3. ARTICOLI
3.1.
3.1.1.
SULLE PRODUZIONI ROMANE
CONCHITA
1
derensis, “Conchita” di R. Zandonai al Costanzi, «Musica» VI/12, 24.3.1912 - p. 1, col. 4 / p.
2, col. 1
Nel malinconico e piovoso pomeriggio di venerdì un gran numero d’invitati, e tra questi
tutti i rappresentanti della stampa, tutti i verbosi sfaccendati dei corridoi, cento maestri,
operisti in erba, falliti, si raccoglieva nella sala del Costanzi oscura, e perciò più sacra ai
misteri dell’arte, per assistere alla prova generale dell’opera di Zandonai. Conchita era attesa
con insolito interesse, perché sulla giovine energia di Zandonai, oggi, più che su qualunque
altra si appuntano le speranze dell’Italia musicale. E giustamente. Nessuno dei tanti tentativi,
dibattentisi tra l’esotismo e lo strano, tra l’esuberante e lo stitico, tra l’imitazione pedissequa e
il ladroneggio sfacciato, par giunto così vicino all’affermazione quanto quello compiuto dallo
Zandonai col Grillo del focolare nel 1908 a Torino e con Conchita l’anno scorso al Dal
Verme di Milano. Con l’una e con l’altra opera ha mostrato di possedere due qualità che
invano si desiderano in altri operisti e sinfonisti: padronanza completa di tutti i mezzi tecnici
onde esprimere ogni stato d’animo o d’ambiente; volere preciso a sciogliersi da ogni laccio
della tradizione o della moda a fine di conquistare una spiccata personalità. Queste due
qualità costituiscono il miglior elogio che noi possiamo indirizzare a Zandonai, oggi che a
Roma egli per la prima volta ha chiesto il giudizio.
Non sappiamo se di dolce o di amaro avrà sapore l’acqua battesimale della critica e del
pubblico romano; noi scriviamo poche doverose parole dopo la prova generale cioè dopo una
prova che non ammette espressione di pensiero. Tuttavia, poiché quando questo numero di
Musica correrà l’Italia la prima rappresentazione è avvenuta, non è indiscreto sintetizzare
qualche impressione sul valore e sulla vitalità di Conchita.
A Zandonai si farà subito e da tutti l’aspro rimprovero d’aver sciupato tesori di materia
d’arte e di anima per un argomento arido, impreciso, ambiguo sia per l’elemento locale che
psicologico. La figura di Conchita, bizzarra quant’altra mai, inspiegabile, non sempre
simpatica, di rado commotrice, si agita come distaccata dallo sfondo, che pure è sempre
vivido e colorito. L’ambiente è stato descritto dallo Zandonai con finezza e originalità, sì da
non rievocare mai l’ombra di Bizet. Nella Carmen c’è la Spagna diremo superficiale, in
Conchita c’è la Spagna intima, penetrata e disvelata. La trama orchestrale del primo atto,
l’intermezzo nella strada (a sipario calato che sarà molto discusso), le danze del secondo atto,
l’andante calmo del terzo, il preludio del quarto sono pagine genialissime pervase da un
profondo folklorismo; pagine ammirate per la novità delle idee e per la strumentazione
elaborata.
L’azione, che si riduce a duetti tra Conchita e Mateo, a posizioni ripetute, offre all’autore
spunti lirici e drammatici di alto valore musicale, ma non pare destinata a soggiogare l’animo
della massa, a imprimersi e commuovere, a percorrere lo spazio e il tempo.
Vorremmo errare in questo apprezzamento e saremmo lieti di rettificarlo subito: allo
Zandonai è riservato il grande, l’assoluto trionfo, e se non gli proviene da Conchita e da
3.1.1/1
Roma gli auguriamo gli venga da Melenis, la sua terza opera, già compiuta, di soggetto
romano.
2
r[affaello] d[e] r[ensis], “Conchita” al Costanzi, «Musica» VI/13, 31.3.1912 - p. 3, col. 1
La nuova opera di Riccardo Zandonai ebbe il meritato onore di un eletto e numeroso
pubblico, che l’ascoltò con viva attenzione, che ammirò l’arte sapiente del maestro, applaudì
ed evocò l’autore, formulò infine il convinto augurio che da Zandonai può provenire il
capolavoro. E giustamente, perché Conchita, sotto l’aspetto puramente musicale s’avvicina di
molto al capolavoro non solo per la dipintura dell’ambiente e per la struttura dei quadri, ma
per il sentimento ancora e lo slancio lirico e drammatico, che agitano le figure di questa
opera. Opera scenicamente e psicologicamente mancata, ma rivelatrice d’una tempra
superiore di operista da cui l’Italia molto può attendersi.
Nulla abbiamo da aggiungere al nostro giudizio sintetico espresso all’indomani della prova
generale di Conchita, tranne che non volessimo esemplificare, dettagliare, analizzare: fatica
assai ingrata ad una settimana di distanza. È nostro dovere però riferire ai lettori la cronaca
dell’esecuzione. L’orchestra, sotto la direzione perspicace e calorosa di Edoardo Vitale, che
ha interpretata l’opera oltre che con coscienza di artista con affetto di fraternità, ha ritratto
fedelmente la trama sinfonica e lirica, che arricchisce la partitura di Conchita. I due
protagonisti, la Cervi-Caroli e il tenore Taccani, nelle loro parti non lievi né brevi, hanno
messo tutta la loro volontà canora e scenica; ma non sappiamo quanto ci siano riusciti. Buona
madre la Marek [sic] e bene il coro.
Un elogio a Carlo Clausetti, primo regisseur d’Italia, primo per diritto di precedenza e
per... qualità.
3
Nicola D’Atri, “Conchita” di R. Zandonai al Teatro Costanzi, «Il Giornale d’Italia»,
25.3.1912 - p. 3, col. 1-2
Conchita o Zandonai? Questo è il problema: problema per la cronaca, problema per la
critica. Risolverlo non sarà dovere dei posteri, è bega nostra dell’ora che passa: echeggiano
suoni e commenti inspirati da un’altra sigaraia di Siviglia, più provocante e corrotta ma assai
meno fatale di Carmen.
In altri termini, e per la cronaca: vi fu iersera un successo per l’opera e per l’autore?
Per Conchita, come libretto e come insieme di spettacolo con musica, si direbbe quasi che
no, dato il riserbo del pubblico che, però, attentissimo non perdette un particolare delle scene
che più offendevano la buona morale: pubblico di prima sera, naturalmente sostenuto, folto in
platea e nei palchi, quindi inguantato, ma assai scarso in anfiteatro e nelle gallerie, quindi
assenza di quella massa umana che cede sinceramente alle prime impressioni, buone o
cattive.
Successo per l’autore? Bisogna affermare risolutamente di sì. E non tanto per gli applausi,
che coronarono la fine di ogni atto, applausi che raddoppiavano quando egli, chiamato, era
spinto dagli artisti alla ribalta, quanto per il miracoloso salvataggio che la sua musica (non
certo l’autorità del nome suo, che giungeva nuovo o quasi) andò compiendo di una serie di
scene o dell’insieme del soggetto: soggetto o scene contro le quali il pubblico sarebbe insorto.
La musica, una musica di cui sentiva la vitalità e il potere senza intenderne ancora né
3.1.1/2
spiegarsene il fascino, disarmava quel pubblico rendendolo innocuo e benevolo e creandogli
l’obbligo morale di applaudire.
Questo per la cronaca. Per la critica – parola grossa ma cosa semplice, se si parla alla
buona – il problema, secondo noi, si risolve anche in osservazioni di fatto, ma, beninteso,
lasciando ora da banda gli umori del pubblico di iersera o di quello di domani, e mettendoci
in faccia all’opera d’arte per osservarla dopo le impressioni provate. Poiché il punto di
partenza di ogni giudizio, la base spirituale della critica è l’impressione individuale: chi mai
prova o sente, o chi abbandona sé stesso per ragionar solo coi criteri generali riconosciuti da
tutti, costui “criticherà” sempre l’opera d’arte ma non comprenderà mai l’artista.
Ora, coi criteri generali noi possiamo ridurre al nulla, in Conchita, l’opera d’arte: e ci
apporremo perfettamente al vero. È Conchita, come oggetto musicato, un lavoro che abbia
contenuto artistico organico e vitale? E le sue forme sceniche e quelle musicali rispondono
all’ideazione originaria e originale di La femme et le Pantin, il notissimo romanzo di Pierre
Louys? È facile rispondere che no. La figura di Conchita fu vista dal romanziere nella
continuità delle sue azioni in cui si svolgeva logicamente il processo psicologico della sua
anima perversa esaminata, analizzata dallo scrittore nelle fasi successive: tutta l’irregolarità
del suo essere strano e bizzarro, del suo essere enigmatico di donna, si delinea nel romanzo
come tale: il suo carattere quindi si determina al nostro intendimento e persuade. La figura di
Mateo, l’amante e la vittima di Conchita, s’individua anch’essa, traverso le vicende
successive, nelle sue linee, logica, chiara e persuasiva. I due esseri, sien pure immaginari o
inverosimili, diventano realtà artistiche al nostro spirito.
Ma tradotta in quadri scenici, la visione affatto analitica del romanziere è purtroppo caduta
nel falso o nel luogo comune. Colpa di un librettista inabile? Oppure necessità fatale di ogni
visione artistica che venga tradotta, trasportata dal suo campo originale in un altro? Sia
comunque, le figure di Conchita e di Mateo, nel libretto e nell’opera, private per così dire di
linee e tratti determinanti, presentate in alcuni e non in tutti i mutamenti della loro esistenza
psicologica, diventano o assurde o inesplicabili. In fatto diventano troppo comuni: l’una ci
compare come una qualunque amante peggio che dispettosa, benché vestita alla spagnuola,
l’altro un pover’uomo esasperato che finisce col picchiar la sua bella, la quale, alla fine, gli si
abbandona.
Destituite di carattere le figure dei protagonisti, che possono essere bensì tipi del mondo
reale ma non sono affatto delle realtà artistiche individuate, esse non vivono nel nostro spirito
né possono infondere vitalità all’opera d’arte che su di esse s’impernia. Non solo, ma tutto il
contenuto passionale del libretto perde d’intensità e si svolge in situazioni che non hanno
nulla di poeticamente singolare per inspirare un musicista, il quale perciò non riceverà
impulso sufficiente a una creazione caratteristica nel campo sentimentale. Creerà musica per
sé stessa, bella sentita ed appropriata a una Conchita e ad un Mateo, che non sono però
veramente né Conchita né Mateo.
***
Ciò detto, ogni altra osservazione è superflua per dimostrare che Conchita manca, a causa
del libretto, dell’elemento più essenziale per essere un’opera d’arte vitale nell’interezza del
suo organismo. Gli stessi difetti, e più gravi, viziano peraltro la più parte dei melodrammi,
italiani in ispecie, pochissimi dei quali resistono al giudizio critico, anche se resistono
lungamente alla scena per requisiti di teatralità che, a dire il vero, non mancano nemmeno ad
alcuni quadri della Conchita.
Ma quest’opera s’impone, nonostante tutto, per sensazioni d’arte vere [e] profonde, che in
noi sono rimaste impresse. Gli è che il musicista fuor del libretto, fuor di “Conchita” e di
“Mateo” ma intorno ad essi, ha intuito un suo fantasma d’arte; ha visto i quadri più che le
persone che vi agivano così debolmente: e intorno a queste ha creato un fondo, ha creato tutto
un ambiente di vita. No, non è il vieto colore locale, non è la consueta musica descrittiva
3.1.1/3
composta per sapienza tecnica o senso coloristico, no: è un’anima artistica che tra la fiacca e
incerta passionalità dei personaggi sente nell’atmosfera del dramma, nelle luci e nei colori di
Spagna, nei ritmi della seguidilla, della jota, della malagueña, nelle cantilene che riempiono
di echi suggestivi i solitari meriggi o le notti lunari popolate di amori, sente crescere in sé
un’onda di poesia, che è il suo proprio lirismo. E canta questa giovane anima di musicista
com’ella sa cantare e tessere suoni e carole in quell’ambiente di cui inconsciamente
s’immedesima, mentre ella crede o s’illude di sentire il dramma e di esprimere l’amore così
indistinto di Conchita o di Mateo. Canta e sinfonizza quei ritmi, quelle nenie, quegli echi,
inconsapevolmente “lirizzando” sé stessa fra quelle indefinibili suggestioni, che a noi pure
trasmette, inavvertitamente. Così iersera, con un suo linguaggio che noi non sapemmo ad
altro rassomigliare, che molti non seppero intendere pure ascoltandolo, ci parlava il musicista
della Conchita, Riccardo Zandonai, musicista già per ogni verso sapiente benché anima
appena ventottenne, e forte, nuovo, originale temperamento di artista, sorto forse a fecondare
la musica italiana. Giunge a noi qui come uno sconosciuto o quasi, e sarà – chi lo sarà ancora
– misconosciuto. Ma a noi basta questa inconsistente opera d’arte che si chiama Conchita per
rivelarcelo artista superiore e operista di sicuro avvenire, e nulla al mondo, nemmeno il
pericolo d’ingannarci, ci trattiene dal proclamarlo.
Quindi è che se l’opera musicale nella successione delle sue pagine accerta al giudizio di
tutti la forza del musicista e la potenza incontestabile del sinfonista che maneggia l’orchestra
a suo piacere con varietà di forme e con sicurezza di effetti, essa, a noi che l’ascoltammo
senza preconcetti e profondamente, dice subito qualcosa che altri udrà più tardi.
Troppo è breve lo spazio di questo scritto per dimostrare a chi parlasse di difetto
d’inspirazione, di melodia, di canto, di sentimento, che queste son parole che furono
avventate anche contro i più grandi musicisti, appena rivelavano la loro particolare natura, per
negar loro la genialità. Ma è abbastanza lo spazio per raccomandare a chi ha una certa fede in
noi di riascoltare la musica di Riccardo Zandonai per sentirne la poesia nell’originalità della
forma.
***
In un’osservazione d’insieme, ciò che alla prima colpisce udendo la musica di Conchita è
la ricchezza della strumentazione e la varietà, il brio dei ritmi; poi si notano i colori armonici
che si alternano con gusto moderno, ultra-moderno talvolta, ma temperato e fuso col gusto,
col senso dell’armonia classica: i disegni ritmici poi s’intrecciano con figure armoniche, si
concatenano in forme che danno esistenza a veri quadri musicali nel cui mezzo si svolgono
episodi melodici squisitissimi: così fiorisce intorno alla parola sul palcoscenico o intorno al
canto di uno strumento in orchestra la melodia fresca, leggera, sospirosa, in mezzo alla
fervida vita del ritmo. E tutto si intona al colore del quadro generale, inseguendo vivamente il
senso della parola cantata, dipingendo l’episodio, incalzando l’azione: e la parola domina di
continuo sulla sonorità dell’orchestra.
Così l’opera s’apre col quadro della Fabrica di Siviglia: quadro ritmico, per così dire, che è
tutto uno scherzo istrumentale di carattere spagnuolo, e in cui fra gli altri episodi si svolge il
racconto di Conchita, racconto di un verismo musicale meraviglioso. Segue l’Intermezzo
nella Strada, in istile sinfonico, in cui si ripresenta il ritmo della seguidilla e poi nel secondo
atto la vivace scena del baile è tutto un magnifico affresco corale e strumentale, in cui
l’operista dimostra la franchezza della sua mano e l’artista la potenzialità della concezione: la
scena d’amore che chiude l’atto offre un breve quadro strumentale, in cui la melodia più
dolce e sottile trova fascini nuovi nella veste armonica e strumentale.
Tutto il terzo atto è una visione pittorica d’ambiente che si esplica in suoni: il preludio
descrive la notte andalusa: sovra una cantilena che arriva di lontano poi sbocciano con frasi di
voluttà amori misteriosi: e in questo suggestivo ambiente il musicista, con una vis
drammatica forte ma contenuta in linee sobrie, imposta la scena del cancello. E nel brano
3.1.1/4
sinfonico che precede l’ultimo atto egli poi, animato da un soffio lirico squisitissimo, leva una
melodia deliziosa, la melodia sua propria, discreta e gentile, così come gli vien dettata dal
sentimento del quadro.
Traverso questi brani sinfonici o misti di voci, traverso le scene cantabili, ricompare
sempre con suggestivi richiami l’ambiente, il colore, la visione della terra spagnuola: l’unica,
la vera, la profonda visione artistica, a nessun’altra somigliante e perciò caratteristica, che sia
in Conchita.
Un tale elemento estetico dell’opera individua l’artista, che a noi perciò si presenta capace
di fantasmi suoi propri, se ha saputo averne uno speciale al soggetto musicato: e se ha saputo
realizzarlo non di maniera o con la virtù della tecnica, ma con la suggestione del suo
sentimento.
E qui sta il sentimento, l’inspirazione, assai più che nel far cantare la voce o i violini
all’unisono con larga enfasi trascinante, conforme all’abito... sentimentale che il pubblico si è
andato formando in questi ultimi anni in cui operò coi retaggi ponchielliani la cosiddetta
“giovane scuola”, spesso ormai senilizzante. Il grande operista italiano dell’avvenire sarà
anche sinfonista, o non sarà. Riccardo Zandonai, un italiano irredento del Trentino, redime
intanto l’opera nostra dalla sviolinata, che raccoglie gli ultimi trionfi nell’Isabeau del suo
genialissimo maestro. Andate, andate a sentire Conchita: maledite a lei sigaraia picchiata dal
suo amante e allo sconcio soggetto picchiato dalla critica e affibbiato chi sa come e perché a
un giovane musicista ansioso di produrre; ma ascoltate attentamente e saprete come possa un
sinfonista italiano esprimere, secondo sua natura, le melodie che mormorano nella sua anima.
[...]
4
u. r., “Conchita” al Costanzi, «Il Tirso» IX/12, 31.3.1912 - p. 3, col. 1-2
Dopo la vigorosa affermazione fatta con la prima sua opera «Il grillo del focolare», il
giovane maestro trentino Riccardo Zandonai ha musicato l’adattamento scenico del noto
romanzo di Pierre Louÿs «La femme et le pantin» ottenendone l’anno scorso un invidiabile
successo al Dal Verme di Milano. A Roma l’opera e l’autore erano poco noti e quindi attesi
con viva curiosità anche perché si desiderava conoscere uno dei migliori ingegni musicali
usciti dalla scuola di Pesaro al tempo della direzione Mascagni. E l’attesa, a giudicare dalla
accoglienza favorevole fatta anche a Roma a questa Conchita, non è andata delusa.
Il libretto
È un vero peccato che molti drammaturgi e musicisti odierni abbiano così spiccata
tendenza a portar sulle scene dei brani di patologia e sopratutto di pervertimenti sessuali.
Anche questa «Conchita» appartiene alla categoria ormai troppo numerosa delle isteriche,
dall’incomprensibile mutevolezza di pensiero, senza carattere, assillata da perenni contrasti
tra gli impulsi naturali verso la lussuria e gli artificiosi freni che la sua mente perfida e malata
le suggerisce a scatti, a periodi intermittenti. Ella non sa riuscir mai nonché simpatica almeno
interessante e molto di ciò si deve anche alla necessità di restringere in poche scene il
romanzo del Louÿs eliminandone quindi tutto il nesso psicologico che rende più chiari certi
bruschi passaggi di carattere e di sentimento. Peggio ancora per quanto riguarda Mateo, vero
fantoccio senz’anima o con anima volgare, indegno d’esser portato sulle scene.
Oh, quanto siamo lontani dai tipi ormai classici ma forti ed umani di Carmen e di José! La
pretesa somiglianza con Conchita e Mateo non è che apparente e dovuta più che altro
all’ambiente uguale (Carmen e Conchita sono infatti ambedue sigaraie e sivigliane) e se mai
la proterva Conchita potrebbe essere una Carmen riveduta e... scorretta, ahi quanto scorretta!
3.1.1/5
Non parliamo più della parte letteraria (?!) dell’“Adattamento scenico” che non torna certo
ad onore dei librettisti a causa di molte e sconce volgarità e dell’oblio della sintassi e della più
elementare prosodia, sì da far credere trattarsi di una delle tante ed antipoetiche “Versioni
ritmiche” di libretti stranieri in italiano!
La musica
Era naturale che con personaggi così poco umani e sentiti il musicista si trovasse a disagio
e dovesse continuamente sforzare od adattare la sua anima artistica alle pieghevolezze di
quelle due anime malate che sono i due protagonisti o meglio i due attori, ché tutte le altre
figure dell’opera non rappresentano proprio nulla: è insomma un eterno duetto diviso in 4 atti
e poco o nulla variato giacché le situazioni, nonostante il cambiamento di scena, si
somigliano troppo e la musica non fa che seguire questo incessante difetto.
La musica dello Zandonai, ricca di ardimenti moderni e, oseremmo dire, ultra moderni, si
distingue anche per una mutevolezza e varietà tormentosa di ritmi non sempre gradevole:
basti pensare allo stucchevole ricorrere di seguidillas, di malagueñas, di jotas e simili ritmi di
indole locale, al frequente uso anzi abuso di tempi in 5 (che lo Zandonai sia un fautore... del
sistema metrico decimale?!). Ma questo color locale spagnuolo, che dalla classica Carmen
fino alla recentissima Iberia del Debussy conosciamo ormai a menadito, è troppo vieto per
noi sì da non destarci più, per avvenuta sazietà, alcun interesse o attrattiva.
Abbonda la ricchezza del colore, non sempre gradito all’orecchio come avviene per
l’occhio in certi quadri di pittori moderni: ma un’opera d’arte capace di pervadere veramente
l’animo degli ascoltatori non deve limitarsi ad un contenuto coloristico. Anche dinanzi ad un
semplice bozzetto a matita od a carbone, ma che sia tracciato da possente anima d’artista, noi
possiamo restare ammirati e provar godimento estetico ben maggiore che dinanzi ad un
quadro abbagliante di ricca e vivace policromia, nel quale però le figure appajano inanimate.
Perciò nella musica dello Zandonai l’animo nostro pur ammirando la tecnica orchestrale,
del resto non sempre di buon gusto, non si sente mai trascinato ad amare o magari ad odiare
le creature che vede rappresentate sulla scena: manca insomma quel soffio di vita che
conquide, che scuote attraverso la situazione scenica e la musica, non c’è nessun punto, a
scena aperta (neanche con la inevitabile e ben distribuita claque) in cui uno almeno di quegli
applausi spontanei, caldi prorompa e, sia pure artisticamente inopportuno, interrompa e guasti
l’euritmia della scena; mai uno di quei momenti in cui l’animo dell’ascoltatore, rimasto
sospeso e sofferente, raggiunga poi quell’acuto stato emotivo che fa fremere e fa sorgere dalla
sedia in un grido e in un applauso. Nulla di tutto ciò: noi non sentiamo che note su note,
colore, ambiente, descrizione e ci accorgiamo man mano della desolante vacuità di vera
musica, nonostante questo vuoto sia parzialmente dissimulato da una ricca polifonia o da
effetti di cattivo gusto. Anche lo Zandonai infatti non sa salvarsi dall’abuso, sopratutto al I.
atto, delle esclamazioni, delle strida, di quelle orribili notine acefale che servono appunto a
ritmare le grida, le risate e simili e che fan così cattiva impressione a chi scorra la partitura e
perfino la riduzione per canto e pianoforte: difetto che sembra pervadere i nostri moderni
compositori italiani (informi ad es. la Fanciulla del West che ne possiede pagine intere!).
Ma tutto ciò non è musica: è snaturamento della musica, è falso verismo, è volgare effetto
plateale. Qualche sprazzo o tentativo di contenuto musicale appare timido qua e là come ad
esempio nel I. atto alle parole di Mateo: «Fa che tu sei una fanciulla» e più oltre «Bada
Conchita, non mi giocare»; nel 2. atto «L’ora divina affretto» o «Quello che ad altri basta a
me non basta» e simili: ma allora purtroppo si affacciano somiglianze di opere più o meno
moderne che vanno fino al punto di far credere (come nel 2. atto) ad una copia del Sogno
della Manon di Massenet con relativa “casetta bianca”.
