ATTAC ITALIA
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LOTTA PER IL CONTROLLO DELLE RISORSE.
UNA PRIMA ANALISI DELLE CAUSE DELLA GUERRA IN CORSO
di Gennaro Scala di ATTAC Bologna - [email protected]
(data di pubblicazione 19 novembre 2001)
L’immenso apparato produttivo integrato a livello mondiale è una macchina che per funzionare ha
bisogno di energia. Nel 1999 l’energia nel mondo è stata fornita da petrolio (35%), carbone (23.5), gas
(20.7%), combustibile rinnovabile e scarti (11.1%), nucleare (6,8%), energia idroelettrica (2.3%),
energia geotermica, solare, eolica, termica ecc. (0,5%). Come mostra il grafico, dal 1973 al 1999 il
petrolio pur non perdendo il suo ruolo centrale, ha visto una netta discesa, in favore del gas e dell’energia
nucleare. (i dati e il grafico provengono da IEA, International Energy Agency, Key World Energy Statistics,
edition 2001, www.iea.org)
Il controllo delle regioni in cui sono localizzate le fonti di energia e il controllo del percorso principale del
loro trasporto sono decisivi per il dominio globale. Michael T. Klare ha definito “imperialismo energetico”
(The Nation, July 23/30) la politica prospettata in un recente (maggio 2001) documento del governo
americano, “Reliable, Affordable, and Environmentally Sound Energy for America’ Future. Report of the
National Energy Policy Development Group” (membri: Dick Cheney, Colin L. Powell, Paul O’ Neill, Gale
Norton e altri) , in riferimento soprattutto al suo capitolo conclusivo, nel quale viene delineata una
strategia per il controllo delle risorse energetiche. http://www.whitehouse.gov/energy/National-EnergyPolicy.pdf
Il documento sostiene che il petrolio delle regioni del Golfo Persico, dove tuttora sono si trovano un
quarto delle riserve mondiali di petrolio, continua ad essere centrale, ma al tempo stesso sottolinea
l’importanza delle regione del mar Caspio. “Il Golfo rimarrà il focus primario della politica energitica
internazionale degli Stati Uniti, ma il nostro impegno dovrà essere globale (will be global), focalizzando le
regioni emergenti e quelle esistenti che avranno un maggiore impatto nella bilancia energetica globale”
L’idea che questa non sia tanto una guerra contro il terrorismo quanto una guerra per il controllo delle
risorse si sta facendo sempre più strada ultimamente. Tuttavia è bene vedere precisamente in che
termini, cominciando con una descrizione delle risorse della regione del mar Caspio, in base alle
informazioni fornite dall’Energy Information Administration. Official Energy Statistics from the U.S.
Government (EIA, http://www.eia.doe.gov):
“La prospettiva di riserve potenzialmente enormi di idrocarburi è parte del fascino delle regioni del Mar
Caspio (incluso Azerbaijan, Kazakhstan, Turkmenistan, Uzbekistan, e le regioni dell’Iran e della Russia che
sono vicine al Mar Caspio). Oltre ai 18-34 miliardi di barili attualmente dimostrati, le riserve possibili di
petrolio della regione possono fornire altri 235 miliardi di barili. Questo è approssimativamente
equivalente ad un quarto ad un quarto delle risorse totali provate (tuttavia, il Medio Oriente ha anche le
proprie vaste possibili riserve). Le risorse di gas possibili sono ampie quanto le risorse di gas provate, e
potrebbero fornire 328.000 miliardi di piedi cubici.”
