in questo numero Il Sergente a Mario Rigoni Stern al Rossetti dal 31 gennaio al 2 febbraio La mostra alla Sala Bartoli dal 1 al 5 febbraio Se questo è un uomo al Rossetti dal 3 al 4 febbraio La mostra 10 2005 2006 La mostra la scheda dello spettacolo È stato un evento importante e molto emozionante per il Teatro Stabile del FriuliVenezia Giulia l’allestimento de La mostra di Claudio Magris che nel 2003 è stato presentato a Trieste in prima assoluta ed ha segnato un notevolissimo successo di pubblico e di critica. Un’operazione di assoluto significato, sia per il bellissimo incontro fra il grande intellettuale e germanista e lo Stabile regionale (che ha aperto la via a un’intensa collaborazione, di cui presto ammireremo un nuovo frutto, un monologo che Magris sta confezionando per la prossima stagione teatrale) sia perché, come ha avuto modo di sottolineare il regista e direttore Calenda «La mostra è stato un progetto ardimentoso, per il quale abbiamo riunito talenti ed energie singolarissime indispensabili a dar corpo ad un testo di incredibile bellezza, che ho amato molto, che rivela una rara ricchezza di piani di lettura, una notevole forza metaforica, e induce a operare creati- vamente in direzioni inconsuete...» Eccezionale la prova d’attore forte, toccante, lieve e assieme drammatica di Roberto Herlitzka, che dona a Timmel accenti di profonda commozione: accanto a lui la grande esperienza di Mario Maranzana a cui s’affianca una compagnia di interpreti generosi e affiatati, in gran parte corregionali. Alla decisa dimensione musicale del testo, poi, il maestro Germano Mazzocchetti ha offerto citazioni dalla tradizione, echi dell’incanto musicale della Mitteleuropa, dissonanti e moderne inquietudini. Cuore palpitante de La mostra è la figura di Vito Timmel, pittore di scuola klimtiana, geniale, e mai abbastanza compreso. Nato a Vienna nel 1886 è morto a Trieste nel 1946, dopo una vita anarchica e randagia, spesa nel tentativo di sfuggire all’intollerabilità di una realtà che non permette di essere pienamente liberi, sinceri, felici, e perseguitata invece dalla sofferenza, fino a concludersi fra le mura dell’ospedale psichiatrico di San Giovanni. Claudio Magris lo ritrae in modo partecipe e toccante, concentrandosi non tanto sulla grandezza dell’artista, quanto sull’uomo-Timmel, sul suo universo interiore ricco di vibrazioni, contraddizioni. «Più d’ogni cosa - osserva l’autore - mi ha colpito il fatto che Timmel vivesse così intensamente la vita, da poterla trovare insostenibile». Questo fil rouge percorre il fuori abbonamen 1 ora e 30’ senza intervallo 1 5 FEBBRAIO destino di Vito Timmel toccando temi importanti che gli sono appartenuti: le radici, il ricordo, l’oblio e la nostalgia, diretto da Antonio Calenda il contrasto fra realtà e utopie, l’amore, il sacrificio, la colpa. Roberto Herlitzka Magris evoca tutto ciò attraverso un mondo di voci e personaggi: tessere nel mosaico del passato di Vito Timmel, di Claudio Magris echi che risuonano nel suo “Io” mentre si frantuma e cede alla follia. La personalità di Timmel traspare così dalle sue stesse battute, dal racconto affettuoso degli amici (artisti triestini quali gli scultori Cesare Sofianopulo e Marcello Mascherini), dalle con la partecipazione di Mario Maranzana frasi scomposte e rotte dei con Marco Casazza, Maurizio Repetto, Maurizio Soldà, Laura Bussani, Manuel Fanni Canelles, Alessandro Mizzi, Luciano Pasini matti - compagni dei suoi Stefano Bembi fisarmonica, Antonio Kozina violino scene e costumi Pier Paolo Bisleri musiche Germano Mazzocchetti ultimi “mille giorni” - o più freddamente dalle diagnosi regia di Antonio Calenda effettuate in manicomio. Una babele di linguaggi bassi e sublimi, in cui te, in una coscienza. L’idea di messinscena emergono citazioni colte (cui l’autore affida non segue dunque le linee del realismo: i momenti più commoventi), brandelli di «È un testo che richiede un ampio respiro cultura mitteleuropea, cori surreali in diacreativo, capace di fantasia, poesia, surrealletto e filastrocche, vissute come momenti tà... » spiega ancora Calenda. La Sala Bartoli di straniamento capaci di sfumare fra doloè trasformata dallo scenografo triestino re e ironia, aneliti ad un mondo infantile, di Pier Paolo Bisleri in uno “spazio mentale” libera e limpida felicità. Antonio Calenda ha animato da immagini, dagli stessi quadri di portato tale materia alla scena, assecondanTimmel, e soprattutto dagli attori. In esso do lo stile scandito, violento della scrittura: trovano posto il passato e il presente del la centralità dell’interiorità di Timmel, del protagonista, l’arte, le osterie, l’ospedale, suo “Io”, fa sì che lo spettacolo sia costruito stazioni del suo “percorso” a cui il pubblico come un percorso, misterioso e affascinanparteciperà “da vicino”. (i.lu.) nto/Sala Bartoli La mostra Vito Timmel, Autoritratto per gentile concessione del Museo Revoltella di Trieste La mostra l’autore, Claudio Magris Durante il periodo dell’allestimento de La mostra, nel 2003, la presenza di Claudio Magris alle prove è stata assidua: l’autore ha osservato con entusiasmo il processo affascinante attraverso cui il suo testo prendeva corpo sulla scena... Un’occasione preziosa in cui si è creata una forte coesione fra l’autore e lo staff artistico e organizzativo impegnato nel progetto, e in cui abbiamo avuto modo di raccogliere alcune riflessioni significative di Magris sulla sua esperienza nel mondo teatrale, che ci sembra ora interessante riproporre. Per quale motivo, per raccontare la storia di Timmel ha scelto la forma teatrale? Il primo motivo, forse meno rilevante, è che Fabio Nieder mi chiese di scrivere assieme un’opera su Timmel, e dunque avrei dovuto concepire La mostra come un libretto d’opera. Dapprima rifiutai, poi questa figura mi rimuginava