CITYHOPPERS
Da una città all’altra
Weller60
http://blog.alice.it/weller60
Horst et Dom
Horst si pulì gli occhiali tondi e spessi con un fazzoletto tirato fuori da un
taschino della tuta. Il traffico dell'autostrada cittadina scorreva sopra di loro, come
ogni giorno a Breitenbachplatz, West Berlin. Eppure, lì sotto il rumore giungeva
attutito, case grigie e gialle ordinate accanto ad alberi e piste ciclabili, BMW e
Mercedes al loro posto, parcheggiate in fila. A Horst non piaceva tanto quel
quartiere anonimo, nel sud della città, lui preferiva Kreuzberg, si adattava di più
alla sua indole casinista e cosmopolita, al suo orecchino, al suo pizzetto e
all'immancabile giubbotto di pelle nera. Kreuzberg, coi suoi palazzi cadenti, gli
spiazzi desolati, le rovine della seconda guerra mondiale ben visibili dietro il muro
multicolore. Turchi e alternativi dappertutto, strade dove non si leggeva nemmeno
una parola di tedesco, locali malfamati, ma almeno era un posto vivo, Cristo. La
giornata era gelida, ma il peggio dell'inverno era alle spalle, ormai, le giornate
incominciavano finalmente ad allungarsi, e Horst non sentiva più quella
sensazione di freddo al culo quando girava con l'autoattrezzi del suo garage.
Presto avrebbe potuto riprendere la moto per andare al lavoro, la sua splendida
BMW che lo aveva portato giù, al sud, così tante volte. Il sud, qualsiasi fosse,
Italia, Spagna, Marocco, Turchia, lui lo adorava. Pensava sempre di andare a vivere
giù, magari a Formentera, come aveva fatto una delle sue ex. Horst si risvegliò dal
suo sogno di palme e scogliere su mari turchesi, scrollò i lunghi e disordinati
capelli biondi e guardò di nuovo la defunta Citroen 2CV con targa francese, come
cazzo ha fatto questa ad arrivare fino qui, pensò, poi si voltò verso la donna
bruna che fumava nervosamente sul marciapiede: "Madame, your car is kaputt",
tuonò con la sua voce baritonale. La donna si scosse, come fulminata, e lo
guardò. Il nervosismo fu sostituito da un'aria stanca, desolata. Gli occhi le si
colmarono di lacrime ed incominciò a singhiozzare disperatamente. Horst le si
avvicinò, un po'imbarazzato, la sua sagoma era veramente imponente rispetto al
fisico minuto della francesina. La osservò un po' più attentamente, mentre
allargava le braccia senza sapere che fare. Magra, più giovane di quello che
pensava, capelli a caschetto scuri, occhi verdi profondi, una lunga cicatrice sotto
la mascella, sottile e ancora rossa. Operata da poco, pensò Horst, che aveva
esperienza di ospedali per i suoi incidenti in moto:
"Madame, is it OK? Ha bisogno di qualcosa?"
"okkey, ca va, c'est rien, excusez moi..." La ragazza tirò su con il naso e guardò
l'omaccione che se ne stava lì, interdetto.
"Do you speak English? Devo portare la sua macchina in officina, signora. Non è
molto lontana da qui. Ha un problema serio, non posso ripararla qua.You
understand? Madame?"
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"Va bene, sì, capisco. Je comprend ce qui vous dites. Scusi, il mio inglese... Ma ho
capito."
La ragazza si soffiò il naso con un fazzoletto, si era un po' calmata. Silenziosa,
stette ad osservare Horst che caricava la sua 2CV bianca sul camioncino. Il
tedesco le fece posto sul camioncino e andò al posto di guida. Il motore tossì un
po' prima di partire, Horst sorrise un po' impacciato e incominciò a guidare. Il
viaggio fu effettivamente breve, attraverso il quartiere anonimo. La neve era
ancora presente ai lati delle strade, il cielo grigio. La ragazza guardava fissa
davanti, Horst ogni tanto la sbirciava, incuriosito. Percorsero il tragitto senza una
parola. La piccola autorimessa era situata in un traversa di Schlosstrasse, a
Steglitz. Al loro arrivo, un uomo tarchiato, scuro in volto si avvicinò:
"Horst, dov'eri? Ho dovuto mandare fuori Lars con l'altra macchina. Siamo pieni di
lavoro, lo sai."
"Kemal, non scocciare, fra un po' smonto comunque. Guardiamo questa macchina
e poi me ne vado. Devo andare a prendere mio figlio, lo sapevi."
Kemal allargò le braccia, con aria esasperata
" E la Mercedes? Il proprietario mi ha già telefonato tre volte oggi. Dobbiamo
finirla entro stasera.."
"Chiama quel segaiolo di Tomas. Oggi non resto, te l'ho già detto. Poi devo
guardare anche questa 2CV, ha un problema serio al carburatore."
Kemal borbottò qualcosa in turco. Battaglia vinta, pensò Horst sorridendo. I due
scaricarono la macchina francese, incuranti della ragazza che era scesa da sola, e
osservava la scena silenziosamente, senza capire una parola. Dopo un po' di
lavoro, Horst finalmente la chiamò.
"Madame, venga qua per favore. Sì, ecco, dobbiamo sostituire un po' di pezzi. Non
le costerà molto, è assicurata, vero? Però non possiamo ripararla subito, dovrà
aspettare fino a domani. Vuole che le chiamo un taxi?"
La ragazza lo guardava con aria affranta, non piangere di nuovo, per piacere,
pensò Horst, poi gli porse un bigliettino spiegazzato.
Horst guardò il foglietto, aggrottando la fronte:
"Marburger Strasse.... Deve andare là, Madame? Vuole che le chiamo un... oh, al
diavolo, va bene, va bene. La accompagno io, OK? E' in centro, vicino al KaDeWe.
La porto io...fra un po'. Alles klar. Deve aspettare un po', però."
La ragazza aveva capito, sorrise, gli occhi cambiarono espressione un attimo, bel
sorriso francese, pensò Horst, e distolse lo sguardo. Rientrò nel garage, senza
parlare. Kemal lo stava già chiamando:
"Horst, vieni qua, dobbiamo sbrigarci."
La macchina di Horst, una vecchia BMW color nocciola, era piena di giocattoli,
cartacce di merendine, cassette sparse. Horst guidava verso Nord, al suono di una
canzone di Neil Young che usciva dagli altoparlanti del suo car stereo, il traffico si
intensificava man mano che si avvicinavano verso Ku'damm, il cuore pulsante di
Berlino Ovest, la vetrina dell'Occidente, artificiale simbolo del "bene" circondato
dal deserto dell'altro Impero. La ragazza aveva preso il suo unico bagaglio, un
grande borsone di tela militare che il meccanico aveva stipato a fatica nel
portabagagli dell'auto, tra cianfrusaglie assortite.
"Da dove viene?" Horst era riuscito finalmente a chiedere.
"Parigi" , fu la laconica risposta della donna.
"Parigi", mormorò il tedesco.
Arrivarono a destinazione, finalmente, una piccola strada dove si affacciavano
palazzi nuovi che sembravano già vecchi, i negozi erano chiusi, era l'ora di
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passaggio in cui i passanti si diradavano e la seconda vita della città non era
ancora incominciata. Si fermarono davanti ad un portone, il numero civico
corrispondeva con quello del biglietto. Horst tirò fuori il borsone e lo porse alla
ragazza.
"Le lascio il biglietto con il numero dell'officina, ci chiami domani a mezzogiorno.
Chieda di me, mi chiamo Horst Konrad, è scritto sul biglietto."
"Horst...Konrad. Je vous remercie, io mi chiamo Dominique. Grazie."
La ragazza porse la mano e regalò a Horst un secondo sorriso, un po' più lungo.
L'omone strinse imbarazzato la mano tiepida di Dominique, la salutò e si voltò
verso la macchina. Mentre si allontanava, vide dallo specchietto retrovisore la
ragazza suonare al citofono del portone. Scosse la testa. Strana giornata. Sono in
ritardo, devo andare a prendere Jorgen, chissà quanto tempo ci metterò a tornare
a casa.
"Zuruck bleiben..."
La voce risuonò meccanica, le porte della metropolitana si richiusero ed il viaggio
sulla linea 6 della U-bahn incominciò, dal nord al sud della città. Horst lasciò
cadere la borsa sportiva sul pavimento e si sedette sul sedile, dolorante. Non
avrebbe dovuto giocare quella sera, era passato troppo poco tempo
dall'infortunio, ma che diavolo, si vive solo una volta. Era il veterano della
squadra, doveva esserci, voleva esserci quella sera. Il basket era la sua prima
passione, meglio della moto. Non ce la faceva più ad inseguire gli avversari
sempre più giovani e veloci, il ginocchio gli faceva un male del cazzo, ogni volta
che andava ai rimbalzi sotto canestro il dolore lo artigliava per trattenerlo al
terreno, ma anche quella partita era andata, pensò. Però era l'ultima stagione. Lo
aveva detto anche l'anno prima, ma non ce la faceva a smettere. E poi, AbdulJabbar ancora giocava nei Lakers, no? Horst si infilò le cuffiette del suo walkman,
la cassetta partì con una vecchia canzone degli Allman Brothers, chitarre sudiste a
tutto spiano. Che aggeggi portentosi, pensò, sorrise e si lasciò andare sul sedile,
mentre il treno percorreva il lungo tratto buio sotto Berlino Est, passando per le
stazioni abbandonate senza fermarsi, fino a Friederich Strasse, e poi giù, verso
Koch Strasse nel settore americano. La carrozza era semivuota, una coppia punk
si sbaciucchiava un po' più in là, orecchini e borchie dappertutto, capigliature erte
dai colori sgargianti su vestiti neri. Horst sbirciò i due ragazzi, poi volse lo
sguardo fuori dal finestrino, verso le banchine della fermata. Ebbe un moto di
sorpresa, quando vide una figura familiare che si aggirava nella stazione desolata.
Dominique trascinava stancamente il suo borsone, lo sguardo fisso in avanti,
avviandosi verso l'uscita. Barcollava, quasi. "Ma dove va... madame!". Horst
raccolse la sua roba e si catapultò verso la porta del vagone che si stava
chiudendo. La borsa si impigliò nella maniglia quando lui era già fuori, inciampò
ma restò in piedi, liberò la borsa con uno strattone ed il treno partì. Era fuori,
sulla banchina. "Scheisse!", gridò, mentre una fitta al ginocchio lo fece piegare in
avanti. I suoi occhi lacrimarono per il dolore improvviso. "Ginocchio di merda",
mormorò, prese fiato e si incamminò zoppicando. Una vecchia signora lo guardò
con disapprovazione. Riuscì ad arrivare vicino alla ragazza che stava per prendere
la scala mobile, lei lo sentì e si voltò. Era spettinata, aveva un'aria trasandata, ed
ebbe un moto di sorpresa nel vedere l'omone che incombeva su di lei.
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"Madame, sono il meccanico, mi riconosce? Doveva chiamare ieri, l'abbiamo
cercata....La sua macchina é pronta. Tutto a posto? Ha qualche problema?
Madame?"
Dominique non rispose, i suoi occhi erano vuoti. Poi sorrise debolmente:
"Ah, già, la macchina. Mi scusi, verrò a prenderla domani... A demain. Grazie..."
"Aspetti, dove va?"
"Non.. non lo so. Credo di essermi persa..."
"Se vuole tornare a casa le conviene prendere la U-Bahn. "
"A casa, a casa.... Non c'è nessuno lì, mio fratello è partito. Non ho nemmeno le
chiavi...". La ragazza stava per mettersi a piangere.
"Ha un posto dove andare?"
La ragazza scosse la testa. Che casino, pensò Horst. E mi devo sbrigare, se no
perdo l'ultimo treno, accidenti a me.
"Se vuole le indico un albergo... qua vicino, ecco sì, adesso mi ricordo, è appena
fuori dalla prossima stazione..."
"J'ai plus d'argent" mormorò Dominique, con vergogna. Niente più soldi. Horst era
imbarazzato, non sapeva che fare. Poi si riscosse:
"Oh, al diavolo..." Disse a se stesso. "va bene, va bene... per stasera la posso
ospitare io, se non le dispiace. Non abito molto lontano da qui. Domani cercherà
un posto dove andare."
Non era la prima volta che Horst ospitava perfetti sconosciuti, nel passato aveva
addirittura vissuto in una comune, dove la gente andava e veniva continuamente.
Era un ritorno al passato, dopotutto. Anche Charlotte, sua moglie, aveva dei
trascorsi hippy. Avrebbe protestato un po', ma poi avrebbe accettato. Dominique
sembrava incerta, diffidente.
"Devo prendere l'ultimo treno, passa tra poco. Cosa vuole fare, allora?"
Dominique annuì, finalmente:
"Merci", disse sottovoce. A Horst scappò un sorriso di soddisfazione. Chissà
perchè, si sentiva contento.
"Bene, venga allora. Dobbiamo prendere l'U-Bahn".
I due si riincamminarono verso la banchina deserta, un po' distanti.
La grande stanza era quieta, luminosa nel mattino soleggiato. Horst entrò
zoppicando, aprì una delle ampie finestre e respirò l'aria pungente. Preparò il
caffè con gesti lenti e precisi, se ne versò un po' su una tazza e si sedette sulla
poltrona dal rivestimento liso. Guardò il divano dove Dominique era ancora
addormentata, mentre teneva la coppa con le due mani, aspettando che il caffè
fumante si intiepidisse. A lui non piaceva troppo caldo, amava sorseggiarlo
lentamente. Charlotte era già uscita per accompagnare Jorgen a scuola, per poi
andare al lavoro. Non aveva protestato troppo per l'ospite inatteso e sconosciuto,
altre volte si erano trovati in situazioni simili, amici di passaggio, bisognosi di un
riparo per qualche notte, a volte semplici sconosciuti che portavano i saluti di
qualche loro conoscente sparso in giro per il mondo. Una volta un tale Christian,
conosciuto durante un viaggio in Spagna si era stabilito a casa loro per più di un
mese. Passava i giorni a suonare la sua chitarra, si era reso anche utile come
babysitter, poi era sparito all'improvviso, lasciando una lettera di saluto e un
giocattolo di legno per il bambino. Qualche settimana dopo era arrivata una sua
cartolina dall'India, che era stata attaccata al muro insieme alle loro foto, ai
disegni di Jorgen e ai quadri pieni di colore di Charlotte. Niente lavoro per quel
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giorno, Horst era riuscito a strappare a Kemal un turno di riposo, dopo molte
settimane di trattative, e una sequela di prediche e lamenti in turco ed in tedesco.
La ragazza si mosse leggermente, e si rigirò. Donna difficile, pensò Horst, aveva
detto il minimo indispensabile per non essere scortese, aveva ringraziato
Charlotte con il suo splendido sorriso impenetrabile e si era subito preparata per
la notte. Non sembrava povera, nonostante il suo aspetto dimesso. Dal suo
borsone aveva tirato fuori un pigiama che sembrava acquistato in qualche
boutique francese o italiana, ed una serie di cosmetici ed oggettini da toilette che
Charlotte aveva notato con sorpresa ed un po' di malcelata invidia. Finalmente
Dominique incominciò a svegliarsi. Horst continuava ad osservarla, non vedeva
l'ora di scambiare qualche parola con lei per conoscere un po' la sua storia, e
perchè mai una francesina così sofisticata fosse finita lì, in una metropoli fredda
del Nord, apparentemente senza un soldo. Niente American Express, madame?
Niente amici? Niente famiglia? Aveva detto qualcosa di un fratello che era sparito,
gli sembrava. La ragazza, finalmente, si alzò, e si guardò intorno con gli occhi
semichiusi, mentre si levava i capelli dal viso. Horst mormorò "morgen",
Dominique finalmente lo notò, e sembrò ricordarsi dove si trovava. L'uomo si alzo
e le si avvicinò:
"Vuole un caffè?"
Dominique fece un cenno di assenso, senza dire niente, ancora un po' stordita. La
tazza fu nelle sue mani in un attimo, e lei si risedette sul divano. Horst tornò alla
sua poltrona e si preparò una sigaretta con cartina e tabacco, silenziosamente.
Aspettò che la ragazza dicesse qualcosa.
"Dov'è sua moglie? E suo figlio?"
"Sono già usciti. io sono rimasto a casa perchè oggi non devo lavorare. Le dispiace
se fumo?"
"No, faccia pure. E' casa sua, no?"
Dominique sorrise timidamente. Horst si accese la sigaretta ed aspirò un paio di
boccate.
"Ne vuole una?"
"No grazie, prendo una delle mie."
I due stettero silenziosi per un po'.
"Vuole che oggi la accompagno a prendere la sua macchina?"
"Mi dispiace, ma non posso pagare ora. Non so... Vorrei fare una telefonata... Per
farmi mandare i soldi..."
"In Francia? Keine probleme. Mi scusi se glielo chiedo, l'hanno derubata? Vuole
che la accompagni alla polizia o al suo consolato?"
