in questo numero
Il Sergente
a Mario Rigoni Stern
al Rossetti
dal 31 gennaio al 2 febbraio
La mostra
alla Sala Bartoli dal 1 al 5 febbraio
Se questo
è un uomo
al Rossetti dal 3 al 4 febbraio
La mostra
10
2005
2006
La mostra
la scheda dello spettacolo
È stato un evento importante e molto
emozionante per il Teatro Stabile del FriuliVenezia Giulia l’allestimento de La mostra
di Claudio Magris che nel 2003 è stato
presentato a Trieste in prima assoluta ed
ha segnato un notevolissimo successo di
pubblico e di critica.
Un’operazione di assoluto significato, sia
per il bellissimo incontro fra il grande intellettuale e germanista e lo Stabile regionale
(che ha aperto la via a un’intensa collaborazione, di cui presto ammireremo un
nuovo frutto, un monologo che Magris sta
confezionando per la prossima stagione
teatrale) sia perché, come ha avuto modo
di sottolineare il regista e direttore Calenda
«La mostra è stato un progetto ardimentoso, per il quale abbiamo riunito talenti ed
energie singolarissime indispensabili a dar
corpo ad un testo di incredibile bellezza,
che ho amato molto, che rivela una rara
ricchezza di piani di lettura, una notevole
forza metaforica, e induce a operare creati-
vamente in direzioni inconsuete...»
Eccezionale la prova d’attore forte, toccante, lieve e assieme drammatica di Roberto
Herlitzka, che dona a Timmel accenti di profonda commozione: accanto a lui la grande
esperienza di Mario Maranzana a cui s’affianca una compagnia di interpreti generosi
e affiatati, in gran parte corregionali. Alla
decisa dimensione musicale del testo, poi, il
maestro Germano Mazzocchetti ha offerto
citazioni dalla tradizione, echi dell’incanto
musicale della Mitteleuropa, dissonanti e
moderne inquietudini.
Cuore palpitante de La mostra è la figura
di Vito Timmel, pittore di scuola klimtiana,
geniale, e mai abbastanza compreso. Nato a
Vienna nel 1886 è morto a Trieste nel 1946,
dopo una vita anarchica e randagia, spesa
nel tentativo di sfuggire all’intollerabilità di
una realtà che non permette di essere pienamente liberi, sinceri, felici, e perseguitata
invece dalla sofferenza, fino a concludersi
fra le mura dell’ospedale psichiatrico di San
Giovanni.
Claudio Magris lo ritrae in
modo partecipe e toccante,
concentrandosi non tanto
sulla grandezza dell’artista,
quanto sull’uomo-Timmel, sul
suo universo interiore ricco
di vibrazioni, contraddizioni. «Più d’ogni cosa - osserva l’autore - mi ha colpito
il fatto che Timmel vivesse
così intensamente la vita, da
poterla trovare insostenibile».
Questo fil rouge percorre il
fuori abbonamen
1 ora e 30’
senza intervallo
1
5
FEBBRAIO
destino di Vito Timmel toccando temi importanti che gli
sono appartenuti: le radici, il
ricordo, l’oblio e la nostalgia,
diretto da Antonio Calenda
il contrasto fra realtà e utopie,
l’amore, il sacrificio, la colpa.
Roberto Herlitzka
Magris evoca tutto ciò attraverso un mondo di voci e
personaggi: tessere nel mosaico del passato di Vito Timmel,
di Claudio Magris
echi che risuonano nel suo
“Io” mentre si frantuma e
cede alla follia.
La personalità di Timmel traspare così dalle sue stesse battute, dal racconto affettuoso
degli amici (artisti triestini quali
gli scultori Cesare Sofianopulo
e Marcello Mascherini), dalle
con la partecipazione di Mario Maranzana
frasi scomposte e rotte dei
con Marco Casazza, Maurizio Repetto, Maurizio Soldà,
Laura Bussani, Manuel Fanni Canelles, Alessandro Mizzi, Luciano Pasini
matti - compagni dei suoi
Stefano Bembi fisarmonica, Antonio Kozina violino
scene e costumi Pier Paolo Bisleri musiche Germano Mazzocchetti
ultimi “mille giorni” - o più
freddamente dalle diagnosi
regia di Antonio Calenda
effettuate in manicomio. Una
babele di linguaggi bassi e sublimi, in cui
te, in una coscienza. L’idea di messinscena
emergono citazioni colte (cui l’autore affida
non segue dunque le linee del realismo:
i momenti più commoventi), brandelli di
«È un testo che richiede un ampio respiro
cultura mitteleuropea, cori surreali in diacreativo, capace di fantasia, poesia, surrealletto e filastrocche, vissute come momenti
tà... » spiega ancora Calenda. La Sala Bartoli
di straniamento capaci di sfumare fra doloè trasformata dallo scenografo triestino
re e ironia, aneliti ad un mondo infantile, di
Pier Paolo Bisleri in uno “spazio mentale”
libera e limpida felicità. Antonio Calenda ha
animato da immagini, dagli stessi quadri di
portato tale materia alla scena, assecondanTimmel, e soprattutto dagli attori. In esso
do lo stile scandito, violento della scrittura:
trovano posto il passato e il presente del
la centralità dell’interiorità di Timmel, del
protagonista, l’arte, le osterie, l’ospedale,
suo “Io”, fa sì che lo spettacolo sia costruito
stazioni del suo “percorso” a cui il pubblico
come un percorso, misterioso e affascinanparteciperà “da vicino”. (i.lu.)
nto/Sala Bartoli
La mostra
Vito Timmel, Autoritratto
per gentile concessione
del Museo Revoltella di Trieste
La mostra
l’autore, Claudio Magris
Durante il periodo dell’allestimento de La mostra, nel 2003,
la presenza di Claudio Magris alle prove è stata assidua: l’autore
ha osservato con entusiasmo il processo affascinante attraverso
cui il suo testo prendeva corpo sulla scena... Un’occasione
preziosa in cui si è creata una forte coesione fra l’autore e lo
staff artistico e organizzativo impegnato nel progetto, e in cui
abbiamo avuto modo di raccogliere alcune riflessioni significative
di Magris sulla sua esperienza nel mondo teatrale, che ci sembra
ora interessante riproporre.
Per quale motivo, per raccontare la storia
di Timmel ha scelto la forma teatrale?
Il primo motivo, forse meno rilevante, è che Fabio Nieder mi
chiese di scrivere assieme un’opera su Timmel, e dunque avrei
dovuto concepire La mostra come un libretto d’opera.
