6 I componenti strutturali e le loro verifiche 6.1 Arcarecci L’arcareccio di copertura è una trave che regge il peso del manto ed i carichi accidentali della copertura stessa (la neve, o eventuali sovraccarichi, se previsti). Se sono presenti torrini di aerazione, il loro peso andrà anch’esso sugli arcarecci. I carichi sopra descritti agiscono dall’alto verso il basso. C’è poi da considerare la depressione dovuta al vento che è invece una forza che agisce dal basso verso l’alto. Gli arcarecci appoggiano sui traversi dei portali (o capriate) e vanno tipicamente su luci di 4-8 metri. Di solito si impiegano profili tipo IPE, HEA o UPN, oppure profili a C o a Z piegati a freddo. Luci maggiori a quelle indicate sono inusuali: se i portali distano, per esempio, 12 metri, allora piuttosto che adottare arcarecci da 12 metri è preferibile impiegare un falso traverso, cioè un traverso che non poggia direttamente sulle colonne ma su 2 travi longitudinali, in modo da dimezzare la luce per l’arcareccio, e arrivare ad una più usuale di 6 metri. Gli arcarecci svolgono anche l’importante funzione di stabilizzare il traverso o la capriata su cui poggiano: nel caso del traverso tenendone l’ala superiore compressa e riducendo così la luce libera su cui si calcola lo sbandamento dell’ala compressa (flessotorsione), nel caso della capriata tenendo il corrente superiore compresso e riducendone la lunghezza di libera inflessione, e quindi la snellezza, fuori dal piano della capriata. A volte anche l’ala inferiore del traverso viene tenuta mediante sbadacchi che si ancorano sui traversi (nel capitolo 13 indicheremo un dettaglio tipico). Gli arcarecci si calcolano come travi semplicemente appoggiate soggette a flessione deviata. È vero che, da un punto di vista costruttivo, potrebbero essere realizzati come continui su più appoggi. Per esempio, se la loro luce è di 4 metri, il costruttore potrebbe impiegare barre da 12 metri e renderli perciò continui su 4 appoggi. Ma voi non saprete mai cosa farà il costruttore e non sarebbe neanche prudente limitarlo, perciò è meglio calcolarli come semplicemente appoggiati e fornire al costruttore 2 dettagli costruttivi: l’appoggio sul traverso con giunzione, e l’appoggio sul traverso senza giunzione, lasciando a lui la scelta di dove porre la giunzione, ma sempre in corrispondenza di un traverso. La flessione deviata è dovuta al fatto che in genere le coperture sono in pendenza, ed il carico verticale dovuto ai permanenti e alla neve verrà scomposto in 2 componenti: una (più grande) che agisce secondo il piano di maggiore inerzia dell’arcareccio, ed una minore che però, agendo nel piano nel quale il profilo presenta una bassa inerzia, dà luogo in genere a sforzi non proprio trascurabili. Il carico della depressione del vento invece agisce normalmente alla superficie del tetto, quindi non genera una componente orizzontale. Poiché i profili usati per gli arcarecci hanno una bassa inerzia nel piano della copertura, essi tenderebbero a “spanciare” per il solo peso proprio e peso del manto, prima che questo venga fissato. È buona norma quindi pendinarli: cioè collegarli, a metà o ai terzi della lu- Bozza 1 luglio 2008 32 CAPITOLO 6 ce, con dei pendini, profili che agiscono in trazione. Come pendini si usano in genere tondi filettati (diametro 12-16 mm) o un piatto di sezione molto limitata (40 x 3 per esempio). Tipicamente: – un arcareccio con luce sino a 6 metri, verrà pendinato in mezzo; – un arcareccio con luce da 6 a 8 metri verrà pendinato ai terzi; – un arcareccio con luce di 8-10 metri ai quarti. Con la pendinatura si ottiene anche il vantaggio di calcolare gli sforzi di flessione nel piano di minore inerzia su una luce minore. Per gli arcarecci si può trascurare o meno l’instabilità flesso-torsionale o sbandamento laterale dell’ala compressa (lateral buckling). È possibile trascurarla se il manto soprastante contrasta il possibile movimento. Occorre però che il manto sia fissato in modo sufficientemente robusto, anche al fine di sostenere le forze del vento che, agendo in depressione, tendono a staccare il manto dalle strutture. Sarebbe buona norma indicare sui disegni o nel capitolato l’azione del vento a mq alla quale il sistema di fissaggio del manto deve resistere. Se non si ha fiducia nel sistema di fissaggio, o perché non idoneo di per sé a tener ferma l’ala compressa o perché non si ha fiducia nell’accuratezza della realizzazione, o perché infine non si è ancora scelto un manto specifico, allora conviene (come fanno alcuni) considerare nel calcolo l’instabilità flesso-torsionale. In questo caso, per evitare di dover usare profili troppo grossi e pesanti, si può usare come pendini non dei tondi (che connettendosi all’arcareccio in un sol punto non possono impedirne lo sbandamento laterale) ma profili tipo IPE magari un po’ più piccoli dell’arcareccio e collegati con 2 bulloni (almeno), oppure angolari che si collegano con una squadretta saldata all’angolare stesso e 2 bulloni sull’arcareccio. Questo tipo di collegamento è considerato un collegamento a cerniera ma, ai fini dell’instabilità laterale, il debole grado d’incastro che sviluppa si considera sufficiente e prevenire il fenomeno. Attenzione però: la forza di depressione del vento, che agisce dal basso verso l’alto, manda in flessione l’arcareccio comprimendo l’ala inferiore che in genere non è tenuta. Quindi occorrerebbe verificare la flessione per la depressione del vento considerando comunque l’instabilità per sbandamento laterale. C’è da dire che, se la luce dell’arcareccio è bassa, tra i 4 ed i 6 metri, in genere questa verifica non è dimensionante. Se si vuole approfondire il problema dell’azione stabilizzante realizzata o meno dal manto di copertura, si può leggere l’Eurocodice EN-1993-1-3 che tratta in modo esteso l’argomento. Gli arcarecci non sono soggetti a carichi assiali di compressione o trazione, tranne quelli che fanno parte dei controventi di falda. Per questi, nei casi in cui si sono scelte le IPE, si ricorre spesso alla sostituzione con una HEA nel tratto interessato dal controvento, poiché ovviamente l’HEA resiste meglio ad azioni assiali. Qualcuno trascura le azioni assiali poiché, se il manto è ben fissato, la snellezza dell’arcareccio è praticamente nulla. Personalmente ritengo che, in coperture di dimensioni ampie, dove queste compressioni non sono trascurabili, sia meglio prescindere dall’effetto stabilizzante del manto. La pendinatura, nel caso di arcareccio che agisce anche in compressione, svolge l’ulteriore funzione di ridurre la lunghezza di libera inflessione nel piano del tetto che è anche quello di minore inerzia per l’arcareccio stesso. Bozza 1 luglio 2008 I COMPONENTI STRUTTURALI E LE LORO VERIFICHE 33 Suggerimento: se avete usato, per esempio, le IPE 180 come arcarecci, sostituite quelle che fanno parte del controvento di falda, e che quindi si comprimono, con una HEA 180: resisteranno a compressione benissimo, e compenserete la differenza di spessore con un piatto da 8-10 mm posto tra l’HEA e il traverso, necessario per collegare i diagonali del controvento. Degli arcarecci va infine controllata la freccia che, di norma, non deve superare 1/200 della luce. Anzi questa verifica spesso finisce per essere quella dimensionante. Nel paragrafo 10.3.3.1 presenteremo un esempio di calcolo di un arcareccio. 6.2 Controventi di falda I controventi di falda hanno il duplice compito di portare le forze del vento e di stabilizzare la copertura. Essi possono essere di testata o laterali. Quelli di testata (figure 6.1 e 6.2) raccolgono le forze del vento delle testate e li riportano sulle colonne. Essi inoltre impediscono lo sbandamento dell’ala compressa del traverso del portale trasversale (o della biella che collega le colonne a mensola, o del corrente superiore della capriata, a seconda della tipologia adottata). Figura 6.1 Controventi di falda di testata: funzioni. Bozza 1 luglio 2008 34 CAPITOLO 6 Figura 6.2 Controventi di falda di testata: disposizioni efficaci o meno. Figura 6.3 Controventi di falda laterali. Bozza 1 luglio 2008 I COMPONENTI STRUTTURALI E LE LORO VERIFICHE 35 I controventi di falda laterali, se presenti, raccolgono le forze del vento che agiscono nelle pareti laterali tra una colonna e l’altra e le riportano sulle colonne stesse. Se è presente la trave longitudinale che regge il falso traverso, ne stabilizzano l’ala compressa impedendole di sbandare nel suo piano orizzontale. Nella figura 6.3 la trave longitudinale è tralicciata, e quindi il controvento di falda ne stabilizza il corrente superiore. I controventi di falda di testata sono delle travi reticolari che hanno come correnti le flange superiori di due traversi contigui, come montanti un tratto degli arcarecci e come diagonali dei profili opportunamente aggiunti. In genere si impiegano L semplici o schiena a schiena, oppure degli UPN. In strutture piccole anche dei tondi. È preferibile adottare uno schema ad aste tese in modo da avere diagonali snelle e piccole. Il calcolo consiste dunque in: – Calcolare le forze del vento e concentrarle sui nodi della reticolare. – Calcolare le forze instabilizzanti delle ali compresse dei traversi (per esempio come indicato al par. 7.2.7.3 della CNR-UNI 10011). Esse andrebbero sommate, per quanto riguarda i diagonali, alle forze del vento. Ma pochi lo fanno, e tutti considerano solo le forze del vento. C’è da dire che le azioni instabilizzanti non sono elevate e che questi controventi non si fanno lavorare al massimo della loro capacità, per cui la verifica è facilmente soddisfatta. – Risolvere la reticolare considerando solo le diagonali in trazione. – Dimensionare le diagonali. – Usare le compressioni sui montanti per la verifica degli arcarecci in presso-flessione deviata. – Usare le compressioni sull’ala superiore del traverso per la verifica di quest’ultimo; se si trattasse di una capriata, sommare la compressione trovata alla compressione del corrente superiore della capriata che si trova calcolando la capriata stessa. I controventi di falda, essendo travi reticolari piuttosto tozze, non richiedono di norma verifica della deformabilità. 