"Non so, non so proprio." Dominique scosse la testa, desolata. Horst non disse
niente per un po', concentrandosi sul fumo che usciva dalla sigaretta. Dopo un
po', all'improvviso, la francese incominciò a parlare, con voce bassa, senza
guardarlo, e raccontò. Raccontò di un pomeriggio estivo in Normandia, di una
festa di matrimonio. Del viaggio di ritorno con i suoi anziani genitori. Suo padre
aveva voluto guidare la vecchia Renault, sua madre si era opposta, ma lei, un po'
brilla, l'aveva lasciato fare, ridendo. E l'incidente con il camion sulla strada di
campagna, che aveva preso la vita di papà e mamma, gliel'avevano raccontato al
suo risveglio in ospedale, due giorni dopo. Si indicò la cicatrice sotto il mento,
forse col tempo sarebbe sparita, le avevano detto. Dopo qualche settimana, al suo
ritorno a casa, aveva scoperto che i debiti avevano mangiato tutto il loro
patrimonio. Rimaneva solo la villa di famiglia in Normandia, doveva venderla per
potersi sostenere. Ma doveva accordarsi con Alain, suo fratello, la villa era anche
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sua. Alain era sempre stato inquieto, ribelle. Il padre era riuscito a convincerlo a
intraprendere la carriera militare, la prima destinazione era stata Berlino, nel
settore francese. Alain aveva conosciuto una ragazza lì, e aveva allentato i contatti
con la famiglia. Non telefonava più, non scriveva, non era nemmeno venuto ai
funerali. L'aveva incolpata dell'incidente, e non voleva saperne di regolare la
faccenda della vendita. Dopo tante telefonate rabbiose, Dominique aveva deciso di
incontrarlo a Berlino. Era partita con pochi soldi, in macchin, doveva attraversare
la Germania Est e entrare a Berlino Ovest. Alla dogana, i Vopos avevano trovato
qualcosa che non andava con i documenti e l'avevano trattenuta. Era riuscita a
passare pagando una multa che aveva prosciugato tutti i suoi risparmi. E non era
riuscita a trovare Alain. Horst ascoltò il racconto, fumando, con gli occhi
semichiusi. Quando la ragazza finì il racconto, stette in silenzio per un po'. Non
c'erano rumori, si sentì un uccellino cinguettare. Horst si alzò quasi di scatto, e si
avvicinò a Dominique.
"Oggi è una bella giornata, Dominique. Vorrei prendere la moto. Può telefonare in
Francia da qui, poi la aiuterò a cercare suo fratello. Possiamo andare al comando
nel settore francese. Sono libero fino a stasera, vedrà che si risolverà tutto. Spero
che non abbia paura di andare in motocicletta"
La ragazza fece un sorriso impercettibile, e ringraziò. Horst non disse niente, si
alzò ed andò a prepararsi, sorridendo a se stesso.
All'ultimo tentativo prima di uscire di casa, Dom era finalmente riuscita a parlare
per telefono con il fratello. La conversazione si era svolta in francese, e Horst non
aveva capito granché, ma aveva visto la ragazza, inizialmente molto tesa,
rilassarsi e poi sciogliersi in uno dei suoi meravigliosi sorrisi, mentre riattaccava il
telefono. Il tedesco si accese un'altra sigaretta e guardò la donna con aria
interrogativa.
"Si è scusato,era fuori per motivi di servizio. Vuole vedermi per definire la vendita
della casa. Ha accettato. Era molto sorpreso che fossi qui. Ci vediamo domani."
"Cosa? Wunderbar! Splendido! Bene, bene bene..."
Dominique si sedette accanto a Horst sul divano, che le passò la sigaretta. Lei la
accettò, e aspirò un tiro.
"Merci. Che incubo che è stato. Non posso crederci..."
"Senta, che ne dice del giro in moto? Lo vuole fare lo stesso? L'invito è ancora
valido."
"Va bene, va bene. Non ho niente da fare fino a domani. Alain mi ha promesso che
mi darà un po' di soldi per potere ripartire. Pagherà anche il conto dell'officina."
Era un giorno radioso, quello, per la moto di Horst. Messa a punto e lucidata la
domenica precedente, avrebbe incominciato a rombare maestosa nella nuova
stagione. Il suo proprietario ridacchiava, felice come un bambino di fronte ad un
regalo di Natale tanto atteso, mentre la mostrava a Dominique nella rimessa. La
ragazza assisteva con aria assente ai preparativi per quello strano viaggio, un po'
impacciata nella tuta di Charlotte, di taglia decisamente maggiore della sua. Horst
si mise a cavalcioni del bolide, si sistemò i lunghi capelli biondi raccolti in una
coda di cavallo ed infilò il casco nero. Fece un cenno a Dominique, che le si
accomodò dietro con qualche difficoltà, e partirono. Andarono per le strade
rumorose e sporche di Kreuzberg, su verso il centro. Costeggiarono il muro
variopinto, passarono vicino le rovine di Anhalter Bahnhof e la landa desolata di
Potsdamer Platz, fino alle porte chiuse di Brandeburgo. Poi, come in parata, per
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Strasse des 17 Juni, Dominique si voltò per salutare i due soldati russi a guardia
del monumento al milite ignoto sovietico, e guardò ammirata l'angelo indifferente
sulla altissima colonna del Siegesshaule. Da Tiergarten, Horst piegò verso sud, e
si diresse verso Charlottenburg. Arrivarono al parco davanti al Palazzo e
parcheggiarono.
"Erano mesi che aspettavo questo giorno. Wunderbar!" . Horst si sfilò il casco e
aiutò Dom a scendere dalla moto.
"E adesso vorrei proprio mangiare qualcosa. Lei ha fame?"
Dom annuì, e lo seguì docilmente verso un chiosco, dove Horst ordinò birra e
doner kebab per tutti e due. Mangiarono silenziosamente, appoggiati ad un tavolo
rotondo, all'aperto. Il tedesco guardava in avanti, il sorriso da bambinone
stampato permanentemente sulla sua faccia irsuta. Tracannò ciò che rimaneva
della birra in un unico lungo sorso e si rivolse verso Dom.
"Grazie per essere venuta, Dom. Grazie. E adesso, vorrei farle vedere una
meraviglia."
La donna più bella del mondo era là, nell'ampia stanza, altera ed immobile, lo
sguardo fisso, i lineamenti delicati e sereni. Il suo copricapo parlava di tempi
remoti, il suo volto perfetto rifletteva eternità. Horst e Dom si avvicinarono
lentamente verso il busto di Nefertiti, la bellezza che viene sulla terra, la stella
dell'Aegiptisch Museum. La contemplarono per qualche minuto, soli nel museo
ormai prossimo alla chiusura.
"Ogni tanto vengo a vederla, l'ultima volta ci ho portato mio figlio qualche
settimana fa. E' rimasto senza fiato, come me quando venni qui la prima volta con
mia madre."
Dom prese la mano ruvida di Horst, lo sguardo ancora verso il busto.
"E' bellissima", mormorò, con un filo di voce. "non... non ho parole."
Un custode li richiamò, il tempo era scaduto. I due si voltarono, e si
incamminarono verso l'uscita, mano nella mano. Arrivarono vicino alla moto, Dom
si girò verso Horst:
"Tu es un ange, Horst. Mon ange."
Si mise in punta di piedi, e lo baciò sulle labbra, con gli occhi chiusi. Abbracciò il
colosso che la strinse forte, la moto accanto in silenziosa attesa, come un cane
fedele.
Dom si alzò dal letto senza fare rumore, per non svegliare l'uomo accanto a sè.
Attraversò la stanza a piedi nudi, raccogliendo la vestaglia di seta che giaceva
sulla sedia, uscì e percorse il lungo corridoio buio e silenzioso, dirigendosi verso
il soggiorno. Trovò a tastoni le sigarette sul tavolo e se ne accese una, aspirando
lunghe boccate. Dalla finestra vicino giungeva il chiarore della città, e si
intravedeva la splendida, altissima torre illuminata. Dom la guardò ammirata,
appoggiandosi alla finestra. Stette lì per un po', fumando davanti a quel panorama
cittadino ormai familiare. Quando la sigaretta finì, si girò e lentamente fece
qualche passo, lasciando che gli occhi si riabituassero alla penombra. Il maestoso
orologio a pendolo scandì la mezzanotte, facendola trasalire leggermente. Si
accucciò sulla preziosa poltrona in pelle, trovò un telecomando e accese l'enorme
televisore davanti a sé. Vide immagini di strade piene di gente in festa che si
accaniva sulle rovine di un muro, diventato nel giro di poco tempo il simbolo di un
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passato che si allontanava rapidamente. Un uomo anziano suonava il violoncello
in segno di giubilo. Il volume era troppo basso per potere ascoltare il commento
concitato, ma Dom non prestava più attenzione, guardava oltre lo schermo
colorato, mentre si lisciava i capelli neri appena acconciati dal suo costoso
parrucchiere di fiducia. Spense il televisore e accese l'abatjour che aveva accanto.
La luce soffusa si propagò sui preziosi mobili antichi che arredavano il soggiorno,
e lei cercò con lo sguardo il secretaire all'angolo. Dopo un attimo di indecisione, si
alzò e raggiunse il mobile, aprì il cassetto e ne tirò fuori una vecchia scatola di
cartone. Dom la aprì e prese una cartolina, arrivata la mattina precedente. Ritraeva
una spiaggia assolata, con qualche bagnante steso a rosolarsi sulla sabbia
bianchissima, in costumi da bagno di altri tempi. Rilesse le poche righe sul retro,
vergate in una calligrafia regolare e nitida. Dom sorrise, e sfiorò con le dita la
catenina che aveva al collo, con appesa l'effigie della regina egizia ammirata
qualche anno prima. Un lamento infantile la riscosse. Ritornò sul corridoio e
raggiunse una piccola camera accanto alla sua stanza da letto, flebilmente
illuminata da un Mickey Mouse sorridente su una piccola scrivania. Si avvicinò al
lettino del bambino, e si chinò con cautela. Dormiva ancora, era solo un sogno.
Lei carezzò il visetto paffuto, circondato da lunghi riccioli biondi, rassettò le
coperte e sistemò il cagnolino di peluche accanto al cuscino. Quando il bambino
si calmò, andò di nuovo in soggiorno, accanto alla finestra del suo lussuoso
appartamento di Montparnasse, e rimase a fissare la Tour Eiffel illuminata, in
lontananza.
"Svegliati, caro, non puoi addormentarti così...ti scotterai, svegliati".
Horst aprì gli occhi, stordito. La sagoma della donna si stagliava contro il sole,
sembrava altissima. Mugugnò qualcosa, e si voltò, combattendo contro
l'intorpidimento.
"Da quanto tempo... " borbottò, si rigirò sul lettino, e si mise a pancia in giù,
intravedendo con gli occhi semichiusi lo splendido mare blu. Charlotte, vestita
solo di un ampio cappello di paglia, e splendida nella sua abbronzatura integrale,
le poggiò una mano sulla schiena.
"Jorgen vuole che vai con lui a fare un'immersione. Ho portato dei panini per
pranzo. Hai fame?"
Horst non rispose, si rialzò un po' indolenzito e cercò il tabacco con la mano per
prepararsi una sigaretta.
"Ho sognato..."
"...qualcosa di piacevole sicuramente, caro.". Charlotte ridacchiò, indicando il suo
basso ventre. Lui si guardò in basso, e si coprì con un asciugamano, imbarazzato.
Lei gli si sedette accanto, e lo baciò sulla guancia.
"Sono contenta, sai, proprio contenta. Sei ritornato sulla Terra, da quando sei qui."
"Già, sulla Terra".
Horst socchiuse di nuovo gli occhi, mentre fumava. Passò la sigaretta alla moglie
e salutò Jorgen, che sguazzava felice in acqua e gesticolava verso di loro.
Charlotte appoggiò la testa sulla sua spalla e sorrise.
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Jamie à Paris
Jamie gettò via il telecomando con rabbia. L'angoscia crollò su di lui, si abbattè
senza pietà come un macigno dall'Everest. Il viso puntuto e severo di Margaret
Thatcher fece capolino dietro il grigio commentatore televisivo.
"Brutta cagna" mormorò Jamie, quasi sopraffatto, "arricchitevi, diceva... stupid
cow... che cazzo di casino sta succedendo a Wall Street..."
Il commentatore fece una smorfia con le sue labbra sottili, comparvero immagini
fluorescenti di broker impazziti come formiche, con la scritta luminosa che
raccontava la Beresina dell'orgoglio del capitalismo. Jamie incominciò a gemere
dal dolore. Crack. La crepa si propagava inarrestabile, Tokio, Parigi, Francoforte,
Londra. Casa sua. Il suo piccolo esercito, le strette di mano, le telefonate
suadenti, le pacche sulla spalla in ufficio, i Venerdì sera passati da imperatore
vittorioso al Caledonian pub, tutto sarebbe finito. Cristo, ho toccato l'Everest
dorato a 27 anni, il guerriero invincibile, immortale. E ora? Ora? Niente più soldi,
niente più lavoro. Dovevo continuare gli studi, giocare a rugby. La biblioteca
maestosa di Oxford, il fango e le urla dei compagni. All gone, tutto andato. Jamie
si accorse di piangere, di fronte alla bottiglia di Scotch vuota sul tavolo. Tirò fuori
la scatoletta delle meraviglie, fece una striscia di polvere magica ed aspirò con la
cannuccia al naso. Starnutì tra le lacrime. Tutto a schifo, ma c'era di peggio. C'era
suo fratello Tim, e c'era Joey con i suoi pitbull. Aspettò la telefonata, come una
condanna.
Lo squillo si fece strada tra la nebbia della sua mente in piena notte. Jamie prese
la cornetta. Meglio rispondere.
"Ciao, Jamie." La voce roca di Tim arrivò lontana, triste. Lo stesso tono di quando
gli aveva telefonato al college, per annunciargli l'infarto fatale di suo padre.
"Tim", mormorò Jamie, senza espressione.
"I centomila di Joey?"
"Il 50 per cento in meno, credo..."
Tim rise,amaramente.
"Joey l'aveva detto. Gli investimenti legali non fanno per lui. Ma tu, stronzetto
yuppie, l'avevi convinto del contrario. Contro il mio parere, il parere del suo uomo
di fiducia. Ti sei messo fra me e lui. Che facciamo, Jamie? Li puoi restituire? Se li
restituisci, forse non diventerai il pranzo dei suoi cani."
"Lo sai, non è possibile. Sai come vivo."
"Come immaginavo. Piccolo bastardo, sempre Tim a coprirti il culo, eh? Stavolta è
un guaio grosso Jamie, non si può nuotare nella merda nella quale ti trovi. Ma,
sorpresa! Tim l'animale ci ha già pensato. Ci vuole un po' di tempo, però. Mi devi
dare la tua barca. Prestito permanente. Ed è meglio che te la fili con la tua Volvo
da fighetto merdoso. Vattene in Francia, dagli zii. Parti subito, ai cani di Joey piace
fare colazione la mattina presto."
"Grazie, Tim..."
"Fuck off, Jamie. Get lost."
Jamie pensò a Tim, alle sue ampie spalle fasciate dal vestito blu, alla sua grande
testa calva, al tatuaggio sul collo. Lo rivide fuori del locale notturno di Joey, le
braccia nerborute lungo il corpo e le mani incrociate davanti, vigile e scattante
come una pantera, mentre controllava l'ingresso con lo sguardo duro. Pensò
all'unica volta che lo aveva visto piangere, al funerale di suo padre, abbracciato
alla mamma.
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"Ciao, Tim. Take care", mormorò alla cornetta muta.
Il traffico era scarso, come doveva essere a quell'ora della notte. Jamie combatteva
con lo stress e la stanchezza alla guida della sua 480 rossa, guidando
meccanicamente tra i pochi camion. Non aveva avuto troppo tempo per pensare,
quando aveva abbandonato il suo piccolo appartamento a Chelsea, dove si era
trasferito solo qualche mese prima. Il tragitto attraverso il sud-est dell'Inghilterra
lungo la M20 durò meno di quanto si aspettasse. Arrivò a Dover con le prime luci
dell'alba, gli occhi che ormai si chiudevano da soli per il sonno. Acquistò il
biglietto per il traghetto con i contanti prelevati a Londra nella banca sotto casa e
attese di imbarcarsi in macchina, nel piazzale. Intorno, gli autisti dei camion
ciondolavano, fumando e sorseggiando caffé. Il giorno si trascinava avanti
stancamente, grigio e malinconico come se fosse già nato vecchio. Non faceva
ancora troppo freddo per essere autunno, ma una pioggia sottile incominciò a
cadere su uomini, asfalto e lamiere. Jamie si addormentò per un tempo
indefinibile con la testa all'indietro, a bocca aperta. Sognò il viso bianco di Joey
che gli sorrideva con il suo solito sguardo annoiato:"Che cosa debbo fare con te,
son?" gli chiedeva, mentre Tim lo teneva per i capelli. Suo padre, accanto, lo
fissava con muta disapprovazione, vestito del suo stazzonato abito grigio da civil
servant. Si svegliò al rombo dei motori che si avviavano per incolonnarsi verso la
nave bianca con la pancia spalancata, pronta a fagocitarli per la traversata. Jamie
si stropicciò gli occhi, si massaggiò il mento irsuto e accese la Volvo. Gli omini
fosforescenti della P&O lo guidarono efficientemente verso il traghetto e fu
ingoiato insieme agli altri, quasi senza accorgersene. Avrebbe voluto restare in
macchina, ma si costrinse a salire in coperta, quasi barcollando per la stanchezza.
Sprofondò su una poltroncina accanto ad un oblò, mentre la nave incominciava a
muoversi sul mare grigio. Mentre stava per addormentarsi, una risata femminile lo
riscosse. Accanto, due ragazze parlavano fitto fitto in una lingua musicale.
Italiano, pensò, mentre si voltava ad osservarle distrattamente. Una delle due, con
una grande massa di capelli ricci, stava mostrando all'altra un qualche capo di
vestiario dentro una borsa di Harrod's. La ricciolona si accorse di lui e gli sorrise
un attimo, lievemente imbarazzata, poi si volse di nuovo verso l'amica, bionda e
con il trucco un po' troppo vistoso. Jamie non se ne curò, chinò la testa e chiuse
gli occhi, mentre le scogliere di Dover si allontanavano.
"Signore...scusi...mister... le è caduto il passaporto... signore..."
Jamie si risvegliò, su di lui ondeggiavano tanti riccioli bruni. Mise a fuoco un paio
di occhi scuri divertiti, mentre una mano affusolata gli porgeva il libretto blu con
lo stemma di Elisabetta.
