Le malattie che rubano la mente Piccolo manuale dedicato a caregivers e familiari per conoscere e affrontare le demenze . Redazione: Laura Rossi Hanno collaborato: Barbara Dessi e Guido Rodriguez (Università degli Studi di Genova) che hanno scritto le parti sul caregiving e le malattie che generano demenze. Dario Arnaldi e Agnese Picco (Università degli Studi di Genova) che hanno elaborato i dati originati dall’inchiesta condotta a Cogoleto attraverso la diffusione del Test della Memoria. Ivana Oliveri (coordinatrice Inca Regione Liguria) che ha curato la parte relativa ai diritti. Anita Venturi (attuale sindaco di Cogoleto) e i tanti volontari dello Spi e delle associazioni di familiari che hanno reso possibile l’inchiesta di Cogoleto. Genova, giugno 2011 Indice Introduzione p. 3 Il caregiver (chi si prende cura) e le demenze Parte I p. 7 Parte II p. 27 Esperienze di approfondimento della conoscenza sulla diffusione delle demenze tra p. 49 gli anziani e sui problemi correlati Benefici, indennità e agevolazioni di legge. Cosa fare, come fare, dove andare p. 51 Numeri utili p. 62 Link utili p. 65 Appendice 1 p. 66 Appendice 2 p. 68 Appendice 3 p. 72 1 Introduzione Il Sindacato Pensionati Cgil di Genova e Liguria ha deciso di dedicare la propria attenzione anche alla condizione delle persone anziane affette dalla malattia di Alzheimer e da altre demenze, ed in particolar di chi si prende cura di loro. I temi dell’invecchiamento sono un terreno su cui abbiamo provato a cimentarci per esercitare con efficacia la nostra funzione di tutela e rappresentanza in materia previdenziale, della difesa del reddito, dell’intervento sulla organizzazione dei servizi, e più in generale del benessere e dei diritti di cittadinanza. Con l’aumento dell’età media della popolazione, soprattutto in una regione come la nostra, che ha il più alto indice di dipendenza tra le regioni italiane, oltre che il più alto indice di invecchiamento, crescono anche le situazioni di non autosufficienza e le malattie degenerative. Tra queste, la diffusione delle demenze si presenta come un fenomeno sociale drammatico, di cui non c’è ancora sufficiente consapevolezza nella politica, nelle istituzioni e nelle organizzazioni sociali. È un fenomeno che incide pesantemente sulla vita collettiva, oltre che su quella dei singoli, che influenza talmente le condizioni di reddito da portare a livelli di povertà tante famiglie, che fa rinunciare al lavoro molte donne, che porta con sé la diffusione del lavoro domestico di un numero molto significativo di persone immigrate, e non solo. La situazione è tale da richiedere ormai una diversa organizzazione dei servizi pubblici e strumenti per orientare e tutelare anche la spesa privata delle famiglie che investono una parte rilevante del loro reddito per l’invalidità. Non c’è solo il carico di assistenza; si aggiunge lo “smarrimento” che provoca vedere i propri cari perdere la memoria, non sapere più dove sono, non conoscere più le persone che stanno loro intorno. Ci sono momenti di emergenza che è così difficile affrontare e nei confronti dei quali ci si sente impotenti. I numeri (circa 30.000 in Liguria, con previsioni di crescita “esponenziale”), la complessità dei fattori che vengono investiti, la speciale sofferenza che malati e famiglie vivono, dovrebbero richiamare tutti a non considerare questo fenomeno come uno dei tanti e a impostare una vera strategia per organizzare interventi e reperire risorse adeguate. Lo SPI e la Cgil nel suo insieme lavorano per proporre e rivendicare scelte necessarie da parte delle Istituzioni; nel contempo esercitano la propria funzione di tutela individuale, attraverso il Patronato Inca e i Servizi fiscali. 3 Con questo libretto ci proponiamo l’obiettivo di diffondere la conoscenza, e quindi la consapevolezza collettiva, sulla qualità e la dimensione del fenomeno; vogliamo anche, però, offrire alle persone interessate uno strumento, tra i tanti che sono disponibili, per “orientarsi”, per sapere un po’ di più sui loro diritti; uno strumento anche per riconoscersi in una condizione che non è solo la loro, da vivere in solitudine e magari con “vergogna”. È invece la condizione di molti, per la quale sono previsti anche servizi, prestazioni economiche e interventi che loro hanno diritto di ricevere: la diagnosi presso strutture pubbliche, la prescrizione dei farmaci, l’affiancamento all’interno di precorsi di assistenza dedicati, l’indennità di accompagnamento; e risorse sufficienti, che invece sono state tagliate in questi anni dal governo nazionale. Su questo insieme di questioni una organizzazione di rappresentanza collettiva come la Cgil vuole fare la