Dapprima rifiutai, poi questa figura mi rimuginava dentro e ho
scritto. Però ognuno di noi è andato per la sua strada e credo
che alla fine le nostre opere siano molto diverse: ci siamo reciprocamente debitori per lo scambio d’idee, d’intuizioni. Ci sono
invece ragioni più profonde. Intanto credo che uno scrittore, se
ha un minimo di autenticità, non scelga mai a priori: fa quello
che può. Non ho scelto di scrivere Danubio in quel modo, è
nato così: ogni storia nasce indissolubilmente legata alla propria
forma. Ci sono poi due tipi diversi di scrittura. Un conto è
quando scriviamo un articolo per il giornale, oppure per una
ragione politica o morale: quando cioè trattiamo un problema
dando un giudizio, sulla base di una visione globale. Tutt’altro
è invece se facciamo i conti con certe esperienze nostre o
altrui, capaci di provocare pensieri e sentimenti che emergono
senza che li controlliamo o analizziamo: non esprimiamo allora
le nostre “risposte”, ma le nostre domande. Il teatro è la forma
più adatta a dar voce all’elemento che chiamo “notturno”, a
questo “fluire della vita” che non raccontiamo per dare un
giudizio morale, ma che “ascoltiamo” quasi e registriamo...
Una scrittura più dell’anima che della
mente?
È una scrittura che non nasce da quanto vogliamo dire
responsabilmente sul mondo. Sono piuttosto brandelli di vita,
di emozioni: per me la forma teatrale è strettamente legata
a questa scrittura selvaggia, meno analitica, meno ideologica,
più vitale. Espressione delle inquietudini, delle domande che ci
si pone quando si è sbattuti faccia a faccia col grado zero
dell’esistenza, con la Medusa. Il teatro può testimoniare quel
momento, proprio perché gli appartiene l’hic et nunc, in ogni
gesto, in ogni battuta, in
ogni attimo.
Ha potuto seguire
la “genesi” dello
spettacolo. Come
ha vissuto quest’esperienza?
Devo dire che mi sono
sentito molto capito. Sono intervenuto quando mi hanno chiesto
qualcosa, ma non ho sentito mai di dover spiegare. Il testo
certo è mio, lo spettacolo però è un po’ mio, un po’ di Calenda,
di Herlitzka, di Maranzana. Io agisco da autore, la messinscena è
compito loro. Lo stesso mi accade con i traduttori: dò qualche
chiarimento, poi il lavoro è loro. Mi riconosco in pieno nell’impostazione dello spettacolo, nelle idee registiche, nel lavoro di
Herlitzka che sta interpretando Timmel in modo straordinario,
in quello di Maranzana, che ha colto a fondo la parte fra il
fraterno e lo scurrile di Sofianopulo. Poi accade che nel corso
della messinscena, si scopre sempre qualcosa di nuovo e questo
è affascinante. Sono colpito dal fatto che solo per il tono con
cui l’attore dice certe cose, il lavoro acquista un ritmo, una
dimensione che non solo rende giustizia al testo, ma anche gli
dà senso, lo arricchisce... Mentre seguo le prove, sono portato a
riandare non solo al libro, ma a qualcosa di più conturbante
per me, ed è il momento in cui l’ho scritto, il vissuto che
si è metabolizzato nelle pagine de La mostra. C’è allora
un’emozione autentica, perché non riguarda la piccola vanità
d’autore, ma l’intensità del vissuto.
Che cosa l’ha affascinata del Timmel uomo
e artista?
Più d’ogni cosa mi ha colpito il fatto che Timmel vivesse così
intensamente la vita da poterla trovare insostenibile: mi ha
affascinato questa sua “regale abdicazione”. È talmente anarchico da non voler nemmeno impegnarsi nella vita, vuole essere
“una cosa”. Perciò ho inserito nel testo un “coro di sedie”: a
volte si desidera essere oggetti, per non soffrire, per non sentire
nulla. Ecco mi colpiscono le persone che “sentono” in modo così
intenso, da essere costrette a rinunciare alla vita vera. Timmel
arriva a desiderare la schiavitù. Un’aspirazione incondivisibile
in cui c’è però qualcosa di molto commovente: una brama
di essere bambini, di dipendere, per essere felici... Così in
questo “no” alla vita reale, si sente un immenso amore per la
vita. Come se per chi ha troppa sensibilità, l’unica soluzione
altri percorsi
fosse quella di ottundersi:
soluzione sbagliata, ma che
contiene una grande verità
esistenziale.
Timmel nel suo
“abdicare” non è
apatico...
La sua vitalità non è
quella banale, trionfante
e “muscolosa”, ma quella
interiore e sempre così
insidiata, scalcagnata,
minacciata da tutto, da
noi stessi, dal mondo di
fuori, dalla nostra debolezza fisica e psicologica... In Timmel c’è pure un che di riottoso,
quindi la dimensione dell’osteria, dell’amicizia. Invece non è
mai rabbioso: mi incanta che cerchi fino all’ultimo di dire che
tutto è bellissimo, che l’Ospedale di San Giovanni è meglio di
Vienna. Qualche volta ha durezza, protesta, ma in modo nobile,
includendo se stesso fra coloro che vorrebbe criticare.
Spesso usa nelle sue opere personaggi
realmente esistiti. È più difficile operare
creativamente su figure storiche?
Ho conosciuto poco Sofianopulo, Mascherini invece era un caro
amico di mio padre. Più che difficoltà ci può essere un po’ di
pregiudizio verso chi scrive di personaggi veramente esistiti. A
mio parere, che si scriva di figure reali o inventate, ciò non
ha alcuna attinenza col risultato finale: un libro può essere
comunque bello, brutto, capolavoro... Da sempre personaggi veri
popolano la letteratura e il teatro: ne hanno scritto Schiller,
Manzoni, Tolstoj... Un personaggio che ha una collocazione storica pone solo alcuni limiti all’invenzione (Tomizza, ad esempio,
non avrebbe potuto dare un lieto fine a Gli sposi di via
Rossetti perché si sa che gli sposi furono assassinati), però
credo che arte sia anche conciliare libertà con limiti di genere,
di forma. Ci sono personaggi che interessano molto per il
complesso della loro figura nella storia, e altri che uno prende
perché colpito da un dettaglio. Per esempio Sofianopulo, qui, mi
interessava proprio per la combinazione positiva di creatività,
fraternità, bizzarria anche gigionesca: non c’è la pretesa di
raccontare tutto il personaggio.
Alla delicata figura di Maria, prima moglie
di Timmel è dedicato un commovente
canto d’amore espresso attraverso le parole di Euripide. Perché questa citazione?