3.1.1/6
Via, speriamo che in ciò non consista l’avvenire o, sia pure, il divenire della giovane
scuola lirica italiana: frattanto consoliamoci... coll’augurio di sentir presto il Nerone (che
ormai sembra finito sul serio) del vecchio-giovane Boito!
L’esecuzione
Piena di slancio e di effetto da parte di tutti: il maestro Vitale ha concertato e diretto
magnificamente con vera anima d’artista la difficile partitura; la sig. Cervi-Caroli, sagrificata
a rappresentare una figura così poco attraente e poco confacente alle sue attitudini di soprano
drammatico, ha saputo peraltro con la sua arte squisita nobilitare la perfida Conchita, renderla
un po’ meno sgradita ed in alcuni momenti quasi interessante; il tenore Taccani, vero fulcro
della attuale stagione lirica, ha dovuto mettere a dura prova i suoi resistenti mezzi vocali e ha
dato tutta l’efficacia possibile alla sciocca figura di Mateo.
Benissimo gli altri, molto ben istruiti i cori difficilissimi, decorosa la messa in scena.
Nessuna richiesta di bis. Numerosi applausi alla fine di ogni atto e chiamate agli esecutori e
all’autore.
5
Gino Gori, Avvenimenti teatrali - La Conchita(*) e il Candelaio, «Il Tirso» IX/12, 31.3.1912 p. 2, col. 1-2-3-4
La Conchita di Riccardo Zandonai ci ha rivelato un musicista insigne. Tutti i critici, quali
più quali meno, lo hanno riconosciuto. Primo fra tutti Nicola D’Atri, che nei suoi giudizi è
sempre equilibrato e geniale. Ma tutti, d’altra parte, hanno riconosciuto e a ragione che la
musica in quest’opera è qualcosa di reciso dal libretto, un che a parte, una superba
espressione del temperamento lirico del maestro, sbocciata non si sa come su dal più sterile
dei drammi che possano immaginarsi, da un abbominio letterario come quello che fu
perpetrato con gli elementi di un noto romanzo dai signori Vaucaire e Zangarini. Mi pare
inutile riferirne ai lettori l’argomento; se n’è parlato e detto male da tutti, sì che non farei qui
che ripetere cose già note. Don Mateo de Diaz ama Conchita; Conchita sigaraia lo ama e non
lo ama, lo porta per il naso, l’abbindola e l’infinocchia, fino a che il bravo uomo, insatirito ed
esasperato, perde le staffe e somministra una pioppa di scapaccioni alla baldracca
invereconda; la quale, che è che non è, al veleno di tanto argomento cade fra le braccia di
Don Mateo come un’educanda di 16 anni. Il dramma (ed è poi un dramma?) si distende su
questa trama per 4 atti, interpunti d’episodi supremamente antimusicali, d’un color slavato e
con versi slombati, dove il frasario più piatto e plebeo si pompeggia nella sua grossolanità che
vorrebbe essere verismo. È una palude stagnante; né ci son caratteri, vita interiore, vita
d’ambiente, luce d’arte, intuizione delle cose; uno dei tanti libretti che appartengono alla
gloriosa schiera dei suoi confratelli italiani. Zandonai su di esso ha spiccato un volo e ha
scritto pagine di grande musica: le quali, in verità, né commentano né lumeggiano quanto in
quello v’è malamente acciabattato: fenomeno non nuovo nella storia del nostro teatro lirico e
che mi spinge a dire qui alcune mie osservazioni, brevemente.
[...]
Dalla stessa condizione di cose è nato il libretto della Conchita. Zandonai che, come ripeto,
è un gran musicista, forse colui che scaccerà di nido molti Guidi, è stato un timido o un illuso.
Forse più timido che illuso. Si tratta sempre per un giovane di vincere quella indomabile
bestia che è il pubblico e un po’ bisogna ammansarla, offrirle roba che le aggradi, che sia di
suo gusto. Ci dette, forse per questo, Conchita. Ma Zandonai ha una sua parola nuova da dire.
Zandonai sa, e per questo tutte le mie simpatie più incondizionate son per lui, che la musica la
quale manca all’Italia è la grande musica che parli con le sue cento voci dall’orchestra
3.1.1/7
sapiente, non la romanza dalle larghe volute, priva d’ogni significazione poetica, e dove si
dispiega solo l’acrobatismo canoro di un tenore analfabeta o di una signora ignorante.
Zandonai sa e s’è accorto, come non hanno sembrato d’accorgersi né Mascagni né Puccini,
che la musica vera e grande non è suono, ma poesia: non motivo isolato e campato nel vuoto,
ma treccia di motivi; non vaporosità facilona, ma tocco magico che suscita entro di noi quel
mondo che l’artista ha sempre in sé, incomunicabile altrimenti, e originale. “Suggerire la
vita”: questo pare abbia voluto fare il maestro trentino e a questo è certo riuscito con perfetta
arte, con vivo sfarzo, con intensa ispirazione contenuta e potente. Forse da lui l’Italia
potrebbe avere l’opera che aspetta; e certo l’avrà se, abbandonando tutte le Conchite di questo
mondo e di quell’altro, svolgerà la sua musica più sua attorno al più suo dei fantasmi che gli
s’imponga prepotente nello spirito, improntato del suo più personale suggello.
[...]
-----------(*)
Leggo ora in tipografia il notevole articolo del nostro critico musicale sulla Conchita di
R. Zandonai. [Cfr. n. 4, n.d.r.] I nostri giudizi sono in parte divergenti. Non esito tuttavia a
pubblicare questi miei appunti, i quali del resto hanno un carattere più letterario che altro,
ritenendo che la valutazione estetica d’un’opera d’arte risulta non di rado dal gusto, dalle
tendenze e dalle aspirazioni di chi giudica; e che ai lettori del Tirso – il quale è palestra di
libera discussione – non sarà discaro conoscere idee e fatti che per avventura possono militare
in favore o contro l’opera recentissima del giovane Maestro.
6
A[driano] Belli, “Conchita” del mo Zandonai al Teatro Costanzi, «Il Corriere d’Italia»,
25.3.1912 - p. 5, col. 1-2-3
IL LIBRETTO
Non è forse un vero peccato che un ingegno forte e robusto, un musicista colto e geniale
abbia sprecato la sua energia e la sua dottrina intorno ad un soggettaccio come quello che
Vaucaire e Zangarini hanno preparato per Riccardo Zandonai? Il romanzo da cui è stato tratto
il libretto è uno dei più realisti e dei più brutali che si conoscano; in esso l’azione si svolge
tutta in un ambiente di degenerazione e di sensualità: Conchita, una psicopatica, e Mateo, un
imbecille, non ci interessano mai e mai ci appassionano; ma ci disgustano e ci irritano. Il
soggetto, che non abbiamo potuto naturalmente riassumere per i nostri lettori, se può avere un
aperto valore per alcuni studiosi i quali vogliano esaminarne il “caso patologico”, non è
degno certo di essere reso popolare a mezzo del teatro. Se fu grave sbaglio ridurlo per le
scene di prosa, maggiore e inconcepibile errore è stato quello di formare con esso un libretto
per musica. La prima riduzione si dice fosse stata fatta per una sedicente artista a cui era
venuto lo schiribizzo di formare un “grande spettacolo...” per tutti coloro che vedono la più
perfetta espressione dell’arte drammatica solo nel sudiciume di certe pochades. Ma questa
riduzione per la musica a quale scopo? Forse quel repugnante soggetto ha in sé elementi
lirici; oppure la figura impurissima, calcolatrice, viziosa e perversa della protagonista poteva
eccitare davvero la fantasia di un musicista?
Né si può dire che il Vaucaire e lo Zangarini siano riusciti a renderci simpatica Conchita
nella sua veste poetica; la quale è povera, è sciatta e brutta, con un linguaggio da trivio e delle
imagini volgarissime; anzi è così irritante tutto il procedere di questa ragazza che quando al
termine dell’opera Mateo nel colmo dell’ira ha finalmente uno scatto di ribellione e si sfoga
brutalmente sopra la donna che lo ha fino allora torturato con tanta raffinata perversità e la
batte e la calpesta, è quasi un senso di soddisfazione che anima lo spettatore. Ora che tutto
questo sia degno di portarsi sulla scena e glorificarsi con la musica non comprendo né so
3.1.1/8
spiegare questa brutta tendenza del nostro teatro. Finora il teatro lirico era rimasto immune da
tutto questo fango nauseante; ma ora sembra che la cattiva tendenza si propaghi.
Soggetti come questi non musicabili, insuscettibili e indegni di musica, non possono
divertire un pubblico di buon gusto e senza un alto senso di poesia non può esservi vera
ispirazione per un musicista.
I librettisti dell’avvenire potranno credere che un giorno sarà possibile idealizzare
musicalmente le gesta... pornografiche di tutte le Conchite di questo mondo o le compiacenti
aberrazioni di una madre, o che sarà perfettamente poetizzabile l’ambiente asfissiante di un
café-chantant di infimo ordine e le grida scomposte e gli urli bestiali di una folla alcoolizzata;
che in avvenire potranno anche musicarsi i pugni e i calci di un uomo bestiale sopra una
donna e che sia perfino concepibile che l’affetto di questa nasca e cresca in rapporto diretto
delle violenze che riceve; tutto può darsi, ma speriamo che questo... rinnovamento del teatro
sia molto lontano, e siccome allora noi non ci saremo più, oggi abbiamo tutto il diritto di
ribellarci.
L’arte che noi ci ostiniamo ancora a considerare come una vergine pura e bella, esce da
tutto questo fango di soggetti immorali non solo bruttamente insozzata, ma lurida e
ripugnante come una vergogna da trivio.
E la musica naturalmente si vendica e si ribella: il musicista che da quelle situazioni non
può ricevere alcuna suggestione si dibatte penosamente chiedendo al suo cuore e alla sua
fantasia espressioni non sentite e quindi artificiali.
Libretto peggiore di questo certo non si era mai visto sino ad oggi, e non parlo solo del
soggetto ma anche della forma, dei versi, delle situazioni. L’azione imbellettata inutilmente
con episodi di nessun valore procede lenta e senza interesse, e tutto si riduce a quattro grandi
duetti che suppergiù terminano tutti nella stessa situazione; le parole usate sono le più triviali
e basse che si possano immaginare e i versi fanno correre il pensiero a quelli famosi del tanto
bistrattato Francesco Maria Piave!
In altri termini al povero Zandonai è stato dato un libretto che a tutto si prestava meno che
a spronare ed eccitare la fantasia di un musicista; ed il giovane maestro ha fatto tutto quello
che poteva fare, riuscendo perfino a non stancare il pubblico. Galvanizzando l’azione con la
potenza della sua virtù istrumentale.
LA MUSICA
Riccardo Zandonai ci si presenta certo come un musicista di straordinario valore; in Italia
al presente non credo vi sia chi possa uguagliarlo nel difficile magistero istrumentale. Egli
non solo possiede l’assoluta padronanza di tutte le risorse tecniche, la conoscenza assoluta di
tutti i segreti della moderna orchestrazione; ma sa essere simpaticamente audace nella ricerca
di effetti nuovi e pronto e sicuro nelle “trovate” geniali sempre efficaci.
Lo Zandonai, se ha potuto prendere le mosse nella sua produzione dalle moderne formule
dell’arte francese, ha saputo però ben presto liberarsi da qualsiasi traccia di imitazione e
formarsi uno stile tutto proprio, una personalità artistica spiccatissima. Potranno discutersi i
suoi principî estetici; ma non può negarsi che egli ci si presenti come artista da prendersi in
grande considerazione e dal quale possiamo e dobbiamo molto sperare.
“Musica per gli occhi” potrebbe definirsi questa Conchita, dove è tutto un succedersi di
sensazioni visive ora abbaglianti ora pallide, ora accese ora smorte; un insieme di colori
svariatissimi disposti con molto buon gusto, con efficacia di contrasti, con varietà di toni, con
rilievo di chiaroscuri. Come colorista Riccardo Zandonai non ha pari: egli si mostra artista
completo, raffinato, squisito, alle volte anche troppo fine per la massa del pubblico che ad una
prima audizione non può entrare d’un tratto in quell’atmosfera di irrealtà, di sogno, di forme
indefinite, nuove e iridescenti in cui vaga la sua musica. Vi sono quadri così veri e suggestivi
che difficilmente è possibile dimenticare. Nel preludio del terzo atto ad esempio la pittura
3.1.1/9
musicale è così vera e convincente, quelle voci lontane che svaniscono e si perdono, quei
suoni incerti e indefiniti dànno una nota così realistica che giungiamo quasi a vedere innanzi
a noi il quadro di una placida notte a Siviglia inondata dai raggi della luna. Né possiamo
sottrarci a tale impressione di fronte a molte altre pagine di questa Conchita come al
cicaleccio delle sigaraie al primo atto, alla scena del baile, al finale del terzo e al preludio del
quarto atto.
Questa musica, più sostanziosa di intelligenza che non di cuore, ci fa provare profonde
sensazioni foniche; ma non riesce quasi mai a commuoverci davvero. Un effetto di
commozione profonda che dilaghi dalle scene nella sala, un lampo di grande ispirazione, un
fremito vibrante e intenso, un grido veramente umano che scuota si attende invano durante
questa Conchita. Il canto non si sviluppa mai in una linea chiara e decisa; ma si spezzetta, per
colpa anche del verso, in un continuo dialogato con andatura piuttosto incerta e
indeterminata, per giungere poi alle volte a delle enfasi ingiustificate e sproporzionate.
Un’analisi del lavoro sarebbe certo interessante e la cosa mi tenterebbe se lo spazio
concessomi non mi opponesse una difficoltà insormontabile. Noterò ad ogni modo di sfuggita
il brillante e caratteristico scherzo orchestrale sul quale si svolge l’allegro cicaleccio delle
sigaraie e s’innesta il racconto di Conchita; tutta una pagina di una mirabile ricchezza di
ritmi, sempre nuovi e smaglianti, ove l’uso del quinario (cinque ottavi) contrapposto ed
alternato con altri ritmi comuni dà materia al colorista di formare un quadro veramente
magnifico e pieno di vivezza. Bello è l’intermezzo che ci conduce alla casa di Conchita
attraverso le vie chiassose di Siviglia: un brano di gran valore musicale ma che teatralmente
si presenta del tutto inutile.
Il duetto fra Mateo e Conchita contiene delle ottime pagine piene di dolcezza che il
pubblico ieri sera gustò molto tanto che alla fine dell’atto volle per due volte salutare artisti
ed autore alla ribalta.
Il secondo atto contiene una vivace pittura di ambiente veramente interessante ove lo
Zandonai mostra ancora una volta la sua grande perizia di coloritore; ma in questo atto – che
si è chiuso tra vivi applausi e con quattro chiamate all’autore – egli ha potuto anche scrivere
una delle più belle e squisite pagine di tutta l’opera: il duetto cioè fra Mateo e Conchita pieno
di dolcezza fine e toccante. Il temperamento del giovane musicista è essenzialmente lirico,
non drammatico; infatti nel terzo atto, che si apre con quell’intermezzo di cui sopra ho notato
i grandi pregi, si sente lo sforzo per rendere il finale che si presenta riboccante di
drammaticità. Ma giacché è l’unico punto del libretto in cui si rivela un effetto veramente
teatrale, il pubblico è trascinato all’applauso; e ieri sera infatti alla chiusa dell’atto vi furono
molte acclamazioni e quattro chiamate. L’ultimo atto che contiene un bel preludio di squisita
fattura ma di sapore un po’ troppo massenetiano, è preso tutto dal duetto tra Conchita e
Mateo, il quale duetto però non presenta un grande interesse. Ottima è la chiusa dell’opera,
dopo la quale ieri si ebbero tre chiamate all’autore.
Concludendo quindi mi sembra che Riccardo Zandonai con questa Conchita ci abbia dato
un esempio possente del suo alto ingegno di musicista: egli si presenta con una forma tutta
sua e si pone coraggiosamente di fronte al pubblico, dal quale non chiede il facile applauso
ma attenzione, raccoglimento e studio.
La sua opera è tutta avviluppata da un tessuto orchestrale fitto e vario di disegni, che
commenta ed incalza la parola prendendo vivissima parte all’azione scenica; un tessuto
orchestrale disposto con sì grande perizia che la parola sempre risulta limpida, chiara e non
viene mai sopraffatta; la musica si snoda sempre facile ed agile rendendo con arte sicura ciò
che nella fantasia dello autore è già suono con effetto determinato. In lui, come sopra
accennavo, le qualità di colorista prevalgono su ogni altra dote; dategli un altro libretto e
vedremo se lo Zandonai saprà colmare la deficienza di passionalità che si riscontra in questa
Conchita. Ed attendiamo con fiducia da Riccardo Zandonai l’opera completa che sia però
3.1.1/10
veramente l’intima espressione e la giusta misura del suo ingegno, dal quale molto possiamo
attenderci. Ma torni ad aure più respirabili, più sane, più serene ed egli darà all’arte l’opera
duratura perché veramente intesa e sinceramente scritta; ma ripudî sdegnosamente tutti quei
soggetti nei quali è costretto dibattersi fra le strettoie delle volgarità antiartistiche e le
aspirazioni ad una espressione d’arte sincera e forte. Il rimanere su questa via potrebbe essere
non fortuna per lui, non onore per noi, non felice suggerimento ed esempio per i giovani
musicisti. Zandonai credo che lo abbia compreso ed abbia pensato per l’avvenire, e alla sua
Melenis, che sarà rappresentata questo autunno a Milano, auguriamo gloria e successo.
L’ESECUZIONE
Primo innanzi tutti debbo nominare il maestro Edoardo Vitale che ha concertato Conchita
con affetto veramente fraterno. L’orchestra che nell’opera ha una parte tanto importante ha
suonato con una precisione ed un affiatamento mirabili; tutto quell’insieme di delicate
finezze, di minute preziosità, di vaporose sfumature, di ritmi originalissimi nella intelligente
direzione del Vitale fu reso con mirabile e straordinaria chiarezza ed il pubblico
meritatamente volle fare al simpatico maestro una grande ed affettuosa ovazione dopo il
finale del secondo atto.
La signora Ersilde Cervi-Caroli cantò molto bene tutta la sua parte, fece sfoggio della sua
magnifica voce, intonata, calda di sentimento, ben modulata, estesa e si fece vivamente
applaudire. Dal lato scenico essa fu quello che deve essere un’artista seria in una parte... non
seria.
Il tenore Giuseppe Taccani diede ancora una volta prova del suo mirabile temperamento
drammatico, ebbe scatti di passione veramente sentiti e convincenti; cantò con bella voce e
con rara intelligenza, si fece molto ammirare nel declamato «Io soffro atrocemente!...» del
secondo atto e nella drammatica chiusa del terzo.
La Mareck nella breve parte della madre di Conchita cantò molto bene, fu corretta ed
efficace. Né vanno dimenticati gli altri artisti che nelle numerose parti secondarie furono tutti
encomiabilissimi: Lucia Torelli (una madre), Giuseppina Falchero (Dolores), la Flory,
l’Alemanni, la Bucciarelli; lo Schottler, il Gubbiani, il Rossi, il Gironi e gli altri tutti.
Molto bella ed appropriata la messa in scena.
[...]
7
Alberto Gasco, “Conchita” di R. Zandonai al “Costanzi”, «La Tribuna», 25.3.1912 - p. 3,
col. 4-5-6 / p. 4, col. 1 (con una foto di Ersilde Cervi-Caroli)
Dobbiamo qui far un nuovo processo all’arte teatrale verista? No davvero. L’arte verista –
che è lontana le mille miglia dalle predilezioni dello scrivente – ha anch’essa i suoi pregi e
possiede una speciale virtù di commozione: occorre però saperne usare con giusto criterio e
saperla piegare all’espressione di sentimenti intensamente umani, di sentimenti – cioè – che
per quanto aspri, violenti, crudeli, ripugnanti, siano pur sempre da noi comprensibili ed
accettabili. Nell’orribile disgustoso vi può essere un elemento di tragica grandezza, pur che
quest’orribile determini o sia determinato da un superbo conflitto di vere passioni umane.
Ora, le passioni dei protagonisti di Conchita, così come risultano dal plateale libretto dei
signori Vaucaire e Zangarini, hanno un non so che di artificioso, di anti-naturale, di
antipatico: per questo non riescono a destare in noi una fiamma qualsiasi di emozione e
neppure un moto di semplice interesse. Quel che v’ha di bello o, per lo meno, di attraente nel
notissimo romanzo di Pierre Louys La femme et le pantin, si perde del tutto nell’adattamento
3.1.1/11
scenico: la psicologia dei personaggi, chiarissima nel libro, diventa sibillina nel libretto di
Conchita e l’enigma ch’essa ci presenta non ci piace né ci diverte.
Don Mateo de Diaz è un elegante cretino; la piccola sigaraia Conchita una vera canaglia,
sensibile soltanto alla fisica brutalità. I loro amori volgarissimi non sembrano degni d’una
illustrazione musicale e fa quasi rabbia il pensare che un giovane musicista di indiscusso
valore e di precoce esperienza come Riccardo Zandonai abbia potuto essere solleticato dal
libretto del quale parliamo. Forse egli ha pensato che alla gran massa del pubblico incolto non
sarebbe stato ingrato l’assistere a scene di erotismo a pena larvato e che l’episodio della
danza di Conchita seminuda, al secondo atto dell’opera, avrebbe ottenuto se non altro un
eccellente successo di curiosità malsana. Egli si è ingannato. Le varie scene sensuali della
Conchita sono troppo simili le une alle altre e finiscono con venire a noia. I quattro duetti tra
Conchita e Mateo sono troppi e l’ultimo si fa sopportare soltanto per quel tale episodio delle
busse che, se bene repellente, provoca un sospiro di sollievo nello spettatore. È una gran gioia
per tutti vedere finalmente quella proterva viperina creatura battuta, umiliata e piangente: da
questo si può argomentare quanta simpatia desti la piccola Conchita...
Quanto alla danza, anch’essa è mancata. Anzi tutto l’episodio non si poteva rendere
efficacemente sulla scena. Secondo il romanzo, Conchita balla in costume d’Eva;
l’innamorato Mateo, sorprendendola in abbigliamenti... così ridotti, diventa pazzo d’ira, e –
sfido io! – la minaccia e l’insulta. Nell’opera, invece, Conchita è decorosamente vestita: le
spalle sono scoperte, ma questa piccola audacia non basta a giustificare le terribili
escandescenze di Mateo, che già l’ha vista ballare poco prima con un decolleté quasi
altrettanto procace. Così la scena non ha carattere e diventa poi insipida perché la musica
della danza, per quanto aggraziata ed istrumentata con suprema abilità, non ha nulla di
voluttuoso.
Per animare un libretto intessuto su di un caso di triste pervertimento sessuale come quello
di Conchita, occorreva un musicista di un temperamento eccezionale, di temperamento cioè
malsano e sovra-sensibile: lo Zandonai invece – sia gloria a lui! – è un compositore forte,
sicuro, sano quanto altro mai, un artista dall’animo delicato quasi timido, che resiste – forse
anche troppo – all’onda passionale e che di tutto sembra capace fuorché di cantare sentimenti
bassi di sensualità e di vigliaccheria, quali pullulano nei cuori di Conchita e di Mateo.