propria parte, sia sul piano della tutela individuale, sia su quello dell’iniziativa rivendicativa verso le Istituzioni, affinché il governo nazionale finanzi in modo certo e adeguato i livelli essenziali delle prestazioni sociali e le amministrazioni regionali e locali organizzino il proprio sistema di servizi in modo efficace, integrato e aperto alle esigenze delle persone. Anna Giacobbe Segretaria generale Spi CGIL Liguria 4 La mia giornata non comincia la mattina perché non finisce la sera. Una donna Il caregiver (di chi si prende cura) e le Demenze Quanto scritto in queste pagine non ha nessuna pretesa di essere un documento “scientifico” esaustivo sul grande problema delle demenze; il tentativo è invece quello di fornire un piccolo aiuto “pratico” a chi, per qualsiasi ragione, si trova a contatto con persone che vivono il problema delle malattie che generano demenza, in particolare quello della malattia di Alzheimer. La maggior parte dei concetti e delle informazioni non sono “originali” e si possono trovare, espressi ovviamente in forme diverse, in numerose pubblicazioni divulgative edite dalle Associazioni di volontariato o dalle istituzioni (la Regione Liguria ha finanziato il manuale “Caregiver”) o in moltissimi altri libri e testi anche di carattere scientifico. Ho cercato di esprimere concetti, anche quelli più complessi, in una forma il più possibile chiara per tutti. Il manuale è diviso in due parti nettamente distinte che posso essere lette separatamente: la seconda è sicuramente la parte più complessa che per diventare fruibile necessita di un notevole desiderio di conoscenza più specifica, non indispensabile a chi affronta la prima parte. Nel caso si desiderasse approfondire alcuni temi o mandare suggerimenti o riflessioni per le future edizioni, scrivete a [email protected]. G.R. PARTE I In genere, quando si affronta il problema delle demenze si è soliti iniziare a parlare nello specifico della malattia e in seconda battuta dei molti problemi a essa correlati, tra i quali quello delle persone che assistono i malati e che, anche da noi, vengono ormai definiti caregivers (prestatori di cure) prendendo la definizione dal lessico anglosassone. Crediamo invece che in una trattazione come questa, rivolta essenzialmente ad operatori che si confrontano con un pubblico che necessita di informazione, piuttosto che a operatori che si riferiscono a persone malate, sia giustificato iniziare a parlare, prima di tutto proprio dei “prestatori di cura”. Sono questi infatti il più delle volte i soggetti più esposti di una situazione in cui da un lato è presente il malato con le sue enormi problematiche, poche delle quali possono essere affrontate e risolte dalla medicina – almeno a tutt’oggi – dall’altro le persone che, per scelta, per dovere o per mille altre ragioni, ogni giorno impiegano parte o tutta la giornata ad assistere il malato. 7 “Caregivers”, i prestatori di cura Nel nostro paese dai primi anni Novanta, sulla spinta della realtà epidemiologica emergente (si pensi che in Italia nel 2010 ci sono circa 1 milione di malati ) e, soprattutto, sulla non più illimitata disponibilità di risorse economiche del Sistema Sanitario Nazionale (SSN), le problematiche legate alle demenze e all’impatto che queste malattie hanno sulle famiglie sono diventate oggetto di attenzione sempre crescente. Le demenze sono a tutt’oggi un insieme di patologie tra le più onerose dal punto di vista sociale, con un costo medio per paziente, comprensivo sia dei costi dei familiari sia di quelli a carico della collettività, stimato in differenti studi tra 50 e 60.000 euro all’anno (Gambina G., http://www.aiesweb.it/media; Trabucchi, 1996).1 La cifra comprende costi diretti, quali quelli per l'assistenza domiciliare professionale, la spesa farmacologica, gli ausili non farmacologici, le visite mediche specialistiche, gli esami di laboratorio e strumentali, le ospedalizzazioni e così via. Ci sono poi i costi indiretti, che sono l’assistenza domiciliare prestata dai familiari con conseguente mancato guadagno per riduzione di ore di lavoro, o rinuncia all’impiego e tutte le spese accessorie tra cui, quando possibile, un aiuto– la così detta badante – i molti farmaci che non vengono distribuiti gratuitamente dal SSN e i tanti ausili per i malati. Essendo proprio i costi indiretti a pesare sui familiari, questi devono sopportare una spesa che è addirittura il 6070% della spesa annua media; impegno economico per mantenere il malato tra le mura domestiche, che spesso porta le famiglie alla povertà (Cavallo, 1997). 