Le riserve di petrolio sommate a quelle di gas fanno delle regione del Mar Caspio il secondo deposito
energetico mondiale dopo quello del Golfo Persico, ma vi è un considerevole problema relativo al
trasporto di queste risorse dalle “landlocked” regioni del Mar Caspio. La cartina mostra le tre vie principali
che dovrebbero percorrere il trasporto queste risorse. In aggiunta vi è anche l’Iran, tra l’altro la soluzione
più semplice, che avrebbe però la stessa destinazione finale della terza: il sud-est asiatico, ma questo
percorso è escluso a causa del conflitto economico-politico con l’Iran a cui gli Usa hanno imposto delle
sanzioni ormai ventennali. Riguardo alla prima via, quella occidentale verso l’Europa, secondo l’EIA “ci
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sono alcune questioni riguardo al fatto che l’Europa sia la giusta destinazione per il petrolio e il gas del
Mar Caspio. La domanda di petrolio nei prossimi è prevista in crescita di poco meno di un milione di barili
al giorno. L’esportazione di petrolio a est, d’altro canto, potrebbe servire i mercati asiatici, dove la
domanda di petrolio è prevista in crescita di 10 milioni di barili al giorno nei prossimi 10-15 anni. Per
alimentare tale domanda asiatica, però, potrebbe essere necessario costruire le più lunghe pipeline del
mondo. Considerazioni geografiche potrebbero obbligare queste pipelines a dirigersi a nord delle
intransitabili montagne del Kirgizistan e del Tagikistan attraverso le vaste, desolate steppe kazache, con
ciò aggiungendo ancora più estensione (e costo) a qualsiasi pipeline diretta ad est.” (EIA) Un altro fattore
che rende questo percorso poco gradito è il fatto che esso resterebbe comunque o sarebbe
potenzialmente sotto l’influenza della Russia.
Ma se non ad ovest e non ad est, allora verso Sud? Escluso l’Iran, questa via dovrebbe passare
necessariamente per l’Afghanistan attraverso il quale raggiungere i porti pakistani sul mare Arabico, da
dove petrolio e gas dovrebbero raggiungere via tanker il sud-est asiatico. Ma su questo percorso ci sono
some little problems.
“La guerra civile afghana ha impedito ai progetti in corso di procedere. Mentre tutte le principali fazioni
afghane sono d’accordo in linea di principio alla costruzione delle pipeline, le pipelines non hanno
probabilità di attrarre i necessari finanziamenti senza una stabilizzazione pacifica e un riconoscimento
internazionale del governo afghano. Sebbene i talebani controllano il 90% del territorio afghano, solo
Emirati Arabi Uniti, Pakistan e Arabia Saudita hanno riconosciuto ufficialmente il governo afghano. In
seguito ai bombardamenti statunitensi delle roccaforti afghane nei raid del 20 agosto del 1998, Unolocal
ha annunciato di aver sospeso i lavori della pipeline per il gas, e nel Dicembre 1998 si è ritirata dal
consorzio Centgas.
Nell’aprile 1999, Pakistan, Turkmenistan and Afghanistan si sono accordati per riattivare il progetto
Centgas, e per chiedere al consorzio Centgas, ora guidato dalla Delta Oil dell’Arabia Saudita, di
procedere. Sebbene i combattimenti si sono allontanati dagli itinerari potenziali della pipeline, il rifiuto dei
talebani di consegnare Osama bin Laden, così come la continuazione della guerra civile, ha ridotto la
probabilità di attrarre finanziamenti internazionali per il progetto Centgas. Gli Stati Uniti hanno imposto
delle sanzioni che vietano il commercio e gli investimenti americani nel 90% dell’Afghanistan sotto il
controllo dei talebani, e nel 14 novembre 1999, anche le Nazioni Unite hanno imposto delle sanzioni
contro l’Afghanistan nel tentativo di fare pressione sui Talebani perché consegnassero bin Laden.” (EIA,
http://www.eia.doe.gov/cabs/caspconf.html)
Ma cosa c’entra con tutto questo Osama bin Laden, dichiaratamente il primo bersaglio di questa guerra?