Musicando il libretto confezionatogli dal Vancaire [sic] e dal Zangarini, lo Zandonai ha
dovuto fare un continuo sforzo su di sé stesso e lo sforzo nella sua musica si rivela
penosamente. In questo dramma di acre, esasperata passionalità, quel che manca è
precisamente la passione, che noi vogliamo veder cantata con larghe melodie vibranti, dal
possente respiro, melodie che troviamo così in Carmen come in Tristano, così in Cavalleria
rusticana come in Salome. Lo Zandonai è un ammirevole cesellatore, un delicato poeta di
ambiente che, aiutato da una stupefacente conoscenza della moderna strumentazione, sa
dipingere quadretti incantevoli, suggestivi e originali: non gli si può d’altra parte riconoscere
l’impeto drammatico necessario a rivestire efficacemente un libretto torbido d’erotismo come
quello di Conchita. I protagonisti dell’opera cantano tutti ad uno stesso modo, vale a dire con
un declamato melodico che di rado si conchiude in un periodo saldo, incisivo, plastico. Il
fiacco, slombato, puerile Mateo si esprime musicalmente presso a poco come la perversa,
astuta, diabolica Conchita. Così il carattere dei personaggi, mal disegnato nel libretto, finisce
di perdere ogni rilievo nella musica. Il duetto d’amore che segue alla brutale scena del Baile
ha degli atteggiamenti di soavità massenettiana, seducenti – forse – ma esteticamente
inopportuni: e l’ultimo duetto, per la triste sentimentale melodia, ci fa pensare assiduamente a
qualche indimenticata pagina della Wally di Catalani. Non che lo Zandonai sia caduto in
plagi: tutt’altro. Parlo soltanto del carattere generico della musica e ne voglio conchiudere
ch’esso non è tipico come avrebbe dovuto essere, dato l’argomento specialissimo prescelto
dal compositore.
3.1.1/12
Dove lo Zandonai prende la sua rivincita nel modo più brillante è nelle “scene di colore”. Il
primo quadro dell’opera, nella Fabrica di Siviglia; tra le sigaraie garrule, spensierate,
mordaci, rumorose, appare scolpito da mano maestra. Il movimento scenico è sottolineato da
un commento orchestrale di un sinfonismo ricco, ben appropriato, pittoresco al più alto grado.
La scena, per il suo brio disinvolto, ci ricorda quella, splendidissima, del “laboratorio” nella
Louise di Charpentier e non è indegna di figurarle accanto. Così l’episodio del Baile, con la
jota vivacissima e l’indovinata canzone dei bevitori, piace moltissimo e dà prova solenne del
magnifico talento di coloritore proprio dello Zandonai. I vari intermezzi sinfonici dell’opera
hanno anche essi molta importanza. Il primo, nella strada, si svolge tra i più gustosi impasti
orchestrali e pur servendosi di motivi spagnuoli – o di tipo popolare spagnuolo – sa
mantenere una linea di assoluta originalità. Più bello ed efficace è il preludio del terzo atto,
che descrive, tra sonorità vaporose, le seduzioni voluttuose della notte iberica. Qui rifulge
tutta la maestria del giovane sinfonista. Siamo lontani, è vero, dalla prodigiosa suggestività
dell’Iberia di Claudio Debussy, ma pure ci troviamo di fronte ad una pagina deliziosa, fine,
penetrante, in cui l’anima essenzialmente poetica dello Zandonai ha potuto cantare
liberamente un quieto inno alla Notte misteriosa, solcata di canti e greve del profumo di mille
aranci in fiore.
Non sarebbe difficile continuare nella enumerazione dei singoli pezzi di Conchita che più
specialmente si impongono alla nostra schietta ammirazione; ma l’arido elenco divertirebbe
assai poco il lettore. Preferiamo quindi dire, con rapida sintesi, che questa opera, non ostante
la deplorata mancanza di ampia, impetuosa, commovente melodia appassionata, ci incanta per
mille preziosi dettagli, nei quali tutta la sensibilità artistica del compositore si rivela nel modo
migliore. Lo Zandonai, che già aveva vinto una bella battaglia scrivendo il Grillo del
focolare, ha fatto indubbiamente un passo avanti con la Conchita. Egli possiede ormai una
tecnica orchestrale e teatrale invidiabile. Non imita alcuno dei più illustri operisti del giorno e
mostra il fermo intendimento di procedere nel fiorito cammino che gli si apre dinnanzi con la
felice indipendenza propria degli artisti eletti. Nella sua musica, il discorso scorre con grande
nobiltà d’espressione e sembra rifuggire da quei plateali effetti di retorica teatrale, così
comuni – pur troppo! – nei melodrammi dell’ultimo periodo.
Abbiamo quindi la gioia di salutare in Riccardo Zandonai una delle più vigorose speranze
dell’arte musicale italiana. Però, dopo di aver espresso la profonda ammirazione che
proviamo per la sua arte di operista, sentiamo il dovere di metterlo in guardia contro la cattiva
scelta dei libretti da musicare. Il dramma lirico moderno non si compone di due parti distinte:
musica e poesia, ma bensì di un tutto unico, organico, che risulta dall’unione intima, perfetta
della musica con la poesia. Per questo, la scelta di un libretto anti artistico per eccellenza
toglie la possibilità al musicista di compiere opera di suprema bellezza. Lasci stare, dunque,
lo Zandonai i libretti dello stampo di Conchita, poveri di significazione estetica e composti di
versi mostruosi, scritti in odio alla prosodia, alla sintassi ed anche al buon senso. Un artista
valoroso e di nobili idealità non deve applicarsi a musicare aberrazioni letterarie come questa:
Son le pene dei cuori innamorati
come i denti cariati...
par di scoppiare
e forza è masticare...
ed anche
Se fiati, faccio
mettere il chiavistello
al tuo bordello!
e il brano che si inizia alle parole Cagna, cagna! prosegue tra imprecazioni da trivio. Del
resto, se si volessero citare tutti i brani odiosamente realistici (dovremmo dire sconci) del
libretto, si riempirebbe qualche colonna di giornale... Meglio è, perciò, tagliare corto e
3.1.1/13
rinnovare allo Zandonai l’augurio fervente di una più completa ed elevata vittoria d’arte di
quella da lui ottenuta con la Conchita. Che egli prosegua nel suo lavoro con ferma fiducia: la
nostra ferma fiducia lo accompagna.
***
L’esecuzione dell’opera è stata eccellente. Il maestro Vitale ha concertato la complicata
partitura con la ben nota abilità e ne ha interpretato a meraviglia tutte le grazie vivaci e le
sentimentali delicatezze. Sotto la sua direzione l’orchestra ha suonato con impegno
straordinario, recando un magnifico contributo al buon esito del lavoro: il successo del Vitale
è stato, per tanto, completo e pienamente legittimo.
La signora Ersilde Cervi-Caroli, Conchita, si è imposta all’ammirazione di tutti per
l’incomparabile leggiadria della sua interpretazione scenica, oltre che per l’incontestato
valore di cantatrice dalla voce pastosa, sicura, assai simpatica. Efficacissima così nelle scene
di civetteria come in quelle di sentimento (pare impossibile! questa Conchita è anche
sentimentale... a tempo perso) la signora Cervi-Caroli ha mostrato ancora una volta di essere
artista completa, esperta di ogni risorsa dell’arte. Ella fu assecondata egregiamente dal tenore
Taccani che, nelle vesti del disgraziato Mateo, seppe far valere i suoi alti pregi di cantante e
di attore. Il Taccani, con la sua voce resistente, riuscì a superare senza difficoltà tutte le
asprezze di tessitura della sua parte e, specialmente nel canto vibrante «L’ora divina
affretto...», seppe raggiungere una bella forza d’espressione lirica.
La Cervi-Caroli ed il Taccani, come ben si comprende, vennero più volte evocati al
proscenio tra applausi, e con loro si presentò il maestro Zandonai, cordialmente festeggiato.
Buone le parti minore affidate alla Marek [sic], alla Flory, alla Falchero, ecc.; splendide
per vivacità le scene d’assieme; mediocri gli scenarii.
Lo spettacolo interessante avrà molte repliche nelle quali il successo, non unanime, di
iersera andrà certamente crescendo. Il nostro pubblico, superata l’avversione per l’infelice
libretto, si accorgerà delle singolari bellezze della musica dello Zandonai ed a quella volgerà
tutta la sua attenzione, prendendo interesse gradatamente a questa Conchita che è una delle
migliori produzioni della giovanissima scuola italiana.
8
Edoardo Pompei, “Conchita” del m. Zandonai, «Il Messaggero», 24.3.1912 - p. 3
Riccardo Zandonai è già una personalità artistica. Dopo il Grillo del Focolare – la sua
prima opera ispirata al più puro romanticismo, che gli assicurò quel tanto di rinomanza che
basta per scuotere le intime fibre di un editore ed ottenerne la protezione – il giovane maestro
trentino, tuffandosi in pieno verismo, non sdegnò di cimentarsi in un libretto che Giacomo
Puccini, più avveduto, aveva rifiutato, ed ecco, dopo pochi mesi di lavoro, un’opera nuova:
Conchita, che il pubblico del Dal Verme a Milano, e la critica, pur con qualche riserva,
applaudirono.
Dalle tavole del palcoscenico milanese, Conchita è passata al nostro Costanzi, come al
solito e forse più del solito affollato ieri sera di pubblico elegantissimo, accorso a giudicare
l’opera ardita e a rendere omaggio al giovane compositore che, a differenza di molti altri,
nella selva intricata delle tendenze odierne sembra deciso a seguire un proprio indirizzo e a
trovare la sua via.
E di questa sua personale indipendenza si hanno chiari e decisi segni in Conchita che rivela
un talento, una fibra, una coscienza artistica capace di più alte e nobili affermazioni.
*
Il famoso romanzo di Pierre Louis [sic]: La femme et le pantin, nel suo desolante verismo
materiato di pervertimento e di viltà, non sembra il più adatto ad ispirare un poeta e un
3.1.1/14
musicista e ciò spiega come nella riduzione scenica di Vaculaire [sic] e Zangarini, che così
profondamente si distacca dal soggetto iniziale, le figure principali, pur serbando taluni tratti
fondamentali, acquistano ed assumono caratteri ed atteggiamenti che ne modificano la
fisionomia.
Ma anche attraverso queste indispensabili variazioni per cui «Conchita» può parere
qualche volta una sentimentale, e «Mateo il fantoccio» trovare accenti di coraggio e gesti di
eroe, il libretto ha troppi coefficienti negativi per ispirare a un compositore un’opera
resistente agli urti della critica e del tempo. Qualunque possa essere il valore di un maestro,
esso non riuscirà ad annullare i difetti organici di un libretto al quale mancano la vita e il
movimento, e dove i personaggi non rivelano né studio d’anime né caratteri e si trascinano
stentatamente attraverso episodi superflui ed ingombranti, composti per dare un simulacro
d’azione ai quattro atti.
Tra il romanzo di Pierre Louis – minuta analisi di un pervertimento sessuale e di una
debolezza morale – e la riduzione scenica del Vaculaire e dello Zangarini, per le inevitabili
amputazioni eseguite, c’è la stessa differenza che fra l’opera e la parodia e lo Zandonai si è
indubbiamente illuso nella misura del suo valore personale se ha stimato di poter rimediare
alle deficienze del libretto coi colpi d’ala del suo talento, e di rompere la monotonia delle
scene col fascino della musica ispirata!
Già il difetto principale d’ispirazione deriva dalla figura stessa della eroina, incapace per la
sua ambigua varietà, per l’ambiente in cui si muove, ad eccitare soverchiamente la fantasia di
un compositore.
D’altra parte, nessuno, a giudicare da questa Conchita, potrebbe ravvisare grandi e solide
facoltà inventive nel Zandonai, il quale, rinunziando di proposito ad ogni idea melodica per
quanto libera e sciolta dalla misura e dalla quadratura convenzionale e sconvolgendo secondo
le norme della nuova scuola moderna tutte le regole dell’armonia, della tonalità, del ritmo,
dell’euritmia, ha presentato al giudizio del pubblico un’opera che certo s’impone alla
ammirazione dell’uditorio pel complesso lavoro orchestrale e polifonico, trattato con mano
sicura, con una tecnica che conosce tutte le conquiste, per la ricchezza e la vivacità del colore,
per la trattazione squisita di episodii poeticamente pittorici; ma che non persuade, non
avvince per originalità creatrice, per genialità di espressione, per impeto lirico.
I quattro atti dell’opera possono ascoltarsi talora con manifesta compiacenza, ma non c’è
un istante in cui l’espressione musicale susciti nell’uditorio un sentimento ardente o un
fremito di commozione.
Anzi è proprio nelle scene più forti e più violente che il Zandonai apparisce più a disagio.
Temperamento più lirico che drammatico, più descrittivo che passionale, mentre raggiunge
effetti notevoli nelle scene di sentimentalità delicata e nella pittura d’ambiente come nel
delicatissimo e suggestivo intermezzo tra il primo e secondo quadro o nel chiacchierio
pettegolo delle sigaraie al primo atto, è costretto ad esagerare nelle situazioni drammatiche,
facendo assumere alla sua musica un carattere che non è in rapporto colle persone e colle
passioni del dramma. Così i duetti fra Conchita e Mateo al terzo e al quarto atto risentono di
uno sforzo non perfettamente superato e si effondono più in una esuberanza sonora che in una
profonda intensità musicale. Così il preludio di sapore massenettiano al quarto atto con “a
solo” di violino può sembrare più una delicata e soave pagina di album che un logico
avviamento alla soluzione violenta del dramma.
Ho accennato a due punti dell’opera che presentano pregi notevolissimi di fattura, ma è
doveroso ricordarne altri che per il linguaggio musicale chiaro, elevato, tecnicamente
moderno, non sfuggirono all’attenzione del pubblico. Così l’ambiente basso e viziato del
baile colorito con pennellate dense di colore, la felice introduzione di canti spagnuoli vibranti
di sensualità, la descrizione di una notte a Siviglia coi mille fremiti umani, colle voci lontane,
3.1.1/15
sono pagine ideate, sentite con grande spirito di modernità svolte in orchestra e nelle voci con
perfetta leggiadria.
*
L’opera, vinte le prime esitazioni, ebbe lusinghiera accoglienza e il maestro Zandonai alla
fine di ogni atto fu chiamato parecchie volte al proscenio fra applausi calorosi.
Il maestro Vitale concorse fraternamente al successo dell’opera, mettendone in chiara luce
ogni bellezza. Sotto la sua guida vigile e serena ogni pagina, ogni impasto, ogni
combinazione armonica ebbe il suo giusto rilievo, e tutto il prorompente lavorio orchestrale
passò nella sala attraverso una magnifica esecuzione.
Sotto le spoglie di Conquita [sic] la signora Ersilia [sic] Cervi-Caroli dette nuova conferma
delle sue squisite doti di cantante ed attrice. Piegando e costringendo il suo temperamento ad
una parte che non è la sua, che non sente, seppe tuttavia comporre la figura della protagonista
come l’autore desiderava, quale deve essere la perfida creatura immaginata da Pierre Louis
nella varietà dei suoi sentimenti e dei suoi atteggiamenti.
Il tenore Taccani, così favorevolmente apprezzato dal nostro pubblico, cantò come sempre
con arte e sentimento, e coi due interpreti principali si distinsero pure al primo atto la signora
Marek [sic], la signorina Falchero, la signorina Flory.
Conquita avrà certamente parecchie repliche.
[...]
9
[Lionello Spada], “Conchita” «La Vita», 23-24.3.1912 - p. 3, col. 2
Conchita è spagnola e, di mestiere primo, sigaraia. Ella ha quindi parecchi gradi di
parentela con un’altra sigaraia spagnola. Ma questa uscì dalla penna squisita di un amico di
sovrani morto accademico; l’altra deriva da uno scrittore moderno, che ama di suscitare
impressioni calde e forti. Così Conchita è una sigaraia litigiosa quanto la sua parente
maggiore, ma altrettanto infedele, più strana ancora nella oscura passione di lei. Ella non si
concede a Don Matteo, che sarebbe un José con molti biglietti di banca, ma lo tormenta, lo
obsessiona nel desiderio di possederla finché, d’un tratto, gli apre, innamoratissima, le
braccia.
Ma la storia di questo dramma d’amore ha incontrastabilmente una forza di suggestione:
quella dell’ambiente. Gli autori del libretto, signori Vaucaire e Zagnarini [sic], hanno tratto
larghissimo profitto dai contrasti di colore, dalla varietà di scene che il romanziere offriva
loro. Così che l’azione riempie i quattro atti e li domina pur tra moltissimi e diversissimi
episodi.
Senonché riassumere ancora questo libretto ci pare inutile: quelli i quali andranno al
Costanzi penseranno a leggerlo, se non l’hanno già letto. A ogni modo più dei versi è la
musica che a loro preme. L’interesse da cui saranno condotti stasera al teatro è quello di
sentire come sia riuscito il dramma musicale.
E l’interesse è legittimato stavolta dal nome – ormai ben noto – dell’autore. Il maestro
Zandonai, per quanto giovane, è conosciuto e apprezzato già come compositore d’innegabile
valore.
Questa Conchita è propriamente la seconda opera sua, e nell’autunno scorso a Milano, ove
fu rappresentata per la prima volta, ebbe un successo schietto, tanto più notevole in quanto si
tratta di un compositore già maturo e personale, che procede effettivamente per vie proprie.
La forma che segue è davvero una concezione sua, e in ciò rivela appunto un ingegno
gagliardo, ben preparato.
3.1.1/16
E noi auguriamo che il pubblico romano abbia a fare accoglienze non meno calde al suo
lavoro.
Questo – come abbiamo detto – avrà a principali interpreti la signora Cervi-Caroli, il
tenore Taccani, la signora Marek [sic]; ma esige anche una altra ampia cooperazione di
cantanti, coristi e ballerini.
Ma il contributo prezioso sarà quello dell’orchestra diretta dal maestro Vitale, che alla
concertazione ha dato affettuosa cura.
10
Lionello Spada, “Conchita” di R. Zandonai, «La Vita», 24-25.3.1912 - p. 3, col. 3
Notavo ieri: Conchita ha una qualche parentela con Carmen.
Ma è bene correggere: si tratta più propriamente di affinità. Infatti i padri sono diversi e
non consanguinei; anzi nella differenza della loro età è come riassunta la linea di separazione
segnata fra due generazioni quasi susseguentisi.
Prospero Merimée, squisito uomo di lettere e di Corte, storico e diplomatico, immaginò
quella sigaraia spagnola nella serenità trionfante del secondo impero. E però Carmen nata da
lui è passionata, volubile, crudele ma è umanamente semplice, diritta nella sua solida
costruzione. Pierre Louis [sic] è, con minori ambizioni letterarie e meno di cultura classica,
uno scrittore che vive nella scomposta, faticata, dolorosa società nostra. E la sua Conchita è
fantasia di questa letteratura nostra, una fantasia complicata, tormentata, ma senza virtù di
vibrazioni commoventi. Non è una creatura, ma uno sforzo letterario.
Quindi manca in lei quella verità umana, virtuosa o corrotta, amabile o selvaggia, che
avvince e persuade appunto perché vera.
Nel romanzo quella sua vacuità intima, insanabile è simulata dallo sfavillio tumultuoso di
colori che le sono posti intorno alla sua figura puramente meccanica.
Ma sul teatro quella dissimulazione rimane di un effetto secondario, perché in fondo
appare lei, soltanto lei, una donna senza spunti e senza conseguenze logiche, che si dibatte in
un contorcimento morboso, per un amore e per una ritrosia entrambe frutto di una
combinazione meditata, non di un’osservazione reale; una donna innamorata che inspira
ripugnanza.
Forse anche la sua deficienza organica avrebbe potuto essere attenuata genialmente da una
forma sufficiente nel libretto. Ma purtroppo i compositori nostri – tranne Giacomo Puccini –
non intendono che la prima musica, in un’opera, deve essere quella delle strofe, che il
principio della suggestione è nella bellezza della parola. Ora non è il caso di parlare né di
musica né di bellezza a proposito di quello che ha messo insieme il signor Zandonai. Ed è
così un’altra difficoltà che il maestro Zandonai che ha dovuto vincere, dopo quella di essersi
posto a lavorare intorno a una femmina inespressiva.
***
Ma a un’altra difficoltà il giovane maestro doveva sapere di andare incontro: quella che
Conchita avrebbe richiamata alla memoria Carmen, non la Carmen letteraria del Merimée,
ma quella musicale – e quanto musicale! – del Bizet.
Ora – ed è prova della sua nobile coscienza d’artista – egli non si è scoraggiato neppure per
questa preoccupazione, certamente sentita perché spontanea.
E dico subito: il maestro Zandonai questa animosa coscienza di sé ha il diritto di avere.
Egli è un musicista del quale non si può dire soltanto: sa il fatto suo. Neppur questo
sarebbe poco, perché conoscere perfettamente la tecnica e maneggiare gli strumenti con una
sicurezza impeccabile e con equilibrio costante, respingendo ogni lusinga di effetto volgare e
anche soltanto facile è già possedere un bello e raro requisito. Nessuno può mettere in dubbio
3.1.1/17
che all’orchestra egli faccia dire precisamente quel che vuol dire. E a tratti, quando in quei
personaggi artificiosi passa un lampo di passione vera, egli rivela la forza della vibrazione e
la delicatezza del movimento che suggestiona. Nel duetto del secondo atto, in quello del terzo
e nell’ultimo sono pagine di musica animatrice.
Ma evidentemente, anche perché costrettovi dalla povertà irrimediabile dell’argomento,
egli sopratutto si è imposto di fare del colore. E certo è impresa a cui è ben preparato e a cui
ha dato una robusta quantità di attitudini rinforzate collo studio. In ispecie l’intermezzo nel
primo atto e la maggior parte del secondo e del terzo possiedono energie rappresentative
fortissime e geniali di ambiente.
Se non si può artisticamente abusare del colore, invece bisogna usarne con la parsimonia
indispensabile. Sia lecito un confronto per spiegarmi: Bizet, in una scena rapidissima, rende
certamente vivissimo il quadro della uscita delle sigaraie; lo Zandonai vi ha dedicato quasi
mezzo il primo atto: è troppo. Giacché, per quanto ben fatto, il lavorio troppo prolungato
intorno a un’esercitazione formale finisce per distrarre, se non per istancare.
Ed è questo il difetto che, originario del romanzo, si riproduce anche nella musica così
squisitamente elaborata del compositore trentino; essa appare più dedicata a riprodurre un
ambiente, più che a esprimere e a suscitare delle passioni. E poiché l’ambiente,
sostanzialmente, rimane poco variato nei quattro atti, che ripresentano quasi identica la stessa
situazione innestata in quattro duetti, anche il gagliardo e sapiente musicista è indotto a
ripetere procedimenti già adoperati o a mutarli soltanto di poco. Il che dà un’impressione di
insistenza eccessiva.
Da ciò principalmente la resistenza a guadagnare quel successo caldo di pubblico che
l’opera aveva raggiunto a Milano e che in verità si è rinnovato anche a Roma. Ma è stata
come una dura battaglia, vinta a poco a poco, come hanno provato il calore diverso degli
applausi.
Finito il primo atto il maestro ha avuto due chiamate, dopo il secondo quattro, dopo il terzo
tre, e all’ultimo cinque, tutte tra applausi convinti.
***
La signora Cervi-Caroli ha dovuto evidentemente, dal canto suo, vincere l’impressione
poco simpatica che, da prima, il personaggio le ispirava. E anche vinta quell’impressione, ella
ha voluto circondare dello sciallo più possibilmente pudico e delle trine più riparatrici le aspre
esposizioni di Conchita. Ma in compenso, e felice compenso, a questa ha regalato molta
grazia femminile e un valore indiscutibile di interpretazione vocale. Ha cantato bene,
efficacemente, non solo con intonazione ma con accento giusto; ha detto le frasi veramente
passionali con precisione di intuito e di colorito.
Il tenore Taccani si è un po’ sentito umiliato di apparire un Osaka, con gemme ed or, ma in
vesti comuni e senza poter ripetere la invocazione dolcissima: Sollevami il velario. Ma, come
negli altri spartiti, ha posto il suo forte buon volere e la sua voce bella a disposizione
dell’infelicissimo Mateo riuscendo più volte a commuovere sinceramente l’uditorio.