dentro e ho scritto. Però ognuno di noi è andato per la sua strada e credo che alla fine le nostre opere siano molto diverse: ci siamo reciprocamente debitori per lo scambio d’idee, d’intuizioni. Ci sono invece ragioni più profonde. Intanto credo che uno scrittore, se ha un minimo di autenticità, non scelga mai a priori: fa quello che può. Non ho scelto di scrivere Danubio in quel modo, è nato così: ogni storia nasce indissolubilmente legata alla propria forma. Ci sono poi due tipi diversi di scrittura. Un conto è quando scriviamo un articolo per il giornale, oppure per una ragione politica o morale: quando cioè trattiamo un problema dando un giudizio, sulla base di una visione globale. Tutt’altro è invece se facciamo i conti con certe esperienze nostre o altrui, capaci di provocare pensieri e sentimenti che emergono senza che li controlliamo o analizziamo: non esprimiamo allora le nostre “risposte”, ma le nostre domande. Il teatro è la forma più adatta a dar voce all’elemento che chiamo “notturno”, a questo “fluire della vita” che non raccontiamo per dare un giudizio morale, ma che “ascoltiamo” quasi e registriamo... Una scrittura più dell’anima che della mente? È una scrittura che non nasce da quanto vogliamo dire responsabilmente sul mondo. Sono piuttosto brandelli di vita, di emozioni: per me la forma teatrale è strettamente legata a questa scrittura selvaggia, meno analitica, meno ideologica, più vitale. Espressione delle inquietudini, delle domande che ci si pone quando si è sbattuti faccia a faccia col grado zero dell’esistenza, con la Medusa. Il teatro può testimoniare quel momento, proprio perché gli appartiene l’hic et nunc, in ogni gesto, in ogni battuta, in ogni attimo. Ha potuto seguire la “genesi” dello spettacolo. Come ha vissuto quest’esperienza? Devo dire che mi sono sentito molto capito. Sono intervenuto quando mi hanno chiesto qualcosa, ma non ho sentito mai di dover spiegare. Il testo certo è mio, lo spettacolo però è un po’ mio, un po’ di Calenda, di Herlitzka, di Maranzana. Io agisco da autore, la messinscena è compito loro. Lo stesso mi accade con i traduttori: dò qualche chiarimento, poi il lavoro è loro. Mi riconosco in pieno nell’impostazione dello spettacolo, nelle idee registiche, nel lavoro di Herlitzka che sta interpretando Timmel in modo straordinario, in quello di Maranzana, che ha colto a fondo la parte fra il fraterno e lo scurrile di Sofianopulo. Poi accade che nel corso della messinscena, si scopre sempre qualcosa di nuovo e questo è affascinante. Sono colpito dal fatto che solo per il tono con cui l’attore dice certe cose, il lavoro acquista un ritmo, una dimensione che non solo rende giustizia al testo, ma anche gli dà senso, lo arricchisce... Mentre seguo le prove, sono portato a riandare non solo al libro, ma a qualcosa di più conturbante per me, ed è il momento in cui l’ho scritto, il vissuto che si è metabolizzato nelle pagine de La mostra. C’è allora un’emozione autentica, perché non riguarda la piccola vanità d’autore, ma l’intensità del vissuto. Che cosa l’ha affascinata del Timmel uomo e artista? Più d’ogni cosa mi ha colpito il fatto che Timmel vivesse così intensamente la vita da poterla trovare insostenibile: mi ha affascinato questa sua “regale abdicazione”. È talmente anarchico da non voler nemmeno impegnarsi nella vita, vuole essere “una cosa”. Perciò ho inserito nel testo un “coro di sedie”: a volte si desidera essere oggetti, per non soffrire, per non sentire nulla. Ecco mi colpiscono le persone che “sentono” in modo così intenso, da essere costrette a rinunciare alla vita vera. Timmel arriva a desiderare la schiavitù. Un’aspirazione incondivisibile in cui c’è però qualcosa di molto commovente: una brama di essere bambini, di dipendere, per essere felici... Così in questo “no” alla vita reale, si sente un immenso amore per la vita. Come se per chi ha troppa sensibilità, l’unica soluzione altri percorsi fosse quella di ottundersi: soluzione sbagliata, ma che contiene una grande verità esistenziale. Timmel nel suo “abdicare” non è apatico... La sua vitalità non è quella banale, trionfante e “muscolosa”, ma quella interiore e sempre così insidiata, scalcagnata, minacciata da tutto, da noi stessi, dal mondo di fuori, dalla nostra debolezza fisica e psicologica... In Timmel c’è pure un che di riottoso, quindi la dimensione dell’osteria, dell’amicizia. Invece non è mai rabbioso: mi incanta che cerchi fino all’ultimo di dire che tutto è bellissimo, che l’Ospedale di San Giovanni è meglio di Vienna. Qualche volta ha durezza, protesta, ma in modo nobile, includendo se stesso fra coloro che vorrebbe criticare. Spesso usa nelle sue opere personaggi realmente esistiti. È più difficile operare creativamente su figure storiche? Ho conosciuto poco Sofianopulo, Mascherini invece era un caro amico di mio padre. Più che difficoltà ci può essere un po’ di pregiudizio verso chi scrive di personaggi veramente esistiti. A mio parere, che si scriva di figure reali o inventate, ciò non ha alcuna attinenza col risultato finale: un libro può essere comunque bello, brutto, capolavoro... Da sempre personaggi veri popolano la letteratura e il teatro: ne hanno scritto Schiller, Manzoni, Tolstoj... Un personaggio che ha una collocazione storica pone solo alcuni limiti all’invenzione (Tomizza, ad esempio, non avrebbe potuto dare un lieto fine a Gli sposi di via Rossetti perché si sa che gli sposi furono assassinati), però credo che arte sia anche conciliare libertà con limiti di genere, di forma. Ci sono personaggi che interessano molto per il complesso della loro figura nella storia, e altri che uno prende perché colpito da un dettaglio. Per esempio Sofianopulo, qui, mi interessava proprio per la combinazione positiva di creatività, fraternità, bizzarria anche gigionesca: non c’è la pretesa di raccontare tutto il personaggio. Alla delicata figura di Maria, prima moglie di Timmel è dedicato un commovente canto d’amore espresso attraverso le parole di Euripide. Perché questa citazione? È la storia di Alcesti, che muore affinché il marito viva e della colpa dell’uomo che ne approfitta. Alcesti è simbolo di tutte o molte donne, che hanno vissuto meno, affinché il loro uomo potesse vivere di più. Sento molto questa parte d’ombra... i/Sala Bartoli La citazione d’Euripide avviene pure per altri motivi. Dovevo raccontare una grande figura femminile, un amore immenso e contemporaneamente colpevole, perché mescolato alla debolezza struggente e anche ignobile dell’uomo. È talmente forte in ciò il richiamo ad Alcesti, che sembrava sciocco dimenticarlo. Poi la citazione è anche un argine: forse temevo scrivendo, di essere travolto dall’emotività, poiché nel testo ho metaforizzato cose estremamente e violentemente personali. Infine ritengo che esistano preziose e rare versioni poetiche d’altri, che dicono sulla nostra vita più di quanto possiamo con le nostre parole: è un po’ come la preghiera, per un religioso l’ Ave Maria non è meno forte e personale delle sue proprie parole. Il mio scopo non è suscitare ammirazione per me scrivente, ma che il testo dica ciò che mi sta a cuore. Meglio se una citazione mi aiuta. Usa filastrocche, il dialetto, affastellando frazioni di linguaggio. C’è molta musicalità... Ho pensato molto alla musica. C’è nel testo una babele di linguaggi che rivela lo spappolarsi dell’”Io” di Timmel nella follia. Timmel deve dunque possedere linguaggi diversi, deve parlare alto, sublime, folle, cattivo... Il dialetto è fra questi, e non ha nulla di folclorico, non è espressione calda della familiarità. È inteso come ventre della vita, quando si è messi faccia a faccia con lei. La cultura alta cerca sempre una mediazione, usando un registro stilistico preciso... Per Timmel la vita pone un corto circuito violentissimo fra il sublime e il basso, fra la vita e la morte. È là che il dialetto, distruggendo il decoro, esprime una specie d’infanzia, oppure certe fasi estreme della vecchiaia, dove la vita si riduce all’osso, non ha più mediazioni e procede sul filo fra dipendenza e assoluta libertà. Molte “mediazioni” connotano invece il direttore... All’inizio il direttore era per me un espediente per “tenere assieme” la storia, ma è diventato un personaggio complesso. Da un lato è l’ater ego di Timmel e dunque dell’autore. Ma è anche un uomo retore, come lo siamo tutti quando – a differenza di Timmel che può stare silenzioso, accucciato a terra – dobbiamo “fare”, vivere nel mondo reale. C’è sempre un elemento di compromesso retorico in tutto ciò che facciamo. Il direttore però ha anche la sua nobiltà. Attraverso di lui non intendo certo irridere la critica figurativa o la psichiatria, e men che meno l’opera di Basaglia che ho seguito con passione (del resto proprio assieme a Franco Basaglia, Michele Zanetti e Anita Pittoni pubblicai il Magico Taccuino di Timmel): desidero però ricordare che tutte le cose – perfino queste – hanno un lato un po’compromissorio e retorico. Il direttore dunque deve essere così: ha scadenze, responsabilità, impegni. Io stesso, mentre scrivo un libro, mi sento un po’ falso rispetto qualunque accattone che si presenta in strada senza schermi... Ilaria Lucari La mostra il regista, Antonio Calenda pitando nella follia». Vito Timmel è simbolo di una particolare condizione esistenziale. «Il personaggio di Timmel ha una notevole dimensione teatrale e ci permette di portare in scena una condizione esistenziale molto affascinante: l’incapacità di sopportare la forza dei sentimenti e delle passioni, da cui egli resta quasi accecato, a causa di un’acuita sensibilità. In effetti è di questo tema, che si sostanzia la tragedia: l’impossibilità di affrontare l’incongruenza dell’esistere (un tema che trova forti assonanze con quel filone novecentesco, che a teatro denuncia dolorosamente l’assurdità della vita), l’incapacità di resistere alle proprie inadeguatezze, come pure alle proprie potenzialità... In un estremo tentativo d’autodifesa Timmel vorrebbe essere un oggetto – ci racconta un “coro di sedie”, che l’autore surrealmente inserisce nel testo – senza possibilità di sentire nulla, né gioia né dolore. È significativa una sua splendida battuta: “...un punto, ecco. Io sono un punto, Io è un punto. Un punto non ha estensione, non c’è, non è niente”. Preferirebbe dunque confondersi col resto del mondo percepibile, non essere evidente, “abdicare” per non soffrire la propria limitante condizione. E invece la coglie fino alla fine, fino all’ultimo dei suoi “mille giorni” di reclusione all’Ospedale psichiatrico di San Giovanni (paradossale suggello ad una vita anarchica e randagia): solo la morte lo libererà, facendolo cadere, dissolvere quasi – come gli fa dire Magris – “...in tanti punti luminosi, tanti petali di un sorriso, una margherita che si sfoglia nella notte”». Eppure è profonda la capacità d’amare di Timmel, che per la moglie Maria rivive sentimenti delicatissimi e un dolente senso di colpa, attraverso le parole che Euripide pensò per Admeto… «Si tratta di uno dei momenti più commoventi dello «Un testo che è libretto d’opera, e contemporaneamente commedia surreale, dramma, e letteratura, ma una letteratura in movimento, perché la parola di Claudio Magris sulla scena diventa atto, con forza. Un testo in cui attraverso generi e linguaggi diversi, si dà voce a emozioni struggenti, come a momenti di fantasiosa ironia, e che procede per flash, tasselli di memoria, immagini, sogni, come se il tempo e lo spazio, per questo racconto, non fossero categorie plausibili... La mostra offre induzioni e spazi amplissimi per diventare materia teatrale, e ciò nel