Cominciamo con l’esaminare come mai si trova in Afghanistan, ammesso che non abbia cambiato aria da
un pezzo. Il suo rapporto con i talebani nasce al tempo della guerra contro l’URSS. “Il regno saudita
forniva un finanziamento pari a quello americano, cui si aggiungevano i milioni di dollari provenienti dai
patrimoni arabi privati. Ed in effetti, la combinazione di fondi sauditi pubblici e privati fu decisiva per il
finanziamento della guerra. I fondi ufficiali del governo saudita diminuirono gradatamente verso la fine
della guerra e furono sostituiti da quelli privati provenienti da fanatici multimiliardari come Usama bin
Laden, ansioso di assistere al trionfo mondiale dell’islamismo. I finanziamenti statali furono ben presto
superati e quasi dimenticati. […] La privatizzazione strisciante della jihad – perché di questo si è trattato:
i responsabili di gran parte del terrorismo politico postbellico in Occidente non sono tanto i governi
criminali quanti i magnati privati – fu il frutto dell’alleanza tra Arabia Saudita e Stati Uniti” (John C.
Cooley, Una guerra empia, ed. it. p. 182-83). Bin Laden è stato uno dei principali organizzatori e
collettore di fondi della jihad afghana, da ciò derivano i suoi rapporti all’epoca della guerra fra
Afghanistan e URSS con la CIA.
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Bin Laden è il rampollo di una famiglia che possiede uno dei principali gruppi economici dell’Arabia
Saudita. La sua ideologia islamista sembra molto distante dal mondo occidentale, tuttavia una serie di
articoli hanno ricordato i legami della sua famiglia con quella del suo attuale “nemico” George Bush. Bin
Laden è un membro dell’élite borghese mondiale. Ha imbracciato mitra e Corano, ma sotto la tunica
spunta il sofisticato orologio da manager. Per molti aspetti infatti questo è un conflitto tra l’élites borghesi
mondializzate. Tuttavia in termini strettamente economici l’impero finanziaro della famiglia di Osama bin
laden non è fondato sul petrolio ma sulle costruzioni. È meglio però evitare l’appiattimento sulle questioni
economiche che pur restano decisive: la funzione che bin Laden ha voluto ritagliarsi in questi anni è stata
soprattutto di tipo politico-“militare”, attraverso l’organizzazione del terrorismo e questa funzione va
inquadrata nel contesto dell’Arabia Saudita e questa nel contesto del mondo arabo.
Dopo aver contribuito a sconfiggere i sovietici, si convinse che il principale nemico erano gli USA e che la
monarchia saudita in quanto aveva concesso le base agli americani per l’attacco all’Iraq andava
rovesciata. Nonostante che per queste dichiarazioni gli fu ritirato il passaporto saudita, i suoi legami con i
vertici sauditi non sono venuti meno. In primo luogo con uno dei più potenti personaggi del regime il
principe Turki al-Faisal, capo dei servizi segreti. Il rapporto fra i due, entrambi relativamente giovani,
nasce ai tempi dell’università: fu Turki a favorire la sua ascesa come uno dei principali organizzatori della
jihad in Afghanistan.