È la storia di Alcesti, che muore affinché il marito viva e della
colpa dell’uomo che ne approfitta. Alcesti è simbolo di tutte o
molte donne, che hanno vissuto meno, affinché il loro uomo
potesse vivere di più. Sento molto questa parte d’ombra...
i/Sala Bartoli
La citazione d’Euripide avviene pure per altri motivi. Dovevo
raccontare una grande figura femminile, un amore immenso e
contemporaneamente colpevole, perché mescolato alla debolezza
struggente e anche ignobile dell’uomo. È talmente forte in ciò
il richiamo ad Alcesti, che sembrava sciocco dimenticarlo. Poi la
citazione è anche un argine: forse temevo scrivendo, di essere
travolto dall’emotività, poiché nel testo ho metaforizzato cose
estremamente e violentemente personali. Infine ritengo che esistano preziose e rare versioni poetiche d’altri, che dicono sulla
nostra vita più di quanto possiamo con le nostre parole: è un
po’ come la preghiera, per un religioso l’ Ave Maria non è meno
forte e personale delle sue proprie parole. Il mio scopo non è
suscitare ammirazione per me scrivente, ma che il testo dica ciò
che mi sta a cuore. Meglio se una citazione mi aiuta.
Usa filastrocche, il dialetto, affastellando
frazioni di linguaggio. C’è molta musicalità...
Ho pensato molto alla musica. C’è nel testo una babele di linguaggi che rivela lo spappolarsi dell’”Io” di Timmel nella follia.
Timmel deve dunque possedere linguaggi diversi, deve parlare
alto, sublime, folle, cattivo... Il dialetto è fra questi, e non ha
nulla di folclorico, non è espressione calda della familiarità. È
inteso come ventre della vita, quando si è messi faccia a faccia
con lei. La cultura alta cerca sempre una mediazione, usando
un registro stilistico preciso... Per Timmel la vita pone un corto
circuito violentissimo fra il sublime e il basso, fra la vita e la
morte. È là che il dialetto, distruggendo il decoro, esprime una
specie d’infanzia, oppure certe fasi estreme della vecchiaia, dove
la vita si riduce all’osso, non ha più mediazioni e procede sul
filo fra dipendenza e assoluta libertà.
Molte “mediazioni” connotano invece il
direttore...
All’inizio il direttore era per me un espediente per “tenere
assieme” la storia, ma è diventato un personaggio complesso.
Da un lato è l’ater ego di Timmel e dunque dell’autore. Ma
è anche un uomo retore, come lo siamo tutti quando – a
differenza di Timmel che può stare silenzioso, accucciato a terra
– dobbiamo “fare”, vivere nel mondo reale. C’è sempre un
elemento di compromesso retorico in tutto ciò che facciamo. Il
direttore però ha anche la sua nobiltà. Attraverso di lui non
intendo certo irridere la critica figurativa o la psichiatria, e men
che meno l’opera di Basaglia che ho seguito con passione (del
resto proprio assieme a Franco Basaglia, Michele Zanetti e Anita
Pittoni pubblicai il Magico Taccuino di Timmel): desidero
però ricordare che tutte le cose – perfino queste – hanno
un lato un po’compromissorio e retorico. Il direttore dunque
deve essere così: ha scadenze, responsabilità, impegni. Io stesso,
mentre scrivo un libro, mi sento un po’ falso rispetto qualunque
accattone che si presenta in strada senza schermi...
Ilaria Lucari
La mostra
il regista, Antonio Calenda
pitando nella follia».
Vito Timmel è
simbolo di una
particolare condizione esistenziale.
«Il personaggio di Timmel ha una notevole
dimensione teatrale e
ci permette di portare
in scena una condizione
esistenziale molto affascinante: l’incapacità di sopportare la forza dei sentimenti e
delle passioni, da cui egli resta quasi accecato, a causa di
un’acuita sensibilità.
In effetti è di questo tema, che si sostanzia la tragedia:
l’impossibilità di affrontare l’incongruenza dell’esistere (un
tema che trova forti assonanze con quel filone novecentesco,
che a teatro denuncia dolorosamente l’assurdità della vita),
l’incapacità di resistere alle proprie inadeguatezze, come
pure alle proprie potenzialità... In un estremo tentativo
d’autodifesa Timmel vorrebbe essere un oggetto – ci
racconta un “coro di sedie”, che l’autore surrealmente
inserisce nel testo – senza possibilità di sentire nulla, né
gioia né dolore.
È significativa una sua splendida battuta: “...un punto,
ecco. Io sono un punto, Io è un punto. Un punto non ha
estensione, non c’è, non è niente”. Preferirebbe dunque
confondersi col resto del mondo percepibile, non essere
evidente, “abdicare” per non soffrire la propria limitante
condizione. E invece la coglie fino alla fine, fino all’ultimo
dei suoi “mille giorni” di reclusione all’Ospedale psichiatrico
di San Giovanni (paradossale suggello ad una vita anarchica
e randagia): solo la morte lo libererà, facendolo cadere,
dissolvere quasi – come gli fa dire Magris – “...in tanti
punti luminosi, tanti petali di un sorriso, una margherita
che si sfoglia nella notte”».
Eppure è profonda la capacità d’amare
di Timmel, che per la moglie Maria rivive
sentimenti delicatissimi e un dolente
senso di colpa, attraverso le parole che
Euripide pensò per Admeto…
«Si tratta di uno dei momenti più commoventi dello
«Un testo che è libretto d’opera, e contemporaneamente
commedia surreale, dramma, e letteratura, ma una letteratura in movimento, perché la parola di Claudio Magris sulla
scena diventa atto, con forza. Un testo in cui attraverso
generi e linguaggi diversi, si dà voce a emozioni struggenti,
come a momenti di fantasiosa ironia, e che procede per
flash, tasselli di memoria, immagini, sogni, come se il tempo
e lo spazio, per questo racconto, non fossero categorie
plausibili... La mostra offre induzioni e spazi amplissimi
per diventare materia teatrale, e ciò nel momento della
messinscena va assecondato, liberando il respiro creativo,
la fantasia, la poesia». Antonio Calenda ha amato fin dalla
prima lettura La mostra di Claudio Magris, testo che ha
regalato grandi soddisfazioni allo Stabile regionale e che a
tre anni dal debutto ritrona in tournée nazionale e replica
- visto il successo ottenuto nel 2003 – anche a Trieste,
nuovamente alla Sala Bartoli in cui è nato.