momento della messinscena va assecondato, liberando il respiro creativo, la fantasia, la poesia». Antonio Calenda ha amato fin dalla prima lettura La mostra di Claudio Magris, testo che ha regalato grandi soddisfazioni allo Stabile regionale e che a tre anni dal debutto ritrona in tournée nazionale e replica - visto il successo ottenuto nel 2003 – anche a Trieste, nuovamente alla Sala Bartoli in cui è nato. «È stato emozionante allestire La mostra – sosteneva il regista a poche ore dal debutto – innanzitutto perché rappresenta un incontro bellissimo e importante fra il nostro Teatro e un grande autore qual è Claudio Magris. Poi per i talenti e le energie che abbiamo potuto comporre nella compagnia d’interpreti, che ritengo adatta a dar corpo a un progetto inconsueto come questo, e che trova due maestri di rilievo in Roberto Herlitzka e Mario Maranzana» Interpreti che l’hanno seguita lungo linee registiche che si scostano dal naturalismo e che hanno affrontato i personaggi senza rimanere legati a percorsi razionali… «In questo spettacolo, l’irrazionalità (un’irrazionalità pensata, ovviamente) è il fondamento di un sogno che ho voluto gli attori creassero e vivessero assieme al pubblico. È lo stesso autore a sottolineare come per La mostra non sia stato possibile seguire una struttura ipotattica, esprimere una consequenzialità, un mondo di pensieri organizzati secondo logica causalità. Per raccontare Vito Timmel è stato necessario invece ricorrere a una scrittura notturna, vitale, non filtrata. Proprio perché al centro del testo è l’universo interiore del protagonista, ricco d’emozioni, vibrazioni, contraddizioni, animato di ricordi, voci, sogni, dolenze. Lo spettacolo fa propria questa dimensione e si evolve come se ci si inoltrasse nel mistero di una coscienza, nella mente di Timmel, fra le luci e le ombre di un “Io” che sta preci altri percorsi Un merito che va certo riconosciuto all’autore, è poi quello di aver dipinto la follia di Timmel (in un teatro che ha costruito sulla pazzia grandi testi e grandi protagonisti, basti pensare al pirandelliano Enrico IV, ma anche molti stereotipi) con originalità. In tutto il testo non sentiamo mai la caratterizzazione “bassa” della follia: e nel protagonista, potremmo affermare che proprio non c’è follia (almeno secondo le convenzioni a cui siamo abituati). C’è invece una creazione poetica della follia. Il manicomio offre uno sfondo “immanente” a ogni sofferenza e paradossalmente – proprio in quel mondo di dolore e costrizione – Timmel trova una propria plausibilità, una serenità leggera che gli fa vedere bontà e pace in chi popola l’Ospedale di San Giovanni. Interessante è infine la dialettica che si attua fra folli e sani, fra reclusi e coloro che vivono “nel mondo di fuori” – come appare evidente da alcuni scambi di battute fra Timmel e l’amico Sofianopulo: chi appare più matto? Il pittore emarginato Timmel o il direttore del maniconio (e dell’allestimento della mostra pittorica, da cui il testo prende titolo)? Una dialettica che vorrei si estendesse anche fra attori e pubblico». Il pubblico sarà molto coinvolto in questa messinscena, posto a distanza minima dagli attori, quasi “immerso” in una scena concepita per lo spazio raccolto della Sala Bartoli… «C’è un’attinenza “architettonica”, di epoca e di stili fra gli edifici storici dell’Ospedale di San Giovanni e quelli della zona del Politeama Rossetti, gli stessi finestroni di Sala Bartoli... e questo fin dalle prime ipotesi di allestimento mi ha regalato interessanti suggestioni. La messinscena – per il tipo di scrittura e di struttura usate da Magris – non avrebbe potuto rifarsi a canoni realistici: richiedeva invece un forte coinvolgimento del pubblico, ritmi serrati. Sul piano degli spazi, abbiamo lavorato assieme a Pier Paolo Bisleri, che ha creato una scenografia che supera i confini dello “spazio degli attori” e avvince lo spettatore fin dalla sua entrata a teatro. Una galleria infatti lo introduce alle atmosfere de La mostra, fra voci e immagini che troveranno il loro pieno significato nello spettacolo. Che si svolge in una sorta di caverna platonica, uno spazio mentale nero in cui prendono forma le immagini del passato e del presente di Vito Timmel. Un universo stilizzato, in cui lo spazio del passato di Timmel (le osterie, la vita d’artista e di bambino) sfuma in quello del manicomio, in quello del presente (con gli amici che lo piangono, con il direttore che lo ricorda). Uno spettacolo in cui lo spazio degli attori sfuma in quello degli spettatori e si apre violentemente sulla realtà.». (i.lu.) spettacolo, che adombra accenti autobiografici dello stesso autore: come Admeto, Timmel evoca la sua Alcesti perduta, una donna che ha dato senso alla sua vita e al cui ricordo si appiglia con tutte le forze e con grande struggimento. Ma Timmel non è solo Admeto: se vogliamo, si riflette pure in Edipo, che deve conoscere un destino che non riesce ad affrontare. Risonanze meravigliose per noi che facciamo teatro: una moltiplicazione di echi, di chiavi di lettura, di prospettive che rendono il testo mosso e intenso. Tali tensioni drammatiche e liriche – prosegue Calenda – sono spesso interrotte, anche in modo violento, da sciabolate di banalità, da filastrocche e nenie in dialetto (linguaggio riservato soprattutto ai matti ricoverati assieme a Timmel), da altre contaminazioni. Un duro controcanto all’espansione del senso poetico dei protagonisti: tutto ciò ci ha reso possibili decisi momenti di straniamento, ma ci ha imposto anche un sottile lavoro di calibratura... Ognuno di questi tasselli d’espressione infatti deve contribuire in propria misura alla creazione di un universo di sensazioni, che ho ritenuto fondamentale peculiarità de La mostra. Prezioso in questo senso è stato il lavoro di Germano Mazzocchetti