"Oh, cosa... grazie. Grazie mille."
Afferrò il passaporto e se lo mise rapidamente nella tasca della giacca. La ragazza
fece un risolino:
"Siamo arrivati a Calais."
Jamie allungò le gambe e si mosse sulla poltroncina. Squadrò di nuovo la ragazza.
Niente male, queste italiane, così diverse dalle inglesi. Sorrise.
"Ok, arrivederci, mister. Ciao!"
La ricciolona si allontanò in fretta con l'amica. Si voltò di nuovo, una breve
occhiata fugace e via. Jamie si alzò, indolenzito, e si diresse verso la scaletta che
portava alle macchine, mentre il traghetto compiva le ultime manovre di attracco.
La sua Volvo fu vomitata dalla nave, in Francia, finalmente. Prese l'autostrada
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solitaria, immersa in un deserto rurale, verso sud, e dopo qualche tempo si fermò
in una stazione di servizio per telefonare agli zii. Jamie rispolverò il suo francese
senza difficoltà, era bilingue per via della mamma originaria di Nantes. Nel
sentirlo, zia Helene si mise a piangere per l'emozione e la felicità.
"Jamie, vieni oggi? Che bella sorpresa! Proprio ieri vi stavo pensando, a te e a Tim.
Come sono contenta, no, nessun problema. Ti aspettiamo. Sai la strada, vero?
Bene, bravo il mio ragazzo. Siamo a casa, zio Francois non si sente tanto bene, di
questi giorni. A presto, allora."
Jamie attaccò, sbuffando, e andò ad ordinare un caffè al bar. Si trovava in mezzo
al nulla, così vicino a Parigi, eppure sembrava di stare in un altro paese. Lesse il
giornale che strillava del crack della borsa, di una rapina sanguinosa nel sud e
della perestrojka di Mr Gorbachev. Sentì la madre ed il padre seduti accanto,
percepiva il loro sguardo di riprovazione. Scrollò le spalle e si diresse verso la
toilette.
"Jamie, mio caro. Che felicità..." zia Helene, con gli occhi liquidi, gli prese il viso
con le mani ossute e lo baciò. Il cagnolino dietro di lei, abbaiava senza sosta.
Jamie si sottrasse, imbarazzato. Era più magra, più curva del solito.
"Vieni dentro, zio Francois sta dormendo. Questi fiori? Sono per me? Grazie, stella,
sei sempre un tesoro."
La casa degli zii era un vecchio villino con giardino, soffocato da palazzi alti ed
anonimi di banlieu. Era un miracolo che fosse rimasto lì, con quell'albero secolare
che sorgeva come una specie di sentinella. Dentro, tappezzeria e mobili dei primi
del novecento, tutto rimasto uguale dai tempi del nonno, e di prima ancora. Un
lieve sentore di muffa e di malattia aleggiava nelle stanze.
"Ho preparato la stanzetta di tua madre, hai pochi bagagli con te, li hai lasciati in
macchina? No? Allora vuoi stare poco tempo..."
"Ecco, ho preso un po' di vacanza, non so quanto resterò, zia..."
"Stai quanto vuoi, caro. Ti ho preparato da mangiare, quel pasticcio che ti piaceva
tanto..."
"Grazie, non ho fame adesso. Vorrei riposarmi un po'."
Riuscì a resistere alle proteste, e dopo avere dato qualche notizia sulla mamma e
su Tim riuscì ad entrare in camera. Stette un po' lì, seduto sul letto, nella
penombra, tra mobili e fotografie di un tempo che non gli era mai appartenuto.
Poi si stese sul materasso cigolante e stese le braccia sopra la testa, guardando gli
stucchi del soffitto, in attesa dei sogni.
Jamie si sedette sulla panchina, accanto agli alberi. Pensò che non faceva più una
passeggiata da tempo immemorabile, e sentì come se un pezzo di sè fosse
mancato, sparito per anni. Aprì il giornale sullo sport, e lesse un po', senza troppo
soffermarsi sulle parole. Il sole era insolitamente caldo per essere una giornata di
fine Ottobre. I giardini delle Tuileries erano animati come al solito, frotte di turisti
sciamavano da e per il Louvre, lingue diverse che si intrecciavano e formavano un
impasto di suoni gradevoli, un tappeto dove scivolavano via i suoi pensieri
informi. Jamie chiuse il giornale, e socchiuse un po' gli occhi, il tepore della
giornata lo insonnoliva. Sentì che qualcuno si avvicinava, ma non ci fece troppo
caso. All'improvviso, un accordo di chitarra lo scosse dal torpore. Si voltò, e vide
un ragazzo seduto sulla panchina accanto alla sua che stava accordando senza
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fretta uno splendido strumento, color blu notte. Una custodia rigida giaceva sul
terreno, già aperta con dentro qualche monetina. Il ragazzo era vestito con i soliti
blue jeans ed un maglione troppo pesante per quella splendida giornata. Si
aggiustava continuamente gli occhiali che tendevano a cadere mentre continuava
l'accordatura. Quando ebbe finito, si alzò, si guardò in giro e incominciò a parlare
ad alta voce:
"Mesdames et messieurs, bonjour! Mi chiamo Jed, e sono il vostro jukeboxe.
Mettete una monetina lì, chiedete e vi canterò qualsiasi cosa! Allez! Qualche cosa
da propormi? Non fate i timidi, forza! Niente? Ah beh, volete sentirmi prima, vero?
Ok, pas de problem."
Il ragazzo attaccò un vecchio pezzo di rock'n'roll, Jamie riconobbe Blue Suede
Shoes immediatamente. Era bravo, anche se l'accento rendeva il tutto un po'
bizzarro. Un po' di gente incominciò a raccogliersi intorno al musicista, qualche
monetina prese la strada verso la custodia. Quando la canzone finì, qualcuno
applaudì.
"Vi ricordo che sono un jukebox! Chiedete, ed eseguirò. Forza gente, sono qui!"
Incominciarono a fioccare le proposte più disparate, da vecchi oldies a canzoni
recentissime, e Jed eseguiva tutto, senza problemi.
"Cosa vuole? Duran Duran? Ah no, e' degli Spandau Ballet quella! Ma certo che la
so, forza gente chiedete."
Jamie aveva ripreso a leggere, non prestava più attenzione, la gente era
aumentata e non vedeva più il musicista di strada che continuava a suonare con
vigore. Gli applausi e le risate aumentavano, fino a quando non gli riuscì più di
concentrarsi sulla lettura. Alzò gli occhi, rassegnato, quando vide un volto
familiare, contornato da una cascata di riccioli scuri. La ragazza lo riconobbe, e gli
fece ciao con la mano, sorridendo. Jamie rispose al saluto, e stette seduto per un
po', indeciso sul da farsi. Poi disse fra sè:
"Oh, what the hell...", e si alzò, dirigendosi verso di lei. Sembrava sola, la sua
amica non si vedeva. Jamie era dotato in questo genere di cose, era bravissimo ad
attaccare bottone, e non si smentì. Gentile, affabile, spiritoso. Poteva parlare in
inglese e francese senza problemi, e la conversazione filò leggera sui giusti binari.
Seppe che la ragazza si chiamava Claudia, veniva da Roma e stava viaggiando per
l'Europa con la sua amica, Laura, che si trovava ancora nel Louvre. Lei i musei
dopo un po' non li reggeva, ed era uscita prima. Jamie osservò lo sguardo di
Claudia, e capì che la scintilla stava per scoccare. Old bastard, pensò, hai il
bersaglio in vista. Il ragazzo aveva smesso di suonare, e la piccola folla si stava
diradando. Restavano solo loro tre, Jed stava rimettendo a posto la chitarra, poi si
fermò e si rivolse a Jamie:
"Monsieur, niente soldi! Tutte queste belle canzoni... e lei niente. Sta qua da
quando sono arrivato, ha sentito tutto. Non è giusto! Ha qualche richiesta?"
Jamie rimase interdetto, scosse la testa, imbarazzato.
"Ok, so io cosa fa per lei. Prima metta la moneta, prego."
Jamie, soggiogato, tirò fuori un po' di spiccioli dalla tasca, e li dette a Jed. Il
ragazzo tirò fuori la chitarra, la accordò rapidamente, ed attaccò:
It's gonna take a lotta love
To change the way things are.
It's gonna take a lotta love
Or we won't get too far.
So if you look in my direction
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And we don't see eye to eye,
My heart needs protection
And so do I.
Jamie rimase lì a sentire per un po'. Guardò Claudia con un mezzo sorriso, e le
chiese se voleva bere un drink da qualche parte. Conosceva un bel bar non
lontano da lì. Lei accettò senza farsi troppo pregare.
Era accovacciata sulla poltrona della stanza d'albergo, in camicia da notte. I suoi
riccioli scomposti decoravano lo schienale liso, guardava la via sottostante, dalla
finestra. Niente più lacrime e singhiozzi, niente. Una settimana, continuava a
pensare, solo una settimana. Era stato un paradiso, dissolto. Svanito. La mattina,
all'appuntamento al bistrot lui non s'era presentato, senza spiegazione, senza
telefonate, senza messaggi. Non aveva il suo numero, non gliel'aveva dato. Non
riusciva ad alzarsi, non riusciva a pensare ad altro. Laura era tornata a Roma, lei
era rimasta. L'alba si stava facendo strada tra la pioggia, mentre Claudiaa
continuava a tormentarsi il suo ricciolo preferito.
Jamie uscì dalla casa dei suoi zii che sopportava sempre meno, ancora un po'
stordito dalla sbornia della sera prima. I suoi cugini, che fenomeni. E che ragazza,
quella che gli avevano presentato. Pensò un attimo a Claudia, una piccola puntura
nella sua coscienza, fece per grattarsi la testa, e attraversò il boulevard facendo
attenzione al traffico. Fu ingoiato dal tunnel della fermata del metrò, camminò
senza fretta verso la banchina. Oggi vado a tagliarmi i capelli, pensò. Un bel taglio
è quello che ci vuole. Che noia, che noia, niente da fare tutto il giorno. Pensò di
telefonare in ufficio, forse le acque si erano calmate. Da Tim niente notizie,
rabbrividì un po' al pensiero di Joey, ma sentiva tutto così lontano. Se l'era
spassata un po' a Parigi, tutto qui. Mentre aspettava il treno, vide Jed in piedi, con
la grande custodia della sua chitarra accanto, che gli sorrideva. Lo salutò con un
cenno del capo. Jed si avvicinò:
"Il mister che ascolta e non dà soldi. Ho una cosa per lei."
Una piccola busta bianca fece capolino nella sua mano. Il ragazzo gliela porse,
con un lieve inchino. Jamie la prese senza pensare, sbalordito.
"La apra, mister, e legga."
Jamie obbedì, e tirò fuori il bigliettino pubblicitario di un bar. Nel retro c'era
scritto un appunto, Jamie sobbalzò, riconoscendo la calligrafia irregolare del
fratello:
"Chiedi di Esteban. Sei un idiota bastardo. Tim."
Jed era in piedi accanto a lui, ancora sorridente:
"Bel posto quello, lo conosco. A quest'ora dovrebbe essere già aperto. La
accompagno, se vuole."
Il treno arrivò fragorosamente, ed i due entrarono insieme ad un fiume di gente,
senza parlarsi.
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Jed salutò Jamie con un cenno della mano all'ingresso del locale nel Quartiere
Latino, più rumoroso del solito.
"Good luck mister. Bye bye".
Jamie rispose di riflesso, il ragazzo si voltò e sparì in un vicolo. Cristo, Tim. non ti
facevo così pieno di risorse, pensò Jamie, mentre entrava nel bar. Uguale a molti
altri, penombra, tavoli ancora semivuoti, musica jazz da un piccolo palco
illuminato. Un piano ed una ragazza bionda, fasciata in un abito blu. Jamie si
avvicinò al banco, osservando la cantante. Niente male, niente male.
"Non ci pensare neanche, little Jamie. Non fa per te."
La voce vicinissima, con un forte accento spagnolo, lo fece trasalire. Da dietro al
banco, un giovane magro con i capelli scuri ed impomatati lo guardava
ironicamente:
"Sono Esteban. Tu e tuo fratello non vi assomigliate per niente. Proprio per niente.
Siediti, ti dò una bella lager. Offriamo noi. E adesso ascolta, ho delle cose da
dirti."
Esteban spinò la lager e gliela porse, sorridendo. Jamie la sorseggiò, mentre il
barista guardava la ragazza.
"Questo posto non è male, vero? Niente male. Ci vorrebbero un po' di migliorie,
però. E poi, troppi turisti. Troppo rumorosi. Ci vorrebbe gente come Tim, qui, per
farne un posto di classe."
"Già", mormorò Jamie, ancora più stordito.
"Tim è un amico, sai. Collaboriamo, spostiamo un po' di merce qua e là. Niente di
che, insomma, avremmo potuto fare di meglio. Si può sempre fare di meglio. Ci
ha chiesto di tenerti d'occhio, un po' di protezione. Jed è stato bravo, efficiente.
Ogni tanto ce ne serviamo. Affidabile, si dice così?"
"Dunque Jamie, eri nella merda, vero? Tutti quei soldi persi in stupide azioni, nel
crack. E non erano tuoi. Ma non tutto è quello che sembra. Joey non si fidava
troppo, e ha chiesto, diciamo così, a Tim di comprare metà del pacchetto che tu
gli avevi venduto. Prova di fiducia, la chiamava. E il tuo fratellone ha accettato, che
poteva fare d'altro? Non lo sapevi, eh? Poi Joey ha rivenduto la sua metà prima del
crack, senza dire niente né a te, né a Tim. Pulito, con tutti i suoi soldini. L'ha
sempre detto, che gli affari, diciamo così, regolari, non fanno per lui."
"Dopo il crack, Tim non sapeva niente, e ti ha detto di scappare. Altrimenti, bau
bau, i cani arrivavano. Povero Tim, senza soldi, e che paura. E Joey, quando l'ha
visto arrivare tutto compunto, è scoppiato a ridere e gli ha detto del suo
trucchetto. Tim non ci ha visto più, lo stava per ammazzare, se non fosse stato
per i cani non so come sarebbe andata a finire. Insomma, Tim ne è uscito un po'
pesto. E tu a Parigi, il fratellino tanto amato, te la potevi spassare un po' con le
belle turiste"
"Poi a Joey è successo un incidente. Lo sai che aveva ammazzato un poliziotto?
Con le sue mani. Credeva di farla franca, ma hanno trovato una sua sigaretta sul
posto, e Scotland Yard lo ha incastrato con quel test nuovo, come si chiama, DNA?
Joey è dentro, e ci rimarrà. Hanno già buttato via la chiave della sua cella. Anche
Tim è dentro, ma non è coinvolto in questo. In altre cose piccole. Hanno
scoperchiato la pentola. Ma uscirà presto. Due anni, forse tre. E tu, adesso, sei,
come si dice? On the square. Pulito. La tua barca, che tanto serviva per affarucci
vari, neanche toccata. Congratulazioni, Jamie. la prossima birra la offri te a me,
però. Ed ora divertiti un po', lo sai fare bene, no?"
Esteban si rivolse a due clienti, dicendo loro qualcosa in spagnolo che Jamie non
afferrò. Servì loro due Coronas, e sparì in una porta sul retro. Jamie sorseggiò la
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birra sbirciando un attimo la cantante. Poi sprofondò nei suoi pensieri, lo sguardo
nel vuoto.
Il cancello della prigione si aprì, finalmente, nel pomeriggio assolato di primavera,
facendo uscire Tim, in tuta da ginnastica e con una borsa sportiva. Jamie, dall'altra
parte della strada, era appoggiato alla sua Volvo, in giacca scura ed occhiali da
sole. Fece un cenno con la mano al fratello, che attraversò e gli si fece incontro. I
due stettero un po' l'uno davanti all'altro, Jamie gli appoggiò la mano destra sulla
spalla. Vide il tatuaggio sul collo, il cranio perfettamente rasato, l'orecchio
mutilato nella parte superiore, il segno dei pitbull di Joey. Tim non reagì, si
guardava intorno, strabuzzando leggermente gli occhi, segno di una miopia che
aveva sempre cercato di nascondere. Jamie sorrise, e aprì la portiera della
macchina. Prese la borsa di Tim e la appoggiò sul sedile posteriore:
"Andiamo ".
I due salirono in macchina, Tim leggermente impacciato per via della sua mole,
ulteriormente ingrossata dopo i due anni in carcere, e Jamie accese il motore. Si
diressero senza fretta verso la M25, intasata come al solito. Attraversarono il
Tamigi sul ponte di Dartford, con il sole morente che dardeggiava sul fiume e gli
edifici industriali, diretti verso est, verso il Kent, la casa dei genitori. Tim disse
poche parole nella sua voce rauca, mentre Jamie parlava del più e del meno, con
un fare gioviale leggermente sforzato. Parlò del suo nuovo lavoro:
"Mi hanno offerto un posto a Liverpool, in una ditta che produce pezzi meccanici
di precisione, come responsabile dell'ufficio vendite. Mi trasferirò presto. Tu puoi
stare quanto vuoi dalla mamma, non vede l'ora. Non se l'è sentita di venire a
prenderti in prigione, per lei è ancora uno choc, sai."
Jamie parlava in continuazione, sembrava spiritato:
"A Parigi, che femmine. Ho conosciuto una sposata, piena di soldi. Ragazzi, da
perdere la testa. Dominique, si chiamava. Una brunetta con occhi verdi, un vero
fenomeno. Cristo, che cugini che abbiamo, Tim, sembra che conoscano tutta la
città. Potresti andare un po' lì per una vacanza vera. Ti saluta tanto Esteban, a
proposito...."
Tim si voltò, e disse tranquillamente:
"Ferma la macchina, Jamie."