La signora Marck [sic] molto bene nella parte breve. E specialmente, date le consuetudini
correnti e i mezzi dei nostri teatri, lodevolissima la concertazione, difficile per molte ragioni.
Le scene del primo e del secondo atto, che richiedono delle vere masse capaci di azione, sono
state eseguite con intelligente affiatamento, con una mobilità e un’esattezza rare.
Indubbiamente l’orchestra sentiva di poter dare il contributo suo a un musicista di vero
valore, e ha suonato non solo con diligenza, ma con affetto e con entusiasmo, cioè coi
migliori requisiti per una esecuzione egregia.
Ed è inutile aggiungere che a conseguire quella concertazione e a scaldare
quell’entusiasmo ha validamente e principalmente cooperato il maestro Vitale che, oltre a una
valentia incontestabile di direttore, possiede un vivo cuore di artista.
3.1.1/18
Egli certo ha data una cooperazione fraterna al successo del maestro Zandonai. Di questi,
infatti, il pubblico plaudente ha detto: –È un compositore che ha la forza di camminare per
vie sue.–
11
Enrico Boni, “Conchita” del m. Zandonai al “Costanzi”, «Il Popolo romano», 24.3.1912 - p.
2, col. 3-4
Il romanzo di Pierre Louys La femme et le pantin è noto e non è il caso di soffermarvicisi
ancora: è romanzo audace, come gran parte della produzione dello scrittore francese, ma non
è privo di interesse, anche perché a traverso la psicologia dei personaggi ha modo di
affermarsi evidente.
Tutti sappiamo però cosa accade quando di un romanzo a contenuto psicologico – sia pure
di psicologia sommaria – si voglia fare un adattamento scenico. Abbiamo veduto, per citare
un caso, Thais, il bel romanzo di Anatole France, perdere ogni efficacia e mutarsi in un
libretto angoloso ed arido; il Werter [sic] trasformarsi nel dramma più grigio e pesante del
teatro contemporaneo.
Ma gli esempi di riduzioni infelici sono stati tutti superati da cotesta Conchita.
Arte d’eccezione? Eh via! Prima di tutto l’arte d’eccezione mal si adatta al teatro, che ha
intendimenti più universali di quelli che non abbia il libro; ed in secondo luogo anche in
questo genere d’arte – per il quale io ho una personale predilezione – c’è da distinguere; e
cotesta Conchita, così quale appare nella sua riduzione scenica, non solamente non è arte
d’eccezione ma non è neppure arte, ché arte non può dirsi una cosa che offende.
Sparita la personalità di Pierre Louys, il quale con la sua abilità di narratore poteva farci
accettare anche le situazioni più scabrose ed avvivarle e nobilitarle con la virtuosità artistica,
il libretto rimane, nella sua nudità rappresentativa, quanto di meno... verecondo si possa
immaginare.
Noi assistiamo, in sostanza, ad una volgare avventura amorosa, che si trascina per quattro
lunghi atti, tra una fanciulla raffinatamente perversa ed un imbecille che finalmente, un bel
giorno, avendone abbastanza, afferra la povera ragazza e - nobiltà grandissima dell’arte! – le
somministra al cospetto del pubblico tale una grandinata di busse da lasciarla in terra pesta e
malconcia. Altro che conflitto di anime! Qui si tratta di portare alla ribalta l’uomo bestia, con
tutte le sue più bestiali aberrazioni.
E di questo francamente si poteva fare a meno. Un simile libretto avrebbe fatto perdonare
la volgarità delle situazioni solo quando la musica avesse potuto elevarsi a tale altezza di
sentimento, a tale veemenza di passionalità da nobilitare un poco la crudezza dell’espressione
e della rappresentazione.
Ma poteva la musica trarre materia d’ispirazione da un simile conflitto di bassi istinti?
Io non so; ad ogni modo al m. Zandonai non è riuscito: non è riuscito a lui, come forse non
sarebbe riuscito a nessun altro, di darci – sia pure per un solo momento – una commozione
vera, sentita. Noi non gliela chiedevamo secondo le vecchie norme melodrammatiche: egli
poteva darcela nelle forme che a lui sembravano più rispondenti al suo temperamento, purché
questa commozione risultasse. Il che non avviene.
Ed è peccato questo, ché io avrei voluto dire del m. Zandonai tutto il bene che penso, e
manifestargli intero il mio compiacimento per le sue doti musicali veramente notevoli.
Il m. Zandonai è soprattutto un sinfonista; adopera l’orchestra con una padronanza
grandissima e con una varietà pittoresca di timbri e d’impasti, nei quali raramente si può
scorgere l’imitazione di chicchessia. Egli ha affermato una personalità, mostrando di poter
percorrere la sua via con intendimenti ben propri.
3.1.1/19
L’opera costruita con criteri moderni si svolge essenzialmente su un vasto tessuto
tematico-sinfonico, ove tutte le risorse di una straordinaria tecnica sono adoperate con
risultati oltremodo felici.
V’hanno, nello spartito, particolari squisiti, atteggiamenti di una grazia e di una eleganza
incomparabili, come il duetto dell’atto secondo, o il preludio dell’atto terzo: esempio raro di
quel che i tedeschi chiamano Stimmungsbild, pittura d’ambiente.
Ma questo smagliante tessuto sinfonico è spesso troppo sproporzionato al soggetto, il
quale, ripetiamo, non meritava che un musicista della forza del m. Zandonai vi andasse
profondendo la genialità vittoriosa del suo ingegno.
Ad ogni modo, è il caso di dire che la giovine scuola italiana può ora nel Zandonai vantare
uno dei suoi migliori artisti; uno di quegli artisti destinati a continuare le più belle tradizioni
nostre, e che forse potrà dirci la parola nuova che attendiamo.
12
[Teatri di Roma], «Il Popolo romano», 24.3.1912 - p. 3, col. 1
Costanzi – Un pubblico elettissimo assistette, ieri sera, alla prima rappresentazione della
Conchita del m. Riccardo Zandonai, nuova per Roma.
La sala presentava l’aspetto delle grandi occasioni [...].
L’opera, del cui valore ci occupiamo in altra parte del giornale, veniva a chiedere al nostro
pubblico la conferma del successo già ottenuto lo scorso autunno a Milano. E il successo non
mancò; e se non fu molto caloroso fu in compenso serio. Ad ogni calar di sipario si ebbero
circa quattro chiamate agli artisti e al m. Zandonai, che il pubblico volle alla fine dell’opera
salutare da solo alla ribalta.
L’uditorio fu unanime nell’apprezzare quel che di buono c’è nell’opera, come unanime fu
nel riprovare certe crudezze di espressioni e di situazioni, in cui l’arte sconfina e non ha più
nulla da vedere. Il giudizio non poteva essere più equo.
L’esecuzione apparve complessivamente pregevole. La signora Ersilde Cervi-Caroli, la
quale nella presente stagione ha avuto campo di farsi largamente apprezzare, vinse una bella
battaglia con l’interpretazione del difficile personaggio della protagonista.
Essa vi portò il fascino delle sue doti di attrice e di cantante eletta, riuscendo quasi sempre
a comporre il personaggio in una linea sobria ed efficace, fuori dei consueti modelli di
Carmen. Il che non è poco merito.
Il tenore Taccani cantò con grande slancio, mettendo in piena evidenza la sua voce
simpatica e resistente, e pur vincolato da una parte piuttosto ingrata, non smentì la sua fama
di artista coscienzioso e versatile, il quale può per la sua intelligenza misurarsi nelle
interpretazioni più disparate.
La signora Mark [sic] fu assai apprezzata nella breve parte della madre di Conchita; e
degne di encomio risultarono le parti minori, tra cui ricorderemo la signora Lucia Torelli, la
Flory, l’Alemanni, la Falchero, il Gubbiani, il Rossi e gli altri.
Il m. Vitale ha concertato l’opera con quell’amore e quel senso d’arte che gli sono propri.
La sua direzione fu come al solito ammiratissima. Questa edizione di Conchita ebbe nel
maestro Vitale il miglior collaboratore.
Nell’a-solo per violino del preludio dell’ultimo atto piacque assai il prof. Ciro Renzi, che
l’eseguì con grande perizia e sentimento.
I cori, che hanno parte importante e difficile, riaffermarono l’ottima guida del m. Paride
Soffritti.
[...]
3.1.1/20
13
T. Montefiore, “Chonchita” [sic] di R. Zandonai, «La Ragione», 25.3.1912 - p. 5, col. 1
La nuova opera di Riccardo Zandonai: Conchita, giunta iersera al Costanzi dopo l’esito
notevolissimo incontrato al Dal Verme di Milano lo scorso anno, trovò fra noi vivo successo
di ammirazione per il valore singolare che artisticamente rappresenta, e se non può dirsi
riuscisse caldo, certo apparve serio, sincero e, sopratutto, confidente. Riccardo Zandonai,
ognuno l’ha compreso iersera, sebbene sia un giovane che comincia, offre già l’intera misura
di un maestro arrivato, di un ingegno vigoroso e ben maturo per spiccare al teatro altissimo
volo. Il pubblico, del resto, non lo conobbe mai principiante: ché nella sua prima opera Il
Grillo del focolare, rappresentata nel 1908 a Torino fra gli inni della critica, quella sua
magnifica facilità di concezione, quella scioltezza di mezzi scenici che s’incontrano soltanto
in un compositore di consumata esperienza, avevano affermato dal primo momento la figura
nobilissima di un artista completo.
In Conchita egli appare sciolto da qualsiasi vincolo delle forme consacrate, per mescersi
alla evoluzione contemporanea pur senza servile imitazione: anzi incamminarsi per una via
nuova nella quale resti però impressa l’orma di schietta italianità.
Colla scorta di siffatto concetto, il Zandonai ha voluto conservare l’assoluto predominio
della parte vocale. L’orchestra adoprata con arte elevata, ricca di ogni finezza e spesso di vere
trovate, sottolinea il dramma e ne intensifica l’espressione. Il procedimento della
composizione è sempre libero; l’unità è ricercata nello sviluppo dei disegni che si profilano
via via e s’inseguono con irrequieta mobilità di ritmi. Vi si innestano frasi di canto talvolta
ardenti ma non mai profondamente appassionate; né tuttavia apparisce un pensiero melodico
di grande respiro come ha caro il pubblico italiano, perché indeclinabilmente caratteristica del
genio nazionale e indispensabile alle emozioni che dalla scena si attendono.
Abbiamo accennato a irrequietezza di ritmo e conviene soffermarsi su questo punto. Il
Zandonai affetta di scansare le consuete divisioni di tempo, sebbene sovente si tratti di sola
apparenza come nella adozione del 4/2 che gli piacque introdurre, mentre il contrasto
continuo delle figurazioni, la particolarità di qualche divisione (notiamo il 5/8 che può
suddividersi in un movimento di tre e di due) denotano avviamento a conquistare una
personalità forse capace di assoluta affermazione più tardi. Ma intanto la permanenza
dell’irrequieto produce stanchezza all’orecchio dell’ascoltatore.
Ad ogni modo v’è in Conchita qualche cosa che avvince e conquide: il tocco magistrale
rivelato ad ogni passo, il vapore di poesia che avvolge l’ambiente. Sarebbe difficile asserire vi
sia ritratta la vera Spagna o negarlo: certo ci troviamo dinanzi un quadro corrispondente al
sogno che di quel paese possiamo aver fatto per le descrizioni degli scrittori e sopratutto per
quanto risulta dai riflessi della canzone spagnuola. Sarà ambiente convenzionale, ma riesce
completamente suggestivo: gli scopi dell’arte sono dunque per intero conseguiti.
Vapore di poesia intorno a Conchita? Il Zandonai ha dunque reso possibile l’impossibile
colla sua arte; poiché sarebbe arduo trovare personaggio più repulsivo, soggetto meno
indicato agli onori della scena lirica: così l’averlo tentato è per lui merito e demerito al tempo
stesso. Recare al teatro la psicopatia d’una donna, lo spettacolo di un’anima degenerata che
esercita il tormento del suo vizio sopra una marionetta – così volle chiamare il paziente,
l’autore del romanzo originario: La femme et le pantin – ripetendo la medesima situazione
all’infinito, è aberrazione pericolosa dalla quale parrebbe difficile trarsi a salvamento. Ah,
bisogna pur credere che uno spirito malefico spinga i nostri giovani maestri sulla via scoscesa
della perdizione! Ma possono credere, da vero, di secondare il gusto corrente? In tal caso si
disilludano: il pubblico italiano deplora simile andazzo, né si lascierà traviare. E poiché il
Zandonai suscita tanta speranza, innalzi egli lo spirito a più spirabil aere.
3.1.1/21
*
Quanto abbiamo detto ci dispensa da minute analisi. Tuttavia accenneremo ai brani più
rilevanti della interessante partitura che sono: il racconto di Conchita all’atto primo; la scena
sulla strada a sipario calato, il che non giova all’effetto; la tenerissima chiusa del duetto alla
taverna, la quale converrebbe raccorciare; la magnifica pittura che incornicia il quadro
dinanzi alla cancellata. L’atto ultima sembra il più debole: l’intermezzo che lo precede (v’è
abuso d’intermezzi) è poco significante; l’unica scena, che chiude l’opera, risulta fredda.
Malgrado le deficienze notate, l’opera del Zandonai lascia profonde impressioni e
desiderio di nuove audizioni per meglio assimilarla. Il maestro, evocato ad ogni atto, venne
fatto segno, alla fine, ad ovazioni nutrite.
L’esecuzione apparve nell’insieme felice; in primo luogo per il contributo prezioso di
Edoardo Vitale concertatore valentissimo nel non facile compito affidatogli, non che per il
perito singolare dei due principali interpreti: la signora Cervi Caroli ed il tenore Taccani,
entrambi gareggianti di zelo e di efficacia drammatica.
Per lunedì si annuncia la seconda di Conchita e per martedì la serata in onore di Emma
Carelli coll’ultima di Elettra.
14
Roberto Falciai, “Conchita” di Zandonai al Costanzi, «The Roman Times», [?].3.1912 - p. 1,
col. 1-2-3
In verità ci attendevamo qualcosa di meglio, sia per il successo quasi entusiastico che
l’opera riportò al Dal Verme di Milano, sia per le buone speranze a cui dava adito il Grillo
del Focolare.
Anzitutto il libretto è difettoso: cosa comune, questa, alle opere nuove che da qualche
tempo in qua ricevono il battesimo sui nostri teatri, incominciando dalla Isabeau, che in
qualche punto è semplicemente esilarante, ed eccettuando forse la sola Fanciulla del West in
cui il Puccini ha trovato il soggetto perfettamente adatto al suo temperamento artistico.
Il libretto, dunque, è difettoso. Esso è tratto da La femme et le pantin di Pierre Louis [sic],
ma mentre nel romanzo la figura strana di Conchita è dipinta a perfezione nei suoi
atteggiamenti ora pieni d’amore ora pieni di femminile malvagità (ed è vera malvagità,
subitanea ed irragionevole, quella, per esempio, di abbracciare e di trascinarsi in casa
Morenito, proclamandolo suo amante al povero ed innamoratissimo Matteo che delira oltre le
sbarre inesorabili del cancello, quando poi Morenito non solo non è suo amante, ma
nemmeno suo amico), mentre dunque nel romanzo la figura di Conchita vive, di vita irreale,
se volete, ma vive, nel libretto dell’opera questa figura è appena abbozzata in qualche tratto,
caratteristico sì, ma che – privo della coordinazione dei fatti e dei sentimenti – suscita
l’illusione di una palla che ora rotoli tranquillamente sul terreno ed ora schizzi verso il cielo,
senza una chiara forza motrice.
Per esempio, se il pubblico sa spiegarsi perché Conchita, dopo aver promesso a Matteo di
essere l’indomani sua, giunga a quel pazzo grado di sdegno quando apprende che egli ha
lasciato nascostamente dei denari, e – persuasissima che il giovine abbia così voluto pagarla
anticipatamente – fugga di casa per salire le tavole di un lubrico caffè-concerto, il pubblico,
dico, rimane poi stupito dall’improvviso suo ritorno dall’odio alla passione dolcissima,
quando Matteo, sorpresala a danzare nuda dinanzi a tre inglesi, la rimprovera violentemente.
E ancor più stupito del nuovo subitaneo ritorno all’odio intenso e malvagio (vedi l’episodio
citato sopra) e quindi ancora, e per ultimo, all’amore, dopo che il giovine in un accesso di
rabbia l’ha battuta – quantunque l’inverosimiglianza di questa situazione sfugga a molti
spettatori per la drammaticità intrinseca e per la bellezza della musica che la riveste.
3.1.1/22
In quanto alla musica, ecco, noi preferiamo non darne ampi giudizi, o tutt’al più
considerarla in sé stessa senza ricavarne la personalità dell’autore, il quale noi crediamo si
trovi in quel periodo in cui si cerca la via per l’espressione delle proprie idee. La via, a parer
nostro, il Zandonai non l’ha ancor trovata; e ci rafforza in questa opinione la sua giovane età
anzitutto, e poi la cura che egli si prende di evitare i soliti effetti orchestrali.
In ogni modo, nella musica della Conchita c’è ispirazione, non dappertutto, non sempre
genuina, spesso impastoiata e soffocata. Si vede che l’autore ha il concetto del quid che
entusiasma le platee, almeno in Italia: la frase lunga e melodiosa (non bisogna dimenticare
che il Zandonai è allievo di Mascagni). Ciò che gli manca è la sicurezza e l’indipendenza
assoluta delle parti, in modo che il pensiero musicale appaia chiaro e limpido dinanzi agli
spettatori.
Ma, ripetiamo, il concetto c’è. Il preludio, per esempio, del terz’atto è veramente bello,
ricco di melodia e di passione. Quasi diremmo che in esso il concetto è attuato. Non così nella
descrizione della notte sivigliana, nello stesso terzo atto, al principio. Qui le buone intenzioni
ci sono, ma difetta l’originalità delle idee e del ritmo. Lo stesso dicasi di qualche altro brano
dell’opera.
Bisogna poi aggiungere che al successo contribuì l’esecuzione quasi perfetta. Il maestro
Vitale concertò e diresse con una esattezza meravigliosa. La signora Cervi Cairoli [sic], nella
difficile parte della protagonista fu ottima sotto l’aspetto lirico e drammatico. È inutile qui
tessere ancora una volta gli elogi della sua voce bellissima, chiara e squillante, e della sua
interpretazione scenica.
Il tenore Taccani fu anche un ammirabile Matteo, dalla voce pastosa e ben timbrata, ma
deve ancora acquistare la sicurezza dell’interpretazione e dei movimenti.
Accuratissimo e superiore ad ogni elogio l’allestimento scenico.
A Riccardo Zandonai, di cui in ottobre si rappresenterà un’altra opera, facciamo i più vivi
auguri, affinché egli presto trovi la strada alla sua ispirazione e ascenda verso la fama del suo
glorioso Maestro.
15
Conchita. Nuova opera del Maestro Riccardo Zandonai su libretto di Moris Vancaire [sic] e
Carlo Zangarini rappresentata al Costanzi la sera di sabato 23 marzo 1912, «Rivista
artistica» III/7, 31.3.1912, fasc. I, pp. 3-4 (con grande fotografia di Giuseppe Taccani)
La Direzione del Costanzi aveva in principio di stagione annunziate tre novità: l’Elettra, la
Conchita e i Figli di Re; ma quest’ultima è mancata per motivi non ancora conosciuti.
Certo che la Conchita costituiva una delle più grandi attrattive specie per le discussioni che
sollevò fin dal 14 ottobre 1910 [sic] allorché venne la prima volta rappresentata al Dal Verme
e da Tarquinia Tarquini.
Data appunto l’aspettativa vivissima, il teatro era l’altra sera gremito di quanto più
elegante ed aristocratico conta Roma.
Anche la colonia straniera vi era largamente rappresentata.
Riccardo Zandonai ha trovato nel Maestro Vitale un interprete felice e maraviglioso del
suo pensiero, e il grande maestro – che quest’anno ha diretto con tanta anima, con tanta
passione e con alti intendimenti artistici l’importante stagione lirica del maggior teatro
romano – ha ottenuto con questa sua nuova interpretazione un nuovo colossale trionfo.
Alle 9 precise l’opera è cominciata.
È bene prima di ogni altra cosa dire che Riccardo Zandonai, nato a Sacco [nel] Trentino,
ha studiato musica al Conservatorio di Pesaro diretto da Mascagni dove venne diplomato nel
1902.
3.1.1/23
Dopo soli due anni ottenne un pensionato artistico a Vienna, per il suo poema sinfonico dal
titolo: Il ritorno di Odissea [sic].
Tre anni fa dette alle scene la prima opera: Il Grillo del Focolare, tolta dalla novella del
Dikens [sic], che venne rappresentata con successo colossale a Torino, a Genova e al Casinò
di Nizza.
Fin d’allora si predisse al giovane maestro il più luminoso avvenire e la critica unanime
riconobbe in lui uno di quei forti ingegni dai quali tutto spera il teatro lirico italiano.
La Conchita venne da lui scritta nel 1810 [sic]. Il libretto di Moris Vancaire [sic] e Carlo
Zangarini è stato tolto dal romanzo di Pierre Louis [sic]: La femme et le pantaine [sic].
***
Tradurre in versi La femme et le pantaine e rivestire questi versi di musica non credo sia
cosa del tutto facile.
Il romanzo di Louis si può leggere. Sarà un romanzo scollacciato quanto si vuole, ma non
manca di un certo interesse e di genialità e poi come pittura di ambiente, come magnifica
descrizione di caratteri e di tipi deve assolutamente accettarsi.
Ma portare sulla scena e sulla scena lirica tutto quel luridume che non verrebbe accolto
nemmeno in un infimo teatro di pochades, credo sia stato sbaglio fenomenale, imperdonabile.
E questo libretto sconcio, immorale, non contiene nemmeno versi passabili.
È uno zibaldone racimolato così alla meglio sotto il titolo del quale non vorrebbe mettere il
suo nome nemmeno un ragazzo di seconda ginnasiale.
Ma lasciamo il libretto che non merita davvero l’onore di essere discusso e veniamo subito
alla musica.
Fin dalle prime battute il pubblico rimase vivamente impressionato dalla purezza dello
stile, dall’ispirazione e dalla vastità di vedute del giovane ed egregio autore.
Riccardo Zandonai dopo il primo atto si era già imposto e tutti riconobbero in lui un forte
musicista, un genio che si rivela, una sicura promessa del Teatro.
E difatti in questo primo atto: La fabrica di Siviglia l’egregio maestro è stato così
potentemente descrittivo che il pubblico si è inteso del tutto conquiso.
La sua musica prettamente italiana differisce da quella degli altri compositori moderni.
Egli con mezzi semplici ha saputo trarre tutti gli effetti che ha voluto.
Seguendo le tradizioni della nostra lirica, ha scritto musica nazionale pure adattandola
all’ambiente in cui fa svolgere l’azione.
Il racconto di Conchita è di una bellezza indicibile. Questo brano delizioso, che rivela e
descrive l’animo malvagio della protagonista che fa sentire i suoi fremiti, che svela i suoi
pensieri, che penetra nell’animo suo come un coltello anatomico nel corpo del cadavere per
aprirlo e mostrarlo interamente, è semplicemente meraviglioso.
In questo brano è dimostrata l’alta coltura, la profondità di studi e l’anima eminentemente
artistica del maestro Zandonai.
L’intermezzo nella strada, in stile sinfonico, è un’altra pagina di squisita fattura il cui
ritmo risente di quella musica spagnuola che colorisce l’ambiente.
Potentissima è la scena del baile del secondo atto, e magnifico il duetto d’amore con cui
questo si chiude.
Nel terzo atto pieno d’ispirazione lo Zandonai è stato un vero pittore.