6.3 Traverso o capriata Il traverso è la trave che collega al livello della copertura 2 colonne in senso trasversale alla lunghezza del capannone o tettoia. Se è collegato rigidamente alle 2 colonne, forma con esse un portale. Se invece il traverso è collegato alle colonne (che sono a mensola o pendolari) con attacchi che non lasciano passare il momento, cioè cerniere, allora si comporta come una trave appoggiata per quanto riguarda i carichi verticali, e, poiché lascia passare le compressioni o trazioni, anche come una biella: agisce cioè ripartendo tra le 2 colonne le forze laterali (vento o sisma). Il traverso può essere piano (se il tetto è piano), a ginocchio (se il tetto è a doppia falda), o rettilineo ma inclinato (se il tetto è ad una falda), come illustrato nella figura 6.4. Se è parte del portale, il traverso è in genere un profilo ad H, laminato o composto saldato per luci e carichi maggiori. Esso è soggetto prevalentemente a flessione, dovuta al comportamento a portale con tipico andamento del momento flettente rialzato sugli estremi, come una trave incastrata, per i carichi verticali, ed “a farfalla” per le azioni orizzontali del vento e sisma, ed è soggetto Bozza 1 luglio 2008 36 CAPITOLO 6 anche a compressione, sempre derivata dall’appartenenza al portale (ma è una azione di minore importanza). Se esso fa parte del controvento di falda, può avere per questo una compressione o una trazione aggiuntiva, da sommare agli sforzi del portale. Tale azione però è in genere di non grande entità, tenendo anche conto che le combinazioni di carichi con o senza le azioni del vento sono diverse ed hanno coefficienti diversi. Il traverso è soggetto all’instabilità flesso-torsionale o sbandamento laterale, però è tenuto dagli arcarecci (o anche da collegamenti tra i portali che si trovano sotto gli arcarecci, per lo più però limitati ai punti di giunzione traverso-colonna). Quindi la lunghezza di sbandamento laterale da tenere in conto sarà in genere la distanza tra 2 arcarecci. A volte, specie se è molto alto, vengono aggiunte due saette inclinate a 45 gradi che collegano l’ala inferiore del traverso con gli arcarecci stessi, per meglio contrastare l’instabilità. Quindi, ricapitolando: a) Per il dimensionamento basta verificare il profilo in flessione semplice con controllo dell’instabilità laterale, usando il massimo momento che deriva dal calcolo del portale più sollecitato (per massimo momento intendiamo ovviamente il massimo momento fattorizzato che deriva dallo sviluppo delle opportune combinazioni di carico). b) Per la verifica finale: b1) Verifica locale a presso/tenso-flessione semplice (momenti e azioni assiali dal calcolo a portale). b2) Verifica globale di stabilità a presso-flessione semplice con sbandamento laterale (momenti e compressione dal calcolo a portale). b3) Verifica locale a presso/flesso-tensione semplice per i traversi appartenenti ai controventi di falda (momenti dal telaio, azioni assiali dal telaio e dal calcolo del controvento di falda). b4) Verifica globale di stabilità a presso-flessione semplice con sbandamento laterale per i traversi appartenenti ai controventi di falda (momenti dal telaio, azioni assiali dal telaio e dal calcolo dei controventi di falda). b5) La verifica di deformabilità per carichi verticali, per quanto da fare, non è in genere determinante perché quasi sempre soddisfatta, essendo la trave incastrata agli estremi. Figura 6.4 Traversi: tipologie. Bozza 1 luglio 2008 I COMPONENTI STRUTTURALI E LE LORO VERIFICHE 37 Figura 6.5 Traversi ad anima piena o tralicciati. Occorre ricordare che il primo portale ha un carico verticale ridotto perché l’area della copertura su di esso gravante è circa la metà degli altri, ciò va tenuto conto nelle verifiche b3) e b4) (a meno che non si preveda un ampliamento del capannone/tettoia). Se in traverso non fa parte di un portale, ma è collegato “a cerniera” alle colonne a mensola o pendolari, non cambia nulla di quanto detto sopra, tranne che: 1) Il diagramma del momento è quello tipico delle travi appoggiate, con momento nullo agli estremi e massimo in campata (e questo sarà un parametro dominante il dimensionamento). 2) Le forze orizzontali non generano momenti ma solo azioni assiali. 3) La verifica di deformabilità diventa importante e spesso dimensionante. Pertanto i momenti flettenti potranno essere calcolati semplicemente considerando la trave come appoggiata. Le azioni assiali, dovute al vento, potranno essere facilmente calcolate con l’ipotesi che il traverso consenta la distribuzione equa di esse tra le 2 colonne. Su luci molto ampie, sopra i 12-15 metri direi, un traverso ad H diventa oneroso da realizzare. Si preferisce allora ricorrere ad una capriata, cioè ad una trave tralicciata, saldata o bullonata, con correnti, diagonali e montanti realizzati in genere con L semplici o doppi L, oppure con UPN (figura 6.5). Queste strutture hanno il pregio di coprire ampie luci con pesi ridotti rispetto alle travi ad H. In compenso hanno alcuni difetti: a) sono di solito più costose (costano almeno il 1520% in più al kg, ma questo numero è solo indicativo); b) sono più alte delle travi ad anima piena, ad H cioè, e quindi determinano, a parità di altezza utile, un’altezza totale del capannone maggiore. Se si usano angolari “schiena a schiena” per realizzare la capriata, soluzione bella da un punto di vista strutturale ed anche costruttivo, occorre tener presente che ci saranno problemi di verniciabilità (è difficile far penetrare la vernice tra i 2 angolari distanti 10-15 mm), e quindi ci saranno maggiori rischi di corrosione. Sarebbe preferibile per risolvere il problema zincare a caldo gli angolari, oppure impiegare solo angolari semplici o doppi “a farfalla”. È preferibile collegare le capriate alle colonne mediante cerniera e non con attacchi a momento, realizzando quindi schemi del tipo colonna a mensola/puntone, o colonna pendolare/puntone, piuttosto che portali. Perché? Bozza 1 luglio 2008 38 CAPITOLO 6 Innanzi tutto diciamo come realizzare un attacco a cerniera. La capriata si connette alla colonna col corrente superiore (e il primo diagonale) e con il corrente inferiore. Occorre realizzare il primo dei due attacchi come cerniera, solitamente bullonato, e bullonare anche il corrente inferiore ma lasciare dei fori asolati. Se invece non si asolano i fori, il doppio attacco costituisce un attacco a momento con la colonna, che consente il transito dei momenti nella forma di trazioni/compressioni aggiuntive sui correnti. Ora, se si realizza un attacco a momento, un momento negativo sul nodo capriatacolonna genererà trazioni nel corrente superiore della capriata e compressioni in quello inferiore. Quest’ultimo è dimensionato per le trazioni, quindi è più snello di quello superiore e non è tenuto lungo la sua lunghezza, mentre il corrente superiore è ben tenuto dagli arcarecci. Assoggettarlo a compressioni vuol dire essere costretti ad aggiungere strutture simili agli arcarecci sul piano del corrente inferiore al fine di contrastarne appunto la instabilità fuori dal suo piano, complicando quindi costruttivamente le cose. Se la capriata è realizzata come incernierata, può essere agevolmente calcolata come struttura reticolare isostatica, soggetta alle forze verticali trasmesse dagli arcarecci e alla compressione che si trasmette tra colonna e colonna (calcolata come detto sopra per il traverso). Se siete ancora capaci di fare un Cremoniano a mano (e se ne avete ancora voglia), vi basta un foglio di carta millimetrata e 2 squadrette per calcolare le azioni interne, altrimenti ricorrete ad un qualsiasi programma di calcolo, cosa che è francamente meglio (nel capitolo 10, quando parleremo della modellazione, daremo qualche indicazione su semplici calcoli manuali di predimensionamento). Le aste risulteranno semplicemente compresse o tese. Il corrente superiore sarà compresso, con lunghezza di libera inflessione pari alla distanza tra 2 nodi nel piano, e alla distanza di 2 arcarecci fuori dal piano. Pertanto va verificato a instabilità per compressione semplice. Se ci fossero arcarecci in falso che generano quindi momenti flettenti, lo si verificherà a instabilità in presso-flessione. Il corrente inferiore si verificherà a trazione semplice, sull’area netta depurata dai fori. I montanti si verificheranno a instabilità per compressione semplice con lunghezza di libera inflessione pari alla loro lunghezza teorica. Le diagonali saranno tese o compresse a seconda dell’inclinazione, e come tali andranno verificate. La deformabilità non è determinante per queste strutture intrinsecamente rigide. Se comunque vorrete considerare la capriata incastrata nelle colonne, allora dovrete calcolare il portale che ne deriva (questa volta senz’altro con un programma di calcolo). Poi dimensionerete come prima, facendo attenzione che il corrente inferiore molto probabilmente si comprimerà nei tratti di estremità, e bisognerà fare attenzione alla sua lunghezza di libera inflessione fuori dal piano (con aggiunta di collegamenti, come detto sopra). Vedrete in questo caso che le trazioni massime del corrente inferiore, proprio per l’effetto d’incastro, risulteranno minori di quelle che trovereste considerando la capriata semplicemente appoggiata. Il mio personale parere è che, anche se la capriata fa parte del portale, il corrente inferiore venga comunque dimensionato per la trazione che avrebbe se la capriata fosse semplicemente appoggiata. Perché? È solo una norma di prudenza: se per caso i giochi foro-bullone fanno sì che il corrente inferiore “fiati” senza entrare in compressione, allora si tenderebbe al comportamento di capriata appoggiata, cioè con trazione del corrente inferiore maggiore, e questo sarebbe molto pericoloso, perché un suo cedimento comporterebbe il cedimento della capriata stessa essendo questa sostanzialmente isostatica. Bozza 1 luglio 2008 I COMPONENTI STRUTTURALI E LE LORO VERIFICHE 39 L’aggravio in termini di peso è minimo, il grado di sicurezza che ne deriva ben maggiore. 