una nota così realistica che giungiamo quasi a vedere innanzi a noi il quadro di una placida notte a Siviglia inondata dai raggi della luna. Né possiamo sottrarci a tale impressione di fronte a molte altre pagine di questa Conchita come al cicaleccio delle sigaraie al primo atto, alla scena del baile, al finale del terzo e al preludio del quarto atto. Questa musica, più sostanziosa di intelligenza che non di cuore, ci fa provare profonde sensazioni foniche; ma non riesce quasi mai a commuoverci davvero. Un effetto di commozione profonda che dilaghi dalle scene nella sala, un lampo di grande ispirazione, un fremito vibrante e intenso, un grido veramente umano che scuota si attende invano durante questa Conchita. Il canto non si sviluppa mai in una linea chiara e decisa; ma si spezzetta, per colpa anche del verso, in un continuo dialogato con andatura piuttosto incerta e indeterminata, per giungere poi alle volte a delle enfasi ingiustificate e sproporzionate. Un’analisi del lavoro sarebbe certo interessante e la cosa mi tenterebbe se lo spazio concessomi non mi opponesse una difficoltà insormontabile. Noterò ad ogni modo di sfuggita il brillante e caratteristico scherzo orchestrale sul quale si svolge l’allegro cicaleccio delle sigaraie e s’innesta il racconto di Conchita; tutta una pagina di una mirabile ricchezza di ritmi, sempre nuovi e smaglianti, ove l’uso del quinario (cinque ottavi) contrapposto ed alternato con altri ritmi comuni dà materia al colorista di formare un quadro veramente magnifico e pieno di vivezza. Bello è l’intermezzo che ci conduce alla casa di Conchita attraverso le vie chiassose di Siviglia: un brano di gran valore musicale ma che teatralmente si presenta del tutto inutile. Il duetto fra Mateo e Conchita contiene delle ottime pagine piene di dolcezza che il pubblico ieri sera gustò molto tanto che alla fine dell’atto volle per due volte salutare artisti ed autore alla ribalta. Il secondo atto contiene una vivace pittura di ambiente veramente interessante ove lo Zandonai mostra ancora una volta la sua grande perizia di coloritore; ma in questo atto – che si è chiuso tra vivi applausi e con quattro chiamate all’autore – egli ha potuto anche scrivere una delle più belle e squisite pagine di tutta l’opera: il duetto cioè fra Mateo e Conchita pieno di dolcezza fine e toccante. Il temperamento del giovane musicista è essenzialmente lirico, non drammatico; infatti nel terzo atto, che si apre con quell’intermezzo di cui sopra ho notato i grandi pregi, si sente lo sforzo per rendere il finale che si presenta riboccante di drammaticità. Ma giacché è l’unico punto del libretto in cui si rivela un effetto veramente teatrale, il pubblico è trascinato all’applauso; e ieri sera infatti alla chiusa dell’atto vi furono molte acclamazioni e quattro chiamate. L’ultimo atto che contiene un bel preludio di squisita fattura ma di sapore un po’ troppo massenetiano, è preso tutto dal duetto tra Conchita e Mateo, il quale duetto però non presenta un grande interesse. Ottima è la chiusa dell’opera, dopo la quale ieri si ebbero tre chiamate all’autore. Concludendo quindi mi sembra che Riccardo Zandonai con questa Conchita ci abbia dato un esempio possente del suo alto ingegno di musicista: egli si presenta con una forma tutta sua e si pone coraggiosamente di fronte al pubblico, dal quale non chiede il facile applauso ma attenzione, raccoglimento e studio. La sua opera è tutta avviluppata da un tessuto orchestrale fitto e vario di disegni, che commenta ed incalza la parola prendendo vivissima parte all’azione scenica; un tessuto orchestrale disposto con sì grande perizia che la parola sempre risulta limpida, chiara e non viene mai sopraffatta; la musica si snoda sempre facile ed agile rendendo con arte sicura ciò che nella fantasia dello autore è già suono con effetto determinato. In lui, come sopra accennavo, le qualità di colorista prevalgono su ogni altra dote; dategli un altro libretto e vedremo se lo Zandonai saprà colmare la deficienza di passionalità che si riscontra in questa Conchita. Ed attendiamo con fiducia da Riccardo Zandonai l’opera completa che sia però 3.1.1/10 veramente l’intima espressione e la giusta misura del suo ingegno, dal quale molto possiamo attenderci. Ma torni ad aure più respirabili, più sane, più serene ed egli darà all’arte l’opera duratura perché veramente intesa e sinceramente scritta; ma ripudî sdegnosamente tutti quei soggetti nei quali è costretto dibattersi fra le strettoie delle volgarità antiartistiche e le aspirazioni ad una espressione d’arte sincera e forte. Il rimanere su questa via potrebbe essere non fortuna per lui, non onore per noi, non felice suggerimento ed esempio per i giovani musicisti. Zandonai credo che lo abbia compreso ed abbia pensato per l’avvenire, e alla sua Melenis, che sarà rappresentata questo autunno a Milano, auguriamo gloria e successo. L’ESECUZIONE Primo innanzi tutti debbo nominare il maestro Edoardo Vitale che ha concertato Conchita con affetto veramente fraterno. L’orchestra che nell’opera ha una parte tanto importante ha suonato con una precisione ed un affiatamento mirabili; tutto quell’insieme di delicate finezze, di minute preziosità, di vaporose sfumature, di ritmi originalissimi nella intelligente direzione del Vitale fu reso con mirabile e straordinaria chiarezza ed il pubblico meritatamente volle fare al simpatico maestro una grande ed affettuosa ovazione dopo il finale del secondo atto. La signora Ersilde Cervi-Caroli cantò molto bene tutta la sua parte, fece sfoggio della sua magnifica voce, intonata, calda di sentimento, ben modulata, estesa e si fece vivamente applaudire. Dal lato scenico essa fu quello che deve essere un’artista seria in una parte... non seria. Il tenore Giuseppe Taccani diede ancora una volta prova del suo mirabile temperamento drammatico, ebbe scatti di passione veramente sentiti e convincenti; cantò con bella voce e con rara intelligenza, si fece molto ammirare nel declamato «Io soffro atrocemente!...» del secondo atto e nella drammatica chiusa del terzo. La Mareck nella breve parte della madre di Conchita cantò molto bene, fu corretta ed efficace. Né vanno dimenticati gli altri artisti che nelle numerose parti secondarie furono tutti encomiabilissimi: Lucia Torelli (una madre), Giuseppina Falchero (Dolores), la Flory, l’Alemanni, la Bucciarelli; lo Schottler, il Gubbiani, il Rossi, il Gironi e gli altri tutti. Molto bella ed appropriata la messa in scena. [...] 7 Alberto Gasco, “Conchita” di R. Zandonai al “Costanzi”, «La Tribuna», 25.3.1912 - p. 3, col. 4-5-6 / p. 4, col. 1 (con una foto di Ersilde Cervi-Caroli) Dobbiamo qui far un nuovo processo all’arte teatrale verista? No davvero. L’arte verista – che è lontana le mille miglia dalle predilezioni dello scrivente – ha anch’essa i suoi pregi e possiede una speciale virtù di commozione: occorre però saperne usare con giusto criterio e saperla piegare all’espressione di sentimenti intensamente umani, di sentimenti – cioè – che per quanto aspri, violenti, crudeli, ripugnanti, siano pur sempre da noi comprensibili ed accettabili. Nell’orribile disgustoso vi può essere un elemento di tragica grandezza, pur che quest’orribile determini o sia determinato da un superbo conflitto di vere passioni umane. Ora, le passioni dei protagonisti di Conchita, così come risultano dal plateale libretto dei signori Vaucaire e Zangarini, hanno un non so che di artificioso, di anti-naturale, di antipatico: per questo non riescono a destare in noi una fiamma qualsiasi di emozione e neppure un moto di semplice interesse. Quel che v’ha di bello o, per lo meno, di attraente nel notissimo romanzo di Pierre Louys La femme et le pantin, si perde del tutto nell’adattamento 3.1.1/11 scenico: la psicologia dei personaggi, chiarissima nel libro, diventa sibillina nel libretto di Conchita e l’enigma ch’essa ci presenta non ci piace né ci diverte. Don Mateo de Diaz è un elegante cretino; la piccola sigaraia Conchita una vera canaglia, sensibile soltanto alla fisica brutalità. I loro amori volgarissimi non sembrano degni d’una illustrazione musicale e fa quasi rabbia il pensare che un giovane musicista di indiscusso valore e di precoce esperienza come Riccardo Zandonai abbia potuto essere solleticato dal libretto del quale parliamo. Forse egli ha pensato che alla gran massa del pubblico incolto non sarebbe stato ingrato l’assistere a scene di erotismo a pena larvato e che l’episodio della danza di Conchita seminuda, al secondo atto dell’opera, avrebbe ottenuto se non altro un eccellente successo di curiosità malsana. Egli si è ingannato. Le varie scene sensuali della Conchita sono troppo simili le une alle altre e finiscono con venire a noia. I quattro duetti tra Conchita e Mateo sono troppi e l’ultimo si fa sopportare soltanto per quel tale episodio delle busse che, se bene repellente, provoca un sospiro di sollievo nello spettatore. È una gran gioia per tutti vedere finalmente quella proterva viperina creatura battuta, umiliata e piangente: da questo si può argomentare quanta simpatia desti la piccola Conchita... Quanto alla danza, anch’essa è mancata. Anzi tutto l’episodio non si poteva rendere efficacemente sulla scena. Secondo il romanzo, Conchita balla in costume d’Eva; l’innamorato Mateo, sorprendendola in abbigliamenti... così ridotti, diventa pazzo d’ira, e – sfido io! – la minaccia e l’insulta. Nell’opera, invece, Conchita è decorosamente vestita: le spalle sono scoperte, ma questa piccola audacia non basta a giustificare le terribili escandescenze di Mateo, che già l’ha vista ballare poco prima con un decolleté quasi altrettanto procace. Così la scena non ha carattere e diventa poi insipida perché la musica della danza, per quanto aggraziata ed istrumentata con suprema abilità, non ha nulla di voluttuoso. Per animare un libretto intessuto su di un caso di triste pervertimento sessuale come quello di Conchita, occorreva un musicista di un temperamento eccezionale, di temperamento cioè malsano e sovra-sensibile: lo Zandonai invece – sia gloria a lui! – è un compositore forte, sicuro, sano quanto altro mai, un artista dall’animo delicato quasi timido, che resiste – forse anche troppo – all’onda passionale e che di tutto sembra capace fuorché di cantare sentimenti bassi di sensualità e di vigliaccheria, quali pullulano nei cuori di Conchita e di Mateo. Musicando il libretto confezionatogli dal Vancaire [sic] e dal Zangarini, lo Zandonai ha dovuto fare un continuo sforzo su di sé stesso e lo sforzo nella sua musica si rivela penosamente. In questo dramma di acre, esasperata passionalità, quel che manca è precisamente la passione, che noi vogliamo veder cantata con larghe melodie vibranti, dal possente respiro, melodie che troviamo così in Carmen come in Tristano, così in Cavalleria rusticana come in Salome. Lo Zandonai è un ammirevole cesellatore, un delicato poeta di ambiente che, aiutato da una stupefacente conoscenza della moderna strumentazione, sa dipingere quadretti incantevoli, suggestivi e originali: non gli si può d’altra parte riconoscere l’impeto drammatico necessario a rivestire efficacemente un libretto torbido d’erotismo come quello di Conchita. I protagonisti dell’opera cantano tutti ad uno stesso modo, vale a dire con un declamato melodico che di rado si conchiude in un periodo saldo, incisivo, plastico. Il fiacco, slombato, puerile Mateo si esprime musicalmente presso a poco come la perversa, astuta, diabolica Conchita. Così il carattere dei personaggi, mal disegnato nel libretto, finisce di perdere ogni rilievo nella musica. Il duetto d’amore che segue alla brutale scena del Baile ha degli atteggiamenti di soavità massenettiana, seducenti – forse – ma esteticamente inopportuni: e l’ultimo duetto, per la triste sentimentale melodia, ci fa pensare assiduamente a qualche indimenticata pagina della Wally di Catalani. Non che lo Zandonai sia caduto in plagi: tutt’altro. Parlo soltanto del carattere generico della musica e ne voglio conchiudere ch’esso non è tipico come avrebbe dovuto essere, dato l’argomento specialissimo prescelto dal compositore. 3.1.1/12 Dove lo Zandonai prende la sua rivincita nel modo più brillante è nelle “scene di colore”. Il primo quadro dell’opera, nella Fabrica di Siviglia; tra le sigaraie garrule, spensierate, mordaci, rumorose, appare scolpito da mano maestra. Il movimento scenico è sottolineato da un commento orchestrale di un sinfonismo ricco, ben appropriato, pittoresco al più alto grado. La scena, per il suo brio disinvolto, ci ricorda quella, splendidissima, del “laboratorio” nella Louise di Charpentier e non è indegna di figurarle accanto. Così l’episodio del Baile, con la jota vivacissima e l’indovinata canzone dei bevitori, piace moltissimo e dà prova solenne del magnifico talento di coloritore proprio dello Zandonai. I vari intermezzi sinfonici dell’opera hanno anche essi molta importanza. Il primo, nella strada, si svolge tra i più gustosi impasti orchestrali e pur servendosi di motivi spagnuoli – o di tipo popolare spagnuolo – sa mantenere una linea di assoluta originalità. Più bello ed efficace è il preludio del terzo atto, che descrive, tra sonorità vaporose, le seduzioni voluttuose della notte iberica. Qui rifulge tutta la maestria del giovane sinfonista. Siamo lontani, è vero, dalla prodigiosa suggestività dell’Iberia di Claudio Debussy, ma pure ci troviamo di fronte ad una pagina deliziosa, fine, penetrante, in cui l’anima essenzialmente poetica dello Zandonai ha potuto cantare liberamente un quieto inno alla Notte misteriosa, solcata di canti e greve del profumo di mille aranci in fiore. Non sarebbe difficile continuare nella enumerazione dei singoli pezzi di Conchita che più specialmente si impongono alla nostra schietta ammirazione; ma l’arido elenco divertirebbe assai poco il lettore. Preferiamo quindi dire, con rapida sintesi, che questa opera, non ostante la deplorata mancanza di ampia, impetuosa, commovente melodia appassionata, ci incanta per mille preziosi dettagli, nei quali tutta la sensibilità artistica del compositore si rivela nel modo migliore. Lo Zandonai, che già aveva vinto una bella battaglia scrivendo il Grillo del focolare, ha fatto indubbiamente un passo avanti con la Conchita. Egli possiede ormai una tecnica orchestrale e teatrale invidiabile. Non imita alcuno dei più illustri operisti del giorno e mostra il fermo intendimento di procedere nel fiorito cammino che gli si apre dinnanzi con la felice indipendenza propria degli artisti eletti. Nella sua musica, il discorso scorre con grande nobiltà d’espressione e sembra rifuggire da quei plateali effetti di retorica teatrale, così comuni – pur troppo! – nei melodrammi dell’ultimo periodo. Abbiamo quindi la gioia di salutare in Riccardo Zandonai una delle più vigorose speranze dell’arte musicale italiana. Però, dopo di aver espresso la profonda ammirazione che proviamo per la sua arte di operista, sentiamo il dovere di metterlo in guardia contro la cattiva scelta dei libretti da musicare. Il dramma lirico moderno non si compone di due parti distinte: musica e poesia, ma bensì di un tutto unico, organico, che risulta dall’unione intima, perfetta della musica con la poesia. Per questo, la scelta di un libretto anti artistico per eccellenza toglie la possibilità al musicista di compiere opera di suprema bellezza. Lasci stare, dunque, lo Zandonai i libretti dello stampo di Conchita, poveri di significazione estetica e composti di versi mostruosi, scritti in odio alla prosodia, alla sintassi ed anche al buon senso. Un artista valoroso e di nobili idealità non deve applicarsi a musicare aberrazioni letterarie come questa: Son le pene dei cuori innamorati come i denti cariati... par di scoppiare e forza è masticare... ed anche Se fiati, faccio mettere il chiavistello al tuo bordello! e il brano che si inizia alle parole Cagna, cagna! prosegue tra imprecazioni da trivio. Del resto, se si volessero citare tutti i brani odiosamente realistici (dovremmo dire sconci) del libretto, si riempirebbe qualche colonna di giornale... Meglio è, perciò, tagliare corto e 3.1.1/13 rinnovare allo Zandonai l’augurio fervente di una più completa ed elevata vittoria d’arte di quella da lui ottenuta con la Conchita. Che egli prosegua nel suo lavoro con ferma fiducia: la nostra ferma fiducia lo accompagna. *** L’esecuzione dell’opera è stata eccellente. Il maestro Vitale ha concertato la complicata partitura con la ben nota abilità e ne ha interpretato a meraviglia tutte le grazie vivaci e le sentimentali delicatezze. Sotto la sua direzione l’orchestra ha suonato con impegno straordinario, recando un magnifico contributo al buon esito del lavoro: il successo del Vitale è stato, per tanto, completo e pienamente legittimo. La signora Ersilde Cervi-Caroli, Conchita, si è imposta all’ammirazione di tutti per l’incomparabile leggiadria della sua interpretazione scenica, oltre che per l’incontestato valore di cantatrice dalla voce pastosa, sicura, assai simpatica. Efficacissima così nelle scene di civetteria come in quelle di sentimento (pare impossibile! questa Conchita è anche sentimentale... a tempo perso) la signora Cervi-Caroli ha mostrato ancora una volta di essere artista completa, esperta di ogni risorsa dell’arte. Ella fu assecondata egregiamente dal tenore Taccani che, nelle vesti del disgraziato Mateo, seppe far valere i suoi alti pregi di cantante e di attore. Il Taccani, con la sua voce resistente, riuscì a superare senza difficoltà tutte le asprezze di tessitura della sua parte e, specialmente nel canto vibrante «L’ora divina affretto...», seppe raggiungere una bella forza d’espressione lirica. La Cervi-Caroli ed il Taccani, come ben si comprende, vennero più volte evocati al proscenio tra applausi, e con loro si presentò il maestro Zandonai, cordialmente festeggiato. Buone le parti minore affidate alla Marek [sic], alla Flory, alla Falchero, ecc.; splendide per vivacità le scene d’assieme; mediocri gli scenarii. Lo spettacolo interessante avrà molte repliche nelle quali il successo, non unanime, di iersera andrà certamente crescendo. Il nostro pubblico, superata l’avversione per l’infelice libretto, si accorgerà delle singolari bellezze della musica dello Zandonai ed a quella volgerà tutta la sua attenzione, prendendo interesse gradatamente a questa Conchita che è una delle migliori produzioni della giovanissima scuola italiana. 