CITYHOPPERS Da una città all’altra Weller60 http://blog.alice.it/weller60 Horst et Dom Horst si pulì gli occhiali tondi e spessi con un fazzoletto tirato fuori da un taschino della tuta. Il traffico dell'autostrada cittadina scorreva sopra di loro, come ogni giorno a Breitenbachplatz, West Berlin. Eppure, lì sotto il rumore giungeva attutito, case grigie e gialle ordinate accanto ad alberi e piste ciclabili, BMW e Mercedes al loro posto, parcheggiate in fila. A Horst non piaceva tanto quel quartiere anonimo, nel sud della città, lui preferiva Kreuzberg, si adattava di più alla sua indole casinista e cosmopolita, al suo orecchino, al suo pizzetto e all'immancabile giubbotto di pelle nera. Kreuzberg, coi suoi palazzi cadenti, gli spiazzi desolati, le rovine della seconda guerra mondiale ben visibili dietro il muro multicolore. Turchi e alternativi dappertutto, strade dove non si leggeva nemmeno una parola di tedesco, locali malfamati, ma almeno era un posto vivo, Cristo. La giornata era gelida, ma il peggio dell'inverno era alle spalle, ormai, le giornate incominciavano finalmente ad allungarsi, e Horst non sentiva più quella sensazione di freddo al culo quando girava con l'autoattrezzi del suo garage. Presto avrebbe potuto riprendere la moto per andare al lavoro, la sua splendida BMW che lo aveva portato giù, al sud, così tante volte. Il sud, qualsiasi fosse, Italia, Spagna, Marocco, Turchia, lui lo adorava. Pensava sempre di andare a vivere giù, magari a Formentera, come aveva fatto una delle sue ex. Horst si risvegliò dal suo sogno di palme e scogliere su mari turchesi, scrollò i lunghi e disordinati capelli biondi e guardò di nuovo la defunta Citroen 2CV con targa francese, come cazzo ha fatto questa ad arrivare fino qui, pensò, poi si voltò verso la donna bruna che fumava nervosamente sul marciapiede: "Madame, your car is kaputt", tuonò con la sua voce baritonale. La donna si scosse, come fulminata, e lo guardò. Il nervosismo fu sostituito da un'aria stanca, desolata. Gli occhi le si colmarono di lacrime ed incominciò a singhiozzare disperatamente. Horst le si avvicinò, un po'imbarazzato, la sua sagoma era veramente imponente rispetto al fisico minuto della francesina. La osservò un po' più attentamente, mentre allargava le braccia senza sapere che fare. Magra, più giovane di quello che pensava, capelli a caschetto scuri, occhi verdi profondi, una lunga cicatrice sotto la mascella, sottile e ancora rossa. Operata da poco, pensò Horst, che aveva esperienza di ospedali per i suoi incidenti in moto: "Madame, is it OK? Ha bisogno di qualcosa?" "okkey, ca va, c'est rien, excusez moi..." La ragazza tirò su con il naso e guardò l'omaccione che se ne stava lì, interdetto. "Do you speak English? Devo portare la sua macchina in officina, signora. Non è molto lontana da qui. Ha un problema serio, non posso ripararla qua.You understand? Madame?" 1 "Va bene, sì, capisco. Je comprend ce qui vous dites. Scusi, il mio inglese... Ma ho capito." La ragazza si soffiò il naso con un fazzoletto, si era un po' calmata. Silenziosa, stette ad osservare Horst che caricava la sua 2CV bianca sul camioncino. Il tedesco le fece posto sul camioncino e andò al posto di guida. Il motore tossì un po' prima di partire, Horst sorrise un po' impacciato e incominciò a guidare. Il viaggio fu effettivamente breve, attraverso il quartiere anonimo. La neve era ancora presente ai lati delle strade, il cielo grigio. La ragazza guardava fissa davanti, Horst ogni tanto la sbirciava, incuriosito. Percorsero il tragitto senza una parola. La piccola autorimessa era situata in un traversa di Schlosstrasse, a Steglitz. Al loro arrivo, un uomo tarchiato, scuro in volto si avvicinò: "Horst, dov'eri? Ho dovuto mandare fuori Lars con l'altra macchina. Siamo pieni di lavoro, lo sai." "Kemal, non scocciare, fra un po' smonto comunque. Guardiamo questa macchina e poi me ne vado. Devo andare a prendere mio figlio, lo sapevi." Kemal allargò le braccia, con aria esasperata " E la Mercedes? Il proprietario mi ha già telefonato tre volte oggi. Dobbiamo finirla entro stasera.." "Chiama quel segaiolo di Tomas. Oggi non resto, te l'ho già detto. Poi devo guardare anche questa 2CV, ha un problema serio al carburatore." Kemal borbottò qualcosa in turco. Battaglia vinta, pensò Horst sorridendo. I due scaricarono la macchina francese, incuranti della ragazza che era scesa da sola, e osservava la scena silenziosamente, senza capire una parola. Dopo un po' di lavoro, Horst finalmente la chiamò. "Madame, venga qua per favore. Sì, ecco, dobbiamo sostituire un po' di pezzi. Non le costerà molto, è assicurata, vero? Però non possiamo ripararla subito, dovrà aspettare fino a domani. Vuole che le chiamo un taxi?" La ragazza lo guardava con aria affranta, non piangere di nuovo, per piacere, pensò Horst, poi gli porse un bigliettino spiegazzato. Horst guardò il foglietto, aggrottando la fronte: "Marburger Strasse.... Deve andare là, Madame? Vuole che le chiamo un... oh, al diavolo, va bene, va bene. La accompagno io, OK? E' in centro, vicino al KaDeWe. La porto io...fra un po'. Alles klar. Deve aspettare un po', però." La ragazza aveva capito, sorrise, gli occhi cambiarono espressione un attimo, bel sorriso francese, pensò Horst, e distolse lo sguardo. Rientrò nel garage, senza parlare. Kemal lo stava già chiamando: "Horst, vieni qua, dobbiamo sbrigarci." La macchina di Horst, una vecchia BMW color nocciola, era piena di giocattoli, cartacce di merendine, cassette sparse. Horst guidava verso Nord, al suono di una canzone di Neil Young che usciva dagli altoparlanti del suo car stereo, il traffico si intensificava man mano che si avvicinavano verso Ku'damm, il cuore pulsante di Berlino Ovest, la vetrina dell'Occidente, artificiale simbolo del "bene" circondato dal deserto dell'altro Impero. La ragazza aveva preso il suo unico bagaglio, un grande borsone di tela militare che il meccanico aveva stipato a fatica nel portabagagli dell'auto, tra cianfrusaglie assortite. "Da dove viene?" Horst era riuscito finalmente a chiedere. "Parigi" , fu la laconica risposta della donna. "Parigi", mormorò il tedesco. Arrivarono a destinazione, finalmente, una piccola strada dove si affacciavano palazzi nuovi che sembravano già vecchi, i negozi erano chiusi, era l'ora di 2 passaggio in cui i passanti si diradavano e la seconda vita della città non era ancora incominciata. Si fermarono davanti ad un portone, il numero civico corrispondeva con quello del biglietto. Horst tirò fuori il borsone e lo porse alla ragazza. "Le lascio il biglietto con il numero dell'officina, ci chiami domani a mezzogiorno. Chieda di me, mi chiamo Horst Konrad, è scritto sul biglietto." "Horst...Konrad. Je vous remercie, io mi chiamo Dominique. Grazie." La ragazza porse la mano e regalò a Horst un secondo sorriso, un po' più lungo. L'omone strinse imbarazzato la mano tiepida di Dominique, la salutò e si voltò verso la macchina. Mentre si allontanava, vide dallo specchietto retrovisore la ragazza suonare al citofono del portone. Scosse la testa. Strana giornata. Sono in ritardo, devo andare a prendere Jorgen, chissà quanto tempo ci metterò a tornare a casa. "Zuruck bleiben..." La voce risuonò meccanica, le porte della metropolitana si richiusero ed il viaggio sulla linea 6 della U-bahn incominciò, dal nord al sud della città. Horst lasciò cadere la borsa sportiva sul pavimento e si sedette sul sedile, dolorante. Non avrebbe dovuto giocare quella sera, era passato troppo poco tempo dall'infortunio, ma che diavolo, si vive solo una volta. Era il veterano della squadra, doveva esserci, voleva esserci quella sera. Il basket era la sua prima passione, meglio della moto. Non ce la faceva più ad inseguire gli avversari sempre più giovani e veloci, il ginocchio gli faceva un male del cazzo, ogni volta che andava ai rimbalzi sotto canestro il dolore lo artigliava per trattenerlo al terreno, ma anche quella partita era andata, pensò. Però era l'ultima stagione. Lo aveva detto anche l'anno prima, ma non ce la faceva a smettere. E poi, AbdulJabbar ancora giocava nei Lakers, no? Horst si infilò le cuffiette del suo walkman, la cassetta partì con una vecchia canzone degli Allman Brothers, chitarre sudiste a tutto spiano. Che aggeggi portentosi, pensò, sorrise e si lasciò andare sul sedile, mentre il treno percorreva il lungo tratto buio sotto Berlino Est, passando per le stazioni abbandonate senza fermarsi, fino a Friederich Strasse, e poi giù, verso Koch Strasse nel settore americano. La carrozza era semivuota, una coppia punk si sbaciucchiava un po' più in là, orecchini e borchie dappertutto, capigliature erte dai colori sgargianti su vestiti neri. Horst sbirciò i due ragazzi, poi volse lo sguardo fuori dal finestrino, verso le banchine della fermata. Ebbe un moto di sorpresa, quando vide una figura familiare che si aggirava nella stazione desolata. Dominique trascinava stancamente il suo borsone, lo sguardo fisso in avanti, avviandosi verso l'uscita. Barcollava, quasi. "Ma dove va... madame!". Horst raccolse la sua roba e si catapultò verso la porta del vagone che si stava chiudendo. La borsa si impigliò nella maniglia quando lui era già fuori, inciampò ma restò in piedi, liberò la borsa con uno strattone ed il treno partì. Era fuori, sulla banchina. "Scheisse!", gridò, mentre una fitta al ginocchio lo fece piegare in avanti. I suoi occhi lacrimarono per il dolore improvviso. "Ginocchio di merda", mormorò, prese fiato e si incamminò zoppicando. Una vecchia signora lo guardò con disapprovazione. Riuscì ad arrivare vicino alla ragazza che stava per prendere la scala mobile, lei lo sentì e si voltò. Era spettinata, aveva un'aria trasandata, ed ebbe un moto di sorpresa nel vedere l'omone che incombeva su di lei. 3 "Madame, sono il meccanico, mi riconosce? Doveva chiamare ieri, l'abbiamo cercata....La sua macchina é pronta. Tutto a posto? Ha qualche problema? Madame?" Dominique non rispose, i suoi occhi erano vuoti. Poi sorrise debolmente: "Ah, già, la macchina. Mi scusi, verrò a prenderla domani... A demain. Grazie..." "Aspetti, dove va?" "Non.. non lo so. Credo di essermi persa..." "Se vuole tornare a casa le conviene prendere la U-Bahn. " "A casa, a casa.... Non c'è nessuno lì, mio fratello è partito. Non ho nemmeno le chiavi...". La ragazza stava per mettersi a piangere. "Ha un posto dove andare?" La ragazza scosse la testa. Che casino, pensò Horst. E mi devo sbrigare, se no perdo l'ultimo treno, accidenti a me. "Se vuole le indico un albergo... qua vicino, ecco sì, adesso mi ricordo, è appena fuori dalla prossima stazione..." "J'ai plus d'argent" mormorò Dominique, con vergogna. Niente più soldi. Horst era imbarazzato, non sapeva che fare. Poi si riscosse: "Oh, al diavolo..." Disse a se stesso. "va bene, va bene... per stasera la posso ospitare io, se non le dispiace. Non abito molto lontano da qui. Domani cercherà un posto dove andare." Non era la prima volta che Horst ospitava perfetti sconosciuti, nel passato aveva addirittura vissuto in una comune, dove la gente andava e veniva continuamente. Era un ritorno al passato, dopotutto. Anche Charlotte, sua moglie, aveva dei trascorsi hippy. Avrebbe protestato un po', ma poi avrebbe accettato. Dominique sembrava incerta, diffidente. "Devo prendere l'ultimo treno, passa tra poco. Cosa vuole fare, allora?" Dominique annuì, finalmente: "Merci", disse sottovoce. A Horst scappò un sorriso di soddisfazione. Chissà perchè, si sentiva contento. "Bene, venga allora. Dobbiamo prendere l'U-Bahn". I due si riincamminarono verso la banchina deserta, un po' distanti. La grande stanza era quieta, luminosa nel mattino soleggiato. Horst entrò zoppicando, aprì una delle ampie finestre e respirò l'aria pungente. Preparò il caffè con gesti lenti e precisi, se ne versò un po' su una tazza e si sedette sulla poltrona dal rivestimento liso. Guardò il divano dove Dominique era ancora addormentata, mentre teneva la coppa con le due mani, aspettando che il caffè fumante si intiepidisse. A lui non piaceva troppo caldo, amava sorseggiarlo lentamente. Charlotte era già uscita per accompagnare Jorgen a scuola, per poi andare al lavoro. Non aveva protestato troppo per l'ospite inatteso e sconosciuto, altre volte si erano trovati in situazioni simili, amici di passaggio, bisognosi di un riparo per qualche notte, a volte semplici sconosciuti che portavano i saluti di qualche loro conoscente sparso in giro per il mondo. Una volta un tale Christian, conosciuto durante un viaggio in Spagna si era stabilito a casa loro per più di un mese. Passava i giorni a suonare la sua chitarra, si era reso anche utile come babysitter, poi era sparito all'improvviso, lasciando una lettera di saluto e un giocattolo di legno per il bambino. Qualche settimana dopo era arrivata una sua cartolina dall'India, che era stata attaccata al muro insieme alle loro foto, ai disegni di Jorgen e ai quadri pieni di colore di Charlotte. Niente lavoro per quel 4 giorno, Horst era riuscito a strappare a Kemal un turno di riposo, dopo molte settimane di trattative, e una sequela di prediche e lamenti in turco ed in tedesco. La ragazza si mosse leggermente, e si rigirò. Donna difficile, pensò Horst, aveva detto il minimo indispensabile per non essere scortese, aveva ringraziato Charlotte con il suo splendido sorriso impenetrabile e si era subito preparata per la notte. Non sembrava povera, nonostante il suo aspetto dimesso. Dal suo borsone aveva tirato fuori un pigiama che sembrava acquistato in qualche boutique francese o italiana, ed una serie di cosmetici ed oggettini da toilette che Charlotte aveva notato con sorpresa ed un po' di malcelata invidia. Finalmente Dominique incominciò a svegliarsi. Horst continuava ad osservarla, non vedeva l'ora di scambiare qualche parola con lei per conoscere un po' la sua storia, e perchè mai una francesina così sofisticata fosse finita lì, in una metropoli fredda del Nord, apparentemente senza un soldo. Niente American Express, madame? Niente amici? Niente famiglia? Aveva detto qualcosa di un fratello che era sparito, gli sembrava. La ragazza, finalmente, si alzò, e si guardò intorno con gli occhi semichiusi, mentre si levava i capelli dal viso. Horst mormorò "morgen", Dominique finalmente lo notò, e sembrò ricordarsi dove si trovava. L'uomo si alzo e le si avvicinò: "Vuole un caffè?" Dominique fece un cenno di assenso, senza dire niente, ancora un po' stordita. La tazza fu nelle sue mani in un attimo, e lei si risedette sul divano. Horst tornò alla sua poltrona e si preparò una sigaretta con cartina e tabacco, silenziosamente. Aspettò che la ragazza dicesse qualcosa. "Dov'è sua moglie? E suo figlio?" "Sono già usciti. io sono rimasto a casa perchè oggi non devo lavorare. Le dispiace se fumo?" "No, faccia pure. E' casa sua, no?" Dominique sorrise timidamente. Horst si accese la sigaretta ed aspirò un paio di boccate. "Ne vuole una?" "No grazie, prendo una delle mie." I due stettero silenziosi per un po'. "Vuole che oggi la accompagno a prendere la sua macchina?" "Mi dispiace, ma non posso pagare ora. Non so... Vorrei fare una telefonata... Per farmi mandare i soldi..." "In Francia? Keine probleme. Mi scusi se glielo chiedo, l'hanno derubata? Vuole che la accompagni alla polizia o al suo consolato?" "Non so, non so proprio." Dominique scosse la testa, desolata. Horst non disse niente per un po', concentrandosi sul fumo che usciva dalla sigaretta. Dopo un po', all'improvviso, la francese incominciò a parlare, con voce bassa, senza guardarlo, e raccontò. Raccontò di un pomeriggio estivo in Normandia, di una festa di matrimonio. Del viaggio di ritorno con i suoi anziani genitori. Suo padre aveva voluto guidare la vecchia Renault, sua madre si era opposta, ma lei, un po' brilla, l'aveva lasciato fare, ridendo. E l'incidente con il camion sulla strada di campagna, che aveva