6.4 Falso traverso o capriata e trave longitudinale di copertura Se la distanza tra 2 portali trasversali è, poniamo, di 12 metri, si potrebbe pensare di gettare arcarecci su tale luce, ma non sarebbe una soluzione ottimale, come già detto. È molto meglio porre a metà tra i 2 traversi dei portali un “falso” traverso, cioè un traverso che non poggia su colonne ma su 2 travi longitudinali che vanno da portale a portale e che possiamo chiamare Trave longitudinale di copertura o Trave porta traverso. Così potremo disporre gli arcarecci su 6 metri di luce, scelta molto più appropriata (figura 6.6). Il falso traverso (o falsa capriata, se la copertura è realizzata con capriate) sarà una trave appoggiata sulle travi longitudinali, quindi da calcolare come trave appoggiata soggetta a flessione. Si dovrà tener conto dello sbandamento laterale dell’ala compressa come per i traversi tra le colonne. Il falso traverso non avrà forze di compressione. Le forze del vento della facciata laterale tra colonna e colonna verranno, mediante il controvento di falda laterale, scaricate sulle colonne contigue. Non dovendo fare da traverso di un portale, il falso traverso avrà verosimilmente una sezione minore. Se si tratta di una falsa capriata, conviene invece farla uguale a quella tra i portali, per una ragione di uniformità. La trave longitudinale di copertura è una trave su semplice appoggio, caricata in mezzeria dalla reazione del falso traverso/falsa capriata. Inoltre esso convoglia le forze del vento di facciata che viaggiano a livello della copertura sino a scaricarsi sui portali di controvento. Pertanto esso va verificato in presso-flessione semplice, tenendo anche conto dell’instabilità laterale, contrastata in genere dal controvento di falda. Figura 6.6 Capriate e false capriate. Bozza 1 luglio 2008 40 CAPITOLO 6 6.5 Collegamenti longitudinali dei portali In genere i portali sono collegati, oltre che dagli arcarecci, da altre travi: – all’incrocio tra colonna e traverso; – al centro del traverso; – lungo la colonna, ad una quota circa a metà tra piastra di base e via di corsa o copertura. Non è detto che tali collegamenti debbano esserci, o esserci tutti. Sono più probabili in edifici di maggiori dimensioni con sollecitazioni verosimilmente più grandi. I collegamenti longitudinali tra i portali hanno diversi scopi: – trasmettere le forze del vento dalla facciata ai portali longitudinali di controvento; – reggere il falso traverso, se presente; – evitare lo sbandamento fuori dal suo piano del nodo trave/colonna del portale, in caso di formazione di cerniera plastica; – ridurre la lunghezza di libera inflessione delle colonne fuori dal piano del portale; – fornire un sostegno alle orditure di parete che reggono la pannellatura (e quindi il vento laterale). Sono quindi elementi da verificare in genere per stabilità in compressione semplice (più la flessione in alcuni casi: trave che regge il falso traverso e trave che regge orditure di parete). Le forze sono quelle che dipendono dalle funzioni sopra dichiarate. In qualche soluzione progettuale, i controventi di falda non sono posti tra gli arcarecci ma tra i collegamenti di cui si è appena detto, cioè quelli all’incrocio tra colonna e traverso, quelli al centro del traverso e qualcuno intermedio (figura 6.7). In pratica così si realizzano 2 strutture distinte di copertura: – una, sopra i traversi dei portali, formata dai soli arcarecci, e che ha l’unico compito di sorreggere i carichi verticali; – un’altra, a livello un po’ più basso (all’altezza della flangia superiore del traverso o all’altezza del baricentro dello stesso), con il compito di stabilizzare la struttura e portare le forze orizzontali. Figura 6.7 Sistema di copertura su due livelli. Bozza 1 luglio 2008 I COMPONENTI STRUTTURALI E LE LORO VERIFICHE 41 Questa soluzione, adatta per strutture di maggiori dimensioni, è concettualmente corretta, ma più complessa e pesante di quella, a mio avviso preferibile, con un’unica copertura che integra le funzioni di sostegno dei carichi verticali, di quelli orizzontali e di stabilizzazione. 6.6 Via di corsa Le vie di corsa sono la travi che sostengono le rotaie per lo scorrimento del carroponte. I carroponti possono essere di portata variabile, sino a qualche centinaio di tonnellate, e ovviamente le tipologie delle vie di corsa varieranno di conseguenza. I carichi trasmessi dal carroponte sono di 4 tipi: – carichi verticali; – carichi trasversali (tiri obliqui, serpeggiamento); – carichi longitudinali (frenata); – azioni dovute al disassamento dei carichi verticali (rotaia non perfettamente centrata sulla trave). Per carroponti di bassa portata basta come via di corsa una trave laminata tipo HE, la quale assorbe sia le forze verticali che quelle trasversali, lavorando in flessione deviata. In realtà le forze orizzontali, essendo generate dalle ruote al livello dell’ala superiore della trave, genererebbero anche torsione oltre che flessione nel piano orizzontale, ma in genere questa non viene considerata. Per portate maggiori occorre “aiutare” l’ala superiore ad assorbire le flessioni orizzontali. Si può ricorrere ad un profilo ad L saldato lateralmente all’ala superiore, oppure ad un UPN saldato sull’ala superiore e posto in modo da avere l’inerzia maggiore nel piano orizzontale (figura 6.8). Per portate ancora maggiori, la via di corsa tenderà a diventare un profilo composto saldato di notevole altezza, e per il sostegno delle spinte laterali si costruirà una trave orizzontale che ha come correnti da una parte l’ala superiore della trave di scorrimento, e dall’altra un profilo quale un L, una coppia di L schiena a schiena, una HE, o altre soluzioni. Questa trave sarà tralicciata, e su di essa si porrà un grigliato o della lamiera striata che potrà anche fungere da passerella. In alcune soluzioni i diagonali e montanti sono sostituiti semplicemente dalla lamiera striata opportunamente rinforzata se necessario. Figura 6.8 Vie di corsa: tipologie. Bozza 1 luglio 2008 42 CAPITOLO 6 Con carroponti di grande portata (60-100 tonnellate e più) e travi piuttosto alte (da 1000 mm in su) le azioni dovute al disassamento dei carichi verticali non sono più trascurabili. Esse tendono a generare delle spinte torcenti sulla trave di scorrimento. L’ala superiore è ben bloccata dalla trave orizzontale che serve principalmente per sostenere le spinte orizzontali, ma l’ala inferiore è libera e la trave potrebbe tendere a inclinarsi e ruotare attorno all’asse longitudinale. Si può ovviare a ciò principalmente in 2 modi: a) introducendo delle bielle inclinate che collegano la trave orizzontale con l’ala inferiore; b) creando una sorta di cassone, aggiungendo cioè un corrente inferiore e tralicciando la faccia inferiore della trave e poi quella verticale. La trave verticale parallela alla trave di scorrimento si chiama di solito trave di sponda. In genere si aggiungono poi anche delle diagonali interne per irrigidire il cassone agli appoggi, ed anche ai terzi della trave. Se si usa la soluzione b), si potrà impiegare parte del cassone, generalmente la trave tralicciata inferiore, che avrebbe solo una funzione stabilizzante, per sostenere le spinte del vento che agiscono sulle orditure di parete. In una via di corsa di un carroponte all’aperto è preferibile utilizzare il grigliato invece della lamiera striata per la passerella. Infatti all’aperto sono possibili dei ristagni d’acqua con la striata, e quindi ci sono maggiori rischi di corrosione e soprattutto di formazione di ghiaccio con conseguente scivolosità del piano camminabile. Vediamo allora come si calcolano le vie di corsa. • La trave di scorrimento La trave di scorrimento deve sopportare i seguenti carichi: – il peso proprio ed il peso di metà della trave orizzontale superiore, se questa è presente; – i carichi verticali del carroponte; – metà dei sovraccarichi della passerella, se questa esiste; – le spinte trasversali del carroponte. Essa inoltre deve avere una freccia verticale non maggiore di 1/800 della luce, ed orizzontale di non più di 1/1600 della luce, in accordo alla norma CNR-UNI 10021, per gli apparecchi di sollevamento. Prima cosa occorre procurarsi i