che ha ricreato per lo spettacolo un pathos musicale fra echi della tradizione e accenti mitteleuropei» La dimensione della follia ha nel testo uno spazio rilevante… «I matti che circondano Timmel nei “mille giorni” sono uno sfondo tragico e dolente che a volte appare anche stranamente surreale, lieve. Ho chiesto agli attori di non pensare ai cliches della rappresentazione della follia, ma di far sentire – in ogni gesto, nella voce, nell’espressione – la paura e la profonda solitudine della pazzia. i/Sala Bartoli Il Sergente la scheda dello spettacolo In scena, una grande carta geografica e una macchina da scrivere: Marco Paolini – il grande affabulatore del teatro italiano – ha scelto questi strumenti per il suo Il Sergente. Una mappa per pianificare il viaggio e qualcosa per prendere appunti da non dimenticare più. Il viaggio di Marco Paolini è anche quello di un artista che da Il racconto del Vajont a Il Milione, da Parlamento chimico a I-TIGI Racconto per Ustica, ha continuato coraggiosamente ad allargare il respiro delle sue riflessioni: fino a ripercorrere i passi di Mario Rigoni Stern, prendendo ispirazione dallo struggente “Il sergente nella neve”. Il libro, del 1953, è il racconto autobiografico dell’allora sergente Rigoni, impegnato nella sanguinosa campagna di Russia durante il secondo conflitto mondiale. Ambientato nell’inverno 1942-43, affronta uno degli episodi più drammatici nella nostra storia: la ritirata dei soldati attraverso la taiga russa. Una ritirata tragica, assurda, di cui non si parla spesso e che oggi è addirittura difficile immaginare, tanto sono inumani i suoi tratti. Ormai allo sbando e circondati dall’Armata Rossa, i personaggi della vicenda, reali, cercano di sopravvivere, passando da un villaggio all’altro con alterne fortune. Li guida un giovane sergente, l’autore del romanzo. E proprio grazie alla sua sensibilità, conosciamo uomini sconvolti dal conflitto, ma che mantengono fino in fondo la dignità, anche quando la guerra “imbestia”: così il tenente Cenci, molto amico di Rigoni e generoso in battaglia; il caporalmaggiore Moreschi, sempre di buonumore nonostante tutto; Tourn, alpino piemontese che nasconde con allegria la paura; Lombardi, cupo e taciturno; il caporale Pintossi, calmo e flemmatico... piccoli grandi uomini che affrontano un’avventura spesso senza via d’uscita. Per capire meglio questa durissima realtà, Paolini ha compiuto egli stesso un viaggio sul Don, nei luoghi che sono stati teatro degli assurdi eventi culminati nella battaglia di Nicolajewka. Ecco allora che il passato di Rigoni Stern s’intreccia alle attuali impressioni di Paolini, che – con il suo eccezionale carisma, con il suo discorrere inclazante – trae dallo spettacolo una forte invettiva contro ogni conflitto, oltre che l’omaggio doveroso a quegli uomini imprigionati nelle nevi di Russia. Molti morirono: le cronache riportano che la ritirata dell’Armir costò – secondo ottimistiche stime – 75.000 vite... Se il delicato canto di donne che riverbera nel finale dello spettacolo, riaccoglie simbolicamente in Patria il Sergente e chi si è salvato, ecco che l’anelito alla pace che pervade il monologo di Paolini rappresenta forse il più sensato omaggio a coloro che dal Don non hanno fatto ritorno, lasciando sole altre donne altri percorsi/Po 31 gennaio 2 ore e 40’ con intervallo – madri, spose, figlie – destinate ad attenderli per sempre, con speranza, con amore, ma vanamente. «Per Mario Rigoni scrivere è stato un anticorpo alla disumanità» dice l’attore. «Ecco, forse quello che sto cercando è un anticorpo alla disumanità della condizione di spettatore. È un’illusione credere di esser spettatori di una guerra lontana... Senza la coscienza che non puoi “chiamarti fuori”, che se rimuovi questa cosa dalla tua vita, stai già scivolando in una perdita. Mi ritrovo nella voglia di non arrendersi che era di Rigoni e dei suoi alpini, ma non come gesto di eroismo, lui marciava nella neve portandosi in spalla il peso tremendo delle armi. I volantini russi dicevano: italiani, siete a oliteama Rossetti 2 febbraio quattromila chilometri da casa, arrendetevi. Chi si arrendeva all’evidenza della realtà, alla stanchezza, chi rinunciava alle armi che aveva, a oliarle, pulirle e tenerle in efficienza, era finito. Io penso che la democrazia sia la nostra arma, quella che ha bisogno di manutenzione, e la dobbiamo curare. Il Sergente non è un lavoro di denuncia ma non è nemmeno un medicamento per l’anima perché credo che il teatro non possa essere né terapia né antidoto. Penso alla possibilità di attingere all’esperienza e penso che questo serva alla memoria, serva a prepararsi meglio ad affrontare le cose. Un teatro inteso forse come addestramento, come istruzione». Ilaria Lucari Se questo è un uom la scheda di presentazione La riflessione sulla guerra percorre il cartellone del Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia: una riflessione opportuna, poiché il conflitto insano, assurdo che oppone l’uomo all’uomo è dolorosamente presente nel nostro tempo, come se la lezione che ci è offerta dalla storia, non fosse sufficientemente forte e avesse bisogno di essere continuamente richiamata... Da poco è stata celebrata – anche a Trieste, dove purtroppo sorge la Risiera di San Sabba, unico campo di sterminio nazista in Italia – la Giornata della Memoria, e lo spettacolo tratto dal celebre testo di Primo Levi sembra volerne amplificare il monito a non ricadere mai più negli errori di uno dei periodi più bui che l’Europa abbia vissuto. Attraverso l’interpretazione generosa e possente di Nello Mascia e all’impeto di una interessante compagnia di interpreti, dunque, Se questo è un uomo ci invita a non dimenticare l’Olocausto a pensare all’orrore del razzismo, per saperne riconoscere le radici, per non lasciarci più