preso la vita di papà e mamma, gliel'avevano raccontato al suo risveglio in ospedale, due giorni dopo. Si indicò la cicatrice sotto il mento, forse col tempo sarebbe sparita, le avevano detto. Dopo qualche settimana, al suo ritorno a casa, aveva scoperto che i debiti avevano mangiato tutto il loro patrimonio. Rimaneva solo la villa di famiglia in Normandia, doveva venderla per potersi sostenere. Ma doveva accordarsi con Alain, suo fratello, la villa era anche 5 sua. Alain era sempre stato inquieto, ribelle. Il padre era riuscito a convincerlo a intraprendere la carriera militare, la prima destinazione era stata Berlino, nel settore francese. Alain aveva conosciuto una ragazza lì, e aveva allentato i contatti con la famiglia. Non telefonava più, non scriveva, non era nemmeno venuto ai funerali. L'aveva incolpata dell'incidente, e non voleva saperne di regolare la faccenda della vendita. Dopo tante telefonate rabbiose, Dominique aveva deciso di incontrarlo a Berlino. Era partita con pochi soldi, in macchin, doveva attraversare la Germania Est e entrare a Berlino Ovest. Alla dogana, i Vopos avevano trovato qualcosa che non andava con i documenti e l'avevano trattenuta. Era riuscita a passare pagando una multa che aveva prosciugato tutti i suoi risparmi. E non era riuscita a trovare Alain. Horst ascoltò il racconto, fumando, con gli occhi semichiusi. Quando la ragazza finì il racconto, stette in silenzio per un po'. Non c'erano rumori, si sentì un uccellino cinguettare. Horst si alzò quasi di scatto, e si avvicinò a Dominique. "Oggi è una bella giornata, Dominique. Vorrei prendere la moto. Può telefonare in Francia da qui, poi la aiuterò a cercare suo fratello. Possiamo andare al comando nel settore francese. Sono libero fino a stasera, vedrà che si risolverà tutto. Spero che non abbia paura di andare in motocicletta" La ragazza fece un sorriso impercettibile, e ringraziò. Horst non disse niente, si alzò ed andò a prepararsi, sorridendo a se stesso. All'ultimo tentativo prima di uscire di casa, Dom era finalmente riuscita a parlare per telefono con il fratello. La conversazione si era svolta in francese, e Horst non aveva capito granché, ma aveva visto la ragazza, inizialmente molto tesa, rilassarsi e poi sciogliersi in uno dei suoi meravigliosi sorrisi, mentre riattaccava il telefono. Il tedesco si accese un'altra sigaretta e guardò la donna con aria interrogativa. "Si è scusato,era fuori per motivi di servizio. Vuole vedermi per definire la vendita della casa. Ha accettato. Era molto sorpreso che fossi qui. Ci vediamo domani." "Cosa? Wunderbar! Splendido! Bene, bene bene..." Dominique si sedette accanto a Horst sul divano, che le passò la sigaretta. Lei la accettò, e aspirò un tiro. "Merci. Che incubo che è stato. Non posso crederci..." "Senta, che ne dice del giro in moto? Lo vuole fare lo stesso? L'invito è ancora valido." "Va bene, va bene. Non ho niente da fare fino a domani. Alain mi ha promesso che mi darà un po' di soldi per potere ripartire. Pagherà anche il conto dell'officina." Era un giorno radioso, quello, per la moto di Horst. Messa a punto e lucidata la domenica precedente, avrebbe incominciato a rombare maestosa nella nuova stagione. Il suo proprietario ridacchiava, felice come un bambino di fronte ad un regalo di Natale tanto atteso, mentre la mostrava a Dominique nella rimessa. La ragazza assisteva con aria assente ai preparativi per quello strano viaggio, un po' impacciata nella tuta di Charlotte, di taglia decisamente maggiore della sua. Horst si mise a cavalcioni del bolide, si sistemò i lunghi capelli biondi raccolti in una coda di cavallo ed infilò il casco nero. Fece un cenno a Dominique, che le si accomodò dietro con qualche difficoltà, e partirono. Andarono per le strade rumorose e sporche di Kreuzberg, su verso il centro. Costeggiarono il muro variopinto, passarono vicino le rovine di Anhalter Bahnhof e la landa desolata di Potsdamer Platz, fino alle porte chiuse di Brandeburgo. Poi, come in parata, per 6 Strasse des 17 Juni, Dominique si voltò per salutare i due soldati russi a guardia del monumento al milite ignoto sovietico, e guardò ammirata l'angelo indifferente sulla altissima colonna del Siegesshaule. Da Tiergarten, Horst piegò verso sud, e si diresse verso Charlottenburg. Arrivarono al parco davanti al Palazzo e parcheggiarono. "Erano mesi che aspettavo questo giorno. Wunderbar!" . Horst si sfilò il casco e aiutò Dom a scendere dalla moto. "E adesso vorrei proprio mangiare qualcosa. Lei ha fame?" Dom annuì, e lo seguì docilmente verso un chiosco, dove Horst ordinò birra e doner kebab per tutti e due. Mangiarono silenziosamente, appoggiati ad un tavolo rotondo, all'aperto. Il tedesco guardava in avanti, il sorriso da bambinone stampato permanentemente sulla sua faccia irsuta. Tracannò ciò che rimaneva della birra in un unico lungo sorso e si rivolse verso Dom. "Grazie per essere venuta, Dom. Grazie. E adesso, vorrei farle vedere una meraviglia." La donna più bella del mondo era là, nell'ampia stanza, altera ed immobile, lo sguardo fisso, i lineamenti delicati e sereni. Il suo copricapo parlava di tempi remoti, il suo volto perfetto rifletteva eternità. Horst e Dom si avvicinarono lentamente verso il busto di Nefertiti, la bellezza che viene sulla terra, la stella dell'Aegiptisch Museum. La contemplarono per qualche minuto, soli nel museo ormai prossimo alla chiusura. "Ogni tanto vengo a vederla, l'ultima volta ci ho portato mio figlio qualche settimana fa. E' rimasto senza fiato, come me quando venni qui la prima volta con mia madre." Dom prese la mano ruvida di Horst, lo sguardo ancora verso il busto. "E' bellissima", mormorò, con un filo di voce. "non... non ho parole." Un custode li richiamò, il tempo era scaduto. I due si voltarono, e si incamminarono verso l'uscita, mano nella mano. Arrivarono vicino alla moto, Dom si girò verso Horst: "Tu es un ange, Horst. Mon ange." Si mise in punta di piedi, e lo baciò sulle labbra, con gli occhi chiusi. Abbracciò il colosso che la strinse forte, la moto accanto in silenziosa attesa, come un cane fedele. Dom si alzò dal letto senza fare rumore, per non svegliare l'uomo accanto a sè. Attraversò la stanza a piedi nudi, raccogliendo la vestaglia di seta che giaceva sulla sedia, uscì e percorse il lungo corridoio buio e silenzioso, dirigendosi verso il soggiorno. Trovò a tastoni le sigarette sul tavolo e se ne accese una, aspirando lunghe boccate. Dalla finestra vicino giungeva il chiarore della città, e si intravedeva la splendida, altissima torre illuminata. Dom la guardò ammirata, appoggiandosi alla finestra. Stette lì per un po', fumando davanti a quel panorama cittadino ormai familiare. Quando la sigaretta finì, si girò e lentamente fece qualche passo, lasciando che gli occhi si riabituassero alla penombra. Il maestoso orologio a pendolo scandì la mezzanotte, facendola trasalire leggermente. Si accucciò sulla preziosa poltrona in pelle, trovò un telecomando e accese l'enorme televisore davanti a sé. Vide immagini di strade piene di gente in festa che si accaniva sulle rovine di un muro, diventato nel giro di poco tempo il simbolo di un 7 passato che si allontanava rapidamente. Un uomo anziano suonava il violoncello in segno di giubilo. Il volume era troppo basso per potere ascoltare il commento concitato, ma Dom non prestava più attenzione, guardava oltre lo schermo colorato, mentre si lisciava i capelli neri appena acconciati dal suo costoso parrucchiere di fiducia. Spense il televisore e accese l'abatjour che aveva accanto. La luce soffusa si propagò sui preziosi mobili antichi che arredavano il soggiorno, e lei cercò con lo sguardo il secretaire all'angolo. Dopo un attimo di indecisione, si alzò e raggiunse il mobile, aprì il cassetto e ne tirò fuori una vecchia scatola di cartone. Dom la aprì e prese una cartolina, arrivata la mattina precedente. Ritraeva una spiaggia assolata, con qualche bagnante steso a rosolarsi sulla sabbia bianchissima, in costumi da bagno di altri tempi. Rilesse le poche righe sul retro, vergate in una calligrafia regolare e nitida. Dom sorrise, e sfiorò con le dita la catenina che aveva al collo, con appesa l'effigie della regina egizia ammirata qualche anno prima. Un lamento infantile la riscosse. Ritornò sul corridoio e raggiunse una piccola camera accanto alla sua stanza da letto, flebilmente illuminata da un Mickey Mouse sorridente su una piccola scrivania. Si avvicinò al lettino del bambino, e si chinò con cautela. Dormiva ancora, era solo un sogno. Lei carezzò il visetto paffuto, circondato da lunghi riccioli biondi, rassettò le coperte e sistemò il cagnolino di peluche accanto al cuscino. Quando il bambino si calmò, andò di nuovo in soggiorno, accanto alla finestra del suo lussuoso appartamento di Montparnasse, e rimase a fissare la Tour Eiffel illuminata, in lontananza. "Svegliati, caro, non puoi addormentarti così...ti scotterai, svegliati". Horst aprì gli occhi, stordito. La sagoma della donna si stagliava contro il sole, sembrava altissima. Mugugnò qualcosa, e si voltò, combattendo contro l'intorpidimento. "Da quanto tempo... " borbottò, si rigirò sul lettino, e si mise a pancia in giù, intravedendo con gli occhi semichiusi lo splendido mare blu. Charlotte, vestita solo di un ampio cappello di paglia, e splendida nella sua abbronzatura integrale, le poggiò una mano sulla schiena. "Jorgen vuole che vai con lui a fare un'immersione. Ho portato dei panini per pranzo. Hai fame?" Horst non rispose, si rialzò un po' indolenzito e cercò il tabacco con la mano per prepararsi una sigaretta. "Ho sognato..." "...qualcosa di piacevole sicuramente, caro.". Charlotte ridacchiò, indicando il suo basso ventre. Lui si guardò in basso, e si coprì con un asciugamano, imbarazzato. Lei gli si sedette accanto, e lo baciò sulla guancia. "Sono contenta, sai, proprio contenta. Sei ritornato sulla Terra, da quando sei qui." "Già, sulla Terra". Horst socchiuse di nuovo gli occhi, mentre fumava. Passò la sigaretta alla moglie e salutò Jorgen, che sguazzava felice in acqua e gesticolava verso di loro. Charlotte appoggiò la testa sulla sua spalla e sorrise. 8 Jamie à Paris Jamie gettò via il telecomando con rabbia. L'angoscia crollò su di lui, si abbattè senza pietà come un macigno dall'Everest. Il viso puntuto e severo di Margaret Thatcher fece capolino dietro il grigio commentatore televisivo. "Brutta cagna" mormorò Jamie, quasi sopraffatto, "arricchitevi, diceva... stupid cow... che cazzo di casino sta succedendo a Wall Street..." Il commentatore fece una smorfia con le sue labbra sottili, comparvero immagini fluorescenti di broker impazziti come formiche, con la scritta luminosa che raccontava la Beresina dell'orgoglio del capitalismo. Jamie incominciò a gemere dal dolore. Crack. La crepa si propagava inarrestabile, Tokio, Parigi, Francoforte, Londra. Casa sua. Il suo piccolo esercito, le strette di mano, le telefonate suadenti, le pacche sulla spalla in ufficio, i Venerdì sera passati da imperatore vittorioso al Caledonian pub, tutto sarebbe finito. Cristo, ho toccato l'Everest dorato a 27 anni, il guerriero invincibile, immortale. E ora? Ora? Niente più soldi, niente più lavoro. Dovevo continuare gli studi, giocare a rugby. La biblioteca maestosa di Oxford, il fango e le urla dei compagni. All gone, tutto andato. Jamie si accorse di piangere, di fronte alla bottiglia di Scotch vuota sul tavolo. Tirò fuori la scatoletta delle meraviglie, fece una striscia di polvere magica ed aspirò con la cannuccia al naso. Starnutì tra le lacrime. Tutto a schifo, ma c'era di peggio. C'era suo fratello Tim, e c'era Joey con i suoi pitbull. Aspettò la telefonata, come una condanna. Lo squillo si fece strada tra la nebbia della sua mente in piena notte. Jamie prese la cornetta. Meglio rispondere. "Ciao, Jamie." La voce roca di Tim arrivò lontana, triste. Lo stesso tono di quando gli aveva telefonato al college, per annunciargli l'infarto fatale di suo padre. "Tim", mormorò Jamie, senza espressione. "I centomila di Joey?" "Il 50 per cento in meno, credo..." Tim rise,amaramente. "Joey l'aveva detto. Gli investimenti legali non fanno per lui. Ma tu, stronzetto yuppie, l'avevi convinto del contrario. Contro il mio parere, il parere del suo uomo di fiducia. Ti sei messo fra me e lui. Che facciamo, Jamie? Li puoi restituire? Se li restituisci, forse non diventerai il pranzo dei suoi cani." "Lo sai, non è possibile. Sai come vivo." "Come immaginavo. Piccolo bastardo, sempre Tim a coprirti il culo, eh? Stavolta è un guaio grosso Jamie, non si può nuotare nella merda nella quale ti trovi. Ma, sorpresa! Tim l'animale ci ha già pensato. Ci vuole un po' di tempo, però. Mi devi dare la tua barca. Prestito permanente. Ed è meglio che te la fili con la tua Volvo da fighetto merdoso. Vattene in Francia, dagli zii. Parti subito, ai cani di Joey piace fare colazione la mattina presto." "Grazie, Tim..." "Fuck off, Jamie. Get lost." Jamie pensò a Tim, alle sue ampie spalle fasciate dal vestito blu, alla sua grande testa calva, al tatuaggio sul collo. Lo rivide fuori del locale notturno di Joey, le braccia nerborute lungo il corpo e le mani incrociate davanti, vigile e scattante come una pantera, mentre controllava l'ingresso con lo sguardo duro. Pensò all'unica volta che lo aveva visto piangere, al funerale di suo padre, abbracciato alla mamma. 9 "Ciao, Tim. Take care", mormorò alla cornetta muta. Il traffico era scarso, come doveva essere a quell'ora della notte. Jamie combatteva con lo stress e la stanchezza alla guida della sua 480 rossa, guidando meccanicamente tra i pochi camion. Non aveva avuto troppo tempo per pensare, quando aveva abbandonato il suo piccolo appartamento a Chelsea, dove si era trasferito solo qualche mese prima. Il tragitto attraverso il sud-est dell'Inghilterra lungo la M20 durò meno di quanto si aspettasse. Arrivò a Dover con le prime luci dell'alba, gli occhi che ormai si chiudevano da soli per il sonno. Acquistò il biglietto per il traghetto con i contanti prelevati a Londra nella banca sotto casa e attese di imbarcarsi in macchina, nel piazzale. Intorno, gli autisti dei camion ciondolavano, fumando e sorseggiando caffé. Il giorno si trascinava avanti stancamente, grigio e malinconico come se fosse già nato vecchio. Non faceva ancora troppo freddo per essere autunno, ma una pioggia sottile incominciò a cadere su uomini, asfalto e lamiere. Jamie si addormentò per un tempo indefinibile con la testa all'indietro, a bocca aperta. Sognò il viso bianco di Joey che gli sorrideva con il suo solito sguardo annoiato:"Che cosa debbo fare con te, son?" gli chiedeva, mentre Tim lo teneva per i capelli. Suo padre, accanto, lo fissava con muta disapprovazione, vestito del suo stazzonato abito grigio da civil servant. Si svegliò al rombo dei motori che si avviavano per incolonnarsi verso la nave bianca con la pancia spalancata, pronta a fagocitarli per la traversata. Jamie si stropicciò gli occhi, si massaggiò il mento irsuto e accese la Volvo. Gli omini fosforescenti della P&O lo guidarono efficientemente verso il traghetto e fu ingoiato insieme agli altri, quasi senza accorgersene. Avrebbe voluto restare in macchina, ma si costrinse a salire in coperta, quasi barcollando per la stanchezza. Sprofondò su una poltroncina accanto ad un oblò, mentre la nave incominciava a muoversi sul mare grigio. Mentre stava per addormentarsi, una risata femminile lo riscosse. Accanto, due ragazze parlavano fitto fitto in una lingua musicale. Italiano, pensò, mentre si voltava ad osservarle distrattamente. Una delle due, con una grande massa di capelli ricci, stava mostrando all'altra un qualche capo di vestiario dentro una borsa di Harrod's. La ricciolona si accorse di lui e gli sorrise un attimo, lievemente imbarazzata, poi si volse di nuovo verso l'amica, bionda e con il trucco un po' troppo vistoso. Jamie