8 Edoardo Pompei, “Conchita” del m. Zandonai, «Il Messaggero», 24.3.1912 - p. 3 Riccardo Zandonai è già una personalità artistica. Dopo il Grillo del Focolare – la sua prima opera ispirata al più puro romanticismo, che gli assicurò quel tanto di rinomanza che basta per scuotere le intime fibre di un editore ed ottenerne la protezione – il giovane maestro trentino, tuffandosi in pieno verismo, non sdegnò di cimentarsi in un libretto che Giacomo Puccini, più avveduto, aveva rifiutato, ed ecco, dopo pochi mesi di lavoro, un’opera nuova: Conchita, che il pubblico del Dal Verme a Milano, e la critica, pur con qualche riserva, applaudirono. Dalle tavole del palcoscenico milanese, Conchita è passata al nostro Costanzi, come al solito e forse più del solito affollato ieri sera di pubblico elegantissimo, accorso a giudicare l’opera ardita e a rendere omaggio al giovane compositore che, a differenza di molti altri, nella selva intricata delle tendenze odierne sembra deciso a seguire un proprio indirizzo e a trovare la sua via. E di questa sua personale indipendenza si hanno chiari e decisi segni in Conchita che rivela un talento, una fibra, una coscienza artistica capace di più alte e nobili affermazioni. * Il famoso romanzo di Pierre Louis [sic]: La femme et le pantin, nel suo desolante verismo materiato di pervertimento e di viltà, non sembra il più adatto ad ispirare un poeta e un 3.1.1/14 musicista e ciò spiega come nella riduzione scenica di Vaculaire [sic] e Zangarini, che così profondamente si distacca dal soggetto iniziale, le figure principali, pur serbando taluni tratti fondamentali, acquistano ed assumono caratteri ed atteggiamenti che ne modificano la fisionomia. Ma anche attraverso queste indispensabili variazioni per cui «Conchita» può parere qualche volta una sentimentale, e «Mateo il fantoccio» trovare accenti di coraggio e gesti di eroe, il libretto ha troppi coefficienti negativi per ispirare a un compositore un’opera resistente agli urti della critica e del tempo. Qualunque possa essere il valore di un maestro, esso non riuscirà ad annullare i difetti organici di un libretto al quale mancano la vita e il movimento, e dove i personaggi non rivelano né studio d’anime né caratteri e si trascinano stentatamente attraverso episodi superflui ed ingombranti, composti per dare un simulacro d’azione ai quattro atti. Tra il romanzo di Pierre Louis – minuta analisi di un pervertimento sessuale e di una debolezza morale – e la riduzione scenica del Vaculaire e dello Zangarini, per le inevitabili amputazioni eseguite, c’è la stessa differenza che fra l’opera e la parodia e lo Zandonai si è indubbiamente illuso nella misura del suo valore personale se ha stimato di poter rimediare alle deficienze del libretto coi colpi d’ala del suo talento, e di rompere la monotonia delle scene col fascino della musica ispirata! Già il difetto principale d’ispirazione deriva dalla figura stessa della eroina, incapace per la sua ambigua varietà, per l’ambiente in cui si muove, ad eccitare soverchiamente la fantasia di un compositore. D’altra parte, nessuno, a giudicare da questa Conchita, potrebbe ravvisare grandi e solide facoltà inventive nel Zandonai, il quale, rinunziando di proposito ad ogni idea melodica per quanto libera e sciolta dalla misura e dalla quadratura convenzionale e sconvolgendo secondo le norme della nuova scuola moderna tutte le regole dell’armonia, della tonalità, del ritmo, dell’euritmia, ha presentato al giudizio del pubblico un’opera che certo s’impone alla ammirazione dell’uditorio pel complesso lavoro orchestrale e polifonico, trattato con mano sicura, con una tecnica che conosce tutte le conquiste, per la ricchezza e la vivacità del colore, per la trattazione squisita di episodii poeticamente pittorici; ma che non persuade, non avvince per originalità creatrice, per genialità di espressione, per impeto lirico. I quattro atti dell’opera possono ascoltarsi talora con manifesta compiacenza, ma non c’è un istante in cui l’espressione musicale susciti nell’uditorio un sentimento ardente o un fremito di commozione. Anzi è proprio nelle scene più forti e più violente che il Zandonai apparisce più a disagio. Temperamento più lirico che drammatico, più descrittivo che passionale, mentre raggiunge effetti notevoli nelle scene di sentimentalità delicata e nella pittura d’ambiente come nel delicatissimo e suggestivo intermezzo tra il primo e secondo quadro o nel chiacchierio pettegolo delle sigaraie al primo atto, è costretto ad esagerare nelle situazioni drammatiche, facendo assumere alla sua musica un carattere che non è in rapporto colle persone e colle passioni del dramma. Così i duetti fra Conchita e Mateo al terzo e al quarto atto risentono di uno sforzo non perfettamente superato e si effondono più in una esuberanza sonora che in una profonda intensità musicale. Così il preludio di sapore massenettiano al quarto atto con “a solo” di violino può sembrare più una delicata e soave pagina di album che un logico avviamento alla soluzione violenta del dramma. Ho accennato a due punti dell’opera che presentano pregi notevolissimi di fattura, ma è doveroso ricordarne altri che per il linguaggio musicale chiaro, elevato, tecnicamente moderno, non sfuggirono all’attenzione del pubblico. Così l’ambiente basso e viziato del baile colorito con pennellate dense di colore, la felice introduzione di canti spagnuoli vibranti di sensualità, la descrizione di una notte a Siviglia coi mille fremiti umani, colle voci lontane, 3.1.1/15 sono pagine ideate, sentite con grande spirito di modernità svolte in orchestra e nelle voci con perfetta leggiadria. * L’opera, vinte le prime esitazioni, ebbe lusinghiera accoglienza e il maestro Zandonai alla fine di ogni atto fu chiamato parecchie volte al proscenio fra applausi calorosi. Il maestro Vitale concorse fraternamente al successo dell’opera, mettendone in chiara luce ogni bellezza. Sotto la sua guida vigile e serena ogni pagina, ogni impasto, ogni combinazione armonica ebbe il suo giusto rilievo, e tutto il prorompente lavorio orchestrale passò nella sala attraverso una magnifica esecuzione. Sotto le spoglie di Conquita [sic] la signora Ersilia [sic] Cervi-Caroli dette nuova conferma delle sue squisite doti di cantante ed attrice. Piegando e costringendo il suo temperamento ad una parte che non è la sua, che non sente, seppe tuttavia comporre la figura della protagonista come l’autore desiderava, quale deve essere la perfida creatura immaginata da Pierre Louis nella varietà dei suoi sentimenti e dei suoi atteggiamenti. Il tenore Taccani, così favorevolmente apprezzato dal nostro pubblico, cantò come sempre con arte e sentimento, e coi due interpreti principali si distinsero pure al primo atto la signora Marek [sic], la signorina Falchero, la signorina Flory. Conquita avrà certamente parecchie repliche. [...] 9 [Lionello Spada], “Conchita” «La Vita», 23-24.3.1912 - p. 3, col. 2 Conchita è spagnola e, di mestiere primo, sigaraia. Ella ha quindi parecchi gradi di parentela con un’altra sigaraia spagnola. Ma questa uscì dalla penna squisita di un amico di sovrani morto accademico; l’altra deriva da uno scrittore moderno, che ama di suscitare impressioni calde e forti. Così Conchita è una sigaraia litigiosa quanto la sua parente maggiore, ma altrettanto infedele, più strana ancora nella oscura passione di lei. Ella non si concede a Don Matteo, che sarebbe un José con molti biglietti di banca, ma lo tormenta, lo obsessiona nel desiderio di possederla finché, d’un tratto, gli apre, innamoratissima, le braccia. Ma la storia di questo dramma d’amore ha incontrastabilmente una forza di suggestione: quella dell’ambiente. Gli autori del libretto, signori Vaucaire e Zagnarini [sic], hanno tratto larghissimo profitto dai contrasti di colore, dalla varietà di scene che il romanziere offriva loro. Così che l’azione riempie i quattro atti e li domina pur tra moltissimi e diversissimi episodi. Senonché riassumere ancora questo libretto ci pare inutile: quelli i quali andranno al Costanzi penseranno a leggerlo, se non l’hanno già letto. A ogni modo più dei versi è la musica che a loro preme. L’interesse da cui saranno condotti stasera al teatro è quello di sentire come sia riuscito il dramma musicale. E l’interesse è legittimato stavolta dal nome – ormai ben noto – dell’autore. Il maestro Zandonai, per quanto giovane, è conosciuto e apprezzato già come compositore d’innegabile valore. Questa Conchita è propriamente la seconda opera sua, e nell’autunno scorso a Milano, ove fu rappresentata per la prima volta, ebbe un successo schietto, tanto più notevole in quanto si tratta di un compositore già maturo e personale, che procede effettivamente per vie proprie. La forma che segue è davvero una concezione sua, e in ciò rivela appunto un ingegno gagliardo, ben preparato. 3.1.1/16 E noi auguriamo che il pubblico romano abbia a fare accoglienze non meno calde al suo lavoro. Questo – come abbiamo detto – avrà a principali interpreti la signora Cervi-Caroli, il tenore Taccani, la signora Marek [sic]; ma esige anche una altra ampia cooperazione di cantanti, coristi e ballerini. Ma il contributo prezioso sarà quello dell’orchestra diretta dal maestro Vitale, che alla concertazione ha dato affettuosa cura. 10 Lionello Spada, “Conchita” di R. Zandonai, «La Vita», 24-25.3.1912 - p. 3, col. 3 Notavo ieri: Conchita ha una qualche parentela con Carmen. Ma è bene correggere: si tratta più propriamente di affinità. Infatti i padri sono diversi e non consanguinei; anzi nella differenza della loro età è come riassunta la linea di separazione segnata fra due generazioni quasi susseguentisi. Prospero Merimée, squisito uomo di lettere e di Corte, storico e diplomatico, immaginò quella sigaraia spagnola nella serenità trionfante del secondo impero. E però Carmen nata da lui è passionata, volubile, crudele ma è umanamente semplice, diritta nella sua solida costruzione. Pierre Louis [sic] è, con minori ambizioni letterarie e meno di cultura classica, uno scrittore che vive nella scomposta, faticata, dolorosa società nostra. E la sua Conchita è fantasia di questa letteratura nostra, una fantasia complicata, tormentata, ma senza virtù di vibrazioni commoventi. Non è una creatura, ma uno sforzo letterario. Quindi manca in lei quella verità umana, virtuosa o corrotta, amabile o selvaggia, che avvince e persuade appunto perché vera. Nel romanzo quella sua vacuità intima, insanabile è simulata dallo sfavillio tumultuoso di colori che le sono posti intorno alla sua figura puramente meccanica. Ma sul teatro quella dissimulazione rimane di un effetto secondario, perché in fondo appare lei, soltanto lei, una donna senza spunti e senza conseguenze logiche, che si dibatte in un contorcimento morboso, per un amore e per una ritrosia entrambe frutto di una combinazione meditata, non di un’osservazione reale; una donna innamorata che inspira ripugnanza. Forse anche la sua deficienza organica avrebbe potuto essere attenuata genialmente da una forma sufficiente nel libretto. Ma purtroppo i compositori nostri – tranne Giacomo Puccini – non intendono che la prima musica, in un’opera, deve essere quella delle strofe, che il principio della suggestione è nella bellezza della parola. Ora non è il caso di parlare né di musica né di bellezza a proposito di quello che ha messo insieme il signor Zandonai. Ed è così un’altra difficoltà che il maestro Zandonai che ha dovuto vincere, dopo quella di essersi posto a lavorare intorno a una femmina inespressiva. *** Ma a un’altra difficoltà il giovane maestro doveva sapere di andare incontro: quella che Conchita avrebbe richiamata alla memoria Carmen, non la Carmen letteraria del Merimée, ma quella musicale – e quanto musicale! – del Bizet. Ora – ed è prova della sua nobile coscienza d’artista – egli non si è scoraggiato neppure per questa preoccupazione, certamente sentita perché spontanea. E dico subito: il maestro Zandonai questa animosa coscienza di sé ha il diritto di avere. Egli è un musicista del quale non si può dire soltanto: sa il fatto suo. Neppur questo sarebbe poco, perché conoscere perfettamente la tecnica e maneggiare gli strumenti con una sicurezza impeccabile e con equilibrio costante, respingendo ogni lusinga di effetto volgare e anche soltanto facile è già possedere un bello e raro requisito. Nessuno può mettere in dubbio 3.1.1/17 che all’orchestra egli faccia dire precisamente quel che vuol dire. E a tratti, quando in quei personaggi artificiosi passa un lampo di passione vera, egli rivela la forza della vibrazione e la delicatezza del movimento che suggestiona. Nel duetto del secondo atto, in quello del terzo e nell’ultimo sono pagine di musica animatrice. Ma evidentemente, anche perché costrettovi dalla povertà irrimediabile dell’argomento, egli sopratutto si è imposto di fare del colore. E certo è impresa a cui è ben preparato e a cui ha dato una robusta quantità di attitudini rinforzate collo studio. In ispecie l’intermezzo nel primo atto e la maggior parte del secondo e del terzo possiedono energie rappresentative fortissime e geniali di ambiente. Se non si può artisticamente abusare del colore, invece bisogna usarne con la parsimonia indispensabile. Sia lecito un confronto per spiegarmi: Bizet, in una scena rapidissima, rende certamente vivissimo il quadro della uscita delle sigaraie; lo Zandonai vi ha dedicato quasi mezzo il primo atto: è troppo. Giacché, per quanto ben fatto, il lavorio troppo prolungato intorno a un’esercitazione formale finisce per distrarre, se non per istancare. Ed è questo il difetto che, originario del romanzo, si riproduce anche nella musica così squisitamente elaborata del compositore trentino; essa appare più dedicata a riprodurre un ambiente, più che a esprimere e a suscitare delle passioni. E poiché l’ambiente, sostanzialmente, rimane poco variato nei quattro atti, che ripresentano quasi identica la stessa situazione innestata in quattro duetti, anche il gagliardo e sapiente musicista è indotto a ripetere procedimenti già adoperati o a mutarli soltanto di poco. Il che dà un’impressione di insistenza eccessiva. Da ciò principalmente la resistenza a guadagnare quel successo caldo di pubblico che l’opera aveva raggiunto a Milano e che in verità si è rinnovato anche a Roma. Ma è stata come una dura battaglia, vinta a poco a poco, come hanno provato il calore diverso degli applausi. Finito il primo atto il maestro ha avuto due chiamate, dopo il secondo quattro, dopo il terzo tre, e all’ultimo cinque, tutte tra applausi convinti. *** La signora Cervi-Caroli ha dovuto evidentemente, dal canto suo, vincere l’impressione poco simpatica che, da prima, il personaggio le ispirava. E anche vinta quell’impressione, ella ha voluto circondare dello sciallo più possibilmente pudico e delle trine più riparatrici le aspre esposizioni di Conchita. Ma in compenso, e felice compenso, a questa ha regalato molta grazia femminile e un valore indiscutibile di interpretazione vocale. Ha cantato bene, efficacemente, non solo con intonazione ma con accento giusto; ha detto le frasi veramente passionali con precisione di intuito e di colorito. Il tenore Taccani si è un po’ sentito umiliato di apparire un Osaka, con gemme ed or, ma in vesti comuni e senza poter ripetere la invocazione dolcissima: Sollevami il velario. Ma, come negli altri spartiti, ha posto il suo forte buon volere e la sua voce bella a disposizione dell’infelicissimo Mateo riuscendo più volte a commuovere sinceramente l’uditorio. La signora Marck [sic] molto bene nella parte breve. E specialmente, date le consuetudini correnti e i mezzi dei nostri teatri, lodevolissima la concertazione, difficile per molte ragioni. Le scene del primo e del secondo atto, che richiedono delle vere masse capaci di azione, sono state eseguite con intelligente affiatamento, con una mobilità e un’esattezza rare. Indubbiamente l’orchestra sentiva di poter dare il contributo suo a un musicista di vero valore, e ha suonato non solo con diligenza, ma con affetto e con entusiasmo, cioè coi migliori requisiti per una esecuzione egregia. Ed è inutile aggiungere che a conseguire quella concertazione e a scaldare quell’entusiasmo ha validamente e principalmente cooperato il maestro Vitale che, oltre a una valentia incontestabile di direttore, possiede un vivo cuore di artista. 3.1.1/18 Egli certo ha data una cooperazione fraterna al successo del maestro Zandonai. Di questi, infatti, il pubblico plaudente ha detto: –È un compositore che ha la forza di camminare per vie sue.