Anche a causa della logica dei media, sempre alla ricerca del personaggio su cui puntare i riflettori, si è
prestata troppa attenzione a bin Laden. Il ruolo di figure come quella di Turki al-Faisal è altrettanto
importante. Innanzitutto il suo sostegno al regime dei talebani non è stato secondario. Secondo il
resoconto di Ahmed Rashid, cronista pakistano della Far Estern Economic Review, considerato, per la sua
ventennale esperienza, uno dei maggiori conoscitori della questione, “nel luglio 1998 il principe Turki fece
visita a Kandahar e poche settimane dopo arrivarono 400 furgoni arrivarono a Kandahar per i talebani
che ancora avevano la targa di Dubai. I sauditi diedero anche denaro contante per il libretto assegni dei
talebani per la conquista del nord nell’autunno. Fino al bombardamento in Africa e a dispetto delle
pressioni statunitensi per la fine del sostegno ai talebani, i sauditi continuarono a finanziare i talebani ed
erano silenti sulla necessità di estradare bin Laden.” (Ahmed Rashid, Taliban, Militant Islam, Oil and
Fundamentalism in Central Asia)
Turki al-Faisal è stato direttamente coinvolto nella lotta per la costruzione della pipeline che doveva
attraversare l’Afghanistan. Dopo la conquista di Kabul, quando il regime talebano cominciava a dare una
parvenza di stabilizzazione, sono stati in lotta per la costruzione di questa pipeline due gruppi principali:
uno denominato CENTGAS formato da Unocal Corporation (U.S.A, 46.5 %), Delta Oil Company Limited
(Saudi Arabia, 15 %), The Government of Turkmenistan (7 %), Indonesia Petroleum, LTD. (INPEX)
(Japan, 6.5%), ITOCHU The Crescent Group (Pakistan, 3.5 %), Oil Exploration Co., Ltd. (CIECO) (Japan,
6.5 %), Hyundai Engineering & Construction Co., Ltd. (Korea), 5 %); l’altro gruppo formato da una
partnership 50 a 50 fra BRIDAS, una compagnia argentina, e NINGHARCO, la quale a sua volta “è vicina
al principe Turki al-Faisal”. “Ogni parte ha il supporto di potenti alleati politici. La proposta della Unocal è
favorita dal Turkmenistan e dal Pakistan, mentra quella della Bridas è appoggiata dai Talebani”, e, non
c’è bisogno di dirlo, da bin Laden. “Così la competizione tra Unocal e Bridas riflette anche la competizione
all’interno della famiglia reale saudita (Rashid, Taliban…, 167-68). La Delta oil è considerata vicina allo
schieramento che fa capo nominalmente a re Fahd. Di questi due schieramenti uno è più “conservatore”,
preoccupato di non contrariare il protettore americano, l’altro più “rivoluzionario” diretto a fare una
politica del petrolio più aggressiva, anche a costo di andare contro agli Stati Uniti. Quale può essere stata
la strategia di questo secondo gruppo riguardo alle risorse del Mar Caspio? Gli obiettivi, fra loro non
alternativi, possono essere stati due: o far cadere il trasporto di queste risorse sotto un controllo più
diretto di gruppi legati all’Arabia Saudita o mettere in atto delle azioni di disturbo che ostacolassero e
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facessero fallire questo progetto. Alla fine la gara fu vinta nel 1998 da CENTGAS, ma, come informa
anche l’EIA, Unocal subito dopo si ritirò dal progetto in seguito agli attentati attribuiti a bin Laden delle
ambasciate statunitensi in Tanzania e in Kenia e alle successive ritorsioni americane attraverso il
bombardamento in Afghanistan di alcuni località considerate sedi di addestramento di al Qaeda.
I legami di bin Laden con il potere saudita non si limitano a Turki al-Faisal. “La verità riguardo al silenzio
saudita era ancora più complicata. I sauditi preferivano lasciare bin Laden solo in Afghanistan perché il
suo arresto e processo da parte degli americani potrebbe rivelare le profonde relazioni che bin Laden
continua ad avere con membri comprensivi della Famiglia Reale. I sauditi vogliono bin Laden morto o
prigioniero dei talebani – non lo vogliono catturato dagli americani.” (Ahmed Rashid, Taliban …)
Klare sostiene che “il vero centro del conflitto è l’Arabia Saudita, non l’Afghanistan”. Il suo saggio
Geopolitic of War (The Nation, 5/11/01) è molto utile per un inquadramento storico e “geopolitico”, ma è
piuttosto singolare che Klare, che pur conosce la questione delle pipelines (esposta sinteticamente e con
precisione nel suo libro Resource Wars) non entri nei particolari riguardo alla funzione che le risorse del
Mar Caspio possono aver svolto nel suscitare il conflitto più o meno latente con l’Arabia Saudita, mentre
invece centra l’attenzione sul progetto di bin Laden di conquistare il potere il Arabia Saudita.