«È stato emozionante allestire La mostra – sosteneva
il regista a poche ore dal debutto – innanzitutto perché
rappresenta un incontro bellissimo e importante fra il nostro
Teatro e un grande autore qual è Claudio Magris. Poi per
i talenti e le energie che abbiamo potuto comporre nella
compagnia d’interpreti, che ritengo adatta a dar corpo a un
progetto inconsueto come questo, e che trova due maestri di
rilievo in Roberto Herlitzka e Mario Maranzana»
Interpreti che l’hanno seguita lungo linee
registiche che si scostano dal naturalismo
e che hanno affrontato i personaggi senza
rimanere legati a percorsi razionali…
«In questo spettacolo, l’irrazionalità (un’irrazionalità pensata, ovviamente) è il fondamento di un sogno che ho voluto
gli attori creassero e vivessero assieme al pubblico. È lo
stesso autore a sottolineare come per La mostra non
sia stato possibile seguire una struttura ipotattica, esprimere
una consequenzialità, un mondo di pensieri organizzati
secondo logica causalità. Per raccontare Vito Timmel è stato
necessario invece ricorrere a una scrittura notturna, vitale,
non filtrata. Proprio perché al centro del testo è l’universo
interiore del protagonista, ricco d’emozioni, vibrazioni,
contraddizioni, animato di ricordi, voci, sogni, dolenze. Lo
spettacolo fa propria questa dimensione e si evolve come
se ci si inoltrasse nel mistero di una coscienza, nella mente
di Timmel, fra le luci e le ombre di un “Io” che sta preci
altri percorsi
Un merito che va certo riconosciuto all’autore, è poi quello
di aver dipinto la follia di Timmel (in un teatro che ha
costruito sulla pazzia grandi testi e grandi protagonisti,
basti pensare al pirandelliano Enrico IV, ma anche molti
stereotipi) con originalità. In tutto il testo non sentiamo
mai la caratterizzazione “bassa” della follia: e nel protagonista, potremmo affermare che proprio non c’è follia (almeno
secondo le convenzioni a cui siamo abituati). C’è invece
una creazione poetica della follia. Il manicomio offre uno
sfondo “immanente” a ogni sofferenza e paradossalmente
– proprio in quel mondo di dolore e costrizione – Timmel
trova una propria plausibilità, una serenità leggera che gli
fa vedere bontà e pace in chi popola l’Ospedale di San
Giovanni.
Interessante è infine la dialettica che si attua fra folli e
sani, fra reclusi e coloro che vivono “nel mondo di fuori”
– come appare evidente da alcuni scambi di battute fra
Timmel e l’amico Sofianopulo: chi appare più matto? Il
pittore emarginato Timmel o il direttore del maniconio
(e dell’allestimento della mostra pittorica, da cui il testo
prende titolo)? Una dialettica che vorrei si estendesse anche
fra attori e pubblico».
Il pubblico sarà molto coinvolto in questa
messinscena, posto a distanza minima
dagli attori, quasi “immerso” in una
scena concepita per lo spazio raccolto
della Sala Bartoli…
«C’è un’attinenza “architettonica”, di epoca e di stili fra gli
edifici storici dell’Ospedale di San Giovanni e quelli della
zona del Politeama Rossetti, gli stessi finestroni di Sala
Bartoli... e questo fin dalle prime ipotesi di allestimento mi
ha regalato interessanti suggestioni. La messinscena – per
il tipo di scrittura e di struttura usate da Magris – non
avrebbe potuto rifarsi a canoni realistici: richiedeva invece
un forte coinvolgimento del pubblico, ritmi serrati. Sul piano
degli spazi, abbiamo lavorato assieme a Pier Paolo Bisleri,
che ha creato una scenografia che supera i confini dello
“spazio degli attori” e avvince lo spettatore fin dalla sua
entrata a teatro. Una galleria infatti lo introduce alle atmosfere de La mostra, fra voci e immagini che troveranno
il loro pieno significato nello spettacolo. Che si svolge in
una sorta di caverna platonica, uno spazio mentale nero in
cui prendono forma le immagini del passato e del presente
di Vito Timmel.
Un universo stilizzato, in cui lo spazio del passato di Timmel
(le osterie, la vita d’artista e di bambino) sfuma in quello
del manicomio, in quello del presente (con gli amici che lo
piangono, con il direttore che lo ricorda). Uno spettacolo in
cui lo spazio degli attori sfuma in quello degli spettatori e
si apre violentemente sulla realtà.». (i.lu.)
spettacolo, che adombra accenti autobiografici dello stesso
autore: come Admeto, Timmel evoca la sua Alcesti perduta,
una donna che ha dato senso alla sua vita e al cui ricordo
si appiglia con tutte le forze e con grande struggimento.
Ma Timmel non è solo Admeto: se vogliamo, si riflette pure
in Edipo, che deve conoscere un destino che non riesce
ad affrontare. Risonanze meravigliose per noi che facciamo
teatro: una moltiplicazione di echi, di chiavi di lettura, di
prospettive che rendono il testo mosso e intenso.
Tali tensioni drammatiche e liriche – prosegue Calenda
– sono spesso interrotte, anche in modo violento, da
sciabolate di banalità, da filastrocche e nenie in dialetto
(linguaggio riservato soprattutto ai matti ricoverati assieme
a Timmel), da altre contaminazioni. Un duro controcanto
all’espansione del senso poetico dei protagonisti: tutto ciò
ci ha reso possibili decisi momenti di straniamento, ma ci
ha imposto anche un sottile lavoro di calibratura... Ognuno
di questi tasselli d’espressione infatti deve contribuire in
propria misura alla creazione di un universo di sensazioni,
che ho ritenuto fondamentale peculiarità de La mostra.
Prezioso in questo senso è stato il lavoro di Germano
Mazzocchetti che ha ricreato per lo spettacolo un pathos
musicale fra echi della tradizione e accenti mitteleuropei»
La dimensione della follia ha nel testo
uno spazio rilevante…
«I matti che circondano Timmel nei “mille giorni” sono
uno sfondo tragico e dolente che a volte appare anche
stranamente surreale, lieve. Ho chiesto agli attori di non
pensare ai cliches della rappresentazione della follia, ma di
far sentire – in ogni gesto, nella voce, nell’espressione – la
paura e la profonda solitudine della pazzia.
i/Sala Bartoli
Il Sergente
la scheda dello spettacolo
In scena, una grande carta geografica e
una macchina da scrivere: Marco Paolini
– il grande affabulatore del teatro italiano
– ha scelto questi strumenti per il suo Il
Sergente. Una mappa per pianificare il viaggio e qualcosa per prendere appunti da non
dimenticare più.
Il viaggio di Marco Paolini è anche quello
di un artista che da Il racconto del Vajont
a Il Milione, da Parlamento chimico a I-TIGI
Racconto per Ustica, ha continuato coraggiosamente ad allargare il respiro delle
sue riflessioni: fino a ripercorrere i passi di
Mario Rigoni Stern, prendendo ispirazione
dallo struggente “Il sergente nella neve”.