– 11 Enrico Boni, “Conchita” del m. Zandonai al “Costanzi”, «Il Popolo romano», 24.3.1912 - p. 2, col. 3-4 Il romanzo di Pierre Louys La femme et le pantin è noto e non è il caso di soffermarvicisi ancora: è romanzo audace, come gran parte della produzione dello scrittore francese, ma non è privo di interesse, anche perché a traverso la psicologia dei personaggi ha modo di affermarsi evidente. Tutti sappiamo però cosa accade quando di un romanzo a contenuto psicologico – sia pure di psicologia sommaria – si voglia fare un adattamento scenico. Abbiamo veduto, per citare un caso, Thais, il bel romanzo di Anatole France, perdere ogni efficacia e mutarsi in un libretto angoloso ed arido; il Werter [sic] trasformarsi nel dramma più grigio e pesante del teatro contemporaneo. Ma gli esempi di riduzioni infelici sono stati tutti superati da cotesta Conchita. Arte d’eccezione? Eh via! Prima di tutto l’arte d’eccezione mal si adatta al teatro, che ha intendimenti più universali di quelli che non abbia il libro; ed in secondo luogo anche in questo genere d’arte – per il quale io ho una personale predilezione – c’è da distinguere; e cotesta Conchita, così quale appare nella sua riduzione scenica, non solamente non è arte d’eccezione ma non è neppure arte, ché arte non può dirsi una cosa che offende. Sparita la personalità di Pierre Louys, il quale con la sua abilità di narratore poteva farci accettare anche le situazioni più scabrose ed avvivarle e nobilitarle con la virtuosità artistica, il libretto rimane, nella sua nudità rappresentativa, quanto di meno... verecondo si possa immaginare. Noi assistiamo, in sostanza, ad una volgare avventura amorosa, che si trascina per quattro lunghi atti, tra una fanciulla raffinatamente perversa ed un imbecille che finalmente, un bel giorno, avendone abbastanza, afferra la povera ragazza e - nobiltà grandissima dell’arte! – le somministra al cospetto del pubblico tale una grandinata di busse da lasciarla in terra pesta e malconcia. Altro che conflitto di anime! Qui si tratta di portare alla ribalta l’uomo bestia, con tutte le sue più bestiali aberrazioni. E di questo francamente si poteva fare a meno. Un simile libretto avrebbe fatto perdonare la volgarità delle situazioni solo quando la musica avesse potuto elevarsi a tale altezza di sentimento, a tale veemenza di passionalità da nobilitare un poco la crudezza dell’espressione e della rappresentazione. Ma poteva la musica trarre materia d’ispirazione da un simile conflitto di bassi istinti? Io non so; ad ogni modo al m. Zandonai non è riuscito: non è riuscito a lui, come forse non sarebbe riuscito a nessun altro, di darci – sia pure per un solo momento – una commozione vera, sentita. Noi non gliela chiedevamo secondo le vecchie norme melodrammatiche: egli poteva darcela nelle forme che a lui sembravano più rispondenti al suo temperamento, purché questa commozione risultasse. Il che non avviene. Ed è peccato questo, ché io avrei voluto dire del m. Zandonai tutto il bene che penso, e manifestargli intero il mio compiacimento per le sue doti musicali veramente notevoli. Il m. Zandonai è soprattutto un sinfonista; adopera l’orchestra con una padronanza grandissima e con una varietà pittoresca di timbri e d’impasti, nei quali raramente si può scorgere l’imitazione di chicchessia. Egli ha affermato una personalità, mostrando di poter percorrere la sua via con intendimenti ben propri. 3.1.1/19 L’opera costruita con criteri moderni si svolge essenzialmente su un vasto tessuto tematico-sinfonico, ove tutte le risorse di una straordinaria tecnica sono adoperate con risultati oltremodo felici. V’hanno, nello spartito, particolari squisiti, atteggiamenti di una grazia e di una eleganza incomparabili, come il duetto dell’atto secondo, o il preludio dell’atto terzo: esempio raro di quel che i tedeschi chiamano Stimmungsbild, pittura d’ambiente. Ma questo smagliante tessuto sinfonico è spesso troppo sproporzionato al soggetto, il quale, ripetiamo, non meritava che un musicista della forza del m. Zandonai vi andasse profondendo la genialità vittoriosa del suo ingegno. Ad ogni modo, è il caso di dire che la giovine scuola italiana può ora nel Zandonai vantare uno dei suoi migliori artisti; uno di quegli artisti destinati a continuare le più belle tradizioni nostre, e che forse potrà dirci la parola nuova che attendiamo. 12 [Teatri di Roma], «Il Popolo romano», 24.3.1912 - p. 3, col. 1 Costanzi – Un pubblico elettissimo assistette, ieri sera, alla prima rappresentazione della Conchita del m. Riccardo Zandonai, nuova per Roma. La sala presentava l’aspetto delle grandi occasioni [...]. L’opera, del cui valore ci occupiamo in altra parte del giornale, veniva a chiedere al nostro pubblico la conferma del successo già ottenuto lo scorso autunno a Milano. E il successo non mancò; e se non fu molto caloroso fu in compenso serio. Ad ogni calar di sipario si ebbero circa quattro chiamate agli artisti e al m. Zandonai, che il pubblico volle alla fine dell’opera salutare da solo alla ribalta. L’uditorio fu unanime nell’apprezzare quel che di buono c’è nell’opera, come unanime fu nel riprovare certe crudezze di espressioni e di situazioni, in cui l’arte sconfina e non ha più nulla da vedere. Il giudizio non poteva essere più equo. L’esecuzione apparve complessivamente pregevole. La signora Ersilde Cervi-Caroli, la quale nella presente stagione ha avuto campo di farsi largamente apprezzare, vinse una bella battaglia con l’interpretazione del difficile personaggio della protagonista. Essa vi portò il fascino delle sue doti di attrice e di cantante eletta, riuscendo quasi sempre a comporre il personaggio in una linea sobria ed efficace, fuori dei consueti modelli di Carmen. Il che non è poco merito. Il tenore Taccani cantò con grande slancio, mettendo in piena evidenza la sua voce simpatica e resistente, e pur vincolato da una parte piuttosto ingrata, non smentì la sua fama di artista coscienzioso e versatile, il quale può per la sua intelligenza misurarsi nelle interpretazioni più disparate. La signora Mark [sic] fu assai apprezzata nella breve parte della madre di Conchita; e degne di encomio risultarono le parti minori, tra cui ricorderemo la signora Lucia Torelli, la Flory, l’Alemanni, la Falchero, il Gubbiani, il Rossi e gli altri. Il m. Vitale ha concertato l’opera con quell’amore e quel senso d’arte che gli sono propri. La sua direzione fu come al solito ammiratissima. Questa edizione di Conchita ebbe nel maestro Vitale il miglior collaboratore. Nell’a-solo per violino del preludio dell’ultimo atto piacque assai il prof. Ciro Renzi, che l’eseguì con grande perizia e sentimento. I cori, che hanno parte importante e difficile, riaffermarono l’ottima guida del m. Paride Soffritti. [...] 3.1.1/20 13 T. Montefiore, “Chonchita” [sic] di R. Zandonai, «La Ragione», 25.3.1912 - p. 5, col. 1 La nuova opera di Riccardo Zandonai: Conchita, giunta iersera al Costanzi dopo l’esito notevolissimo incontrato al Dal Verme di Milano lo scorso anno, trovò fra noi vivo successo di ammirazione per il valore singolare che artisticamente rappresenta, e se non può dirsi riuscisse caldo, certo apparve serio, sincero e, sopratutto, confidente. Riccardo Zandonai, ognuno l’ha compreso iersera, sebbene sia un giovane che comincia, offre già l’intera misura di un maestro arrivato, di un ingegno vigoroso e ben maturo per spiccare al teatro altissimo volo. Il pubblico, del resto, non lo conobbe mai principiante: ché nella sua prima opera Il Grillo del focolare, rappresentata nel 1908 a Torino fra gli inni della critica, quella sua magnifica facilità di concezione, quella scioltezza di mezzi scenici che s’incontrano soltanto in un compositore di consumata esperienza, avevano affermato dal primo momento la figura nobilissima di un artista completo. In Conchita egli appare sciolto da qualsiasi vincolo delle forme consacrate, per mescersi alla evoluzione contemporanea pur senza servile imitazione: anzi incamminarsi per una via nuova nella quale resti però impressa l’orma di schietta italianità. Colla scorta di siffatto concetto, il Zandonai ha voluto conservare l’assoluto predominio della parte vocale. L’orchestra adoprata con arte elevata, ricca di ogni finezza e spesso di vere trovate, sottolinea il dramma e ne intensifica l’espressione. Il procedimento della composizione è sempre libero; l’unità è ricercata nello sviluppo dei disegni che si profilano via via e s’inseguono con irrequieta mobilità di ritmi. Vi si innestano frasi di canto talvolta ardenti ma non mai profondamente appassionate; né tuttavia apparisce un pensiero melodico di grande respiro come ha caro il pubblico italiano, perché indeclinabilmente caratteristica del genio nazionale e indispensabile alle emozioni che dalla scena si attendono. Abbiamo accennato a irrequietezza di ritmo e conviene soffermarsi su questo punto. Il Zandonai affetta di scansare le consuete divisioni di tempo, sebbene sovente si tratti di sola apparenza come nella adozione del 4/2 che gli piacque introdurre, mentre il contrasto continuo delle figurazioni, la particolarità di qualche divisione (notiamo il 5/8 che può suddividersi in un movimento di tre e di due) denotano avviamento a conquistare una personalità forse capace di assoluta affermazione più tardi. Ma intanto la permanenza dell’irrequieto produce stanchezza all’orecchio dell’ascoltatore. Ad ogni modo v’è in Conchita qualche cosa che avvince e conquide: il tocco magistrale rivelato ad ogni passo, il vapore di poesia che avvolge l’ambiente. Sarebbe difficile asserire vi sia ritratta la vera Spagna o negarlo: certo ci troviamo dinanzi un quadro corrispondente al sogno che di quel paese possiamo aver fatto per le descrizioni degli scrittori e sopratutto per quanto risulta dai riflessi della canzone spagnuola. Sarà ambiente convenzionale, ma riesce completamente suggestivo: gli scopi dell’arte sono dunque per intero conseguiti. Vapore di poesia intorno a Conchita? Il Zandonai ha dunque reso possibile l’impossibile colla sua arte; poiché sarebbe arduo trovare personaggio più repulsivo, soggetto meno indicato agli onori della scena lirica: così l’averlo tentato è per lui merito e demerito al tempo stesso. Recare al teatro la psicopatia d’una donna, lo spettacolo di un’anima degenerata che esercita il tormento del suo vizio sopra una marionetta – così volle chiamare il paziente, l’autore del romanzo originario: La femme et le pantin – ripetendo la medesima situazione all’infinito, è aberrazione pericolosa dalla quale parrebbe difficile trarsi a salvamento. Ah, bisogna pur credere che uno spirito malefico spinga i nostri giovani maestri sulla via scoscesa della perdizione! Ma possono credere, da vero, di secondare il gusto corrente? In tal caso si disilludano: il pubblico italiano deplora simile andazzo, né si lascierà traviare. E poiché il Zandonai suscita tanta speranza, innalzi egli lo spirito a più spirabil aere. 3.1.1/21 * Quanto abbiamo detto ci dispensa da minute analisi. Tuttavia accenneremo ai brani più rilevanti della interessante partitura che sono: il racconto di Conchita all’atto primo; la scena sulla strada a sipario calato, il che non giova all’effetto; la tenerissima chiusa del duetto alla taverna, la quale converrebbe raccorciare; la magnifica pittura che incornicia il quadro dinanzi alla cancellata. L’atto ultima sembra il più debole: l’intermezzo che lo precede (v’è abuso d’intermezzi) è poco significante; l’unica scena, che chiude l’opera, risulta fredda. Malgrado le deficienze notate, l’opera del Zandonai lascia profonde impressioni e desiderio di nuove audizioni per meglio assimilarla. Il maestro, evocato ad ogni atto, venne fatto segno, alla fine, ad ovazioni nutrite. L’esecuzione apparve nell’insieme felice; in primo luogo per il contributo prezioso di Edoardo Vitale concertatore valentissimo nel non facile compito affidatogli, non che per il perito singolare dei due principali interpreti: la signora Cervi Caroli ed il tenore Taccani, entrambi gareggianti di zelo e di efficacia drammatica. Per lunedì si annuncia la seconda di Conchita e per martedì la serata in onore di Emma Carelli coll’ultima di Elettra. 14 Roberto Falciai, “Conchita” di Zandonai al Costanzi, «The Roman Times», [?].3.1912 - p. 1, col. 1-2-3 In verità ci attendevamo qualcosa di meglio, sia per il successo quasi entusiastico che l’opera riportò al Dal Verme di Milano, sia per le buone speranze a cui dava adito il Grillo del Focolare. Anzitutto il libretto è difettoso: cosa comune, questa, alle opere nuove che da qualche tempo in qua ricevono il battesimo sui nostri teatri, incominciando dalla Isabeau, che in qualche punto è semplicemente esilarante, ed eccettuando forse la sola Fanciulla del West in cui il Puccini ha trovato il soggetto perfettamente adatto al suo temperamento artistico. Il libretto, dunque, è difettoso. Esso è tratto da La femme et le pantin di Pierre Louis [sic], ma mentre nel romanzo la figura strana di Conchita è dipinta a perfezione nei suoi atteggiamenti ora pieni d’amore ora pieni di femminile malvagità (ed è vera malvagità, subitanea ed irragionevole, quella, per esempio, di abbracciare e di trascinarsi in casa Morenito, proclamandolo suo amante al povero ed innamoratissimo Matteo che delira oltre le sbarre inesorabili del cancello, quando poi Morenito non solo non è suo amante, ma nemmeno suo amico), mentre dunque nel romanzo la figura di Conchita vive, di vita irreale, se volete, ma vive, nel libretto dell’opera questa figura è appena abbozzata in qualche tratto, caratteristico sì, ma che – privo della coordinazione dei fatti e dei sentimenti – suscita l’illusione di una palla che ora rotoli tranquillamente sul terreno ed ora schizzi verso il cielo, senza una chiara forza motrice. Per esempio, se il pubblico sa spiegarsi perché Conchita, dopo aver promesso a Matteo di essere l’indomani sua, giunga a quel pazzo grado di sdegno quando apprende che egli ha lasciato nascostamente dei denari, e – persuasissima che il giovine abbia così voluto pagarla anticipatamente – fugga di casa per salire le tavole di un lubrico caffè-concerto, il pubblico, dico, rimane poi stupito dall’improvviso suo ritorno dall’odio alla passione dolcissima, quando Matteo, sorpresala a danzare nuda dinanzi a tre inglesi, la rimprovera violentemente. E ancor più stupito del nuovo subitaneo ritorno all’odio intenso e malvagio (vedi l’episodio citato sopra) e quindi ancora, e per ultimo, all’amore, dopo che il giovine in un accesso di rabbia l’ha battuta – quantunque l’inverosimiglianza di questa situazione sfugga a molti spettatori per la drammaticità intrinseca e per la bellezza della musica che la riveste. 3.1.1/22 In quanto alla musica, ecco, noi preferiamo non darne ampi giudizi, o tutt’al più considerarla in sé stessa senza ricavarne la personalità dell’autore, il quale noi crediamo si trovi in quel periodo in cui si cerca la via per l’espressione delle proprie idee. La via, a parer nostro, il Zandonai non l’ha ancor trovata; e ci rafforza in questa opinione la sua giovane età anzitutto, e poi la cura che egli si prende di evitare i soliti effetti orchestrali. In ogni modo, nella musica della Conchita c’è ispirazione, non dappertutto, non sempre genuina, spesso impastoiata e soffocata. Si vede che l’autore ha il concetto del quid che entusiasma le platee, almeno in Italia: la frase lunga e melodiosa (non bisogna dimenticare che il Zandonai è allievo di Mascagni). Ciò che gli manca è la sicurezza e l’indipendenza assoluta delle parti, in modo che il pensiero musicale appaia chiaro e limpido dinanzi agli spettatori. Ma, ripetiamo, il concetto c’è. Il preludio, per esempio, del terz’atto è veramente bello, ricco di melodia e di passione. Quasi diremmo che in esso il concetto è attuato. Non così nella descrizione della notte sivigliana, nello stesso terzo atto, al principio. Qui le buone intenzioni ci sono, ma difetta l’originalità delle idee e del ritmo. Lo stesso dicasi di qualche altro brano dell’opera. Bisogna poi aggiungere che al successo contribuì l’esecuzione quasi perfetta. Il maestro Vitale concertò e diresse con una esattezza meravigliosa. La signora Cervi Cairoli [sic], nella difficile parte della protagonista fu ottima sotto l’aspetto lirico e drammatico. È inutile qui tessere ancora una volta gli elogi della sua voce bellissima, chiara e squillante, e della sua interpretazione scenica. Il tenore Taccani fu anche un ammirabile Matteo, dalla voce pastosa e ben timbrata, ma deve ancora acquistare la sicurezza dell’interpretazione e dei movimenti. Accuratissimo e superiore ad ogni elogio l’allestimento scenico. A Riccardo Zandonai, di cui in ottobre si rappresenterà un’altra opera, facciamo i più vivi auguri, affinché egli presto trovi la strada alla sua ispirazione e ascenda verso la fama del suo glorioso Maestro. 15 Conchita. Nuova opera del Maestro Riccardo Zandonai su libretto di Moris Vancaire [sic] e Carlo Zangarini rappresentata al Costanzi la sera di sabato 23 marzo 1912, «Rivista artistica» III/7, 31.3.1912, fasc. I, pp. 3-4 (con grande fotografia di Giuseppe Taccani) La Direzione del Costanzi aveva in principio di stagione annunziate tre novità: l’Elettra, la Conchita e i Figli di Re; ma quest’ultima è mancata per motivi non ancora conosciuti. Certo che la Conchita costituiva una delle più grandi attrattive specie per le discussioni che sollevò fin dal 14 ottobre 1910 [sic] allorché venne la prima volta rappresentata al Dal Verme e da Tarquinia Tarquini. Data appunto l’aspettativa vivissima, il teatro era l’altra sera gremito di quanto più elegante ed aristocratico conta Roma. Anche la colonia straniera vi era largamente rappresentata. Riccardo Zandonai ha trovato nel Maestro Vitale un interprete felice e maraviglioso del suo pensiero, e il grande maestro – che quest’anno ha diretto con tanta anima, con tanta passione e con alti intendimenti artistici l’importante stagione lirica del maggior teatro romano – ha ottenuto con questa sua nuova interpretazione un nuovo colossale trionfo. Alle 9 precise l’opera è cominciata. È bene prima di ogni altra cosa dire che Riccardo Zandonai, nato a Sacco [nel] Trentino, ha studiato musica al Conservatorio di Pesaro diretto da Mascagni dove venne diplomato nel 1902. 