Chiudendo gli occhi ed ascoltando la sua musica piena di effetti straordinari, ci
trasportiamo con l’anima in quella notte andalusa e sentiamo le medesime sensazioni che
dovrebbero sentire gli eroini [sic] del romanzo.
La scena del camello [sic] è stata resa musicalmente con strana vigoria, con potenzialità
straordinaria.
Tutto poi l’ultimo atto, compreso il brano sinfonico che lo precede, è un fine lavoro di
cesello, è un merletto, che fa scattare il pubblico più freddo ed indifferente.
3.1.1/24
Insomma da questo lavoro giudicato da tutti una vera opera d’arte si può predire allo
Zandonai la prossima gloria, l’imminente realizzazione dei suoi sogni di poeta ed artista.
Il pubblico ha accolto la Conchita con l’entusiasmo più grande e le maggiori feste ha fatto
al maestro Zandonai e agli interpreti della sua opera.
Alla fine di ogni atto artisti, autore e maestro concertatore furono evocati al proscenio da
applausi calorosi entusiastici.
L’esecuzione è stata del tutto degna dell’importante première.
Ersilde Cervi Caroli, la cantante deliziosa, affascinatrice, l’attrice perfetta, simpatica,
moderna, la donna bellissima, ha interpretato la parte di Conchita con veri sentimenti d’arte.
Quantunque per incarnare tale strano ed immorale personaggio sarebbe occorso un altro
temperamento artistico e non un’anima buona ed eletta quale è la sua, pure ha cercato ogni
mezzo per riuscire e quando si possiede il suo valore, la sua coltura musicale e sopratutto i
suoi mezzi vocali non poteva certo essere meno.
E nel primo atto la grande artista è stata meravigliosa.
Nel racconto ha dato sfoggio di quella paradisiaca voce di cui è fortunata possessrice [sic],
e al termine fu acclamata ed applaudita con entusiasmo commovente.
Gli applausi calorosi continuarono per lei nel secondo e nel terzo atto, e nell’ultimo in
specie, dove, nella forte scena con Mateo, si è rivelata di una forza interpretativa
maravigliosa.
Mateo, il buon Mateo, il mite Mateo pazzamente innamorato di quella strana donna strana
e volgare, è stato reso dal tenore Taccani in modo davvero strabiliante.
Egli, artista elettissimo di non comune valore, ha profuso da gran signore quel tesoro di
voce che possiede e che lo rende uno dei tenori più ricercati ed acclamati che onori il teatro
lirico.
Giuseppe Taccani, divenuto ormai l’enfants [sic] gaté dell’aristocraticissimo pubblico del
Costanzi e che ora l’America ci rapisce, è riuscito con la sua voce deliziosa e con la sua arte
squisita [a] farci provare le più strane sensazioni e a trascinarci, in ogni brano in cui era
richiesto il cantante e l’attore, ad un applauso irrefrenabile.
Il tenore Taccani è uno dei pochi artisti che fanno la vera arte ed è un vero tesoro per le
imprese che hanno la fortuna di averlo tra gli scritturati.
La signora Mareck, tanto applaudita ed ammirata nella parte di Azucena del Trovatore, è
stata felicissima interprete della parte di madre.
Ed anche Lei, con la sua voce straordinariamente bella e con il possesso assoluto della
scena, ha contribuito al colossale successo dell’opera.
Come pure il baritono Mario Gubiani [sic], cara conoscenza del nostro pubblico, simpatica
figura di artista [che] è stato elemento prezioso in questo importante spettacolo.
Ottimo come sempre lo Schottler baritono simpatico e valente che in qualunque parte che
gli viene affidata porta sempre quella nota di signorilità che gli è innata.
La gentile signorina Giuseppina Falchero, che avevamo ammirato quale deliziosa Musette
nella Bohème, ha interpretato le due parti di Dolore [sic] e Pepita, confermandosi cantante di
non comuni meriti e di sicuro avvenire.
16
eva., “Conchita” di R. Zandonai al teatro Costanzi, «L’Illustrazione di Roma», [?].3.1912
(con fotografia di Zandonai)
L’annuncio di questa prima tanto sospirata superava di molto l’importanza – di per sé
stessa tanto grande – di una novità: alla nuovissima per Roma si accoppiava il nome di un
3.1.1/25
giovane e valoroso compositore, Riccardo Zandonai, già tanto in alto per la sua personalità
eminentemente artistica, ma assolutamente nuovo per il pubblico.
Più che giustificata allora l’ansiosa aspettativa che – dopo la rappresentazione – si è
tramutata per il pubblico in una felicissima rivelazione, e per gli studiosi in una grande
affermazione del forte ingegno dell’autore.
Non si è avuto, è vero, quel successo trionfale che consacra l’opera all’immortalità, ma non
è colpa del compositore il quale, invece, nell’arditissima prova ha resistito tenacemente
all’urto spassionato della critica: anzi, si deve alla forte fibra artistica di Riccardo Zandonai se
l’opera, dato il suo mostruoso concetto, non è caduta.
Successo, quindi, personalmente grande del maestro e che s’impone subitamente a quello
un po’ difficile dell’opera, in complesso non molto piaciuta e criticata, causa prima ed unica
le deficienze capitali di un volgare e squinternato libretto.
***
Più che un adattamento scenico del famoso romanzo di Pierre Louys «La femme et le
pantin», pregevole studio di anime pur nel suo materiale e desolante verismo, il libretto di
«Conchita» può sembrare così a priori una parodia. Poiché nulla, in questo infelicissimo
lavoro di Carlo Zangarini e Maurizio Vaucaire, è trasfuso della potente psicologia dei
personaggi del romanzo: psicologia che da sola regge le sorti di quelle pagine e, forse, basta a
giustificare la degenerazione e la sensualità bruta dell’ambiente. Togliete, dunque, questo al
libretto – cosa che potrebbe essere l’unica sua buona dote come lo è per il romanzo – ed
aggiungetevi, invece, un po’ di strafalcioni letterari – come quelli enormi che contiene – ed
avrete così il lavoro dei Signori Zangarini e Vaucaire, una vera aberrazione sia letteraria che
scenica, tale e quale è risultata.
Conchita è una sigaraia di Siviglia, psicopatica, tutta materiata di pervertimento sensuale;
Matteo de Diaz un elegante imbecille, vittima della propria amante: due protagonisti,
insomma, che invece di interessare fanno rabbia a vederli sulla scena, e che si vorrebbero
avere fra le mani per farne non so che cosa... certamente fuori che dei soggetti da teatro.
Il lavoro dei due poeti, quindi, è caduto completamente: dall’ingegno di Carlo Zangarini e
Maurizio Vaucaire avevamo diritto di aspettare ben altra cosa, fuori di questo insipidissimo
libretto che non potrebbe suscitare ispirazione anche nel più esperto e sensuale compositore
di musica da operette anche di quelle in sottanino e mutande e... con tanto di gambette.
La lirica, voglio dire la vera opera, esige, vuole che il librettista rimanga in un campo
molto più ideale e puramente artistico: cosa dunque poteva accadere per Riccardo Zandonai?
Niente più di quello che è avvenuto. La musa, essa, la vera musa del valoroso maestro si è
ribellata nel vedersi abbassare a tanta prostituzione di sentimenti e di idee, ed è stato
giocoforza per lui scrivere la musica di «Conchita» – è evidente – lottando contro se stesso e
contro i suoi nobili ideali d’artista.
Infatti troviamo forse noi in tutto lo spartito una pagina che abbia realmente illustrato
l’ambiente nella sua depravazione e ne abbia resa, nelle molteplici scene, tutta la bassezza e
la perversità? No certamente. La forte ed insana passione che pervade tutta l’opera sì ricca di
volgare erotismo, non poteva e non ha in alcun modo ispirato il musicista sano e puro nelle
sue idealità, timido e delicato nel più profondo dell’anima sua; egli ci appare invece in tutto il
bagliore della sua forza e maestosità nelle scene di colore, nelle quali si entusiasma, sente la
vera poesia, fa cantare la sua anima di sognatore e crea ispiratissime pagine, brillantissimi
quadretti, suggestivi, pieni di brio e veramente indimenticabili.
In questi tratti soltanto è apparsa tutta la personalità spiccatamente artistica di Riccardo
Zandonai colorista e sinfonista esperto, ma soli questi brani da lui sì divinamente scritti, sì
originalmente creati, ed istrumentati con una sapienza degna della più alta fama sono stati
sufficienti per decretarlo unico e solo in Italia capace di possedere tanto valore istrumentale.
Egli possiede tutti i segreti della moderna orchestrazione e non imita alcuno: procede su un
3.1.1/26
cammino fiorito delle più belle speranze a non altro mirante che alla indipendenza delle
proprie forze.
Qualcuno ha osato far parola sulla mancanza di vena melodica e di ispirazione da parte del
maestro: quest’accusa non regge – poiché è proprio un’accusa –, a noi pare di averlo già
dimostrato col dire che la natura del libretto così plateale e bassa non è consone
assolutamente con i forti sentimenti del musicista: del resto tutti i duetti fra Conchita e Mateo
non sono che dialoghi, tutti sulla stessa maniera e sulle stesse intonazioni volgari: versi e frasi
spezzate che in alcun modo danno adito ad ispirata melodia.
Analizzare profondamente lo spartito mi parrebbe cosa utile ma d’altra parte lo spazio
molto limitato me lo vieta: accennerò piuttosto ai brani più belli dell’opera e che meritano di
essere ricordati a lode dell’autore.
Nel primo quadro, nella fabbrica di Siviglia, brillantissimo è lo scherzo orchestrale sul
quale si svolge il cicaleccio garrulo delle spensierate e mordaci sigaraie e s’intese il racconto
di Conchita; poi molto vivace la scena del Baile con la jota e la canzone dei bevitori di
splendido effetto. Dei duetti fra Conchita e Mateo l’unico meritevole di ricordo è quello al
secondo atto, squisitamente fino e toccante; mirabilissimi sono per finezza e colorito i vari
intermezzi sinfonici: il primo nella strada che ci conduce alla casa di Conchita attraverso le
vie chiassose di Siviglia è tutto nella sua originalità, di tipo spagnuolo; l’ultimo più bello ed
efficace è il preludio del terzo atto fatto di finezze vaporose ed iridescenti che ci dà,
nell’illusione del sogno, la realtà a tutto l’incanto misterioso di una placida notte iberica
avvolta dai raggi lunari, calda di romanticismo, inondata di canti e vaghi profumi.
Questa è la pagina più sublime di Conchita e che rivela magnificamente tutta la maturità
piena e vigorosa dell’ingegno di Riccardo Zandonai. Bellissima anche la chiusura dell’opera.
E concludendo, ci pare ovvio dire ancora una volta che dopo la rivelazione del maestro con
il Grillo del focolare sia stata più che una riaffermazione: è stato un passo avanti che
felicemente prelude a nuova conquista.
Noi salutiamo pertanto in Riccardo Zandonai una futura gloria dell’arte italiana: perseveri
egli, sia accorto piuttosto nella scelta di questi libretti che le forche caudine editoriali
impongono tanto facilmente: i nostri migliori e più sinceri auguri accompagnano il suo alato
ingegno nel fervido lavoro della «Melenis».
***
L’esecuzione fu lodevolissima sotto ogni rapporto. Primo fra tutti a raccogliere vere lodi fu
il m. Vitale che con amore veramente fraterno concertò l’opera.
La Sig.ra Ersilde Cervi Caroli nella parte di Conchita si comportò molto bene: fece sfoggio
della sua bella voce calda ed intonata e si fece meritatamente applaudire. Così pure il tenore
Taccani che si riconfermò vero artista anche come scena veramente pregevole.
La sig.ra Marek [sic] fece anche molto bene nella breve parte della madre di Conchita, e
così Lucia Torelli, Giuseppina Falchero, la Bucciarelli, la Flory, lo Schottler, il Gubbiani, il
Rossi ed il Gironi. Bellissima la messa in scena.
Il m. Vitale unitamente ai protagonisti venne applaudito caldamente alla fine di ogni atto
ed al termine dello spettacolo.
17
Il M.° Riccardo Zandonai e la sua opera; Conchita rappresentata al Costanzi, «La Vita
artistica», 30.3.1912
Riccardo Zandonai, l’autore di Conchita, nacque a Sacco nel Trentino nel 1883. Studiò a
Rovereto col maestro Gianferrai [sic]. Passò poi a Pesaro sotto Mascagni ove compiva gli
studi in solo tre anni.
3.1.1/27
Dodicenne, cominciò a comporre e nel 1902 diede alle stampe una romanza presso lo
Schott di Bruxelles, e nel 1906 per cura degli “Amici della Musica” una raccolta di melodie
nelle quali si notano già le caratteristiche individuali del giovane autore. All’ultimo concorso
Sonzogno presentò un lavoro in un atto La coppa del Re che venne poi premiato con un
sussidio dal Ministero della Pubblica Istruzione di Vienna.
Di passaggio a Milano fu da Arrigo Boito presentato a Ricordi pei quali scrisse la sua
prima opera, Grillo del Focolare, rappresentata con successo a Torino nel 1908 e nel
carnevale scorso a Genova e a Nizza.
Conchita fu composta in un solo anno, dal luglio 1909 al 1910. Lo Zandonai ha già
terminato un’altra opera, Melenis a soggetto romano.
Il libretto dell’opera Conchita fu tratto dal romanzo «La Famme [sic] et le Pantin» di P.
Louys da M. Vaucaire e C. Zangarini; in quattro atti e sei quadri.
La musica dello Zandonai si ascolta con manifesta compiacenza; egli ha tratto partito da
quanto gli si offriva, musicando cioè un soggetto privo di azione, conducendo il pubblico
attraverso la monotonia di quattro atti, senza fargli sentire un attimo di noia; ha dato forma ed
evidenza colle note ai vari momenti teneri e tragici degli incontri fra Conchita e Mateo; ha
caratterizzato costumi ed ambienti che troppo grandi coloristi avevano tentato, senza cadere
nella più materiale imitazione.
Lo Zandonai raggiunge effetti notevoli nelle scene di sensualità delicata e nella pittura
d’ambiente, come nel delicato e suggestivo intermezzo tra il primo e il secondo atto e nel
chiacchierìo pettegolo delle sigaraie al prim’atto.
Così il preludio di sapore massenettiano al quarto atto con a solo di violino è una delicata
pagina musicale che fa onore al giovane maestro.
Concludendo, lo Zandonai ha scritto una musica pregevole che può sostenere con successo
il giudizio di qualunque pubblico.
Le molte repliche che ne sono state date al Costanzi hanno fruttato larga messe di applausi
all’autore, chiamato parecchie volte alla ribalta ad ogni fine di atto. Grandi feste avrà ancora
alla rappresentazione che si darà certamente in suo onore.
Il maestro Vitale concorse fraternamente al successo dell’opera, mettendone in chiara luce
ogni bellezza.
Sotto le spoglie di Conchita la signora Ersilia [sic] Cervi-Caroli dette nuova conferma
delle sue squisite doti di cantante ed attrice.
Il tenore Taccani, così favorevolmente apprezzato dal nostro pubblico, cantò come sempre
con arte e sentimento, e coi due interpreti principali si distinsero pure al primo atto la signora
Marek [sic], la signorina Falchero, la signorina Flory.
18
m[atteo] i[ncagliati], “Conchita” al Costanzi, «Orfeo» III/13, 31.3.1912 - p. 3, col. 4
Un grande, impreveduto avvenimento qual è quello dell’annuncio che il Nerone di Arrigo
Boito è presso che terminato, ha occupato quasi tutto l’Orfeo, sì che della Conchita del
maestro Zandonai, non per irriverenza ma per ineluttabile necessità di spazio, diremo in
succinto e rapidamente.
Conchita, il cui ambiente e i cui personaggi sono spagnuoli, non rivaleggia colla Carmen.
È un’opera pensata e scritta con nobiltà d’intenti, con forma aristocratica, con alta idealità.
Non una volgarità, non una frase che sia presa a prestito per suscitare emozioni nuove su
motivi vecchi, non un pensiero che non rispetti la personalità del musicista. È un’opera
codesta alla quale il pubblico rende omaggio e dalla quale è possibile trarre auspici lieti per
l’avvenire del giovane compositore. Manca però in Conchita quella febbre, quella
3.1.1/28
esaltazione, quel pathos insomma per cui l’opera teatrale possa assurgere ad opera d’arte.
Non v’è durante i quattro atti mai un attimo a traverso il quale la musica sussulti e ondeggi
con tutti i fremiti della passione umana. Pare che lo Zandonai, preoccupato della parte
formale, abbia posto da parte con dispregio tutta quell’intima poesia delle passioni umane,
ch’è la sola a dar vita alla musica. Psicologia occorreva, e psicologia che desse la fisionomia
dei personaggi e il grado dei vari stati d’animo. Troppo elementi descrittivi concorrono a far
della Conchita una sinfonia squisita, preziosa, bella, ma troppo insensibile. V’è da credere
che quest’opera sia stata così concepita per dar la misura del valore tecnico del musicista. Ora
occorre ch’egli si riveli operista.
Nella Conchita si confermò artista sommo il maestro Vitale, che fu il vero prezioso
collaboratore dell’autore. L’orchestra, sotto la bacchetta del maestro Vitale, fu superba.
Ottimi la Cervi-Caroli e il tenore Taccani, che fecero sfoggio della loro bella voce e della loro
arte interpretativa. Sontuosa, caratteristica la messa in scena.
19
Conchita, «La Maschera» XI/4, 15-30.2.1930 - p. 1, col. 6 / p. 2, col. 1 (con foto di A. M.
Martucci)
Meraviglioso quadro quello in cui è stata tessuta la prima rappresentazione di Conchita:
intervento eletto, preparazione accurata e felice, spettacolo sublime.
Si sapeva e si presagiva l’interessamento per l’opera di Zandonai, ma il maestro è apparso
ancora più grande ed ha riportato un successo veramente lusinghiero.
Egli ha dato all’opera sua tutta la mirabile ricchezza delle sue virtù musicali, profuse in
meravigliosa armonia in motivi che scaturiscono spontanei nelle varie interpretazioni del
romanzo.
È tutto un ricamo sottile che Zandonai ha fatto: egli si è addentrato in tutta la trama del
lavoro e lo ha commentato in ogni sua parte con indovinazione magnifica, con slanci che
culminano talvolta in ardite e nuove trovate liriche.
Perciò il lavoro ci appare tanto interessante, tanto nuovo e tanto promettente.
La rappresentazione ha avuto il suo pieno successo e del resto il romanzo è apparso pure
interessante ed in molte parti alquanto originale.
Gli artisti hanno corrisposto egregiamente alle esigenze del lavoro e la esecuzione
musicale è stata precisa e fedele interprete delle note vergate da Riccardo Zandonai.
Rosina Torri (Conchita), cara conoscenza del pubblico romano che la ricorda fervida ed
appassionata interprete di “Liù”, è stata semplicemente grande.
La sua voce ha morbidezze calde e vellutate, agilità impressionante, che sa trovare accenti
vibranti di accorata commozione.
Le sue cospicue qualità di canto, del vero canto italiano, pongono infatti questa squisita
creatura tra le più fulgide vedette della lirica italiana.
Rosina Torri, nell’opera del maestro Zandonai, ha voluto presentare al pubblico del Reale
una interpretazione fedele ed integrale facendo ammirare sempre più la sua arte scenica ed i
suoi meravigliosi mezzi vocali ricchi di sorprendenti risorse.
L’uditorio rimase profondamente compreso e le rivolse calorose e sincere ovazioni. Degno
compagno le fu il giovane tenore Francesco Battaglia che nelle vesti di “Mateo” riportò un
vibrante successo.
La sua voce di timbro simpaticissimo e carezzevole risuonò nella sala magnifica fra il vivo
godimento del pubblico.
Egli infatti, con la sua voce di facile emissione, estesa, pieghevole, che modula con vero
sentimento e con arte e padronanza assoluta della scena, è stato pieno di risorse insperate.
3.1.1/29
Francesco Battaglia compose il personaggio con tocchi di efficacia e di sentimento
ammirevolissimi e conferisce al canto melodiosità di accenti, cosicché le sue note basse e
quelle acute si diffondono con bella sonorità ed impeccabile misura.
In complesso si è rivelato artista di eccellenti risorse vocali e sceniche ed i molti applausi
che gli furono diretti sono la migliore constatazione del bel successo conseguito.
Ottima “Madre” fu giudicata Anna Gramegna per bella voce, per l’arte impeccabile e pel
sentimento che profuse nella interpretazione della sua drammatica parte.
Anna Maria Martucci, gentile e vibrante interprete, tanto simpaticamente nota al pubblico
romano, si è fatta molto apprezzare per la sua voce estesissima, squillante, flessibile ed agile.
Questa giovane cantatrice possiede cospicue doti artistiche, intuito musicale di prim’ordine,
orecchio perfetto e quadratura non comune che le consentono di accedere a maggiori e più
complesse responsabilità, cosa che noi le auguriamo di gran cuore.
Ottimamente si sono prodigate Lucia Bonetti, Tosca Ferroni, nonché Adolfo Pacini e
Baronti i quali hanno concorso alla riuscita dello spettacolo bene organizzato e diretto da
Marcello Govoni.
Gino Marinuzzi ancora una volta si è rivelato interprete di singolare valore, recando nella
direzione e nella concertazione dell’opera profondo senso di equilibrio, impeto lirico e calore
comunicativo.
Molto bene i cori istruiti dall’infaticabile maestro Andrea Morosini.
Di bello effetto le scene di Pieretto Bianco.
20
Alberto Gasco, “Conchita” di Zandonai al Teatro Reale, «La Tribuna», 25.2.1930 - p. 3, col.
3-4-5 (con la riproduzione del bozzetto di una scena del secondo atto)
Credevamo che la Conchita di Riccardo Zandonai avrebbe destato in noi sensazioni
notevolmente diverse da quelle che avevamo provato diciotto anni or sono, vedendola ed
ascoltandola per la prima volta. Invece essa ci ha lasciati, come allora, un po’ esitanti, se pure
tutt’altro che insensibili al suo fascino. La ammiriamo, senza essere disposti, tuttavia, a
suicidarci per i suoi begli occhi. Ciò dipende non dalla musica – che ha meriti insigni – ma
dal libretto dell’opera. A parte ogni questione di moralità (dopo la Salomè, accettata a cuor
leggero, ogni diatriba del genere diventa ridicola), si osserva che i vari episodi del dramma
non sono collegati abilmente, cosicché nel passare dall’uno all’altro si deve saltare sempre
qualche fossatello (pieno d’acqua poco pulita). Lasciamo Conchita amorosa e mite e la
ritroviamo poco dopo iraconda e maligna come una scimmia abbeverata di fiele, senza poter
comprendere il perché del suo mutamento catastrofico; la vediamo accettare con giubilo il
regalo di un napoleone d’oro e poi diventare furiosa come una tigre stuzzicata con un ferro
rovente, quando si offre alla sua degna mammà un biglietto da mille. Conchita è pura e
difende la sua verginità con la fierezza di un’amazzone, ma parla come una sgualdrina e
promette le sue grazie con tanta disinvoltura da stupire anche una legione di satiri. Chi
potrebbe pesare l’oro e il fango dei quali codesta femmina è materiata? La sua sorella
maggiore, Carmen, agisce in modo sempre chiaro: spavalda, sensuale e spietata, ha un
carattere ben definito: date le sue tendenze (poco raccomandabili) ella si diporta sempre
logicamente. Vuole il proprio piacere e null’altro: insensibile alle sofferenze altrui, desiderosa
di lottare, affronta le peggiori situazioni con un sorriso di sprezzo, si busca una magnifica
coltellata nella pancia e ispira a Giorgio Bizet un capolavoro. Conchita, invece, scivola tra le
mani, come un’anguilla spalmata d’olio. È tanto cattiva che la sua stessa purezza fisica
sembra qualcosa di vizioso. Quando ella sussurra frasi d’amore fa rabbia, perché non si può
credere alla sua sincerità. E quando Don Matteo, dopo di aver vuotato dieci volte l’amaro
3.1.1/30
calice del disinganno, trova alfine la forza di insorgere contro di lei e la getta a terra e la
percuote furiosamente sino a lasciarla tramortita, vien la voglia di gridare come quel tale
rustico eroe dannunziano: Be', questo è ben fatto! La scena brutale provoca in noi una détente
salutare e piacevolissima. Oh se avvenisse qualcosa di simile nell’episodio finale della
Turandot di Puccini! Vedendo il “Principe Calaf” somministrare un’imponente dose di
ceffoni alla “Principessa di gelo”, tormentatrice dell’angelica Liù, gli spettatori balzerebbero
in piedi e, folli di gioia, si metterebbero a ballare rovesciando poltrone e sedie...