carichi verticali del carroponte. Se si sa già quale sarà il carroponte da installare siamo a posto: il costruttore fornisce i carichi statici alle ruote, minimi e massimi, ed in base alla classe di funzionamento il coefficiente dinamico da adottare. Ma spesso il progettista deve dimensionare la via di corsa prima che sia stato acquistato il carroponte, per cui disporrà solo della portata nominale richiesta dal cliente e dello scartamento. In base a questi dati è possibile, ricorrendo alla letteratura o a dati presi dai cataloghi dei costruttori, ricavare i carichi verticali in modo sufficientemente cautelativo. Un buon riferimento è, a mio avviso, “L’Acciaio nelle Costruzioni”, Edizioni Cremonese, 1973, non più pubblicato per quanto ne so io. Lì viene riportata una tabella, che qui riproduco (figure 6.9, 6.10 e 6.11), con le reazioni alle ruote di una certa gamma di carroponti da 3 a 250 ton di portata utile. Bozza 1 luglio 2008 I COMPONENTI STRUTTURALI E LE LORO VERIFICHE Figura 6.9 Carroponti: carichi alle ruote 1/3. Bozza 1 luglio 2008 43 44 CAPITOLO 6 Figura 6.10 Carroponti: carichi alle ruote 2/3. Bozza 1 luglio 2008 I COMPONENTI STRUTTURALI E LE LORO VERIFICHE 45 Figura 6.11 Carroponti: carichi alle ruote 3/3. I carroponti hanno di solito 2 o 4 ruote per testata, a seconda della portata. Se si ricorre a dati preliminari e non a quelli veri, il mio consiglio è di usare, per carroponti Da 50-60 ton di portata in su, sia uno schema a 2 ruote che uno a 4, perché si trovano appunto modelli sia a 2 che a 4 ruote. Si dovrà poi valutare un coefficiente dinamico, riferendosi alle modalità di funzionamento ed alle indicazioni della CNR UNI 10021. Bozza 1 luglio 2008 46 CAPITOLO 6 Una volta determinati i carichi verticali, maggiorati del coefficiente dinamico, occorrerà con essi dimensionare la trave di scorrimento. Lo schema statico che in genere si adotta per le travi di scorrimento è quello di trave appoggiata. È conveniente, a mio avviso, adottare schemi di trave continua solo per carroponti di bassa portata con campate piuttosto brevi (in modo da usare un profilo commerciale tipo HE in un pezzo unico continuo su 3 appoggi, per esempio). In genere lo schema a trave appoggiata tra un portale e l’altro è comunque preferibile. I carichi verticali vanno posti sulla trave in 3 posizioni: a) quella che genera il massimo taglio; b) quella che genera il massimo momento flettente; c) quella che genera la massima freccia. La b) e la c) non coincidono necessariamente, ma di solito tutti usano la b) anche per il calcolo della freccia massima. La posizione che genera il taglio massimo è quella con la prima ruota gravante direttamente sull’appoggio. Quella che genera il massimo momento flettente può essere trovata spostando i carichi sulla trave in modo tale che, se si hanno 4 carichi, la mezzeria della trave cada a metà della distanza tra la seconda ruota ed il baricentro di tutti i carichi di una testata. Se invece si hanno 2 carichi, la mezzeria della trave deve cadere a metà della distanza tra il primo carico e il baricentro dei carichi (figura 6.12). Coi carichi verticali del carroponte, i pesi propri e gli eventuali sovraccarichi si dimensiona la trave di scorrimento. Figura 6.12 Azioni del carroponte: posizione di massimo momento e massimo taglio. Bozza 1 luglio 2008 I COMPONENTI STRUTTURALI E LE LORO VERIFICHE 47 Figura 6.13 CNR-UNI 10011: valori limite della snellezza dei pannelli d’anima. Per travi laminate tipo HE (carroponti di bassa portata) sarà dominante il dimensionamento a flessione e la verifica della freccia. Dopo si verificherà che il profilo scelto vada bene anche a taglio. Se la trave di scorrimento non ha una trave orizzontale superiore per le spinte laterali, si dovrà considerare lo sbandamento laterale (tenendo conto ovviamente dell’effetto benefico dell’eventuale L saldato di lato all’ala superiore o dell’UPN posto sopra ad essa). Se invece abbiamo un carroponte di alta portata allora avremo, come dicevamo, una trave di scorrimento realizzata con una trave composta saldata, ed in questo caso giocano un ruolo rilevante sia il momento flettente, che la deformabilità che infine il taglio. Per dimensionarla possiamo seguire il seguente schema logico: a) Determiniamo l’altezza e lo spessore dell’anima. L’altezza dell’anima determina l’altezza della trave, e l’area dell’anima è determinata dal taglio massimo. Allora fissiamo lo sforzo di taglio massimo che vogliamo raggiungere, diciamo il 60% del massimo ammissibile per il materiale scelto. Con questo numero e con il taglio massimo calcolato determiniamo l’area minima necessaria per l’anima della trave. È chiaro che, a parità di area, è più efficiente ridurre lo spessore ed alzare l’altezza, perché così si alza l’inerzia e occorrerà meno area sulle ali per portare il momento flettente massimo e quindi si otterrà una trave meno pesante e più economica. Ma più si fa snella l’anima e più questa è soggetta ai fenomeni di instabilità. Da ciò ci si difende ponendo degli irrigidimenti verticali sull’anima (che vanno da ala superiore ad ala inferiore). Più snella è l’anima più fitti devono essere gli irrigidimenti, e più fitti sono più lavorazioni ci sono, e quindi il costo aumenta. Per ottimizzare il tutto si può immaginare di porre irrigidimenti che creano pannelli di larghezza 1–1,5 volte l’altezza dell’anima. In queste condizioni in Bozza 1 luglio 2008 48 CAPITOLO 6 genere l’anima è verificata per l’instabilità con rapporti altezza/spessore dell’ordine di 110120. Osserviamo infatti il prospetto 7-XI della CNR-UNI 10011 (figura 6.13). Si vede che, con α compreso tra 1 e 1,50 (cioè con pannelli larghi sino a una volta e mezzo l’altezza della trave), nei pannelli centrali dove la σ può andare da 12 a 24 kN/cmq e la τ sarà minore di 9 kN/cmq, i pannelli possono avere una snellezza sino a 140. Nei pannelli agli appoggi, con una τ sino a 10,5 kN/cmq (quindi al 66% della τ massima per un acciaio S275) e una σ molto bassa, la snellezza scende a 120. Usando quindi un rapporto altezza/spessore di 110-120 e nota l’area necessaria, troviamo spessore ed altezza. Il calcolo è banale: se At è l’area necessaria, 120 il rapporto altezza/spessore, hw l’altezza dell’anima e tw il suo spessore: At = hwt w = hw (hw / 120) da cui consegue: hw = 120 At t w = hw / 120 b) Determiniamo le dimensioni delle ali o flange. Andiamo per tentativi, in modo da ottenere una sezione il cui modulo di resistenza sia tale da sopportare il momento massimo e il cui momento di inerzia sia tale da dare una freccia non superiore ad 1/800 della luce. Lo spessore è meglio che sia almeno 1,5 volte quello dell’anima, senza superare, diciamo, valori di 50-60 mm. Probabilmente la verifica della deformabilità sarà quella dominante. Se invece comandasse la verifica a flessione, in questo caso non dimensioniamo le flange in modo da arrivare al 100% della σ ammissibile, perché dobbiamo lasciare un po’ di margine per le compressioni aggiuntive dell’ala superiore dovute al suo appartenere alla trave orizzontale che contrasta le spinte trasversali del carroponte, ed anche dell’ala inferiore che potrebbe avere extra-sforzi dovuti alle azioni del vento sulla trave orizzontale inferiore. Potremmo arrivare ad un 70% della σ massima (o forse anche meno, dipende anche dal grado di confidenza che abbiamo nei confronti dei carichi adottati e dalla probabilità che possano aumentare). La larghezza della flangia, per carroponte da 50-60 ton in su, non deve essere inferiore a 350 mm: infatti la rotaia sarà larga 200 mm e gli apparecchi di fissaggio laterali (detti a volte “pizzicotti”) circa 60 mm ciascuno. Quindi occorrono 320 mm più lo spazio per saldare gli apparecchi di fissaggio. Se poi c’è una lamiera striata superiore saldata anch’essa sulla flangia, è meglio avere 400 mm. Per carroponti da 5-15 ton, 300 mm saranno sufficienti (un profilo tipo HE, per esempio). c) Dimensioniamo la trave orizzontale superiore. È una trave tralicciata, incernierata alle estremità, che ha come corrente interno l’ala superiore della trave di scorrimento. I carichi sono quelli dovuti alle spinte trasversali del carroponte, pari a 1/10 dei corrispondenti carichi verticali. Se il corrente esterno è impiegato anche come collegamento tra i portali, potrebbe avere una compressione aggiuntiva, dovuta al transito delle forze del vento agenti sulla facciata. Bozza 1 luglio 2008 I COMPONENTI STRUTTURALI E LE LORO VERIFICHE 49 Possiamo calcolare questa trave come tralicciata oppure, in modo più approssimato ma più semplice, come una trave appoggiata della quale il taglio massimo ci darà la massima compressione e trazione sui diagonali (basta moltiplicare il taglio massimo per l’opportuno seno o coseno dell’angolo che il diagonale forma coi correnti), ed il momento flettente massimo ci darà, diviso per la distanza tra i due correnti, la massima trazione e/o compressione sul corrente esterno e sull’ala superiore della trave di scorrimento. L’azione del corrente esterno andrà incrementata della compressione che si trova calcolando la trave di sponda. d) Dimensioniamo la trave di sponda. È una trave tralicciata anch’essa, come la trave orizzontale superiore. È soggetta, oltre che ai pesi propri, all’eventuale sovraccarico sulla passerella. Il metodo di calcolo è analogo a quello della trave orizzontale superiore. La compressione del corrente superiore va sommata a quella trovata nel calcolo della trave orizzontale superiore. e) Dimensioniamo