Che le cose non andassero come sempre con il vecchio alleato saudita è apparso chiaro a tutti con la
vicenda del rifiuto saudita di concedere le basi per gli attacchi aerei all’Afghanistan. I fatti sono stati
sintetizzati in un articolo del U.S news & world report (9/28/01), uno dei settimanali a più ampia tiratura
degli stati uniti. L’articolo dal titolo “Relazioni pericolose. Quanto il nostro amico saudita ci sta aiutando?”
rileva la contraddizione fra la successione la notizia riportate il 22/7 dal Washinghton Post secondo cui i
sauditi avevano respinto la richiesta statunitense della Prince Sultan Air Base (una grande base
statunitense costruita recentemente alle porte di Riyadh) e quella riportata due giorni dopo dallo stesso
giornale secondo cui il Pentagono aveva pieno accesso alla base di Riyadh. Secondo il settimanale questa
“apparente contraddizione” denota “le difficoltose e ambigue relazioni fra gli Stati Uniti e l’Arabia
Saudita”. Fra parentesi: il settimanale ha scoperto anche che l’amico saudita “è profondamente
antidemocratico e il maggior propagatore del Wahabbismo, la forma più estrema di fondamentalismo
islamico”. È interessante riportare come, secondo il settimanale, il ministro degli esteri avrebbe risolto il
problema. “È possibile che Powell ha evitato la richiesta di usare la base fino al 23 settembre e che l’ha
chiesta immediatamente dopo – o che gli Stati Uniti hanno deciso di andare avanti e di usarla senza
permesso. Dopotutto, è la nostra base. Ma sembra del tutto probabile che i leader sauditi non vogliono
far apparire di cooperare con gli Stati Uniti anche mentre lo stanno facendo”.
Sebbene la questione del rapporto con l’Arabia Saudita non abbia fatto tanto clamore nei media
statunitensi, essa è diventata apertamente un problema da essere affrontato, almeno per qualche
analista politico americano. In un articolo del Washington Post (22/10/01) di Simon Henderson, esperto
del “The Washington Institute for Near East Policy”, dal significativo titolo “Arabia Saudita: amico o
nemico?” si scrive che “il coinvolgimento del terrorista bin Laden, nato in Arabia Saudita, negli eventi
dell’11 settembre rende le dimissioni di Turki un problema che deve essere risolto. La versione che
attualmente va per la maggiore è probabilmente un racconto barocco, che combina le tensioni dinastiche
all’interno di una famiglia reale forte di 30.000 membri, le relazioni saudite con i talebani, le relazioni
saudite con gli USA, e l’implicazione che i sauditi conoscevano o sospettavano che bin Laden avrebbe
potuto eseguire l’oltraggio del dirottamento aereo da qualche parte nel mondo a settembre.” “La data
(timing, vuol dire anche scelta del momento opportuno, tempestività, tempismo) della rimozione di Turki
– 31 agosto – e i suoi legami con i talebani sollevano la questione: conoscevano i sauditi che bin Laden
stava progettando il suo attacco contro gli Stati Uniti? L’opinione corrente tra i gli osservatori del regime
saudita è probabilmente no, ma la la casa saudita potrebbe aver sentito delle voci che qualcosa si stava
progettando, sebbene senza conoscere dove e quando”
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L’esperto suggerisce (fra le righe) che Turki alla fine si sarebbe ravveduto, avrebbe inteso quali sono i
reali interessi sauditi, avrebbe abbandonato i suoi precedenti legami con talebani e bin Laden e avrebbe
scelto alla fine decisamente i vecchi alleati. Ma la questione resta aperta: il ruolo di Turki potrebbe essere
stato sino alla fine più ambiguo. Mi sento autorizzato a fare questa osservazione, pur non essendo un
esperto, dal fatto che Henderson indica come motivo di conflitto soltanto i debiti contratti dal regno
saudita nei confronti degli USA, ma ignora il conflitto più ampio e che coinvolge più profondamente la
struttura del regno saudita (sicuramente ha coinvolto in prima persona Turki al-Faisal) che può suscitare
la scelta del governo statunitense di puntare sulle risorse del Mar Caspio. Finora ho citato di proposito
giornali e settimanali autorevoli (o presunti tali) come il Washington Post o l’U.S news & world report, ma
c’è anche chi come Peter Dale Scott (pacifista americano di vecchia data, il cui sito consiglio vivamente di
visitare http://ist-socrates.berkeley.edu/~pdscott/q.html ) osserva che “ci sono molte congetture in
Europa se le improvvise dimissioni di Turki da parte di Abdullah nel tardo agosto sia stato un fattore che
ha fatto precipitare l’attacco del 9/11 pochi giorni più tardi”
La causa centrale di questo conflitto potrebbe essere l’opposizione che incontra in alcuni settori
dell’Arabia Saudita la decisione americana di “dedicare attenzione” alle risorse petrolifere del Mar Caspio.