È il caso di notare come la spasmodica evoluzione del dramma musicale odierno abbia
portato all’esaltazione di alcune figure muliebri terribilmente perverse: Salomè, Conchita e
Turandot, che personificano rispettivamente la necrofilia, il masochismo e il sadismo. Scusate
se è poco... e auspicate meravigliosi eventi d’arte lirica per l’anno duemila.
***
È ovvio che il difetto precipuo del libretto di Conchita consiste nell’essere la versione
teatrale di un romanzo psicologico. Ciò che nell’avvincente libro La femme et le pantin di
Pierre Louys appare semplice e plausibile, nell’adattamento scenico diventa angoloso e
sibillino, causa le frequenti lacune e le inevitabili spezzature di scene e ragionamenti.
L’anima della protagonista ci sembra un enigma pauroso e sgradevole. Comprendiamo
meglio l’aberrazione sessuale di Salomè che quella di Conchita. Quando costei sbaciucchia
con affettazione il suo pseudo-amante Morenito per spingere al delirio – e forse anche al
suicidio – il misero Don Matteo che ella realmente ama, perdiamo la testa come chi è gettato
in un labirinto e soltanto troviamo la forza di implorare la benignità dell’Eterno affinché
nessuna donna simile a Conchita venga ad attraversare giammai il cammino della vita nostra.
Eppure... c’è da augurarsi che il teatro italiano del novecento possa annoverare molte
produzioni liriche come questa Conchita, discutibile fin che si vuole, ma viva, snella e
scintillante. Riccardo Zandonai, con la sua musica piena di guizzi e di scatti nervosi, talora
stridente, talora felina e sospirosa con perfidia, non di rado pittoresca e persino arguta, riesce
a nascondere quasi tutte le manchevolezze del poema drammatico. Le “scene di ambiente”
sono ammirevoli. Le ciance, i pettegolezzi, le allegre smanie delle sigaraie hanno un
commento orchestrale vertiginoso: l’episodio del “Baile”, con la Jota frenetica durante la
quale si svolge il duro colloquio tra Matteo e Conchita, il quadro della notte sivigliana, con i
suoi canti volubili e i suoi richiami d’amore, sono pagine concepite con genialità e disegnate
con mano fermissima. Il sinfonista e l’“uomo di teatro” si fanno ugualmente applaudire.
Ricordiamo ancora alcuni deliziosi dettagli della scena nella casetta di Conchita e la triste,
penetrante elegia con la quale si apre l’ultimo atto. L’orchestra piange con Don Matteo e le
lacrime sono perle di qualità superiore...
Nei momenti di schianto drammatico o di libera effusione sentimentale si desidererebbero,
invero, motivi più vasti di quelli che lo Zandonai ci elargisce. Il compositore frange troppo
spesso la linea melodica, preoccupato di rendere non solo le parole ma anche i movimenti
esteriori dei suoi personaggi. Perciò la musica di alcune scene di passione risulta
caleidoscopica, cioè composta di frammenti brevi, riuniti con arte preclara e illuminati da
folgorazioni continue. Questo giuoco diventa, a volte, un po’ spossante: però è sempre degno
di interesse alacre. Certe tortuosità, certi cromatismi lancinanti sono, a ben vedere,
l’espressione caratteristica del pathos di Riccardo Zandonai e in essi è un elemento di stile.
Resta comunque al pubblico il diritto di preferire i cantabili ariosi e sostenuti della Francesca
da Rimini alle piccole e fitte schermaglie melodiche della Conchita. Nessuno, d’altronde,
negherà che, nella abbondante produzione del maestro trentino, quest’opera italo-spagnuola
risplenda come un gioiello. La partitura orchestrale della Conchita sarà sempre oggetto di
studio fecondo perché doviziosa di tinte, vaga di chiaroscuri, agile di movenze e non povera
di buoni nuclei tematici. Un frammento sinfonico dell’opera è destinato ad avere una vita
autonoma e prolungata: l’Interludio del primo atto, brano di musica vispa e saltellante, in cui
3.1.1/31
si riflette il gaio fervore della città iberica nell’ora del meriggio. Qui, senza imitare
menomamente il Bizet della Carmen né il Debussy dell’Iberia, il nostro Zandonai ha saputo
scrivere una pagina musicale di carattere spagnuolo ben deciso, di modernità gustosa e di
incantevole trasparenza.
***
Quel tanto che abbiamo detto basta a dare un’idea della singolarità e del valore intrinseco
del lavoro. Ci resta ora soltanto da aggiungere qualche parola sull’esecuzione e sulle
accoglienze del pubblico.
Conchita è stata presentata in un’edizione di lusso e di alta dignità. La Direzione del
Teatro Reale voleva che la giovanile opera dello Zandonai apparisse al pubblico romano sotto
l’aspetto più seducente e ciò si è verificato grazie principalmente all’ingegnosità
dell’allestimento scenico ed alla scrupolosa concertazione del maestro Gino Marinuzzi. Il
giuoco delle masse è stato regolato a meraviglia da Marcello Govoni, al quale rivolgiamo un
cordiale evviva! Gli scenari, dipinti dall’illustre Pieretto Bianco, ci sono assai piaciuti. Quello
del secondo atto (il Baile) ci è sembrato assolutamente splendido. Abbiamo ritrovato l’artista
che si era meritato il nostro encomio l’anno scorso, con i quadri fantasiosi della Carmen,
modelli di gusto e di vivacità coloristica. Facciamo tuttavia qualche riserva circa lo scenario
dell’ultimo atto di Conchita: la camera di Don Matteo è talmente sovraccarica d’oro e
d’ornamenti orientali da far pensare alla dimora di un sultano. In mezzo a tanto lusso esotico,
l’uomo in pigiama di velluto scuro fa una figura abbastanza curiosa...
Salutiamo amichevolmente Pieretto Bianco e veniamo ai cantanti, che hanno meritato
invero la nostra approvazione per la coscienza artistica e la resistenza dimostrate nel corso
dello spettacolo. Rosina Torri, magra, ardente, intelligentissima, ha saputo ricavare dalla parte
di “Conchita” effetti vocali e scenici oltremodo considerevoli. Senza dubbio, ella ha dovuto
lottare strenuamente per superare ogni ostacolo – principalmente quello dell’acutezza della
tessitura – ma si è disimpegnata con onore e il pubblico le ha manifestato una simpatia
perfettamente sincera. “Don Matteo” era il tenore Battaglia che ha saputo far uso perspicace
dei larghi mezzi vocali elargitigli da madre natura, cantando con fosca passione e imprecando
con disperato accento, ma senza sforzature né ridondanze enfatiche. La voce del Battaglia
non è di timbro chiaro, ma ha una estensione non comune e una bella omogeneità nei vari
registri.
“Conchita” e “Don Matteo” stanno sempre in iscena e cantano di continuo: gli altri
personaggi sono macchiette o comparse. La madre di Conchita ha ben poco da dire: ad ogni
modo, in questa esile parte la signora Gramegna ha avuto modo di guadagnarsi elogi. Le
sigaraie loquaci, fannullone, agitatissime, erano impersonate dalle signore Bonetti, Delisi,
Arbuffo, Martucci e Ferroni, che si sono prodigate senza risparmio. Hanno preso parte allo
spettacolo anche il Poli, il Baronti e il Pacini, elementi di pregio indiscusso. L’orchestra,
diretta col massimo impegno dal Marinuzzi, ha compiuto effettive prodezze. L’interludio del
primo atto, eseguito in modo sorprendente, si è chiuso tra festosi battimani.
Il pubblico, dapprima freddo e circospetto, si è andato a poco a poco riscaldando, sino a
diventare cordiale e generoso. In complesso, gli artisti e il direttore d’orchestra sono venuti
alla ribalta oltre quindici volte.
«Conchita» trarrà in folla al Teatro Reale coloro che amano le opere sferzanti e passionali.
Le sue molteplici virtù musicali e più ancora (ahimè) i suoi bizzarri atteggiamenti di donna
capace di ogni lussuria e pur risolutamente casta, la faranno apparire ammaliante come un
mostro leggiadrissimo venuto diritto dall’inferno.
***
Zarathustra ha detto: se vi avvicinate alla donna, non dimenticate la frusta. Noi
aggiungiamo subito: badate però che la donna non vi strappi di mano la frusta e se ne serva
a vostro danno.
3.1.1/32
Il secondo avvertimento – credete a noi – è anche più proficuo del primo...
21
“Conchita” di Riccardo Zandonai, «Il Messaggero», 23.2.1930 - p. 2, col. 2
Riapparsa sulla scena del massimo teatro della Capitale dopo parecchi anni da che la prima
volta vi fu rappresentata, Conchita ha ottenuto uguale successo: questo spartito, in cui
Riccardo Zandonai si affermò compositore di altissimo valore, presenta un elemento non
favorevole e di tale importanza da rendere più viva l’ammirazione per il Maestro che ha
saputo vincerne l’efficacia, ottenendo un risultato estetico rilevante; e questo elemento
consiste nel libretto. Come è ben noto, La femme et le pantin, il suggestivo romanzo adattato
per la scena e per la musica da Maurizio Vacaire [sic] e Carlo Zangarini, è acuto e profondo
studio di un essere ambiguo, il cui strano modo di procedere, misto di slanci passionali che
appaiono morbosi, di odiose espressioni menzognere, di sfrontatezza esterna e di intima
purezza, appare bensì spiegabile e convincente nella narrazione di Pierre Louys; ma nella
rapida esposizione scenica di alcuni momenti non molto variati lascia lo spettatore incerto e
quasi disorientato.
Inoltre, alcune situazioni ricordano abbastanza da vicino ben note scene della Carmen, e
qualche atteggiamento della sigaraia Conchita non differisce molto da espressioni della eroina
del Merimée e del Bizet, sigaraia spagnuola anch’essa, parimenti sfrontata.
In Conchita però il maestro Zandonai ha saputo, quasi in salda sintesi, esporre
organicamente le più belle e significative qualità della sua personalità artistica: il
temperamento vibrante, che sa ideare ed esprimere plasticamente e ritmicamente le più
animose e appassionate situazioni drammatiche; la limpidezza tutta italiana delle idee
melodiche, snodate e incisive; la sicura e geniale elaborazione del tessuto armonistico e
contrappuntistico; la strumentazione ricca di colori brillanti, robusta e delicata, che offre il
più netto carattere di personalità. Si può ben rilevare il fatto che in Conchita sono assommati
gli elementi essenziali che, sviluppati, conferiranno alle successive partiture di Riccardo
Zandonai la loro tipica significazione.
Brillante, animatissimo il primo quadro, cui la ricca veste musicale apporta varietà, in cui
guizza rapido un palpito amoroso: l’intermezzo tra il primo e il terzo quadro a sipario calato,
in cui, come a traverso un velo crepuscolare, si odono risonanze ed echi sonori della strada,
ha una forza suggestiva che sembra preludere a consimili episodi cronologicamente posteriori
in cui qualche illustre compositore ha rievocato notti spagnuole con efficacia che non sempre
supera sensibilmente il quadro tracciato dallo Zandonai. Nel terzo quadro la musica, mentre
dà rilievo alla figura della madre di Conchita, lumeggia voluttuosamente il breve episodio
amoroso e vigorosamente lo scatto iroso della fanciulla offesa.
Nel secondo atto, ancora un quadro musicalmente brillante, in cui le agili movenze della
danza offrono animato sfondo alla scena dell’osteria: mentre il successivo dialogo tra Mateo e
Conchita, agitato da prima, quindi idilliaco, poi appassionato, gli conferisce varietà. Il quinto
quadro è un nuovo notturno spagnuolo, che però è abilmente differenziato dal precedente e si
chiude con impeto drammatico. Per contro, l’ultimo quadro iniziato dolorosamente, seguito
dalla scena violenta in cui Mateo inveisce contro Conchita, risolve con dolcezza di accenti
amorosi.
Rosina Torri, “Conchita”, ha una voce estesa e squillante, ma non sempre perfettamente
intonata nella emissione delle note acute; ha accento drammatico e spigliatezza scenica non
comune, per cui plasticamente sa rendere vivo il personaggio; altrettanto può dirsi del tenore
Francesco Battaglia, “Mateo”, che possiede mezzi vocali eccellenti e molta efficacia scenica,
ma qualche incertezza nel registro acuto; sicuri e disinvolti gli altri interpreti, tra cui
3.1.1/33
ricordiamo Anna Gramegna, “Madre”, la Bonetti, la Martucci, la Ferroni, il Pacini, il Baronti,
i quali tutti hanno ben contribuito a dar vita animata al quadro scenico, bene organizzato e
diretto da Marcello Govoni.
Il maestro Marinuzzi ha concertato e diretto con accuratezza lo spartito; i cori, istruiti dal
maestro Morosini, hanno ben proceduto.
Gli scenari, se anche in parte bene ideati, non sono stati sempre ugualmente realizzati.
Pertanto, mentre lo spartito di Riccardo Zandonai è apparso musicalmente lavoro di alto
valore e in genere bene eseguito, tuttavia i riflessi drammatici di Carmen e la discutibile
significazione della vicenda scenica, talune espressioni non perfette nella estrinsecazione
dello spettacolo, hanno dato luogo a qualche contrasto alla chiusa di alcuni episodi: nel
complesso però gli esecutori sono stati evocati al proscenio quattro volte alla fine del primo
atto, cinque al secondo, tre al terzo, quattro all’ultimo: e ad ogni atto anche il maestro
Marinuzzi è stato chiamato alla ribalta.
[...]
22
s. a. l., “Conchita” di R. Zandonai al Teatro Reale, «Il Tevere», 24.2.1930 - p. 3, col. 1
Questa opera giovanile di R. Zandonai, riapparendo dopo circa venti anni sulle scene del
medesimo teatro, ha lasciato il pubblico perplesso e, pur riscuotendo applausi, non ha avuto
l’esito che pareva lecito aspettarsi. La colpa, abbiamo sentito dire, è del libretto, che fra
l’altro contiene dei versi che possono gareggiare con i più brutti di tutta la letteratura
melodrammatica. Ma in verità non si capisce perché si debbano scindere le responsabilità del
musicista da quelle del librettista, i quali vanno invece assolti o condannati sempre “in
solido”.
Il romanzo di Pierre Louijs [sic] La femme et le pantin, da cui è tratto il libretto della
Conchita, è la storia edificante di una donna che si diverte a tormentare l’uomo che in fondo
ama, fino al punto da farsi vedere, attraverso una cancellata, fra le braccia di un altro. Il
pover’uomo che ha sofferto le pene dell’inferno, quando se la rivede davanti ironica e
provocante, esasperato, non può fare a meno di batterla di santa ragione. Ma allora tutto si
accomoda, e la donna gli si concede finalmente, per ricominciare tuttavia lo stesso gioco, al
semplice fine di provocare un’altra energica reazione.
Si tratta, come si vede, di un caso di psicopatia, forse meno frequente di quanto non si
creda, ma ad ogni modo assolutamente logico. I librettisti invece, pur lasciando intatte le
situazioni più ardite del romanzo (la scena del cancello e quella finale) hanno avuto la
preoccupazione di moralizzare la figura della protagonista, col risultato di renderla inumana e
assurda. La Conchita del romanzo fa soffrire il suo innamorato spinta da una morbosa forza
irresistibile, quella del libretto per semplice orgoglio offeso. E si riconcilia con l’amante solo
quando può constatare che il suo amore è così forte da amare fino alla violenza. Così del
romanzo restano intatte tutte le situazioni teatralmente pericolose e scompare tutto il sapore e
l’interesse dell’invenzione. L’opera si regge solo in virtù della musica, che non dà modo di
rendersi conto dell’assurdità psicologica della protagonista, ma la musica d’altra parte, non
trovando appoggio nelle situazioni, finisce col non poter avere un carattere spiccato, sì che la
figura di Conchita non ci resta negli occhi e nell’anima come – tanto per ricordare un’altra
opera di ambiente affine – quella di Carmen. In questo la poca fortuna di questa Conchita,
che, pur avendo pagine di indubbio vigore drammatico e pagine di colore e di ambiente
veramente felici, lasciano un senso di delusione.
L’opera, concertata con la consueta accuratezza dal M. Marinuzzi, è stata interpretata dalla
signora Torri e dal tenore Battaglia.
3.1.1/34
La Torri, che ha una voce estesa e vibrante, ha reso con efficacia e con passione la figura
di Conchita ma per dar maggior rilievo al carattere della protagonista ha ecceduto spesso nel
gioco scenico.
Per contrario ci è sembrato un po’ fiacco il tenore Battaglia nel personaggio di Matteo, cui
i librettisti dicono di «avere dato un’anima meno remissiva e più immediatamente sensibile»
che quella del Matteo del romanzo.
Indovinati e intonati gli “esterni” del secondo e del terzo atto (il draile1 e la cancellata) ma
senza carattere la scena del quarto atto, che aveva l’aria di essere stata ritrovata dopo venti
anni nei ripostigli del vecchio Costanzi.
23
r[affaello] d[e] r[ensis], “Conchita” di Riccardo Zandonai, «Il Giornale d’Italia», 25.2.1930
(con ritratto a matita di Zandonai)
Si è tutti d’accordo, pensiamo, e lo sarà anche il musicista, nell’ammettere che la scelta di
un argomento simile a quello di Conchita, tratto dal romanzo La femme et le pantin di Pierre
Louys, non sia stata molto felice.
Una ventina di anni or sono già funzionava e s’avanzava una forte reazione al dramma
verista, e lo stesso Zandonai, scendendo nell’agone dell’arte, aveva avvertito che bisognava
uscire dagli ambienti realistici, borghesi, truculenti ed affligenti, e si presentò con una
commedia deliziosa in cui si alternano e si fondono con garbo sentimenti patetici e dolorosi,
situazioni brillanti ed umoristiche: Il grillo del focolare. Ma l’esperimento sembrò al
giovanissimo autore prematuro: egli s’accorse che la sensibilità collettiva, lenta e torpida,
chiede ancora gli audaci contrasti e le aspre emozioni. E cambia metro.
S’imbatte nel libretto di Conchita, che Puccini ed altri maestri tra il sì e il no preferirono
respingerlo, e l’accetta con entusiasmo, con audacia, come una sfida contro le difficoltà e
contro i facili paragoni. S’innamora con passione della bizzarra creatura, come sa fare
l’operista italiano di razza, che passa con mirabile pieghevolezza dal riso al pianto, dalla beffa
all’angoscia; e con lei, idealmente si capisce, percorre la Spagna a ricercar canti e modi nei
gerghi più popolari, non volendo scimmiottare i ritmi e i colori bizettiani, tanto famosi quanto
convenzionali, ma creare un ambiente di originale, diretta, schietta musicalità. Egli poteva
profittare anche della produzione strumentale da camera di carattere iberico, allora all’inizio
(ora ingombrante ed asfissiante); ma non volle.
La Spagna Zandonai la respirò con i suoi polmoni, la sentì con le sue orecchie, la vide coi
suoi occhi; perciò sorge una partitura ricca di materiale musicale che non è freddo e arido
formalismo, ma anima e spirito di un popolo, voci, linee, colori di un paese suggestivo.
Questo pregio, che chiameremo storico-folkloristico, domina tutta l’opera e le infonde
quella morbidezza di contorni, quella freschezza di carnagione, quella saldezza di ossatura
ancora intatte e che ieri sera sono state notate ed ammirate dagl’intenditori e dal pubblico in
genere.
Quell’ondata viva e robusta di modernità immessa, con Conchita, nel melodramma italiano
si sarebbe già infranta contro gl’inesorabili scogli del tempo se non fosse sostenuta da un
palpito interiore di verità ed umanità. Parliamo sempre dell’elemento musicale. Quanto al
dramma comprendiamo come la strana psicologia di Conchita non persuada ed anzi ripugni,
come le bassure dell’osteria, la scena del cancello, le botte finali di Matteo, le sole efficaci a
ridestare la coscienza amorosa di Conchita, destino antipatia e fastidio.
1
[sic]: ma baile.
3.1.1/35
È proprio qui la magagna che danneggia tutta l’opera e che forse le vieta il cammino
rapido, spedito e fortunato. A tal grado di brutale realismo non era giunto e non giunge alcuno
della tanto infamata giovine scuola italiana, che fu invece una rigogliosa primavera ed alla
quale in fondo si riallacciano l’anima e lo stile di Zandonai.
Né vale ad attenuare questo realismo l’immensa poeticità che pervade, impregna l’intera
opera. Zandonai è soprattutto un delicato poeta, un finissimo colorista, un gentile cantore: in
Conchita si preannunzia appunto il futuro autore di Francesca e di Giulietta, con le sue
caratteristiche riconoscibili, con la sua individualità netta e precisa.
Il quadro della fabbrica di sigari è efficacissimo, brillante, fatto di dialoghetti, di salti,
scatti, sorrisi, grida, allegrie, ma è suffuso di grazia, privo d’ogni volgarità. Una diafana,
luminosa ed iridescente trama musicale lo avvolge e lo nobilita.
L’intermezzo che segue (prima era un episodio scenico) echeggia di voci, canti e suoni
vicini e lontani, come sperduti nella nebbia e nel silenzio. Questa è poesia squisita, come lo è
l’altra pagina, l’altro notturno, che apre l’ultimo quadro.
Anche la scena animata, torbida, voluttuosa dell’osteria non ha nulla di banale e
repugnante; ma le due scene quando Conchita beffeggia crudelmente l’amore di Don Matteo
e si presenta al braccio d’un giovine, [e] quando Don Matteo la butta per terra e la percuote
sia pure di santa ragione, non sono gradite al pubblico.
Al pubblico è gradita l’arte di Zandonai e solo ad essa ha indirizzato il suo compiacimento
ed il suo applauso: il che si deve anche all’allestimento di Conchita, che è risultato
accuratissimo sotto tutti gli aspetti.
La preziosa partitura – dettagli, sprazzi, scintille, ridda di suoni, macchie coloristiche – ha
ricevuto dalla sensibile bacchetta di Gino Marinuzzi un elegante, chiaro e pronto rilievo. Il
pregio dell’opera essendo squisitamente musicale, se ne deve il successo anche alla fine e
vibrante compenetrazione e riproduzione del Marinuzzi.
Inoltre le masse: quelle corali diligentemente istruite dal Morosini, le comparse, le danze
sono state impiegate efficacemente nei quadri d’insieme. L’abilità del Govoni è stata notata
ed ammirata ancora una volta.
Gli scenari di Pieretto Bianco si intonano perfettamente alla Spagna sentita da Zandonai:
cioè poetica e trasparente. Niente sciupo di colori ed abbigliamenti. Buon gusto ed esatto
senso architettonico.
Su questo sfondo collettivo ed entro questi ambienti si svolge l’avventura di Conchita e
Don Matteo. Rosina Torri ha riempito di sé la scena cantando e muovendosi con disinvoltura.
Della perversa sigaraia ha reso lo spirito bizzarro e strano. Alla sua voce e al suo canto non
mancano difetti, ma la passione e l’impeto salvano tutto. Ella è riuscita a torturare quel
povero Don Matteo, impersonato dal tenore Francesco Battaglia, anch’egli provvisto di un
ragguardevole volume di voce, di cui ha fatto buon uso.