la trave orizzontale inferiore. È una trave tralicciata anch’essa, come la trave orizzontale superiore. È soggetta, oltre che ai pesi propri, all’eventuale spinta del vento agente sulle pareti laterali. Il metodo di calcolo è analogo a quello della trave orizzontale superiore. La trazione del corrente va sommata a quella trovata nel calcolo della trave di sponda. La trazione nell’ala inferiore della trave di scorrimento andrà usata nella verifica di quest’ultima. f) Verifichiamo la trave di scorrimento. Alla fine delle calcolazioni, noti tutti gli sforzi, trasformiamo in verifica il calcolo di predimensionamento che avevamo fatto in a) e b). Le verifiche saranno: – Verifica a flessione semplice per il massimo momento derivante dai carichi dinamici del carroponte, dai pesi propri e dall’eventuale sovraccarico sulla passerella. La compressione così trovata dell’ala superiore dovrà essere incrementata del valore trovato in c) (per le spinte trasversali). La trazione dell’ala inferiore dovrà essere incrementata del valore trovato in e) (per le spinte del vento in facciata laterale). I valori di cui sopra potranno essere distribuiti sull’ala (superiore o inferiore) più una zona collaborante dell’anima, dell’ordine di 10-12 volte lo spessore dell’anima stessa. – Verifica a taglio massimo dell’anima in prossimità dell’appoggio. – Verifica dei pannelli dell’anima. – Verifica degli irrigidimenti trasversali e di quelli di estremità. – Verifica locale dell’anima allo schiacciamento per il transito della singola ruota. – Verifica della freccia (che deve essere minore o uguale a 1/800 della luce). Diciamo infine che la frenata del carroponte non è dimensionante per la via di corsa. Essa transita come carico assiale (trascurabile) sulla trave di scorrimento, per scaricarsi sui portali di controvento. 6.7 Colonne Le colonne scaricano sulle fondazioni praticamente tutti i carichi della struttura: pesi propri, neve, sovraccarichi, vento, sisma, carroponte. Bozza 1 luglio 2008 50 CAPITOLO 6 Per carichi e dimensioni modeste, sia che siano pendolari, o a mensola, o infine a portale, in genere sono realizzate con profili laminati tipo HE. In questo caso la via di corsa del carroponte, se presente, poggia su una mensola, anch’essa in genere tipo HE, saldata al fusto della colonna. Tra i profili della serie HE, è in genere preferibile impiegare le HEA piuttosto che le HEB per realizzare le colonne. Una HEA ha inerzia maggiore di una HEB di pari area, perciò si riesce in genere a trovare una HEA di area minore ma anche di snellezza minore da impiegare come colonna, risparmiando peso. Solo per colonne soggette a compressione semplice, con carichi elevati e bassa snellezza, l’uso dell’HEB può essere conveniente. Per dimensioni maggiori e quando si hanno carroponti di grossa portata, si passa a colonne a doppio montante, 2 IPE, 2 HE o 2 profili composti saldati, uniti da un piatto opportunamente irrigidito orizzontalmente da costole, oppure tralicciate su entrambe le ali con angolari semplici o UPN. In questo caso la via di corsa poggia in asse sul montante interno, e dalla quota del carroponte in su prosegue solo il montante esterno (la baionetta), eventualmente con un altro tipo di profilo, sino alla copertura. È opportuno orientare i montanti della parte inferiore con l’inerzia massima che resiste alla flessione in senso longitudinale, poiché in senso trasversale la colonna ha nel tratto inferiore bassa snellezza, essendo doppia. La baionetta invece sarà orientata con l’inerzia maggiore in senso trasversale, poiché è in questa direzione che agiscono gli sforzi maggiori (figura 6.14). Figura 6.14 Colonna a doppio montante e baionetta. La colonna è soggetta a: – carichi verticali provenienti dalla copertura (peso proprio, neve); – carico verticale del carroponte (eccentrico, perché la via di corsa non è in asse con la colonna); – eventuali carichi verticali a quote più basse derivanti da impalcati; – carico orizzontale concentrato dovuto alla spinta trasversale del carroponte; Bozza 1 luglio 2008 I COMPONENTI STRUTTURALI E LE LORO VERIFICHE 51 – carichi orizzontali dovuti al vento, concentrati a varie quote e/o distribuiti, a seconda dello schema dell’orditura di parete adottato per trasmettere le forze del vento; – carichi orizzontali dovuti al sisma, concentrati alle quote nelle quali ci sono masse significative (nel caso del capannone, tipicamente in copertura e all’altezza del carroponte); – eventuali cedimenti delle fondazioni, se previsti (e se lo schema è iperstatico, cioè a portale: con colonne pendolari o a mensola, quindi con uno schema isostatico, eventuali cedimenti vincolari non creano sforzi aggiuntivi). Il modo di trovare le forze da applicare alla colonna, o meglio agli schemi di calcolo di cui si dirà subito sotto, è ovvio. Qualche considerazione solo per le forze derivanti dal carroponte. Abbiamo visto prima, parlando delle vie di corsa, che bisogna posizionare il treno di carichi sulla trave di scorrimento in modo da trovare: a) la posizione di massimo momento; b) la posizione di massimo taglio. Qui invece dobbiamo muovere il treno di carichi in modo da trovare la posizione di massimo carico sulla colonna, che in genere non coincide con i primi 2 schemi, e che consiste nel porre il carroponte centrato sul portale interessato. Se le campate sono di lunghezza diversa, bisognerà scegliere il portale che ha da una parte e dall’altra le campate di maggiore lunghezza, in modo da massimizzare le azioni del carroponte. Questo sia per le azioni verticali che per quelle orizzontali (che saranno praticamente pari a 1/10 di quelle verticali). Questa operazione va fatta con le azioni massime del carroponte, cioè con le azioni alle ruote della testata verso la quale il carico è accostato. Sull’altra testata le azioni verticali del carroponte saranno minime. In genere il costruttore (o la letteratura a riguardo) dà del carroponte sia le azioni massime che le minime. Quindi se chiamiamo Vmax e Vmin la massima e la minima azione verticale del carroponte su di una colonna, e Tmax e Tmin la massima e la minima azione trasversale, occorrerà adottare i due schemi di calcolo illustrati nella figura 6.15. Figura 6.15 Carichi verticali e trasversali del carroponte agenti sui portali. L’azione trasversale va applicata in entrambe le direzioni. Se il capannone non è simmetrico, oppure è a 3 campate, o se semplicemente si vuole trovare i massimi sforzi su entrambe le colonne, allora occorrerà creare altre 2 condizioni di carico, ottenute dalle 2 raffigurate scambiando di posizione i carichi massimi coi minimi. Per trovare le azioni interne (momenti, azioni assiali e tagli) nella colonna di adotterà uno dei seguenti schemi di calcolo: – se la colonna forma un portale col traverso, si calcolerà il portale; Bozza 1 luglio 2008 52 CAPITOLO 6 – se la colonna è a mensola ed il traverso incernierato, occorre comunque calcolare l’insieme colonne + traverso, poiché il traverso distribuisce le forze orizzontali tra le 2 colonne a spese di una sua azione assiale; – se la colonna è pendolare, basta semplicemente calcolare la sola colonna, come asta semplicemente compressa. Trovati momenti, azioni assiali e tagli (combinati opportunamente nelle combinazioni di carichi), si procederà alla verifica della colonna. Per far ciò, una operazione molto importante e delicata è la determinazione delle snellezze che governano le verifiche di stabilità. Nello schema della figura 6.16 sono raccolte alcune tipologie con le lunghezze di libera inflessione da adottare (T = lunghezza di libera inflessione in senso trasversale; L = lunghezza di libera inflessione in senso longitudinale). Figura 6.16 Lunghezze di libera inflessione per varie tipologie di colonne. Commentiamole. A) Colonne a mensola trasversalmente e pendolari longitudinalmente (con portale di controvento. La lunghezza di libera inflessione trasversale, T (*), è 2 volte l’altezza della colonna, essendo appunto una mensola. Longitudinalmente invece, la lunghezza di libera inflessione L è pari all’altezza della colonna che si comporta come incernierata ad entrambi gli estremi. Poiché sarà disposta con l’inerzia maggiore in direzione trasversale, non è a priori determinato quale delle 2 snellezze comandi. B) Colonne a mensola trasversalmente e pendolari longitudinalmente, ma con carroponte. In questo caso, in genere, il controvento longitudinale è fatto in modo da tenere le colonne all’altezza della via di corsa (altrimenti la frenata del carroponte solleciterebbe le colonne a flessione longitudinalmente, cioè proprio nel piano di minore inerzia). Quindi abbiamo indicato una lunghezza di libera inflessione in direzione longitudinale L da terra all’altezza del carroponte (o comunque sino al pun- Bozza 1 luglio 2008 I COMPONENTI STRUTTURALI E LE LORO VERIFICHE 53 to in cui le colonne sono tenute). Trasversalmente la lunghezza T (*) è sempre il doppio dell’altezza della colonna. C) Colonna pendolare in entrambe le direzioni. In questo caso sia T che L sono pari all’altezza della colonna. Figura 6.17 AISC ASD90: abaco per calcolo lunghezze di libera inflessione di colonne con varie condizioni di vincolo agli estremi. D) Portale trasversale con colonne “a baionetta”, cioè con 2 montanti nel tratto inferiore ed uno, la baionetta appunto, nel tratto superiore. Longitudinalmente le colonne sono pendolari con controvento, e in questa direzione la via di corsa fa senz’altro da