Il libro, del 1953, è il racconto autobiografico
dell’allora sergente Rigoni, impegnato nella
sanguinosa campagna di Russia durante il
secondo conflitto mondiale. Ambientato
nell’inverno 1942-43, affronta uno degli
episodi più drammatici nella nostra storia:
la ritirata dei soldati attraverso la taiga
russa. Una ritirata tragica, assurda, di cui
non si parla spesso e che oggi è addirittura
difficile immaginare, tanto sono inumani i
suoi tratti.
Ormai allo sbando e circondati dall’Armata
Rossa, i personaggi della vicenda, reali, cercano di sopravvivere, passando da un villaggio all’altro con alterne fortune. Li guida un
giovane sergente, l’autore del romanzo. E
proprio grazie alla sua sensibilità, conosciamo uomini sconvolti dal conflitto, ma che
mantengono fino in fondo la dignità, anche
quando la guerra “imbestia”: così il tenente
Cenci, molto amico di Rigoni e generoso
in battaglia; il caporalmaggiore Moreschi,
sempre di buonumore
nonostante tutto; Tourn,
alpino piemontese che
nasconde con allegria la
paura; Lombardi, cupo
e taciturno; il caporale
Pintossi, calmo e flemmatico... piccoli grandi
uomini che affrontano
un’avventura spesso
senza via d’uscita.
Per capire meglio questa durissima realtà,
Paolini ha compiuto
egli stesso un viaggio
sul Don, nei luoghi che
sono stati teatro degli
assurdi eventi culminati nella battaglia di
Nicolajewka. Ecco allora che il passato di Rigoni Stern s’intreccia
alle attuali impressioni di Paolini, che – con
il suo eccezionale carisma, con il suo discorrere inclazante – trae dallo spettacolo una
forte invettiva contro ogni conflitto, oltre
che l’omaggio doveroso a quegli uomini
imprigionati nelle nevi di Russia. Molti morirono: le cronache riportano che la ritirata
dell’Armir costò – secondo ottimistiche
stime – 75.000 vite... Se il delicato canto di
donne che riverbera nel finale dello spettacolo, riaccoglie simbolicamente in Patria
il Sergente e chi si è salvato, ecco che
l’anelito alla pace che pervade il monologo
di Paolini rappresenta forse il più sensato
omaggio a coloro che dal Don non hanno
fatto ritorno, lasciando sole altre donne
altri percorsi/Po
31
gennaio
2 ore e 40’
con intervallo
– madri, spose, figlie – destinate ad attenderli per sempre, con speranza, con amore,
ma vanamente.
«Per Mario Rigoni scrivere è stato un
anticorpo alla disumanità» dice l’attore.
«Ecco, forse quello che sto cercando è un
anticorpo alla disumanità della condizione
di spettatore. È un’illusione credere di esser
spettatori di una guerra lontana... Senza la
coscienza che non puoi “chiamarti fuori”,
che se rimuovi questa cosa dalla tua vita,
stai già scivolando in una perdita. Mi ritrovo
nella voglia di non arrendersi che era di
Rigoni e dei suoi alpini, ma non come gesto
di eroismo, lui marciava nella neve portandosi in spalla il peso tremendo delle armi.
I volantini russi dicevano: italiani, siete a
oliteama Rossetti
2
febbraio
quattromila chilometri da casa, arrendetevi.
Chi si arrendeva all’evidenza della realtà,
alla stanchezza, chi rinunciava alle armi che
aveva, a oliarle, pulirle e tenerle in efficienza,
era finito. Io penso che la democrazia sia la
nostra arma, quella che ha bisogno di manutenzione, e la dobbiamo curare.
Il Sergente non è un lavoro di denuncia
ma non è nemmeno un medicamento per
l’anima perché credo che il teatro non
possa essere né terapia né antidoto. Penso
alla possibilità di attingere all’esperienza e
penso che questo serva alla memoria, serva
a prepararsi meglio ad affrontare le cose.
Un teatro inteso forse come addestramento, come istruzione».
Ilaria Lucari
Se questo è un uom
la scheda di presentazione
La riflessione sulla guerra percorre il cartellone del Teatro Stabile del Friuli-Venezia
Giulia: una riflessione opportuna, poiché il
conflitto insano, assurdo che oppone l’uomo all’uomo è dolorosamente presente
nel nostro tempo, come se la lezione che
ci è offerta dalla storia, non fosse sufficientemente forte e avesse bisogno di essere
continuamente richiamata...
Da poco è stata celebrata – anche a Trieste,
dove purtroppo sorge la Risiera di San
Sabba, unico campo di sterminio nazista
in Italia – la Giornata della Memoria, e lo
spettacolo tratto dal celebre testo di Primo
Levi sembra volerne amplificare il monito a
non ricadere mai più negli errori di uno dei
periodi più bui che l’Europa abbia vissuto.
Attraverso l’interpretazione generosa e
possente di Nello Mascia e all’impeto di
una interessante compagnia di interpreti,
dunque, Se questo è un uomo ci invita a
non dimenticare l’Olocausto a pensare
all’orrore del razzismo, per saperne riconoscere le radici, per non lasciarci più guidare
dalla paura della diversità, dalla follia della
violenza che infierisce sui deboli e sulle
minoranze.
Lo spettacolo è diretto dal regista triestino
Franco Però, la cui scelta coraggiosa, di
portare sul palcoscenico una materia tanto
importante ma anche dolente e delicata,
è stata preceduta da un attento studio e
dalla volontà, di conoscere direttamente
i luoghi dello sterminio. Di essi – ricorda
il regista – la cosa che prima colpisce è il
sistema, quasi “industriale” che li regolava:
«Lentamente – scrive infatti – mentre
passi da un block al seguente,
comincia fisicamente a farsi
strada dentro di te, senza
il minimo sforzo da parte
tua, la scoperta di questa
industria della morte. È questa normalità del processo di
sterminio che ti sconvolge:
come un mostruoso prologo
a quel concetto dell’annullamento totale, al cui confronto ti troverai poco dopo,
quando guarderai i resti di
Birkenau. E passi le camerate,
il primo muro delle esecuzioni, le docce. E non occorre arrivare davanti
ai primi esempi di forni, per sentire accanto
a te, mentre cammini per i viali, in mezzo
agli edifici in mattoni rossi, i passi di quella
moltitudine scomparsa, annientata. Se alzi
gli occhi alle finestre vuote, dopo che avrai
camminato e camminato, ti sembrerà di
vedere i corpi nudi, torturati, sottoposti ad
esperimenti, urlanti od oramai senza voce:
annientati ancor prima di una morte che
è solo la registrazione di un qualcosa già
avvenuto. Solo le parole di autori come
Primo Levi hanno la capacità di ridare vita
a quell’Inesprimibile, più potentemente di
quei piccoli echi che risuonano nella mente
di ogni persona che passi per quei luoghi.