2 Ma anche quando i familiari devono ricorrere a una residenza protetta, una parte delle spese alberghiere è ancora a carico della famiglia; solo chi è totalmente indigente non spende per il ricovero. Così la figura che viene ad assumere un ruolo fondamentale nella gestione del malato è quella del caregiver , colui che in ambito domestico si prende cura 1 La citazione è tratta da un saggio pubblicato sul web e al momento non reperibile: Gambina G., Broggio E., Martini M.C., Merzari L., Gaburro G., Ferrari G., Analisi del costo sociale delle persone affette da malattia di Alzheimer assistite a domicilio. http://www.aiesweb.it/media; Trabucchi M., Ghisla M.K., Bianchetti A., CODEM, A longitudinal study on Alzheimer diseaese costs, in Alzheimer Disease: Therapeutic Strategies, Giacobini E. - Becker R. Editors, Birkhauser Boston, pp. 561-565, 1996. 2 Cavallo M.C., Fattore G., The Economic and Social Burden of Alzheimer’s Disease on Families in the Lombardy Region of Italy, in Alzheimer Disease and Associated Disorders, 11, pp. 184-190, 1997. 8 I costi delle demenze del malato. Una inchiesta del Servizio di Neurofisiologia Clinica dell’Università di Genova, pubblicata nel 2003, riporta dati interessanti sul caregiver. Il 75,8% dei caregivers sono donne e tale percentuale cresce col peggiorare delle condizioni cliniche del paziente (poco più dell’80%) (Rodriguez, 2003).3 Dall’inchiesta, inoltre, è risultato un rapporto molto complesso con il medico di medicina generale (MMG) che appare molto distante dai reali problemi del malato e dei familiari e che troppo spesso, a detta degli intervistati, non attribuisce il valore diagnostico– come fa invece lo specialista – ai sintomi che il malato presenta; si desume che il 53% dei caregivers si rivolge in prima istanza al medico di medicina generale, ma solo il 10% considera soddisfacente tale rapporto. Risultato questo oggetto di discussione tra molti colleghi e le spiegazioni, ovviamente, sono molto differenziate: tra tutte, forse quella che maggiormente emerge è il non aver ancora completamente scisso il problema dell’invecchiamento fisiologico da quello patologico e quindi anche la necessità di maggiori e costanti informazioni. In quest’ottica si possono leggere le molte iniziative rivolte ai MMG inerenti le demenze, tra le quali nel 2010 una presso la Neurofisiologia Clinica di Genova, che ha coinvolto una trentina di colleghi. In questa occasione i medici hanno anche dato la loro disponibilità alla raccolta di dati sui disturbi cognitivi nelle persone con più di 60 anni che frequentano l’ambulatorio medico, attraverso l’autosomministrazione di un questionario tradotto dall’inglese dal nostro gruppo. L’autore, J. Brown, ha autorizzato l’utilizzo del test nel nostro paese dopo l’accordo sulla traduzione (Brown J., 2009).4 Infine nell’inchiesta si è anche cercato di valutare se il caregiver avesse mai pensato la morte del malato come una possibile uscita dalla tragica realtà della malattia; sono stati molto pochi i familiari che hanno ammesso di aver avuto un tale pensiero. Questo, allora, ci convinse più che mai del fatto che il familiare caregiver diventa a tutti gli effetti così protettivo nei confronti del malato, da essere disposto ad accettare limitazioni di vita impensabili in altri contesti. Altra 3 Rodriguez G., De Leo C., Girtler N., Vitali P., Grossi E., Nobili F., Psychological and social aspects in management of Alzheimer’s patients: an inquiry among caregivers, in Neurol Sci, pp. 329-335, 2003. 4 Brown J., Pengas G., Dawson K., Brown L.A., Clatworthy P., Self administered cognitive screening test (TYM) for detection of Alzheimer’s disease: crossectional study, BMJ, 2009. 9 Il rapporto tra il caregiver e il medico di medicina generale possibile spiegazione è nella marcata diversità della gravità della malattia nel gruppo dei caregivers intervistati. È abbastanza ovvio che per un certo periodo di tempo la malattia non modifica sostanzialmente la vita del malato e del caregiver; solo alla comparsa dei sintomi comportamentali oltre a quelli cognitivi – irrequietezza motoria, vagabondaggio e aggressività violenta – il caregiver realizza fino in fondo quanto sia difficilmente accettabile la sua completa e totale dedizione al malato. Al di là degli spunti dell’inchiesta, credo che in genere un individuo diventa caregiver nel momento in cui intuisce che qualcosa si sta modificando nel comportamento della persona di cui poi ci si prenderà cura e in quel momento decide che si deve fare qualcosa; si rivolge al medico di famiglia, ne parla con un amico fidato o in famiglia e a volte arriva in un centro specializzato nella diagnosi delle malattie degenerative cerebrali. Spesso in questi casi ci si trova a parlare con la colei che per prima ha