guidare dalla paura della diversità, dalla follia della violenza che infierisce sui deboli e sulle minoranze. Lo spettacolo è diretto dal regista triestino Franco Però, la cui scelta coraggiosa, di portare sul palcoscenico una materia tanto importante ma anche dolente e delicata, è stata preceduta da un attento studio e dalla volontà, di conoscere direttamente i luoghi dello sterminio. Di essi – ricorda il regista – la cosa che prima colpisce è il sistema, quasi “industriale” che li regolava: «Lentamente – scrive infatti – mentre passi da un block al seguente, comincia fisicamente a farsi strada dentro di te, senza il minimo sforzo da parte tua, la scoperta di questa industria della morte. È questa normalità del processo di sterminio che ti sconvolge: come un mostruoso prologo a quel concetto dell’annullamento totale, al cui confronto ti troverai poco dopo, quando guarderai i resti di Birkenau. E passi le camerate, il primo muro delle esecuzioni, le docce. E non occorre arrivare davanti ai primi esempi di forni, per sentire accanto a te, mentre cammini per i viali, in mezzo agli edifici in mattoni rossi, i passi di quella moltitudine scomparsa, annientata. Se alzi gli occhi alle finestre vuote, dopo che avrai camminato e camminato, ti sembrerà di vedere i corpi nudi, torturati, sottoposti ad esperimenti, urlanti od oramai senza voce: annientati ancor prima di una morte che è solo la registrazione di un qualcosa già avvenuto. Solo le parole di autori come Primo Levi hanno la capacità di ridare vita a quell’Inesprimibile, più potentemente di quei piccoli echi che risuonano nella mente di ogni persona che passi per quei luoghi. Ecco, quello che vorrei, è di riuscire ad avvicinare a quelle parole – soprattutto quelle che esplodono dal romanzo, più che dall’adattamento – le immagini, i suoni, le urla e i silenzi che attraversano, loro malgrado, i viandanti di Auschwitz». 10 prosa/Politea mo 1 ora e 20’ senza intervallo Scritto nel 1947, subito dopo il rientro dal lager di Auschwitz, Se questo è un uomo è da annoverare fra le opere più importanti del Novecento, non solo per il suo valore letterario ma per la portata che quanto Levi vi ha scritto ha per l’umanità.Vi risuonano la speranza e la solitudine, la rabbia e lo sgomento di un uomo perfetto, che senza logici motivi, è ridotto a “numero”. Rasati, maltrattati, omologati, marchiati come animali, i prigionieri del campo hanno il compito di lavorare e obbedire; rimane loro l’unico istinto a sopravvivere a tutto... E fra questo “tutto”, fra le inumane atrocità che Levi ha dovuto subire, appare ancor più atroce che la devastazione più profonda sia proprio quella riduzione dell’uomo a “häftling”, “pezzo”. Appaiono allora ancora più forti le parole che egli ci “comanda”: «Voi che vivete sicuri/ nelle vostre tiepide case,/ voi che trovate tornando a sera/ il cibo caldo e visi amici:/ Considerate se questo è un uomo/ ama Rossetti 3 4 FEBBRAIO che lavora nel fango/ che non conosce pace/ che lotta per mezzo pane/ che muore per un si o per un no./ Considerate se questa è una donna,/ senza capelli e senza nome,/ senza più forza di ricordare,/ vuoti gli occhi e freddo il grembo/ come una rana d’inverno (...)». Ilaria Lucari 11 Mario Rigoni Stern lager, nel 1945 riesce a tornare al suo amato Altopiano, ma il reinserimento nella vita civile non sarà facile, i ricordi saranno così difficili da sopportare che per molto tempo non prenderà più tra le mani i fogli scritti in guerra, fogli che successivamente diventeranno testimonianza importantissima. Mario Rigoni Stern è uno dei pochi sopravvissuti alla ritirata di Russia del’43 e uno dei pochi ad aver reso un’immagine fedele della profonda prostrazione mentale e fisica dell’uomo che è stato vittima di uno dei più atroci disastri mondiali. Doloroso, ma allo stesso tempo delicato è il suo primo breve racconto “La scure”, inserito in “Ritorno sul Don” nel 1973 e dedicato a Primo Levi, ma già alla fine degli anni Sessanta aveva scritto il soggetto e collaborato alla sceneggiatura de “I recuperanti”, film girato da Ermanno Olmi sulle vicende delle genti di Asiago all’indomani della Grande Guerra. Oltre alla regolare pubblicazione di opere narrative, negli anni Settanta comincia a collaborare con La Stampa e si dedica a letture e studi storici. Il suo lavoro più importante e il suo libro più famoso è proprio “Il Sergente nella neve”, nato da quei fogli scritti all’interno dei lager tedeschi e per tanto tempo dimenticati in un angolo di casa. In questo libro ripercorre i giorni più importanti della sua vita, con misurato orgoglio racconta che da semplice sergente si è ritrovato improvvisamente responsabile delle vite di molti uomini per poi essere catturato dai tedeschi sulla strada del ritorno. Dopo “Il Sergente nella neve” sono seguiti dieci anni di silenzio a cui sono succeduti i racconti naturalistici: da sempre, infatti l’essenza delle sue opere sta nel profondo legame tra Memoria e Natura che, sia pure con modalità ed intensità differenti si intrecciano di continuo. I testi di Mario Rigoni Stern sono sempre stati accolti dal pubblico e dalla critica in maniera entusiastica, molte sono state le collaborazioni a testi storici di primo livello tra cui è doveroso ricordare uno degli ultimi “1915-1918. La guerra sugli Altipiani. Testimonianze di Soldati al fronte” curato assieme all’attuale Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi nel 2000. La vita di Mario Rigoni Stern è iniziata nel modo più comune per un ragazzo nato nella provincia vicentina negli anni ’20: famiglia numerosa, di tradizione commerciale, che si occupava della vendita di prodotti delle malghe alpine. Un’infanzia vissuta a stretto contatto con la comunità asiaghese, tra i pastori e la gente di montagna. Da giovane ha frequentato la scuola di