Ecco, quello che vorrei, è di riuscire ad avvicinare a quelle parole – soprattutto quelle
che esplodono dal romanzo, più che dall’adattamento – le immagini, i suoni, le urla
e i silenzi che attraversano, loro malgrado, i
viandanti di Auschwitz».
10
prosa/Politea
mo
1 ora e 20’
senza intervallo
Scritto nel 1947, subito dopo il rientro dal
lager di Auschwitz, Se questo è un uomo è
da annoverare fra le opere più importanti
del Novecento, non solo per il suo valore
letterario ma per la portata che quanto Levi
vi ha scritto ha per l’umanità.Vi risuonano la
speranza e la solitudine, la rabbia e lo sgomento di un uomo perfetto, che senza logici
motivi, è ridotto a “numero”. Rasati, maltrattati, omologati, marchiati come animali,
i prigionieri del campo hanno il compito
di lavorare e obbedire; rimane loro l’unico
istinto a sopravvivere a tutto... E fra questo
“tutto”, fra le inumane atrocità che Levi
ha dovuto subire, appare ancor più atroce
che la devastazione più profonda sia proprio quella riduzione dell’uomo a “häftling”,
“pezzo”. Appaiono allora ancora più forti le
parole che egli ci “comanda”: «Voi che vivete sicuri/ nelle vostre tiepide case,/ voi che
trovate tornando a sera/ il cibo caldo e visi
amici:/ Considerate se questo è un uomo/
ama Rossetti
3
4
FEBBRAIO
che lavora nel fango/ che non conosce pace/
che lotta per mezzo pane/ che muore per
un si o per un no./ Considerate se questa
è una donna,/ senza capelli e senza nome,/
senza più forza di ricordare,/ vuoti gli occhi
e freddo il grembo/ come una rana d’inverno (...)».
Ilaria Lucari
11
Mario Rigoni Stern
lager, nel 1945 riesce a tornare al suo amato Altopiano,
ma il reinserimento nella vita civile non sarà facile,
i ricordi saranno così difficili da sopportare che per
molto tempo non prenderà più tra le mani i fogli
scritti in guerra, fogli che successivamente diventeranno
testimonianza importantissima.
Mario Rigoni Stern è uno dei pochi sopravvissuti alla
ritirata di Russia del’43 e uno dei pochi ad aver reso
un’immagine fedele della profonda prostrazione mentale
e fisica dell’uomo che è stato vittima di uno dei più
atroci disastri mondiali. Doloroso, ma allo stesso tempo
delicato è il suo primo breve racconto “La scure”,
inserito in “Ritorno sul Don” nel 1973 e dedicato a
Primo Levi, ma già alla fine degli anni Sessanta aveva
scritto il soggetto e collaborato alla sceneggiatura de “I
recuperanti”, film girato da Ermanno Olmi sulle vicende
delle genti di Asiago all’indomani della Grande Guerra.
Oltre alla regolare pubblicazione di opere narrative,
negli anni Settanta comincia a collaborare con La
Stampa e si dedica a letture e studi storici.
Il suo lavoro più importante e il suo libro più famoso
è proprio “Il Sergente nella neve”, nato da quei fogli
scritti all’interno dei lager tedeschi e per tanto tempo
dimenticati in un angolo di casa. In questo libro
ripercorre i giorni più importanti della sua vita, con
misurato orgoglio racconta che da semplice sergente si
è ritrovato improvvisamente responsabile delle vite di
molti uomini per poi essere catturato dai tedeschi sulla
strada del ritorno.
Dopo “Il Sergente nella neve” sono seguiti dieci anni
di silenzio a cui sono succeduti i racconti naturalistici:
da sempre, infatti l’essenza delle sue opere sta nel
profondo legame tra Memoria e Natura che, sia pure
con modalità ed intensità differenti si intrecciano di
continuo. I testi di Mario Rigoni Stern sono sempre
stati accolti dal pubblico e dalla critica in maniera
entusiastica, molte sono state le collaborazioni a testi
storici di primo livello tra cui è doveroso ricordare
uno degli ultimi “1915-1918. La guerra sugli Altipiani.
Testimonianze di Soldati al fronte” curato assieme all’attuale Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi
nel 2000.
La vita di Mario Rigoni Stern è iniziata nel modo più
comune per un ragazzo nato nella provincia vicentina
negli anni ’20: famiglia numerosa, di tradizione commerciale, che si occupava della vendita di prodotti delle
malghe alpine. Un’infanzia vissuta a stretto contatto
con la comunità asiaghese, tra i pastori e la gente
di montagna. Da giovane ha frequentato la scuola di
avviamento al lavoro e faceva il garzone nel negozio
dei genitori. All’età di diciott’anni, quando si arruola
volontario alla scuola militare d’alpinismo di Aosta la
guerra sembrava essere ancora lontana, ma non era così
e la vita del giovane Rigoni Stern prende ben presto
una direzione molto diversa da quello che si aspettava.
Dal 1939 è impegnato in prima persona come soldato,
combatte sul fronte occidentale con mille dolori e travagli per poi affrontare quello albanese e quello russo,
drammatico e sconvolgente. Sotto i suoi occhi e sopra
la sua pelle le tragiche vicende della Seconda Guerra
Mondiale lo travolgono: la ritirata dalla Russia del 1943,
l’abbandono dei compagni stremati nella neve e la
deportazione nei lager sono esperienze umane tragiche
e orribili che segneranno Mario Rigoni Stern come dei
marchi a fuoco: dolorosi quanto indelebili nel tempo.
Fortunatamente, dopo più di due anni di prigionia nei
12
prosa/Politea
Primo Levi
Primo Levi nasce il 31 luglio 1919 a Torino, di origine
ebraica, la sua infanzia è contrassegnata oltre che da
una salute cagionevole anche da una certa solitudine in
cui mancano i tipici giochi dei bambini. Nel 1934 si
iscrive al Ginnasio - Liceo D’Azeglio di Torino, istituto
noto per aver ospitato docenti illustri e oppositori del
fascismo come Augusto Monti, Franco Antonicelli, Umberto
Cosmo, Norberto Bobbio e Cesare Pavese. Si dimostra
un eccellente studente, uno dei migliori, grazie alla
sua mente lucida ed estremamente razionale. A questo
si aggiunga, come poi dimostreranno i suoi libri, una
fantasia fervida e una grande capacità immaginativa,
tutte doti che gli permettono di brillare sia nella materie scientifiche che letterarie. Ma la sua predilzione si
manifesta per la chimica e la biologia, infatti dopo il
diploma si iscrive alla Facoltà di Scienze. Si laurea con
lode nel 1941, ma la dicitura “Primo Levi, di razza
ebraica” sarà un particolare che gli peserà tutta la vita
e che commenterà così: “le leggi razziali furono provvidenziali per me, ma anche per gli altri: costituirono la
dimostrazione per assurdo della stupidità del fascismo.