ritenuto di non dover sottovalutare le cose un po’ bizzarre e insolite che la persona di cui ci si prenderà cura metteva in mostra, con qualcuno che ha deciso che bisognava insistere e che ha cercato una risposta. È proprio a lei che il medico deve comunicare la diagnosi di demenza, è con questa persona che deve confrontarsi in quei pochi momenti in cui tutta la vita del futuro caregiver si trasforma. Il medico deve concedere a se stesso e al futuro caregiver il tempo sufficiente e necessario per accompagnare chi riceve la notizia della diagnosi ad accettare una realtà tanto temuta quanto purtroppo attesa. “Ma è proprio vero?” - “ È come una mazzata sulla testa” - “Un pugno in pancia” - “Ho voglia di gridare e di piangere” - “Non doveva succedere a me”. Il caso Tante le reazioni a quelle parole, a quella diagnosi che segnerà un cammino tutto da scoprire e per il quale il medico deve trovare il tempo necessario perché soprattutto il familiare possa comprendere e interiorizzare il senso della diagnosi. Ho incontrato molto spesso uno sguardo che andava al di là delle parole quando la persona che si ha di fronte ti chiede di confermare una diagnosi, cercando una condivisione, una relazione interpersonale che permetta 10 Quando si diventa caregiver di elaborare fino in fondo quello che solo la parte razionale della sua mente ha già accettato. È così che rivedo Mario mentre trattiene a stento le lacrime. Capisco che sa già quello che gli dirò ma si appende ancora a una speranza, che io dica la parola “depressione” e non “demenza”. Sua moglie è troppo giovane, per anni il vero punto di riferimento sul suo posto di lavoro, la moglie che ora, quando parla, nessuno riesce più a capire. Mario e la sua angoscia di come parlarne ai figli, di come organizzare la sua vita personale: “Allora devo andare dai sindacati” e poi una lunga pausa: “Forse devo prendermi un periodo di ferie per decidere cosa fare”. Non siamo di fronte all’attesa di una diversa diagnosi, né alla speranza in un diagnosi sbagliata. Di fronte a me Mario deve percorrere una strada che potremmo dire “apprendere per insight”, ridefinire il problema nel suo insieme. Non ha esperienze passate a cui far riferimento, non ci sono modelli teorici a cui rifarsi, Mario deve affrontare la nuova situazione e, una volta introiettata, raggiungere lo scopo finale di una ridefinizione del problema centrale: la sua vita futura. Il medico deve dargli il tempo necessario e sufficiente, anche se sappiamo che ci sarà poi un altro percorso ancora più complesso: ci saranno i figli e i parenti con i quali condividere l’informazione e programmare il da farsi. Poi Mario cerca di scendere nei dettagli e mi chiede la “prognosi”: quanto tempo ha ancora sua moglie a disposizione prima che si aggravi e nulla sia più possibile. Mario è già andato avanti, dice di voler subito programmare qualcosa, un viaggio o qualunque altra cosa possa essere in grado di dare felicità alla moglie. Passa ancora un po’ di tempo con pause dolorose per entrambi, dove a fatica gli sguardi si incontrano per non ledere il diritto a vivere la propria disperazione. Quando, dopo i primi colloqui, rivedo Mario, lui mi pone una questione che molto spesso i sanitari devo affrontare: “questa malattia è ereditaria?” Il timore che un gene dal quale si potrebbe originare la malattia possa essere trasmesso ai figli lo si incontra spesso nei gruppi di counseling con i familiari. Indipendentemente dalla familiarità, tutti a un certo punto della vita possiamo ammalarci. Bisogna essere molto precisi nella spiegazione. Oggi sappiamo che un gene rende più probabile il verificarsi della malattia. Il gene si trova sul cromosoma 19, 11 Ereditarietà e l’alipoproteina ed è responsabile della produzione di una proteina chiamata apolipoproteinaE (ApoE), di cui esistono tre tipi principali, uno dei quali (l'ApoE4) – sebbene poco comune – è quella che aumenta le probabilità di sviluppare in un certo momento della vita la malattia di Alzheimer. La persona portatrice di questa proteina non è destinata ad ammalarsi, ha solo aumentate la probabilità di sviluppare la malattia. Per esempio, una persona di cinquant'anni portatrice di questo gene avrebbe 2 probabilità su 1000 di ammalarsi invece del consueto 1 per 1000, ma può nella realtà non ammalarsi mai. Soltanto nel 50% dei malati di Alzheimer si trova la proteina ApoE4, e non tutti coloro che hanno tale proteina presentano la malattia. La badante e il territorio Da diversi di anni, abbiamo a che fare con una nuova figura, la cosìddetta badante, solitamente un immigrato/a che collabora col caregiver nell’assistenza al malato; secondo alcuni studi circa il 35% dei