Jamie era un po' interdetto:
"Cosa? Siamo vicini a casa, ormai... Ti senti male?"
"Ferma questa cazzo di macchina, Jamie."
Il tono non ammetteva repliche, Jamie rallentò e si fermò su una piazzola
dell'autostrada. Tim scese, guardò il traffico e si chinò in avanti, le mani sulle
ginocchia, come un corridore stanco per rifiatare. Jamie si avvicinò di lato:
"Tim, ti senti ma...."
Il manrovescio di Tim interruppe la frase. Jamie sentì il sangue in bocca, un
incisivo fece crick e si scheggiò. Il bruciore sulle labbra gli ricordò di uno schiaffo
ricevuto da sua madre molti anni prima, mortificandolo e lasciandolo sbalordito. Il
fratello aveva ora le braccia conserte, e lo guardava senza dire una parola. Poi,
piano piano, incominciò a sussultare, e gli occhi si inumidirono. I sussulti
divennero più forti, Tim chiuse gli occhi e incominciò a piangere. I singhiozzi
scuotevano il suo possente torace:
"Scemo, scemo..."
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ripeteva sommessamente, quasi a se stesso. Jamie gli si avvicinò, ancora
stupefatto, e gli prese la testa fra le mani. Tim rimase immobile, nell'abbraccio di
Jamie, per un po', singhiozzando e mormorando. Poi si tirò via di scatto:
"Andiamo a casa. Dammi le chiavi, guido io."
Find your way out - of the wild wild wood
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Lettera d’aprile
Dominique entrò in casa, incerta sui tacchi alti, effetto di troppi cocktails. No,
Jerome proprio non ce lo voleva in casa, quella sera. Lui aveva protestato, l'aveva
accompagnata fin sotto il portone, lasciando la sua Porsche in mezzo alla strada
con le portiere aperte, le macchine che passavano a stento, da cui uscivano urla
ed imprecazioni. Lei aveva fatto il solito viso imbronciato modello "adorami",
l'aveva respinto, mentre lui provava a baciarla. Poi un piccolo sorriso dei suoi, un
bacio sulla guancia ed era scappata via, lasciandolo così, con la sigaretta fra le
dita, la cravatta mezza slacciata, la capigliatura trendy leggermente spettinata.
Nessuno, non voglio nessuno stasera, pensò. Si sfilò le scarpe, buttandone una
sotto il prezioso divano, regalo di nozze di non so quale parente di Robert, l'exmarito, mentre l'altra centrò in pieno il quadrante del maestoso orologio a
pendolo del soggiorno. Dom scoppiò a ridere, mettendosi la mano sulla bocca.
Stasera nessuno in casa, niente domestici, il figlio a casa di Robert. Si sedette sul
tappeto persiano di seta, a gambe larghe, e si accese una sigaretta con
l'accendino di Cartier, regalo di chissà chi. Quanti regali, quante persone di cui
scordava il nome. Robert se li ricordava tutti, immancabilmente. L'aveva salvata
dall'abisso finanziario, velenosa eredità dei suoi adorati genitori, morti dieci anni
prima in un incidente stradale. Neanche la vendita della casa in Normandia poteva
coprire i debiti. L'Uomo della Provvidenza. Dom sorrise amaramente, al pensiero
dell'Uomo della Provvidenza. Una provvidenza diventata inferno dorato. Il figlio,
l'unica sua ancora, stava incominciando a crescere. Non ti e' andata poi così male
Dom, tutto sommato, vero? Inferno, botte, umiliazioni in una cassaforte piena di
gioielli. Uomini, belli, ricchi, per tutte le occasioni. Per ognuno dei tuoi sorrisi, un
centro. Mira infallibile. Robert era sbottato, non ce la faceva più. Separazione e
divorzio, a te la casa a Montparnasse, alimenti cospicui ed affidamento congiunto.
Non sei un'arpia, mia cara, potevi ottenere molto di più, ma per te andava bene lo
stesso. Le porte girevoli, uomini che vanno, uomini che entrano. Un bastardo
inglese ti era entrato sotto la pelle, quando eri ancora sposata. Jamie, già,
paradiso, vacuità. In ginocchio, Dom, in ginocchio per lui. Solo lui ci era riuscito.
Poi, puf, dissolto, e tu che avresti squarciato la tua pelle. Dom scosse il capo, ed a
fatica si rialzò, dirigendosi verso il bagno. Camminando, si sfilò il tubino da sera,
e si levò i gioielli, mettendoli su un mobile capitato di lì per caso. Si levò le
mutandine ed il reggipetto, niente calze, a lei piaceva così, e si trovò a cospetto
dell'enorme specchio. Socchiuse gli occhi, li aprì, scovò un capello bianco. Domani
parrucchiere, imperativo, pensò. Piccole rughe d'espressione ai lati degli occhi,
niente, solo un attimo, 36 anni, tutto lì. Seno? un po' giù forse,ma solo lei se ne
accorgeva. Vita: OK. Gambe: OK. Fianchi: OK. Qualche piccola gobbetta di
cellulite, impercettibile. Dom continuò a guardare un punto lontano dentro i suoi
occhi verdi, pensando per un po'. Una lacrima sottilissima gli solcò la guancia
destra, lasciando una striscia nera. Poi si voltò, e si diresse in salotto. Aprì il suo
secretaire preferito. Dentro, la scatola. E dentro la scatola, le lettere e le cartoline,
vergate con quella calligrafia regolare e nitida. Le frugò, trovò una busta con un
indirizzo del mittente. Si sedette, prese una penna, un foglio di carta ed
incominciò a scrivere, mentre la pioggia di quella notte d'aprile picchiettava sulle
finestre.
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Cristo che male al sedere, pensò Horst, sbuffando dentro il casco. Alla mia età, 'sti
viaggi. Ridacchiava un po', gli occhi fissi davanti al nastro nero che gli si svolgeva
davanti. Ogni tanto toccava la giubba, all'altezza della tasca interna, sentiva la
carta della lettera, quasi per sincerarsi che fosse vera, che non fosse svanita. La
coda di cavallo spuntava dal casco, ingrigita, ma più lunga che mai. Pensava
ancora a quella mattina, quando Kemal, coi baffi ormai completamente bianchi,
gliel'aveva portata, un po' interdetto, mormorando qualcosa in turco, come al
solito. Una lettera. Da Parigi. Horst l'aveva letta tranquillamente, ed altrettanto
tranquillamente era uscito dal garage dove ancora lavorava.
"Che cazzo fai, Horst?" gli aveva gridato dietro Kemal.
"Esco" aveva detto semplicemente Horst. Era tornato a casa in macchina, aveva
parcheggiato, indossato la tuta e inforcato la moto, già messa a punto, come in
ogni primavera. Berlino, nuova di zecca, l'aveva salutato col suo traffico
soffocante. Hannover, Dortmund, Colonia, Liegi, Charleroi, puntini luminosi,
cartelli verdi ed azzurri, camion multicolori, scintillanti nella notte. Giù, verso la
città a forma di cuore, verso qualcosa d’ indefinibile, di assurdo e reale al tempo
stesso. La lettera sul petto, la chioma grigia svolazzante, la pioggia notturna.
Attraversò il traffico variopinto del mattino, così diverso da quello della sua città.
"Caos organizzato" pensò con ironia Horst. Arrivò al boulevard trafficato, al
palazzo del quartiere esclusivo. Città proibita. Parcheggiò la moto, senza troppo
curarsi di divieti e strombazzamenti, e si sfilò il casco, scuotendo i capelli.
Carezzò la moto fedele, baciò il manubrio, e sfilò le gambe lunghe e magre
fasciate nel cuoio. Col casco in mano, si avvicinò al portone. Fu fermato
immediatamente. Horst disse il nome, a testa alta, il concierge chiamò e dette il
via libera. Tante rampe di scale a piedi, niente ascensore, così, per divertimento.
Horst col fiatone dei suoi quarantasei anni, gli occhi iniettati di sangue, ore senza
dormire. La porta preziosa si aprì, la donna minuta dagli occhi verdi gli regalò il
suo sorriso. Horst si pulì gli occhiali, come per vedere meglio. Dom fece cenno, in
camicia da notte. Lui fece il passo, e la porta si chiuse dietro di loro.
Horst guardò il soggiorno, imbarazzato ed ammirato dallo splendore della casa,
mentre lei continuava a fissarlo, in piedi. Il suo respiro si fece un po' più regolare:
“Ciao Dom. Sei messa bene.”
“Già”, fece lei, ancora immobile.
Ad Horst scivolò il casco sul pavimento, imprecò in tedesco.
“Pasticcione, così il parquet si rovina.”
Dom sorrise. Poi si voltò bruscamente e si diresse in cucina.
“Vuoi del caffè? Sarai stanco, no?"
Horst non rispose, la seguì, gli occhi sulle gambe che spuntavano dal camicione.
Capelli più lunghi, pensò, diversa ed uguale al tempo stesso. Sciuff, un tuffo nella
sua anima, schiuma bianca che si levava altissima, e quasi offuscava la sua vista.
Dom armeggiò con la macchinetta del caffè nella sontuosa cucina:
"Il viaggio?"
"Eterno", rispose Horst, con gli occhi sui fornelli. Si sedette su una sedia, e si mise
ad armeggiare con la scatola del tabacco e le cartine.
"Ti dispiace, Dom?"
"No, anzi, preparane una anche per me. Mai stata capace, io. Magari una speciale,
eh, Horst?"
"Già, speciale. Così mi stendo del tutto...”
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"Non è quello che io so, e lo sai anche tu", Dom sorrise maliziosamente.
"Ne hai, no? Altrimenti posso dartene un po' della mia."
"Non c'è problema, ho ancora qualcosina nella mia riserva."
Horst preparò il joint, l'accese e lo passò a Dom.
"Signora dell'alta società, queste sono cose che non si fanno, da voi."
"Fanculo l'haute societé, Horst. Cazzo ne sai te, poi. Bevi il caffè, finché è caldo."
"A me piace tiepido."
"Ah sì, ricordo ora. Seduto sulla poltrona, ad aspettare che si freddasse... Beh,
mentre aspetta, prego, Herr Horst..."
Horst aspirò il joint che gli era stato offerto, tranquillamente, gli occhi semichiusi.
Si levò gli occhiali e li poggiò sul tavolo.
"Dunque, sono qui."
"Già, sei qui, mon ange. Non molto tempestivo, direi."
"No. la puntualità non è mai stata la mia specialità."
"Nemmeno la mia."
Dom fece un risolino, con la bocca sulla mano.
"Sai già tutto, no, Horst? Tutte le lettere. Sei tu che sei sempre stato, come si dice,
riservato?"
"Non molto da raccontarti, Dom. Niente Formentera, alla fine. Tutto qui."
"Tutto qui."
Si passarono il joint senza parlare molto. Le due tazze di caffé giacevano sul
tavolo, dimenticate. Alla fine della fumata, Dom le prese, si voltò e ne rovesciò il
contenuto sul lavandino. Horst si alzò, e le si avvicinò. Voglio vedere se è ancora
lì, pensò, e le alzò i capelli dietro la nuca, impercettibilmente. Il neo all'attaccatura
dei capelli sembrava più piccolo, lo sfiorò con le labbra, appena appena. Dom si
voltò, lentamente, si appoggiò con le braccia al lavello e lo baciò sulle labbra,
alzandosi sulle punte dei piedi. Il bacio si fece più lungo, lei attaccata a lui. Poi
Dom gli morse il labbro inferiore, piano, si staccò di scatto e gli prese la mano.
"Viens, mon ange."
Lo portò nella sua splendida camera piena di mobili antichi, regalati da chissà chi,
lo spinse sul letto ancora sfatto, e le si stese sopra. La camicia da notte era già
volata dall'altra parte della stanza. Lei armeggiava sulla tuta di cuoio, mentre
Horst rispondeva dolcemente ai suoi gesti. Dom gli sfilò parzialmente i pantaloni,
lo accarezzò e lo baciò a lungo. Poi gli diede un'occhiata soddisfatta, risalì e lo
prese. Horst sentì delle scariche che lo attraversavano, Electric Ladyland, già, era
quella la musica.
Horst giaceva addormentato, ancora semivestito, supino, mentre Dom giocava con
la sua lunga coda di cavallo. "Merci, mon ange", mormorò. Si rialzò e si diresse in
bagno. Lo specchio le era davanti, con lei dentro. Fianchi: OK. Vita: OK. Seni: OK.
Gambe: Ok. Capelli: insomma.... Guardò dentro i suoi occhi verdi, il punto nero
non c'era più.
(ad Hana Bi)
19
Edo
1. Lime Street
Edo e Jane camminano nella grande hall della stazione di Lime Street un po’
distanti, lei leggermente più avanti di lui. Jane porta un berretto di lana grigio
sopra i suoi capelli ramati ed un cappotto nero, ha delle calze a righe multicolori
orizzontali con un paio di caterpillar ai piedi. Il suo viso pieno di lentiggini è rosso
per il freddo, ha un’aria malinconica, come le capita sempre il lunedì mattina
quando deve partire. Edo è vestito col completo da ufficio, e porta il borsone
consumato di Jane. I due si fermano davanti all’ingresso, e si baciano
frettolosamente. “Ti chiamo quando arrivo”, dice Jane con un sorriso incerto. Edo
ha un’aria un po’ assente, le fa cenno di sì. Le due fronti si toccano per un attimo,
Jane prende il borsone e si incammina, un ultimo sguardo indietro. Edo alza la
mano, bye love, e la guarda entrare. Si ravvia con la mano i capelli neri un po’
lunghi, e si gira lentamente. Mentre si incammina, i suoi occhi scuri leggermente
a mandorla si stringono. Esce dall’ingresso laterale, dove ha parcheggiato la
macchina. Non sembra sentire freddo, a differenza di Jane e di molti altri passanti.
Si infila nella sua Ford Puma bianca ed accende il motore. Si dirige dal centro
verso quella desolazione che è Toxteth, il quartiere dove ha abitato per un po’ di
mesi. Il Crescent mezzo devastato di Princess Road, la rotatoria con l’ingresso del
parco, dove un gruppo di madri adolescenti, quasi bambine, portano a spasso i
loro figli. E poi verso suburbia, verso il lavoro. Un SMS arriva sul suo cellulare, lui
lo legge di straforo mentre guida. “Vieni oggi da John’s? W”. Wendy, pensa Edo.
Una delle nuove cameriere del wine bar. Un lieve sorriso ironico increspa le labbra
sottili, qualche piccola ruga si forma intorno agli occhi.
Edo guarda lo schermo del suo computer mentre batte velocemente i tasti. Deve
sistemare una relazione entro il fine settimana, il suo lavoro nella piccola fabbrica
di componenti meccanici dove lavora lo rende responsabile di molte cose
“computer related”, dalle più semplici alle più complesse. Edo è bravo e preciso,
non sgarra sul lavoro e si fa benvolere; my italian lad, il mio ragazzo italiano, dice
sempre John, il boss, mentre lo presenta ai manager delle aziende clienti e
fornitrici. Edo ha un passato brillante come assistant all’Imperial College, poi un
paio di risse nei pub londinesi non lo hanno messo in buona luce nell’ambiente
accademico. Tornare in Italia, magari da mamma? Andare a Exeter dal padre?
Naaaah…. E così si ritrova nel Merseyside, not too bad, non male, lavoro OK,
gente OK. Certo che è meglio Londra, ma bisogna essere pazienti, leggere i gli
annunci, mandare i curriculum, fare interviste, ed inoltre bisogna lavorare al
tempo stesso, senza deludere John. Edo si sta affezionando un po’ a quel
corpulento e rubizzo signore con un riporto che esalta la sua calvizie invece di
celarla, sempre agitato e che parla con voce rauca. Con John è divertente andare
al pub, assieme agli ingegneri ed agli altri manager, lui è sempre al centro
dell’attenzione, ed è un fiume di battute, barzellette, punteggiate da risate
fragorose. Non è la stessa cosa di quando va da John’s, il wine bar vicino a casa
sua. Con i suoi amici si parla in modo diverso, di argomenti differenti. Edo
qualche volta si annoia, ma il colpo d’occhio dei tavoli intorno a lui lo allieta
sempre, con tutte quelle fighette, molte studentesse. Il telefono rompe il silenzio
serale dell’ufficio ormai deserto. Edo risponde, soprappensiero.
“Edo, sono io, Jane”, la voce tesa, incrinata.
20
“Ascolta Edo, questo fine settimana non vengo, resto a Londra.”. Edo sente una
fitta improvvisa:
“Ah, OK, vuoi che venga io?”.
“No, Edo, è meglio che non ci vediamo, non mi sembra il caso.”.
“C’è qualche problema?”
“Sì, c’è un problema. Non… Edo…..” Jane incomincia a piangere, lui rimane
silenzioso.
“Edo, non voglio vederti più. Basta! Mi fa tanto male!”
Jane attacca, bruscamente. Edo rimane così, con la cornetta in mano.
Naturalmente seguiranno altre telefonate, ma lui sa già tutto. It’s over, finita. Bye
Jane. Si riavvia i capelli, cerca le sigarette nella giacca ed esce per fumare.
E’ il pomeriggio di una tiepida giornata estiva, ha piovuto in mattinata, ma ora il
cielo è di uno sfolgorante azzurro. Edo accompagna Don Tole, un pezzo grosso di
una ditta cliente, verso l’ingresso laterale della stazione. Stretta di mano e saluto.
Edo fa per voltarsi, ma intravede dall’altra parte della grande hall una testa piena
di capelli rossi, e si ferma, stringendo gli occhi. Jane cammina con un giovane
alto, si tengono per mano. George, pensa, ecco dov’eri finito. Gliel’hai detto te,
vero? Forse sì, forse no. Edo pensa ai suoi amici thugs del Caledonian di Londra,
potrei fare un paio di telefonate, una bella lezione ti ci vorrebbe, so io come fare.