Si era ormai dimenticato il volto criminale del fascismo
(quello del delitto Matteotti per intenderci); rimaneva da
vederne quello sciocco”. Nel 1942, mentre la guerra
attanaglia tutta l’Europa e i nazisti entrano sul suolo
italiano è costretto a trasferirsi a Milano per ragioni di
lavoro. Nel 1943 si rifugia sulle montagne sopra Aosta,
unendosi ad altri partigiani, venendo però quasi subito
catturato dalla milizia fascista. Un anno dopo si ritrova
internato nel campo di concentramento di Fossoli e successivamente deportato ad Auschwitz.
Viene liberato il 27 gennaio 1945 in occasione dell’arrivo dei Russi al campo di Buna-Monowitz, anche se il suo
rimpatrio avviene solo nell’ottobre successivo.
Questa orribile esperienza è raccontata con dovizia
di particolari, ma anche con un grandissimo senso di
umanità, di altezza morale e dignità, nel romanzo-testimonianza, “Se questo è un uomo”, pubblicato nel 1947,
inestinguibile documento delle violenze naziste, scritto da
un uomo di limpida e cristallina personalità.
In un’intervista concessa poco dopo la pubblicazione (e
spesso integrata al romanzo), Primo Levi afferma di esse-
ama Rossetti
re disposto a perdonare i suoi aguzzini e di non provare rancore nei confronti dei nazisti. Ciò che gli importa,
dice, è solo rendere una testimonianza diretta, allo scopo
di fornire un contributo personale affinchè si eviti il
ripetersi di tali e tanti orrori. Nel 1963 Levi pubblica
il suo secondo libro “La tregua”, cronache del ritorno a
casa dopo la liberazione (il seguito del capolavoro “Se
questo è un uomo”), per il quale gli viene assegnato il
Premio Campiello. Altre opere da lui composte sono: una
raccolta di racconti dal titolo “Storie naturali”, con il
quale gli viene conferito il Premio Bagutta; una seconda
raccolta di racconti, “Vizio di forma”, una nuova raccolta
“Il sistema periodico”, con cui gli viene assegnato il
Premio Prato per la Resistenza; la raccolta di poesie
“L’osteria di Brema” e altri libri come “La chiave a
stella”, “La ricerca delle radici”, “Antologia personale” e
“Se non ora quando”, con il quale vince per la seconda
volta il Premio Campiello. Infine scrive nel 1986 un
testo dall’emblematico titolo “I Sommersi e i Salvati”.
Primo Levi muore suicida l’11 aprile 1987, probabilmente lacerato dalle strazianti esperienze vissute e dal
quel sottile senso di colpa che talvolta, assurdamente, si
ingenera negli ebrei scampati all’Olocausto: di essere cioè
“colpevoli” di essere sopravvissuti.
13
il Rossetti News
DAL 31 GENNAIO al 2 febbraio 2006 - Pol. ROSSETTI
Jolefilm presenta
31
Il Sergente a Mario Rigoni Stern
con Marco Paolini
PLATEA A Interi
PLATEA B Interi
PLATEA C Interi
GALLERIE Interi
€
€
€
€
28,00
25,00
20,00
15,00
2* PLATEA A Under 25
2* PLATEA B Under 25
1* PLATEA C Under 25
1* GALLERIE Under 25
€
€
€
€
23,00
20,00
16,00
12,00
DAL 1° AL 5 febbrAIO 2006 - SALA BARTOLI
La mostra
di Claudio Magris regia di Antonio Calenda
con Roberto Herlitzka e con la partecipazione di Mario Maranzana
Interi
€ 15,00
1*
Ridotto Under 25
€ 12,50 Abb. Prosa € 7,50
DAL 3 AL 4 febbrAIO 2006 - POLITEAMA ROSSETTI
Apas Produzioni diretta da Sebastiano Calabrò presenta
MERCOLeDÌ
1
gioveDÌ
2
FEBBRAIO
venerdÌ
Se questo è un uomo
di Primo Levi regia di Franco Però con Nello Mascia
PLATEA A-B Interi € 20,00 1* PLATEA A Under 25 € 17,00
PLA C/GALL Interi € 12,00 1* PLA C/GALL Under 25 € 10,00
DALl’8 AL 19 febbraio 2006 - SALA BARTOLI
3
FEBBRAIO
SABATO
Teatroinaria stanzeluminose presenta
4
Muratori
FEBBRAIO
€ 12,50
9 febbrAIO 2006 - POLITEAMA ROSSETTI
Azalea Promotion presenta
DOMENICA
5
FEBBRAIO
Roberto Vecchioni in concerto
PLATEA A-B-C Int € 34,00
I GALLERIA Interi € 28,50
II GALLERIA Interi € 23,00
GENNAIO
FEBBRAIO
Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia presenta
di Edoardo Erba regia di Massimo Venturiello
con Nicola Pistoia, Paolo Triestino, Eleonora Vanni
Posto unico Interi € 15,00 1* Under 25
MARTEDÌ
PLATEA A-B-C Abbonati€ 31,00
I GALLERIA Abbonati € 25,00
II GALLERIA Abbonati € 20,50
20.30 POLITEAMA - altri percorsi
Il Sergente a Mario Rigoni Stern
20.30 POLITEAMA - altri percorsi
Il Sergente a Mario Rigoni Stern
21.00 SALA BARTOLI - fuori abbonamento
La mostra di Claudio Magris
20.30 POLITEAMA - altri percorsi
Il Sergente a Mario Rigoni Stern
21.00 SALA BARTOLI - fuori abbonamento
La mostra di Claudio Magris
20.30 POLITEAMA - altri percorsi
Se questo è un uomo di Primo Levi
21.00 SALA BARTOLI - fuori abbonamento
La mostra di Claudio Magris
20.30 POLITEAMA - altri percorsi
Se questo è un uomo di Primo Levi
21.00 SALA BARTOLI - fuori abbonamento
La mostra di Claudio Magris
17.00 SALA BARTOLI - fuori abbonamento
La mostra di Claudio Magris
LUNeDÌ
6
FEBBRAIO
11 e 12 febbrAIO 2006 - POLITEAMA ROSSETTI
Associazione Rudolf Nureyev presenta
Giselle con il Ballet de Camaguey (Cuba)
PLATEA A-B Interi € 37,00 3* PLATEA A-B Under 25 €
PLATEA C Interi € 32,00 2* PLATEA C Under 25 €
I GALLERIA Interi € 26,00 2* I GALLERIA Under 25 €
II GALLERIA Interi € 22,00 1* II GALLERIA Under 25 €
LOGGIONE Interi € 7,50
marteDÌ
30,00
26,00
21,00
16,00
Compagnia della Rancia presenta
42,00
36,00
29,00
20,00
7,50
3* PLATEA A-B Und 25 €
2* PLATEA C Under 25 €
2* I GALLERIA Under 25 €
2* II GALLERIA Under 25 €
8
FEBBRAIO
Tutti insieme appassionatamente
€
€
€
€
€
FEBBRAIO
mercoleDÌ
DAL 15 AL 19 FEBBRAIO 2006 - POLITEAMA ROSSETTI
PLATEA A-B Interi
PLATEA C Interi
I GALLERIA Interi
II GALLERIA Interi
LOGGIONE Interi
7
34,00
27,00
22,00
16,00
gioveDÌ
9
FEBBRAIO
08.30 Apertura pren. “abbonamenti con le stelle” per “Edoardo
II”, “La lunga vita di Marianna Ucria”, “Paolo Borsellino.