non se ne curò, chinò la testa e chiuse gli occhi, mentre le scogliere di Dover si allontanavano. "Signore...scusi...mister... le è caduto il passaporto... signore..." Jamie si risvegliò, su di lui ondeggiavano tanti riccioli bruni. Mise a fuoco un paio di occhi scuri divertiti, mentre una mano affusolata gli porgeva il libretto blu con lo stemma di Elisabetta. "Oh, cosa... grazie. Grazie mille." Afferrò il passaporto e se lo mise rapidamente nella tasca della giacca. La ragazza fece un risolino: "Siamo arrivati a Calais." Jamie allungò le gambe e si mosse sulla poltroncina. Squadrò di nuovo la ragazza. Niente male, queste italiane, così diverse dalle inglesi. Sorrise. "Ok, arrivederci, mister. Ciao!" La ricciolona si allontanò in fretta con l'amica. Si voltò di nuovo, una breve occhiata fugace e via. Jamie si alzò, indolenzito, e si diresse verso la scaletta che portava alle macchine, mentre il traghetto compiva le ultime manovre di attracco. La sua Volvo fu vomitata dalla nave, in Francia, finalmente. Prese l'autostrada 10 solitaria, immersa in un deserto rurale, verso sud, e dopo qualche tempo si fermò in una stazione di servizio per telefonare agli zii. Jamie rispolverò il suo francese senza difficoltà, era bilingue per via della mamma originaria di Nantes. Nel sentirlo, zia Helene si mise a piangere per l'emozione e la felicità. "Jamie, vieni oggi? Che bella sorpresa! Proprio ieri vi stavo pensando, a te e a Tim. Come sono contenta, no, nessun problema. Ti aspettiamo. Sai la strada, vero? Bene, bravo il mio ragazzo. Siamo a casa, zio Francois non si sente tanto bene, di questi giorni. A presto, allora." Jamie attaccò, sbuffando, e andò ad ordinare un caffè al bar. Si trovava in mezzo al nulla, così vicino a Parigi, eppure sembrava di stare in un altro paese. Lesse il giornale che strillava del crack della borsa, di una rapina sanguinosa nel sud e della perestrojka di Mr Gorbachev. Sentì la madre ed il padre seduti accanto, percepiva il loro sguardo di riprovazione. Scrollò le spalle e si diresse verso la toilette. "Jamie, mio caro. Che felicità..." zia Helene, con gli occhi liquidi, gli prese il viso con le mani ossute e lo baciò. Il cagnolino dietro di lei, abbaiava senza sosta. Jamie si sottrasse, imbarazzato. Era più magra, più curva del solito. "Vieni dentro, zio Francois sta dormendo. Questi fiori? Sono per me? Grazie, stella, sei sempre un tesoro." La casa degli zii era un vecchio villino con giardino, soffocato da palazzi alti ed anonimi di banlieu. Era un miracolo che fosse rimasto lì, con quell'albero secolare che sorgeva come una specie di sentinella. Dentro, tappezzeria e mobili dei primi del novecento, tutto rimasto uguale dai tempi del nonno, e di prima ancora. Un lieve sentore di muffa e di malattia aleggiava nelle stanze. "Ho preparato la stanzetta di tua madre, hai pochi bagagli con te, li hai lasciati in macchina? No? Allora vuoi stare poco tempo..." "Ecco, ho preso un po' di vacanza, non so quanto resterò, zia..." "Stai quanto vuoi, caro. Ti ho preparato da mangiare, quel pasticcio che ti piaceva tanto..." "Grazie, non ho fame adesso. Vorrei riposarmi un po'." Riuscì a resistere alle proteste, e dopo avere dato qualche notizia sulla mamma e su Tim riuscì ad entrare in camera. Stette un po' lì, seduto sul letto, nella penombra, tra mobili e fotografie di un tempo che non gli era mai appartenuto. Poi si stese sul materasso cigolante e stese le braccia sopra la testa, guardando gli stucchi del soffitto, in attesa dei sogni. Jamie si sedette sulla panchina, accanto agli alberi. Pensò che non faceva più una passeggiata da tempo immemorabile, e sentì come se un pezzo di sè fosse mancato, sparito per anni. Aprì il giornale sullo sport, e lesse un po', senza troppo soffermarsi sulle parole. Il sole era insolitamente caldo per essere una giornata di fine Ottobre. I giardini delle Tuileries erano animati come al solito, frotte di turisti sciamavano da e per il Louvre, lingue diverse che si intrecciavano e formavano un impasto di suoni gradevoli, un tappeto dove scivolavano via i suoi pensieri informi. Jamie chiuse il giornale, e socchiuse un po' gli occhi, il tepore della giornata lo insonnoliva. Sentì che qualcuno si avvicinava, ma non ci fece troppo caso. All'improvviso, un accordo di chitarra lo scosse dal torpore. Si voltò, e vide un ragazzo seduto sulla panchina accanto alla sua che stava accordando senza 11 fretta uno splendido strumento, color blu notte. Una custodia rigida giaceva sul terreno, già aperta con dentro qualche monetina. Il ragazzo era vestito con i soliti blue jeans ed un maglione troppo pesante per quella splendida giornata. Si aggiustava continuamente gli occhiali che tendevano a cadere mentre continuava l'accordatura. Quando ebbe finito, si alzò, si guardò in giro e incominciò a parlare ad alta voce: "Mesdames et messieurs, bonjour! Mi chiamo Jed, e sono il vostro jukeboxe. Mettete una monetina lì, chiedete e vi canterò qualsiasi cosa! Allez! Qualche cosa da propormi? Non fate i timidi, forza! Niente? Ah beh, volete sentirmi prima, vero? Ok, pas de problem." Il ragazzo attaccò un vecchio pezzo di rock'n'roll, Jamie riconobbe Blue Suede Shoes immediatamente. Era bravo, anche se l'accento rendeva il tutto un po' bizzarro. Un po' di gente incominciò a raccogliersi intorno al musicista, qualche monetina prese la strada verso la custodia. Quando la canzone finì, qualcuno applaudì. "Vi ricordo che sono un jukebox! Chiedete, ed eseguirò. Forza gente, sono qui!" Incominciarono a fioccare le proposte più disparate, da vecchi oldies a canzoni recentissime, e Jed eseguiva tutto, senza problemi. "Cosa vuole? Duran Duran? Ah no, e' degli Spandau Ballet quella! Ma certo che la so, forza gente chiedete." Jamie aveva ripreso a leggere, non prestava più attenzione, la gente era aumentata e non vedeva più il musicista di strada che continuava a suonare con vigore. Gli applausi e le risate aumentavano, fino a quando non gli riuscì più di concentrarsi sulla lettura. Alzò gli occhi, rassegnato, quando vide un volto familiare, contornato da una cascata di riccioli scuri. La ragazza lo riconobbe, e gli fece ciao con la mano, sorridendo. Jamie rispose al saluto, e stette seduto per un po', indeciso sul da farsi. Poi disse fra sè: "Oh, what the hell...", e si alzò, dirigendosi verso di lei. Sembrava sola, la sua amica non si vedeva. Jamie era dotato in questo genere di cose, era bravissimo ad attaccare bottone, e non si smentì. Gentile, affabile, spiritoso. Poteva parlare in inglese e francese senza problemi, e la conversazione filò leggera sui giusti binari. Seppe che la ragazza si chiamava Claudia, veniva da Roma e stava viaggiando per l'Europa con la sua amica, Laura, che si trovava ancora nel Louvre. Lei i musei dopo un po' non li reggeva, ed era uscita prima. Jamie osservò lo sguardo di Claudia, e capì che la scintilla stava per scoccare. Old bastard, pensò, hai il bersaglio in vista. Il ragazzo aveva smesso di suonare, e la piccola folla si stava diradando. Restavano solo loro tre, Jed stava rimettendo a posto la chitarra, poi si fermò e si rivolse a Jamie: "Monsieur, niente soldi! Tutte queste belle canzoni... e lei niente. Sta qua da quando sono arrivato, ha sentito tutto. Non è giusto! Ha qualche richiesta?" Jamie rimase interdetto, scosse la testa, imbarazzato. "Ok, so io cosa fa per lei. Prima metta la moneta, prego." Jamie, soggiogato, tirò fuori un po' di spiccioli dalla tasca, e li dette a Jed. Il ragazzo tirò fuori la chitarra, la accordò rapidamente, ed attaccò: It's gonna take a lotta love To change the way things are. It's gonna take a lotta love Or we won't get too far. So if you look in my direction 12 And we don't see eye to eye, My heart needs protection And so do I. Jamie rimase lì a sentire per un po'. Guardò Claudia con un mezzo sorriso, e le chiese se voleva bere un drink da qualche parte. Conosceva un bel bar non lontano da lì. Lei accettò senza farsi troppo pregare. Era accovacciata sulla poltrona della stanza d'albergo, in camicia da notte. I suoi riccioli scomposti decoravano lo schienale liso, guardava la via sottostante, dalla finestra. Niente più lacrime e singhiozzi, niente. Una settimana, continuava a pensare, solo una settimana. Era stato un paradiso, dissolto. Svanito. La mattina, all'appuntamento al bistrot lui non s'era presentato, senza spiegazione, senza telefonate, senza messaggi. Non aveva il suo numero, non gliel'aveva dato. Non riusciva ad alzarsi, non riusciva a pensare ad altro. Laura era tornata a Roma, lei era rimasta. L'alba si stava facendo strada tra la pioggia, mentre Claudiaa continuava a tormentarsi il suo ricciolo preferito. Jamie uscì dalla casa dei suoi zii che sopportava sempre meno, ancora un po' stordito dalla sbornia della sera prima. I suoi cugini, che fenomeni. E che ragazza, quella che gli avevano presentato. Pensò un attimo a Claudia, una piccola puntura nella sua coscienza, fece per grattarsi la testa, e attraversò il boulevard facendo attenzione al traffico. Fu ingoiato dal tunnel della fermata del metrò, camminò senza fretta verso la banchina. Oggi vado a tagliarmi i capelli, pensò. Un bel taglio è quello che ci vuole. Che noia, che noia, niente da fare tutto il giorno. Pensò di telefonare in ufficio, forse le acque si erano calmate. Da Tim niente notizie, rabbrividì un po' al pensiero di Joey, ma sentiva tutto così lontano. Se l'era spassata un po' a Parigi, tutto qui. Mentre aspettava il treno, vide Jed in piedi, con la grande custodia della sua chitarra accanto, che gli sorrideva. Lo salutò con un cenno del capo. Jed si avvicinò: "Il mister che ascolta e non dà soldi. Ho una cosa per lei." Una piccola busta bianca fece capolino nella sua mano. Il ragazzo gliela porse, con un lieve inchino. Jamie la prese senza pensare, sbalordito. "La apra, mister, e legga." Jamie obbedì, e tirò fuori il bigliettino pubblicitario di un bar. Nel retro c'era scritto un appunto, Jamie sobbalzò, riconoscendo la calligrafia irregolare del fratello: "Chiedi di Esteban. Sei un idiota bastardo. Tim." Jed era in piedi accanto a lui, ancora sorridente: "Bel posto quello, lo conosco. A quest'ora dovrebbe essere già aperto. La accompagno, se vuole." Il treno arrivò fragorosamente, ed i due entrarono insieme ad un fiume di gente, senza parlarsi. 13 Jed salutò Jamie con un cenno della mano all'ingresso del locale nel Quartiere Latino, più rumoroso del solito. "Good luck mister. Bye bye". Jamie rispose di riflesso, il ragazzo si voltò e sparì in un vicolo. Cristo, Tim. non ti facevo così pieno di risorse, pensò Jamie, mentre entrava nel bar. Uguale a molti altri, penombra, tavoli ancora semivuoti, musica jazz da un piccolo palco illuminato. Un piano ed una ragazza bionda, fasciata in un abito blu. Jamie si avvicinò al banco, osservando la cantante. Niente male, niente male. "Non ci pensare neanche, little Jamie. Non fa per te." La voce vicinissima, con un forte accento spagnolo, lo fece trasalire. Da dietro al banco, un giovane magro con i capelli scuri ed impomatati lo guardava ironicamente: "Sono Esteban. Tu e tuo fratello non vi assomigliate per niente. Proprio per niente. Siediti, ti dò una bella lager. Offriamo noi. E adesso ascolta, ho delle cose da dirti." Esteban spinò la lager e gliela porse, sorridendo. Jamie la sorseggiò, mentre il barista guardava la ragazza. "Questo posto non è male, vero? Niente male. Ci vorrebbero un po' di migliorie, però. E poi, troppi turisti. Troppo rumorosi. Ci vorrebbe gente come Tim, qui, per farne un posto di classe." "Già", mormorò Jamie, ancora più stordito. "Tim è un amico, sai. Collaboriamo, spostiamo un po' di merce qua e là. Niente di che, insomma, avremmo potuto fare di meglio. Si può sempre fare di meglio. Ci ha chiesto di tenerti d'occhio, un po' di protezione. Jed è stato bravo, efficiente. Ogni tanto ce ne serviamo. Affidabile, si dice così?" "Dunque Jamie, eri nella merda, vero? Tutti quei soldi persi in stupide azioni, nel crack. E non erano tuoi. Ma non tutto è quello che sembra. Joey non si fidava troppo, e ha chiesto, diciamo così, a Tim di comprare metà del pacchetto che tu gli avevi venduto. Prova di fiducia, la chiamava. E il tuo fratellone ha accettato, che poteva fare d'altro? Non lo sapevi, eh? Poi Joey ha rivenduto la sua metà prima del crack, senza dire niente né a te, né a Tim. Pulito, con tutti i suoi soldini. L'ha sempre detto, che gli affari, diciamo così, regolari, non fanno per lui." "Dopo il crack, Tim non sapeva niente, e ti ha detto di scappare. Altrimenti, bau bau, i cani arrivavano. Povero Tim, senza soldi, e che paura. E Joey, quando l'ha visto arrivare tutto compunto, è scoppiato a ridere e gli ha detto del suo trucchetto. Tim non ci ha visto più, lo stava per ammazzare, se non fosse stato per i cani non so come sarebbe andata a finire. Insomma, Tim ne è uscito un po' pesto. E tu a Parigi, il fratellino tanto amato, te la potevi spassare un po' con le belle turiste" "Poi a Joey è successo un incidente. Lo sai che aveva ammazzato un poliziotto? Con le sue mani. Credeva di farla franca, ma hanno trovato una sua sigaretta sul posto, e Scotland Yard lo ha incastrato con quel test nuovo, come si chiama, DNA? Joey è dentro, e ci rimarrà. Hanno già buttato via la chiave della sua cella. Anche Tim è dentro, ma non è coinvolto in questo. In altre cose piccole. Hanno scoperchiato la pentola. Ma uscirà presto. Due anni, forse tre. E tu, adesso, sei, come si dice? On the square. Pulito. La tua barca, che tanto serviva per affarucci vari, neanche toccata. Congratulazioni, Jamie. la prossima birra la offri te a me, però. Ed ora divertiti un po', lo sai fare bene, no?" Esteban si rivolse a due clienti, dicendo loro qualcosa in spagnolo che Jamie non afferrò. Servì loro due Coronas, e sparì in una porta sul retro. Jamie sorseggiò la 14 birra sbirciando un attimo la cantante. Poi sprofondò nei suoi pensieri, lo sguardo nel vuoto. Il cancello della prigione si aprì, finalmente, nel pomeriggio assolato di primavera, facendo uscire Tim, in tuta da ginnastica e con una borsa sportiva. Jamie, dall'altra parte della strada, era appoggiato alla sua Volvo, in giacca scura ed occhiali da sole. Fece un cenno con la mano al fratello, che attraversò e gli si fece incontro. I due stettero un po' l'uno davanti all'altro, Jamie gli appoggiò la mano destra sulla spalla. Vide il tatuaggio sul collo, il cranio perfettamente rasato, l'orecchio mutilato nella parte superiore, il segno dei pitbull di Joey. Tim non reagì, si guardava intorno, strabuzzando leggermente gli occhi, segno di una miopia che aveva sempre cercato di nascondere. Jamie sorrise, e aprì la portiera della macchina. Prese la borsa di Tim e la appoggiò sul sedile posteriore: "Andiamo ". I due salirono in macchina, Tim leggermente impacciato per via della sua mole, ulteriormente ingrossata dopo i due anni in carcere, e Jamie accese il motore. Si diressero senza fretta verso la M25, intasata come al solito. Attraversarono il Tamigi sul ponte di Dartford, con il sole morente che dardeggiava sul fiume e gli edifici industriali, diretti verso est, verso il Kent, la casa dei genitori. Tim disse poche parole nella sua voce rauca, mentre Jamie parlava del più e del meno, con un fare gioviale leggermente sforzato. Parlò del suo nuovo lavoro: "Mi hanno offerto un posto a Liverpool, in una ditta che produce pezzi meccanici di precisione, come responsabile dell'ufficio vendite. Mi trasferirò presto. Tu puoi stare quanto vuoi dalla mamma, non vede l'ora. Non se l'è sentita di venire a prenderti in prigione, per lei è ancora uno choc, sai." Jamie parlava in continuazione, sembrava spiritato: "A Parigi, che femmine. Ho conosciuto una sposata, piena di soldi. Ragazzi, da perdere la testa. Dominique, si chiamava. Una brunetta con occhi verdi, un vero fenomeno. Cristo, che cugini che abbiamo, Tim, sembra che conoscano tutta la città. Potresti andare un po' lì per una vacanza vera. Ti saluta tanto Esteban, a proposito...." Tim si voltò, e disse tranquillamente: "Ferma la macchina, Jamie." Jamie era un po' interdetto: "Cosa? Siamo vicini a casa, ormai... Ti senti male?" "Ferma questa cazzo di macchina, Jamie." Il tono non ammetteva repliche, Jamie rallentò e si fermò su una piazzola dell'autostrada. Tim scese, guardò il traffico e si chinò in avanti, le mani sulle ginocchia, come un corridore stanco per rifiatare. Jamie si avvicinò di lato: "Tim, ti senti ma...." Il manrovescio di Tim interruppe la frase. Jamie sentì il sangue in bocca, un incisivo fece crick e si scheggiò. Il bruciore sulle labbra gli ricordò di uno schiaffo ricevuto da sua madre molti anni prima, mortificandolo e lasciandolo sbalordito. Il fratello aveva ora le braccia conserte, e lo guardava senza dire una parola. Poi, piano piano, incominciò a sussultare, e gli occhi si inumidirono. I sussulti divennero più forti, Tim chiuse gli occhi e incominciò a piangere. I singhiozzi scuotevano il suo possente torace: "Scemo, scemo..." 