È certo che l’Arabia Saudita non vede di buon occhio la piena introduzione sul mercato di questo grosso
concorrente. Ciò che rende il conflitto ancora più acuto è la profonda crisi economica e politica che da
qualche anno attraversa il paese degli sceicchi.
L’Arabia è uno degli orrori, sul piano politico, creati dalla politica estera statunitense, la cui protezione
militare e politica è essenziale alla sua conservazione: è un paese che basa le sue entrate per tre quarti
sul petrolio, ed è un’economia praticamente a scadenza basata sulle riserve di petrolio (per altri 20 o 30
anni?), un paese in cui non esiste parlamento, in cui un’interminabile coorte di principi (e relative
famiglie) corrotta e crapulona batte continuamente cassa, la stessa che ha sperperato gran parte di
queste immense ricchezze senza creare una reale struttura produttiva, in cui gran parte dei capitali
ricavati dal petrolio risiedono all’estero, e che si regge sul consenso dovuto alla pura e semplice
distribuzione del denaro proveniente dal petrolio.
Il progetto politico di bin Laden è davvero così “rivoluzionario”? Intende davvero sconvolgere gli equilibri
mondiali rovesciando il regime saudita e mettendolo contro gli USA? O gli attacchi terroristici sono il modo
in cui una parte consistente della classe dominante saudita, da cui provenivano diversi attentatori, si fa,
diciamo così, sentire? Sicuramente molti degli attentati dei gruppi islamici in Cecenia erano diretti a
rendere insicure le zone di transito delle pipeline russe, attualmente principale concorrente sul mercato
del petrolio dell’Arabia Saudita. Sicuramente attorno alle risorse petrolifere sono sorti dei conflitti
insanabili, il che rende la lotta estremamente aspra.
Quando bin Laden fa appello alla difesa del petrolio, “questa risorsa del mondo arabo”, potenzialmente, in
un società impoverita come quella araba, questa forma di demagogia può fare presa su ampie masse, ma
gli interessi reali che difende sono quelli di élites piuttosto ristrette. Inoltre, la strategia terroristica messa
in atto da al Qaeda sembra essere l’unica capace di ottenere dei “risultati”, quali che siano, contro gli Usa
che hanno dimostrato di aver raggiunto una superiorità militare schiacciante, mentre tanti arabi hanno
ottime ragioni per considerare gli USA nemici. Tuttavia se gli USA riusciranno a sconfiggere la rete di bin
Laden questo sarà un fatto positivo, ma non sarà una vittoria come non lo è stata la sconfitta dei
talebani. Infatti gli USA prima hanno dato un contributo decisivo ad insediarli e in seguito hanno dovuto
toglierli, raddoppiando le sofferenze della sventurata popolazione afghana, una delle tante vittime della
fallimentare e caotica politica estera americana.