E’ un attimo, solo un attimo. Edo si guarda i piedi, come faceva da piccolo,
quando sentiva i suoi genitori litigare nella stanza accanto, e quella frustrazione
rabbiosa lo assaliva. Un attimo. Rialza la testa, si riavvia i capelli e si dirige verso
l’uscita, verso Lime Street, sotto il sole di un tardo pomeriggio estivo a Liverpool.
Un mendicante si avvicina, Edo gli allunga una banconota da cinque sterline.
Forse John Paul, l’hair stylist dove va sempre, è ancora aperto.
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2. Edo va a Chester
Edo si accende una sigaretta, dopo il caffè che ha preparato con la moka regalata
dalla madre per Natale. Ancora non si è svegliato completamente, ma già il mal di
testa si fa sentire "Cazzo, sono proprio hungover", pensa, un po' in italiano ed un
po' in inglese. Che sbornia ieri, ho pure fatto a botte con quel deficiente, "Oi
mate, are you watching me bird?", Stai guardando la mia ragazza, così aveva
incominciato, poi Edo non si ricorda più bene, solo un sacco di gente addosso, lui
sbattuto fuori dal pub, e oltre alla testa adesso pure la guancia destra si fa
sentire. Meno male che non mi è saltato nemmeno un dente, come due anni fa a
Londra, quando quel cazzone che sta con la mia ex mi ha gonfiato di botte. Edo
spegne la sigaretta con rabbia, e va in bagno. Il suo appartamento, una
mansardina ricavata da una grande casa con giardino, è più ordinato di quello che
ci si aspetterebbe da un single thirtysomething. Le uniche cose fuori posto, i
vestiti sparpagliati sulla moquette lisa del soggiorno, vengono dalla sbornia della
sera prima. Mentre si guarda allo specchio, Edo si chiede una volta di più, come
cazzo è che sono finito a Liverpool, a lavorare in una piccola azienda meccanica,
la Blackrovers Mechanical Ltd. Figlio di italiani immigrati, poi divorziati, con la
mamma che torna al paese, il padre cameriere in un ristorante italiano di Exeter,
ancora sta là, quel deficiente. Lui torna in Italia con mamma, poi ai 18 anni via a
Londra, a studiare Ingegneria Informatica all’Imperial College. E’ bravo Edo all’uni,
poi però, dopo il PhD e qualche anno come research assistant, lo pescano mentre
spacca i vetri della macchina di un dickhead che l’aveva provocato al pub. Se la
cava con poco, ma è fuori dall’Imperial. Poi un po’ di lavoretti, e infine decide di
andare nel Northwest,. Not too bad, specie adesso che si è trovato questo
posticino. Ci fa un freddo terribile in inverno, ma la casa è proprio carina, in una
zona piena di locali e di belle fighette, studentesse carine che lui cerca di
rimorchiare al wine bar sottocasa, assieme a quel gruppo di squinternati dei suoi
vicini. Edo si guarda allo specchio, che gli dico al boss, adesso, al lavoro. Ha gli
occhi iniettati di sangue, la guancia un po’ gonfia, potrebbe andare peggio, ma la
notte di ieri è scritta sulla sua faccia. Edo si pettina all’indietro i capelli un po’
lunghi, si risistema un po’ e si veste col solito completino blu. Non sembra un
inglese, no, ed il primo indizio é quella sgargiante cravatta piena di fiori rossi di
Ferrè che si è comprato all’aeroporto di Milano, l’ultima volta che è tornato in
Italia da mamma. Già, mamma. La segreteria telefonica è piena di suoi messaggi,
ai quali Edo raramente risponde. Ce n’è un altro, Edo incomincia ad ascoltare
mentre si mette le scarpe, ma non finisce, sempre le solite stronzate, la voce
ancora si lamenta mentre esce di casa. Accende il mobile phone, scende le scale
di legno, scivola fuori dal portone e si dirige di fretta verso la sua Ford Puma
bianca, parcheggiata sotto casa. Ouch, ho la testa che mi scoppia, ma non è la
prima volta, non sarà certamente l’ultima. La giornata è bellissima, perfino un po’
afosa, per gli standard del posto. La radio gracchia qualcosa del match di stasera,
England vs Argentina, che palle con quest’Owen e con questo Beckham, e poi
dicono degli italiani che sono fissati col calcio. La Aigburth Road non è intasata,
Edo passa Garston col suo gasometro gigantesco, Halewood con la fabbrica della
Ford, poveracci, se la passano male, non produrranno più la Escort, quanto
scommetti che chiudono anche ‘sto posto, poi arriva al ponte di Runcorn, sul
Mersey. Edo si ricorda che qualcuno in Italia gli ha detto del ponte, lo ha definito
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un esempio di architettura industriale di non si sa quando, a lui piace con i suoi
travi di acciaio dipinti di verde, gli piace dare un’occhiata al fiume sotto, che già è
estuario, dove i gabbiani si posano sulle secche della bassa marea. Cazzo, oh no,
ho sbagliato, non ho girato verso Warrington, ed ora? Ora mi tocca tornare
indietro, se no devo prendere la M56. Mi sono distratto, fuck. A Edo non piace
fare tardi al lavoro, no, mai. Poi guarda guarda il traffico dall’altra parte, vede le
indicazioni dell’autostrada, Chester da una parte, Manchester dall’altra. E si
ricorda di un anno prima, quando stava ancora con Jane. Andiamo a Chester, Edo?
Posso prendere il treno delle sei per Londra, non ho ancora comprato il
biglietto…. Avevano litigato la sera prima, ed Edo aveva detto sì, let’s go. Let’s go
Edo, andiamo a Chester, così carina, piena di negozi e di gente ben vestita… ma
sì, chi se ne fotte, mi prendo un giorno. Edo arriva dopo un’ora, parcheggia la
macchina e passeggia nel centro con le sue strade dritte che ricordano la
planimetria concepita dai Romani, Chester era un castro romano, già, me l’hanno
detto. In un negozio di alimentari che sembra una boutique troneggia la metà di
un pescespada. Poi va verso il parco lungo il fiume Dee, si siede su una panchina.
Un bambinetto con su la maglia di Owen gioca con un pallone sul prato. La sua
mamma, un po’ più in là, litiga al telefono con qualcuno, strana cosa per
un’inglese. La mamma piange, il bambino gioca. La palla gli sfugge, e rimbalza
sulla panchina, Edo l’afferra. Il bambino si avvicina, occhi azzurrissimi, capelli
quasi a zero, il moccio che esce dal naso, avrà cinque anni o poco più. Lo guarda.
Edo si nasconde un po’ dietro gli occhiali scuri da italiano, il moccioso sorride,
poi dice: “Me Mom got divorced last week”, “La mia mamma ha divorziato la
scorsa settimana”. Edo guarda da un’altra parte, verso il fiume. Poi si fruga nella
tasca della giacca, e prende un piccolo pupazzetto di stoffa, uno Snoopy un po’
liso, e lo dà al bambino, assieme al pallone. Il piccolo Owen aggrotta la fronte,
prende tutti e due e scappa via. Edo resta seduto sulla panchina, a godersi il sole,
mezzo sorriso, la guancia non fa più tanto male. Bye lad.
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3. M25
Sono le 3 p.m. di un grigio giorno invernale sulla M25, il London Orbital.
Incomincia a fare scuro, le luci rosse delle macchine, dei camion e dei pullmini
incolonnati nell’ingorgo formano una lunga colonna ordinata che avanza
lentamente. Edo le guarda stancamente al volante della Ford Puma. La testa non
gli fa più tanto male, la serata precedente passata al Caledonian pub con i suoi
vecchi amici cockney e’ un ricordo sfumato. Non ci provo più tanto gusto a
sbronzarmi, pensa. E ripensa ai gloriosi tempi dell’Imperial College, quando,
studente, aspettava con impazienza che arrivasse il Sabato sera, per ritrovarsi con
i suoi mates che parlavano delle recenti gesta di Arsenal, Chelsea e Tottenham.
Poi i soliti discorsi di ragazze, i racconti di scopate improbabili e l’alcol che
sommergeva tutto in un carosello ilare. Pugni e calci fuori dai locali, qualche volta,
lasciavano segni sul viso e l’amaro in bocca il giorno dopo. Non è più così, non
sono più così. Questa volta Edo è tornato a Londra per motivi diversi: non è la
ragazza, non è l’aereo che lo porta in Italia per le vacanze di Natale, non è una
delle rimpatriate che scandivano i primi tempi della sua permanenza a Liverpool.
La prima volta che era ritornato i suoi mates avevano incominciato a cantare “we
hate the scouser” in suo onore, i bastardi. Questa volta è business, contatti da
mantenere, contratti da siglare, mani da stringere. Ma qualcosa di nuovo è
successo. Don Tole, il manager della ditta con la quale sta stringendo un accordo,
gli ha offerto un nuovo lavoro. Così, di punto in bianco, davanti al suo piatto di
improbabili lasagne, durante il pranzo finale al pub. Don gli ha detto “Look Edo, I
think you are good, you’d be better here, with us”. “Senti Edo, sei bravo, staresti
meglio qui da noi”. Edo si è riavviato i suoi capelli neri, sorridendo. L’occasione
per tornare nella capitale, ci pensa sempre, ci ha sempre pensato. Sorride ancora
in macchina, mentre procede lentamente. Se va avanti così, arrivo a L’pool a notte
fonda. Speriamo che la spaghetti junction a Birmingham sia un po’ più libera,
quando ci arrivo. Pensieri imprecisi, Oasis che suonano in sottofondo. Una
bambina indiana lo guarda senza emozione dalla macchina davanti Porta la divisa
grigia della scuola, un buffo cappellino sopra le lunghe trecce nere. Edo gli fa
ciao, lei si volta e scompare dal finestrino.
Il cellulare squilla all’improvviso. Edo aziona l’auricolare distrattamente.
“Edo dove cazzo sei?” La voce stridula di Peter, il suo collega, è sovraeccitata,
come al solito.
“Sono bloccato sulla M25, ci deve essere stato un incidente. Senti, devo riattaccare
perché adesso ci stiamo muovendo…”
“Edo, il boss ha avuto un infarto a casa, l’hanno portato all’ospedale a Liverpool!
Sta male, non sanno se ce la fa, stiamo andando lì, riesci a venire?”
“Cosa…? Va bene, se posso cerco di passare stasera…”
“In ufficio è un casino, la gente sta andando via. Anche in produzione si sono
fermati, Edo, c’è il lavoro di Don Tole che deve cominciare, che cazzo facciamo?
Edo? Mi senti?”.
Edo attacca senza rispondere e guarda fisso davanti. La bambina indiana è
ricomparsa e gli sorride, facendo ciao con la manina.
John Blackrover, il boss. Prima o poi doveva succedere. Troppe sigarette, troppo
alcol, troppo lavoro. In ufficio girava voce che i medici gli avessero praticamente
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dato un ultimatum per farlo rallentare almeno un po’, ma lui come sempre se ne
era infischiato. E ora? Sono le 10 di mattina, Edo ha provato passare la sera prima
ma era troppo tardi. Ora cammina nervosamente su e giù per il bianco corridoio
dell’ospedale, il completo blu del giorno prima, cravatta rossa. Almeno mi sono
cambiato la camicia, pensa, devo ricordarmi di chiamare il maledetto tecnico della
maledetta lavatrice, non mi è rimasto nemmeno un paio di mutande pulite. Lady
Diana gli sorride vacuamente da un ritratto appeso sul muro, sopra una targa in
sua memoria. L’infermiera, una donna giovane e tirata che porta una enorme
cintura di pelle nera sul camice blu, esce dalla stanza di John e gli sorride:
“Puoi entrare, love, lui sta molto meglio, ma non stancarlo troppo, OK?”.
Edo entra nella stanzetta bianca e ha un improvviso ricordo di tanti anni prima, di
un’altra stanza e di suo nonno. Speriamo che stavolta vada meglio, pensa
amaramente. John è disteso supino, gli occhi semichiusi, due cannule escono dal
suo grosso naso. Non ha più il suo solito colorito rubizzo, il suo assurdo riporto è
in completo disordine, ciocche sparse sul guanciale. John si volta e sorride
stancamente.
“Edo, ancora non ti sei tagliato quei capelli? Quante volte te lo devo dire, son?
Chissà che avrà pensato quel cazzone di Don! Che adesso mandiamo in giro a
rappresentarci dei frocetti.”.
Edo sorride e non risponde, poi si guarda i piedi, come sempre gli succede
quando John lo rimprovera.
“Hanno firmato, allora? Alle condizioni che avevamo stabilito?”.
Edo annuisce, senza dire niente.
“Bravo, eccolo qua, my italian lad. Poche parole e molti fatti. Ah, se avessi te come
figlio, invece di quello smidollato che perde tempo a fare crociere su quelle
stupide barche a vela… E non sono nemmeno sue!”.
Un colpo di tosse interrompe il soliloquio di John, Edo si guarda intorno,
allarmato.
“Non preoccuparti, son, non muoio, non ora, almeno. Senti Edo, guardami, ho da
farti un’altra domandina: non è che Don ti ha detto qualcos’altro? Qualche
frasetta delle sue, tipo quanto sei bravo, perché non vieni a lavorare qua e via coi
violini? Lo so che vuoi tornare in quella cazzo di Londra, che ci troverete voi
giovani laggiù, mi chiedo. Pensaci bene, Edo, pensa alla libertà che hai qui con
noi. Pensa alle responsabilità che ti abbiamo dato. E guardami, cazzo!”.
Un altro colpo di tosse, Edo guarda gli occhi di John, gli fanno pensare all’acqua
del mare, chissà perché.
“Boss, sei stanco, adesso chiamo l’infermiera, OK? Take care.”.
E’ come se l’infermiera avesse sentito, si materializza in un attimo. Edo esce dalla
stanza, incrocia lo sguardo di Lady Di e va via quasi di corsa dall’ospedale.
Vecchio bastardo, pensa, gli viene quasi da piangere. Basta, stasera vado al
Britannia a bere sidro e a guardare il Mersey.
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4. Venerdì al Phil
John è seduto sulla sua poltrona, dietro all’enorme scrivania. Sembra piccolo ed
esausto, è uno dei primi giorni al lavoro dopo l’infarto e la lunga degenza in
ospedale. Peter, Jamie ed Edo arrivano alla spicciolata e si accomodano
silenziosamente sulle sedie, scambiandosi occhiate preoccupate; non sarà un
meeting facile, lo capiscono da come John si tormenta il lobo dell’orecchio destro
con il pollice e l’indice. Barbara, l’ossuta segretaria, porta un vassoio con caffé e
tè, la poggia su un angolo della scrivania, si rassetta leggermente il vestito e
scappa via. John e gli altri non la guardano nemmeno, nei momenti buoni sarebbe
volata qualche battuta, lei avrebbe risposto con la solita verve, ma oggi non è
giornata, proprio no.
“So Edo, let's get straight to the point. Andiamo al punto. Questa tua nuova
idea... è interessante, un buon progetto. Quanto ci hai lavorato, son? Tre mesi,
vero? Tu pensi che la società dovrebbe fare questo passo. One step beyond...".
John fa un primo mezzo sorriso, guardando in aria. Un piccolo colpo di tosse di
Jamie lo scuote. Continua.
"Tu dici che dobbiamo costruire questo oggettino, questo trasduttore, tutto da
soli, e venderlo in America, prima nell'aeronautica e poi, se va bene, dici che avrà
mercato anche nell'industria automobilistica. Very clever, son. Ma, Edo, è un bello
sforzo. Jamie, qua, dice che non ce la facciamo. Siamo giù, lo sai? Non abbiamo
liquidità, le banche ci stanno già addosso, vero Jamie?"
"Ne abbiamo già parlato con Edo." La voce di Jamie è leggermente nasale, piatta.
"Oh, lo so, lo so. Avete cominciato a discutere quando ero in ospedale. Tre mesi
fa, vero? Voi litigavate, ed il resto andava a puttane, le commesse non finite, Don
Tole è incazzato nero, ho visto che razza di casino c'era quando sono tornato, e
tu, tu Edo acchiappavi le farfalle." John sorride, di nuovo, Edo si riavvia i capelli,
guarda Peter, aiutami, bastardo. Peter è una sfinge, maledetto, sempre così.
Aplomb britannico, in questi casi. Ecco, adesso mi crocifiggono.
"Edo, mi hai deluso un po'. I am quite disappointed, son. Questa cosa..." John
indica la cartellina di Edo, quasi con disgusto "...questa cosa non possiamo farla.
Hai perso un sacco di tempo, non perderne altro. E voi due, pure voi avete
cazzeggiato troppo. No, Edo, non dire niente. Stop. E ora, passiamo al resto."
Edo si guarda le scarpe, poteva andare peggio, pensa, mentre Jamie relaziona su
una commessa, arriveranno altri guai, i pesci volano per tutti, oggi. Inglesi
bastardi. Fucking brits. Dalla finestra, la luce del lampione illumina la pioggia
sottile di Marzo. Alla fine della riunione, i tre si alzano, Peter quasi vola verso la
porta, Edo si aggiusta la giacca, Jamie si muove lentamente, ha perso il suo
incedere spavaldo da ex rugbista, c'è qualcos'altro, pensa Edo, non ha la solita
aria bastarda, il mezzo sorriso ironico che lo contraddistingue. Jamie viene
richiamato dal boss, la porta si chiude. Negli altri uffici non c'è più nessuno, Edo
saluta Peter, è ora di andare al Philarmonic, è Venerdì sera.
Il Philarmonic (chiamato familiarmente Phil) è un pub maestoso all'angolo tra
Hope Street e Hardman Street, davanti alla Philarmonic Hall di Liverpool, nel
centro città, non lontano dall'Università. Edo siede con i suoi mates in un tavolo
della stanza del camino, dove arde un fuoco piacevole, nella fredda ed umida sera
di fine Marzo. Gente che beve e chiacchiera tutt'intorno, dal juke box ruggisce la
chitarra di Jimy Hendrix,
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There must be some kind of way out of here"
Said a joker to the thief
There is too much confusion,
I can't get no relief.