collegamento tra i portali e da punto fisso. Diciamo che, a voler fare le cose esatte, la lunghezza di libera inflessione T della colonna intera andrebbe calcolata, facendo ricorso a quanto si trova in letteratura. Se la colonna è tutta dello stesso profilo, una valutazione molto buona di T si trova nella norma AISCASD90, alla section C-C2 “Frame Stability”: “Allignment Chart for Effective Length of Columns in Continuous Frames” (figura 6.17). Si tratta di calcolare, per i due estremi A (inferiore) e B (superiore) il rapporto G tra la rigidezza della colonna e quella della trave. Per l’estremo al suolo, se è incernierato il valore sarebbe teoricamente infinito, ma viene consigliato di prendere 10 perché la fondazione esercita un certo grado d’incastro comunque. Se la colonna è incastrata viene consigliato prudentemente di prendere 1 e non 0. Se la colonna è a baionetta, una valutazione approssimata e cautelativa di T(*) per la parte inferiore a 2 montanti è quella riportata nella figura, cioè pari al doppio della loro altezza, considerandoli come una mensola. La T della baionetta può essere calcolata col metodo AISC applicato al portale che si ottiene considerando baionetta e traverso, sempre che la rigidezza del Bozza 1 luglio 2008 54 CAPITOLO 6 tratto inferiore di colonna sia molto maggiore di quella della baionetta. Altrimenti si potrà molto cautelativamente considerare la baionetta incernierata nella sezione di collegamento ai due montanti. Longitudinalmente si sfrutta il vincolo creato dalla via di corsa. E) Colonne “a baionetta” con traverso incernierato agli estremi, e quindi a mensola trasversalmente e pendolari longitudinalmente. In direzione trasversale consideriamo sia la parte inferiore che la baionetta come mensole, mentre longitudinalmente è come il caso D). F) Colonna pendolare in entrambe le direzioni con carroponte. Come il caso C), ma la via di corsa, facendo da collegamento, riduce la lunghezza L. Con questi casi non abbiamo certo coperto tutte le tipologie possibili, ma abbiamo dato un po’ di indicazioni che si possono estendere facilmente ad altri casi. Giova ricordare quanto delicata sia la scelta della snellezza, perché un errore in questa valutazione può avere conseguenze disastrose, e perché usando programmi di calcolo, spessissimo incapaci di valutare correttamente le snellezze, si rischia di sbagliare più facilmente. Se le colonne sono più lunghe di 16 metri circa, occorre prevedere un giunto, altrimenti occorre organizzare un trasporto speciale per portarle in cantiere, ed in genere i Costruttori non amano questo. In realtà la scelta se fare un tronco unico o 2 tronchi dovrebbe spettare al Costruttore appunto, che farà uno studio di ottimizzazione dei costi di costruzione e trasporto. Come progettisti, la cosa che conviene sempre fare è prevedere un giunto a completo ripristino, in modo da lasciare il Costruttore libero di utilizzarlo o meno, e nella posizione che preferisce. Trovati gli sforzi e valutate correttamente le snellezze, non resta che verificare le colonne. 1) Le colonne pendolari vanno valutate per stabilità in compressione semplice. Basta considerare la massima compressione e la massima snellezza. 2) Le colonne a mensola realizzate con profilo uniforme andranno verificate: a) In direzione trasversale: a1) Instabilità per presso-flessione retta. a2) Instabilità per presso-flessione retta con svergolamento (in genere verifica non dominante, soprattutto se ci sono collegamenti longitudinali. Se si considera poi che le orditure di parete impediscono lo svergolamento, la verifica non è necessaria). a3) Tensioni locali in presso-flessione (sezione di base). a4) Deformabilità orizzontale alla sommità. b) In direzione longitudinale: b1) Instabilità per compressione semplice. Valori accettabili di spostamento orizzontale in sommità sono riportati per esempio nelle NTC: – h/300 per un edificio monopiano generico; – h/150 per una tettoia senza carroponte; – h/400 per un capannone con carroponte ( EC3: EN 1993-6 ); – hi/300 per un edificio multipiano (calcolato sull’interpiano); – H/500 per un edificio multipiano (calcolato sull’altezza totale). 3) Le colonne a mensola con geometria “a baionetta” andranno verificate. 3.1) Tratto inferiore a 2 montanti: a) In direzione trasversale: a1) Verifica locale in compressione alla sezione di base (in genere non determinante). Bozza 1 luglio 2008 I COMPONENTI STRUTTURALI E LE LORO VERIFICHE b) a) b) 4) 55 a2) Instabilità per presso-flessione della sezione composta. (Benché la snellezza sia 2 volte l’altezza, questa verifica è difficile che sia determinante, perché la sezione composta ha in genere un momento d’inerzia molto alto, e quindi questa verifica in genere si omette). a3) Taglio sul pannello che collega i montanti (o, in caso si usi una tralicciatura, instabilità per compressione del singolo traliccio, per il quale il taglio alla base si trasforma in una compressione o una trazione). a4) Deformabilità orizzontale in sommità, cioè all’appoggio della via di corsa. In direzione longitudinale: b1) Instabilità per compressione semplice di un singolo montante (infatti i momenti agenti sulla colonna si scomporranno in una trazione su un montante ed una compressione sull’altro, per cui i montanti non saranno inflessi ma compressi o eventualmente tesi). Questa verifica è in genere quella dimensionante per i montanti. 3.2) Tratto superiore, o baionetta: In direzione trasversale: a1) Verifica di instabilità a presso-flessione retta. a2) Verifica di instabilità a presso-flessione retta con svergolamento (se le orditure di parete non lo impediscono). a3) Verifica locale in presso-flessione. a4) Deformabilità orizzontale in sommità. In direzione longitudinale: b1) Verifica di instabilità per compressione semplice. Le colonne “a baionetta” ma facenti parte di un portale vanno verificate come quelle a mensola: ciò che cambia sono solo le snellezze (vedi prima). 6.8 Impalcati Gli impalcati sono costituiti da travi. Si possono avere travi principali che vanno da colonna a colonna e travi secondarie che vanno da una trave principale all’altra, oppure addirittura 3 orditi di travi, con travi di terzo livello che vanno da una secondaria all’altra. L’ultimo ordito di travi regge il solaio che, in un edificio industriale, può essere realizzato, comunemente: in grigliato, con luci da 1-1,75 metri, o con soletta in c.a. con sottostante lamiera grecata (su luci più ampie, 2-2,5 metri). Le travi principali possono essere collegate a cerniera (cioè con un attacco a taglio) alle colonne, o anche con un attacco a momento (in questo caso contribuiscono alla stabilità dei portali trasversali). Le travi secondarie sono in genere collegate alle principali con attacchi a taglio. Più raramente si realizzano continue (anche perché è difficile realizzare costruttivamente la continuità di una trave trasversale su una principale), a meno che non si debbano costruire degli sbalzi, nel qual caso la continuità dietro lo sbalzo è molto utile per la stabilità: infatti incastrare uno sbalzo in una trave trasformerebbe la flessione dello sbalzo in torsione della trave che la regge, e le travi in acciaio in genere non sono idonee a lavorare in torsione. Quindi, come mostrato nella figura 6.18, conviene porre dietro la mensola o sbalzo una trave, collegata a momento allo sbalzo, in modo da evitare la torsione e trasformarla in flessione della trave aggiunta. Bozza 1 luglio 2008 56 CAPITOLO 6 Figura 6.18 Impalcati: travi principali, secondarie e mensole. Come si vede dalla figura 6.18 sono presenti dei controventi di piano che, come quelli di falda, hanno lo scopo di dare stabilità all’intero piano ed eventualmente distribuire le forze orizzontali. Va detto che i controventi di piano sono indispensabili in caso che il piano sia realizzato con grigliato. Questo infatti non vincola a sufficienza le travi (è semplicemente poggiato su di esse e vi può scorrere sopra facilmente), mentre se c’è una soletta con lamiera grecata in c.a. si potrebbe fare a meno dei controventi di piano. La soletta infatti è puntata alle travi mediante saldatura o, meglio, fissata con pioli Nelson o dispositivi simili, al fine di meglio trasmettere le forze orizzontali. Quindi a seconda che si impieghino o meno i pioli Nelson, che si impieghi una soletta in c.a. o un grigliato, si possono realizzare i seguenti tipi di impalcato: a) Travi in acciaio, pioli Nelson e soletta in c.a. collaborante. I pioli sono calcolati per creare la collaborazione tra trave e soletta, creando sezioni miste; trave e soletta si verificano quindi assieme (la soletta lavora in flessione in una direzione e in compressione in quella nella quale collabora appunto con le travi). Questa tipologia è impiegata negli impalcati da ponte, direi poco nei solai degli edifici industriali, perché costruttivamente più complessa delle tipologie seguenti, e perché mal si presta alla necessità di praticare forature nella soletta. b) Travi in acciaio, pioli Nelson e soletta in c.a. non collaborante. I pioli hanno il solo scopo di diffondere le forze orizzontali, rendendo il piano rigido, e vincolare adeguatamente le travi allo sbandamento laterale; la soletta quindi lavora solo a flessione nella direzione ortogonale alle travi, travi e soletta si calcolano indipendentemente le une dall’altra. La collaborazione soletta-travi comunque si crea, con Bozza 1 luglio 2008 I COMPONENTI STRUTTURALI E LE LORO VERIFICHE 57 conseguente