3.1.1/23 Dopo soli due anni ottenne un pensionato artistico a Vienna, per il suo poema sinfonico dal titolo: Il ritorno di Odissea [sic]. Tre anni fa dette alle scene la prima opera: Il Grillo del Focolare, tolta dalla novella del Dikens [sic], che venne rappresentata con successo colossale a Torino, a Genova e al Casinò di Nizza. Fin d’allora si predisse al giovane maestro il più luminoso avvenire e la critica unanime riconobbe in lui uno di quei forti ingegni dai quali tutto spera il teatro lirico italiano. La Conchita venne da lui scritta nel 1810 [sic]. Il libretto di Moris Vancaire [sic] e Carlo Zangarini è stato tolto dal romanzo di Pierre Louis [sic]: La femme et le pantaine [sic]. *** Tradurre in versi La femme et le pantaine e rivestire questi versi di musica non credo sia cosa del tutto facile. Il romanzo di Louis si può leggere. Sarà un romanzo scollacciato quanto si vuole, ma non manca di un certo interesse e di genialità e poi come pittura di ambiente, come magnifica descrizione di caratteri e di tipi deve assolutamente accettarsi. Ma portare sulla scena e sulla scena lirica tutto quel luridume che non verrebbe accolto nemmeno in un infimo teatro di pochades, credo sia stato sbaglio fenomenale, imperdonabile. E questo libretto sconcio, immorale, non contiene nemmeno versi passabili. È uno zibaldone racimolato così alla meglio sotto il titolo del quale non vorrebbe mettere il suo nome nemmeno un ragazzo di seconda ginnasiale. Ma lasciamo il libretto che non merita davvero l’onore di essere discusso e veniamo subito alla musica. Fin dalle prime battute il pubblico rimase vivamente impressionato dalla purezza dello stile, dall’ispirazione e dalla vastità di vedute del giovane ed egregio autore. Riccardo Zandonai dopo il primo atto si era già imposto e tutti riconobbero in lui un forte musicista, un genio che si rivela, una sicura promessa del Teatro. E difatti in questo primo atto: La fabrica di Siviglia l’egregio maestro è stato così potentemente descrittivo che il pubblico si è inteso del tutto conquiso. La sua musica prettamente italiana differisce da quella degli altri compositori moderni. Egli con mezzi semplici ha saputo trarre tutti gli effetti che ha voluto. Seguendo le tradizioni della nostra lirica, ha scritto musica nazionale pure adattandola all’ambiente in cui fa svolgere l’azione. Il racconto di Conchita è di una bellezza indicibile. Questo brano delizioso, che rivela e descrive l’animo malvagio della protagonista che fa sentire i suoi fremiti, che svela i suoi pensieri, che penetra nell’animo suo come un coltello anatomico nel corpo del cadavere per aprirlo e mostrarlo interamente, è semplicemente meraviglioso. In questo brano è dimostrata l’alta coltura, la profondità di studi e l’anima eminentemente artistica del maestro Zandonai. L’intermezzo nella strada, in stile sinfonico, è un’altra pagina di squisita fattura il cui ritmo risente di quella musica spagnuola che colorisce l’ambiente. Potentissima è la scena del baile del secondo atto, e magnifico il duetto d’amore con cui questo si chiude. Nel terzo atto pieno d’ispirazione lo Zandonai è stato un vero pittore. Chiudendo gli occhi ed ascoltando la sua musica piena di effetti straordinari, ci trasportiamo con l’anima in quella notte andalusa e sentiamo le medesime sensazioni che dovrebbero sentire gli eroini [sic] del romanzo. La scena del camello [sic] è stata resa musicalmente con strana vigoria, con potenzialità straordinaria. Tutto poi l’ultimo atto, compreso il brano sinfonico che lo precede, è un fine lavoro di cesello, è un merletto, che fa scattare il pubblico più freddo ed indifferente. 3.1.1/24 Insomma da questo lavoro giudicato da tutti una vera opera d’arte si può predire allo Zandonai la prossima gloria, l’imminente realizzazione dei suoi sogni di poeta ed artista. Il pubblico ha accolto la Conchita con l’entusiasmo più grande e le maggiori feste ha fatto al maestro Zandonai e agli interpreti della sua opera. Alla fine di ogni atto artisti, autore e maestro concertatore furono evocati al proscenio da applausi calorosi entusiastici. L’esecuzione è stata del tutto degna dell’importante première. Ersilde Cervi Caroli, la cantante deliziosa, affascinatrice, l’attrice perfetta, simpatica, moderna, la donna bellissima, ha interpretato la parte di Conchita con veri sentimenti d’arte. Quantunque per incarnare tale strano ed immorale personaggio sarebbe occorso un altro temperamento artistico e non un’anima buona ed eletta quale è la sua, pure ha cercato ogni mezzo per riuscire e quando si possiede il suo valore, la sua coltura musicale e sopratutto i suoi mezzi vocali non poteva certo essere meno. E nel primo atto la grande artista è stata meravigliosa. Nel racconto ha dato sfoggio di quella paradisiaca voce di cui è fortunata possessrice [sic], e al termine fu acclamata ed applaudita con entusiasmo commovente. Gli applausi calorosi continuarono per lei nel secondo e nel terzo atto, e nell’ultimo in specie, dove, nella forte scena con Mateo, si è rivelata di una forza interpretativa maravigliosa. Mateo, il buon Mateo, il mite Mateo pazzamente innamorato di quella strana donna strana e volgare, è stato reso dal tenore Taccani in modo davvero strabiliante. Egli, artista elettissimo di non comune valore, ha profuso da gran signore quel tesoro di voce che possiede e che lo rende uno dei tenori più ricercati ed acclamati che onori il teatro lirico. Giuseppe Taccani, divenuto ormai l’enfants [sic] gaté dell’aristocraticissimo pubblico del Costanzi e che ora l’America ci rapisce, è riuscito con la sua voce deliziosa e con la sua arte squisita [a] farci provare le più strane sensazioni e a trascinarci, in ogni brano in cui era richiesto il cantante e l’attore, ad un applauso irrefrenabile. Il tenore Taccani è uno dei pochi artisti che fanno la vera arte ed è un vero tesoro per le imprese che hanno la fortuna di averlo tra gli scritturati. La signora Mareck, tanto applaudita ed ammirata nella parte di Azucena del Trovatore, è stata felicissima interprete della parte di madre. Ed anche Lei, con la sua voce straordinariamente bella e con il possesso assoluto della scena, ha contribuito al colossale successo dell’opera. Come pure il baritono Mario Gubiani [sic], cara conoscenza del nostro pubblico, simpatica figura di artista [che] è stato elemento prezioso in questo importante spettacolo. Ottimo come sempre lo Schottler baritono simpatico e valente che in qualunque parte che gli viene affidata porta sempre quella nota di signorilità che gli è innata. La gentile signorina Giuseppina Falchero, che avevamo ammirato quale deliziosa Musette nella Bohème, ha interpretato le due parti di Dolore [sic] e Pepita, confermandosi cantante di non comuni meriti e di sicuro avvenire. 16 eva., “Conchita” di R. Zandonai al teatro Costanzi, «L’Illustrazione di Roma», [?].3.1912 (con fotografia di Zandonai) L’annuncio di questa prima tanto sospirata superava di molto l’importanza – di per sé stessa tanto grande – di una novità: alla nuovissima per Roma si accoppiava il nome di un 3.1.1/25 giovane e valoroso compositore, Riccardo Zandonai, già tanto in alto per la sua personalità eminentemente artistica, ma assolutamente nuovo per il pubblico. Più che giustificata allora l’ansiosa aspettativa che – dopo la rappresentazione – si è tramutata per il pubblico in una felicissima rivelazione, e per gli studiosi in una grande affermazione del forte ingegno dell’autore. Non si è avuto, è vero, quel successo trionfale che consacra l’opera all’immortalità, ma non è colpa del compositore il quale, invece, nell’arditissima prova ha resistito tenacemente all’urto spassionato della critica: anzi, si deve alla forte fibra artistica di Riccardo Zandonai se l’opera, dato il suo mostruoso concetto, non è caduta. Successo, quindi, personalmente grande del maestro e che s’impone subitamente a quello un po’ difficile dell’opera, in complesso non molto piaciuta e criticata, causa prima ed unica le deficienze capitali di un volgare e squinternato libretto. *** Più che un adattamento scenico del famoso romanzo di Pierre Louys «La femme et le pantin», pregevole studio di anime pur nel suo materiale e desolante verismo, il libretto di «Conchita» può sembrare così a priori una parodia. Poiché nulla, in questo infelicissimo lavoro di Carlo Zangarini e Maurizio Vaucaire, è trasfuso della potente psicologia dei personaggi del romanzo: psicologia che da sola regge le sorti di quelle pagine e, forse, basta a giustificare la degenerazione e la sensualità bruta dell’ambiente. Togliete, dunque, questo al libretto – cosa che potrebbe essere l’unica sua buona dote come lo è per il romanzo – ed aggiungetevi, invece, un po’ di strafalcioni letterari – come quelli enormi che contiene – ed avrete così il lavoro dei Signori Zangarini e Vaucaire, una vera aberrazione sia letteraria che scenica, tale e quale è risultata. Conchita è una sigaraia di Siviglia, psicopatica, tutta materiata di pervertimento sensuale; Matteo de Diaz un elegante imbecille, vittima della propria amante: due protagonisti, insomma, che invece di interessare fanno rabbia a vederli sulla scena, e che si vorrebbero avere fra le mani per farne non so che cosa... certamente fuori che dei soggetti da teatro. Il lavoro dei due poeti, quindi, è caduto completamente: dall’ingegno di Carlo Zangarini e Maurizio Vaucaire avevamo diritto di aspettare ben altra cosa, fuori di questo insipidissimo libretto che non potrebbe suscitare ispirazione anche nel più esperto e sensuale compositore di musica da operette anche di quelle in sottanino e mutande e... con tanto di gambette. La lirica, voglio dire la vera opera, esige, vuole che il librettista rimanga in un campo molto più ideale e puramente artistico: cosa dunque poteva accadere per Riccardo Zandonai? Niente più di quello che è avvenuto. La musa, essa, la vera musa del valoroso maestro si è ribellata nel vedersi abbassare a tanta prostituzione di sentimenti e di idee, ed è stato giocoforza per lui scrivere la musica di «Conchita» – è evidente – lottando contro se stesso e contro i suoi nobili ideali d’artista. Infatti troviamo forse noi in tutto lo spartito una pagina che abbia realmente illustrato l’ambiente nella sua depravazione e ne abbia resa, nelle molteplici scene, tutta la bassezza e la perversità? No certamente. La forte ed insana passione che pervade tutta l’opera sì ricca di volgare erotismo, non poteva e non ha in alcun modo ispirato il musicista sano e puro nelle sue idealità, timido e delicato nel più profondo dell’anima sua; egli ci appare invece in tutto il bagliore della sua forza e maestosità nelle scene di colore, nelle quali si entusiasma, sente la vera poesia, fa cantare la sua anima di sognatore e crea ispiratissime pagine, brillantissimi quadretti, suggestivi, pieni di brio e veramente indimenticabili. In questi tratti soltanto è apparsa tutta la personalità spiccatamente artistica di Riccardo Zandonai colorista e sinfonista esperto, ma soli questi brani da lui sì divinamente scritti, sì originalmente creati, ed istrumentati con una sapienza degna della più alta fama sono stati sufficienti per decretarlo unico e solo in Italia capace di possedere tanto valore istrumentale. Egli possiede tutti i segreti della moderna orchestrazione e non imita alcuno: procede su un 3.1.1/26 cammino fiorito delle più belle speranze a non altro mirante che alla indipendenza delle proprie forze. Qualcuno ha osato far parola sulla mancanza di vena melodica e di ispirazione da parte del maestro: quest’accusa non regge – poiché è proprio un’accusa –, a noi pare di averlo già dimostrato col dire che la natura del libretto così plateale e bassa non è consone assolutamente con i forti sentimenti del musicista: del resto tutti i duetti fra Conchita e Mateo non sono che dialoghi, tutti sulla stessa maniera e sulle stesse intonazioni volgari: versi e frasi spezzate che in alcun modo danno adito ad ispirata melodia. Analizzare profondamente lo spartito mi parrebbe cosa utile ma d’altra parte lo spazio molto limitato me lo vieta: accennerò piuttosto ai brani più belli dell’opera e che meritano di essere ricordati a lode dell’autore. Nel primo quadro, nella fabbrica di Siviglia, brillantissimo è lo scherzo orchestrale sul quale si svolge il cicaleccio garrulo delle spensierate e mordaci sigaraie e s’intese il racconto di Conchita; poi molto vivace la scena del Baile con la jota e la canzone dei bevitori di splendido effetto. Dei duetti fra Conchita e Mateo l’unico meritevole di ricordo è quello al secondo atto, squisitamente fino e toccante; mirabilissimi sono per finezza e colorito i vari intermezzi sinfonici: il primo nella strada che ci conduce alla casa di Conchita attraverso le vie chiassose di Siviglia è tutto nella sua originalità, di tipo spagnuolo; l’ultimo più bello ed efficace è il preludio del terzo atto fatto di finezze vaporose ed iridescenti che ci dà, nell’illusione del sogno, la realtà a tutto l’incanto misterioso di una placida notte iberica avvolta dai raggi lunari, calda di romanticismo, inondata di canti e vaghi profumi. Questa è la pagina più sublime di Conchita e che rivela magnificamente tutta la maturità piena e vigorosa dell’ingegno di Riccardo Zandonai. Bellissima anche la chiusura dell’opera. E concludendo, ci pare ovvio dire ancora una volta che dopo la rivelazione del maestro con il Grillo del focolare sia stata più che una riaffermazione: è stato un passo avanti che felicemente prelude a nuova conquista. Noi salutiamo pertanto in Riccardo Zandonai una futura gloria dell’arte italiana: perseveri egli, sia accorto piuttosto nella scelta di questi libretti che le forche caudine editoriali impongono tanto facilmente: i nostri migliori e più sinceri auguri accompagnano il suo alato ingegno nel fervido lavoro della «Melenis». *** L’esecuzione fu lodevolissima sotto ogni rapporto. Primo fra tutti a raccogliere vere lodi fu il m. Vitale che con amore veramente fraterno concertò l’opera. La Sig.ra Ersilde Cervi Caroli nella parte di Conchita si comportò molto bene: fece sfoggio della sua bella voce calda ed intonata e si fece meritatamente applaudire. Così pure il tenore Taccani che si riconfermò vero artista anche come scena veramente pregevole. La sig.ra Marek [sic] fece anche molto bene nella breve parte della madre di Conchita, e così Lucia Torelli, Giuseppina Falchero, la Bucciarelli, la Flory, lo Schottler, il Gubbiani, il Rossi ed il Gironi. Bellissima la messa in scena. Il m. Vitale unitamente ai protagonisti venne applaudito caldamente alla fine di ogni atto ed al termine dello spettacolo. 17 Il M.° Riccardo Zandonai e la sua opera; Conchita rappresentata al Costanzi, «La Vita artistica», 30.3.1912 Riccardo Zandonai, l’autore di Conchita, nacque a Sacco nel Trentino nel 1883. Studiò a Rovereto col maestro Gianferrai [sic]. Passò poi a Pesaro sotto Mascagni ove compiva gli studi in solo tre anni. 3.1.1/27 Dodicenne, cominciò a comporre e nel 1902 diede alle stampe una romanza presso lo Schott di Bruxelles, e nel 1906 per cura degli “Amici della Musica” una raccolta di melodie nelle quali si notano già le caratteristiche individuali del giovane autore. All’ultimo concorso Sonzogno presentò un lavoro in un atto La coppa del Re che venne poi premiato con un sussidio dal Ministero della Pubblica Istruzione di Vienna. Di passaggio a Milano fu da Arrigo Boito presentato a Ricordi pei quali scrisse la sua prima opera, Grillo del Focolare, rappresentata con successo a Torino nel 1908 e nel carnevale scorso a Genova e a Nizza. Conchita fu composta in un solo anno, dal luglio 1909 al 1910. Lo Zandonai ha già terminato un’altra opera, Melenis a soggetto romano. Il libretto dell’opera Conchita fu tratto dal romanzo «La Famme [sic] et le Pantin» di P. Louys da M. Vaucaire e C. Zangarini; in quattro atti e sei quadri. La musica dello Zandonai si ascolta con manifesta compiacenza; egli ha tratto partito da quanto gli si offriva, musicando cioè un soggetto privo di azione, conducendo il pubblico attraverso la monotonia di quattro atti, senza fargli sentire un attimo di noia; ha dato forma ed evidenza colle note ai vari momenti teneri e tragici degli incontri fra Conchita e Mateo; ha caratterizzato costumi ed ambienti che troppo grandi coloristi avevano tentato, senza cadere nella più materiale imitazione. Lo Zandonai raggiunge effetti notevoli nelle scene di sensualità delicata e nella pittura d’ambiente, come nel delicato e suggestivo intermezzo tra il primo e il secondo atto e nel chiacchierìo pettegolo delle sigaraie al prim’atto. Così il preludio di sapore massenettiano al quarto atto con a solo di violino è una delicata pagina musicale che fa onore al giovane maestro. Concludendo, lo Zandonai ha scritto una musica pregevole che può sostenere con successo il giudizio di qualunque pubblico. Le molte repliche che ne sono state date al Costanzi hanno fruttato larga messe di applausi all’autore, chiamato parecchie volte alla ribalta ad ogni fine di atto. Grandi feste avrà ancora alla rappresentazione che si darà certamente in suo onore. Il maestro Vitale concorse fraternamente al successo dell’opera, mettendone in chiara luce ogni bellezza. Sotto le spoglie di Conchita la signora Ersilia [sic] Cervi-Caroli dette nuova conferma delle sue squisite doti di cantante ed attrice. Il tenore Taccani, così favorevolmente apprezzato dal nostro pubblico, cantò come sempre con arte e sentimento, e coi due interpreti principali si distinsero pure al primo atto la signora Marek [sic], la signorina Falchero, la signorina Flory. 18 m[atteo] i[ncagliati], “Conchita” al Costanzi, «Orfeo» III/13, 31.3.1912 - p. 3, col. 4 Un grande, impreveduto avvenimento qual è quello dell’annuncio che il Nerone di Arrigo Boito è presso che terminato, ha occupato quasi tutto l’Orfeo, sì che della Conchita del maestro Zandonai, non per irriverenza ma per ineluttabile necessità di spazio, diremo in succinto e rapidamente. Conchita, il cui ambiente e i cui personaggi sono spagnuoli, non rivaleggia colla Carmen. È un’opera pensata e scritta con nobiltà d’intenti, con forma aristocratica, con alta idealità. Non una volgarità, non una frase che sia presa a prestito per suscitare emozioni nuove su motivi vecchi, non un pensiero che non rispetti la personalità del musicista. È un’opera codesta alla quale il pubblico rende omaggio e dalla quale è possibile trarre auspici lieti per l’avvenire del giovane compositore. Manca però in Conchita quella febbre, quella 3.1.1/28 esaltazione, quel pathos insomma per cui l’opera teatrale possa assurgere ad opera d’arte. Non v’è durante i quattro atti mai un attimo a traverso il quale la musica sussulti e ondeggi con tutti i fremiti della passione umana. Pare che lo Zandonai, preoccupato della parte formale, abbia posto da parte con dispregio tutta quell’intima poesia delle passioni umane, ch’è la sola a dar vita alla musica. Psicologia occorreva, e psicologia che desse la fisionomia dei personaggi e il grado dei vari stati d’animo. Troppo elementi descrittivi concorrono a far della Conchita una sinfonia squisita, preziosa, bella, ma troppo insensibile. V’è da credere che quest’opera sia stata così concepita per dar la misura del valore tecnico del musicista. Ora occorre ch’egli si riveli operista. Nella Conchita si confermò artista sommo il maestro Vitale, che fu il vero prezioso collaboratore dell’autore. L’orchestra, sotto la bacchetta del maestro Vitale, fu superba. Ottimi la Cervi-Caroli e il tenore Taccani, che fecero sfoggio della loro bella voce e della loro arte interpretativa. Sontuosa, caratteristica la messa in scena. 