15 ripeteva sommessamente, quasi a se stesso. Jamie gli si avvicinò, ancora stupefatto, e gli prese la testa fra le mani. Tim rimase immobile, nell'abbraccio di Jamie, per un po', singhiozzando e mormorando. Poi si tirò via di scatto: "Andiamo a casa. Dammi le chiavi, guido io." Find your way out - of the wild wild wood 16 Lettera d’aprile Dominique entrò in casa, incerta sui tacchi alti, effetto di troppi cocktails. No, Jerome proprio non ce lo voleva in casa, quella sera. Lui aveva protestato, l'aveva accompagnata fin sotto il portone, lasciando la sua Porsche in mezzo alla strada con le portiere aperte, le macchine che passavano a stento, da cui uscivano urla ed imprecazioni. Lei aveva fatto il solito viso imbronciato modello "adorami", l'aveva respinto, mentre lui provava a baciarla. Poi un piccolo sorriso dei suoi, un bacio sulla guancia ed era scappata via, lasciandolo così, con la sigaretta fra le dita, la cravatta mezza slacciata, la capigliatura trendy leggermente spettinata. Nessuno, non voglio nessuno stasera, pensò. Si sfilò le scarpe, buttandone una sotto il prezioso divano, regalo di nozze di non so quale parente di Robert, l'exmarito, mentre l'altra centrò in pieno il quadrante del maestoso orologio a pendolo del soggiorno. Dom scoppiò a ridere, mettendosi la mano sulla bocca. Stasera nessuno in casa, niente domestici, il figlio a casa di Robert. Si sedette sul tappeto persiano di seta, a gambe larghe, e si accese una sigaretta con l'accendino di Cartier, regalo di chissà chi. Quanti regali, quante persone di cui scordava il nome. Robert se li ricordava tutti, immancabilmente. L'aveva salvata dall'abisso finanziario, velenosa eredità dei suoi adorati genitori, morti dieci anni prima in un incidente stradale. Neanche la vendita della casa in Normandia poteva coprire i debiti. L'Uomo della Provvidenza. Dom sorrise amaramente, al pensiero dell'Uomo della Provvidenza. Una provvidenza diventata inferno dorato. Il figlio, l'unica sua ancora, stava incominciando a crescere. Non ti e' andata poi così male Dom, tutto sommato, vero? Inferno, botte, umiliazioni in una cassaforte piena di gioielli. Uomini, belli, ricchi, per tutte le occasioni. Per ognuno dei tuoi sorrisi, un centro. Mira infallibile. Robert era sbottato, non ce la faceva più. Separazione e divorzio, a te la casa a Montparnasse, alimenti cospicui ed affidamento congiunto. Non sei un'arpia, mia cara, potevi ottenere molto di più, ma per te andava bene lo stesso. Le porte girevoli, uomini che vanno, uomini che entrano. Un bastardo inglese ti era entrato sotto la pelle, quando eri ancora sposata. Jamie, già, paradiso, vacuità. In ginocchio, Dom, in ginocchio per lui. Solo lui ci era riuscito. Poi, puf, dissolto, e tu che avresti squarciato la tua pelle. Dom scosse il capo, ed a fatica si rialzò, dirigendosi verso il bagno. Camminando, si sfilò il tubino da sera, e si levò i gioielli, mettendoli su un mobile capitato di lì per caso. Si levò le mutandine ed il reggipetto, niente calze, a lei piaceva così, e si trovò a cospetto dell'enorme specchio. Socchiuse gli occhi, li aprì, scovò un capello bianco. Domani parrucchiere, imperativo, pensò. Piccole rughe d'espressione ai lati degli occhi, niente, solo un attimo, 36 anni, tutto lì. Seno? un po' giù forse,ma solo lei se ne accorgeva. Vita: OK. Gambe: OK. Fianchi: OK. Qualche piccola gobbetta di cellulite, impercettibile. Dom continuò a guardare un punto lontano dentro i suoi occhi verdi, pensando per un po'. Una lacrima sottilissima gli solcò la guancia destra, lasciando una striscia nera. Poi si voltò, e si diresse in salotto. Aprì il suo secretaire preferito. Dentro, la scatola. E dentro la scatola, le lettere e le cartoline, vergate con quella calligrafia regolare e nitida. Le frugò, trovò una busta con un indirizzo del mittente. Si sedette, prese una penna, un foglio di carta ed incominciò a scrivere, mentre la pioggia di quella notte d'aprile picchiettava sulle finestre. 17 Cristo che male al sedere, pensò Horst, sbuffando dentro il casco. Alla mia età, 'sti viaggi. Ridacchiava un po', gli occhi fissi davanti al nastro nero che gli si svolgeva davanti. Ogni tanto toccava la giubba, all'altezza della tasca interna, sentiva la carta della lettera, quasi per sincerarsi che fosse vera, che non fosse svanita. La coda di cavallo spuntava dal casco, ingrigita, ma più lunga che mai. Pensava ancora a quella mattina, quando Kemal, coi baffi ormai completamente bianchi, gliel'aveva portata, un po' interdetto, mormorando qualcosa in turco, come al solito. Una lettera. Da Parigi. Horst l'aveva letta tranquillamente, ed altrettanto tranquillamente era uscito dal garage dove ancora lavorava. "Che cazzo fai, Horst?" gli aveva gridato dietro Kemal. "Esco" aveva detto semplicemente Horst. Era tornato a casa in macchina, aveva parcheggiato, indossato la tuta e inforcato la moto, già messa a punto, come in ogni primavera. Berlino, nuova di zecca, l'aveva salutato col suo traffico soffocante. Hannover, Dortmund, Colonia, Liegi, Charleroi, puntini luminosi, cartelli verdi ed azzurri, camion multicolori, scintillanti nella notte. Giù, verso la città a forma di cuore, verso qualcosa d’ indefinibile, di assurdo e reale al tempo stesso. La lettera sul petto, la chioma grigia svolazzante, la pioggia notturna. Attraversò il traffico variopinto del mattino, così diverso da quello della sua città. "Caos organizzato" pensò con ironia Horst. Arrivò al boulevard trafficato, al palazzo del quartiere esclusivo. Città proibita. Parcheggiò la moto, senza troppo curarsi di divieti e strombazzamenti, e si sfilò il casco, scuotendo i capelli. Carezzò la moto fedele, baciò il manubrio, e sfilò le gambe lunghe e magre fasciate nel cuoio. Col casco in mano, si avvicinò al portone. Fu fermato immediatamente. Horst disse il nome, a testa alta, il concierge chiamò e dette il via libera. Tante rampe di scale a piedi, niente ascensore, così, per divertimento. Horst col fiatone dei suoi quarantasei anni, gli occhi iniettati di sangue, ore senza dormire. La porta preziosa si aprì, la donna minuta dagli occhi verdi gli regalò il suo sorriso. Horst si pulì gli occhiali, come per vedere meglio. Dom fece cenno, in camicia da notte. Lui fece il passo, e la porta si chiuse dietro di loro. Horst guardò il soggiorno, imbarazzato ed ammirato dallo splendore della casa, mentre lei continuava a fissarlo, in piedi. Il suo respiro si fece un po' più regolare: “Ciao Dom. Sei messa bene.” “Già”, fece lei, ancora immobile. Ad Horst scivolò il casco sul pavimento, imprecò in tedesco. “Pasticcione, così il parquet si rovina.” Dom sorrise. Poi si voltò bruscamente e si diresse in cucina. “Vuoi del caffè? Sarai stanco, no?" Horst non rispose, la seguì, gli occhi sulle gambe che spuntavano dal camicione. Capelli più lunghi, pensò, diversa ed uguale al tempo stesso. Sciuff, un tuffo nella sua anima, schiuma bianca che si levava altissima, e quasi offuscava la sua vista. Dom armeggiò con la macchinetta del caffè nella sontuosa cucina: "Il viaggio?" "Eterno", rispose Horst, con gli occhi sui fornelli. Si sedette su una sedia, e si mise ad armeggiare con la scatola del tabacco e le cartine. "Ti dispiace, Dom?" "No, anzi, preparane una anche per me. Mai stata capace, io. Magari una speciale, eh, Horst?" "Già, speciale. Così mi stendo del tutto...” 18 "Non è quello che io so, e lo sai anche tu", Dom sorrise maliziosamente. "Ne hai, no? Altrimenti posso dartene un po' della mia." "Non c'è problema, ho ancora qualcosina nella mia riserva." Horst preparò il joint, l'accese e lo passò a Dom. "Signora dell'alta società, queste sono cose che non si fanno, da voi." "Fanculo l'haute societé, Horst. Cazzo ne sai te, poi. Bevi il caffè, finché è caldo." "A me piace tiepido." "Ah sì, ricordo ora. Seduto sulla poltrona, ad aspettare che si freddasse... Beh, mentre aspetta, prego, Herr Horst..." Horst aspirò il joint che gli era stato offerto, tranquillamente, gli occhi semichiusi. Si levò gli occhiali e li poggiò sul tavolo. "Dunque, sono qui." "Già, sei qui, mon ange. Non molto tempestivo, direi." "No. la puntualità non è mai stata la mia specialità." "Nemmeno la mia." Dom fece un risolino, con la bocca sulla mano. "Sai già tutto, no, Horst? Tutte le lettere. Sei tu che sei sempre stato, come si dice, riservato?" "Non molto da raccontarti, Dom. Niente Formentera, alla fine. Tutto qui." "Tutto qui." Si passarono il joint senza parlare molto. Le due tazze di caffé giacevano sul tavolo, dimenticate. Alla fine della fumata, Dom le prese, si voltò e ne rovesciò il contenuto sul lavandino. Horst si alzò, e le si avvicinò. Voglio vedere se è ancora lì, pensò, e le alzò i capelli dietro la nuca, impercettibilmente. Il neo all'attaccatura dei capelli sembrava più piccolo, lo sfiorò con le labbra, appena appena. Dom si voltò, lentamente, si appoggiò con le braccia al lavello e lo baciò sulle labbra, alzandosi sulle punte dei piedi. Il bacio si fece più lungo, lei attaccata a lui. Poi Dom gli morse il labbro inferiore, piano, si staccò di scatto e gli prese la mano. "Viens, mon ange." Lo portò nella sua splendida camera piena di mobili antichi, regalati da chissà chi, lo spinse sul letto ancora sfatto, e le si stese sopra. La camicia da notte era già volata dall'altra parte della stanza. Lei armeggiava sulla tuta di cuoio, mentre Horst rispondeva dolcemente ai suoi gesti. Dom gli sfilò parzialmente i pantaloni, lo accarezzò e lo baciò a lungo. Poi gli diede un'occhiata soddisfatta, risalì e lo prese. Horst sentì delle scariche che lo attraversavano, Electric Ladyland, già, era quella la musica. Horst giaceva addormentato, ancora semivestito, supino, mentre Dom giocava con la sua lunga coda di cavallo. "Merci, mon ange", mormorò. Si rialzò e si diresse in bagno. Lo specchio le era davanti, con lei dentro. Fianchi: OK. Vita: OK. Seni: OK. Gambe: Ok. Capelli: insomma.... Guardò dentro i suoi occhi verdi, il punto nero non c'era più. (ad Hana Bi) 19 Edo 1. Lime Street Edo e Jane camminano nella grande hall della stazione di Lime Street un po’ distanti, lei leggermente più avanti di lui. Jane porta un berretto di lana grigio sopra i suoi capelli ramati ed un cappotto nero, ha delle calze a righe multicolori orizzontali con un paio di caterpillar ai piedi. Il suo viso pieno di lentiggini è rosso per il freddo, ha un’aria malinconica, come le capita sempre il lunedì mattina quando deve partire. Edo è vestito col completo da ufficio, e porta il borsone consumato di Jane. I due si fermano davanti all’ingresso, e si baciano frettolosamente. “Ti chiamo quando arrivo”, dice Jane con un sorriso incerto. Edo ha un’aria un po’ assente, le fa cenno di sì. Le due fronti si toccano per un attimo, Jane prende il borsone e si incammina, un ultimo sguardo indietro. Edo alza la mano, bye love, e la guarda entrare. Si ravvia con la mano i capelli neri un po’ lunghi, e si gira lentamente. Mentre si incammina, i suoi occhi scuri leggermente a mandorla si stringono. Esce dall’ingresso laterale, dove ha parcheggiato la macchina. Non sembra sentire freddo, a differenza di Jane e di molti altri passanti. Si infila nella sua Ford Puma bianca ed accende il motore. Si dirige dal centro verso quella desolazione che è Toxteth, il quartiere dove ha abitato per un po’ di mesi. Il Crescent mezzo devastato di Princess Road, la rotatoria con l’ingresso del parco, dove un gruppo di madri adolescenti, quasi bambine, portano a spasso i loro figli. E poi verso suburbia, verso il lavoro. Un SMS arriva sul suo cellulare, lui lo legge di straforo mentre guida. “Vieni oggi da John’s? W”. Wendy, pensa Edo. Una delle nuove cameriere del wine bar. Un lieve sorriso ironico increspa le labbra sottili, qualche piccola ruga si forma intorno agli occhi. Edo guarda lo schermo del suo computer mentre batte velocemente i tasti. Deve sistemare una relazione entro il fine settimana, il suo lavoro nella piccola fabbrica di componenti meccanici dove lavora lo rende responsabile di molte cose “computer related”, dalle più semplici alle più complesse. Edo è bravo e preciso, non sgarra sul lavoro e si fa benvolere; my italian lad, il mio ragazzo italiano, dice sempre John, il boss, mentre lo presenta ai manager delle aziende clienti e fornitrici. Edo ha un passato brillante come assistant all’Imperial College, poi un paio di risse nei pub londinesi non lo hanno messo in buona luce nell’ambiente accademico. Tornare in Italia, magari da mamma? Andare a Exeter dal padre? Naaaah…. E così si ritrova nel Merseyside, not too bad, non male, lavoro OK, gente OK. Certo che è meglio Londra, ma bisogna essere pazienti, leggere i gli annunci, mandare i curriculum, fare interviste, ed inoltre bisogna lavorare al tempo stesso, senza deludere John. Edo si sta affezionando un po’ a quel corpulento e rubizzo signore con un riporto che esalta la sua calvizie invece di celarla, sempre agitato e che parla con voce rauca. Con John è divertente andare al pub, assieme agli ingegneri ed agli altri manager, lui è sempre al centro dell’attenzione, ed è un fiume di battute, barzellette, punteggiate da risate fragorose. Non è la stessa cosa di quando va da John’s, il wine bar vicino a casa sua. Con i suoi amici si parla in modo diverso, di argomenti differenti. Edo qualche volta si annoia, ma il colpo d’occhio dei tavoli intorno a lui lo allieta sempre, con tutte quelle fighette, molte studentesse. Il telefono rompe il silenzio serale dell’ufficio ormai deserto. Edo risponde, soprappensiero. “Edo, sono io, Jane”, la voce tesa, incrinata. 20 “Ascolta Edo, questo fine settimana non vengo, resto a Londra.”. Edo sente una fitta improvvisa: “Ah, OK, vuoi che venga io?”. “No, Edo, è meglio che non ci vediamo, non mi sembra il caso.”. “C’è qualche problema?” “Sì, c’è un problema. Non… Edo…..” Jane incomincia a piangere, lui rimane silenzioso. “Edo, non voglio vederti più. Basta! Mi fa tanto male!” Jane attacca, bruscamente. Edo rimane così, con la cornetta in mano. Naturalmente seguiranno altre telefonate, ma lui sa già tutto. It’s over, finita. Bye Jane. Si riavvia i capelli, cerca le sigarette nella giacca ed esce per fumare. E’ il pomeriggio di una tiepida giornata estiva, ha piovuto in mattinata, ma ora il cielo è di uno sfolgorante azzurro. Edo accompagna Don Tole, un pezzo grosso di una ditta cliente, verso l’ingresso laterale della stazione. Stretta di mano e saluto. Edo fa per voltarsi, ma intravede dall’altra parte della grande hall una testa piena di capelli rossi, e si ferma, stringendo gli occhi. Jane cammina con un giovane alto, si tengono per mano. George, pensa, ecco dov’eri finito. Gliel’hai detto te, vero? Forse sì, forse no. Edo pensa ai suoi amici thugs del Caledonian di Londra, potrei fare un paio di telefonate, una bella lezione ti ci vorrebbe, so io come fare. E’ un attimo, solo un attimo. Edo si guarda i piedi, come faceva da piccolo, quando sentiva i suoi genitori litigare nella stanza accanto, e quella frustrazione rabbiosa lo assaliva. Un attimo. Rialza la testa, si riavvia i capelli e si dirige verso l’uscita, verso Lime Street, sotto il sole di un tardo pomeriggio estivo a Liverpool. Un mendicante si avvicina, Edo gli allunga una banconota da cinque sterline. Forse John Paul, l’hair stylist dove va sempre, è ancora aperto. 