Bene la Gramegna, la madre, ed a posto tutti gli altri.
[...]
24
m[ario] l[abroca], “Conchita” al Teatro Reale dell’Opera, «Il Lavoro fascista», 25.2.1930 p. 3, col. 5
Tra le opere di Zandonai Conchita è quella che preferiamo. Tagliata con bravura, rapida e
disinvolta, essa, malgrado un libretto che non si può non considerare ridicolo, procede
attraverso una successione di quadri musicali capaci di suscitare l’atmosfera del dramma. A
ciascun episodio la sua sostanza musicale; ne viene fuori perciò una partitura sostanziosa,
3.1.1/36
varia, ricca di sonorità e di effetti, una partitura che sa sostenere in maniera quanto mai
efficace il giuoco delle voci.
Conchita è una di quelle poche opere che discendono direttamente dal Falstaff: quel saper
contenere una intera scena nella cornice di un periodo musicale perfettamente concluso in sé,
e quell’equilibrare le voci perché non cadano nell’anonimo del recitativo continuo, sono
qualità di origine Falstaffiana, doti che purtroppo ben pochi hanno cercato di fare proprie. Il
pregio centrale di Conchita è tutto qui, secondo noi, in questa solidità musicale che permette
al sentimento dell’autore di esprimersi nella maniera più efficace, attraverso le leggi che
regolano la creazione di qualsiasi opera d’arte. Il primo quadro delle sigaraie, il secondo della
casa di Conchita, il terzo della taverna, il quarto del cancello, ed il quinto della casa di Mateo
sono altrettante costruzioni musicali ciascuna con una sua propria fisionomia, costruzioni che
sanno creare, come abbiamo già detto, l’atmosfera del dramma. Perché mai dopo sì felice
inizio Zandonai si sia buttato nell’anonimo pentolone del recitativo continuo proprio non si
comprende e non si comprende come dall’autore di Conchita possano essere uscite opere
tanto lontane da questa prima, quali «Giulietta e Romeo», «I cavalieri di Ekebù» e
«Giuliano»; indagare su queste cose non è nostro compito; tutt’al più possiamo formulare
l’augurio che l’arte di Zandonai ritorni a battere le strade sulle quali si era slanciata allorché
apparve nel campo del teatro lirico.
Non è il caso di elencare, come si trattasse di opera nuovissima, pregi e difetti di Conchita;
ci piace tuttavia di rilevare la spontanea freschezza del secondo atto dove canzoni e danze
sanno incorniciare nella maniera più efficace l’azione drammatica che in esso si svolge, così
come meritano una speciale menzione la vivacità e la freschezza dello strumentale nonché la
incisività dei ritmi.
Conchita è opera di difficile concertazione specie se si vuole che la musica appaia nella
sua naturale struttura e nella sua spiccata eleganza: Marinuzzi ha avuto il merito di
presentarci una interpretazione che ha messo in rilievo tutta la poesia che circola nell’opera e
tutto lo spirito della luminosa partitura. La protagonista, signora Torri, non ci è sembrata
perfettamente a posto: la voce è troppo irregolare e l’azione scenica sa di sforzato, di troppo
recitato. Il tenore Battaglia ha ottima voce, voce che certamente si libererà presto da alcuni
lievi difetti di emissione per giungere opportuna ad arricchire la non troppo numerosa schiera
dei nostri reparti lirici. Ottima la Gramegna. Buonissimi i cori ed indovinata, sopratutto nel
secondo e nel terzo atto, la messinscena.
Moltissimi applausi agli interpreti ed al Maestro Marinuzzi.
25
s[ilvino] m[ezza], “Conchita” al Teatro Reale, «Il Popolo di Roma», 23.2.1930 - p. 5, col. 34-5 (con due foto di scena)
È questa certo l’opera più bella di Zandonai. Parlo di bellezza come l’intendo io, vale a
dire quando la sostanza artistica è fatta di sincerità d’ispirazione, di chiarezza di idee,
d’intenzioni legittime che s’avvalgono di mezzi d’espressione adeguati ed efficaci. In
Conchita mi pare di scorgere l’applicazione integrale di questa mia summa estetica, che è poi
quella dei maggiori musicisti di tutti i tempi e di tutte le scuole. A soli ventotto anni, quando
cioè questo “credo” si levava schietto e forte come un inno dal suo cuore, senza interferenze e
sofisticazioni cerebrali, Zandonai ha potuto darci l’opera sua più perfetta, in cui l’ardimento
non è preconcetto, il nuovo non è fine a se stesso ma deriva da un sentimento profondo e dal
bisogno di esprimersi così e non altrimenti. In seguito, se questa sua possibilità è diventata
più viva e solerte, la preoccupazione di tenere il passo con le giovani schiere che avanzano
disordinate e senza mèta lo ha tradito, fuorviandolo dalla buona strada che, appunto con
3.1.1/37
Conchita, aveva imboccato e che pareva dovesse portarlo a una precisazione definitiva della
sua personalità. Infatti, nelle opere successive, da Francesca a Giuliano, se ne togli alcune
pagine o meglio alcuni episodii in cui riappare l’autore di Conchita con la sua effusione lirica
lineare e spontanea, è palese l’ansiosa ricerca di altri modi e forme, le esplorazioni e le
incursioni avventurose su terreni altrui, il tentativo di rinnovare il vocabolario sostituendo al
suo linguaggio più semplice e personale locuzioni e parole che sentono il partito preso e il
ripiego.
Tornata sulle scene romane dopo circa vent’anni di assenza – e non è a dire quanto questo
ritorno sia stato opportuno e quanto colpevole questa assenza – Conchita ci è apparsa ancor
giovane e viva, certo più giovane e più viva di tante musiche composte jeri e di cui scorgiamo
la stanchezza e l’avanzato disfacimento. L’equilibrio dell’elemento melodico con l’elemento
coloristico, cioè meramente esteriore e decorativo, la ricchezza tematica elaborata con logica
conseguenza di sviluppi, e sopra tutto un senso diffuso di poesia che circola tra voci e
orchestra e che anche nei particolari di secondo piano è sempre alto e sostenuto, fanno di
questo spartito uno dei modelli melodrammatici più completi e pregevoli. La scena delle
sigaraje con cui l’opera ha inizio (e che, contrariamente alle pretese infiltrazioni del genere
Charpentier che vi hanno voluto scoprire, è del più puro Zandonai, quello cioè che più tardi
riunisce intorno a Francesca le donzelle inneggianti alla primavera e intorno a Giulietta le
ancelle intente al gioco del torchio); la scena drammatica e passionale del 2° atto tra Conchita
e Mateo; la scena che precede il duetto del cancello in cui la dipintura d’ambiente o, come si
direbbe oltre il Brennero, lo Stimmungsbild vi domina con una effettistica immediata e sicura;
per non parlare degli altri momenti e particolari che, di natura vocale o strumentale, tengon
desto l’interesse dell’ascoltatore e ne ravvivano l’emozione, tutta l’opera ci appare come
l’espressione genuina d’un artista che non ama schemi e programmi preventivi ma che sa
quello che vuole e quello che vuole dice con proprietà, con sincerità, con eleganza.
Naturalmente manchevolezze e vuoti non sfuggono a un orecchio esercitato. Ma bisogna
pensare che, affascinato dall’eroina perversa e serpentina de La femme et le pantin, il
compositore s’è trovato di fronte a una psicologia d’eccezione da rendere musicalmente e in
pari tempo alla necessità di condensare in pochi quadri sommarii e sintetici la materia
artistica d’un romanzo sprovvisto d’azione e che s’illumina soltanto d’una gran luce letteraria
e morale. E giova in fine ricordare come non a torto Conchita sia stata accostata a Carmen per
alcune tipiche affinità comuni e come toccasse al musicista tratteggiare il profilo di questa
donna perfida e sensuale con colori diversi da quelli usati dal maestro francese.
Mi è sembrato di qualche utilità accennare, sia pure succintamente, a quelli che sono i
caratteri essenziali d’un’opera d’arte pressoché sconosciuta ai nostri giovani. E tali accenti
fugaci mi son parsi anche necessari per evitare errori e confusioni con le opere successive e
più note dello Zandonai che oggi è fra gli operisti su cui maggiormente si appuntano gli
sguardi e si fondano le speranze di coloro che àuspicano un rinnovamento del vecchio teatro
lirico. Ma tornerà su i suoi passi Zandonai, tornerà alla purezza d’invenzione, alla chiarezza
formale di Conchita? Questo è il punto.
L’esecuzione è parsa una delle più felici e brillanti di questa stagione. Dalla scelta degli
interpreti all’allestimento scenico, al gioco delle luci, alla folla di personaggi minori cui è
commessa una breve ma non piccola parte di responsabilità, tutto ha contribuito al successo
dello spettacolo che, al solito, iniziatosi tra l’ostile freddezza della sala è andato man mano
crescendo d’intensità e di calore fino all’esplosione d’un bellissimo applauso che ha chiuso il
lungo duetto conclusivo dell’ultimo atto. Gino Marinuzzi, animatore di queste forze sparse tra
orchestra e palcoscenico, ha reso con superiore intelligenza d’arte lo spirito di questa partitura
in cui i caratteri prevalentemente sinfonici dimandano un governo delle voci orchestrali
pronto e sicuro. Assai interessante è stata la drammatizzazione della parte protagonista
immaginata dalla sig.na Torri che ha reso con talento quel tanto di psicologia travasato dalle
3.1.1/38
pagine del romanzo di Louys nella sceneggiatura del libretto. Bisognava fare accettare il
personaggio a un pubblico che, poco o punto avvertito, poteva incorrere in equivoci e
malintesi. La Torri vi è riuscita e, cantante e attrice pregevolissima, ha avuto momenti di
grande ed immediata efficacia. Il tenore Battaglia, che ha voce di ragguardevole volume e di
gradevole colore, ha cantato con accento appassionato senza però troppo concedere
all’espressione scenica che, massime nel terzo atto, è sembrata un po’ fiacca e stentata. Una
parola di lode va detta alla brava Gramegna, e vanno ricordate tutte le altre parti affidate alla
Bonetti, alla Martucci, alla Feroni, alla Delisi, alla Arbuffo, al Poli, al Baronti, al Pacini, ecc.
Sospirosa voce interna, il Mancini che ha vocalizzato la serenata con soavità e nostalgico
languore. Le scene, su bozzetti di Pieretto Bianco, hanno incontrato grandissimo e unanime
favore. Quella del 2. atto è un piccolo gioiello e, cosa non troppo consueta, è parsa anche
appropriatamente illuminata.
Il pubblico che, come ho detto, ha ascoltato il primo quadro e l’intermezzo con aria
ingrugnata e arcigna, s’è andato convincendo a poco a poco e finalmente ha applaudito con
calore chiamando maestro e interpreti numerose volte al proscenio.
26
“Conchita” au Théâtre Royal de l’Opéra – Zandonai a, par sa technique fouillée, traduit la
sentimentalité nuancée de cette âme simple, et, partant, compliquée, «L’Italie», 25.2.1930 p.4, col. 2
Samedi soir, la première représentation de Conchita a réuni au Théâtre Royal de l’Opéra
un nombreux public d’élite, où figuraient les noms les plus retentissants du monde de la
politique, des arts et de la haute societé. En une loge de premier ordre avaient pris place
donna Rachele Mussolini, avec Edda et son fiancé, Galeazzo Ciano, et, au fond de la loge, on
s’entrevoyait la figure du Duce, qui a assisté à toute la représentation.
Cette œuvre de jeunesse de Zandonai a vivement intéressé le public par sa trame musicale
vraiment moderne, parfois hardie, toujours limpide, et constituant une analyse fouillée de
l’âme simple et, partant, compliquée de l’héroïne.
Les interprètes ont été à la hauteur de leur tâche. On a vivement admiré l’art souple et
pénétrant de Rosina Toni [sic] de Centovera et Santafranca (Conchita), l’ampleur et la
vigueur du ténor Francesco Battaglia, Mmes Gramegna, Bonetti, Martucci et Ferroni, de
Pacini et de Baronti.
L’opéra a été vivement applaudi.
[...]
27
M[ario] R[inaldi], “Conchita” di Zandonai al Teatro Reale dell’Opera, «La Tribuna»,
20.1.1940 - p. 3, col. 3-4
Conchita, è cosa nota, non è che l’adattamento scenico compiuto da Vaucaire e Zangarini
del conosciutissimo romanzo La femme et le pantin di Pierre Louys. Qualcuno ha anche detto
che il primo spunto del soggetto sorse dall’amore tra la Corticelli e Giacomo Casanova, ma
questo interessa poco. Interessa invece precisare che Conchita non è un soggetto teatrale e
tanto meno un soggetto per dramma musicale. C’è in esso troppa psicologia, ci sono troppe
passioni nascoste, c’è una volubilità senza risalto e a volte non giustificata. Lo stesso Louys
ricavò un dramma dalle sue ardenti pagine, ma non gli venne mai in mente di farlo musicare.
Comprendiamo benissimo come il Goya e lo Zarraga abbiano trovato in questa sorella minore
3.1.1/39
di Carmen un “soggetto” per i loro quadri; non ci spieghiamo invece come dalla pagine del
Pierre Louys sia venuto fuori un adattamento simile a quello del Vaucaire e dello Zangarini.
Puccini, uscendo allora dal pericoloso gioco della Butterfly e soggiogato dalla Fanciulla
americana, rifiutò il libretto: forse troppo evidente era il ricordo bizetiano. Zandonai invece,
ancora poco esperto del teatro, si lasciò trascinare dai neri e profondi occhi di Conchita che
però in palcoscenico appare niente più che una Fedra, una Elettra, una Turandot o una
Basiliola in sedicesimo.
Ma allora il futuro cantore di Francesca non aveva che 26 anni e questa, ci sembra, è
un’età importante ai fini di uno spassionato giudizio sull’opera d’arte. Infatti nei quattro brevi
atti di Conchita Riccardo Zandonai ha profuso tutto il suo ardore di romantico acceso. Si
perdona volentieri, a volte, la inspiegabile incostanza della protagonista per merito del caldo
fraseggio usato dal musicista il quale non ha dimenticato che Conchita «è un’infelice che
fabbrica a sé ed agli altri il dolore, per troppo desiderio di felicità». Nonostante la sua
perfidia, questa donna dinnanzi al pericolo, dinnanzi all’ira dell’uomo ingiustamente
abbandonato diventa vile: non affronta la morte come Carmen ma si piega all’amore che
“veramente” sente nella sua inspiegabile anima.
L’abilità strumentale di Riccardo Zandonai trova già in Conchita una chiara ragione
d’essere. Non potendo musicare i sentimenti psicologici dei personaggi il compositore si è
soffermato a infondere colore e riflessi lucentissimi alla massa orchestrale: naturalmente ha
preferito dar vita alle calde notti sivigliane, alle canzoni ed ai passi di danza. E tanto più è da
apprezzarsi questa particolare fatica compiuta dal “giovane” Zandonai in quanto egli non
volle avvicinarsi né al Bizet né ad Albeniz né al Debussy dell’Iberia, composizione questa
apparsa proprio in quegli anni. Così nell’azione drammatica, nell’intermezzo e nei preludi.
Questa superiorità orchestrale è stata visibilmente messa in evidenza dal maestro Tullio
Serafin il quale ha realizzato uno spettacolo vivace e colorito fino a quanto era possibile farlo.
È un pregio grande, per il maestro instancabile, di aver portato la massa orchestrale alla sua
più forte e convincente espressione senza farne soffrire minimamente il palcoscenico. Il quale
ieri era sorretto dall’arte veramente eccezionale di Gianna Pederzini, che ha fatto di Conchita
un personaggio “nuovo”, misto effettivamente di perfidia e di candore. Indagare questi due
sentimenti è vano per un soggetto come quello del Vaucaire, ma Gianna Pederzini li ha
compresi in ogni loro sfumatura e li ha vissuti con una verità impressionante. L’opera è scritta
per soprano, ma l’artista ha compensato grandemente il differente colore di qualche acuto con
un’azione da grande attrice. E, come già in Carmen nulla di esagerato o di men che
aristocratico: tutta vitalità intelligente, tutto fuoco spagnolo, tutta sfrontatezza “studiata”.
Successo personale e magnifico, come cantante, attrice e danzatrice.
Non possiamo usare lo stesso entusiasmo per Paolo Civil che se ha dato, è vero, tutto se
stesso non sempre ha convinto. Sembra che la sua voce soffra ad uscire di gola, specialmente
in una parte come quella di Mateo tanto ardimentosa quanto difficile e, diciamolo pure,
ridicola.
Ricordiamo a titolo d’onore anche i nomi di Maria Huder, Agnese Dubbini, Limberti,
Caravani, Meloni, Taddei, Russo e tutte le altre parti secondarie.
Bene cori e danze, lodevole la regìa di Govoni, decorose le scene di Pieretto Bianco: non
comprendiamo però perché si sia sostituita quella del secondo atto che in una precedente
edizione dell’opera ebbe tanto successo. Eccessivamente sontuosa la casa di Mateo e troppo
scuri generalmente gli interni del 1° e 3° atto.
All’opera ha arriso un ottimo successo: peccato che Zandonai non fosse presente! Avrebbe
particolarmente goduto a tanto caldo consenso.
28
3.1.1/40
ARIA D’ANDALUSIA
Aria d’Andalusia ce n’era molta, iersera, all’Opera. Molta sul palcoscenico e un po’ in
platea e nei palchi dove, in omaggio e per solidarietà con quella viperina sivigliana ch’è
Conchita, facevano furore rose, papaveri e orchidee tra chiome bionde e brune, scintillavano
lunghi orecchini e ricadevano in molli ampiezze gonne tagliate all’usanza “flamenca”.
Aria d’Andalusia, di Siviglia, del “barrio de Santa Cruz”, con notevoli riflessi di torre della
Giralda rispecchiantisi nelle acque opaline del Guadalquivir. Accordi di chitarre, ticchettare
di “castañetas”, lieve fragore di tacchi battuti in cadenza sulle tavole d’un “baile”. E,
naturalmente, sfoggio di “mantones”, di mantiglie e di altissimi pettini.
Ma perché, di grazia, i registi hanno voluto vestire i nobili spagnoli spasimanti d’amore per
Conchita con cilindri, velade, marsine e pantaloni attillati, a tutta simiglianza d’Alfredo e del
suo padre austero nella «Traviata», oppure dei quattro della «Bohème»? Violenti passioni
divampanti sotto il sole ardente d’Andalusia, nel profumo capzioso dei fior d’arancio,
nell’aria torbida dei “bailes” popolari e nella allucinante successione delle danze gitane quasi
restano... refrigerate in abiti di tanto riguardo e finiscono per creare una notevole non
aderenza tra musica, azione e [?] dell’opera.
Per questo, a noi sarebbe piaciuto assai di più vedere il focoso don Mateo in “sombrero
ancho” e “jaqueta corta”. Così come non rimarremo certo entusiasti di veder ballare il
saltarello da una prosperosa ciociara in costume alatrese e da un distinto signore in abito a
code.
Nessuno se n’abbia, peraltro, di questo che si dice. Aria d’Andalusia ce n’era quanta se ne
voleva e a renderla più profumata hanno contribuito assai cinquanta belle signore in tutta
vena di far concorrenza agli abiti assai belli indossati da Conchita. E infatti una ce n’era che –
salvo il colore della seta – sembrava essere la copia conforme della sivigliana, allorquando
nell’ultim’atto veste panni da gran dama. E un’altra ce n’era che, col suo abito d’amoerro in
tre gradazioni di viola, con le sue chiome corvine pettinate in morbidissime ondulazioni e un
paio d’orecchini andalusi al 100 per 100 veramente sembrava si fosse distaccata da una tela di
Zuloaga. E altre ancora ce n’erano che nel complesso o nei particolari rafforzavano il già
molto ardente clima di Conchita.
E allora: «olè, olè, olè». Il grido d’entusiasmo delle folle di Spagna.
Franz
29
L[uigi] C[olacicchi], “Conchita” di Zandonai al Teatro dell’Opera, «Il Popolo di Roma»,
19.1.1940 - p. 3, col. 3
Al giovane maestro Riccardo Zandonai, che da poco aveva superato i cinque lustri, il
celebre romanzo di Pierre Louys: La femme et le pantin, ossia Conchita, ridotta per le scene
da Vaucaire e Zangarini, non inspirò più di qualche colorito quadretto ambientale di maniera
e quattro duetti fra la protagonista e lo sfortunato suo amante Don Mateo, cui la psicologia
della sigaraia sivigliana doveva restare fino all’ultimo atto, come a tutti noi spettatori,
incomprensibile.
Il tira-e-molla di Conchita, il suo cedere e non cedere, i suoi scrupoli d’ordine finanziario
contrastanti con la disinvoltura del suo, sì, tenor di vita, tutto ciò l’opera in verità non ci
spiega; né il libretto né la musica. Dovevano passare ancora altri venticinque anni circa per
trovare La femme et le pantin, la sua forma “scenica” condensata, esasperante di forza
centripeta, nella torbida interpretazione di una dea dello schermo: Marlene Dietrich
protagonista del film Capriccio spagnuolo.
3.1.1/41
Sarebbe inutile fatica cercare nell’opera di Zandonai un briciolo di quella sensualità, di
quel calore, di quel carattere che si sprigionano da questo film grazie al racconto, al gioco
delle immagini o, come si dice, delle inquadrature e al commento musicale. Conchita, poiché
dramma non c’è, costituisce tutt’al più un tentativo di studio d’ambiente, un giovanile
abbandono dello Zandonai al fascino dell’esotico, un’esplorazione superficiale della Spagna e
delle manifatture di tabacchi e dei “cabarets” notturni.
Gentile esplorazione del resto, tentata con animo puro e innocente e nella quale, se non
altro, il musicista trentino riesce a scoprire le sue notevoli qualità di orchestratore ora
esuberante ora raffinato, sensibile a tutte le risorse timbriche che può offrire l’orchestra
moderna. Dei quattro atti dell’opera, infatti, i migliori risultano il primo e parte del secondo,
laddove per l’appunto il descrittivismo orchestrale, aiutato dal pittoresco della scena – la
“Fabbrica” di Siviglia e la taverna – , indaga curiosamente e talora saporosamente nel folto
della tradizione più o meno accreditata per ricreare dinnanzi al nostro occhio e al nostro
orecchio l’immagine di una Spagna vivace e pittoresca.
Conchita fu già rappresentata a Roma parecchi anni fa; e ieri sera vi è ricomparsa, con la
voce e la figura di Gianna Pederzini. La signora Pederzini, cantante ed attrice di grande
intelligenza e particolarmente adatta a queste interpretazioni di marcato carattere popolaresco
ha conferito alla protagonista un brillante rilievo, integrando il canto col gesto più
appropriato, la chiarissima dizione con un prestigioso gioco d’accenti, e riuscendo in
definitiva a convincerci sempre più che con donne come Conchita conviene tenersi a
rispettosa distanza.
Don Matteo, il suo amante rimbecillito (imbecille glielo dice proprio lei, Conchita, e, ci
pare, a ragione) era il tenore Paolo Civil, il quale, pur non disponendo di grandi mezzi, si è
elegantemente disimpegnato. Agnese Dubbini, nella breve parte della praticissima madre di
Conchita, ha assolto lodevolmente il suo compito. Abbastanza bene si sono comportati i
numerosi interpreti secondari, fra i quali ricordiamo il Taddei, il Conti, il Masini Sperti, il
Silveri, e il gruppo delle sigaraie, formato dalle signorine Huder, Limberti, Caravani,
Bernardi, Pini. In particolare Maria Huder ha avuto bei momenti di prestigio canoro.
Tullio Serafin ha condotto lo spettacolo con ritmo aggraziato e spigliato, ricavando dalla
partitura buon numero d’effetti orchestrali, mettendo nel massimo rilievo i pregi della
strumentazione e ponendo [in] evidenza, dove ha potuto, la nota lirica e sentimentale.