Chissà chi ha scelto questo oldie, forse uno di quei quarantenni ancora in giacca e
cravatta dal lavoro che sembrano spassarsela un mondo, uno di loro porta un
distintivo con su scritto life begins at 40, la vita comincia a quarant'anni. Devo
ancora nascere, pensa amaramente Edo, mentre finisce la sua pinta di lager e
cerca di smaltire lo stress del tempestoso meeting di poco prima. E' il suo giro,
Edo prende le ordinazioni di Geoff, di Manolo e di Rob, e si incammina verso il
banco situato nella hall accanto. Si fa strada fra la gente e si avvicina alla bionda
barista dallo sguardo duro. "Due pinte di lager, una di bitter ed una Becks", Edo
alza la voce per farsi sentire dalla donna dietro il bancone."Yes love", la risposta
della bionda ha un suono metallico, il robot si mette in movimento. Edo si volge
leggermente, vede Jamie seduto su uno sgabello, troppo vicino per evitarlo. Jamie
guarda il suo bicchiere di whisky, perso nei suoi pensieri, l'aria torva. Sente che
Edo lo guarda, e si volta, ha un piccolo sussulto, il sorriso ironico affiora
immediatamente, ma gli occhi sono vuoti.
"Edo".
"Jamie".
I due si fissano, risentimento, rabbia sorda affiorano. Edo si avvicina:
"Bravo Jamie, sembra che tu abbia vinto la partita...."
"Don't fuck me about, Edo, era una causa persa e lo sapevi, te l'avevamo detto. Lo
sai come la pensa il boss su certi progetti. Non ce lo possiamo permettere, questo
è tutto. Da quando sei salito di grado e ti hanno cambiato mansioni non capisci
più niente. Svegliati, Edo, non sei in America. Vattene lì, se ti piace fare il grande
businessman. E lasciami in pace."
"Sei un clown, Jamie, you're a jerk. Ti rode perché non comandi più come prima,
non puoi più fare gli show del cazzo che facevi prima. Il tempo passa e non riesci
a infilare un contratto. John lo vede che non combini più un cazzo, me lo ha anche
detto, guardati il culo, mate. Finita."
Edo dice l'ultima parola in italiano, senza rendersene conto. Jamie sorride per un
attimo, poi fissa di nuovo il suo bicchiere. Una risata fragorosa esplode dalla sala
accanto, i quarantenni ci danno dentro, due ragazze in minigonna escono
ridacchiando dai bagni degli uomini, forse hanno ammirato i famosi mosaici, o
qualcos'altro. Jamie scuote la testa, i biondi capelli dal taglio alla moda.
"Cazzo ne sai Eddie boy, della vita da grandi. Oggi sono stato in tribunale, mia
moglie sta riuscendo a portarmi via i figli. Li potrò vedere solo in un cazzo di
posto a Manchester una volta al mese, in presenza di un assistente sociale. Sono
la mia vita. Senza di loro sono morto. Cazzo ne sai. Get lost, Edo. E pensare che
John mi ha anche prestato dei soldi per la causa."
Edo ripensa a un barbecue insieme ai colleghi l'estate scorsa, Jamie che gioca a
rugby con due maschietti sul prato. Le mani di Jamie tremano mentre si porta il
bicchiere alle labbra. Edo pensa, e si guarda le scarpe.
"C'è un problema, qui?" Una voce dal morbido accento spagnolo rompe l'attimo,
Manolo si avvicina, la sua sagoma è imponente, i capelli nerissimi sono raccolti in
una coda:
"Dove sono i drink, Edo?".
"Sono lì sul banco, andiamo."
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Jamie li guarda, sorride con gli occhi lucidi:
"Bye Eddie, salutami Geoff. Salutami tutti."
Edo si volta senza salutare, prende i drink con Manolo e torna verso il suo tavolo.
Così è, big boy life. Chissà se fuori piove ancora.
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5. Scoiattoli rossi.
Il meccanico si rialza e si pulisce le mani con uno straccio, mentre dice ad Edo:
“C’è un problema con la centralina, dobbiamo cambiarla, mate. Lo facciamo
domani, qui non ne abbiamo una di ricambio.”
“Quando mi potete ridare la macchina?”
“Domani sera è pronta. Mi chiami nel pomeriggio, comunque.”.
Cazzo, mi costerà un patrimonio, pensa Edo. Prima la chiamata del carroattrezzi,
poi la centralina. Elettronica bastarda. Ok, punto. Domani per andare a Londra ne
noleggio una. Edo si riavvia i capelli, saluta ed esce. Il garage è un capannone
nella zona dei vecchi magazzini del centro di Liverpool, una zona semideserta.
Molti degli edifici dai mattoni rossi sono chiusi ed abbandonati. Adesso mi tocca
anche cercare un cab per tornare a casa, accidenti. Da un angolo della strada
sporca si intravede la sagoma scura della cattedrale anglicana. Edo incomincia a
camminare con passo svelto, ma sente una voce che lo chiama. Quando si volta,
vede avvicinarsi un uomo alto, sorridente. Ha un incedere dinoccolato, e porta un
vestito un po’ trasandato. Il volto, incorniciato da una gran massa di capelli rossi è
appesantito da un paio di occhiali spessi, ed ha un aspetto familiare.
“Scusi, lei abita a Belgrave Road, vero? Sono un suo vicino, si ricorda di me?”
L’uomo parla con un gradevole accento irlandese, ma certo, è il professore che
abita davanti.
“Ho visto che ha lasciato la macchina in garage. Ho appena ritirato la mia. Se
vuole, le do un passaggio fino a casa. Sta andando là, vero?”. Il professore sorride,
un po’ timidamente.
“Be’, non so cosa dire, la ringrazio.”
“Comunque il mio nome è Sean Mc Gilp”.
“Piacere, Edo De Santis”.
“Edo….”. La stretta di mano è vigorosa, certo non è una stretta inglese, no.
La macchina è una vecchia family car rossa, una Ford Escort che ha conosciuto
tempi migliori. Dentro l’abitacolo il disordine impera allegramente. Giocattoli
rotti, qualche vecchio libro e rifiuti vari.
“Mi scusi, sa, i bambini….”, Sean sgombera il sedile anteriore buttando la sua
borsa di pelle nel retro. Edo si accomoda con cautela, rimuovendo un piccolo
Pokemon.
“Up we go” dice Sean, e parte sgommando leggermente. I due rimangono
silenziosi per gran parte del viaggio attraverso Toxteth, verso Aigburth. Edo
guarda fuori dal finestrino.
“ Edo è un nome italiano, vero?” domanda Sean mentre guarda fisso davanti,
aspettando che un semaforo diventi verde.
“E’ il diminutivo di Edoardo, ma mi chiamano tutti Edo da quando ero piccolo. Lei
insegna all’Università?”.
“Sì, insegno chimica all’Università di Liverpool.”
Già, l’Università. Edo pensa all’Imperial College di Londra, dove ha studiato e
lavorato prima di approdare al settore privato. Non è stata proprio una scelta,
quella di lasciare. Carattere, brutto carattere, come gli dice sua madre da quando
era piccolo. Bad boy. Edo si scuote, il viaggio è finito. Sean ferma la macchina
davanti casa, poi si volta e sorride, senza guardarlo direttamente.
“Senta Edo, stavo pensando, uh… ecco, noi oggi abbiamo organizzato un
barbecue, abbiamo invitato molta gente, molti vicini… ecco, se vuole può venire,
sono sicuro che ritroverà anche qualcuno che conosce….”. Edo è un po’
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interdetto, ma il tipo è troppo simpatico. Un po’ di complimenti, e poi accetta.
Prima deve passare a casa a cambiarsi e a prendere una delle bottiglie di vino che
ha portato dall’Italia. Non è il caso di venire con il completo dell’ufficio.
Quando Edo arriva, il giardino di Sean è già pieno di gente. Uomini e donne
chiacchierano a voce alta, con bicchieri e lattine in mano. Una masnada di
bambini corre in lungo ed in largo mentre le madri li richiamano inutilmente. Edo
porta una giacca avana sopra un paio di pantaloni blu ed una camicia bianca
senza cravatta, capisce subito di essere troppo elegante. Si sente un po’ a disagio,
con la bottiglia in mano, mentre apre il cancello. Sean arriva subito, porta un
bambino biondo sulle sue ampie spalle:
“Grazie di essere venuto, Edo. Questo è mio figlio Rory, 3 anni, entri pure, prego.”
Edo lo segue, l’odore del fumo e della carne arrostita lo avvolge. Sean gli presenta
un po’ di gente, tutte persone dall’aria simpatica ed informale, molti accademici,
riconosce la razza, in fin dei conti ne ha fatto parte, anche se per pochi anni.
Persone adulte, sposate, fourtysomething, molti sono vicini che ha incontrato per
strada mentre portano a spasso il cane, mentre passano in macchina di ritorno dal
supermercato, mentre entrano o escono di casa. Non li ha mai considerati, ma ora
gli sembrano decisamente gradevoli. Una donna bionda con un sorriso ironico si
avvicina a Sean ed Edo. Porta un paio di jeans ed una polo bianca, i capelli raccolti
in una lunga treccia.
“Sean, questo è il ragazzo italiano che abita davanti a noi, vero? Hai visto, ha
portato una bottiglia di vino. Non lo hai ringraziato? Non gli hai detto dove
posarla, Sean?”
La donna si volta verso Edo, ed alza gli occhi al cielo, mantenendo il suo sorriso.
Sean arrossisce:
“Edo, questa è mia moglie, Elaine. Grazie per il vino, lo dia pure a me, scusi.”
Edo porge la bottiglia a Sean, ma Elaine la prende prima che Sean ci arrivi e
guarda l’etichetta, stringendo gli occhi come fanno i presbiti.
“Montepulciano d’Abruzzo”, pronuncia con fatica, ”I know that, lo vendono anche
qui!”.
“Si’, lo so, ma questo l’ho portato con me dall’Italia. Le assicuro che questo non lo
trova al supermercato.” , replica Edo sorridente, anche se un po’ seccato.
“Grazie Edo, lo apro subito. Vado a cercare il cavatappi. Se vuole accompagnarmi,
le presento altre persone.” .
Edo segue Sean, un ultimo sguardo a Elaine, che continua a sorridergli. Mi prende
in giro, mi sa che prende tutti in giro, pensa Edo. Nel loro viaggio verso il tavolo
dall’altra parte del giardino, Sean gli presenta altre persone, e gli mostra gli altri
due figli che giocano a calcio, Ronan e Sam, di otto e sei anni, chissà perché deve
dire anche l’età, meno male che non lo ha fatto anche per la moglie.
La serata prosegue chiacchierando del più e del meno con alcuni vicini, poteva
essere peggio. Elaine sbuca all’improvviso e gli porta il secondo piatto con degli
spiedini in una salsa indiana. Sorride sempre, ed è accompagnato da una ragazza
che le assomiglia:
“Edo, finalmente ti ho portato qualcuno della tua età, o quasi. Ti presento mia
sorella Claire, è appena arrivata dal lavoro. Fa i turni all’ospedale, poverina.”.
Claire dice semplicemente “Hello” ed abbassa un po’ lo sguardo. Altra timida.
Capelli raccolti in tante treccine, profondi occhi azzurri, come la sorella. Non
molto alta, ma con tutte le cose al loro posto. Look un po’ grunge. Edo guarda le
due sorelle,così similli e così diverse, e sente dentro un piccolo click. Fa ciao con
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la mano, si può fare, pensa.
Ev’rybody, let me tell you about my love
Brought to me by an angel from above
Fully equipped, with a lifetime guarantee
Once you try it, well I’m sure you will agree.
Ad Edo viene in mente una vecchia canzone delle Sister Sledge, ripensa a quando
una volta vide i suoi genitori che ballavano in cucina al suono della radio, lui
bambino che si copriva gli occhi, imbarazzato. Era proprio quella, la musica. Una
leggera brezza gli accarezza il viso, la spiaggia di Formby è quasi deserta, è una
giornata calda e bellissima. Il mare d’Irlanda che gli si stende davanti, non ha il
solito colore scuro e l’aspetto un po’ minaccioso, è blu, finalmente. In lontananza
si vede una piattaforma, forse una raffineria. La marea è bassa a quell’ora della
giornata, due bambini giocano sul bagnasciuga che si stende in lontananza.
Qualche ragazzo un po’ coraggioso sta provando a fare il bagno, un gruppo di
cavalli attraversa la sua visuale galoppando, i cavalieri sembrano molto
concentrati per evitare guai. Edo si volta, e guarda la donna stesa bocconi, che
prende il sole accanto a lui. Sulla sua spalla c’è un piccolo tatuaggio, una farfalla
multicolore. In poche settimane l’avrò già baciata un milione di volte, pensa.
Elaine si rialza e gli sorride.
“Time to go, Eddy boy. Sean tornerà con i bambini alle sette. Poi domani tu devi
andare a Londra da quel tizio, vero?”.
Un piccolo bacio sulla guancia, un sospiro.
“Levati quegli occhiali scuri da italiano, fammi vedere i tuoi occhioni marroni,
Eddy boy. Ecco, così va meglio.”. Altro bacio.
Edo si alza e prende le sue cose, Elaine si riveste.
“Andiamo a vedere gli scoiattoli rossi del bosco, sai, i bambini ne vanno matti…”.
Elaine sorride nuovamente, mi prende in giro sempre, pensa Edo. Va bene così. I
due si incamminano attraverso le dune, verso il bosco.
I’m thinking of you,
and the things you do to me
that make me love you
now I’m living in extasy.
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6. La corsa
L’uomo distinto si guarda allo specchio. Capelli neri tirati indietro, pelle olivastra,
sguardo teso e concentrato. Si aggiusta la cravatta, si osserva la dentatura, si
sistema i capelli con un piccolo pettine. Gesti rapidi, precisi, silenziosi. Si sciacqua
le mani, si asciuga alla macchinetta ed esce dal bagno. Suda leggermente mentre
si dirige verso il gate. L’aeroporto è ancora semideserto, un janitor di colore
spinge stancamente un carrello con il suo carico di detersivi, stracci ed
immondizia. Los Angeles, Chicago, San Francisco, Atlanta, NewYork: i nomi
compaiono sui display come numeri della lotteria. Un piccolo, impercettibile
sorriso increspa le labbra dell’uomo in giacca e cravatta mentre si avvicina alla
donna bionda in uniforme, dall’aria un po’ insonnolita. Il più è fatto, pensa, ed
accelera leggermente il passo.
Edo corre sul cemento umido della passeggiata di Otterspool. Accanto, il Mersey
ha un colore scuro. La giornata è grigia, ma siamo ancora gli inizi dell’autunno,
non fa freddo, c’è solo un po’ di brezza pomeridiana. Edo sente il rumore delle
sue scarpette da corsa ed il suo respiro accelerato, un cane gli si avvicina
scodinzolando, ma lui non ci fa caso, è troppo concentrato sugli ultimi cento
metri da percorrere. Un ciclista lo sorpassa, è un flash dal colore verde
fosforescente che si allontana rapidamente, ci siamo quasi, il più è fatto, pensa.
Quando arriva vicino al parcheggio del pub, si arresta e ferma il cronometro con
un gesto un po’ incerto. Il tempo registrato è un po’ più alto del solito, colpa di
Elaine, pensa sorridendo mentre si piega, respirando affannosamente, chissà se è
ancora a letto. Lentamente si incammina verso casa, mentre rifiata e si asciuga il
sudore della fronte con il polsino bianco.
Arriva camminando, per le strade c’è l’attività solita di un pomeriggio lavorativo,
ma la sua strada è silenziosa e tranquilla come al solito. Edo tossisce
leggermente, sta ancora sudando, e percepisce che Elaine è ancora a casa sua, gli
aveva detto che lo avrebbe aspettato, anche se era un po’ imbronciata quando era
uscito per andare a correre. Sente l’acqua della doccia che scorre in bagno, lo so
che userà di nuovo il mio accappatoio pulito, pensa con un po’ di fastidio, ma poi
potrò sentire il suo profumo quando lo uso, quindi siamo pari. Un po’ dai e un po’
prendi, il mondo va così, o no? Edo comincia a fischiettare. Il televisore di un
vicino manda delle voci concitate, sembra una cronaca sportiva commentata da un
americano. A quest’ora? Forse è la replica di una qualche partita di football, anche
se non è stagione, forse baseball? Ad Edo viene un po’ di curiosità, ma poi la sete
prende il sopravvento. Va in cucina, apre il frigorifero e prende una lattina di
coke, troppo presto per una birra. Torna in soggiorno e cerca il telecomando, ma
dove cazzo è finito, mi dimentico sempre dove lo metto. Lo trova ed accende.
Pubblicità su un canale, un cartone su un altro, poi due ciccione che litigano in un
talk show. Questo cos’è, un film? Una scena fissa su un cielo azzurro limpido, una
città americana dall’aspetto familiare, due grattacieli altissimi che fumano. Non
sembra un film, ci sono delle scritte in sovrimpressione che scorrono, eccola la
voce americana. Gesù, non è un film. Edo legge le scritte, sente la voce. Che cazzo
sta succedendo, stringe gli occhi, si lascia cadere sulla poltrona. Che mostruosità,
non è uno scherzo, vero? Rimane così, inebetito. Non sente Elaine che si avvicina.
Dopo un’ eternità si gira, e la vede in piedi con il suo accappatoio, che piange
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silenziosamente. Edo guarda i suoi occhi blu lucidi, non sa che dire.
“John lavora là, è un mio amico. Edo, devo andare, devo andare a casa.”