21 2. Edo va a Chester Edo si accende una sigaretta, dopo il caffè che ha preparato con la moka regalata dalla madre per Natale. Ancora non si è svegliato completamente, ma già il mal di testa si fa sentire "Cazzo, sono proprio hungover", pensa, un po' in italiano ed un po' in inglese. Che sbornia ieri, ho pure fatto a botte con quel deficiente, "Oi mate, are you watching me bird?", Stai guardando la mia ragazza, così aveva incominciato, poi Edo non si ricorda più bene, solo un sacco di gente addosso, lui sbattuto fuori dal pub, e oltre alla testa adesso pure la guancia destra si fa sentire. Meno male che non mi è saltato nemmeno un dente, come due anni fa a Londra, quando quel cazzone che sta con la mia ex mi ha gonfiato di botte. Edo spegne la sigaretta con rabbia, e va in bagno. Il suo appartamento, una mansardina ricavata da una grande casa con giardino, è più ordinato di quello che ci si aspetterebbe da un single thirtysomething. Le uniche cose fuori posto, i vestiti sparpagliati sulla moquette lisa del soggiorno, vengono dalla sbornia della sera prima. Mentre si guarda allo specchio, Edo si chiede una volta di più, come cazzo è che sono finito a Liverpool, a lavorare in una piccola azienda meccanica, la Blackrovers Mechanical Ltd. Figlio di italiani immigrati, poi divorziati, con la mamma che torna al paese, il padre cameriere in un ristorante italiano di Exeter, ancora sta là, quel deficiente. Lui torna in Italia con mamma, poi ai 18 anni via a Londra, a studiare Ingegneria Informatica all’Imperial College. E’ bravo Edo all’uni, poi però, dopo il PhD e qualche anno come research assistant, lo pescano mentre spacca i vetri della macchina di un dickhead che l’aveva provocato al pub. Se la cava con poco, ma è fuori dall’Imperial. Poi un po’ di lavoretti, e infine decide di andare nel Northwest,. Not too bad, specie adesso che si è trovato questo posticino. Ci fa un freddo terribile in inverno, ma la casa è proprio carina, in una zona piena di locali e di belle fighette, studentesse carine che lui cerca di rimorchiare al wine bar sottocasa, assieme a quel gruppo di squinternati dei suoi vicini. Edo si guarda allo specchio, che gli dico al boss, adesso, al lavoro. Ha gli occhi iniettati di sangue, la guancia un po’ gonfia, potrebbe andare peggio, ma la notte di ieri è scritta sulla sua faccia. Edo si pettina all’indietro i capelli un po’ lunghi, si risistema un po’ e si veste col solito completino blu. Non sembra un inglese, no, ed il primo indizio é quella sgargiante cravatta piena di fiori rossi di Ferrè che si è comprato all’aeroporto di Milano, l’ultima volta che è tornato in Italia da mamma. Già, mamma. La segreteria telefonica è piena di suoi messaggi, ai quali Edo raramente risponde. Ce n’è un altro, Edo incomincia ad ascoltare mentre si mette le scarpe, ma non finisce, sempre le solite stronzate, la voce ancora si lamenta mentre esce di casa. Accende il mobile phone, scende le scale di legno, scivola fuori dal portone e si dirige di fretta verso la sua Ford Puma bianca, parcheggiata sotto casa. Ouch, ho la testa che mi scoppia, ma non è la prima volta, non sarà certamente l’ultima. La giornata è bellissima, perfino un po’ afosa, per gli standard del posto. La radio gracchia qualcosa del match di stasera, England vs Argentina, che palle con quest’Owen e con questo Beckham, e poi dicono degli italiani che sono fissati col calcio. La Aigburth Road non è intasata, Edo passa Garston col suo gasometro gigantesco, Halewood con la fabbrica della Ford, poveracci, se la passano male, non produrranno più la Escort, quanto scommetti che chiudono anche ‘sto posto, poi arriva al ponte di Runcorn, sul Mersey. Edo si ricorda che qualcuno in Italia gli ha detto del ponte, lo ha definito 22 un esempio di architettura industriale di non si sa quando, a lui piace con i suoi travi di acciaio dipinti di verde, gli piace dare un’occhiata al fiume sotto, che già è estuario, dove i gabbiani si posano sulle secche della bassa marea. Cazzo, oh no, ho sbagliato, non ho girato verso Warrington, ed ora? Ora mi tocca tornare indietro, se no devo prendere la M56. Mi sono distratto, fuck. A Edo non piace fare tardi al lavoro, no, mai. Poi guarda guarda il traffico dall’altra parte, vede le indicazioni dell’autostrada, Chester da una parte, Manchester dall’altra. E si ricorda di un anno prima, quando stava ancora con Jane. Andiamo a Chester, Edo? Posso prendere il treno delle sei per Londra, non ho ancora comprato il biglietto…. Avevano litigato la sera prima, ed Edo aveva detto sì, let’s go. Let’s go Edo, andiamo a Chester, così carina, piena di negozi e di gente ben vestita… ma sì, chi se ne fotte, mi prendo un giorno. Edo arriva dopo un’ora, parcheggia la macchina e passeggia nel centro con le sue strade dritte che ricordano la planimetria concepita dai Romani, Chester era un castro romano, già, me l’hanno detto. In un negozio di alimentari che sembra una boutique troneggia la metà di un pescespada. Poi va verso il parco lungo il fiume Dee, si siede su una panchina. Un bambinetto con su la maglia di Owen gioca con un pallone sul prato. La sua mamma, un po’ più in là, litiga al telefono con qualcuno, strana cosa per un’inglese. La mamma piange, il bambino gioca. La palla gli sfugge, e rimbalza sulla panchina, Edo l’afferra. Il bambino si avvicina, occhi azzurrissimi, capelli quasi a zero, il moccio che esce dal naso, avrà cinque anni o poco più. Lo guarda. Edo si nasconde un po’ dietro gli occhiali scuri da italiano, il moccioso sorride, poi dice: “Me Mom got divorced last week”, “La mia mamma ha divorziato la scorsa settimana”. Edo guarda da un’altra parte, verso il fiume. Poi si fruga nella tasca della giacca, e prende un piccolo pupazzetto di stoffa, uno Snoopy un po’ liso, e lo dà al bambino, assieme al pallone. Il piccolo Owen aggrotta la fronte, prende tutti e due e scappa via. Edo resta seduto sulla panchina, a godersi il sole, mezzo sorriso, la guancia non fa più tanto male. Bye lad. 23 3. M25 Sono le 3 p.m. di un grigio giorno invernale sulla M25, il London Orbital. Incomincia a fare scuro, le luci rosse delle macchine, dei camion e dei pullmini incolonnati nell’ingorgo formano una lunga colonna ordinata che avanza lentamente. Edo le guarda stancamente al volante della Ford Puma. La testa non gli fa più tanto male, la serata precedente passata al Caledonian pub con i suoi vecchi amici cockney e’ un ricordo sfumato. Non ci provo più tanto gusto a sbronzarmi, pensa. E ripensa ai gloriosi tempi dell’Imperial College, quando, studente, aspettava con impazienza che arrivasse il Sabato sera, per ritrovarsi con i suoi mates che parlavano delle recenti gesta di Arsenal, Chelsea e Tottenham. Poi i soliti discorsi di ragazze, i racconti di scopate improbabili e l’alcol che sommergeva tutto in un carosello ilare. Pugni e calci fuori dai locali, qualche volta, lasciavano segni sul viso e l’amaro in bocca il giorno dopo. Non è più così, non sono più così. Questa volta Edo è tornato a Londra per motivi diversi: non è la ragazza, non è l’aereo che lo porta in Italia per le vacanze di Natale, non è una delle rimpatriate che scandivano i primi tempi della sua permanenza a Liverpool. La prima volta che era ritornato i suoi mates avevano incominciato a cantare “we hate the scouser” in suo onore, i bastardi. Questa volta è business, contatti da mantenere, contratti da siglare, mani da stringere. Ma qualcosa di nuovo è successo. Don Tole, il manager della ditta con la quale sta stringendo un accordo, gli ha offerto un nuovo lavoro. Così, di punto in bianco, davanti al suo piatto di improbabili lasagne, durante il pranzo finale al pub. Don gli ha detto “Look Edo, I think you are good, you’d be better here, with us”. “Senti Edo, sei bravo, staresti meglio qui da noi”. Edo si è riavviato i suoi capelli neri, sorridendo. L’occasione per tornare nella capitale, ci pensa sempre, ci ha sempre pensato. Sorride ancora in macchina, mentre procede lentamente. Se va avanti così, arrivo a L’pool a notte fonda. Speriamo che la spaghetti junction a Birmingham sia un po’ più libera, quando ci arrivo. Pensieri imprecisi, Oasis che suonano in sottofondo. Una bambina indiana lo guarda senza emozione dalla macchina davanti Porta la divisa grigia della scuola, un buffo cappellino sopra le lunghe trecce nere. Edo gli fa ciao, lei si volta e scompare dal finestrino. Il cellulare squilla all’improvviso. Edo aziona l’auricolare distrattamente. “Edo dove cazzo sei?” La voce stridula di Peter, il suo collega, è sovraeccitata, come al solito. “Sono bloccato sulla M25, ci deve essere stato un incidente. Senti, devo riattaccare perché adesso ci stiamo muovendo…” “Edo, il boss ha avuto un infarto a casa, l’hanno portato all’ospedale a Liverpool! Sta male, non sanno se ce la fa, stiamo andando lì, riesci a venire?” “Cosa…? Va bene, se posso cerco di passare stasera…” “In ufficio è un casino, la gente sta andando via. Anche in produzione si sono fermati, Edo, c’è il lavoro di Don Tole che deve cominciare, che cazzo facciamo? Edo? Mi senti?”. Edo attacca senza rispondere e guarda fisso davanti. La bambina indiana è ricomparsa e gli sorride, facendo ciao con la manina. John Blackrover, il boss. Prima o poi doveva succedere. Troppe sigarette, troppo alcol, troppo lavoro. In ufficio girava voce che i medici gli avessero praticamente 24 dato un ultimatum per farlo rallentare almeno un po’, ma lui come sempre se ne era infischiato. E ora? Sono le 10 di mattina, Edo ha provato passare la sera prima ma era troppo tardi. Ora cammina nervosamente su e giù per il bianco corridoio dell’ospedale, il completo blu del giorno prima, cravatta rossa. Almeno mi sono cambiato la camicia, pensa, devo ricordarmi di chiamare il maledetto tecnico della maledetta lavatrice, non mi è rimasto nemmeno un paio di mutande pulite. Lady Diana gli sorride vacuamente da un ritratto appeso sul muro, sopra una targa in sua memoria. L’infermiera, una donna giovane e tirata che porta una enorme cintura di pelle nera sul camice blu, esce dalla stanza di John e gli sorride: “Puoi entrare, love, lui sta molto meglio, ma non stancarlo troppo, OK?”. Edo entra nella stanzetta bianca e ha un improvviso ricordo di tanti anni prima, di un’altra stanza e di suo nonno. Speriamo che stavolta vada meglio, pensa amaramente. John è disteso supino, gli occhi semichiusi, due cannule escono dal suo grosso naso. Non ha più il suo solito colorito rubizzo, il suo assurdo riporto è in completo disordine, ciocche sparse sul guanciale. John si volta e sorride stancamente. “Edo, ancora non ti sei tagliato quei capelli? Quante volte te lo devo dire, son? Chissà che avrà pensato quel cazzone di Don! Che adesso mandiamo in giro a rappresentarci dei frocetti.”. Edo sorride e non risponde, poi si guarda i piedi, come sempre gli succede quando John lo rimprovera. “Hanno firmato, allora? Alle condizioni che avevamo stabilito?”. Edo annuisce, senza dire niente. “Bravo, eccolo qua, my italian lad. Poche parole e molti fatti. Ah, se avessi te come figlio, invece di quello smidollato che perde tempo a fare crociere su quelle stupide barche a vela… E non sono nemmeno sue!”. Un colpo di tosse interrompe il soliloquio di John, Edo si guarda intorno, allarmato. “Non preoccuparti, son, non muoio, non ora, almeno. Senti Edo, guardami, ho da farti un’altra domandina: non è che Don ti ha detto qualcos’altro? Qualche frasetta delle sue, tipo quanto sei bravo, perché non vieni a lavorare qua e via coi violini? Lo so che vuoi tornare in quella cazzo di Londra, che ci troverete voi giovani laggiù, mi chiedo. Pensaci bene, Edo, pensa alla libertà che hai qui con noi. Pensa alle responsabilità che ti abbiamo dato. E guardami, cazzo!”. Un altro colpo di tosse, Edo guarda gli occhi di John, gli fanno pensare all’acqua del mare, chissà perché. “Boss, sei stanco, adesso chiamo l’infermiera, OK? Take care.”. E’ come se l’infermiera avesse sentito, si materializza in un attimo. Edo esce dalla stanza, incrocia lo sguardo di Lady Di e va via quasi di corsa dall’ospedale. Vecchio bastardo, pensa, gli viene quasi da piangere. Basta, stasera vado al Britannia a bere sidro e a guardare il Mersey. 25 4. Venerdì al Phil John è seduto sulla sua poltrona, dietro all’enorme scrivania. Sembra piccolo ed esausto, è uno dei primi giorni al lavoro dopo l’infarto e la lunga degenza in ospedale. Peter, Jamie ed Edo arrivano alla spicciolata e si accomodano silenziosamente sulle sedie, scambiandosi occhiate preoccupate; non sarà un meeting facile, lo capiscono da come John si tormenta il lobo dell’orecchio destro con il pollice e l’indice. Barbara, l’ossuta segretaria, porta un vassoio con caffé e tè, la poggia su un angolo della scrivania, si rassetta leggermente il vestito e scappa via. John e gli altri non la guardano nemmeno, nei momenti buoni sarebbe volata qualche battuta, lei avrebbe risposto con la solita verve, ma oggi non è giornata, proprio no. “So Edo, let's get straight to the point. Andiamo al punto. Questa tua nuova idea... è interessante, un buon progetto. Quanto ci hai lavorato, son? Tre mesi, vero? Tu pensi che la società dovrebbe fare questo passo. One step beyond...". John fa un primo mezzo sorriso, guardando in aria. Un piccolo colpo di tosse di Jamie lo scuote. Continua. "Tu dici che dobbiamo costruire questo oggettino, questo trasduttore, tutto da soli, e venderlo in America, prima nell'aeronautica e poi, se va bene, dici che avrà mercato anche nell'industria automobilistica. Very clever, son. Ma, Edo, è un bello sforzo. Jamie, qua, dice che non ce la facciamo. Siamo giù, lo sai? Non abbiamo liquidità, le banche ci stanno già addosso, vero Jamie?" "Ne abbiamo già parlato con Edo." La voce di Jamie è leggermente nasale, piatta. "Oh, lo so, lo so. Avete cominciato a discutere quando ero in ospedale. Tre mesi fa, vero? Voi litigavate, ed il resto andava a puttane, le commesse non finite, Don Tole è incazzato nero, ho visto che razza di casino c'era quando sono tornato, e tu, tu Edo acchiappavi le farfalle." John sorride, di nuovo, Edo si riavvia i capelli, guarda Peter, aiutami, bastardo. Peter è una sfinge, maledetto, sempre così. Aplomb britannico, in questi casi. Ecco, adesso mi crocifiggono. "Edo, mi hai deluso un po'. I am quite disappointed, son. Questa cosa..." John indica la cartellina di Edo, quasi con disgusto "...questa cosa non possiamo farla. Hai perso un sacco di tempo, non perderne altro. E voi due, pure voi avete cazzeggiato troppo. No, Edo, non dire niente. Stop. E ora, passiamo al resto." Edo si guarda le scarpe, poteva andare peggio, pensa, mentre Jamie relaziona su una commessa, arriveranno altri guai, i pesci volano per tutti, oggi. Inglesi bastardi. Fucking brits. Dalla finestra, la luce del lampione illumina la pioggia sottile di Marzo. Alla fine della riunione, i tre si alzano, Peter quasi vola verso la porta, Edo si aggiusta la giacca, Jamie si muove lentamente, ha perso il suo incedere spavaldo da ex rugbista, c'è qualcos'altro, pensa Edo, non ha la solita aria bastarda, il mezzo sorriso ironico che lo contraddistingue. Jamie viene richiamato dal boss, la porta si chiude. Negli altri uffici non c'è più nessuno, Edo saluta Peter, è ora di andare al Philarmonic, è Venerdì sera. Il Philarmonic (chiamato familiarmente Phil) è un pub maestoso all'angolo tra Hope Street e Hardman Street, davanti