avviamento al lavoro e faceva il garzone nel negozio dei genitori. All’età di diciott’anni, quando si arruola volontario alla scuola militare d’alpinismo di Aosta la guerra sembrava essere ancora lontana, ma non era così e la vita del giovane Rigoni Stern prende ben presto una direzione molto diversa da quello che si aspettava. Dal 1939 è impegnato in prima persona come soldato, combatte sul fronte occidentale con mille dolori e travagli per poi affrontare quello albanese e quello russo, drammatico e sconvolgente. Sotto i suoi occhi e sopra la sua pelle le tragiche vicende della Seconda Guerra Mondiale lo travolgono: la ritirata dalla Russia del 1943, l’abbandono dei compagni stremati nella neve e la deportazione nei lager sono esperienze umane tragiche e orribili che segneranno Mario Rigoni Stern come dei marchi a fuoco: dolorosi quanto indelebili nel tempo. Fortunatamente, dopo più di due anni di prigionia nei 12 prosa/Politea Primo Levi Primo Levi nasce il 31 luglio 1919 a Torino, di origine ebraica, la sua infanzia è contrassegnata oltre che da una salute cagionevole anche da una certa solitudine in cui mancano i tipici giochi dei bambini. Nel 1934 si iscrive al Ginnasio - Liceo D’Azeglio di Torino, istituto noto per aver ospitato docenti illustri e oppositori del fascismo come Augusto Monti, Franco Antonicelli, Umberto Cosmo, Norberto Bobbio e Cesare Pavese. Si dimostra un eccellente studente, uno dei migliori, grazie alla sua mente lucida ed estremamente razionale. A questo si aggiunga, come poi dimostreranno i suoi libri, una fantasia fervida e una grande capacità immaginativa, tutte doti che gli permettono di brillare sia nella materie scientifiche che letterarie. Ma la sua predilzione si manifesta per la chimica e la biologia, infatti dopo il diploma si iscrive alla Facoltà di Scienze. Si laurea con lode nel 1941, ma la dicitura “Primo Levi, di razza ebraica” sarà un particolare che gli peserà tutta la vita e che commenterà così: “le leggi razziali furono provvidenziali per me, ma anche per gli altri: costituirono la dimostrazione per assurdo della stupidità del fascismo. Si era ormai dimenticato il volto criminale del fascismo (quello del delitto Matteotti per intenderci); rimaneva da vederne quello sciocco”. Nel 1942, mentre la guerra attanaglia tutta l’Europa e i nazisti entrano sul suolo italiano è costretto a trasferirsi a Milano per ragioni di lavoro. Nel 1943 si rifugia sulle montagne sopra Aosta, unendosi ad altri partigiani, venendo però quasi subito catturato dalla milizia fascista. Un anno dopo si ritrova internato nel campo di concentramento di Fossoli e successivamente deportato ad Auschwitz. Viene liberato il 27 gennaio 1945 in occasione dell’arrivo dei Russi al campo di Buna-Monowitz, anche se il suo rimpatrio avviene solo nell’ottobre successivo. Questa orribile esperienza è raccontata con dovizia di particolari, ma anche con un grandissimo senso di umanità, di altezza morale e dignità, nel romanzo-testimonianza, “Se questo è un uomo”, pubblicato nel 1947, inestinguibile documento delle violenze naziste, scritto da un uomo di limpida e cristallina personalità. In un’intervista concessa poco dopo la pubblicazione (e spesso integrata al romanzo), Primo Levi afferma di esse- ama Rossetti re disposto a perdonare i suoi aguzzini e di non provare rancore nei confronti dei nazisti. Ciò che gli importa, dice, è solo rendere una testimonianza diretta, allo scopo di fornire un contributo personale affinchè si eviti il ripetersi di tali e tanti orrori. Nel 1963 Levi pubblica il suo secondo libro “La tregua”, cronache del ritorno a casa dopo la liberazione (il seguito del capolavoro “Se questo è un uomo”), per il quale gli viene assegnato il Premio Campiello. Altre opere da lui composte sono: una raccolta di racconti dal titolo “Storie naturali”, con il quale gli viene conferito il Premio Bagutta; una seconda raccolta di racconti, “Vizio di forma”, una nuova raccolta “Il sistema periodico”, con cui gli viene assegnato il Premio Prato per la Resistenza; la raccolta di poesie “L’osteria di Brema” e altri libri come “La chiave a stella”, “La ricerca delle radici”, “Antologia personale” e “Se non ora quando”, con il quale vince per la seconda volta il Premio Campiello. Infine scrive nel 1986 un testo dall’emblematico titolo “I Sommersi e i Salvati”. Primo Levi muore suicida l’11 aprile 1987, probabilmente lacerato dalle strazianti esperienze vissute e dal quel sottile senso di colpa che talvolta, assurdamente, si ingenera negli ebrei scampati all’Olocausto: di essere cioè “colpevoli” di essere sopravvissuti. 13 il Rossetti News DAL 31 GENNAIO al 2 febbraio 2006 - Pol. ROSSETTI Jolefilm presenta 31 Il Sergente a Mario Rigoni Stern con Marco Paolini PLATEA A Interi PLATEA B Interi PLATEA C Interi GALLERIE Interi € € € € 28,00 25,00 20,00 15,00 2* PLATEA A Under 25 2* PLATEA B Under 25 1* PLATEA C Under 25 1* GALLERIE Under 25 € € € € 23,00 20,00 16,00 12,00 DAL 1° AL 5 febbrAIO 2006 - SALA BARTOLI La mostra di Claudio Magris regia di Antonio Calenda con Roberto Herlitzka e con la partecipazione di Mario Maranzana Interi € 15,00 1* Ridotto Under 25 € 12,50 Abb. Prosa € 7,50 DAL 3 AL 4 febbrAIO 2006 - POLITEAMA ROSSETTI Apas Produzioni diretta da Sebastiano Calabrò presenta MERCOLeDÌ 1 gioveDÌ 2 FEBBRAIO venerdÌ Se questo è un uomo di Primo Levi regia di Franco Però con Nello Mascia PLATEA A-B Interi € 20,00 1* PLATEA A Under 25 € 17,00 PLA C/GALL Interi € 12,00 1* PLA C/GALL Under 25 € 10,00 DALl’8 AL 19 febbraio 2006 - SALA BARTOLI 3 FEBBRAIO SABATO Teatroinaria stanzeluminose presenta 4 Muratori FEBBRAIO € 12,50 9 febbrAIO 2006 - POLITEAMA ROSSETTI Azalea Promotion presenta DOMENICA 5 FEBBRAIO Roberto Vecchioni in concerto PLATEA A-B-C Int € 34,00 I GALLERIA Interi € 28,50 II GALLERIA Interi € 