Negli ultimi anni sono comparsi tutta una serie di Frankestein creati dagli USA che poi gli si sono rivoltati
contro a partire da Saddam Hussein, poi bin Laden, poi i Talebani, in parte anche l’Arabia Saudita. La
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storia del dopoguerra ha visto gli USA impegnati dovunque, ma soprattutto negli stati arabi, a favorire i
governi più reazionari, così alla fine dopo la sconfitta di Nasser, la cui lotta è stata il principale progetto di
emancipazione e modernizzazione del mondo arabo, abbiamo bin Laden sorto dalla reazione estrema
proveniente dall’Arabia Saudita. Magdi Allam, un cronista di Repubblica di origine araba, scrive: “Parla da
consumato statista il Bin Laden che prefigura il possesso del più ricco forziere naturale della Terra. E’ lui
l’erede dell’egiziano Nasser che per primo osò sfidare la superpotenza americana e incitò le masse saudite
a rivoltarsi contro la famiglia reale, legando il riscatto della nazione araba al controllo delle risorse
petrolifere. Nasser la sua battaglia la perse e sulla scia della cocente sconfitta del 1967 esplose il
movimento islamico di cui Bin Laden è il nuovo profeta. Ora tocca a Bin Laden, anche per lui è giunta
l’ora della resa dei conti” (Repubblica 24/10/01). Per quanto grossolano e sostanzialmente falso sia
definire bin Laden l’erede di Nasser, ritengo il concetto generale abbastanza giusto.
Siamo già entrati nell’era della fine dell’egemonia americana nel mondo. Secondo la concezione
gramsciana il governo duraturo è sempre una combinazione di dominio e consenso. L’incapacità del
modello americano, e in generale occidentale, di risolvere invece di peggiorare i problemi vitali di ampie
zone del mondo segna la fine del consenso e dell’attrazione che questo modello poteva suscitare. Viene
ora l’era del solo dominio, magari attraverso l’utopia di una assoluta superiorità tecnologica, ma un
governo mondiale fondato soltanto sul dominio non è destinato a durare.
Come abbiamo visto le cause del conflitto sono reali, molto probabilmente è stato realmente bin Laden
uno dei principali organizzatori dell’attentato, tuttavia bisogna tenere conto anche degli aspetti oscuri
questa vicenda, dietro cui si intravvede un intrigo di servizi segreti a dir poco inquietante, da far
impallidire quello emerso in relazione all’assassinio di Kennedy. Sono troppe le voci che indicano che
servizi segreti americano hanno trescato con bin Laden fino a poco tempo fa e forse anche dopo gli
attentati. Si tenga conto che le diramazioni degli interessi contrastanti delle compagnie petrolifere
arrivano fino ai vertici del governo e del potere statunitense (Bush jr. stesso viene indicato come un
rappresentante delle compagnie petrolifere). Bisognerebbe avere una mappa dettagliata delle varie
compagnie petrolifere statunitensi e della loro politica petrolifera, ma può essere benissimo che alcune di
queste possano essere allineate al vecchio alleato saudita e che questi interessi possono essere implicati
in qualche modo nell’attentato. Siamo nel regno dell’ipotetico e del possibile, ma come non porsi queste
domande? La questione è sempre la stessa: come è stato possibile? Com’è stato possibile che due aerei a
distanza di quasi mezz’ora uno dall’altro si siano schiantati contro i grattacieli della principale città
statunitense? Altri sostengono che l’attentato sia stato se non creato almeno non ostacolato per creare il
casus belli per farla finita con bin Laden e talebani e per risolvere definitivamente la questione
dell’Afghanistan. È molto probabile che c’è stato un fortissimo conflitto occulto fra i vertici del potere
americano. La vicenda resta sicuramente in gran parte oscura: in questo groviglio l’analisi del conflitto per
le risorse energetiche può fornire uno strumento per sbrogliare o’ gliuommero (matassa ingarbugliata
inestricabilmente, ma anche peso sullo stomaco, metafora gaddiana del fascismo).
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