alla Philarmonic Hall di Liverpool, nel centro città, non lontano dall'Università. Edo siede con i suoi mates in un tavolo della stanza del camino, dove arde un fuoco piacevole, nella fredda ed umida sera di fine Marzo. Gente che beve e chiacchiera tutt'intorno, dal juke box ruggisce la chitarra di Jimy Hendrix, 26 There must be some kind of way out of here" Said a joker to the thief There is too much confusion, I can't get no relief. Chissà chi ha scelto questo oldie, forse uno di quei quarantenni ancora in giacca e cravatta dal lavoro che sembrano spassarsela un mondo, uno di loro porta un distintivo con su scritto life begins at 40, la vita comincia a quarant'anni. Devo ancora nascere, pensa amaramente Edo, mentre finisce la sua pinta di lager e cerca di smaltire lo stress del tempestoso meeting di poco prima. E' il suo giro, Edo prende le ordinazioni di Geoff, di Manolo e di Rob, e si incammina verso il banco situato nella hall accanto. Si fa strada fra la gente e si avvicina alla bionda barista dallo sguardo duro. "Due pinte di lager, una di bitter ed una Becks", Edo alza la voce per farsi sentire dalla donna dietro il bancone."Yes love", la risposta della bionda ha un suono metallico, il robot si mette in movimento. Edo si volge leggermente, vede Jamie seduto su uno sgabello, troppo vicino per evitarlo. Jamie guarda il suo bicchiere di whisky, perso nei suoi pensieri, l'aria torva. Sente che Edo lo guarda, e si volta, ha un piccolo sussulto, il sorriso ironico affiora immediatamente, ma gli occhi sono vuoti. "Edo". "Jamie". I due si fissano, risentimento, rabbia sorda affiorano. Edo si avvicina: "Bravo Jamie, sembra che tu abbia vinto la partita...." "Don't fuck me about, Edo, era una causa persa e lo sapevi, te l'avevamo detto. Lo sai come la pensa il boss su certi progetti. Non ce lo possiamo permettere, questo è tutto. Da quando sei salito di grado e ti hanno cambiato mansioni non capisci più niente. Svegliati, Edo, non sei in America. Vattene lì, se ti piace fare il grande businessman. E lasciami in pace." "Sei un clown, Jamie, you're a jerk. Ti rode perché non comandi più come prima, non puoi più fare gli show del cazzo che facevi prima. Il tempo passa e non riesci a infilare un contratto. John lo vede che non combini più un cazzo, me lo ha anche detto, guardati il culo, mate. Finita." Edo dice l'ultima parola in italiano, senza rendersene conto. Jamie sorride per un attimo, poi fissa di nuovo il suo bicchiere. Una risata fragorosa esplode dalla sala accanto, i quarantenni ci danno dentro, due ragazze in minigonna escono ridacchiando dai bagni degli uomini, forse hanno ammirato i famosi mosaici, o qualcos'altro. Jamie scuote la testa, i biondi capelli dal taglio alla moda. "Cazzo ne sai Eddie boy, della vita da grandi. Oggi sono stato in tribunale, mia moglie sta riuscendo a portarmi via i figli. Li potrò vedere solo in un cazzo di posto a Manchester una volta al mese, in presenza di un assistente sociale. Sono la mia vita. Senza di loro sono morto. Cazzo ne sai. Get lost, Edo. E pensare che John mi ha anche prestato dei soldi per la causa." Edo ripensa a un barbecue insieme ai colleghi l'estate scorsa, Jamie che gioca a rugby con due maschietti sul prato. Le mani di Jamie tremano mentre si porta il bicchiere alle labbra. Edo pensa, e si guarda le scarpe. "C'è un problema, qui?" Una voce dal morbido accento spagnolo rompe l'attimo, Manolo si avvicina, la sua sagoma è imponente, i capelli nerissimi sono raccolti in una coda: "Dove sono i drink, Edo?". "Sono lì sul banco, andiamo." 27 Jamie li guarda, sorride con gli occhi lucidi: "Bye Eddie, salutami Geoff. Salutami tutti." Edo si volta senza salutare, prende i drink con Manolo e torna verso il suo tavolo. Così è, big boy life. Chissà se fuori piove ancora. 28 5. Scoiattoli rossi. Il meccanico si rialza e si pulisce le mani con uno straccio, mentre dice ad Edo: “C’è un problema con la centralina, dobbiamo cambiarla, mate. Lo facciamo domani, qui non ne abbiamo una di ricambio.” “Quando mi potete ridare la macchina?” “Domani sera è pronta. Mi chiami nel pomeriggio, comunque.”. Cazzo, mi costerà un patrimonio, pensa Edo. Prima la chiamata del carroattrezzi, poi la centralina. Elettronica bastarda. Ok, punto. Domani per andare a Londra ne noleggio una. Edo si riavvia i capelli, saluta ed esce. Il garage è un capannone nella zona dei vecchi magazzini del centro di Liverpool, una zona semideserta. Molti degli edifici dai mattoni rossi sono chiusi ed abbandonati. Adesso mi tocca anche cercare un cab per tornare a casa, accidenti. Da un angolo della strada sporca si intravede la sagoma scura della cattedrale anglicana. Edo incomincia a camminare con passo svelto, ma sente una voce che lo chiama. Quando si volta, vede avvicinarsi un uomo alto, sorridente. Ha un incedere dinoccolato, e porta un vestito un po’ trasandato. Il volto, incorniciato da una gran massa di capelli rossi è appesantito da un paio di occhiali spessi, ed ha un aspetto familiare. “Scusi, lei abita a Belgrave Road, vero? Sono un suo vicino, si ricorda di me?” L’uomo parla con un gradevole accento irlandese, ma certo, è il professore che abita davanti. “Ho visto che ha lasciato la macchina in garage. Ho appena ritirato la mia. Se vuole, le do un passaggio fino a casa. Sta andando là, vero?”. Il professore sorride, un po’ timidamente. “Be’, non so cosa dire, la ringrazio.” “Comunque il mio nome è Sean Mc Gilp”. “Piacere, Edo De Santis”. “Edo….”. La stretta di mano è vigorosa, certo non è una stretta inglese, no. La macchina è una vecchia family car rossa, una Ford Escort che ha conosciuto tempi migliori. Dentro l’abitacolo il disordine impera allegramente. Giocattoli rotti, qualche vecchio libro e rifiuti vari. “Mi scusi, sa, i bambini….”, Sean sgombera il sedile anteriore buttando la sua borsa di pelle nel retro. Edo si accomoda con cautela, rimuovendo un piccolo Pokemon. “Up we go” dice Sean, e parte sgommando leggermente. I due rimangono silenziosi per gran parte del viaggio attraverso Toxteth, verso Aigburth. Edo guarda fuori dal finestrino. “ Edo è un nome italiano, vero?” domanda Sean mentre guarda fisso davanti, aspettando che un semaforo diventi verde. “E’ il diminutivo di Edoardo, ma mi chiamano tutti Edo da quando ero piccolo. Lei insegna all’Università?”. “Sì, insegno chimica all’Università di Liverpool.” Già, l’Università. Edo pensa all’Imperial College di Londra, dove ha studiato e lavorato prima di approdare al settore privato. Non è stata proprio una scelta, quella di lasciare. Carattere, brutto carattere, come gli dice sua madre da quando era piccolo. Bad boy. Edo si scuote, il viaggio è finito. Sean ferma la macchina davanti casa, poi si volta e sorride, senza guardarlo direttamente. “Senta Edo, stavo pensando, uh… ecco, noi oggi abbiamo organizzato un barbecue, abbiamo invitato molta gente, molti vicini… ecco, se vuole può venire, sono sicuro che ritroverà anche qualcuno che conosce….”. Edo è un po’ 29 interdetto, ma il tipo è troppo simpatico. Un po’ di complimenti, e poi accetta. Prima deve passare a casa a cambiarsi e a prendere una delle bottiglie di vino che ha portato dall’Italia. Non è il caso di venire con il completo dell’ufficio. Quando Edo arriva, il giardino di Sean è già pieno di gente. Uomini e donne chiacchierano a voce alta, con bicchieri e lattine in mano. Una masnada di bambini corre in lungo ed in largo mentre le madri li richiamano inutilmente. Edo porta una giacca avana sopra un paio di pantaloni blu ed una camicia bianca senza cravatta, capisce subito di essere troppo elegante. Si sente un po’ a disagio, con la bottiglia in mano, mentre apre il cancello. Sean arriva subito, porta un bambino biondo sulle sue ampie spalle: “Grazie di essere venuto, Edo. Questo è mio figlio Rory, 3 anni, entri pure, prego.” Edo lo segue, l’odore del fumo e della carne arrostita lo avvolge. Sean gli presenta un po’ di gente, tutte persone dall’aria simpatica ed informale, molti accademici, riconosce la razza, in fin dei conti ne ha fatto parte, anche se per pochi anni. Persone adulte, sposate, fourtysomething, molti sono vicini che ha incontrato per strada mentre portano a spasso il cane, mentre passano in macchina di ritorno dal supermercato, mentre entrano o escono di casa. Non li ha mai considerati, ma ora gli sembrano decisamente gradevoli. Una donna bionda con un sorriso ironico si avvicina a Sean ed Edo. Porta un paio di jeans ed una polo bianca, i capelli raccolti in una lunga treccia. “Sean, questo è il ragazzo italiano che abita davanti a noi, vero? Hai visto, ha portato una bottiglia di vino. Non lo hai ringraziato? Non gli hai detto dove posarla, Sean?” La donna si volta verso Edo, ed alza gli occhi al cielo, mantenendo il suo sorriso. Sean arrossisce: “Edo, questa è mia moglie, Elaine. Grazie per il vino, lo dia pure a me, scusi.” Edo porge la bottiglia a Sean, ma Elaine la prende prima che Sean ci arrivi e guarda l’etichetta, stringendo gli occhi come fanno i presbiti. “Montepulciano d’Abruzzo”, pronuncia con fatica, ”I know that, lo vendono anche qui!”. “Si’, lo so, ma questo l’ho portato con me dall’Italia. Le assicuro che questo non lo trova al supermercato.” , replica Edo sorridente, anche se un po’ seccato. “Grazie Edo, lo apro subito. Vado a cercare il cavatappi. Se vuole accompagnarmi, le presento altre persone.” . Edo segue Sean, un ultimo sguardo a Elaine, che continua a sorridergli. Mi prende in giro, mi sa che prende tutti in giro, pensa Edo. Nel loro viaggio verso il tavolo dall’altra parte del giardino, Sean gli presenta altre persone, e gli mostra gli altri due figli che giocano a calcio, Ronan e Sam, di otto e sei anni, chissà perché deve dire anche l’età, meno male che non lo ha fatto anche per la moglie. La serata prosegue chiacchierando del più e del meno con alcuni vicini, poteva essere peggio. Elaine sbuca all’improvviso e gli porta il secondo piatto con degli spiedini in una salsa indiana. Sorride sempre, ed è accompagnato da una ragazza che le assomiglia: “Edo, finalmente ti ho portato qualcuno della tua età, o quasi. Ti presento mia sorella Claire, è appena arrivata dal lavoro. Fa i turni all’ospedale, poverina.”. Claire dice semplicemente “Hello” ed abbassa un po’ lo sguardo. Altra timida. Capelli raccolti in tante treccine, profondi occhi azzurri, come la sorella. Non molto alta, ma con tutte le cose al loro posto. Look un po’ grunge. Edo guarda le due sorelle,così similli e così diverse, e sente dentro un piccolo click. Fa ciao con 30 la mano, si può fare, pensa. Ev’rybody, let me tell you about my love Brought to me by an angel from above Fully equipped, with a lifetime guarantee Once you try it, well I’m sure you will agree. Ad Edo viene in mente una vecchia canzone delle Sister Sledge, ripensa a quando una volta vide i suoi genitori che ballavano in cucina al suono della radio, lui bambino che si copriva gli occhi, imbarazzato. Era proprio quella, la musica. Una leggera brezza gli accarezza il viso, la spiaggia di Formby è quasi deserta, è una giornata calda e bellissima. Il mare d’Irlanda che gli si stende davanti, non ha il solito colore scuro e l’aspetto un po’ minaccioso, è blu, finalmente. In lontananza si vede una piattaforma, forse una raffineria. La marea è bassa a quell’ora della giornata, due bambini giocano sul bagnasciuga che si stende in lontananza. Qualche ragazzo un po’ coraggioso sta provando a fare il bagno, un gruppo di cavalli attraversa la sua visuale galoppando, i cavalieri sembrano molto concentrati per evitare guai. Edo si volta, e guarda la donna stesa bocconi, che prende il sole accanto a lui. Sulla sua spalla c’è un piccolo tatuaggio, una farfalla multicolore. In poche settimane l’avrò già baciata un milione di volte, pensa. Elaine si rialza e gli sorride. “Time to go, Eddy boy. Sean tornerà con i bambini alle sette. Poi domani tu devi andare a Londra da quel tizio, vero?”. Un piccolo bacio sulla guancia, un sospiro. “Levati quegli occhiali scuri da italiano, fammi vedere i tuoi occhioni marroni, Eddy boy. Ecco, così va meglio.”. Altro bacio. Edo si alza e prende le sue cose, Elaine si riveste. “Andiamo a vedere gli scoiattoli rossi del bosco, sai, i bambini ne vanno matti…”. Elaine sorride nuovamente, mi prende in giro sempre, pensa Edo. Va bene così. I due si incamminano attraverso le dune, verso il bosco. I’m thinking of you, and the things you do to me that make me love you now I’m living in extasy. 31 6. La corsa L’uomo distinto si guarda allo specchio. Capelli neri tirati indietro, pelle olivastra, sguardo teso e concentrato. Si aggiusta la cravatta, si osserva la dentatura, si sistema i capelli con un piccolo pettine. Gesti rapidi, precisi, silenziosi. Si sciacqua le mani, si asciuga alla macchinetta ed esce dal bagno. Suda leggermente mentre si dirige verso il gate. L’aeroporto è ancora semideserto, un janitor di colore spinge stancamente un carrello con il suo carico di detersivi, stracci ed immondizia. Los Angeles, Chicago, San Francisco, Atlanta, NewYork: i nomi compaiono sui display come numeri della lotteria. Un piccolo, impercettibile sorriso increspa le labbra dell’uomo in giacca e cravatta mentre si avvicina alla donna bionda in uniforme, dall’aria un po’ insonnolita. Il più è fatto, pensa, ed accelera leggermente il passo. Edo corre sul cemento umido della passeggiata di Otterspool. Accanto, il Mersey ha un colore scuro. La giornata è grigia, ma siamo ancora gli inizi dell’autunno, non fa freddo, c’è solo un po’ di brezza pomeridiana. Edo sente il rumore delle sue scarpette da corsa ed il suo respiro accelerato, un cane gli si avvicina scodinzolando, ma lui non ci fa caso, è troppo concentrato sugli ultimi cento metri da percorrere. Un ciclista lo sorpassa, è un flash dal colore verde fosforescente che si allontana rapidamente, ci siamo quasi, il più è fatto, pensa. Quando arriva vicino al parcheggio del pub, si arresta e ferma il cronometro con un gesto un po’ incerto. Il tempo registrato è un po’ più alto del solito, colpa di Elaine, pensa sorridendo mentre si piega, respirando affannosamente, chissà se è ancora a letto. Lentamente si incammina verso casa, mentre rifiata e si asciuga il sudore della fronte con il polsino bianco. Arriva camminando, per le strade c’è l’attività solita di un pomeriggio lavorativo, ma la sua strada è silenziosa e tranquilla come al solito. Edo tossisce leggermente, sta ancora sudando, e percepisce che Elaine è ancora a casa sua, gli aveva detto che lo avrebbe aspettato, anche se era un po’ imbronciata quando era uscito per andare a correre. Sente l’acqua della doccia che scorre in bagno, lo so che userà di nuovo il mio accappatoio pulito, pensa con un po’ di fastidio, ma poi potrò sentire il suo profumo quando lo uso, quindi siamo pari. Un po’ dai e un po’ prendi, il mondo va così, o no? Edo comincia a fischiettare. Il televisore di un vicino manda delle voci concitate, sembra una cronaca sportiva commentata da un americano. A quest’ora? Forse è la replica di una qualche partita di football, anche se non è stagione, forse baseball? Ad Edo viene un po’ di curiosità, ma poi la sete prende il sopravvento. Va in cucina, apre il frigorifero e prende una lattina di coke, troppo presto per una birra. Torna in soggiorno e cerca il telecomando, ma dove cazzo è finito, mi dimentico sempre dove lo metto. Lo trova ed accende. Pubblicità su un canale, un cartone su un altro, poi due ciccione che litigano in un talk show. Questo cos’è, un film? Una scena fissa su un cielo azzurro limpido, una città americana dall’aspetto familiare, due grattacieli altissimi che fumano. Non sembra un film, ci sono delle scritte in sovrimpressione che scorrono, eccola la voce americana. Gesù, non è un film. Edo legge le scritte, sente la voce. Che cazzo sta succedendo, stringe gli occhi, si lascia cadere sulla poltrona. Che mostruosità, non è uno scherzo, vero? Rimane così, inebetito. Non sente Elaine che si avvicina. Dopo un’ eternità si gira, e la vede in piedi con il suo accappatoio, che piange 32 silenziosamente. Edo guarda i suoi occhi blu lucidi, non sa che dire. “John lavora là, è un mio amico. Edo, devo andare, devo andare a casa.” Elaine scappa singhiozzando in camera, il tempo adesso scorre rapidissimo, prima che Edo si capaciti lei è fuori, vestita, i capelli ancora umidi. Sente sbattere la porta, forte. Lui rimane seduto, continua a guardare la televisione con la lattina in mano. Vedrà ancora molte cose, le vedremo tutti. 