23,00 GENNAIO FEBBRAIO Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia presenta di Edoardo Erba regia di Massimo Venturiello con Nicola Pistoia, Paolo Triestino, Eleonora Vanni Posto unico Interi € 15,00 1* Under 25 MARTEDÌ PLATEA A-B-C Abbonati€ 31,00 I GALLERIA Abbonati € 25,00 II GALLERIA Abbonati € 20,50 20.30 POLITEAMA - altri percorsi Il Sergente a Mario Rigoni Stern 20.30 POLITEAMA - altri percorsi Il Sergente a Mario Rigoni Stern 21.00 SALA BARTOLI - fuori abbonamento La mostra di Claudio Magris 20.30 POLITEAMA - altri percorsi Il Sergente a Mario Rigoni Stern 21.00 SALA BARTOLI - fuori abbonamento La mostra di Claudio Magris 20.30 POLITEAMA - altri percorsi Se questo è un uomo di Primo Levi 21.00 SALA BARTOLI - fuori abbonamento La mostra di Claudio Magris 20.30 POLITEAMA - altri percorsi Se questo è un uomo di Primo Levi 21.00 SALA BARTOLI - fuori abbonamento La mostra di Claudio Magris 17.00 SALA BARTOLI - fuori abbonamento La mostra di Claudio Magris LUNeDÌ 6 FEBBRAIO 11 e 12 febbrAIO 2006 - POLITEAMA ROSSETTI Associazione Rudolf Nureyev presenta Giselle con il Ballet de Camaguey (Cuba) PLATEA A-B Interi € 37,00 3* PLATEA A-B Under 25 € PLATEA C Interi € 32,00 2* PLATEA C Under 25 € I GALLERIA Interi € 26,00 2* I GALLERIA Under 25 € II GALLERIA Interi € 22,00 1* II GALLERIA Under 25 € LOGGIONE Interi € 7,50 marteDÌ 30,00 26,00 21,00 16,00 Compagnia della Rancia presenta 42,00 36,00 29,00 20,00 7,50 3* PLATEA A-B Und 25 € 2* PLATEA C Under 25 € 2* I GALLERIA Under 25 € 2* II GALLERIA Under 25 € 8 FEBBRAIO Tutti insieme appassionatamente € € € € € FEBBRAIO mercoleDÌ DAL 15 AL 19 FEBBRAIO 2006 - POLITEAMA ROSSETTI PLATEA A-B Interi PLATEA C Interi I GALLERIA Interi II GALLERIA Interi LOGGIONE Interi 7 34,00 27,00 22,00 16,00 gioveDÌ 9 FEBBRAIO 08.30 Apertura pren. “abbonamenti con le stelle” per “Edoardo II”, “La lunga vita di Marianna Ucria”, “Paolo Borsellino. Essendo Stato”, “The tribute to the Blues Brothers”. Prevendita biglietti da giovedì 9 febbraio. 21.00 SALA BARTOLI - altri percorsi Muratori di Edoardo Erba 21.00 POLITEAMA - fuori abbonamento Roberto Vecchioni in concerto 21.00 SALA BARTOLI - altri percorsi Muratori di Edoardo Erba 21 febbrAIO 2006 - POLITEAMA ROSSETTI Teatro Segreto VENERDÌ Paolo Borsellino. Essendo stato testo e regia di Ruggiero Cappuccio con Massimo De Francovich PLATEA A-B Interi € 20,00 1* PLATEA A Under 25 € 17,00 PLA C/GALL Interi € 12,00 1* PLA C/GALL Under 25 € 10,00 sabato 25 e 26 febbrAIO 2006 - POLITEAMA ROSSETTI 11 Marco Borelli presenta Roberto Bolle & Friends galà di danza con Roberto Bolle e con étolies internazionali PLATEA A-B Interi € 55,00 4* PLATEA A-B Under 25 € PLATEA C Interi € 46,00 3* PLATEA C Under 25 € I GALLERIA Interi € 36,00 3* I GALLERIA Under 25 € II GALLERIA Interi € 28,00 2* II GALLERIA Under 25 € LOGGIONE Interi € 10,00 10 FEBBRAIO FEBBRAIO 44,00 37,00 29,00 20,00 domenica 12 FEBBRAIO 21.00 SALA BARTOLI - altri percorsi Muratori di Edoardo Erba 20.30 POLITEAMA - danza & dintorni Giselle con il Ballet de Camaguey (Cuba) 21.00 SALA BARTOLI - altri percorsi Muratori di Edoardo Erba 16.00 POLITEAMA - danza & dintorni Giselle con il Ballet de Camaguey (Cuba) 17.00 SALA BARTOLI - altri percorsi Muratori di Edoardo Erba Mario Maranzana presenta “All’ombra di Mozart” in Sala Bartoli Per celebrare il 250mo anniversario della nascita di Wolfgang Amadeus Mozart, venerdì 4 febbraio, alle ore 17 il Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia ha organizzato alla Sala Bartoli un appuntamento che incontrerà l’interesse di molti: Mario Maranzana leggerà la commedia di sua creazione “All’ombra di Mozart. - Le avventure di Lorenzo Da Ponte: dalla corte di Vienna a New York, passando per Trieste”. Lorenzo Da Ponte fu librettista di “Don Giovanni”, “Nozze di Figaro” e “Così fan tutte”, nella commedia è anche raccontato il legame con la città di Trieste dove ha incontrato la moglie e dove ha portato in scena con successo una sua opera al Teatro “S. Pietro”, oggi Teatro “G. Verdi”. L’ingresso è gratuito. Addio, caro Andrea Orel. diretto da Antonio Calenda “Trieste a Teatro” Periodico del Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia www.ilrossetti.com/triesteteatro.asp Anno XV - numero 125 - 1 febbraio 2006 redazione Viale XX Settembre, 45 - 34126 Trieste tel. 040-3593511 fax 040-3593555 www.ilrossetti.it e-mail [email protected] Autorizz. Tribunale di Trieste n° 846 del 30.7.1992 stampa Stella Arti Grafiche,Trieste direttore responsabile Stefano Curti redazione Ilaria Lucari, Ivis Lasagna La prematura scomparsa di Andrea Orel priva il mondo del teatro del talento e della passione generosa di un giovane e bravo artista. Attore, autore, regista Andrea Orel ha amato e frequentato il teatro da protagonista fin da ragazzo e spesso è stato applaudito sul palcoscenico del Teatro Stabile del FriuliVenezia Giulia, dove tutti lo ricordano con profonda commozione. Ne “I Turcs dal Friul” per la regia di De Capitani, nell’ “Amleto” diretto da Calenda, nel divertente e recente “Sonno” di Enrico Luttmann ha offerto la sua professionalità e il suo bellissimo, contagioso entusiasmo. La redazione di “Trieste a Teatro” – di cui Andrea Orel è stato fra i primi collaboratori – piange la perdita di un grande e prezioso amico. Adolfo Levier (Trieste, 1873-1953) - Caffè all’aperto, 1910 - olio su tela, cm 65x92 il colore del benessere sociale Non può esserci stabile ricchezza economica senza ricchezza spirituale. In qualsiasi ambito siano rivolti – dalla sanità allo sviluppo economico, dalla scienza alla cultura, all’arte, al tempo libero – gli interventi della Fondazione sono sempre caratterizzati da concreto impegno verso la collettività. In una società evoluta sono modulazioni che arricchiscono di felici tonalità il colore del benessere sociale.