irrigidimento dell’impalcato, come si può verificare se si effettua, nel collaudo, una prova di carico: i valori di abbassamento trovati saranno in genere abbastanza inferiori a quelli teorici calcolati. c) Travi in acciaio e soletta in c.a. senza pioli. In questo caso la lamiera grecata viene “puntata” alle travi, e questo collegamento (più l’attrito) svolge le funzioni dei pioli. È un collegamento meno robusto, ma comunque accettabile (e abbastanza diffuso) se non si hanno forti forze orizzontali (cioè forti forze sismiche). Altrimenti è meglio ricorrere al tipo b). d) Travi in acciaio e grigliato. Questo, come già detto, non riesce a vincolare adeguatamente le travi e non riesce creare un piano rigido, per cui vanno senz’altro usati i controventi di piano (figura 6.19). Figura 6.19 Funzione dei controventi di piano negli impalcati. Vediamo dunque quali sono le verifiche da fare per le travi d’impalcato. – Verifica a flessione semplice (come trave incernierata o incastrata, a seconda dello schema scelto). Se la trave è principale (tra 2 colonne), allora potrebbero esserci delle compressioni, e quindi se queste non sono trascurabili si potrebbe rendere necessaria la verifica di instabilità in presso-flessione. – Verifica allo sbandamento laterale, se si usa il grigliato. Se c’è la soletta, questa impedisce lo sbandamento, quindi la verifica non si applica. La lunghezza libera da adottare è quella tra 2 ritegni torsionali consecutivi. In genere si considera che, per le travi principali, le secondarie costituiscano un valido ritegno torsionale, a patto che siano vincolate con almeno 2 bulloni, che non ci sia una sproporzione molto grande tra la rigidezza della principale e quella della secondaria, e che i controventi di piano siano ben disposti. Bozza 1 luglio 2008 58 CAPITOLO 6 – Verifica della deformabilità verticale, che in genere è dell’ordine di 1/300-1/400 della luce della trave. Questa verifica è spessissimo quella dimensionante, specie per luci molto lunghe e carichi non elevati. Nelle solette di tipo a) invece è difficilmente dominante, visto che le sezioni composte acciaio-calcestruzzo sono molto rigide. – Verifica al taglio sull’appoggio. Occorre considerare l’area depurata dai fori della bullonatura e le eventuali spallature. A tal proposito un buon metodo è quello dell’EC3 – Progettazione delle strutture in acciaio – Parte 1.8: Progettazione dei collegamenti (UNI EN 1993-1-8), paragrafo 3.10. Circa le tipologie di profili da adottare, diciamo che si usano prevalentemente laminati a caldo del tipo HE o IPE. Le IPE sono più efficienti ma più soggette allo sbandamento laterale. Le HE diventano utili se c’è da limitare l’altezza dell’impalcato, a prezzo di un aumento di peso. Sempre meglio usare le HEA che le HEB, a meno che non ci sia necessità di contenere lo spessore del solaio. In caso di lunghezza libera per lo sbandamento laterale molto alta, i profili IPE rischiano di essere molto penalizzati, e quindi una HE potrebbe tornare più economica. In un impalcato con soletta in c.a. e quindi con sbandamento laterale impedito, l’uso di profili tipo IPE consente vantaggiosi risparmi di peso. Quando si progettano le unioni a taglio delle travi, conviene “abbottonare” l’anima per l’intera altezza, cioè porre il massimo numero di bulloni compatibile con l’altezza dell’anima, indipendentemente dagli sforzi di progetto. Ciò equivale a progettare l’unione per circa il 50% del massimo taglio possibile per quella trave. In questo modo si realizzano unioni dello stesso ordine di robustezza della trave da collegare. Quanto suggerito non è ovviamente necessario, ma soltanto prudente. Se si è impiegato un profilo grosso per ragioni di limitazione di freccia o perché era già usato in altre parti e gli sforzi risultano bassi, si potrebbe ovviamente mettere pochi bulloni, quelli strettamente necessari. Ma può accadere che, in corso d’opera o in futuro durante la vita della struttura, qualcuno pensi di aggiungere per esempio un supporto di tubazione e, vedendo una trave robusta, consideri sicuro saldarle il supporto, magari in prossimità dell’appoggio in modo da non aumentare la flessione. Come conseguenza il taglio aumenterà e nessuno si sognerà mai di verificare la connessione, immaginando che sia stata progettata adeguata alla trave. 6.9 Controventi verticali I controventi verticali raccolgono le forze orizzontali che agiscono in senso longitudinale in una tettoia/capannone, cioè vento, sisma e frenata del carroponte, o in un pipe-rack, dove non c’è il carroponte ma ci sono le spinte e gli attriti delle tubazioni. I controventi, giova ricordarlo, servono anche (e forse sarebbe meglio dire: soprattutto) per stabilizzare la struttura in senso longitudinale: anche se un capannone fosse costruito dentro ad un altro, al riparo dal vento quindi, ed in zona non sismica, in modo cioè da non avere alcuna forza orizzontale, i controventi andrebbero messi ugualmente. I controventi sono strutture reticolari di varie tipologie; le più comuni sono quelle mostrate nella figura 6.20. Bozza 1 luglio 2008 I COMPONENTI STRUTTURALI E LE LORO VERIFICHE 59 Figura 6.20 Tipologie di controventi verticali e lunghezze di libera inflessione. I profili che le compongono possono essere i più vari, a seconda dell’entità degli sforzi e dei gusti del progettista. Si va dall’angolare semplice ai doppi angolari schiena a schiena, ai doppi UPN, alle HE, tubi o altri simili. I controventi posti in corrispondenza di colonne a doppio montante saranno doppi anch’essi, per tenere entrambi i montanti. In questo caso i profili potranno essere indipendenti, come 2 controventi posti fianco a fianco, oppure collegati da una tralicciatura o da collegamenti ortogonali, a formare una sorta di trave Vierendel. Collegarli serve ovviamente a ridurre la snellezza fuori dal piano. Con riferimento alla figura 6.20, si possono fare le seguenti annotazioni: – La tipologia “B” a croce di S. Andrea è la più efficiente, se si vuole, e può essere impiegata considerando agente solo l’asta tesa oppure sia l’asta tesa che quella compressa. In questo caso gli sforzi sui diagonali si dimezzano, ma in compenso bisogna tener conto dell’instabilità, e quindi impiegare profili di sezione maggiore. Nella figura sono indicate le lunghezze da considerare per calcolare le snellezze “x”, nel piano, e quelle “y”, fuori dal piano. Solo una osservazione sulla snellezza fuori dal piano, che io ho indicato pari alla intera lunghezza del controvento, e. Qualcuno usa d e non e, considerando che l’altra asta è tesa e quindi il nodo centrale è un punto fisso. Ciò è vero se l’altra asta è sicuramente tesa: ma possono esistere condizioni per cui anche l’altra asta va in compressione, ed in tal caso il nodo centrale potrà sbandare fuori dal piano. Per ciò ritengo sia più prudente considerare l’intera lunghezza. Il difetto di questa tipologia è che impedisce il passaggio tra le 2 colonne interessate. Bozza 1 luglio 2008 60 CAPITOLO 6 – Se si ha necessità di avere un passaggio nella campitura occupata dal controvento, si possono usare le tipologie “A”, “C” e “D”. – Notare che nel portale “A” la snellezza fuori piano viene di solito calcolata considerando “b + c” come lunghezza di libera inflessione, anche se non è un discorso rigoroso. Figura 6.21 Controvento a portale. – Una soluzione alternativa allo schema A è lo schema A' della figura 6.21. In esso si è semplicemente prolungata un’asta compressa sino a raggiungere la colonna, cioè un punto fisso. Così le 2 aste compresse si calcolano considerando la loro luce (“a” e “b”) come lunghezza di libera inflessione. – La soluzione “D” si differenzia dalla “C” (entrambi controventi a K) per un rompitratta che consente di ridurre la lunghezza di libera inflessione nel piano. Per trarne un vantaggio occorre orientare l’asta in modo da avere la massima inerzia fuori dal piano, quindi per esempio se si usa una HEA, bisognerà orientarla con le ali parallele al foglio. Capita di vedere progettisti che fanno il contrario, rendendo praticamente inutili i rompitratta. Sempre riguardo a queste soluzioni, tutto funziona se il punto in alto al centro della trave è un punto fisso fuori dal piano. Quindi occorre che: a) la trave non sia interrotta; b) che essa sia in grado di resistere in compressione su tutta la luce. Detto ciò, si capisce che le verifiche da fare sono esclusivamente: a) verifica di instabilità per compressione semplice; b) verifica in trazione semplice. Vorrei fare adesso un paio di osservazioni riguardo ai controventi in zona sismica. Sappiamo che un controvento di una struttura che si trova in una zona sismica è tanto più efficace quanto più energia riesce a dissipare durante l’evento sismico. Per poter dissipare energia, il controvento deve potersi snervare, perché se rimanesse in campo elastico la dissipazione sarebbe pressoché nulla. Per potersi snervare, occorrono 3 cose: Bozza 1 luglio 2008 I COMPONENTI STRUTTURALI E LE LORO VERIFICHE 61 1) che il materiale sia duttile; 2) che l’elemento strutturale sia duttile; 3) che le connessioni dell’elemento strutturale siano duttili. Ora il materiale, l’acciaio da costruzione, è senz’altro duttile, e questo non è un problema. Affinché l’elemento strutturale sia duttile, occorre che lavori in trazione e non in compressione. Infatti l’elemento teso, al crescere dello sforzo applicato, si snerva e quindi dissipa energia. L’elemento compresso invece, al crescere dello sforzo finisce