malati dementi è assistito a domicilio da una badante. Perché quando la malattia si aggrava il caregiver cerca La badante un aiuto. La presenza di questa figura spesso ha un effetto positivo sul nucleo familiare perché è in grado di ridurre il carico lavorativo e lo stress del caregiver. Come ovviamente anche il caregiver, la badante il più delle volte non è adeguatamente preparata. È sorta così la necessità di creare centri di riferimento per la preparazione degli operatori. Il compito più rilevante di coloro che entrano in contatto con le famiglie dei malati di Alzheimer è quello di informare dove sul territorio sia possibile ottenere, anche attraverso le istituzioni, un aiuto in termini di miglioramento delle conoscenze sulla malattia e sui compiti di caregiving. Nella regione Liguria c’è una grave dispersione di questi luoghi di informazione, mentre mancano del tutto sportelli o punti di riferimento al quale le famiglie possono rivolgersi rispetto ai molti problemi della malattia. Nel nostro paese, a differenza di molti altri, quasi il 90% dei malati vive in famiglia fino quasi agli ultimi giorni, infatti, nonostante le trasformazioni demografiche e sociali, la famiglia rimane la protagonista dello scenario assistenziale. In effetti il mantenimento del paziente a casa ha anche un risvolto “terapeutico”, poiché la 12 La casa e la famiglia persona con demenza riesce a muoversi e a interagire con un ambiente, almeno in parte, riconoscibile, mentre il ricovero in strutture non note è in genere seguito da un aggravamento delle condizioni generali e neuropsichiatriche (Lee H., 2004).5 È necessario sviluppare una serie di interventi – educativi, formativi, di sostegno e di supporto – senza i quali la famiglia non è in grado di sostenere un impegno così gravoso, che può durare moltissimi anni (la durata media di una demenza è dal momento della diagnosi di circa 8-10 anni). Un costo di difficile quantificazione e spesso sottostimato è quello costituito dalle conseguenze del caregiving sulla famiglia: stress psicologico, impatto sulla Il costo del caregiving salute, con conseguente riduzione della qualità della vita. I bisogni dei caregivers non sono tutti uguali: i caregivers primariamente coinvolti per parentela e rapporti affettivi hanno un stress superiore e forniscono un maggior contributo assistenziale diretto, mentre i caregivers secondari, ad esempio le badanti, soffrono di depressione e per questi bisogna agire soprattutto sul tono dell'umore. Ove la condizione di caregiver si associa a una condizione di stress vi è una riduzione delle risposte immunitarie e un aumento delle malattie cardiovascolari, con alti livelli di sintomatologia ansiosa. Molto importante è il tempo che il caregiver dedica all’assistenza, che dipende essenzialmente dalla gravità del paziente e da altre variabili: età, tipo di demenza, aspetti clinici, patologie concomitanti, intervento terapeutico farmacologico e non farmacologico, condizioni familiari, ambientali, socioeconomiche, qualità dell’assistenza medica ed efficienza della rete dei servizi del SSN. Il ruolo del malato e del caregiver Quali sono, nel dettaglio, le problematiche che maggiormente possono coinvolgere le famiglie e chi al loro interno diventa il caregiver principale? 5 Lee H., Cameron MH., Respite care for people with dementia and their carers. Cochrane Database of Systematic Reviews 2004, Issue 2. Art. No.: CD004396. DOI: 10.1002/14651858.CD004396.pub2. 13 Il ruolo del malato nella famiglia e il percorso del caregiver e dei familiari Il ruolo che il malato occupa – o meglio che ha occupato prima della malattia – all’interno del nucleo familiare, ugualmente alle dinamiche affettive, consce e inconsce, che fanno parte dei rapporti fra i componenti della famiglia stessa, comporta un diverso coinvolgimento emotivo dei familiari. Il caregiver, e in genere i familiari tutti, è costretto da una parte a una lenta elaborazione delle L’elaborazione del lutto varie fasi del lutto (in questo caso lutto va inteso come perdita del congiunto così come era conosciuto prima della malattia) e del dolore e dall’altra adeguarsi costantemente ad una situazione che, tutt’altro che “immobile”, si trasforma ogni giorno. È infatti terribile – spesso insopportabile – vedere una persona che, ad esempio, era stata il perno su cui gravava la famiglia, oppure quella che era stata la o il compagno di una vita e con la quale si erano condivisi decine di anni, perdere lentamente le capacità cognitive, “smarrire la mente” e con questa annullare la propria identità e i rapporti con gli altri. Difficile rendersi conto di cosa possa significare per un figlio che aveva nel