19 Conchita, «La Maschera» XI/4, 15-30.2.1930 - p. 1, col. 6 / p. 2, col. 1 (con foto di A. M. Martucci) Meraviglioso quadro quello in cui è stata tessuta la prima rappresentazione di Conchita: intervento eletto, preparazione accurata e felice, spettacolo sublime. Si sapeva e si presagiva l’interessamento per l’opera di Zandonai, ma il maestro è apparso ancora più grande ed ha riportato un successo veramente lusinghiero. Egli ha dato all’opera sua tutta la mirabile ricchezza delle sue virtù musicali, profuse in meravigliosa armonia in motivi che scaturiscono spontanei nelle varie interpretazioni del romanzo. È tutto un ricamo sottile che Zandonai ha fatto: egli si è addentrato in tutta la trama del lavoro e lo ha commentato in ogni sua parte con indovinazione magnifica, con slanci che culminano talvolta in ardite e nuove trovate liriche. Perciò il lavoro ci appare tanto interessante, tanto nuovo e tanto promettente. La rappresentazione ha avuto il suo pieno successo e del resto il romanzo è apparso pure interessante ed in molte parti alquanto originale. Gli artisti hanno corrisposto egregiamente alle esigenze del lavoro e la esecuzione musicale è stata precisa e fedele interprete delle note vergate da Riccardo Zandonai. Rosina Torri (Conchita), cara conoscenza del pubblico romano che la ricorda fervida ed appassionata interprete di “Liù”, è stata semplicemente grande. La sua voce ha morbidezze calde e vellutate, agilità impressionante, che sa trovare accenti vibranti di accorata commozione. Le sue cospicue qualità di canto, del vero canto italiano, pongono infatti questa squisita creatura tra le più fulgide vedette della lirica italiana. Rosina Torri, nell’opera del maestro Zandonai, ha voluto presentare al pubblico del Reale una interpretazione fedele ed integrale facendo ammirare sempre più la sua arte scenica ed i suoi meravigliosi mezzi vocali ricchi di sorprendenti risorse. L’uditorio rimase profondamente compreso e le rivolse calorose e sincere ovazioni. Degno compagno le fu il giovane tenore Francesco Battaglia che nelle vesti di “Mateo” riportò un vibrante successo. La sua voce di timbro simpaticissimo e carezzevole risuonò nella sala magnifica fra il vivo godimento del pubblico. Egli infatti, con la sua voce di facile emissione, estesa, pieghevole, che modula con vero sentimento e con arte e padronanza assoluta della scena, è stato pieno di risorse insperate. 3.1.1/29 Francesco Battaglia compose il personaggio con tocchi di efficacia e di sentimento ammirevolissimi e conferisce al canto melodiosità di accenti, cosicché le sue note basse e quelle acute si diffondono con bella sonorità ed impeccabile misura. In complesso si è rivelato artista di eccellenti risorse vocali e sceniche ed i molti applausi che gli furono diretti sono la migliore constatazione del bel successo conseguito. Ottima “Madre” fu giudicata Anna Gramegna per bella voce, per l’arte impeccabile e pel sentimento che profuse nella interpretazione della sua drammatica parte. Anna Maria Martucci, gentile e vibrante interprete, tanto simpaticamente nota al pubblico romano, si è fatta molto apprezzare per la sua voce estesissima, squillante, flessibile ed agile. Questa giovane cantatrice possiede cospicue doti artistiche, intuito musicale di prim’ordine, orecchio perfetto e quadratura non comune che le consentono di accedere a maggiori e più complesse responsabilità, cosa che noi le auguriamo di gran cuore. Ottimamente si sono prodigate Lucia Bonetti, Tosca Ferroni, nonché Adolfo Pacini e Baronti i quali hanno concorso alla riuscita dello spettacolo bene organizzato e diretto da Marcello Govoni. Gino Marinuzzi ancora una volta si è rivelato interprete di singolare valore, recando nella direzione e nella concertazione dell’opera profondo senso di equilibrio, impeto lirico e calore comunicativo. Molto bene i cori istruiti dall’infaticabile maestro Andrea Morosini. Di bello effetto le scene di Pieretto Bianco. 20 Alberto Gasco, “Conchita” di Zandonai al Teatro Reale, «La Tribuna», 25.2.1930 - p. 3, col. 3-4-5 (con la riproduzione del bozzetto di una scena del secondo atto) Credevamo che la Conchita di Riccardo Zandonai avrebbe destato in noi sensazioni notevolmente diverse da quelle che avevamo provato diciotto anni or sono, vedendola ed ascoltandola per la prima volta. Invece essa ci ha lasciati, come allora, un po’ esitanti, se pure tutt’altro che insensibili al suo fascino. La ammiriamo, senza essere disposti, tuttavia, a suicidarci per i suoi begli occhi. Ciò dipende non dalla musica – che ha meriti insigni – ma dal libretto dell’opera. A parte ogni questione di moralità (dopo la Salomè, accettata a cuor leggero, ogni diatriba del genere diventa ridicola), si osserva che i vari episodi del dramma non sono collegati abilmente, cosicché nel passare dall’uno all’altro si deve saltare sempre qualche fossatello (pieno d’acqua poco pulita). Lasciamo Conchita amorosa e mite e la ritroviamo poco dopo iraconda e maligna come una scimmia abbeverata di fiele, senza poter comprendere il perché del suo mutamento catastrofico; la vediamo accettare con giubilo il regalo di un napoleone d’oro e poi diventare furiosa come una tigre stuzzicata con un ferro rovente, quando si offre alla sua degna mammà un biglietto da mille. Conchita è pura e difende la sua verginità con la fierezza di un’amazzone, ma parla come una sgualdrina e promette le sue grazie con tanta disinvoltura da stupire anche una legione di satiri. Chi potrebbe pesare l’oro e il fango dei quali codesta femmina è materiata? La sua sorella maggiore, Carmen, agisce in modo sempre chiaro: spavalda, sensuale e spietata, ha un carattere ben definito: date le sue tendenze (poco raccomandabili) ella si diporta sempre logicamente. Vuole il proprio piacere e null’altro: insensibile alle sofferenze altrui, desiderosa di lottare, affronta le peggiori situazioni con un sorriso di sprezzo, si busca una magnifica coltellata nella pancia e ispira a Giorgio Bizet un capolavoro. Conchita, invece, scivola tra le mani, come un’anguilla spalmata d’olio. È tanto cattiva che la sua stessa purezza fisica sembra qualcosa di vizioso. Quando ella sussurra frasi d’amore fa rabbia, perché non si può credere alla sua sincerità. E quando Don Matteo, dopo di aver vuotato dieci volte l’amaro 3.1.1/30 calice del disinganno, trova alfine la forza di insorgere contro di lei e la getta a terra e la percuote furiosamente sino a lasciarla tramortita, vien la voglia di gridare come quel tale rustico eroe dannunziano: Be', questo è ben fatto! La scena brutale provoca in noi una détente salutare e piacevolissima. Oh se avvenisse qualcosa di simile nell’episodio finale della Turandot di Puccini! Vedendo il “Principe Calaf” somministrare un’imponente dose di ceffoni alla “Principessa di gelo”, tormentatrice dell’angelica Liù, gli spettatori balzerebbero in piedi e, folli di gioia, si metterebbero a ballare rovesciando poltrone e sedie... È il caso di notare come la spasmodica evoluzione del dramma musicale odierno abbia portato all’esaltazione di alcune figure muliebri terribilmente perverse: Salomè, Conchita e Turandot, che personificano rispettivamente la necrofilia, il masochismo e il sadismo. Scusate se è poco... e auspicate meravigliosi eventi d’arte lirica per l’anno duemila. *** È ovvio che il difetto precipuo del libretto di Conchita consiste nell’essere la versione teatrale di un romanzo psicologico. Ciò che nell’avvincente libro La femme et le pantin di Pierre Louys appare semplice e plausibile, nell’adattamento scenico diventa angoloso e sibillino, causa le frequenti lacune e le inevitabili spezzature di scene e ragionamenti. L’anima della protagonista ci sembra un enigma pauroso e sgradevole. Comprendiamo meglio l’aberrazione sessuale di Salomè che quella di Conchita. Quando costei sbaciucchia con affettazione il suo pseudo-amante Morenito per spingere al delirio – e forse anche al suicidio – il misero Don Matteo che ella realmente ama, perdiamo la testa come chi è gettato in un labirinto e soltanto troviamo la forza di implorare la benignità dell’Eterno affinché nessuna donna simile a Conchita venga ad attraversare giammai il cammino della vita nostra. Eppure... c’è da augurarsi che il teatro italiano del novecento possa annoverare molte produzioni liriche come questa Conchita, discutibile fin che si vuole, ma viva, snella e scintillante. Riccardo Zandonai, con la sua musica piena di guizzi e di scatti nervosi, talora stridente, talora felina e sospirosa con perfidia, non di rado pittoresca e persino arguta, riesce a nascondere quasi tutte le manchevolezze del poema drammatico. Le “scene di ambiente” sono ammirevoli. Le ciance, i pettegolezzi, le allegre smanie delle sigaraie hanno un commento orchestrale vertiginoso: l’episodio del “Baile”, con la Jota frenetica durante la quale si svolge il duro colloquio tra Matteo e Conchita, il quadro della notte sivigliana, con i suoi canti volubili e i suoi richiami d’amore, sono pagine concepite con genialità e disegnate con mano fermissima. Il sinfonista e l’“uomo di teatro” si fanno ugualmente applaudire. Ricordiamo ancora alcuni deliziosi dettagli della scena nella casetta di Conchita e la triste, penetrante elegia con la quale si apre l’ultimo atto. L’orchestra piange con Don Matteo e le lacrime sono perle di qualità superiore... Nei momenti di schianto drammatico o di libera effusione sentimentale si desidererebbero, invero, motivi più vasti di quelli che lo Zandonai ci elargisce. Il compositore frange troppo spesso la linea melodica, preoccupato di rendere non solo le parole ma anche i movimenti esteriori dei suoi personaggi. Perciò la musica di alcune scene di passione risulta caleidoscopica, cioè composta di frammenti brevi, riuniti con arte preclara e illuminati da folgorazioni continue. Questo giuoco diventa, a volte, un po’ spossante: però è sempre degno di interesse alacre. Certe tortuosità, certi cromatismi lancinanti sono, a ben vedere, l’espressione caratteristica del pathos di Riccardo Zandonai e in essi è un elemento di stile. Resta comunque al pubblico il diritto di preferire i cantabili ariosi e sostenuti della Francesca da Rimini alle piccole e fitte schermaglie melodiche della Conchita. Nessuno, d’altronde, negherà che, nella abbondante produzione del maestro trentino, quest’opera italo-spagnuola risplenda come un gioiello. La partitura orchestrale della Conchita sarà sempre oggetto di studio fecondo perché doviziosa di tinte, vaga di chiaroscuri, agile di movenze e non povera di buoni nuclei tematici. Un frammento sinfonico dell’opera è destinato ad avere una vita autonoma e prolungata: l’Interludio del primo atto, brano di musica vispa e saltellante, in cui 3.1.1/31 si riflette il gaio fervore della città iberica nell’ora del meriggio. Qui, senza imitare menomamente il Bizet della Carmen né il Debussy dell’Iberia, il nostro Zandonai ha saputo scrivere una pagina musicale di carattere spagnuolo ben deciso, di modernità gustosa e di incantevole trasparenza. *** Quel tanto che abbiamo detto basta a dare un’idea della singolarità e del valore intrinseco del lavoro. Ci resta ora soltanto da aggiungere qualche parola sull’esecuzione e sulle accoglienze del pubblico. Conchita è stata presentata in un’edizione di lusso e di alta dignità. La Direzione del Teatro Reale voleva che la giovanile opera dello Zandonai apparisse al pubblico romano sotto l’aspetto più seducente e ciò si è verificato grazie principalmente all’ingegnosità dell’allestimento scenico ed alla scrupolosa concertazione del maestro Gino Marinuzzi. Il giuoco delle masse è stato regolato a meraviglia da Marcello Govoni, al quale rivolgiamo un cordiale evviva! Gli scenari, dipinti dall’illustre Pieretto Bianco, ci sono assai piaciuti. Quello del secondo atto (il Baile) ci è sembrato assolutamente splendido. Abbiamo ritrovato l’artista che si era meritato il nostro encomio l’anno scorso, con i quadri fantasiosi della Carmen, modelli di gusto e di vivacità coloristica. Facciamo tuttavia qualche riserva circa lo scenario dell’ultimo atto di Conchita: la camera di Don Matteo è talmente sovraccarica d’oro e d’ornamenti orientali da far pensare alla dimora di un sultano. In mezzo a tanto lusso esotico, l’uomo in pigiama di velluto scuro fa una figura abbastanza curiosa... Salutiamo amichevolmente Pieretto Bianco e veniamo ai cantanti, che hanno meritato invero la nostra approvazione per la coscienza artistica e la resistenza dimostrate nel corso dello spettacolo. Rosina Torri, magra, ardente, intelligentissima, ha saputo ricavare dalla parte di “Conchita” effetti vocali e scenici oltremodo considerevoli. Senza dubbio, ella ha dovuto lottare strenuamente per superare ogni ostacolo – principalmente quello dell’acutezza della tessitura – ma si è disimpegnata con onore e il pubblico le ha manifestato una simpatia perfettamente sincera. “Don Matteo” era il tenore Battaglia che ha saputo far uso perspicace dei larghi mezzi vocali elargitigli da madre natura, cantando con fosca passione e imprecando con disperato accento, ma senza sforzature né ridondanze enfatiche. La voce del Battaglia non è di timbro chiaro, ma ha una estensione non comune e una bella omogeneità nei vari registri. “Conchita” e “Don Matteo” stanno sempre in iscena e cantano di continuo: gli altri personaggi sono macchiette o comparse. La madre di Conchita ha ben poco da dire: ad ogni modo, in questa esile parte la signora Gramegna ha avuto modo di guadagnarsi elogi. Le sigaraie loquaci, fannullone, agitatissime, erano impersonate dalle signore Bonetti, Delisi, Arbuffo, Martucci e Ferroni, che si sono prodigate senza risparmio. Hanno preso parte allo spettacolo anche il Poli, il Baronti e il Pacini, elementi di pregio indiscusso. L’orchestra, diretta col massimo impegno dal Marinuzzi, ha compiuto effettive prodezze. L’interludio del primo atto, eseguito in modo sorprendente, si è chiuso tra festosi battimani. Il pubblico, dapprima freddo e circospetto, si è andato a poco a poco riscaldando, sino a diventare cordiale e generoso. In complesso, gli artisti e il direttore d’orchestra sono venuti alla ribalta oltre quindici volte. «Conchita» trarrà in folla al Teatro Reale coloro che amano le opere sferzanti e passionali. Le sue molteplici virtù musicali e più ancora (ahimè) i suoi bizzarri atteggiamenti di donna capace di ogni lussuria e pur risolutamente casta, la faranno apparire ammaliante come un mostro leggiadrissimo venuto diritto dall’inferno. *** Zarathustra ha detto: se vi avvicinate alla donna, non dimenticate la frusta. Noi aggiungiamo subito: badate però che la donna non vi strappi di mano la frusta e se ne serva a vostro danno. 3.1.1/32 Il secondo avvertimento – credete a noi – è anche più proficuo del primo... 21 “Conchita” di Riccardo Zandonai, «Il Messaggero», 23.2.1930 - p. 2, col. 2 Riapparsa sulla scena del massimo teatro della Capitale dopo parecchi anni da che la prima volta vi fu rappresentata, Conchita ha ottenuto uguale successo: questo spartito, in cui Riccardo Zandonai si affermò compositore di altissimo valore, presenta un elemento non favorevole e di tale importanza da rendere più viva l’ammirazione per il Maestro che ha saputo vincerne l’efficacia, ottenendo un risultato estetico rilevante; e questo elemento consiste nel libretto. Come è ben noto, La femme et le pantin, il suggestivo romanzo adattato per la scena e per la musica da Maurizio Vacaire [sic] e Carlo Zangarini, è acuto e profondo studio di un essere ambiguo, il cui strano modo di procedere, misto di slanci passionali che appaiono morbosi, di odiose espressioni menzognere, di sfrontatezza esterna e di intima purezza, appare bensì spiegabile e convincente nella narrazione di Pierre Louys; ma nella rapida esposizione scenica di alcuni momenti non molto variati lascia lo spettatore incerto e quasi disorientato. Inoltre, alcune situazioni ricordano abbastanza da vicino ben note scene della Carmen, e qualche atteggiamento della sigaraia Conchita non differisce molto da espressioni della eroina del Merimée e del Bizet, sigaraia spagnuola anch’essa, parimenti sfrontata. In Conchita però il maestro Zandonai ha saputo, quasi in salda sintesi, esporre organicamente le più belle e significative qualità della sua personalità artistica: il temperamento vibrante, che sa ideare ed esprimere plasticamente e ritmicamente le più animose e appassionate situazioni drammatiche; la limpidezza tutta italiana delle idee melodiche, snodate e incisive; la sicura e geniale elaborazione del tessuto armonistico e contrappuntistico; la strumentazione ricca di colori brillanti, robusta e delicata, che offre il più netto carattere di personalità. Si può ben rilevare il fatto che in Conchita sono assommati gli elementi essenziali che, sviluppati, conferiranno alle successive partiture di Riccardo Zandonai la loro tipica significazione. Brillante, animatissimo il primo quadro, cui la ricca veste musicale apporta varietà, in cui guizza rapido un palpito amoroso: l’intermezzo tra il primo e il terzo quadro a sipario calato, in cui, come a traverso un velo crepuscolare, si odono risonanze ed echi sonori della strada, ha una forza suggestiva che sembra preludere a consimili episodi cronologicamente posteriori in cui qualche illustre compositore ha rievocato notti spagnuole con efficacia che non sempre supera sensibilmente il quadro tracciato dallo Zandonai. Nel terzo quadro la musica, mentre dà rilievo alla figura della madre di Conchita, lumeggia voluttuosamente il breve episodio amoroso e vigorosamente lo scatto iroso della fanciulla offesa. Nel secondo atto, ancora un quadro musicalmente brillante, in cui le agili movenze della danza offrono animato sfondo alla scena dell’osteria: mentre il successivo dialogo tra Mateo e Conchita, agitato da prima, quindi idilliaco, poi appassionato, gli conferisce varietà. Il quinto quadro è un nuovo notturno spagnuolo, che però è abilmente differenziato dal precedente e si chiude con impeto drammatico. Per contro, l’ultimo quadro iniziato dolorosamente, seguito dalla scena violenta in cui Mateo inveisce contro Conchita, risolve con dolcezza di accenti amorosi. Rosina Torri, “Conchita”, ha una voce estesa e squillante, ma non sempre perfettamente intonata nella emissione delle note acute; ha accento drammatico e spigliatezza scenica non comune, per cui plasticamente sa rendere vivo il personaggio; altrettanto può dirsi del tenore Francesco Battaglia, “Mateo”, che possiede mezzi vocali eccellenti e molta efficacia scenica, ma qualche incertezza nel registro acuto; sicuri e disinvolti gli altri interpreti, tra cui 3.1.1/33 ricordiamo Anna Gramegna, “Madre”, la Bonetti, la Martucci, la Ferroni, il Pacini, il Baronti, i quali tutti hanno ben contribuito a dar vita animata al quadro scenico, bene organizzato e diretto da Marcello Govoni. Il maestro Marinuzzi ha concertato e diretto con accuratezza lo spartito; i cori, istruiti dal maestro Morosini, hanno ben proceduto. Gli scenari, se anche in parte bene ideati, non sono stati sempre ugualmente realizzati. Pertanto, mentre lo spartito di Riccardo Zandonai è apparso musicalmente lavoro di alto valore e in genere bene eseguito, tuttavia i riflessi drammatici di Carmen e la discutibile significazione della vicenda scenica, talune espressioni non perfette nella estrinsecazione dello spettacolo, hanno dato luogo a qualche contrasto alla chiusa di alcuni episodi: nel complesso però gli esecutori sono stati evocati al proscenio quattro volte alla fine del primo atto, cinque al secondo, tre al terzo, quattro all’ultimo: e ad ogni atto anche il maestro Marinuzzi è stato chiamato alla ribalta. [...] 