Essendo Stato”, “The tribute to the Blues Brothers”.
Prevendita biglietti da giovedì 9 febbraio.
21.00 SALA BARTOLI - altri percorsi
Muratori di Edoardo Erba
21.00 POLITEAMA - fuori abbonamento
Roberto Vecchioni in concerto
21.00 SALA BARTOLI - altri percorsi
Muratori di Edoardo Erba
21 febbrAIO 2006 - POLITEAMA ROSSETTI
Teatro Segreto
VENERDÌ
Paolo Borsellino. Essendo stato
testo e regia di Ruggiero Cappuccio con Massimo De Francovich
PLATEA A-B Interi € 20,00 1* PLATEA A Under 25 € 17,00
PLA C/GALL Interi € 12,00 1* PLA C/GALL Under 25 € 10,00
sabato
25 e 26 febbrAIO 2006 - POLITEAMA ROSSETTI
11
Marco Borelli presenta
Roberto Bolle & Friends
galà di danza con Roberto Bolle e con étolies internazionali
PLATEA A-B Interi € 55,00 4* PLATEA A-B Under 25 €
PLATEA C Interi € 46,00 3* PLATEA C Under 25 €
I GALLERIA Interi € 36,00 3* I GALLERIA Under 25 €
II GALLERIA Interi € 28,00 2* II GALLERIA Under 25 €
LOGGIONE Interi € 10,00
10
FEBBRAIO
FEBBRAIO
44,00
37,00
29,00
20,00
domenica
12
FEBBRAIO
21.00 SALA BARTOLI - altri percorsi
Muratori di Edoardo Erba
20.30 POLITEAMA - danza & dintorni
Giselle con il Ballet de Camaguey (Cuba)
21.00 SALA BARTOLI - altri percorsi
Muratori di Edoardo Erba
16.00 POLITEAMA - danza & dintorni
Giselle con il Ballet de Camaguey (Cuba)
17.00 SALA BARTOLI - altri percorsi
Muratori di Edoardo Erba
Mario Maranzana presenta “All’ombra di Mozart” in Sala Bartoli
Per celebrare il 250mo
anniversario
della
nascita
di
Wolfgang
Amadeus Mozart, venerdì
4 febbraio, alle ore 17
il Teatro Stabile del
Friuli-Venezia Giulia ha
organizzato alla Sala
Bartoli un appuntamento
che incontrerà l’interesse di molti: Mario
Maranzana leggerà la
commedia di sua creazione “All’ombra di Mozart.
- Le avventure di Lorenzo
Da Ponte: dalla corte
di Vienna a
New
York,
passando per
Trieste”.
Lorenzo
Da
Ponte fu librettista di
“Don Giovanni”, “Nozze
di Figaro” e “Così fan
tutte”, nella commedia
è anche raccontato il
legame con la città di
Trieste dove ha incontrato la moglie e dove
ha portato in scena con
successo una sua opera
al Teatro “S. Pietro”,
oggi Teatro “G. Verdi”.
L’ingresso è gratuito.
Addio, caro Andrea Orel.
diretto da Antonio Calenda
“Trieste a Teatro”
Periodico del Teatro Stabile
del Friuli-Venezia Giulia
www.ilrossetti.com/triesteteatro.asp
Anno XV - numero 125 - 1 febbraio 2006
redazione Viale XX Settembre, 45 - 34126 Trieste
tel. 040-3593511 fax 040-3593555
www.ilrossetti.it e-mail [email protected]
Autorizz. Tribunale di Trieste n° 846 del 30.7.1992
stampa Stella Arti Grafiche,Trieste
direttore responsabile Stefano Curti
redazione Ilaria Lucari, Ivis Lasagna
La prematura scomparsa di Andrea Orel
priva il mondo del teatro del talento e
della passione generosa di un giovane e
bravo artista. Attore, autore, regista
Andrea Orel ha amato e frequentato il
teatro da protagonista fin da ragazzo
e spesso è stato applaudito sul palcoscenico del Teatro Stabile del FriuliVenezia Giulia, dove tutti lo ricordano
con profonda commozione. Ne “I Turcs
dal Friul” per la regia di De Capitani,
nell’ “Amleto” diretto da Calenda, nel
divertente e recente “Sonno” di Enrico
Luttmann ha offerto la sua professionalità e il suo bellissimo, contagioso
entusiasmo. La redazione di “Trieste a
Teatro” – di cui Andrea Orel è stato
fra i primi collaboratori – piange la
perdita di un grande e prezioso amico.
Adolfo Levier (Trieste, 1873-1953) - Caffè all’aperto, 1910 - olio su tela, cm 65x92
il colore del benessere sociale
Non può esserci stabile ricchezza economica
senza ricchezza spirituale.
In qualsiasi ambito siano rivolti
– dalla sanità allo sviluppo economico, dalla scienza alla cultura,
all’arte, al tempo libero –
gli interventi della Fondazione sono sempre caratterizzati
da concreto impegno verso la collettività.
In una società evoluta
sono modulazioni che arricchiscono di felici tonalità
il colore del benessere sociale.
Scarica

Il Sergente a Mario Rigoni Stern La mostra Se questo è un uomo