genitore il proprio punto di riferimento, trovarsi con un malato che necessita di tutto e rispetto al quale devono essere superati diversi tabù. Lavare la mamma o il papà, accudirli e stare loro vicino possono diventare per il caregiver un gesto d’amore che ha dietro una incredibile quantità di angosce, di ansie e un processo di perdita raramente comunicati anche alle persone più intimamente vicine. Il familiare deve quindi fare un percorso che presenta alcune tappe. La prima è quella del “non è possibile” che si traduce nella convinzione che il medico non La negazione della malattia abbia compreso la situazione e che la malattia non sia veramente una demenza. Negare la malattia è abbastanza comune e naturale: il caregiver chiede diversi consulti impegnandosi anche a inutili esborsi economici alla ricerca del “luminare” più conosciuto o di medicine ad oggi inesistenti. Ma anche nei confronti del malato la negazione della malattia ha effetti non positivi: il caregiver cerca infatti di non vedere quanto accade e con ogni mezzo sollecita il malato ad agire in maniera corretta, a comportarsi bene, a non commettere “stupidi” errori; queste richieste sono ovviamente incomprensibili al malato, aumentano la sua angoscia, provocano confusione e profonda depressione. Se la negazione è una modalità di risposta normale all’inizio del percorso, è necessario che con il tempo la malattia venga accettata e questo può avvenire 14 Il senso di colpa anche attraverso l’aiuto di persone estranee al nucleo familiare, persone ad esempio che abbiano già vissuto l’esperienza della malattia di un proprio familiare. Ma quando il tempo e l’abitudine alle cure da prestare portano ad accettare la malattia altri atteggiamenti non positivi possono comparire; anche questi devono essere presto superati. Uno dei più importanti è il senso di colpa del caregiver. I familiari dei malati di Alzheimer dedicano mediamente sette ore al giorno all’assistenza diretta del paziente e quasi undici ore alla sua sorveglianza; inoltre, l’impatto dell’attività assistenziale diventa più gravoso quanto più essa si somma all’impegno legato allo svolgimento di altri ruoli professionali e familiari, come accade per la maggior parte dei caregivers; quando la malattia è grave l’assistenza è di 24 ore. Il caregiver si trova così a dover affrontare una condizione non conosciuta prima alla quale deve dare delle risposte efficaci, deve risolvere problemi che si pongono giornalmente con strategie mentali e comportamentali del tutto nuove. È così che viene stimolata la sua reattività all’ambiente e le capacità ad affrontare adeguatamente le situazioni che incontra. Ad esempio, chiunque abbia frequentato un malato demente conosce i tantissimi atteggiamenti che possono generare nel caregiver una reazione aggressiva. Una donna faceva notare che il marito ripete una stessa frase tutto il giorno, non smette mai, che non riesce mai a rispondere in modo adeguato alle richieste della moglie; questa condizione genera esasperazione e l’esasperazione genera un senso di colpa non facilmente sopibile. Ugualmente questo capita quando si sente che “bisogna” fare alcune cose, anche quando la vita richiede altri impegni. Il caregiver si trova a correre da una parte all’altra e sente di non essere in grado di reggere allo stress, vorrebbe fermarsi, ma questo solo pensiero genera il senso di colpa perché non si è risposto appieno ai compiti prefissati. Altre condizioni possono portare al senso di colpa: per esempio, quando si assiste, senza poter fare nulla, alla totale perdita della personalità, alla eliminazione di ogni possibile e credibile inibizione – ricordo la telefonata di una signora che tra le lacrime confessa che il padre lancia le feci dalla finestra – e allora scatta la domanda sul senso reale di questa malattia e su quello che il malato vive e si pensa alla morte, come unico rimedio a una tragedia impensabile 15 (anche se dall’inchiesta già citata, è emerso che solo raramente il caregiver pensa alla soluzione “morte”). La rabbia e il senso di colpa vengono anche quando si cerca di fare tutto, ma proprio tutto al posto del malato. Si ha paura che lui non sia in grado di gestire la realtà e lo si sostituisce, così almeno le cose vengono fatte e non bisogna ripetere e stare attenti. Ma anche così facendo la situazione non migliora, anzi, sembra che giorno dopo giorno la volontà di fare del malato si indebolisca, che si richiuda in una realtà del tutto distante, che i rapporti con gli altri si affievoliscano. Così le domande usuali – dove e in che cosa ho sbagliato? – così la rabbia e il senso di colpa, perché nonostante tutto, ma proprio tutto, nulla