Elaine scappa singhiozzando in camera, il tempo adesso scorre rapidissimo, prima
che Edo si capaciti lei è fuori, vestita, i capelli ancora umidi. Sente sbattere la
porta, forte. Lui rimane seduto, continua a guardare la televisione con la lattina in
mano. Vedrà ancora molte cose, le vedremo tutti.
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7. Long kiss goodbye
Edo guarda Elaine con aria corrucciata, fuori dal Pumphouse in una tiepida ed
umida sera autunnale. Ha appenda piovuto, le strade lucide riflettono le luci dei
lampioni, una macchina passa schizzando il marciapiede poco più in là, le poche
persone rimaste escono dal pub e si sparpagliano silenziosamente. Elaine si torce
le mani, mentre piange silenziosamente.
"Is that it? E' tutto?" chiede Edo, più a sé stesso che alla donna dalla lunga treccia
bionda che si adagia soavemente sull'impermeabile da uomo, senza più il suo
adorabile mezzo sorriso.
"That's it, Edo. Sean ha deciso di andare in sabbatico in California per un anno. Io
andrò con lui e con i bambini. Non posso restare qui. Non posso." La voce giunge
quasi a stento, Edo volge lo sguardo verso un punto lontano, in alto, verso le torri
del Liver buinding, sormontate dalle statue di quello strano uccello mitologico,
simbolo rapace della silenziosa Liverpool.
"Già, i bambini, kids are kids. Cristo, Elaine....".
"Che vuoi, Edo? Cosa vuoi da me? Che resti qui? Cosa ne sai di me, di noi? Non
rendere tutto più difficile, lo è già abbastanza..."
"Certo, Elaine, certo, hai ragione tu. Hai sempre ragione tu."
E' in quel preciso istante, che lui sente il crack, tutto è andato a puttane, stringe
gli occhi, si riavvia i capelli. La pioggia ricomincia a cadere, soffice, in piccole
gocce sottili che impregnano la sua giacca blu.
"Bye Edo, my dear. Vado a prendere la macchina, non accompagnarmi." Il lungo
bacio bagnato dilata il tempo e lo spazio, è un vortice buio. Long kiss goodbye. I
suoi tacchi risuonano sull'asfalto, Elaine scompare dietro gli Albert Docks. Vuoto e
pioggia su di me, sul Mersey scuro, sulla città povera e struggente, sulle anime
desolate, su Eleanor Rigby, sugli edifici abbandonati.
Inglewood, down in LA. Edo sorride, sdraiato sul letto, pensando che e'
partito da Manchester Airport ed è finito a Manchester Boulevard. Stesso nome,
due mondi completamente differenti. Si alza, attraversa la anonima camera del
motel che lo ospita, e guarda dalla finestra. Una palma altissima contro un cielo
lattiginoso , due ragazze in bikini sdraiate accanto ad una piscina formato
tinozza. Probabilmente la qualità del motel è proporzionale alla grandezza della
piscina, pensa Edo, appena arrivato in questo nuovo mondo che lo accoglie come
se fosse un'isola deserta. Il condizionatore bisbiglia una nenia incapace di
cullarlo: troppo stanco, sfasato. Il giorno eterno del viaggio, i pensieri, i propositi.
Accende la TV, George W. Bush lo scruta con un'aria severa, next stop Iraq, così
andrà a finire, c'è da scommetterci.
Il telefono lo distoglie da considerazioni
cupe sul prossimo futuro del mondo, alza la cornetta.
"Hola, amigo, bienvenido a Los Angeles." La voce flautata di Manolo, una voce
amica finalmente.
"Sei troppo stanco stasera per un quick drink nella città degli angeli? Dobbiamo
raccontarci un sacco di cose, non dirmi di no."
"No problem, amigo. Stavo aspettando una tua chiamata."
"Dammi mezz'ora e sono lì. Così ti levi da quella fogna. Si va a fare danni a Santa
Monica.".
Manolo è di parola, ha imparato la puntualità, cambi il paese, cambi le abitudini. A
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Liverpool era tutta un'altra storia, Edo passava le ore ad attenderlo con gli altri
suoi mates. Si fa sera sul Sepulveda Blvd., mentre la macchina scalcagnata di
Manolo compie un lungo tragitto verso nord, il paesaggio cambia, suburbia a LA
presenta molti aspetti, i quartieri di casupole si alternano a colline
semidesertiche. Le luci illuminano il molo di Santa Monica con le sue giostre ed i
chioschi per turisti, Manolo parcheggia in una strada laterale, vicino ad un bar con
insegne al neon che contrastano contro il cielo rosso cupo. Entrano, il locale è
affollato di uomini e donne in jeans e maglietta seduti sui tavoli, i televisori
mostrano scene di baseball. Si siedono al banco, Manolo ordina due Bud ad una
ragazza rossa dal sorriso perfetto che li accoglie con grande cordialità. Manolo e
le cameriere. Questa abitudine non è cambiata, invece. Due ragazzi dall'aria
messicana dicono qualcosa all'amico spagnolo, che risponde con un cenno.
"Così, sei qui. Non mi hai detto perchè, quando mi hai chiamato dall'aeroporto..."
"Business, of course. Debbo parlare con della gente a San Francisco per una
fornitura."
"San Francisco? Lontano da qua. Perchè non sei andato in aereo direttamente lì?"
Edo nota le piccole rughe agli angoli degli occhi di Manolo, e qualche capello
bianco nella lunga coda di cavallo del suo amico. Il tempo vola, pensa un attimo ai
tempi del Philarmonic, prima di rispondere.
"Ho deciso di fare un viaggetto sulla costa,non sono mai stato in California
prima.".
Manolo sorride: "Passerai per Santa Barbara? Ay Edo, non mi dire che ci pensi
ancora... Quando sono partito per l'America eri un uomo devastato, pensavo
spesso a te, ma tutti mi dicevano che stai bene ora. Lascia perdere, qui è pieno di
chicas..."
"Non mi rompere Manolo, sto bene, è vero. Debbo solo concludere questo affare,
OK? E voglio prendermi qualche giorno per me."
Manolo annuisce, prende la bottiglia di Bud, serio.
"Cheers mate"
"Cheers". Le due bottiglie si incontrano. Sarà una serata di racconti e di ricordi, in
questo pezzettino di Nuovo Mondo. Un paio di ragazze con cui chiacchierare, un
lungo viaggio di ritorno nella mite notte di LA, in silenzio.
La piccola macchina giapponese viaggia silenziosamente sulla 101 verso Nord in
una splendida giornata di sole. Los Angeles è alle spalle, attraversa Ventura, Edo
fischietta al volante al suono di una radio "...ain't no mountain high enough...", la
strada è abbastanza sgombra, qualche camion e poche macchine. Edo sente
l'emozione crescere mentre la distanza dalla prossima meta si accorcia. C'è
qualcosa che devo ancora fare, qualcosa che devo ancora dire, si ripete quasi
ossessivamente. E' un pensiero fisso che lo tormenta da settimane che sembrano
anni.
Santa Barbara è una deliziosa cittadina dagli edifici spagnoleggianti, lunghe
spiagge dorate, un mare che non sembra nemmeno oceano, le palme svettano sul
lungomare, la 101 la abbraccia a sud e piega verso nord. La State Street sale dal
molo e la attraversa, negozi eleganti, turisti che passeggiano, ristoranti dalle
mille etnie. Edo parcheggia l'auto che ha preso a noleggio in una strada laterale,
cerca di orientarsi con la sua piantina. Al motel penserà dopo, adesso ha una
telefonata da fare.
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Elaine legge un libro seduta sulla spiaggia, ha davanti il mare, si intravedono le
Channel Islands attraverso la foschia. Edo la riconosce subito, è come tuffarsi nell'
oceano, si avvicina camminando sulla sabbia calda con le scarpe in una mano ed
un pacchetto in un'altra, gli occhiali da sole un po' storti. Elaine percepisce la sua
presenza quando è vicino, sorride senza guardarlo. E' abbronzata, i capelli
biondissimi più corti, un po' ingrassata, forse. "Eddy boy, he crossed the ocean for
me...", canticchia sorridendo, guardando le isole lontane. Edo si siede accanto a
lei, senza parlare. Elaine si volta, lo sguardo si fa duro:
"E ora? Ora che mi hai raggiunto, cosa credi di fare?"
"Niente, voglio stare solo un po' qui con te. Domani riparto, devo andare a San
Francisco. Tutto qui."
Elaine sorride di nuovo, scuote la testa:
"Edo, silly italian boy. Quando mi hai telefonato da LA, non sapevo proprio cosa
pensare. Non ci credevo. Couldn't believe it."
"Come stai? How's family?"
"Bene, benissimo. We are having a great time". Elaine imita l'accento enfatico
americano.
"Sean....Sean è andato a San Diego per un congresso, sta pensando di restare qui.
Irlandesi, popolo di emigranti, come voi...I bambini a scuola. E' un po' dura per
loro, specialmente per Ronan, il più grande. Fa fatica ad abituarsi. Io? Ho trovato
un lavoro in un negozio di antiquariato. Sono in permesso, oggi."
Dovrei levarmi la camicia, pensa Edo, sto sudando. Elaine lo guarda sottecchi, un
attimo, poi si volta di nuovo verso il mare. Una lacrima scorre sul suo volto
abbronzato.
"Quando sono andata via, credevo di morire. Di morire. E Sean, ancora non sa di
noi, non ha intuito niente. Mia sorella, Claire, l'ha capito subito, voi uomini, non…
non capite mai, non vedete mai."
Edo si avvicina, le cinge le spalle con un braccio, Elaine rimane immobile. Stanno
un po' così, una coppia di anziani bagnanti passano, li guardano un attimo,
incuriositi. Vanno via.
"Anch'io sono stato male, ero perso, ho smesso di fumare, ho lavorato come un
cane, ho bevuto, ho guardato il football. Sono stato anche ad Anfield, sulla Kop,
con Geoff."
"Bravo Edo, così si fa. Tough boy. Duro."
"Ti devo dare qualcosa, è un po' che ci pensavo..." Ma com'è che uno immagina la
scena, e poi tutto avviene in modo diverso, pensa Edo. All the reverse it should
be. Le porge il pacchetto. Elaine è incuriosita, apre la anonima scatola, guarda
dentro, sorride. Tira fuori una piccola sfera trasparente, dentro il Colosseo, la
neve finta che turbina intorno quando la scuote.
"Molto appropriata, in questa stagione." Elaine ride sommessamente.
"L'ho comprata alla stazione di Roma, quando sono andato a trovare mia madre.
Buon Natale, Elaine."
"Buon Natale, Edo. Quale, quello scorso o il prossimo?"
"Who cares?"
"E quest'altra cosa? Un libro? Tu leggi, Eddy boy? Leggi libri? Il Dottor Zivago?"
"Mio nonno ne aveva una copia, in casa. Ovviamente in italiano. Una delle prime
edizioni. Ho faticato a trovare l'edizione inglese."
Elaine lo raggiunge all'improvviso, il bacio è un lampo, sembra illuminare il
mondo per un attimo.
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"Grazie Edo. Camminiamo? Niente surfers qui oggi, hai notato? Il mare è troppo
calmo. Meglio così."
Elaine si alza di scatto, aspetta che lui si alzi.
"Camminiamo. Sempre come vuoi te, Elaine."
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8. Cowboy dreams
Edo arriva in ritardo all'appuntamento. Colpa dell'ennesima riunione che si è
protratta oltre il previsto. Parcheggia la sua vecchia Ford Puma in Bond Street, si
toglie la cravatta, spegne il telefonino, si ravvia i capelli e aziona la portiera con
qualche difficoltà, si incastra sempre, accidenti a lei. Afferra la giacca dal retro
della macchina ed esce incontro alla dolce serata di Maggio. Ha piovuto per una
settimana intera, poi il tempo è cambiato, fortunatamente. Guarda un attimo in
su, verso il cielo limpidissimo che incomincia colorarsi di un rosa tenue. Sorride,
soddisfatto, e si avvia con passo affrettato verso l'incrocio dove vede i suoi mates
che lo stanno aspettando. La figura imponente di Manolo gli si fa incontro, mentre
ruggisce un "Ola!" indicandolo con un dito minaccioso.
"Ti stiamo aspettando da mezz'ora, amigo! Eri te quello che si lamentava sempre
perchè facevo tardi!".
Il colosso spagnolo ride fragorosamente, mentre i due si abbracciano in mezzo al
marciapiede. Due ragazzine in abitino corto ridacchiano e si danno di gomito
mentre passano vicino. A Edo viene un po' di commozione, Manolo quasi lo
soffoca, continuando a ridere. Pensa un attimo al loro ultimo incontro a LA. Anni
luce di distanza. Rob e Geoff si avvicinano, Edo si stacca e li saluta.
"Abbiamo provato a chiamarti, ma che cazzo, non rispondi mai." L'accento
scozzese di Rob risuona musicale, mentre gli stinge la mano.
"Scusate, al mio capo è venuto in mente di organizzare una riunione al telefono
con dei clienti..."
"Piantala Edo, smettila. La verità è che perdi tempo a fare il filo alla tua collega
nuova. A proposito, perchè non l'hai portata? Siamo bravi ragazzi, noi. Ci
comportiamo bene."
Geoff, l'unico locale del gruppo, gli dà una pacca sulla spalla. Geoff, ossuto
liverpuliano dai capelli cortissimi, sempre il più pettegolo. Manolo sgrana gli
occhi:
"Ah, è così amigo? Cos'è questa storia? Ma bene, bene! Muy bien. E non mi hai
ancora detto niente?"
"Ma no, non è vero! Dove andiamo?"
"Noto che cambi discorso, Eddie boy. E va bene, ne parliamo dopo. Rob
suggerisce di prendere un curry e di andare all'Irish Centre. C'è un gruppo country
rock, stasera. Ci suona suo fratello..."
"Ok let's go for the curry. Andiamo."
L'Irish Centre ha il solito aspetto desolato. Sono gli ultimi giorni della sua vita, sta
per chiudere, ha detto Geoff. Non si sa che ne faranno di quella strana
costruzione in stile neoclassico accanto alla cattedrale cattolica. Un altro pezzo di
Liverpool che va. Il gruppo ha appena terminato il suo concerto di musica country,
banjo, pedal steel guitar e tutto il resto, inclusi i cappelli da cowboy. Rob è andato
a salutare il fratello dietro le quinte, Geoff ha incontrato un suo vecchio amico. Al
bar, Edo osserva Manolo: non ha più la sua coda di cavallo, di cui andava tanto
fiero. Appare tirato, le rughe ai lati dei suoi grandi occhi scuri e profondi sono più
marcate di quanto si ricordasse. Per un po' bevono la loro pinta di Guinness,
silenziosi.
"Quanto tempo resti, Manolo?"
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"Una settimana. Devo risolvere alcune cose qui, chiudere il conto in banca,
vendere la macchina, prendere le mie ultime cose che ho lasciato da Geoff. Poi,
volevo vedere voi... Porte girevoli, Edo, si entra e si esce. Sai com'è."
"E dopo?"
"Torno a casa, Edo."
"A Los Angeles?"
"No Edo. Torno a casa, entiende? Torno a Bilbao. Basta"
"Non sapevo..."
"Mia madre non sta bene, Edo. Mio padre non c'è più, lo sai. Lei ha bisogno di me,
sono l'unico figlio. E poi sono stanco dell'America, sono stanco di parlare inglese,
stanco di mangiare un cibo che non è il mio."
"Hai già un lavoro, lì?"
"Troverò qualcosa, mi arrangerò."
I due amici riprendono a bere. In quel momento Edo sente la musica di
sottofondo, riconosce il pezzo.
yippi ay oh
love's a silver bullet that blows your world apart
I wanna be remembered as an outlaw honey
the boy who stole your heart
I wanna be the guy who wears the white hat
and rides across the plain
I'm gonna be your enigmatic stranger
honey you are lookin' at your Shane
cowboy dreams, cowboy dreams
you give me cowboy dreams
cowboy dreams, cowboy dreams
you give me cowboy dreams
Elaine è seduta sulla poltrona del soggiorno, è la prima volta che si incontrano da
soli, di nascosto, a casa di lei. Edo le si avvicina, la bacia. Le chiede, chi sono
questi? Sono i Prefab Sprout, my darling, risponde lei. Vorrei che tu cantassi
questa canzone per me, Eddie boy.
Così è stato. Porte girevoli, Elaine è entrata ed è uscita, quanto tempo fa? Manolo
lo guarda, gli ha letto nella mente:
"Time to go home, Edo. Ora di andare a casa. Si è fatto tardi. "
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9.Edo & Claire
Edo attraversa la piscina con lunghe, indolenti bracciate, dopo la sua
nuotata nella umida domenica di una Liverpool invernale, ancora assonnata
ed in attesa della bella stagione che tarda ad arrivare. Arriva all'estremità
della vasca e si sfila gli occhialini e la cuffia, leggermente ansimante per lo
sforzo dello sprint finale. Poca gente intorno che nuota, il ritmo dell'acqua
che si solleva intorno gli dà una sensazione gradevole e pacifica. Una cuffia
variopinta gli si avvicina, lo chiama con una voce familiare. Lui si volta e
due occhi azzurri familiari lo scrutano, un'espressione ironica lo attraversa.
Una piccola fitta, leggera, non può essere lei, non è lei. No, non è lei. Claire,
la sorella di Elaine gli sorride. La cuffia si solleva e ne esce una gran massa
di treccine bionde, che si scuotono e lo schizzano.
"Oops, sorry Edo, mi riconosci?"
Edo sorride leggermente, un po' imbarazzato ed annuisce:
"Hi Claire, long time no see..."
I due si avvicinano, i volti quasi si toccano, appena fuori dall'acqua:
"Sei sparito, Edo,.."