22 s. a. l., “Conchita” di R. Zandonai al Teatro Reale, «Il Tevere», 24.2.1930 - p. 3, col. 1 Questa opera giovanile di R. Zandonai, riapparendo dopo circa venti anni sulle scene del medesimo teatro, ha lasciato il pubblico perplesso e, pur riscuotendo applausi, non ha avuto l’esito che pareva lecito aspettarsi. La colpa, abbiamo sentito dire, è del libretto, che fra l’altro contiene dei versi che possono gareggiare con i più brutti di tutta la letteratura melodrammatica. Ma in verità non si capisce perché si debbano scindere le responsabilità del musicista da quelle del librettista, i quali vanno invece assolti o condannati sempre “in solido”. Il romanzo di Pierre Louijs [sic] La femme et le pantin, da cui è tratto il libretto della Conchita, è la storia edificante di una donna che si diverte a tormentare l’uomo che in fondo ama, fino al punto da farsi vedere, attraverso una cancellata, fra le braccia di un altro. Il pover’uomo che ha sofferto le pene dell’inferno, quando se la rivede davanti ironica e provocante, esasperato, non può fare a meno di batterla di santa ragione. Ma allora tutto si accomoda, e la donna gli si concede finalmente, per ricominciare tuttavia lo stesso gioco, al semplice fine di provocare un’altra energica reazione. Si tratta, come si vede, di un caso di psicopatia, forse meno frequente di quanto non si creda, ma ad ogni modo assolutamente logico. I librettisti invece, pur lasciando intatte le situazioni più ardite del romanzo (la scena del cancello e quella finale) hanno avuto la preoccupazione di moralizzare la figura della protagonista, col risultato di renderla inumana e assurda. La Conchita del romanzo fa soffrire il suo innamorato spinta da una morbosa forza irresistibile, quella del libretto per semplice orgoglio offeso. E si riconcilia con l’amante solo quando può constatare che il suo amore è così forte da amare fino alla violenza. Così del romanzo restano intatte tutte le situazioni teatralmente pericolose e scompare tutto il sapore e l’interesse dell’invenzione. L’opera si regge solo in virtù della musica, che non dà modo di rendersi conto dell’assurdità psicologica della protagonista, ma la musica d’altra parte, non trovando appoggio nelle situazioni, finisce col non poter avere un carattere spiccato, sì che la figura di Conchita non ci resta negli occhi e nell’anima come – tanto per ricordare un’altra opera di ambiente affine – quella di Carmen. In questo la poca fortuna di questa Conchita, che, pur avendo pagine di indubbio vigore drammatico e pagine di colore e di ambiente veramente felici, lasciano un senso di delusione. L’opera, concertata con la consueta accuratezza dal M. Marinuzzi, è stata interpretata dalla signora Torri e dal tenore Battaglia. 3.1.1/34 La Torri, che ha una voce estesa e vibrante, ha reso con efficacia e con passione la figura di Conchita ma per dar maggior rilievo al carattere della protagonista ha ecceduto spesso nel gioco scenico. Per contrario ci è sembrato un po’ fiacco il tenore Battaglia nel personaggio di Matteo, cui i librettisti dicono di «avere dato un’anima meno remissiva e più immediatamente sensibile» che quella del Matteo del romanzo. Indovinati e intonati gli “esterni” del secondo e del terzo atto (il draile1 e la cancellata) ma senza carattere la scena del quarto atto, che aveva l’aria di essere stata ritrovata dopo venti anni nei ripostigli del vecchio Costanzi. 23 r[affaello] d[e] r[ensis], “Conchita” di Riccardo Zandonai, «Il Giornale d’Italia», 25.2.1930 (con ritratto a matita di Zandonai) Si è tutti d’accordo, pensiamo, e lo sarà anche il musicista, nell’ammettere che la scelta di un argomento simile a quello di Conchita, tratto dal romanzo La femme et le pantin di Pierre Louys, non sia stata molto felice. Una ventina di anni or sono già funzionava e s’avanzava una forte reazione al dramma verista, e lo stesso Zandonai, scendendo nell’agone dell’arte, aveva avvertito che bisognava uscire dagli ambienti realistici, borghesi, truculenti ed affligenti, e si presentò con una commedia deliziosa in cui si alternano e si fondono con garbo sentimenti patetici e dolorosi, situazioni brillanti ed umoristiche: Il grillo del focolare. Ma l’esperimento sembrò al giovanissimo autore prematuro: egli s’accorse che la sensibilità collettiva, lenta e torpida, chiede ancora gli audaci contrasti e le aspre emozioni. E cambia metro. S’imbatte nel libretto di Conchita, che Puccini ed altri maestri tra il sì e il no preferirono respingerlo, e l’accetta con entusiasmo, con audacia, come una sfida contro le difficoltà e contro i facili paragoni. S’innamora con passione della bizzarra creatura, come sa fare l’operista italiano di razza, che passa con mirabile pieghevolezza dal riso al pianto, dalla beffa all’angoscia; e con lei, idealmente si capisce, percorre la Spagna a ricercar canti e modi nei gerghi più popolari, non volendo scimmiottare i ritmi e i colori bizettiani, tanto famosi quanto convenzionali, ma creare un ambiente di originale, diretta, schietta musicalità. Egli poteva profittare anche della produzione strumentale da camera di carattere iberico, allora all’inizio (ora ingombrante ed asfissiante); ma non volle. La Spagna Zandonai la respirò con i suoi polmoni, la sentì con le sue orecchie, la vide coi suoi occhi; perciò sorge una partitura ricca di materiale musicale che non è freddo e arido formalismo, ma anima e spirito di un popolo, voci, linee, colori di un paese suggestivo. Questo pregio, che chiameremo storico-folkloristico, domina tutta l’opera e le infonde quella morbidezza di contorni, quella freschezza di carnagione, quella saldezza di ossatura ancora intatte e che ieri sera sono state notate ed ammirate dagl’intenditori e dal pubblico in genere. Quell’ondata viva e robusta di modernità immessa, con Conchita, nel melodramma italiano si sarebbe già infranta contro gl’inesorabili scogli del tempo se non fosse sostenuta da un palpito interiore di verità ed umanità. Parliamo sempre dell’elemento musicale. Quanto al dramma comprendiamo come la strana psicologia di Conchita non persuada ed anzi ripugni, come le bassure dell’osteria, la scena del cancello, le botte finali di Matteo, le sole efficaci a ridestare la coscienza amorosa di Conchita, destino antipatia e fastidio. 1 [sic]: ma baile. 3.1.1/35 È proprio qui la magagna che danneggia tutta l’opera e che forse le vieta il cammino rapido, spedito e fortunato. A tal grado di brutale realismo non era giunto e non giunge alcuno della tanto infamata giovine scuola italiana, che fu invece una rigogliosa primavera ed alla quale in fondo si riallacciano l’anima e lo stile di Zandonai. Né vale ad attenuare questo realismo l’immensa poeticità che pervade, impregna l’intera opera. Zandonai è soprattutto un delicato poeta, un finissimo colorista, un gentile cantore: in Conchita si preannunzia appunto il futuro autore di Francesca e di Giulietta, con le sue caratteristiche riconoscibili, con la sua individualità netta e precisa. Il quadro della fabbrica di sigari è efficacissimo, brillante, fatto di dialoghetti, di salti, scatti, sorrisi, grida, allegrie, ma è suffuso di grazia, privo d’ogni volgarità. Una diafana, luminosa ed iridescente trama musicale lo avvolge e lo nobilita. L’intermezzo che segue (prima era un episodio scenico) echeggia di voci, canti e suoni vicini e lontani, come sperduti nella nebbia e nel silenzio. Questa è poesia squisita, come lo è l’altra pagina, l’altro notturno, che apre l’ultimo quadro. Anche la scena animata, torbida, voluttuosa dell’osteria non ha nulla di banale e repugnante; ma le due scene quando Conchita beffeggia crudelmente l’amore di Don Matteo e si presenta al braccio d’un giovine, [e] quando Don Matteo la butta per terra e la percuote sia pure di santa ragione, non sono gradite al pubblico. Al pubblico è gradita l’arte di Zandonai e solo ad essa ha indirizzato il suo compiacimento ed il suo applauso: il che si deve anche all’allestimento di Conchita, che è risultato accuratissimo sotto tutti gli aspetti. La preziosa partitura – dettagli, sprazzi, scintille, ridda di suoni, macchie coloristiche – ha ricevuto dalla sensibile bacchetta di Gino Marinuzzi un elegante, chiaro e pronto rilievo. Il pregio dell’opera essendo squisitamente musicale, se ne deve il successo anche alla fine e vibrante compenetrazione e riproduzione del Marinuzzi. Inoltre le masse: quelle corali diligentemente istruite dal Morosini, le comparse, le danze sono state impiegate efficacemente nei quadri d’insieme. L’abilità del Govoni è stata notata ed ammirata ancora una volta. Gli scenari di Pieretto Bianco si intonano perfettamente alla Spagna sentita da Zandonai: cioè poetica e trasparente. Niente sciupo di colori ed abbigliamenti. Buon gusto ed esatto senso architettonico. Su questo sfondo collettivo ed entro questi ambienti si svolge l’avventura di Conchita e Don Matteo. Rosina Torri ha riempito di sé la scena cantando e muovendosi con disinvoltura. Della perversa sigaraia ha reso lo spirito bizzarro e strano. Alla sua voce e al suo canto non mancano difetti, ma la passione e l’impeto salvano tutto. Ella è riuscita a torturare quel povero Don Matteo, impersonato dal tenore Francesco Battaglia, anch’egli provvisto di un ragguardevole volume di voce, di cui ha fatto buon uso. Bene la Gramegna, la madre, ed a posto tutti gli altri. [...] 24 m[ario] l[abroca], “Conchita” al Teatro Reale dell’Opera, «Il Lavoro fascista», 25.2.1930 p. 3, col. 5 Tra le opere di Zandonai Conchita è quella che preferiamo. Tagliata con bravura, rapida e disinvolta, essa, malgrado un libretto che non si può non considerare ridicolo, procede attraverso una successione di quadri musicali capaci di suscitare l’atmosfera del dramma. A ciascun episodio la sua sostanza musicale; ne viene fuori perciò una partitura sostanziosa, 3.1.1/36 varia, ricca di sonorità e di effetti, una partitura che sa sostenere in maniera quanto mai efficace il giuoco delle voci. Conchita è una di quelle poche opere che discendono direttamente dal Falstaff: quel saper contenere una intera scena nella cornice di un periodo musicale perfettamente concluso in sé, e quell’equilibrare le voci perché non cadano nell’anonimo del recitativo continuo, sono qualità di origine Falstaffiana, doti che purtroppo ben pochi hanno cercato di fare proprie. Il pregio centrale di Conchita è tutto qui, secondo noi, in questa solidità musicale che permette al sentimento dell’autore di esprimersi nella maniera più efficace, attraverso le leggi che regolano la creazione di qualsiasi opera d’arte. Il primo quadro delle sigaraie, il secondo della casa di Conchita, il terzo della taverna, il quarto del cancello, ed il quinto della casa di Mateo sono altrettante costruzioni musicali ciascuna con una sua propria fisionomia, costruzioni che sanno creare, come abbiamo già detto, l’atmosfera del dramma. Perché mai dopo sì felice inizio Zandonai si sia buttato nell’anonimo pentolone del recitativo continuo proprio non si comprende e non si comprende come dall’autore di Conchita possano essere uscite opere tanto lontane da questa prima, quali «Giulietta e Romeo», «I cavalieri di Ekebù» e «Giuliano»; indagare su queste cose non è nostro compito; tutt’al più possiamo formulare l’augurio che l’arte di Zandonai ritorni a battere le strade sulle quali si era slanciata allorché apparve nel campo del teatro lirico. Non è il caso di elencare, come si trattasse di opera nuovissima, pregi e difetti di Conchita; ci piace tuttavia di rilevare la spontanea freschezza del secondo atto dove canzoni e danze sanno incorniciare nella maniera più efficace l’azione drammatica che in esso si svolge, così come meritano una speciale menzione la vivacità e la freschezza dello strumentale nonché la incisività dei ritmi. Conchita è opera di difficile concertazione specie se si vuole che la musica appaia nella sua naturale struttura e nella sua spiccata eleganza: Marinuzzi ha avuto il merito di presentarci una interpretazione che ha messo in rilievo tutta la poesia che circola nell’opera e tutto lo spirito della luminosa partitura. La protagonista, signora Torri, non ci è sembrata perfettamente a posto: la voce è troppo irregolare e l’azione scenica sa di sforzato, di troppo recitato. Il tenore Battaglia ha ottima voce, voce che certamente si libererà presto da alcuni lievi difetti di emissione per giungere opportuna ad arricchire la non troppo numerosa schiera dei nostri reparti lirici. Ottima la Gramegna. Buonissimi i cori ed indovinata, sopratutto nel secondo e nel terzo atto, la messinscena. Moltissimi applausi agli interpreti ed al Maestro Marinuzzi. 25 s[ilvino] m[ezza], “Conchita” al Teatro Reale, «Il Popolo di Roma», 23.2.1930 - p. 5, col. 34-5 (con due foto di scena) È questa certo l’opera più bella di Zandonai. Parlo di bellezza come l’intendo io, vale a dire quando la sostanza artistica è fatta di sincerità d’ispirazione, di chiarezza di idee, d’intenzioni legittime che s’avvalgono di mezzi d’espressione adeguati ed efficaci. In Conchita mi pare di scorgere l’applicazione integrale di questa mia summa estetica, che è poi quella dei maggiori musicisti di tutti i tempi e di tutte le scuole. A soli ventotto anni, quando cioè questo “credo” si levava schietto e forte come un inno dal suo cuore, senza interferenze e sofisticazioni cerebrali, Zandonai ha potuto darci l’opera sua più perfetta, in cui l’ardimento non è preconcetto, il nuovo non è fine a se stesso ma deriva da un sentimento profondo e dal bisogno di esprimersi così e non altrimenti. In seguito, se questa sua possibilità è diventata più viva e solerte, la preoccupazione di tenere il passo con le giovani schiere che avanzano disordinate e senza mèta lo ha tradito, fuorviandolo dalla buona strada che, appunto con 3.1.1/37 Conchita, aveva imboccato e che pareva dovesse portarlo a una precisazione definitiva della sua personalità. Infatti, nelle opere successive, da Francesca a Giuliano, se ne togli alcune pagine o meglio alcuni episodii in cui riappare l’autore di Conchita con la sua effusione lirica lineare e spontanea, è palese l’ansiosa ricerca di altri modi e forme, le esplorazioni e le incursioni avventurose su terreni altrui, il tentativo di rinnovare il vocabolario sostituendo al suo linguaggio più semplice e personale locuzioni e parole che sentono il partito preso e il ripiego. Tornata sulle scene romane dopo circa vent’anni di assenza – e non è a dire quanto questo ritorno sia stato opportuno e quanto colpevole questa assenza – Conchita ci è apparsa ancor giovane e viva, certo più giovane e più viva di tante musiche composte jeri e di cui scorgiamo la stanchezza e l’avanzato disfacimento. L’equilibrio dell’elemento melodico con l’elemento coloristico, cioè meramente esteriore e decorativo, la ricchezza tematica elaborata con logica conseguenza di sviluppi, e sopra tutto un senso diffuso di poesia che circola tra voci e orchestra e che anche nei particolari di secondo piano è sempre alto e sostenuto, fanno di questo spartito uno dei modelli melodrammatici più completi e pregevoli. La scena delle sigaraje con cui l’opera ha inizio (e che, contrariamente alle pretese infiltrazioni del genere Charpentier che vi hanno voluto scoprire, è del più puro Zandonai, quello cioè che più tardi riunisce intorno a Francesca le donzelle inneggianti alla primavera e intorno a Giulietta le ancelle intente al gioco del torchio); la scena drammatica e passionale del 2° atto tra Conchita e Mateo; la scena che precede il duetto del cancello in cui la dipintura d’ambiente o, come si direbbe oltre il Brennero, lo Stimmungsbild vi domina con una effettistica immediata e sicura; per non parlare degli altri momenti e particolari che, di natura vocale o strumentale, tengon desto l’interesse dell’ascoltatore e ne ravvivano l’emozione, tutta l’opera ci appare come l’espressione genuina d’un artista che non ama schemi e programmi preventivi ma che sa quello che vuole e quello che vuole dice con proprietà, con sincerità, con eleganza. Naturalmente manchevolezze e vuoti non sfuggono a un orecchio esercitato. Ma bisogna pensare che, affascinato dall’eroina perversa e serpentina de La femme et le pantin, il compositore s’è trovato di fronte a una psicologia d’eccezione da rendere musicalmente e in pari tempo alla necessità di condensare in pochi quadri sommarii e sintetici la materia artistica d’un romanzo sprovvisto d’azione e che s’illumina soltanto d’una gran luce letteraria e morale. E giova in fine ricordare come non a torto Conchita sia stata accostata a Carmen per alcune tipiche affinità comuni e come toccasse al musicista tratteggiare il profilo di questa donna perfida e sensuale con colori diversi da quelli usati dal maestro francese. Mi è sembrato di qualche utilità accennare, sia pure succintamente, a quelli che sono i caratteri essenziali d’un’opera d’arte pressoché sconosciuta ai nostri giovani. E tali accenti fugaci mi son parsi anche necessari per evitare errori e confusioni con le opere successive e più note dello Zandonai che oggi è fra gli operisti su cui maggiormente si appuntano gli sguardi e si fondano le speranze di coloro che àuspicano un rinnovamento del vecchio teatro lirico. Ma tornerà su i suoi passi Zandonai, tornerà alla purezza d’invenzione, alla chiarezza formale di Conchita? Questo è il punto. L’esecuzione è parsa una delle più felici e brillanti di questa stagione. Dalla scelta degli interpreti all’allestimento scenico, al gioco delle luci, alla folla di personaggi minori cui è commessa una breve ma non piccola parte di responsabilità, tutto ha contribuito al successo dello spettacolo che, al solito, iniziatosi tra l’ostile freddezza della sala è andato man mano crescendo d’intensità e di calore fino all’esplosione d’un bellissimo applauso che ha chiuso il lungo duetto conclusivo dell’ultimo atto. Gino Marinuzzi, animatore di queste forze sparse tra orchestra e palcoscenico, ha reso con superiore intelligenza d’arte lo spirito di questa partitura in cui i caratteri prevalentemente sinfonici dimandano un governo delle voci orchestrali pronto e sicuro. Assai interessante è stata la drammatizzazione della parte protagonista immaginata dalla sig.na Torri che ha reso con talento quel tanto di psicologia travasato dalle 3.1.1/38 pagine del romanzo di Louys nella sceneggiatura del libretto. Bisognava fare accettare il personaggio a un pubblico che, poco o punto avvertito, poteva incorrere in equivoci e malintesi. La Torri vi è riuscita e, cantante e attrice pregevolissima, ha avuto momenti di grande ed immediata efficacia. Il tenore Battaglia, che ha voce di ragguardevole volume e di gradevole colore, ha cantato con accento appassionato senza però troppo concedere all’espressione scenica che, massime nel terzo atto, è sembrata un po’ fiacca e stentata. Una parola di lode va detta alla brava Gramegna, e vanno ricordate tutte le altre parti affidate alla Bonetti, alla Martucci, alla Feroni, alla Delisi, alla Arbuffo, al Poli, al Baronti, al Pacini, ecc. Sospirosa voce interna, il Mancini che ha vocalizzato la serenata con soavità e nostalgico languore. Le scene, su bozzetti di Pieretto Bianco, hanno incontrato grandissimo e unanime favore. Quella del 2. atto è un piccolo gioiello e, cosa non troppo consueta, è parsa anche appropriatamente illuminata. Il pubblico che, come ho detto, ha ascoltato il primo quadro e l’intermezzo con aria ingrugnata e arcigna, s’è andato convincendo a poco a poco e finalmente ha applaudito con calore chiamando maestro e interpreti numerose volte al proscenio. 