migliora. Bisogna entrare ancor più nella malattia. Il caregiver deve ancora fare un tratto di cammino, accettare che non sia l’ansia a motivare il troppo fare inconcludente e che non ci siano troppa frustrazione e troppa rabbia. Perché va tutto storto, mentre la fatica aumenta e il peso delle nostre contraddizioni ci porta a non vedere con chiarezza i fatti. Una signora era affranta dal comportamento che teneva nei confronti del marito demente che la voleva seguire sempre, che non poteva stare da solo mentre lei avrebbe gradito alcune ore di tranquillità, lontana da casa, a fare ciò che le piaceva, insieme alle sue amiche. Lei comprendeva in quei momenti, quando chiedeva di essere lasciata in pace per poche ore, di essere molto ambigua. Da un lato l’affetto grande per quell’adulto, che sembrava un bambino alla ricerca della mano della mamma e che non voleva stare da solo, ma dall’altro una gran rabbia, una collera incredibile perché lui settantenne, da quarant’anni circa con lei, non riusciva proprio a capire che lei aveva bisogno di quelle poche ore di libertà. Ma quel marito dallo sguardo perso era, per caso, anche un motivo di vergogna? Anche questo sentimento è presente e condiziona il comportamento del caregiver e la vita del malato. Come non comprendere che i rapporti sociali e in genere la vita che una famiglia conduce ha delle regole che difficilmente possono essere modificate; regole che possono esigere comportamenti adeguati a quelli che sono i canoni dell’ambiente in cui si vive. Vergogna per come il malato si comporta, vergogna che non si riesce a superare, perché non si può parlare con 16 La vergogna gli altri – i “normali” – di questa malattia. Ricordo una giovane donna La scelta della fuga raccontarmi di comportamenti impensabili del suocero: quando qualcuno entrava in casa lui si presentava sulla porta e, scattando sull’attenti in una rigida parodia di situazione militare, salutava tutti con un “buonasera signor generale”. Non molto tempo dopo, ho saputo che quel saluto era ripetuto all’infinito in una casa di riposo. È possibile che un individuo, preso dallo sconforto, decida di fuggire dalla condizione imposta o scelta, sperando di sottrarsi al fardello delle responsabilità psicologiche che il tempo della malattia inevitabilmente provoca. La fuga – anche se appare modalità semplice ed egoistica di deresponsabilizzazione – prendendo le distanze dal malato, comporta una presa di distanza emotiva, la rinuncia a vivere una parte della propria vita affettiva, negando un’esperienza che per quanto dolorosa comporta nuovi contenuti emozionali e la scoperta di tante nuove risorse. La fuga è accompagnata da un grande senso di colpa e da un acuto rimorso che difficilmente vengono compensati dal senso di liberazione dall’affanno della malattia. Il sollievo della fuga è solo apparente: coloro che rimangono coinvolti nella cura si sentiranno traditi e abbandonati senza qualcuno con il quale condividere questo inaspettato viaggio. Questi sono sicuramente amareggiati, si sentono traditi e abbandonati, senza un compagno con il quale condividere questo incredibile viaggio. Fare proposte al “fuggitivo” per continuare a essere utile alla famiglia e al malato sposta l’attenzione dal malato al caregiver cercando il recupero di chi si è allontanato, senza che il senso di colpevolizzazione per aver abbandonato il malato diventi l’elemento dominante del nuovo rapporto. Così facendo forse sarà possibile non rimuginare in solitudine sul disaccordo. Ma in qualunque caso la soluzione di questi avvenimenti è molto dolorosa e spesso comporta un allontanamento definitivo dei familiari. Come si comprende facilmente, la malattia e gli aspetti psicologici delle persone vicine al malato possono facilmente generare tensioni e conflitti. Le condizioni di malessere sono rivolte spesso alle strutture assistenziali. Alcune delle prestazioni ricevute o atteggiamenti non compresi del personale possono generare conflitti con il caregiver, situazioni non chiarite che spesso comportano 17 I conflitti dei caregivers l’allontanamento dalla struttura. Sovente i malati vengono “sballottati” da una struttura a un’altra senza un reale motivo. La soluzione è alla portata di tutti e consiste in una maggiore disponibilità del personale assistenziale a chiarire fino - con le strutture sanitarie - con i familiari in fondo con il caregiver le problematiche legate alla malattia, fornendo le indicazioni generali sulla patologia in atto, suggerendo luoghi e persone con cui entrare in contatto o, se possibile, fornire corsi di aggiornamento e momenti di confronto con i familiari. Ci rendiamo conto che tali proposte nell’organizzazione