"Sono spesso fuori per lavoro. Stai bene?"
Claire lo sfiora con le gambe mentre si issa sul bordo della piscina, si volta
e scuote la testa a sinistra e destra, velocemente:
"Bene, grazie. Tu stai bene, Edo? E il tuo amico spagnolo, come si chiama,
Manolo?"
"E' tornato in Spagna, più di un anno fa."
"Home, sweet home. Tu non pensi mai di tornare a casa, Edo?"
"Quale casa?"
Edo è ancora in acqua, la snella figura di Claire sopra il bordo, in piedi, il
costume da bagno blu, le treccine le coprono parzialmente il volto.
"Devo andare di corsa, ho il turno in ospedale. La piccola infermiera corre
dai suoi malati. Resti in acqua?"
"Non so ancora, pensavo di uscire, ma l'acqua è calda..."
"Why don't you give me a call, Edo? Perché non mi chiami? Insomma, non
sparire di nuovo."
Claire gli mostra il dito indice, in segno di rimprovero scherzoso.
"Be a good boy. Non bere troppo, non fumare. E chiamami. Non fare l'orso."
Edo la guarda mentre si allontana con l'accappatoio in mano. Dalla vetrata
appannata della piscina si intravede un pallido sole. Due bambini cinesi si
tuffano vicino a lui, ridendo. Due sorelle, così simili e così diverse, pensa.
Ma ora assomigli un po' di più a lei. E adesso, un'altra vasca. Ne ho ancora
voglia.
La sala dei concerti del Flanagan's Apple, lo storico pub irlandese in
Matthew Street, è piena di gente, studenti con le pinte di Guinness ed
Harper's in mano, che seguono e cantano Rainy Night in Soho, suonata da
una scalcagnata band locale di folk rock celtico. Il fumo si taglia col coltello,
odore di birra e sudore, mischiato a profumi Body Shop e patchuli. Edo e
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Claire siedono precariamente su un bancone, fissandosi e parlando poco,
annegando l'uno negli occhi dell'altra. Occhi azzurri di Claire, grandi, occhi
scuri di Edo, a mandorla, che si stringono mentre lui aspira dalla sigaretta.
Le treccine bionde di Claire sono tenute insieme da una fascia con i colori
dell'arcobaleno, il brillantino sul suo naso delicato luccica, ogni tanto,
quando lei muove leggermente la testa mentre parla, e soprattutto quando
sorride. Un ragazzo coi capelli lunghi e scuri rovescia un po' di birra sul
loro tavolo, mentre ride fragorosamente. "Sorry mate", dice a voce alta,
mentre il liquido si spande, dirigendosi pericolosamente verso i pantaloni di
Edo. Lui si alza di scatto, aggira il tavolo e prende la mano di Claire: "Let's
go", dice seccamente. I due, mano nella mano, guadagnano l'uscita
facendosi strada a fatica tra la folla variopinta e vociante.
La macchina di Edo arriva davanti alla grande, vecchia casa ottocentesca
risuddivisa in piccoli appartamenti dove vive Claire. Si sono già baciati
prima del viaggio, Claire gli ha mordicchiato l'orecchio mentre lui guidava,
strofinandosi continuamente contro il suo fianco. Che fatica, che fatica
guidare. Ad ogni semaforo rosso, un lungo bacio. La macchina si ferma, lui
tira il freno a mano e la stringe a sè, mentre lei lo carezza insistentemente
sulle cosce e più su, tra le gambe. Edo suda, lei suda. Si staccano
bruscamente, escono dalla macchina e si riavvinghiano immdediatamente.
Le scale della casa sono un flash, la porta del piccolo appartamento
disordinato di Claire si apre e si chiude in un lampo, i vestiti vengono sparsi
dappertutto, lei sopra di lui, sul letto sfatto dalle lenzuola colore giallo oro,
il vapore dei loro fiati si incontra, niente riscaldamento, come al solito in
questo cazzo di case inglesi, ha il tempo di pensare Edo, poi di nuovo
dentro, dentro il tunnel of love, dove le cose fondono, il ghiaccio emette
fumo, l'acqua diventa color cremisi, i vulcani vomitano lava blu e rossa.
Tempo, tempo che vola e che poi rallenta, si ferma nel momento, quel
momento, mentre le trecce bionde gli si rovesciano sulla faccia, odore di
tabacco e profumo di passione. Claire urla, all'improvviso, si inarca
all'indietro, sulla schiena e si getta avanti su di lui, ansimando. Edo geme,
leggermente, il respiro rotto. I due si abbracciano distesi, stretti, sotto il
piumone. Restano senza parlare, i capelli lunghi neri di lui e le treccine
bionde di lei mescolati, annodati, quasi. Claire trema, leggermente, e lo
bacia sul collo, le orecchie, le guance irsute.
"Cristo che freddo, qua dentro. Vado ad accendere la stufa."
Lei si alza di scatto e si dirige verso l'altra estremità della stanza. Edo
osserva il suo tatuaggio, una stellina sul fondo schiena, mentre si accende
una sigaretta. Claire si piega sulla stufa, a Edo vengono idee colorate,
sorride e l'aspetta. C'è ancora un sacco di tempo, pensa, aspirando una
lunga boccata.
La sveglia suona incessantemente. Edo si rigira nel letto, stordito. Claire
geme un po', nel sonno. Lui si alza, e guarda l'ora nel display luminoso.
L'aereo, devo prendere l'aereo, Cristo. Spegne la sveglia, e si alza. Ore 5.30,
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debbo essere a Manchester per le 7. Manchester - Roma, diretto. Il
colloquio è fissato per le 16. Il minicab è prenotato per le 6. Claire si gira, e
lo guarda, stesa ancora nel letto, senza dire niente. Edo evita lo sguardo,
esce e va in bagno. Le parole sono state spese, poche, i giorni precedenti.
L'offerta di lavoro è vantaggiosa, niente da dire. Ed i selezionati sono pochi,
lui lo sa. Claire lo ha ascoltato, poi ha scosso la testa, e l'ha voltata da
un'altra parte, verso la bow window del soggiorno, fissando gli alberi fuori,
che hanno messo su le foglie. Edo le ha messo una mano sulla spalla, lei
l'ha fatta scivolare via. "Just go, if this is what you want", le sole parole che
ha detto. Edo è rimasto in piedi, lei seduta sulla poltrona. Sono usciti la sera
prima della partenza, e sono andati al Britannia, sul Mersey. Poca gente,
poche frasi. Due pinte di Stella Artois, qualche sigaretta. Edo si rade
velocemente, pensando alla frattura che si sta aprendo tra loro, ma
l'adrenalina incomincia a salire. Il lavoro che aspettava, il posto giusto, il
ruolo giusto. E il ritorno in Italia. Sensazioni miste. Niente colazione, troppo
poco tempo. La borsa è già pronta, Claire è ancora a letto, lui si veste in
fretta, si china per baciarla sulla guancia. Un colpo di clacson, il minicab lo
sta aspettando. Fuori albeggia.
Edo esce dal cancello del modernissimo edificio in vetrocemento. Suo
cognato, Roberto, lo aspetta, fuori dalla macchina.
"Come è andata?"
"Bene. Mi vogliono assumere. Bella offerta."
"Bravo, tua madre mi ha già telefonato tre volte. Chiamala subito."
"Sì, adesso la chiamo"
Roberto sorride, la grande massa di riccioli è ingrigita, negli anni. I baffi
sono ancora scuri, forse se li tinge, pensa Edo, mentre ricambia il sorriso e
si allenta il nodo della cravatta. Fa già caldo, a Roma, la sera è dolce, ma il
frastuono delle macchine sulla via Tiburtina, nella zona più industrializzata
della città, è assordante.
"Sei proprio sicuro, vero, che non vuoi tornare al paese, a trovare tua madre
e tua sorella? Sai che festa farebbero..."
"No, ho l'aereo domani. Dormo qui, da un amico. Te l'ho già detto. Non ce
la farei."
"Vabbe', quando verrai a lavorare qua, ci sarà tempo. Ti porto dal tuo
amico, allora."
"Sì, dobbiamo prendere l'Anulare, è ad Acilia, dall'altra parte della città"
Edo guarda fuori dal finestrino della macchina, è stanco, i fari delle
macchine che incominciano ad essere accesi, un traffico infernale, se l'era
scordato. Eppure l'aria è dolce, la primavera è ormai avanzata. Stasera
uscirà, andrà in centro con Claudio, a Testaccio. Gente e locali così diversi,
così colorati. Cornetti caldi alla fine della pajata e dei cocktail, è questa la
promessa di Roma.
Claire rabbrividisce leggermente ad un refolo di vento, nella fresca serata di
Maggio, le braccia incrociate, e si stringe accanto ad Edo, quasi
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impercettibilmente. I due sono seduti sull'erba, in uno spiazzo che dà sul
Mersey. Le luci del Wirral, dall'altra parte del grande estuario si riflettono
sull'acqua scura. All'improvviso, incominciano i fuochi multicolori sparati
dal Pier Head, in lontananza, che riempiono il cielo. Una coppia è seduta a
pochi metri da loro, con un cane che continua a girare intorno
incessantemente, annusando il terreno. La città impazzisce, il Liverpool ha
appena vinto la Coppa, un'impresa che sembrava impossibile alla fine del
primo tempo. Loro hanno scelto questo piccolo spiazzo dimenticato, fuori
Otterspool, per godersi lo spettacolo senza troppa gente. Nella penombra,
Edo si accende una sigaretta, senza parlare. Claire le appoggia la testa sulla
spalla.
"Ieri mi ha telefonato Elaine, dalla California. Era furiosa. Si è messa a
piangere. Ha detto che non mi considera più sua sorella."
"Ha telefonato anche a me, sul lavoro. Mi ha coperto di insulti. Lasciamo
perdere. Guarda che spettacolo!"
"Non ti dispiace che una squadra italiana abbia perso?"
"Who cares? Io tifo Roma, mica Milan..."
Claire sorride leggermente, il cane le si avvicina annusando il terreno. Lei lo
accarezza, lui scodinzola. I fuochi sono lontani, ma visibilissimi, il fragore è
attutito dal vento.
"Claire, ho rinunciato, non vado più a Roma. Resto qui. Ho telefonato
stamattina."
Lei non dice niente, le lacrime le riempiono gli occhi, lui getta la sigaretta,
quasi rabbiosamente, le scintille nel buio, e la bacia sulla testa. Il cane gli
annusa una scarpa, mentre una palla luminosa rossa e bianca esplode nel
cielo scuro.
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10. Infinite loop
La moto corre sulla 101, accanto alle scogliere del Pacifico, verso Nord. L'uomo,
che la guida indossa una vecchia tuta di pelle nera, la sua coda di cavallo bianca
fluttua nell'aria, il casco gli nasconde il perenne sorriso. Prima del Big Sur mi
fermo, pensa Horst, faccio correre questa Harley ancora un po', ancora un po'.
Domani Monterey, dopodomani San Francisco. Wunderbahr! Alla mia età, come un
ragazzino. Sotto, l'Oceano ribolle sulle rocce e saluta Horst, il colosso tedesco
ancora in sella.
Le due sorelle incrociano lo sguardo, sopra il Golden Gate. Stessi occhi azzurri,
stesso sguardo ironico. La nebbia sulla baia si è alzata, fa freddo, ma il sole
splende. Claire rabbrividisce leggermente, e volge lo sguardo verso la città in
lontananza:
"Non è proprio la stessa vista del Waterfront di Liverpool... grazie per avermici
portato, Elaine. Grazie per questa vacanza"
"La sorella più grande ha di questi doveri, Claire. Mamma e papà non ci sono più,
devo mostrarti le cose. E dovrei mostrarti anche la retta via, ma non credo di
essere tanto brava."
"Don't be silly, Elaine. Tu sei come sei, io sono come sono. Tutto qui. Ci facciamo
fare una foto insieme?"
"OK, sai che non vengo bene, però..."
"Cerca fare dei sorrisi più grandi. Sei in America da quattro anni e non hai ancora
imparato?"
Il rito viene espletato grazie ad un turista giapponese ammirato, con sorriso e
lieve inchino finale incluso. Claire riprende la macchinetta, la mette nella borsa di
cotone che ha a tracolla, fruga alla ricerca di sigaretta ed accendino.
"Ne vuoi una, Elaine?"
"Lo sai che ho smesso. Sono in America da tanto tempo, ricordi?"
Elaine aspira una boccata con la testa lievemente all'indietro.
"Io ci ho provato, ma con Edo che fuma non ci riesco. Niente da fare. Dovremmo
smettere insieme."
E' Elaine adesso a volgere lo sguardo da un'altra parte. Torce l'estremità della
treccia bionda che le ricade sul petto, una smorfia lieve le contorce la bocca. Un
attimo, ma Claire se ne accorge. Il solo nome la fa stare ancora così, pensa. Il
rimorso la trafigge. Ne hanno già parlato, in tutti i modi, per telefono, per mail,
quando si sono viste. Niente di cui discolparsi, Edo ed Elaine si erano già lasciati
molto tempo prima, era Elaine ad avere scelto di seguire il marito con i figli in
Callifornia. Ma la ferita non si è mai rimarginata completamente, e basta un niente
per riaprirla.
"Claire..."
"Sì, dimmi." Le parole escono dalle labbra della sorella minore velocemente, con
un po' di ansia.
"Facciamo così. Ti porto all'aeroporto, ma non aspetto Edo con te. Ti lascio lì.
Devo tornare a Santa Barbara subito. Sean è da solo con i bambini, non ce la fa a
tenerli da solo, deve prepararsi per un congresso la prossima settimana. Tanto
noleggerete una macchina, ed andrete in un po' in vacanza insieme..."
"Non ce la fai proprio a vederlo, vero? Te lo chiedo direttamente, scusa..."
Elaine scuote la testa. Piange silenziosamente. Claire la abbraccia, sopra lo
splendido cancello rosso dell'Ovest, nella fredda giornata della baia di San
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Francisco.
L'aeroporto Charles de Gaulle non è particolarmente animato, di Domenica
mattina. Edo e Jamie sono seduti accanto, lavorando con i loro portatili sulle
ginocchia, senza parlarsi. Edo stringe ripetutamente gli occhi scuri, mentre legge
le ultime frasi che ha scritto. Poggia il computer sulla poltroncina accanto e si
stira le gambe, mentre si ravvia i capelli.
"Fancy a cup of coffee, Jamie? Ho un sonno tremendo. Per prendere l'aereo da
Manchester mi sono svegliato alle 5 stamattina... cazzo di voli con coincidenze.
Per risparmiare un po' di sterline, che cazzata. Quelli dell'amministrazione sono
idioti. Gliel'ho detto al boss."
Jamie alza la testa dal suo schermo e lo guarda. I suoi occhi sono infossati, lucidi.
Sembra sempre che stia per scoppiare a piangere, pensa Edo. Cristo come è
cambiato. Prima il divorzio sanguinoso, poi la morte del fratello. Cancro ai
polmoni, poche settimane prima. Poor old bastard, mi fa pena. E pensare che lo
odiavo...
"Niente caffè per me, Edo, grazie. Resto qui. Devo finire questo report."
"OK Jamie, see you later."
Edo si allenta la cravatta, si alza e si allontana verso il cafè dall'insegna al neon
multicolore che fa a cazzotti con l'arredamento delle grandi sale dell'aeroporto.
Jamie riprende a lavorare curvo sul suo laptop, stanchissimo. Si sta quasi
addormentando, ma si riscuote, e si accorge di un viso familiare che lo guarda,
sorridendo, da una poltroncina alla sua destra. Capelli bruni a caschetto, occhi
verdi, sorriso paradisiaco. Piccola ed elegante. Splendida, sempre. Jamie la
riconosce, e le fa un cenno con la mano:
"Hello, Dom."
"Bonjour, Jamie."
Jamie si alza, indolenzito e le si avvicina, zoppicando leggermente. Il rugby
giocato al college si fa sentire, specialmente nelle fredde ed umide giornate
invernali. Dominique le stringe la sua grande mano, e gli fa cenno di sedersi
accanto a lui.
"Tanto tempo, Jamie. Stai bene?"
Memorie di giorni di passione, paradiso ed inferno insieme viaggiano tra di loro,
come onde risonanti fra le loro menti. L'ultimo saluto, la porta che sbatte dietro la
porta di lui, lei accasciata sul tappeto di seta persiano del suo salotto pieno di
mobili antichi, nuda e singhiozzante, il baratro che le si spalanca davanti. Dom
sorride di nuovo.
"Anche tu vai a San Francisco, Jamie?"
"Work. Ho un meeting là, dobbiamo negoziare un accordo commerciale. Tu?"
"Raggiungo mio marito. Lui è già lì, è andato a trovare il figlio. Mi sa che mi
toccherà andare un po' in moto sulle strade della California."
"Vacanza originale..."
"Già, lui è così. Easy rider, hai presente? Lo hai conosciuto?"
"Non credo, Dom."
"Te lo presenterò. E' tedesco, ma sui generis. Non sei solo, vero? Ho visto che
parlavi con uno che sembrava un tuo collega. Non sembra inglese, però..."
"E' italiano."
"Ecco mi sembrava. Troppo elegante. Ha gli occhi tristi... Un bell'italiano dagli
occhi tristi e scuri."
"E' già impegnato, Dom. La sua ragazza è lì, lo aspetta."
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"Sei sempre il solito bastardo, Jamie."
Lei lo schiaffeggia sulla mano, il suo meraviglioso sorriso lo sfida. I due
continuano a chiacchierare, quando Edo ritorna con un giornale italiano al braccio.
Presentazioni, conversazioni sul nulla. La chiamata li sorprende mentre
discutono del traffico parigino, o chissà cosa. I tre cityhoppers prendono le loro
cose, e si incamminano insieme verso il tunnel illuminato che li porta all’aereo.
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cityhoppers