26 “Conchita” au Théâtre Royal de l’Opéra – Zandonai a, par sa technique fouillée, traduit la sentimentalité nuancée de cette âme simple, et, partant, compliquée, «L’Italie», 25.2.1930 p.4, col. 2 Samedi soir, la première représentation de Conchita a réuni au Théâtre Royal de l’Opéra un nombreux public d’élite, où figuraient les noms les plus retentissants du monde de la politique, des arts et de la haute societé. En une loge de premier ordre avaient pris place donna Rachele Mussolini, avec Edda et son fiancé, Galeazzo Ciano, et, au fond de la loge, on s’entrevoyait la figure du Duce, qui a assisté à toute la représentation. Cette œuvre de jeunesse de Zandonai a vivement intéressé le public par sa trame musicale vraiment moderne, parfois hardie, toujours limpide, et constituant une analyse fouillée de l’âme simple et, partant, compliquée de l’héroïne. Les interprètes ont été à la hauteur de leur tâche. On a vivement admiré l’art souple et pénétrant de Rosina Toni [sic] de Centovera et Santafranca (Conchita), l’ampleur et la vigueur du ténor Francesco Battaglia, Mmes Gramegna, Bonetti, Martucci et Ferroni, de Pacini et de Baronti. L’opéra a été vivement applaudi. [...] 27 M[ario] R[inaldi], “Conchita” di Zandonai al Teatro Reale dell’Opera, «La Tribuna», 20.1.1940 - p. 3, col. 3-4 Conchita, è cosa nota, non è che l’adattamento scenico compiuto da Vaucaire e Zangarini del conosciutissimo romanzo La femme et le pantin di Pierre Louys. Qualcuno ha anche detto che il primo spunto del soggetto sorse dall’amore tra la Corticelli e Giacomo Casanova, ma questo interessa poco. Interessa invece precisare che Conchita non è un soggetto teatrale e tanto meno un soggetto per dramma musicale. C’è in esso troppa psicologia, ci sono troppe passioni nascoste, c’è una volubilità senza risalto e a volte non giustificata. Lo stesso Louys ricavò un dramma dalle sue ardenti pagine, ma non gli venne mai in mente di farlo musicare. Comprendiamo benissimo come il Goya e lo Zarraga abbiano trovato in questa sorella minore 3.1.1/39 di Carmen un “soggetto” per i loro quadri; non ci spieghiamo invece come dalla pagine del Pierre Louys sia venuto fuori un adattamento simile a quello del Vaucaire e dello Zangarini. Puccini, uscendo allora dal pericoloso gioco della Butterfly e soggiogato dalla Fanciulla americana, rifiutò il libretto: forse troppo evidente era il ricordo bizetiano. Zandonai invece, ancora poco esperto del teatro, si lasciò trascinare dai neri e profondi occhi di Conchita che però in palcoscenico appare niente più che una Fedra, una Elettra, una Turandot o una Basiliola in sedicesimo. Ma allora il futuro cantore di Francesca non aveva che 26 anni e questa, ci sembra, è un’età importante ai fini di uno spassionato giudizio sull’opera d’arte. Infatti nei quattro brevi atti di Conchita Riccardo Zandonai ha profuso tutto il suo ardore di romantico acceso. Si perdona volentieri, a volte, la inspiegabile incostanza della protagonista per merito del caldo fraseggio usato dal musicista il quale non ha dimenticato che Conchita «è un’infelice che fabbrica a sé ed agli altri il dolore, per troppo desiderio di felicità». Nonostante la sua perfidia, questa donna dinnanzi al pericolo, dinnanzi all’ira dell’uomo ingiustamente abbandonato diventa vile: non affronta la morte come Carmen ma si piega all’amore che “veramente” sente nella sua inspiegabile anima. L’abilità strumentale di Riccardo Zandonai trova già in Conchita una chiara ragione d’essere. Non potendo musicare i sentimenti psicologici dei personaggi il compositore si è soffermato a infondere colore e riflessi lucentissimi alla massa orchestrale: naturalmente ha preferito dar vita alle calde notti sivigliane, alle canzoni ed ai passi di danza. E tanto più è da apprezzarsi questa particolare fatica compiuta dal “giovane” Zandonai in quanto egli non volle avvicinarsi né al Bizet né ad Albeniz né al Debussy dell’Iberia, composizione questa apparsa proprio in quegli anni. Così nell’azione drammatica, nell’intermezzo e nei preludi. Questa superiorità orchestrale è stata visibilmente messa in evidenza dal maestro Tullio Serafin il quale ha realizzato uno spettacolo vivace e colorito fino a quanto era possibile farlo. È un pregio grande, per il maestro instancabile, di aver portato la massa orchestrale alla sua più forte e convincente espressione senza farne soffrire minimamente il palcoscenico. Il quale ieri era sorretto dall’arte veramente eccezionale di Gianna Pederzini, che ha fatto di Conchita un personaggio “nuovo”, misto effettivamente di perfidia e di candore. Indagare questi due sentimenti è vano per un soggetto come quello del Vaucaire, ma Gianna Pederzini li ha compresi in ogni loro sfumatura e li ha vissuti con una verità impressionante. L’opera è scritta per soprano, ma l’artista ha compensato grandemente il differente colore di qualche acuto con un’azione da grande attrice. E, come già in Carmen nulla di esagerato o di men che aristocratico: tutta vitalità intelligente, tutto fuoco spagnolo, tutta sfrontatezza “studiata”. Successo personale e magnifico, come cantante, attrice e danzatrice. Non possiamo usare lo stesso entusiasmo per Paolo Civil che se ha dato, è vero, tutto se stesso non sempre ha convinto. Sembra che la sua voce soffra ad uscire di gola, specialmente in una parte come quella di Mateo tanto ardimentosa quanto difficile e, diciamolo pure, ridicola. Ricordiamo a titolo d’onore anche i nomi di Maria Huder, Agnese Dubbini, Limberti, Caravani, Meloni, Taddei, Russo e tutte le altre parti secondarie. Bene cori e danze, lodevole la regìa di Govoni, decorose le scene di Pieretto Bianco: non comprendiamo però perché si sia sostituita quella del secondo atto che in una precedente edizione dell’opera ebbe tanto successo. Eccessivamente sontuosa la casa di Mateo e troppo scuri generalmente gli interni del 1° e 3° atto. All’opera ha arriso un ottimo successo: peccato che Zandonai non fosse presente! Avrebbe particolarmente goduto a tanto caldo consenso. 28 3.1.1/40 ARIA D’ANDALUSIA Aria d’Andalusia ce n’era molta, iersera, all’Opera. Molta sul palcoscenico e un po’ in platea e nei palchi dove, in omaggio e per solidarietà con quella viperina sivigliana ch’è Conchita, facevano furore rose, papaveri e orchidee tra chiome bionde e brune, scintillavano lunghi orecchini e ricadevano in molli ampiezze gonne tagliate all’usanza “flamenca”. Aria d’Andalusia, di Siviglia, del “barrio de Santa Cruz”, con notevoli riflessi di torre della Giralda rispecchiantisi nelle acque opaline del Guadalquivir. Accordi di chitarre, ticchettare di “castañetas”, lieve fragore di tacchi battuti in cadenza sulle tavole d’un “baile”. E, naturalmente, sfoggio di “mantones”, di mantiglie e di altissimi pettini. Ma perché, di grazia, i registi hanno voluto vestire i nobili spagnoli spasimanti d’amore per Conchita con cilindri, velade, marsine e pantaloni attillati, a tutta simiglianza d’Alfredo e del suo padre austero nella «Traviata», oppure dei quattro della «Bohème»? Violenti passioni divampanti sotto il sole ardente d’Andalusia, nel profumo capzioso dei fior d’arancio, nell’aria torbida dei “bailes” popolari e nella allucinante successione delle danze gitane quasi restano... refrigerate in abiti di tanto riguardo e finiscono per creare una notevole non aderenza tra musica, azione e [?] dell’opera. Per questo, a noi sarebbe piaciuto assai di più vedere il focoso don Mateo in “sombrero ancho” e “jaqueta corta”. Così come non rimarremo certo entusiasti di veder ballare il saltarello da una prosperosa ciociara in costume alatrese e da un distinto signore in abito a code. Nessuno se n’abbia, peraltro, di questo che si dice. Aria d’Andalusia ce n’era quanta se ne voleva e a renderla più profumata hanno contribuito assai cinquanta belle signore in tutta vena di far concorrenza agli abiti assai belli indossati da Conchita. E infatti una ce n’era che – salvo il colore della seta – sembrava essere la copia conforme della sivigliana, allorquando nell’ultim’atto veste panni da gran dama. E un’altra ce n’era che, col suo abito d’amoerro in tre gradazioni di viola, con le sue chiome corvine pettinate in morbidissime ondulazioni e un paio d’orecchini andalusi al 100 per 100 veramente sembrava si fosse distaccata da una tela di Zuloaga. E altre ancora ce n’erano che nel complesso o nei particolari rafforzavano il già molto ardente clima di Conchita. E allora: «olè, olè, olè». Il grido d’entusiasmo delle folle di Spagna. Franz 29 L[uigi] C[olacicchi], “Conchita” di Zandonai al Teatro dell’Opera, «Il Popolo di Roma», 19.1.1940 - p. 3, col. 3 Al giovane maestro Riccardo Zandonai, che da poco aveva superato i cinque lustri, il celebre romanzo di Pierre Louys: La femme et le pantin, ossia Conchita, ridotta per le scene da Vaucaire e Zangarini, non inspirò più di qualche colorito quadretto ambientale di maniera e quattro duetti fra la protagonista e lo sfortunato suo amante Don Mateo, cui la psicologia della sigaraia sivigliana doveva restare fino all’ultimo atto, come a tutti noi spettatori, incomprensibile. Il tira-e-molla di Conchita, il suo cedere e non cedere, i suoi scrupoli d’ordine finanziario contrastanti con la disinvoltura del suo, sì, tenor di vita, tutto ciò l’opera in verità non ci spiega; né il libretto né la musica. Dovevano passare ancora altri venticinque anni circa per trovare La femme et le pantin, la sua forma “scenica” condensata, esasperante di forza centripeta, nella torbida interpretazione di una dea dello schermo: Marlene Dietrich protagonista del film Capriccio spagnuolo. 3.1.1/41 Sarebbe inutile fatica cercare nell’opera di Zandonai un briciolo di quella sensualità, di quel calore, di quel carattere che si sprigionano da questo film grazie al racconto, al gioco delle immagini o, come si dice, delle inquadrature e al commento musicale. Conchita, poiché dramma non c’è, costituisce tutt’al più un tentativo di studio d’ambiente, un giovanile abbandono dello Zandonai al fascino dell’esotico, un’esplorazione superficiale della Spagna e delle manifatture di tabacchi e dei “cabarets” notturni. Gentile esplorazione del resto, tentata con animo puro e innocente e nella quale, se non altro, il musicista trentino riesce a scoprire le sue notevoli qualità di orchestratore ora esuberante ora raffinato, sensibile a tutte le risorse timbriche che può offrire l’orchestra moderna. Dei quattro atti dell’opera, infatti, i migliori risultano il primo e parte del secondo, laddove per l’appunto il descrittivismo orchestrale, aiutato dal pittoresco della scena – la “Fabbrica” di Siviglia e la taverna – , indaga curiosamente e talora saporosamente nel folto della tradizione più o meno accreditata per ricreare dinnanzi al nostro occhio e al nostro orecchio l’immagine di una Spagna vivace e pittoresca. Conchita fu già rappresentata a Roma parecchi anni fa; e ieri sera vi è ricomparsa, con la voce e la figura di Gianna Pederzini. La signora Pederzini, cantante ed attrice di grande intelligenza e particolarmente adatta a queste interpretazioni di marcato carattere popolaresco ha conferito alla protagonista un brillante rilievo, integrando il canto col gesto più appropriato, la chiarissima dizione con un prestigioso gioco d’accenti, e riuscendo in definitiva a convincerci sempre più che con donne come Conchita conviene tenersi a rispettosa distanza. Don Matteo, il suo amante rimbecillito (imbecille glielo dice proprio lei, Conchita, e, ci pare, a ragione) era il tenore Paolo Civil, il quale, pur non disponendo di grandi mezzi, si è elegantemente disimpegnato. Agnese Dubbini, nella breve parte della praticissima madre di Conchita, ha assolto lodevolmente il suo compito. Abbastanza bene si sono comportati i numerosi interpreti secondari, fra i quali ricordiamo il Taddei, il Conti, il Masini Sperti, il Silveri, e il gruppo delle sigaraie, formato dalle signorine Huder, Limberti, Caravani, Bernardi, Pini. In particolare Maria Huder ha avuto bei momenti di prestigio canoro. Tullio Serafin ha condotto lo spettacolo con ritmo aggraziato e spigliato, ricavando dalla partitura buon numero d’effetti orchestrali, mettendo nel massimo rilievo i pregi della strumentazione e ponendo [in] evidenza, dove ha potuto, la nota lirica e sentimentale. L’orchestra ha seguito il direttore con prontezza, e nel preludio dell’ultimo atto s’è fatto notare il prof. Roveri nel solo del primo violino. La regia del Govoni e le scene di Pieretto Bianco sono parse intonate e indovinate. Le accoglienze del pubblico sono state abbastanza cordiali, e ciascun atto s’è chiuso con le consuete chiamate agli artisti, al direttore e al regista, più numerose dopo il secondo atto. 30 a. righ., Al Reale dell’Opera, “Conchita” di R. Zandonai, «Il Tevere», 29.1.1940 - p. 3, col. 1 Gioacchino Rossini disse ch’egli era disposto a mettere in musica anche la lista del bucato. Lo disse ma non lo fece. Ebbene, il libretto di «Conchita» sotto l’aspetto dell’interesse teatrale può paragonarsi alla famosa lista del bucato. Sezione “panni sporchi”! Per quanta buona volontà ci si metta, anche ad andare al teatro nello stato euforico in cui può trovarsi il vincitore di una lotteria nazionale, non si riesce a prendere alcun interesse ai personaggi di quest’opera tratta dal celebre romanzo di Pierre Louys «La Femme et le Pantin». Altro che “il burattino”: qui son tutti burattini. A cominciare dalla protagonista, vero soggetto da clinica neuropsichiatrica che interessa o almeno può interessare nelle pagine del libro ove il caso patologico è indagato sottilmente ma non certo nell’adattamento scenico per opera lirica dove 3.1.1/42 forzatamente tutto è ridotto a pochi episodi inconvincenti e slegati. Quelle sacrosante bastonate che l’arciscemo “Mateo” si decide a far piovere sulle spalle di “Conchita” solo all’ultimo atto dovevan scendere subito, al secondo atto; ma allora addio opera, addio i quattro atti d’obbligo, cui si arriva però con ripetizione di scene e situazioni completamente scontate, con un ultimo atto poverissimo e che appena appena potrebbe assumere la consistenza di un semplice quadro!! Il maestro Zandonai si decise a musicare «Conchita» quando imperava il verismo. Era giovanissimo, non ancora trentenne. Fu preso dal miraggio del verismo da clinica in cui vegetava la morbosa protagonista e trovò negli ambienti spagnuoli ampia materia per sfoggiare quel virtuosismo coloristico che anche oggi pone l’insigne musicista in primo piano tra i compositori sinfonici. E, ripetiamo, non ancora trentenne elaborò una partitura che è una autentica meraviglia di trovate ritmiche, armoniose e strumentali che, a distanza di decenni, conserva intatta la freschezza inventiva e l’interesse sonoro. Nella produzione dell’epoca in cui apparve, «Conchita» si impose dunque violentemente: il linguaggio orchestrale acceso, preciso, aderente, tutto nervi nel ritmo tambureggiante come una prodigiosa “nacchera”, rivelò il talento sinfonistico dell’operista trentino; lo impose all’ammirazione, lo “condannò” al capolavoro. E il capolavoro venne: si chiamò «Francesca da Rimini» dove – mirabile impresa – il musicista riuscì ad aggiunger poesia alla poesia ch’era, nientedimeno, la poesia di Dante e di D’Annunzio! In «Conchita» purtroppo l’impresa era disperata in partenza, data l’assoluta “impossibilità” teatrale dell’adattamento scenico del romanzo del Louys. Una brevissima analisi dell’opera ci porta a ricordare l’interesse soltanto coloristico del primo quadro dell’atto primo; il primo intermezzo, l’assoluta bellezza dell’intero secondo atto con l’ardita presentazione musicale dell’ignobile caffè e il duetto conclusivo in cui, forse per l’unica volta, i due innamorati – se così posson chiamarsi quegli stranissimi tipi di “Conchita” e “Mateo” – trovano accenti non privi di qualche umanità e, si può dire, in tutta la prima metà del terzo atto, con quelle voci interne di magnifico effetto e quell’andare e venire delle rare coppie così efficacemente commentato dall’orchestra. Episodio sinfonico condotto con mano maestra che non sfigura neppure dinanzi alle maggiori pagine orchestrali ispirate all’ambiente spagnuolo. Per l’ultimo atto: N.N.; niente di specialissimo da segnalare: la bastonatura finale, ritardata come abbiam detto di ben due atti, e la riconciliazione hanno trovato nell’inventiva melodica dello Zandonai abbastanza buoni accenti, che però non rimangono nella memoria. Altra ragione, quest’ultimo atto mancato che conclude senza concludere, di impoverimento dell’opera complessivamente considerata, nel concorso cioè del fattore poetico e dell’apporto musicale e che fa rimpiangere ancora una volta l’infecondo connubio tra l’inconsistenza della materia teatrale e la generosa opulenza della tavolozza zandonaiana e il fervore inventivo del nostro insigne musicista. In un’opera di carattere decisamente sinfonico come «Conchita» il maestro Tullio Serafin doveva trovare materia a iosa per affermare quella felice penetrazione della partitura e quella potenza ricreatrice che fanno di lui il direttore così valoroso e ammirato. Difatti il maestro Serafin ha dato vigore di ritmi e poeticità di colori ai numerosi episodi che ingemmano la partitura, guidando mirabilmente il non semplice complesso del palcoscenico e dell’orchestra, senza che questa soverchiasse mai quello. Solo chi bene conosce il valore di cantante e di attrice di Gianna Pederzini attraverso le brillanti prove offerte nelle più svariate interpretazioni può non meravigliarsi dei risultati di prim’ordine cui è pervenuta l’insigne artista, raffigurando l’enigmatica “Conchita”. È stato un successo personale riconosciuto dalla unanime ammirazione. Al tenore Paolo Civil spettava l’ingrata parte di “Mateo” ch’egli ha sostenuto con viva intelligenza scenica. Vocalmente non ha certo rinnovato la bella impresa della interpretazione 3.1.1/43 della «Nave» che resta tuttora la sua maggiore affermazione sulle scene del Teatro Reale; comunque ci è piaciuto di più nelle emissioni di forza anziché nella mezza voce. Come “Mateo” uomo, così il cantante: si è imposto ed è stato amato quando ha picchiato di santa ragione! Non possiamo ricordare tutti i nomi – circa venti – degli artisti chiamati a sostenere le parti minori; ci limitiamo a ricordare per un particolare elogio quelli della Dubbini ch’era la “Madre”, della Huder, del Masini-Sperti, di Mino Russo. Convenientemente apprezzata la regìa del Govoni e la partecipazione del coro, istruito dal Conca; piuttosto fiacche le scene. Comunque, tutto il complesso è apparso intonato alle artistiche tradizioni del teatro. Il successo può giudicarsi buono: oltre venti chiamate e abbastanza calorose. Allo spettacolo assisteva la Principessa Mafalda d’Assisi. 