per sbandare per instabilità e quindi si sottrae allo sforzo, mostrando così un comportamento fragile. Infine per avere connessioni duttili, occorre che queste non si rompano prima che l’asta tesa possa snervarsi, ma abbiano bensì una resistenza superiore alla forza necessaria per snervare l’asta che connettono. Non voglio qui trattare gli aspetti teorici di questo argomento, che lascio a libri più autorevoli. A me preme dare un consiglio pratico per dimensionare le strutture. Anzi due. Il primo consiglio è: scegliamo controventi che lavorano a trazione. Nella figura 6.22 ho riportato una tabellina tratta dall’Eurocodice 8. Figura 6.22 Eurocodice 8: tipologie di controventi e duttilità. Si vede come, a controventi a K, K rovesci e a portale, poiché per funzionare richiedono di avere sì un’asta tesa ma anche una compressa, viene assegnato un coefficiente di duttilità q basso, pari a 2. Se invece realizziamo controventi con sole aste tese, cioè a X (e notate che la X può essere realizzata in 2 spine diverse di controvento, ponendo un’asta per spina, in modo che ci sia comunque sempre un controvento con l’asta che lavora in trazione), in tal caso possiamo usare un coefficiente di duttilità doppio, il che vuol dire dimezzare le forze sismiche. Questo è un gran risultato, specie in zone di rilevante sismicità, e consente un risparmio non solo sulle strutture metalliche ma anche sulle fondazioni. Bozza 1 luglio 2008 62 CAPITOLO 6 Secondo consiglio: non sovradimensioniamo il controvento. Siamo abituati, se ci troviamo in zona non sismica e quindi il vento è l’azione prevalente e praticamente unica che agisce sui controventi, ad abbondare un po’. Se, poniamo, il calcolo ci dice che il minimo profilo da usare per un controvento di un pipe-rack è un doppio L 70 × 7, tutti siamo tentati di mettere un doppio L 80 × 8, o anche di più: il controvento incide poco sul peso globale e un po’ di sicurezza in più non guasta, soprattutto per un elemento così essenziale. Se invece l’azione sismica è prevalente sul vento e quindi determina il dimensionamento, allora abbiamo due vie possibili: possiamo realizzare una struttura duttile, e così godiamo di una riduzione delle forze sismiche, come si diceva prima; oppure non realizziamo una struttura duttile, ma in tal caso siamo costretti ad adottare forze sismiche molto maggiori. La seconda strada può essere conveniente se ci troviamo in una zona debolmente sismica, o comunque in una condizione tale che sia il vento a dimensionare i controventi. In tal caso possiamo usare anche controventi che lavorano in compressione, e non siamo obbligati a realizzare attacchi a completo ripristino. Ma in caso di sisma di elevato livello e pertanto governate il dimensionamento, una scelta di questo genere ci condurrebbe a dimensionare controventi di grossa sezione con grosse forze in fondazione. È allora preferibile l’approccio della struttura duttile con attacchi a ripristino. Quindi le forze sull’attacco e di conseguenza sulle fondazioni non sono le forze ricavate dal calcolo ma quelle derivanti dallo snervamento del controvento, e quindi dipendenti solo dall’area del controvento stesso. Ecco quindi che è preferibile far lavorare il controvento ad un tasso di sfruttamento prossimo al massimo, in modo da minimizzare attacchi e fondazioni. È ovvio che tale controvento deve essere verificato anche per le forze del vento. Su come realizzare attacchi che resistono più dell’asta che connettono, diremo al paragrafo 12.4. 6.10 Orditure di parete: Montanti e Arcarecci di parete Le orditure di parete hanno lo scopo di sopportare le forze del vento e il peso delle pannellature. Certamente le tipologie possono essere varie, ma quella che presento è una delle più comuni. Essa prevede pannelli di parete che siano autoportanti verticalmente, e quindi scaricano le azioni del vento su supporti orizzontali, detti arcarecci di parete. Il loro passo è variabile, possiamo dire che va tipicamente da 1,50 a 2,50 metri. Sono elementi con inerzia maggiore nel piano orizzontale, nel quale debbono sopportare le forze del vento. In genere si usano UPN o IPE, oppure profili piegati a freddo. Per evitare fastidiose flessioni nel piano verticale, in genere vengono “pendinati”, cioè tenuti in mezzeria da tondi filettati che lavorano a trazione e riportano in alto il peso degli arcarecci e del pannello. I tondi terminano in alto con 2 tratti inclinati per riportare il peso sulle colonne. Alcuni tratti possono essere compressi però, e allora o si realizzano con angolari, o si pone un tubo attorno al pendino in modo da dargli resistenza alla compressione (figura 6.23). La lunghezza ottimale per un arcareccio di parete è di 4-6 metri. Perciò, se il passo delle colonne è di questo ordine di grandezza, essi si fanno appoggiare direttamente sulle colonne. Se invece si hanno colonne a passo maggiore, conviene porre elementi verticali intermedi per spezzare la luce degli arcarecci. Questi elementi si chiamano di solito montanti di parete. Essi vanno in genere da quota 0,00 alla copertura. Il loro vincolo in basso ed in alto può essere: Bozza 1 luglio 2008 I COMPONENTI STRUTTURALI E LE LORO VERIFICHE 63 Figura 6.23 Pendinatura degli arcarecci di parete. – Appoggiato in basso (con scarico del peso della pannellatura e di parte dell’azione del vento) e appoggiato in alto sul controvento di falda laterale ma con asole verticali, in modo da scaricare le forze del vento (orizzontali) ma non caricarsi del carico che il falso traverso /capriata scarica sulla trave laterale. – Appeso in alto (senza asole) e appoggiato in basso con asole verticali, in modo da scaricare in alto, sulla trave laterale, il peso delle pannellature, ed in basso solo la quota parte delle forze del vento. – Appoggiato ad una quota intermedia, per esempio sulla via di corsa, e vincolato con asole verticali sia in alto che in basso. Se il montante è troppo alto, può essere conveniente prevedere una trave orizzontale di controvento, che se molto lunga potrà essere tralicciata, sulla quale il montante si appoggia, con uno schema quindi di trave su 3 appoggi. La trave di controvento appoggia sulle colonne, riceve il carico del vento (orizzontale) dal traverso, ma in genere è sostenuta verticalmente dal traverso stesso: quindi è una trave con grande inerzia nel piano orizzontale e piccola inerzia in quello verticale, tanto da avere bisogno di essere sostenuta. Le figure 6.24 e 6.25 illustrano le tipologie delle quali abbiamo parlato. In particolare, nella figura 6.25 è rappresento in modo schematico un campo di parete tra 2 colonne, con 2 ritti. Il primo a sinistra è appeso in alto alla trave longitudinale di collegamento, ed ha in basso un giunto scorrevole verticalmente che gli consente di scaricare in orizzontale la spinta del vento sulla fondazione. Bozza 1 luglio 2008 64 CAPITOLO 6 Figura 6.24 Tipologie di orditure di parete. Figura 6.25 Sistemi di vincolo dei montanti di parete. Bozza 1 luglio 2008 I COMPONENTI STRUTTURALI E LE LORO VERIFICHE 65 Il ritto di destra invece è appoggiato in basso ma scorre in alto, dove può solo scaricare forze orizzontali, sul controvento di falda laterale. Se il vincolo in alto non fosse scorrevole, il carico della copertura, di un falso traverso per esempio, si scaricherebbe sul ritto e non sui portali. La trave di controvento va da colonna a colonna. Quando incontra i ritti, si realizza un vincolo tale che: a) il ritto sostiene verticalmente la trave che altrimenti cederebbe, essendo orientata con la massima inerzia nel piano orizzontale e non in quello verticale; b) la trave sostiene la spinta del ritto e in più ne tiene l’ala contro lo sbandamento laterale. Il dettaglio del tipo di nodo lo vedremo più avanti, quando parleremo dei dettagli tipici. Le verifiche da effettuare su questi elementi sono: Arcarecci di parete: – Verifica a flessione nel piano orizzontale sotto l’azione delle forze del vento, con schema di trave appoggiata. – Verifica della freccia per il vento (in genere 1/200 della luce). Montanti di parete: – Verifica a presso-flessione (se appoggiati in basso), o a tenso-flessione (se appesi in alto), sotto l’azione del peso delle pannellature e della spinta del vento. – Verifica della freccia, sotto la spinta del vento (minore di 1/300 della luce almeno, altrimenti si hanno spostamenti notevoli e probabilmente incompatibili con i pannelli e i serramenti). I montanti si calcolano come travi su 2 appoggi, se è presente una trave orizzontale di controvento come trave su 3 appoggi. Trave di controvento orizzontale: – verifica a flessione, per la spinta del vento, sotto la reazione del montante di parete, – verifica della freccia (minore di 1/300 della luce almeno). Concludendo, nella figura 6.26 ho riassunto in forma tabellare i principali componenti strutturali e le verifiche da fare, indicando con “SI !” le verifiche fondamentali che di solito governano il dimensionamento, con “SI” quelle fondamentali ma che molto probabilmente non sono dimensionanti, e con “si” le verifiche che vanno fatte ma che spesso non sono significative. È chiaro che si tratta di una tabella qualitativa che vuole solo dare l’idea che per ogni componente dobbiamo analizzare cosa è importante verificare e cosa no, perché effettuare tutte le verifiche “a tappeto” è inutile e spesso genera confusione ed induce in errore. Bozza 1 luglio 2008 66 CAPITOLO 6 Figura 6.26 Elementi strutturali e verifiche necessarie. Bozza 1 luglio 2008