33 7. Long kiss goodbye Edo guarda Elaine con aria corrucciata, fuori dal Pumphouse in una tiepida ed umida sera autunnale. Ha appenda piovuto, le strade lucide riflettono le luci dei lampioni, una macchina passa schizzando il marciapiede poco più in là, le poche persone rimaste escono dal pub e si sparpagliano silenziosamente. Elaine si torce le mani, mentre piange silenziosamente. "Is that it? E' tutto?" chiede Edo, più a sé stesso che alla donna dalla lunga treccia bionda che si adagia soavemente sull'impermeabile da uomo, senza più il suo adorabile mezzo sorriso. "That's it, Edo. Sean ha deciso di andare in sabbatico in California per un anno. Io andrò con lui e con i bambini. Non posso restare qui. Non posso." La voce giunge quasi a stento, Edo volge lo sguardo verso un punto lontano, in alto, verso le torri del Liver buinding, sormontate dalle statue di quello strano uccello mitologico, simbolo rapace della silenziosa Liverpool. "Già, i bambini, kids are kids. Cristo, Elaine....". "Che vuoi, Edo? Cosa vuoi da me? Che resti qui? Cosa ne sai di me, di noi? Non rendere tutto più difficile, lo è già abbastanza..." "Certo, Elaine, certo, hai ragione tu. Hai sempre ragione tu." E' in quel preciso istante, che lui sente il crack, tutto è andato a puttane, stringe gli occhi, si riavvia i capelli. La pioggia ricomincia a cadere, soffice, in piccole gocce sottili che impregnano la sua giacca blu. "Bye Edo, my dear. Vado a prendere la macchina, non accompagnarmi." Il lungo bacio bagnato dilata il tempo e lo spazio, è un vortice buio. Long kiss goodbye. I suoi tacchi risuonano sull'asfalto, Elaine scompare dietro gli Albert Docks. Vuoto e pioggia su di me, sul Mersey scuro, sulla città povera e struggente, sulle anime desolate, su Eleanor Rigby, sugli edifici abbandonati. Inglewood, down in LA. Edo sorride, sdraiato sul letto, pensando che e' partito da Manchester Airport ed è finito a Manchester Boulevard. Stesso nome, due mondi completamente differenti. Si alza, attraversa la anonima camera del motel che lo ospita, e guarda dalla finestra. Una palma altissima contro un cielo lattiginoso , due ragazze in bikini sdraiate accanto ad una piscina formato tinozza. Probabilmente la qualità del motel è proporzionale alla grandezza della piscina, pensa Edo, appena arrivato in questo nuovo mondo che lo accoglie come se fosse un'isola deserta. Il condizionatore bisbiglia una nenia incapace di cullarlo: troppo stanco, sfasato. Il giorno eterno del viaggio, i pensieri, i propositi. Accende la TV, George W. Bush lo scruta con un'aria severa, next stop Iraq, così andrà a finire, c'è da scommetterci. Il telefono lo distoglie da considerazioni cupe sul prossimo futuro del mondo, alza la cornetta. "Hola, amigo, bienvenido a Los Angeles." La voce flautata di Manolo, una voce amica finalmente. "Sei troppo stanco stasera per un quick drink nella città degli angeli? Dobbiamo raccontarci un sacco di cose, non dirmi di no." "No problem, amigo. Stavo aspettando una tua chiamata." "Dammi mezz'ora e sono lì. Così ti levi da quella fogna. Si va a fare danni a Santa Monica.". Manolo è di parola, ha imparato la puntualità, cambi il paese, cambi le abitudini. A 34 Liverpool era tutta un'altra storia, Edo passava le ore ad attenderlo con gli altri suoi mates. Si fa sera sul Sepulveda Blvd., mentre la macchina scalcagnata di Manolo compie un lungo tragitto verso nord, il paesaggio cambia, suburbia a LA presenta molti aspetti, i quartieri di casupole si alternano a colline semidesertiche. Le luci illuminano il molo di Santa Monica con le sue giostre ed i chioschi per turisti, Manolo parcheggia in una strada laterale, vicino ad un bar con insegne al neon che contrastano contro il cielo rosso cupo. Entrano, il locale è affollato di uomini e donne in jeans e maglietta seduti sui tavoli, i televisori mostrano scene di baseball. Si siedono al banco, Manolo ordina due Bud ad una ragazza rossa dal sorriso perfetto che li accoglie con grande cordialità. Manolo e le cameriere. Questa abitudine non è cambiata, invece. Due ragazzi dall'aria messicana dicono qualcosa all'amico spagnolo, che risponde con un cenno. "Così, sei qui. Non mi hai detto perchè, quando mi hai chiamato dall'aeroporto..." "Business, of course. Debbo parlare con della gente a San Francisco per una fornitura." "San Francisco? Lontano da qua. Perchè non sei andato in aereo direttamente lì?" Edo nota le piccole rughe agli angoli degli occhi di Manolo, e qualche capello bianco nella lunga coda di cavallo del suo amico. Il tempo vola, pensa un attimo ai tempi del Philarmonic, prima di rispondere. "Ho deciso di fare un viaggetto sulla costa,non sono mai stato in California prima.". Manolo sorride: "Passerai per Santa Barbara? Ay Edo, non mi dire che ci pensi ancora... Quando sono partito per l'America eri un uomo devastato, pensavo spesso a te, ma tutti mi dicevano che stai bene ora. Lascia perdere, qui è pieno di chicas..." "Non mi rompere Manolo, sto bene, è vero. Debbo solo concludere questo affare, OK? E voglio prendermi qualche giorno per me." Manolo annuisce, prende la bottiglia di Bud, serio. "Cheers mate" "Cheers". Le due bottiglie si incontrano. Sarà una serata di racconti e di ricordi, in questo pezzettino di Nuovo Mondo. Un paio di ragazze con cui chiacchierare, un lungo viaggio di ritorno nella mite notte di LA, in silenzio. La piccola macchina giapponese viaggia silenziosamente sulla 101 verso Nord in una splendida giornata di sole. Los Angeles è alle spalle, attraversa Ventura, Edo fischietta al volante al suono di una radio "...ain't no mountain high enough...", la strada è abbastanza sgombra, qualche camion e poche macchine. Edo sente l'emozione crescere mentre la distanza dalla prossima meta si accorcia. C'è qualcosa che devo ancora fare, qualcosa che devo ancora dire, si ripete quasi ossessivamente. E' un pensiero fisso che lo tormenta da settimane che sembrano anni. Santa Barbara è una deliziosa cittadina dagli edifici spagnoleggianti, lunghe spiagge dorate, un mare che non sembra nemmeno oceano, le palme svettano sul lungomare, la 101 la abbraccia a sud e piega verso nord. La State Street sale dal molo e la attraversa, negozi eleganti, turisti che passeggiano, ristoranti dalle mille etnie. Edo parcheggia l'auto che ha preso a noleggio in una strada laterale, cerca di orientarsi con la sua piantina. Al motel penserà dopo, adesso ha una telefonata da fare. 35 Elaine legge un libro seduta sulla spiaggia, ha davanti il mare, si intravedono le Channel Islands attraverso la foschia. Edo la riconosce subito, è come tuffarsi nell' oceano, si avvicina camminando sulla sabbia calda con le scarpe in una mano ed un pacchetto in un'altra, gli occhiali da sole un po' storti. Elaine percepisce la sua presenza quando è vicino, sorride senza guardarlo. E' abbronzata, i capelli biondissimi più corti, un po' ingrassata, forse. "Eddy boy, he crossed the ocean for me...", canticchia sorridendo, guardando le isole lontane. Edo si siede accanto a lei, senza parlare. Elaine si volta, lo sguardo si fa duro: "E ora? Ora che mi hai raggiunto, cosa credi di fare?" "Niente, voglio stare solo un po' qui con te. Domani riparto, devo andare a San Francisco. Tutto qui." Elaine sorride di nuovo, scuote la testa: "Edo, silly italian boy. Quando mi hai telefonato da LA, non sapevo proprio cosa pensare. Non ci credevo. Couldn't believe it." "Come stai? How's family?" "Bene, benissimo. We are having a great time". Elaine imita l'accento enfatico americano. "Sean....Sean è andato a San Diego per un congresso, sta pensando di restare qui. Irlandesi, popolo di emigranti, come voi...I bambini a scuola. E' un po' dura per loro, specialmente per Ronan, il più grande. Fa fatica ad abituarsi. Io? Ho trovato un lavoro in un negozio di antiquariato. Sono in permesso, oggi." Dovrei levarmi la camicia, pensa Edo, sto sudando. Elaine lo guarda sottecchi, un attimo, poi si volta di nuovo verso il mare. Una lacrima scorre sul suo volto abbronzato. "Quando sono andata via, credevo di morire. Di morire. E Sean, ancora non sa di noi, non ha intuito niente. Mia sorella, Claire, l'ha capito subito, voi uomini, non… non capite mai, non vedete mai." Edo si avvicina, le cinge le spalle con un braccio, Elaine rimane immobile. Stanno un po' così, una coppia di anziani bagnanti passano, li guardano un attimo, incuriositi. Vanno via. "Anch'io sono stato male, ero perso, ho smesso di fumare, ho lavorato come un cane, ho bevuto, ho guardato il football. Sono stato anche ad Anfield, sulla Kop, con Geoff." "Bravo Edo, così si fa. Tough boy. Duro." "Ti devo dare qualcosa, è un po' che ci pensavo..." Ma com'è che uno immagina la scena, e poi tutto avviene in modo diverso, pensa Edo. All the reverse it should be. Le porge il pacchetto. Elaine è incuriosita, apre la anonima scatola, guarda dentro, sorride. Tira fuori una piccola sfera trasparente, dentro il Colosseo, la neve finta che turbina intorno quando la scuote. "Molto appropriata, in questa stagione." Elaine ride sommessamente. "L'ho comprata alla stazione di Roma, quando sono andato a trovare mia madre. Buon Natale, Elaine." "Buon Natale, Edo. Quale, quello scorso o il prossimo?" "Who cares?" "E quest'altra cosa? Un libro? Tu leggi, Eddy boy? Leggi libri? Il Dottor Zivago?" "Mio nonno ne aveva una copia, in casa. Ovviamente in italiano. Una delle prime edizioni. Ho faticato a trovare l'edizione inglese." Elaine lo raggiunge all'improvviso, il bacio è un lampo, sembra illuminare il mondo per un attimo. 36 "Grazie Edo. Camminiamo? Niente surfers qui oggi, hai notato? Il mare è troppo calmo. Meglio così." Elaine si alza di scatto, aspetta che lui si alzi. "Camminiamo. Sempre come vuoi te, Elaine." 37 8. Cowboy dreams Edo arriva in ritardo all'appuntamento. Colpa dell'ennesima riunione che si è protratta oltre il previsto. Parcheggia la sua vecchia Ford Puma in Bond Street, si toglie la cravatta, spegne il telefonino, si ravvia i capelli e aziona la portiera con qualche difficoltà, si incastra sempre, accidenti a lei. Afferra la giacca dal retro della macchina ed esce incontro alla dolce serata di Maggio. Ha piovuto per una settimana intera, poi il tempo è cambiato, fortunatamente. Guarda un attimo in su, verso il cielo limpidissimo che incomincia colorarsi di un rosa tenue. Sorride, soddisfatto, e si avvia con passo affrettato verso l'incrocio dove vede i suoi mates che lo stanno aspettando. La figura imponente di Manolo gli si fa incontro, mentre ruggisce un "Ola!" indicandolo con un dito minaccioso. "Ti stiamo aspettando da mezz'ora, amigo! Eri te quello che si lamentava sempre perchè facevo tardi!". Il colosso spagnolo ride fragorosamente, mentre i due si abbracciano in mezzo al marciapiede. Due ragazzine in abitino corto ridacchiano e si danno di gomito mentre passano vicino. A Edo viene un po' di commozione, Manolo quasi lo soffoca, continuando a ridere. Pensa un attimo al loro ultimo incontro a LA. Anni luce di distanza. Rob e Geoff si avvicinano, Edo si stacca e li saluta. "Abbiamo provato a chiamarti, ma che cazzo, non rispondi mai." L'accento scozzese di Rob risuona musicale, mentre gli stinge la mano. "Scusate, al mio capo è venuto in mente di organizzare una riunione al telefono con dei clienti..." "Piantala Edo, smettila. La verità è che perdi tempo a fare il filo alla tua collega nuova. A proposito, perchè non l'hai portata? Siamo bravi ragazzi, noi. Ci comportiamo bene." Geoff, l'unico locale del gruppo, gli dà una pacca sulla spalla. Geoff, ossuto liverpuliano dai capelli cortissimi, sempre il più pettegolo. Manolo sgrana gli occhi: "Ah, è così amigo? Cos'è questa storia? Ma bene, bene! Muy bien. E non mi hai ancora detto niente?" "Ma no, non è vero! Dove andiamo?" "Noto che cambi discorso, Eddie boy. E va bene, ne parliamo dopo. Rob suggerisce di prendere un curry e di andare all'Irish Centre. C'è un gruppo country rock, stasera. Ci suona suo fratello..." "Ok let's go for the curry. Andiamo." L'Irish Centre ha il solito aspetto desolato. Sono gli ultimi giorni della sua vita, sta per chiudere, ha detto Geoff. Non si sa che ne faranno di quella strana costruzione in stile neoclassico accanto alla cattedrale cattolica. Un altro pezzo di Liverpool che va. Il gruppo ha appena terminato il suo concerto di musica country, banjo, pedal steel guitar e tutto il resto, inclusi i cappelli da cowboy. Rob è andato a salutare il fratello dietro le quinte, Geoff ha incontrato un suo vecchio amico. Al bar, Edo osserva Manolo: non ha più la sua coda di cavallo, di cui andava tanto fiero. Appare tirato, le rughe ai lati dei suoi grandi occhi scuri e profondi sono più marcate di quanto si ricordasse. Per un po' bevono la loro pinta di Guinness, silenziosi. "Quanto tempo resti, Manolo?" 38 "Una settimana. Devo risolvere alcune cose qui, chiudere il conto in banca, vendere la macchina, prendere le mie ultime cose che ho lasciato da Geoff. Poi, volevo vedere voi... Porte girevoli, Edo, si entra e si esce. Sai com'è." "E dopo?" "Torno a casa, Edo." "A Los Angeles?" "No Edo. Torno a casa, entiende? Torno a Bilbao. Basta" "Non sapevo..." "Mia madre non sta bene, Edo. Mio padre non c'è più, lo sai. Lei ha bisogno di me, sono l'unico figlio. E poi sono stanco dell'America, sono stanco di parlare inglese, stanco di mangiare un cibo che non è il mio." "Hai già un lavoro, lì?" "Troverò qualcosa, mi arrangerò." I due amici riprendono a bere. In quel momento Edo sente la musica di sottofondo, riconosce il pezzo. yippi ay oh love's a silver bullet that blows your world apart I wanna be remembered as an outlaw honey the boy who stole your heart I wanna be the guy who wears the white hat and rides across the plain I'm gonna be your enigmatic stranger honey you are lookin' at your Shane cowboy dreams, cowboy dreams you give me cowboy dreams cowboy dreams, cowboy dreams you give me cowboy dreams Elaine è seduta sulla poltrona del soggiorno, è la prima volta che si incontrano da soli, di nascosto, a casa di lei. Edo le si avvicina, la bacia. Le chiede, chi sono questi? Sono i Prefab Sprout, my darling, risponde lei. Vorrei che tu cantassi questa canzone per me, Eddie boy. Così è stato. Porte girevoli, Elaine è entrata ed è uscita, quanto tempo fa? Manolo lo guarda, gli ha letto nella mente: "Time to go home, Edo. Ora di andare a casa. Si è fatto tardi. " 39 9.Edo & Claire Edo attraversa la piscina con lunghe, indolenti bracciate, dopo la sua nuotata nella umida domenica di una Liverpool invernale, ancora assonnata ed in attesa della bella stagione che tarda ad arrivare. Arriva all'estremità della vasca e si sfila gli occhialini e la cuffia, leggermente ansimante per lo sforzo dello sprint finale. Poca gente intorno che nuota, il ritmo dell'acqua che si solleva intorno gli dà una sensazione gradevole e pacifica. Una cuffia variopinta gli si avvicina, lo chiama con una voce familiare. Lui si volta e due occhi azzurri familiari lo scrutano, un'espressione ironica lo attraversa. Una piccola fitta, leggera, non può essere lei, non è lei. No, non è lei. Claire, la sorella di Elaine gli sorride. La cuffia si solleva e ne esce una gran massa di treccine bionde, che si scuotono e lo schizzano. "Oops, sorry Edo, mi riconosci?" Edo sorride leggermente, un