31 l[udovico] f[erdinando] l[unghi], “Conchita” di Zandonai al Reale, «Il Giornale d’Italia», 20.1.1940 - p. 3, col. 2 Mi dicono che Zandonai non prediliga questa sua «Conchita». Ma sulla predilezione degli artisti verso le loro creature occorre fare le più ampie riserve. E in ogni caso «Conchita» non giustifica questa specie di disinteresse da parte del suo autore. È un’opera che alla teatralità, alla sapienza strumentale, alla vivacità del colore unisce una ricchezza musicale non comune ai tempi nostri. Quando si crea, dopo quell’originale secondo, un atto quale il terzo che più che un atto è un quadro essenzialmente musicale, una pagina come quella che precede l’atto quarto, e tutto lo stesso atto, non c’è dubbio che ci si trova di fronte ad un musicista che non soltanto sente il teatro ma ha molte cose da dire ed idee da esprimere. In più la musica ridà alla vicenda quell’accesa e quasi malata passionalità che s’era come perduta nel trapasso da romanzo a libretto. Chi ha letto «La femme et le pantin» di Pierre Louys non può non sentire quanto il carattere sadico della protagonista si sia diluito nella riduzione a libretto, fino a diventare soltanto capriccioso e dunque inadeguato a giustificare un gioco così crudele con la passione di “Matteo”. Questo svisamento di carattere è, come s’è detto, in gran parte corretto dall’acceso respiro di una musica che non s’è appagata delle apparenze ma ha cercato una essenza espressiva nella tormentata e torbida sostanza di un sentimento che per esplodere pieno e durevole sotto la specie di un amore ardente ma castigato dall’umiltà di un’assoluta dedizione è dovuto passare attraverso la brutalità manesca dell’esasperato amante. Accenti, contrasti, violenze, abbandoni che lo Zandonai ha, a mio parere, resi musicalmente con ampiezza di impeti e con largo respiro musicale. Forse il quadro talora risente della voluta costruzione coloristica più che ambientale: come ad esempio nel primo, il meno felicemente dotato. Ma si rifà poi nel terzo, come già notato, dove accade qualche cosa di più vivo e vero, sia pure sullo sfondo di una episodica coloristica. «Conchita» dunque ha narrato ieri sera la sua allucinata storia sulle scene del Reale, incarnata da Gianna Pederzini e tenuta con mano solida da Tullio Serafin. Il maestro Serafin ha una sua particolare e preziosa convinzione nel dirigere le opere dei nostri contemporanei. Vi porta con la fede e la dedizione tutto il contributo della sua sapienza di concertatore e la severa disciplina della guida sicura del palcoscenico e dell’orchestra. Fede, dedizione ed autorità che si risolvono in un insieme armonico, nutrito ed equilibrato. Tale è stata l’edizione di “Conchita” e di cui Zandonai deve esser grato a Tullio Serafin. Gianna Pederzini, come ho detto, è stata la protagonista. Di fronte alle interpretazioni di questa eletta artista si ha la netta sensazione della compiutezza. Raramente si trovano riunite 3.1.1/44 più felicemente le varie doti che contrassegnano la vera arte. Attrice, danzatrice, cantante, concorrono con uguale calore e fascino a creare il personaggio: di una mirabile evidenza: perfetto. E tanto più perfetto in quanto la Pederzini è riuscita con rara sensibilità ed intuito artistico ad evitare di ricordare, sia pure lontanamente, “Carmen”. Altra creatura: altra interpretazione. Paolo Civil è stato “Matteo”. Di questo coscienzioso interprete sono note talune significative prove. È un intelligente attore ed un cantante non privo di qualità. Non mi pare tuttavia che in quest’opera abbia trovato quella giustezza di emissione che rende pienamente espressiva, sicura e gradita la voce. Palcoscenico straricco di personaggi e tutti bene caratterizzati. Maria Huder è stata una “Dolores” di bella ed educata voce e di vivace intelligenza scenica. Brave la Limberti, la Caravani, la Dubbini, la Pini, la Saghin, la Meloni, la Bernardi e la Daidone; come pure veramente bravi il Masini Sperti, il Russo, il Silveri e Pacini, Niccoli, Taddei, Conti, Bianchi, Giusti e Galizia. I cori diretti dal maestro Conca e la vivace regìa di Govoni hanno contribuito al successo, che è stato cordiale e caloroso e che si è concretato in numerose chiamate dopo ogni atto al maestro Serafin e agli interpreti. 32 m[atteo] i[ncagliati], “Conchita” di Zandonai al Teatro Reale dell’Opera, «Il Messaggero», 19.1.1940 - p. 3, col. 6 Se volgiamo uno sguardo alle donne che furono le eroine del melodramma italiano, noi non vediamo che creature appassionate, anime romantiche, pronte all’abbandono. Questa strana Conchita che ai suoi tempi andò a cacciarsi tra le oneste file di tante gentildonne onorate, riverite, acclamate, scompigliandole arditamente, per la sua tipica anti-tradizionalità dovette apparire come il diavolo in gonnella. Sta di fatto che Riccardo Zandonai, appena venticinquenne, concependo la partitura di Conchita, segnava una nuova data nella storia dell’opera lirica italiana; e la segnava per due ragioni: anzitutto perché il sinfonismo per la prima volta faceva il suo ingresso nel nostro teatro (e per sinfonismo intendiamo qui specificatamente dire di quel mondo strumentale e ritmico fatto di folclore, atmosfera, coloritura tipico nei primi vent’anni di questo secolo), e poi perché un nuovo clima giovanile veniva a rinnovare l’aria stantia del vecchio melodramma. Questa non è soltanto cronaca: è anche storia. Quando quel genialissimo editore che fu Tito Ricordi suggerì al giovanissimo Zandonai, che tanto prediligeva a ragion veduta, il libretto di Conchita, egli non aveva certo che uno scopo nella mente: quello di offrire a un musicista di vibrante giovinezza e di talento originale una materia senza compromessi con il passato. Il libretto di Conchita oggi, per ovvie ragioni, è cosa superata, ma la musica resta, e resta anche il fattore storico di straordinaria importanza. Se si pensa che dalla fantasia di un giovane di venticinque anni è scaturita la partitura di Conchita si rimane compresi di alta ammirazione: allora, trent’anni fa, Strauss e Debussy cominciavano appena ad affacciarsi con le loro musiche nelle nostre sale concertistiche, ed erano battaglie da non dirsi. Zandonai ha fatto il suo cammino da sé: quello che lui ha espresso musicalmente era un mondo ideale profondamente radicato nel suo spirito. Ce lo dice l’armonia d’inconfondibile sapore, la caratteristica linea melodica, il colorito istrumentale. Ce lo dice infine quella somma di elementi sonori per cui ascoltando poche battute di musica si può affermare senza esitazione: questo è Zandonai. Di pagine squisitamente degne del suo autore, Conchita è piena: ecco l’intero secondo atto, blocco fuso, di una dinamica inebriante; ecco la scena delle sigaraie, la notte sivigliana, satura di atmosfere preziose; i due intermezzi del primo e quarto atto. Fascino musicale che deve 3.1.1/45 vincere nello spettatore e far dimenticare talune angolosità del libretto e talune sue compiacenti concessioni alla moda verista del tempo. A rendere viva teatralmente quest’opera di Zandonai occorrono due fattori indispensabili: una protagonista dotata oltre che di qualità canore notevoli anche di un gioco scenico ricco di atteggiamenti plastici; e un direttore d’orchestra capace di dominare le complesse difficoltà della partitura. La maestria e il vivido ingegno di Tullio Serafin hanno dato un’altra significativa prova della loro facoltà comunicativa: l’orchestra ha quindi suonato con impeto e precisione, scolpendo gl’incisi ritmici e creando morbide atmosfere intorno all’armonica musa zandonaiana. Gianna Pederzini, artista di multiformi possibilità e versatile intuito, ha impersonato la figura della protagonista con sottile penetrazione, animando la scena e cantando con calda espressività [e] dizione perfetta. Accanto a lei il tenore Paolo Civil, nelle piuttosto ingrate vesti di Don Meteo [sic], si è confermato cantante di mezzi eccellenti, sensibile e duttile artista. Ottima tutta l’infinita schiera dei personaggi minori che ha contribuito a dare armonica sintesi allo spettacolo. Le scene non sono apparse questa volta in tutto degne dell’ammirevole tradizione del Teatro Reale; la regìa del Govoni, l’allestimento, le luci hanno nondimeno neutralizzato efficacemente le manchevolezze nell’estro pittorico. Una lode anche al briosissimo coro. Lo spettacolo ha riportato caldo successo che si è concretato in molte chiamate, ad ogni fin d’atto, al direttore e agli interpreti. 33 b., Conchita e la Pederzini, «Il Piccolo», 19.1.1940 - p. 3, col. 6-7 (con foto di Gianna Pederzini) Conchita – ovverosia, all’italiana, “Concettina” – era Gianna Pederzini. Basta questo fatto per capire che la giovanile opera di Riccardo Zandonai (anno 1911) fu data iersera all’Opera con tutta la squisitezza immaginabile. Impetuosa e tenera, sensuale e mistica, fatta per dannare un galantuomo eppure degna di convolare a giuste nozze con il medesimo, così apparve Gianna: tal quale la pensò Riccardo Zandonai cambiando in parecchi punti fondamentali i connotati alla satanica protagonista del romanzo di Pietro Louys. Abituato a vedere la Pederzini sotto le spoglie di Cherubino e di Hänsel, la turbolenta femminilità di Conchita sorprese gradevolmente il pubblico, tanto più che la parte le si prestava a fare sfoggio dei suoi mezzi vocali. Il prospero successo di iersera per una buona metà è opera sua. Dopo il titanico Guglielmo Tell il maestro Serafin si può credere abbia scelto «Conchita» come una battuta riposante, come l’«Hänsel und Gretel» fu la sosta dopo Falstaff, i Maestri Cantori e Monte Ivnòr. Con questo non vogliam dire che i quadri d’impressione del compositore trentino abbiano una partitura facile. Per convincersi del contrario basta l’atto del “cafè-baile”. Le note della “seguidilla” con il loro ritmo insistente servono di fondo al complicato canto. È un’ardita trovata da grande maestro e di estrema difficoltà; e tuttavia la bacchetta del Serafin riesce a dar rilievo, con una chiarezza e una trasparenza mirabile, a ogni particolare. In questo secondo atto, che musicalmente è il maggiore, già si delinea nitida una delle principali facoltà del maestro trentino: la pittura dei grandi quadri, che nelle opere posteriori, specie quelle che rappresentano la maturità, avrà pieno sviluppo. Non è il caso di riscoprire Conchita, che da tempo è stata criticamente esaminata, ma è necessario per comprenderla tener conto di quelle singolarità che qui vediamo in embrione e che prenderanno ampio sviluppo nelle opere successive. 3.1.1/46 Quanto all’esecuzione di iersera, va riconosciuto il valore della voce e la sobrietà del gesto del tenore. Paolo Civil ha saputo contenere nei giusti limiti il carattere di don Matteo, che senza questi freni finirebbe in una grottesca caricatura. Tolti i due personaggi principali, l’opera risulta un grande coro, nel quale a volta a volta ricevono lampi di luce una ventina di personaggi. Ognuno di questi fu assai bene espresso, come n’è prova l’elenco degli artisti: Maria Huder, Edmea Limberti, Alice Caravani, Agnese Dubbini, Maria Meloni, Amalia Pini, Claudia Saghin, Luciana Bernardi. E tra gli uomini Giuseppe Taddei, Gino Conti, Mino Russo, Masini Sparti [sic], Vasco Nicolai, Adolfo Pacini, Paolo Silveri, Mario Bianchi, Blando Giusti, Francesco Galizia. Lietissima fu l’accoglienza del pubblico; ad ogni atto più volte furono chiamati il maestro Serafin, Gianna Pederzini e Paolo Civil; ottimi i cori di Conca e la regìa di Manlio Govoni. 34 d[ante] a[lderighi], “Conchita” di Zandonai, «Il Lavoro fascista», 20.1.1940 - p. 3, col. 5 Una delle prime opere di Riccardo Zandonai, la Conchita, è riapparsa ieri sera sulle scene del Teatro Reale, accolta dal bel pubblico delle “prime romane” da buoni applausi particolarmente calorosi dopo l’atto secondo e l’atto terzo. Anche questa volta il pubblico è stato secondo noi giudice intelligente. In questi due atti c’è infatti il meglio di tutta l’opera, sia come libretto sia come musica. L’atmosfera equivoca del ritrovo notturno del secondo atto è davvero presentata dal musicista con mano capace e pronta, come pure la notte sivigliana del terzo trova il giovine Zandonai sveglio quanto mai a coglierne i richiami suggestivi, i colori in fosforescenza, le forme vaghe dal brivido serpeggiante nella penombra chiazzata dalle luci stellari. Gianna Pederzini ha interpretato la parte estrosa di Conchita come sa far lei, cioè con grande padronanza scenica e notevoli mezzi vocali. Paolo Civil ha reso il debole personaggio di Mateo con abilità intelligente di cantante e di attore. Agnese Dubbini è stata una madre di Conchita rassegnata e paziente, Masini Sperti come voce interna s’è segnalato per la chiarezza del timbro. Gli infiniti altri esecutori di Conchita lavorano tanto “a spizzico” da non poterne indicare in coscienza i pregi o i difetti; da ricordare tuttavia Maria Huder, Edmea Limberti, Mino Russo. Tullio Serafin ha concertato Conchita con vera maestria e nettezza d’idee costruttive. Il coro, nel primo atto, c’è sembrato non abbastanza realizzato nella registrazione dei volumi sonori; le vecchie scene di Pieretto Bianco accettabili nei primi quadri (quelle della notte sivigliana è forse la migliore) ma pietose nell’ultimo quadro, dallo sfondo d’un giardino da teatrino di secondo ordine. La regia di Govoni è stata ben mossa, con trovate che rivelano in Govoni l’esperto uomo di teatro. 35 Orazio Mancini, Conchita di R. Zandonai, «Rivista nazionale di musica» XXI/379, gen. 1940, p. 4373 Un’opera mancata per la inconsistenza teatrale del libretto di Vaucaire e Zingarini [sic], libretto che offende la gentilezza del costume e la nostra dignità di uomini. Anche la musica non è tale da rendere vitale quest’opera, ma è soltanto sufficiente oggi a darci, in uno sguardo retrospettivo, le notevoli qualità operistiche dell’autore, che si affermarono decisamente e 3.1.1/47 compiutamente nella «Francesca da Rimini». Gianna Pederzini ha ritratto la protagonista con appropriatezza di gesti, facendosi molto ammirare ed applaudire. 36 Brillante reprise de “Conchita” de Zandonai au Royal, «L’Italie», 20.1.1940 - p. 3, col. 3-4 Le maestro Riccardo Zandonai a fait vingt-cinq lorsqu’il composa «Conchita». Mais loin d’être un œuvre juvénil, «Conchita» est un opéra plein de jeunesse qui marque, d’ailleurs, une date dans l’histoire du théâtre lyrique italien: celle de l’entrée du symphonisme. Le vieux mélodrame se rajeunit. Ce fut Tito Ricordi qui conseilla à Zandonai de mettre en musique le livret de «Conchita». Son but [a] été d’offrir de la matière neuve à un compositeur vibrant de jeunesse. Aujourd’hui le livret de «Conchita» est dépassé, mais sa musique reste. Zandonai y a exprimé un monde idéal avec un style harmonieux et un coloris instrumental très raffiné. «Conchita» renferme de très belles pages, d’un dynamisme entraînant, d’une sonorité exquise. Le deuxième acte tout entier est enivrant. Naturellement il faut à «Conchita» une protagoniste hors de pair et un chef d’orchestre passionné. «Conchita» a eu les deux, hier soir. Le maestro Tullio Serafin a dirigé l’orchestre avec cette ardeur impeccable qui suscite l’admiration et a créé autour de la partition une atmosphère nuancée d’une vive délicatesse. Dans le rôle de la protagoniste Gianna Pederzini a donné la mesure de la beauté de son chant, de son talent et de son jeu animé et vibrant. Excellent le ténor Paolo Civil, et parfaits, à touts points de vue, les autres interprètes: Huder, Limberti, Garavani, Dubbini, Meloni, Pini, Saghin, Bernardi, Daidone, Taddei, Conti, Russo, Masini Sperti, Niccolai, Pacini, Silveri, Bianchi, Galizia et Gusti [sic]. On a admiré le mouvement scénique réglé par M. Govoni et les danses. Succès très chaleureux, les rappels ont été nombreux. [...] 3.1.1/48