L’orchestra ha seguito il direttore con prontezza, e nel preludio dell’ultimo atto s’è fatto
notare il prof. Roveri nel solo del primo violino. La regia del Govoni e le scene di Pieretto
Bianco sono parse intonate e indovinate.
Le accoglienze del pubblico sono state abbastanza cordiali, e ciascun atto s’è chiuso con le
consuete chiamate agli artisti, al direttore e al regista, più numerose dopo il secondo atto.
30
a. righ., Al Reale dell’Opera, “Conchita” di R. Zandonai, «Il Tevere», 29.1.1940 - p. 3, col. 1
Gioacchino Rossini disse ch’egli era disposto a mettere in musica anche la lista del bucato.
Lo disse ma non lo fece. Ebbene, il libretto di «Conchita» sotto l’aspetto dell’interesse
teatrale può paragonarsi alla famosa lista del bucato. Sezione “panni sporchi”! Per quanta
buona volontà ci si metta, anche ad andare al teatro nello stato euforico in cui può trovarsi il
vincitore di una lotteria nazionale, non si riesce a prendere alcun interesse ai personaggi di
quest’opera tratta dal celebre romanzo di Pierre Louys «La Femme et le Pantin». Altro che “il
burattino”: qui son tutti burattini. A cominciare dalla protagonista, vero soggetto da clinica
neuropsichiatrica che interessa o almeno può interessare nelle pagine del libro ove il caso
patologico è indagato sottilmente ma non certo nell’adattamento scenico per opera lirica dove
3.1.1/42
forzatamente tutto è ridotto a pochi episodi inconvincenti e slegati. Quelle sacrosante
bastonate che l’arciscemo “Mateo” si decide a far piovere sulle spalle di “Conchita” solo
all’ultimo atto dovevan scendere subito, al secondo atto; ma allora addio opera, addio i
quattro atti d’obbligo, cui si arriva però con ripetizione di scene e situazioni completamente
scontate, con un ultimo atto poverissimo e che appena appena potrebbe assumere la
consistenza di un semplice quadro!!
Il maestro Zandonai si decise a musicare «Conchita» quando imperava il verismo. Era
giovanissimo, non ancora trentenne. Fu preso dal miraggio del verismo da clinica in cui
vegetava la morbosa protagonista e trovò negli ambienti spagnuoli ampia materia per
sfoggiare quel virtuosismo coloristico che anche oggi pone l’insigne musicista in primo piano
tra i compositori sinfonici. E, ripetiamo, non ancora trentenne elaborò una partitura che è una
autentica meraviglia di trovate ritmiche, armoniose e strumentali che, a distanza di decenni,
conserva intatta la freschezza inventiva e l’interesse sonoro. Nella produzione dell’epoca in
cui apparve, «Conchita» si impose dunque violentemente: il linguaggio orchestrale acceso,
preciso, aderente, tutto nervi nel ritmo tambureggiante come una prodigiosa “nacchera”,
rivelò il talento sinfonistico dell’operista trentino; lo impose all’ammirazione, lo “condannò”
al capolavoro. E il capolavoro venne: si chiamò «Francesca da Rimini» dove – mirabile
impresa – il musicista riuscì ad aggiunger poesia alla poesia ch’era, nientedimeno, la poesia
di Dante e di D’Annunzio!
In «Conchita» purtroppo l’impresa era disperata in partenza, data l’assoluta “impossibilità”
teatrale dell’adattamento scenico del romanzo del Louys.
Una brevissima analisi dell’opera ci porta a ricordare l’interesse soltanto coloristico del
primo quadro dell’atto primo; il primo intermezzo, l’assoluta bellezza dell’intero secondo atto
con l’ardita presentazione musicale dell’ignobile caffè e il duetto conclusivo in cui, forse per
l’unica volta, i due innamorati – se così posson chiamarsi quegli stranissimi tipi di “Conchita”
e “Mateo” – trovano accenti non privi di qualche umanità e, si può dire, in tutta la prima metà
del terzo atto, con quelle voci interne di magnifico effetto e quell’andare e venire delle rare
coppie così efficacemente commentato dall’orchestra. Episodio sinfonico condotto con mano
maestra che non sfigura neppure dinanzi alle maggiori pagine orchestrali ispirate all’ambiente
spagnuolo.
Per l’ultimo atto: N.N.; niente di specialissimo da segnalare: la bastonatura finale, ritardata
come abbiam detto di ben due atti, e la riconciliazione hanno trovato nell’inventiva melodica
dello Zandonai abbastanza buoni accenti, che però non rimangono nella memoria. Altra
ragione, quest’ultimo atto mancato che conclude senza concludere, di impoverimento
dell’opera complessivamente considerata, nel concorso cioè del fattore poetico e dell’apporto
musicale e che fa rimpiangere ancora una volta l’infecondo connubio tra l’inconsistenza della
materia teatrale e la generosa opulenza della tavolozza zandonaiana e il fervore inventivo del
nostro insigne musicista.
In un’opera di carattere decisamente sinfonico come «Conchita» il maestro Tullio Serafin
doveva trovare materia a iosa per affermare quella felice penetrazione della partitura e quella
potenza ricreatrice che fanno di lui il direttore così valoroso e ammirato. Difatti il maestro
Serafin ha dato vigore di ritmi e poeticità di colori ai numerosi episodi che ingemmano la
partitura, guidando mirabilmente il non semplice complesso del palcoscenico e dell’orchestra,
senza che questa soverchiasse mai quello.
Solo chi bene conosce il valore di cantante e di attrice di Gianna Pederzini attraverso le
brillanti prove offerte nelle più svariate interpretazioni può non meravigliarsi dei risultati di
prim’ordine cui è pervenuta l’insigne artista, raffigurando l’enigmatica “Conchita”. È stato un
successo personale riconosciuto dalla unanime ammirazione.
Al tenore Paolo Civil spettava l’ingrata parte di “Mateo” ch’egli ha sostenuto con viva
intelligenza scenica. Vocalmente non ha certo rinnovato la bella impresa della interpretazione
3.1.1/43
della «Nave» che resta tuttora la sua maggiore affermazione sulle scene del Teatro Reale;
comunque ci è piaciuto di più nelle emissioni di forza anziché nella mezza voce. Come
“Mateo” uomo, così il cantante: si è imposto ed è stato amato quando ha picchiato di santa
ragione!
Non possiamo ricordare tutti i nomi – circa venti – degli artisti chiamati a sostenere le parti
minori; ci limitiamo a ricordare per un particolare elogio quelli della Dubbini ch’era la
“Madre”, della Huder, del Masini-Sperti, di Mino Russo. Convenientemente apprezzata la
regìa del Govoni e la partecipazione del coro, istruito dal Conca; piuttosto fiacche le scene.
Comunque, tutto il complesso è apparso intonato alle artistiche tradizioni del teatro.
Il successo può giudicarsi buono: oltre venti chiamate e abbastanza calorose.
Allo spettacolo assisteva la Principessa Mafalda d’Assisi.
31
l[udovico] f[erdinando] l[unghi], “Conchita” di Zandonai al Reale, «Il Giornale d’Italia»,
20.1.1940 - p. 3, col. 2
Mi dicono che Zandonai non prediliga questa sua «Conchita». Ma sulla predilezione degli
artisti verso le loro creature occorre fare le più ampie riserve. E in ogni caso «Conchita» non
giustifica questa specie di disinteresse da parte del suo autore. È un’opera che alla teatralità,
alla sapienza strumentale, alla vivacità del colore unisce una ricchezza musicale non comune
ai tempi nostri.
Quando si crea, dopo quell’originale secondo, un atto quale il terzo che più che un atto è
un quadro essenzialmente musicale, una pagina come quella che precede l’atto quarto, e tutto
lo stesso atto, non c’è dubbio che ci si trova di fronte ad un musicista che non soltanto sente il
teatro ma ha molte cose da dire ed idee da esprimere. In più la musica ridà alla vicenda
quell’accesa e quasi malata passionalità che s’era come perduta nel trapasso da romanzo a
libretto.
Chi ha letto «La femme et le pantin» di Pierre Louys non può non sentire quanto il
carattere sadico della protagonista si sia diluito nella riduzione a libretto, fino a diventare
soltanto capriccioso e dunque inadeguato a giustificare un gioco così crudele con la passione
di “Matteo”. Questo svisamento di carattere è, come s’è detto, in gran parte corretto
dall’acceso respiro di una musica che non s’è appagata delle apparenze ma ha cercato una
essenza espressiva nella tormentata e torbida sostanza di un sentimento che per esplodere
pieno e durevole sotto la specie di un amore ardente ma castigato dall’umiltà di un’assoluta
dedizione è dovuto passare attraverso la brutalità manesca dell’esasperato amante. Accenti,
contrasti, violenze, abbandoni che lo Zandonai ha, a mio parere, resi musicalmente con
ampiezza di impeti e con largo respiro musicale. Forse il quadro talora risente della voluta
costruzione coloristica più che ambientale: come ad esempio nel primo, il meno felicemente
dotato. Ma si rifà poi nel terzo, come già notato, dove accade qualche cosa di più vivo e vero,
sia pure sullo sfondo di una episodica coloristica.
«Conchita» dunque ha narrato ieri sera la sua allucinata storia sulle scene del Reale,
incarnata da Gianna Pederzini e tenuta con mano solida da Tullio Serafin.
Il maestro Serafin ha una sua particolare e preziosa convinzione nel dirigere le opere dei
nostri contemporanei. Vi porta con la fede e la dedizione tutto il contributo della sua sapienza
di concertatore e la severa disciplina della guida sicura del palcoscenico e dell’orchestra.
Fede, dedizione ed autorità che si risolvono in un insieme armonico, nutrito ed equilibrato.
Tale è stata l’edizione di “Conchita” e di cui Zandonai deve esser grato a Tullio Serafin.
Gianna Pederzini, come ho detto, è stata la protagonista. Di fronte alle interpretazioni di
questa eletta artista si ha la netta sensazione della compiutezza. Raramente si trovano riunite
3.1.1/44
più felicemente le varie doti che contrassegnano la vera arte. Attrice, danzatrice, cantante,
concorrono con uguale calore e fascino a creare il personaggio: di una mirabile evidenza:
perfetto. E tanto più perfetto in quanto la Pederzini è riuscita con rara sensibilità ed intuito
artistico ad evitare di ricordare, sia pure lontanamente, “Carmen”. Altra creatura: altra
interpretazione.
Paolo Civil è stato “Matteo”. Di questo coscienzioso interprete sono note talune
significative prove. È un intelligente attore ed un cantante non privo di qualità. Non mi pare
tuttavia che in quest’opera abbia trovato quella giustezza di emissione che rende pienamente
espressiva, sicura e gradita la voce.
Palcoscenico straricco di personaggi e tutti bene caratterizzati. Maria Huder è stata una
“Dolores” di bella ed educata voce e di vivace intelligenza scenica. Brave la Limberti, la
Caravani, la Dubbini, la Pini, la Saghin, la Meloni, la Bernardi e la Daidone; come pure
veramente bravi il Masini Sperti, il Russo, il Silveri e Pacini, Niccoli, Taddei, Conti, Bianchi,
Giusti e Galizia. I cori diretti dal maestro Conca e la vivace regìa di Govoni hanno contribuito
al successo, che è stato cordiale e caloroso e che si è concretato in numerose chiamate dopo
ogni atto al maestro Serafin e agli interpreti.
32
m[atteo] i[ncagliati], “Conchita” di Zandonai al Teatro Reale dell’Opera, «Il Messaggero»,
19.1.1940 - p. 3, col. 6
Se volgiamo uno sguardo alle donne che furono le eroine del melodramma italiano, noi
non vediamo che creature appassionate, anime romantiche, pronte all’abbandono. Questa
strana Conchita che ai suoi tempi andò a cacciarsi tra le oneste file di tante gentildonne
onorate, riverite, acclamate, scompigliandole arditamente, per la sua tipica anti-tradizionalità
dovette apparire come il diavolo in gonnella. Sta di fatto che Riccardo Zandonai, appena
venticinquenne, concependo la partitura di Conchita, segnava una nuova data nella storia
dell’opera lirica italiana; e la segnava per due ragioni: anzitutto perché il sinfonismo per la
prima volta faceva il suo ingresso nel nostro teatro (e per sinfonismo intendiamo qui
specificatamente dire di quel mondo strumentale e ritmico fatto di folclore, atmosfera,
coloritura tipico nei primi vent’anni di questo secolo), e poi perché un nuovo clima giovanile
veniva a rinnovare l’aria stantia del vecchio melodramma. Questa non è soltanto cronaca: è
anche storia. Quando quel genialissimo editore che fu Tito Ricordi suggerì al giovanissimo
Zandonai, che tanto prediligeva a ragion veduta, il libretto di Conchita, egli non aveva certo
che uno scopo nella mente: quello di offrire a un musicista di vibrante giovinezza e di talento
originale una materia senza compromessi con il passato. Il libretto di Conchita oggi, per
ovvie ragioni, è cosa superata, ma la musica resta, e resta anche il fattore storico di
straordinaria importanza.
Se si pensa che dalla fantasia di un giovane di venticinque anni è scaturita la partitura di
Conchita si rimane compresi di alta ammirazione: allora, trent’anni fa, Strauss e Debussy
cominciavano appena ad affacciarsi con le loro musiche nelle nostre sale concertistiche, ed
erano battaglie da non dirsi. Zandonai ha fatto il suo cammino da sé: quello che lui ha
espresso musicalmente era un mondo ideale profondamente radicato nel suo spirito. Ce lo
dice l’armonia d’inconfondibile sapore, la caratteristica linea melodica, il colorito
istrumentale. Ce lo dice infine quella somma di elementi sonori per cui ascoltando poche
battute di musica si può affermare senza esitazione: questo è Zandonai. Di pagine
squisitamente degne del suo autore, Conchita è piena: ecco l’intero secondo atto, blocco fuso,
di una dinamica inebriante; ecco la scena delle sigaraie, la notte sivigliana, satura di
atmosfere preziose; i due intermezzi del primo e quarto atto. Fascino musicale che deve
3.1.1/45
vincere nello spettatore e far dimenticare talune angolosità del libretto e talune sue
compiacenti concessioni alla moda verista del tempo.
A rendere viva teatralmente quest’opera di Zandonai occorrono due fattori indispensabili:
una protagonista dotata oltre che di qualità canore notevoli anche di un gioco scenico ricco di
atteggiamenti plastici; e un direttore d’orchestra capace di dominare le complesse difficoltà
della partitura. La maestria e il vivido ingegno di Tullio Serafin hanno dato un’altra
significativa prova della loro facoltà comunicativa: l’orchestra ha quindi suonato con impeto
e precisione, scolpendo gl’incisi ritmici e creando morbide atmosfere intorno all’armonica
musa zandonaiana. Gianna Pederzini, artista di multiformi possibilità e versatile intuito, ha
impersonato la figura della protagonista con sottile penetrazione, animando la scena e
cantando con calda espressività [e] dizione perfetta. Accanto a lei il tenore Paolo Civil, nelle
piuttosto ingrate vesti di Don Meteo [sic], si è confermato cantante di mezzi eccellenti,
sensibile e duttile artista. Ottima tutta l’infinita schiera dei personaggi minori che ha
contribuito a dare armonica sintesi allo spettacolo.
Le scene non sono apparse questa volta in tutto degne dell’ammirevole tradizione del
Teatro Reale; la regìa del Govoni, l’allestimento, le luci hanno nondimeno neutralizzato
efficacemente le manchevolezze nell’estro pittorico. Una lode anche al briosissimo coro. Lo
spettacolo ha riportato caldo successo che si è concretato in molte chiamate, ad ogni fin
d’atto, al direttore e agli interpreti.
33
b., Conchita e la Pederzini, «Il Piccolo», 19.1.1940 - p. 3, col. 6-7 (con foto di Gianna
Pederzini)
Conchita – ovverosia, all’italiana, “Concettina” – era Gianna Pederzini. Basta questo fatto
per capire che la giovanile opera di Riccardo Zandonai (anno 1911) fu data iersera all’Opera
con tutta la squisitezza immaginabile.
Impetuosa e tenera, sensuale e mistica, fatta per dannare un galantuomo eppure degna di
convolare a giuste nozze con il medesimo, così apparve Gianna: tal quale la pensò Riccardo
Zandonai cambiando in parecchi punti fondamentali i connotati alla satanica protagonista del
romanzo di Pietro Louys.
Abituato a vedere la Pederzini sotto le spoglie di Cherubino e di Hänsel, la turbolenta
femminilità di Conchita sorprese gradevolmente il pubblico, tanto più che la parte le si
prestava a fare sfoggio dei suoi mezzi vocali. Il prospero successo di iersera per una buona
metà è opera sua.
Dopo il titanico Guglielmo Tell il maestro Serafin si può credere abbia scelto «Conchita»
come una battuta riposante, come l’«Hänsel und Gretel» fu la sosta dopo Falstaff, i Maestri
Cantori e Monte Ivnòr. Con questo non vogliam dire che i quadri d’impressione del
compositore trentino abbiano una partitura facile. Per convincersi del contrario basta l’atto
del “cafè-baile”. Le note della “seguidilla” con il loro ritmo insistente servono di fondo al
complicato canto. È un’ardita trovata da grande maestro e di estrema difficoltà; e tuttavia la
bacchetta del Serafin riesce a dar rilievo, con una chiarezza e una trasparenza mirabile, a ogni
particolare. In questo secondo atto, che musicalmente è il maggiore, già si delinea nitida una
delle principali facoltà del maestro trentino: la pittura dei grandi quadri, che nelle opere
posteriori, specie quelle che rappresentano la maturità, avrà pieno sviluppo.
Non è il caso di riscoprire Conchita, che da tempo è stata criticamente esaminata, ma è
necessario per comprenderla tener conto di quelle singolarità che qui vediamo in embrione e
che prenderanno ampio sviluppo nelle opere successive.
3.1.1/46
Quanto all’esecuzione di iersera, va riconosciuto il valore della voce e la sobrietà del gesto
del tenore. Paolo Civil ha saputo contenere nei giusti limiti il carattere di don Matteo, che
senza questi freni finirebbe in una grottesca caricatura.
Tolti i due personaggi principali, l’opera risulta un grande coro, nel quale a volta a volta
ricevono lampi di luce una ventina di personaggi. Ognuno di questi fu assai bene espresso,
come n’è prova l’elenco degli artisti: Maria Huder, Edmea Limberti, Alice Caravani, Agnese
Dubbini, Maria Meloni, Amalia Pini, Claudia Saghin, Luciana Bernardi. E tra gli uomini
Giuseppe Taddei, Gino Conti, Mino Russo, Masini Sparti [sic], Vasco Nicolai, Adolfo Pacini,
Paolo Silveri, Mario Bianchi, Blando Giusti, Francesco Galizia.
Lietissima fu l’accoglienza del pubblico; ad ogni atto più volte furono chiamati il maestro
Serafin, Gianna Pederzini e Paolo Civil; ottimi i cori di Conca e la regìa di Manlio Govoni.
34
d[ante] a[lderighi], “Conchita” di Zandonai, «Il Lavoro fascista», 20.1.1940 - p. 3, col. 5
Una delle prime opere di Riccardo Zandonai, la Conchita, è riapparsa ieri sera sulle scene
del Teatro Reale, accolta dal bel pubblico delle “prime romane” da buoni applausi
particolarmente calorosi dopo l’atto secondo e l’atto terzo. Anche questa volta il pubblico è
stato secondo noi giudice intelligente. In questi due atti c’è infatti il meglio di tutta l’opera,
sia come libretto sia come musica. L’atmosfera equivoca del ritrovo notturno del secondo atto
è davvero presentata dal musicista con mano capace e pronta, come pure la notte sivigliana
del terzo trova il giovine Zandonai sveglio quanto mai a coglierne i richiami suggestivi, i
colori in fosforescenza, le forme vaghe dal brivido serpeggiante nella penombra chiazzata
dalle luci stellari.
Gianna Pederzini ha interpretato la parte estrosa di Conchita come sa far lei, cioè con
grande padronanza scenica e notevoli mezzi vocali. Paolo Civil ha reso il debole personaggio
di Mateo con abilità intelligente di cantante e di attore. Agnese Dubbini è stata una madre di
Conchita rassegnata e paziente, Masini Sperti come voce interna s’è segnalato per la
chiarezza del timbro. Gli infiniti altri esecutori di Conchita lavorano tanto “a spizzico” da non
poterne indicare in coscienza i pregi o i difetti; da ricordare tuttavia Maria Huder, Edmea
Limberti, Mino Russo.
Tullio Serafin ha concertato Conchita con vera maestria e nettezza d’idee costruttive. Il
coro, nel primo atto, c’è sembrato non abbastanza realizzato nella registrazione dei volumi
sonori; le vecchie scene di Pieretto Bianco accettabili nei primi quadri (quelle della notte
sivigliana è forse la migliore) ma pietose nell’ultimo quadro, dallo sfondo d’un giardino da
teatrino di secondo ordine.
La regia di Govoni è stata ben mossa, con trovate che rivelano in Govoni l’esperto uomo di
teatro.
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Orazio Mancini, Conchita di R. Zandonai, «Rivista nazionale di musica» XXI/379, gen.
1940, p. 4373
Un’opera mancata per la inconsistenza teatrale del libretto di Vaucaire e Zingarini [sic],
libretto che offende la gentilezza del costume e la nostra dignità di uomini. Anche la musica
non è tale da rendere vitale quest’opera, ma è soltanto sufficiente oggi a darci, in uno sguardo
retrospettivo, le notevoli qualità operistiche dell’autore, che si affermarono decisamente e
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compiutamente nella «Francesca da Rimini». Gianna Pederzini ha ritratto la protagonista con
appropriatezza di gesti, facendosi molto ammirare ed applaudire.
36
Brillante reprise de “Conchita” de Zandonai au Royal, «L’Italie», 20.1.1940 - p. 3, col. 3-4
Le maestro Riccardo Zandonai a fait vingt-cinq lorsqu’il composa «Conchita».
Mais loin d’être un œuvre juvénil, «Conchita» est un opéra plein de jeunesse qui marque,
d’ailleurs, une date dans l’histoire du théâtre lyrique italien: celle de l’entrée du
symphonisme. Le vieux mélodrame se rajeunit. Ce fut Tito Ricordi qui conseilla à Zandonai
de mettre en musique le livret de «Conchita». Son but [a] été d’offrir de la matière neuve à un
compositeur vibrant de jeunesse.
Aujourd’hui le livret de «Conchita» est dépassé, mais sa musique reste. Zandonai y a
exprimé un monde idéal avec un style harmonieux et un coloris instrumental très raffiné.
«Conchita» renferme de très belles pages, d’un dynamisme entraînant, d’une sonorité
exquise. Le deuxième acte tout entier est enivrant.
Naturellement il faut à «Conchita» une protagoniste hors de pair et un chef d’orchestre
passionné.
«Conchita» a eu les deux, hier soir.
Le maestro Tullio Serafin a dirigé l’orchestre avec cette ardeur impeccable qui suscite
l’admiration et a créé autour de la partition une atmosphère nuancée d’une vive délicatesse.
Dans le rôle de la protagoniste Gianna Pederzini a donné la mesure de la beauté de son
chant, de son talent et de son jeu animé et vibrant.
Excellent le ténor Paolo Civil, et parfaits, à touts points de vue, les autres interprètes:
Huder, Limberti, Garavani, Dubbini, Meloni, Pini, Saghin, Bernardi, Daidone, Taddei, Conti,
Russo, Masini Sperti, Niccolai, Pacini, Silveri, Bianchi, Galizia et Gusti [sic].
On a admiré le mouvement scénique réglé par M. Govoni et les danses. Succès très
chaleureux, les rappels ont été nombreux.
[...]
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3.1.1. Conchita - Biblioteca civica di Rovereto