po' imbarazzato ed annuisce: "Hi Claire, long time no see..." I due si avvicinano, i volti quasi si toccano, appena fuori dall'acqua: "Sei sparito, Edo,.." "Sono spesso fuori per lavoro. Stai bene?" Claire lo sfiora con le gambe mentre si issa sul bordo della piscina, si volta e scuote la testa a sinistra e destra, velocemente: "Bene, grazie. Tu stai bene, Edo? E il tuo amico spagnolo, come si chiama, Manolo?" "E' tornato in Spagna, più di un anno fa." "Home, sweet home. Tu non pensi mai di tornare a casa, Edo?" "Quale casa?" Edo è ancora in acqua, la snella figura di Claire sopra il bordo, in piedi, il costume da bagno blu, le treccine le coprono parzialmente il volto. "Devo andare di corsa, ho il turno in ospedale. La piccola infermiera corre dai suoi malati. Resti in acqua?" "Non so ancora, pensavo di uscire, ma l'acqua è calda..." "Why don't you give me a call, Edo? Perché non mi chiami? Insomma, non sparire di nuovo." Claire gli mostra il dito indice, in segno di rimprovero scherzoso. "Be a good boy. Non bere troppo, non fumare. E chiamami. Non fare l'orso." Edo la guarda mentre si allontana con l'accappatoio in mano. Dalla vetrata appannata della piscina si intravede un pallido sole. Due bambini cinesi si tuffano vicino a lui, ridendo. Due sorelle, così simili e così diverse, pensa. Ma ora assomigli un po' di più a lei. E adesso, un'altra vasca. Ne ho ancora voglia. La sala dei concerti del Flanagan's Apple, lo storico pub irlandese in Matthew Street, è piena di gente, studenti con le pinte di Guinness ed Harper's in mano, che seguono e cantano Rainy Night in Soho, suonata da una scalcagnata band locale di folk rock celtico. Il fumo si taglia col coltello, odore di birra e sudore, mischiato a profumi Body Shop e patchuli. Edo e 40 Claire siedono precariamente su un bancone, fissandosi e parlando poco, annegando l'uno negli occhi dell'altra. Occhi azzurri di Claire, grandi, occhi scuri di Edo, a mandorla, che si stringono mentre lui aspira dalla sigaretta. Le treccine bionde di Claire sono tenute insieme da una fascia con i colori dell'arcobaleno, il brillantino sul suo naso delicato luccica, ogni tanto, quando lei muove leggermente la testa mentre parla, e soprattutto quando sorride. Un ragazzo coi capelli lunghi e scuri rovescia un po' di birra sul loro tavolo, mentre ride fragorosamente. "Sorry mate", dice a voce alta, mentre il liquido si spande, dirigendosi pericolosamente verso i pantaloni di Edo. Lui si alza di scatto, aggira il tavolo e prende la mano di Claire: "Let's go", dice seccamente. I due, mano nella mano, guadagnano l'uscita facendosi strada a fatica tra la folla variopinta e vociante. La macchina di Edo arriva davanti alla grande, vecchia casa ottocentesca risuddivisa in piccoli appartamenti dove vive Claire. Si sono già baciati prima del viaggio, Claire gli ha mordicchiato l'orecchio mentre lui guidava, strofinandosi continuamente contro il suo fianco. Che fatica, che fatica guidare. Ad ogni semaforo rosso, un lungo bacio. La macchina si ferma, lui tira il freno a mano e la stringe a sè, mentre lei lo carezza insistentemente sulle cosce e più su, tra le gambe. Edo suda, lei suda. Si staccano bruscamente, escono dalla macchina e si riavvinghiano immdediatamente. Le scale della casa sono un flash, la porta del piccolo appartamento disordinato di Claire si apre e si chiude in un lampo, i vestiti vengono sparsi dappertutto, lei sopra di lui, sul letto sfatto dalle lenzuola colore giallo oro, il vapore dei loro fiati si incontra, niente riscaldamento, come al solito in questo cazzo di case inglesi, ha il tempo di pensare Edo, poi di nuovo dentro, dentro il tunnel of love, dove le cose fondono, il ghiaccio emette fumo, l'acqua diventa color cremisi, i vulcani vomitano lava blu e rossa. Tempo, tempo che vola e che poi rallenta, si ferma nel momento, quel momento, mentre le trecce bionde gli si rovesciano sulla faccia, odore di tabacco e profumo di passione. Claire urla, all'improvviso, si inarca all'indietro, sulla schiena e si getta avanti su di lui, ansimando. Edo geme, leggermente, il respiro rotto. I due si abbracciano distesi, stretti, sotto il piumone. Restano senza parlare, i capelli lunghi neri di lui e le treccine bionde di lei mescolati, annodati, quasi. Claire trema, leggermente, e lo bacia sul collo, le orecchie, le guance irsute. "Cristo che freddo, qua dentro. Vado ad accendere la stufa." Lei si alza di scatto e si dirige verso l'altra estremità della stanza. Edo osserva il suo tatuaggio, una stellina sul fondo schiena, mentre si accende una sigaretta. Claire si piega sulla stufa, a Edo vengono idee colorate, sorride e l'aspetta. C'è ancora un sacco di tempo, pensa, aspirando una lunga boccata. La sveglia suona incessantemente. Edo si rigira nel letto, stordito. Claire geme un po', nel sonno. Lui si alza, e guarda l'ora nel display luminoso. L'aereo, devo prendere l'aereo, Cristo. Spegne la sveglia, e si alza. Ore 5.30, 41 debbo essere a Manchester per le 7. Manchester - Roma, diretto. Il colloquio è fissato per le 16. Il minicab è prenotato per le 6. Claire si gira, e lo guarda, stesa ancora nel letto, senza dire niente. Edo evita lo sguardo, esce e va in bagno. Le parole sono state spese, poche, i giorni precedenti. L'offerta di lavoro è vantaggiosa, niente da dire. Ed i selezionati sono pochi, lui lo sa. Claire lo ha ascoltato, poi ha scosso la testa, e l'ha voltata da un'altra parte, verso la bow window del soggiorno, fissando gli alberi fuori, che hanno messo su le foglie. Edo le ha messo una mano sulla spalla, lei l'ha fatta scivolare via. "Just go, if this is what you want", le sole parole che ha detto. Edo è rimasto in piedi, lei seduta sulla poltrona. Sono usciti la sera prima della partenza, e sono andati al Britannia, sul Mersey. Poca gente, poche frasi. Due pinte di Stella Artois, qualche sigaretta. Edo si rade velocemente, pensando alla frattura che si sta aprendo tra loro, ma l'adrenalina incomincia a salire. Il lavoro che aspettava, il posto giusto, il ruolo giusto. E il ritorno in Italia. Sensazioni miste. Niente colazione, troppo poco tempo. La borsa è già pronta, Claire è ancora a letto, lui si veste in fretta, si china per baciarla sulla guancia. Un colpo di clacson, il minicab lo sta aspettando. Fuori albeggia. Edo esce dal cancello del modernissimo edificio in vetrocemento. Suo cognato, Roberto, lo aspetta, fuori dalla macchina. "Come è andata?" "Bene. Mi vogliono assumere. Bella offerta." "Bravo, tua madre mi ha già telefonato tre volte. Chiamala subito." "Sì, adesso la chiamo" Roberto sorride, la grande massa di riccioli è ingrigita, negli anni. I baffi sono ancora scuri, forse se li tinge, pensa Edo, mentre ricambia il sorriso e si allenta il nodo della cravatta. Fa già caldo, a Roma, la sera è dolce, ma il frastuono delle macchine sulla via Tiburtina, nella zona più industrializzata della città, è assordante. "Sei proprio sicuro, vero, che non vuoi tornare al paese, a trovare tua madre e tua sorella? Sai che festa farebbero..." "No, ho l'aereo domani. Dormo qui, da un amico. Te l'ho già detto. Non ce la farei." "Vabbe', quando verrai a lavorare qua, ci sarà tempo. Ti porto dal tuo amico, allora." "Sì, dobbiamo prendere l'Anulare, è ad Acilia, dall'altra parte della città" Edo guarda fuori dal finestrino della macchina, è stanco, i fari delle macchine che incominciano ad essere accesi, un traffico infernale, se l'era scordato. Eppure l'aria è dolce, la primavera è ormai avanzata. Stasera uscirà, andrà in centro con Claudio, a Testaccio. Gente e locali così diversi, così colorati. Cornetti caldi alla fine della pajata e dei cocktail, è questa la promessa di Roma. Claire rabbrividisce leggermente ad un refolo di vento, nella fresca serata di Maggio, le braccia incrociate, e si stringe accanto ad Edo, quasi 42 impercettibilmente. I due sono seduti sull'erba, in uno spiazzo che dà sul Mersey. Le luci del Wirral, dall'altra parte del grande estuario si riflettono sull'acqua scura. All'improvviso, incominciano i fuochi multicolori sparati dal Pier Head, in lontananza, che riempiono il cielo. Una coppia è seduta a pochi metri da loro, con un cane che continua a girare intorno incessantemente, annusando il terreno. La città impazzisce, il Liverpool ha appena vinto la Coppa, un'impresa che sembrava impossibile alla fine del primo tempo. Loro hanno scelto questo piccolo spiazzo dimenticato, fuori Otterspool, per godersi lo spettacolo senza troppa gente. Nella penombra, Edo si accende una sigaretta, senza parlare. Claire le appoggia la testa sulla spalla. "Ieri mi ha telefonato Elaine, dalla California. Era furiosa. Si è messa a piangere. Ha detto che non mi considera più sua sorella." "Ha telefonato anche a me, sul lavoro. Mi ha coperto di insulti. Lasciamo perdere. Guarda che spettacolo!" "Non ti dispiace che una squadra italiana abbia perso?" "Who cares? Io tifo Roma, mica Milan..." Claire sorride leggermente, il cane le si avvicina annusando il terreno. Lei lo accarezza, lui scodinzola. I fuochi sono lontani, ma visibilissimi, il fragore è attutito dal vento. "Claire, ho rinunciato, non vado più a Roma. Resto qui. Ho telefonato stamattina." Lei non dice niente, le lacrime le riempiono gli occhi, lui getta la sigaretta, quasi rabbiosamente, le scintille nel buio, e la bacia sulla testa. Il cane gli annusa una scarpa, mentre una palla luminosa rossa e bianca esplode nel cielo scuro. 43 10. Infinite loop La moto corre sulla 101, accanto alle scogliere del Pacifico, verso Nord. L'uomo, che la guida indossa una vecchia tuta di pelle nera, la sua coda di cavallo bianca fluttua nell'aria, il casco gli nasconde il perenne sorriso. Prima del Big Sur mi fermo, pensa Horst, faccio correre questa Harley ancora un po', ancora un po'. Domani Monterey, dopodomani San Francisco. Wunderbahr! Alla mia età, come un ragazzino. Sotto, l'Oceano ribolle sulle rocce e saluta Horst, il colosso tedesco ancora in sella. Le due sorelle incrociano lo sguardo, sopra il Golden Gate. Stessi occhi azzurri, stesso sguardo ironico. La nebbia sulla baia si è alzata, fa freddo, ma il sole splende. Claire rabbrividisce leggermente, e volge lo sguardo verso la città in lontananza: "Non è proprio la stessa vista del Waterfront di Liverpool... grazie per avermici portato, Elaine. Grazie per questa vacanza" "La sorella più grande ha di questi doveri, Claire. Mamma e papà non ci sono più, devo mostrarti le cose. E dovrei mostrarti anche la retta via, ma non credo di essere tanto brava." "Don't be silly, Elaine. Tu sei come sei, io sono come sono. Tutto qui. Ci facciamo fare una foto insieme?" "OK, sai che non vengo bene, però..." "Cerca fare dei sorrisi più grandi. Sei in America da quattro anni e non hai ancora imparato?" Il rito viene espletato grazie ad un turista giapponese ammirato, con sorriso e lieve inchino finale incluso. Claire riprende la macchinetta, la mette nella borsa di cotone che ha a tracolla, fruga alla ricerca di sigaretta ed accendino. "Ne vuoi una, Elaine?" "Lo sai che ho smesso. Sono in America da tanto tempo, ricordi?" Elaine aspira una boccata con la testa lievemente all'indietro. "Io ci ho provato, ma con Edo che fuma non ci riesco. Niente da fare. Dovremmo smettere insieme." E' Elaine adesso a volgere lo sguardo da un'altra parte. Torce l'estremità della treccia bionda che le ricade sul petto, una smorfia lieve le contorce la bocca. Un attimo, ma Claire se ne accorge. Il solo nome la fa stare ancora così, pensa. Il rimorso la trafigge. Ne hanno già parlato, in tutti i modi, per telefono, per mail, quando si sono viste. Niente di cui discolparsi, Edo ed Elaine si erano già lasciati molto tempo prima, era Elaine ad avere scelto di seguire il marito con i figli in Callifornia. Ma la ferita non si è mai rimarginata completamente, e basta un niente per riaprirla. "Claire..." "Sì, dimmi." Le parole escono dalle labbra della sorella minore velocemente, con un po' di ansia. "Facciamo così. Ti porto all'aeroporto, ma non aspetto Edo con te. Ti lascio lì. Devo tornare a Santa Barbara subito. Sean è da solo con i bambini, non ce la fa a tenerli da solo, deve prepararsi per un congresso la prossima settimana. Tanto noleggerete una macchina, ed andrete in un po' in vacanza insieme..." "Non ce la fai proprio a vederlo, vero? Te lo chiedo direttamente, scusa..." Elaine scuote la testa. Piange silenziosamente. Claire la abbraccia, sopra lo splendido cancello rosso dell'Ovest, nella fredda giornata della baia di San 44 Francisco. L'aeroporto Charles de Gaulle non è particolarmente animato, di Domenica mattina. Edo e Jamie sono seduti accanto, lavorando con i loro portatili sulle ginocchia, senza parlarsi. Edo stringe ripetutamente gli occhi scuri, mentre legge le ultime frasi che ha scritto. Poggia il computer sulla poltroncina accanto e si stira le gambe, mentre si ravvia i capelli. "Fancy a cup of coffee, Jamie? Ho un sonno tremendo. Per prendere l'aereo da Manchester mi sono svegliato alle 5 stamattina... cazzo di voli con coincidenze. Per risparmiare un po' di sterline, che cazzata. Quelli dell'amministrazione sono idioti. Gliel'ho detto al boss." Jamie alza la testa dal suo schermo e lo guarda. I suoi occhi sono infossati, lucidi. Sembra sempre che stia per scoppiare a piangere, pensa Edo. Cristo come è cambiato. Prima il divorzio sanguinoso, poi la morte del fratello. Cancro ai polmoni, poche settimane prima. Poor old bastard, mi fa pena. E pensare che lo odiavo... "Niente caffè per me, Edo, grazie. Resto qui. Devo finire questo report." "OK Jamie, see you later." Edo si allenta la cravatta, si alza e si allontana verso il cafè dall'insegna al neon multicolore che fa a cazzotti con l'arredamento delle grandi sale dell'aeroporto. Jamie riprende a lavorare curvo sul suo laptop, stanchissimo. Si sta quasi addormentando, ma si riscuote, e si accorge di un viso familiare che lo guarda, sorridendo, da una poltroncina alla sua destra. Capelli bruni a caschetto, occhi verdi, sorriso paradisiaco. Piccola ed elegante. Splendida, sempre. Jamie la riconosce, e le fa un cenno con la mano: "Hello, Dom." "Bonjour, Jamie." Jamie si alza, indolenzito e le si avvicina, zoppicando leggermente. Il rugby giocato al college si fa sentire, specialmente nelle fredde ed umide giornate invernali. Dominique le stringe la sua grande mano, e gli fa cenno di sedersi accanto a lui. "Tanto tempo, Jamie. Stai bene?" Memorie di giorni di passione, paradiso ed inferno insieme viaggiano tra di loro, come onde risonanti fra le loro menti. L'ultimo saluto, la porta che sbatte dietro la porta di lui, lei accasciata sul tappeto di seta persiano del suo salotto pieno di mobili antichi, nuda e singhiozzante, il baratro che le si spalanca davanti. Dom sorride di nuovo. "Anche tu vai a San Francisco, Jamie?" "Work. Ho un meeting là, dobbiamo negoziare un accordo commerciale. Tu?" "Raggiungo mio marito. Lui è già lì, è andato a trovare il figlio. Mi sa che mi toccherà andare un po' in moto sulle strade della California." "Vacanza originale..." "Già, lui è così. Easy rider, hai presente? Lo hai conosciuto?" "Non credo, Dom." "Te lo presenterò. E' tedesco, ma sui generis. Non sei solo, vero? Ho visto che parlavi con uno che sembrava un tuo collega. Non sembra inglese, però..." "E' italiano." "Ecco mi sembrava. Troppo elegante. Ha gli occhi tristi... Un bell'italiano dagli occhi tristi e scuri." "E' già impegnato, Dom. La sua ragazza è lì, lo aspetta." 45 "Sei sempre il solito bastardo, Jamie." Lei lo schiaffeggia sulla mano, il suo meraviglioso sorriso lo sfida. I due continuano a chiacchierare, quando Edo ritorna con un giornale italiano al braccio. Presentazioni, conversazioni sul nulla. La chiamata li sorprende mentre discutono del traffico parigino, o chissà cosa. I tre cityhoppers prendono le loro cose, e si incamminano insieme verso il tunnel illuminato che li porta all’aereo. 46