sanitaria del nostro paese sono poco realizzabili. Un medico che presta la sua attività in un ambulatorio si sentirà molto più gratificato a fare “diagnosi e terapia” piuttosto che a fare il consulente dei familiari; molti sanitari penseranno che questo è un compito di un altro tipo di personale assistenziale o delle associazioni dei malati. Tutto questo è sicuramente vero, ma è anche vero che è proprio al sanitario che fa la diagnosi che le persone chiedono un rapporto umano, un vero aiuto, una capacità di “consulenza”, un rapporto non chiuso alla cruda realtà della “diagnosi di malattia”. Ma forse questo è un modo di pensare alla medicina che poco si addice a quanto oggi avviene nel nostro paese, dove è permesso che la medicina privata si mescoli in modo provocatorio a quella pubblica, dove è consentito al medico di esercitare a pagamento nelle strutture pubbliche, allargando così a dismisura il concetto di una cultura mercantile che ha trasformato, purtroppo per molti, il tempo in denaro e il tempo può solo servire a “visitare” i malati. Esistono situazioni conflittuali anche con gli altri membri della famiglia che non aiutano, che non comprendono o non valutano nella dovuta maniera gli sforzi fatti dal caregiver. Conflitti si aprono con le persone che più condividono l’esperienza del caregiver, ad esempio con il coniuge che può non comprendere come e perché la persona che gli è vicino appaia sempre stanca, depressa, che non ha mai tempo per nulla e che pensa solo al malato. Il caregiver così entra in conflitto con se stesso, perché si trova sempre davanti a un bivio. Il caregiver deve scegliere tra la necessità di assistere e accudire nel modo migliore possibile il malato e la necessità di non trascurare gli altri membri della famiglia; tra tempo da dedicare al lavoro – che pure è fonte di soddisfazione e piacere – e tempo da dedicare al malato; oppure tra il continuare a prestare le cure al malato e trovare 18 il desiderio di recuperare spazi per sé stessi, per la propria vita, per il proprio piacere. Non riuscire a trovare modalità soddisfacenti per “ricavare gli spazi della propria vita” è una situazione svantaggiosa sia per il caregiver che per il malato: il primo si carica di rancore, di dubbi sul proprio ruolo, di sensi di colpa, invece di comprendere l’importanza e l’assoluta necessità di riappropriarsi, per quanto possibile, di una parte del tempo della vita. È indispensabile. Non è egoismo ma necessità, perché ridando spazio alle proprie esigenze di vita si possono ricaricare le energie da dedicare al malato e il tempo che trascorrerà vicino a lui sarà un tempo del tutto nuovo, un tempo scelto, desiderato, frutto di una razionalizzazione delle necessità di tutti. Come non vedere la tristezza di un’assistenza carica di tensioni, dove la mente del caregiver è impegnata dai pensieri del quotidiano che non dà tregua e incalza costantemente; dove si è infastiditi per essere vicini al malato spinti dal senso del dovere, dove il peso dell’assistenza è assolutamente soffocante, ma se per caso facciamo un piccolo ritardo ci sentiamo colpevoli per non aver rispettato l’impegno preso. È così che anche il malato diventa motivo di conflitto quando vecchi rancori, incomprensioni e altri sentimenti non positivi, che spesso la vita porta nelle - con il malato famiglie, ritornano prepotentemente a galla. Perché la demenza, oltre alla perdita dell’autosufficienza, conduce a una trasformazione tale del normale sentire, che le cose più impensabili diventano quasi “naturali” per il malato . Il caregiver può non sopportare più, può giungere all’abbandono del malato o, all’opposto, tentare tutto il pensabile per soffocare la rabbia che ha dentro. Come superare queste condizioni di conflitto? Dobbiamo cercare essenzialmente di entrare nella fase di gestione del razionale. Se un nostro parente non si comporta nei confronti del malato come si vorrebbe e se tutto questo genera conflitti e rabbia, ci si dovrebbe chiedere se è proprio vero che gli altri possono fare tutto come facciamo noi, o addirittura sostituirsi a noi. E dovremmo capire che questo è veramente impossibile. La modalità con cui gli altri si pongono nei confronti del malato è l’oggettivazione di quanto gli esseri umani siano diversi nel fare e nel sentire. Non è giustificato insistere nell’errore; si dovrebbe trovare la giusta modalità per un confronto chiarificatore, far comprendere agli altri ed elaborare noi stessi che quello che avremmo voluto 19 La depressione del caregiver che gli altri facessero non lo si è mai chiaramente esplicitato e che non è una colpa sentire e vivere la malattia di un parente con modalità molto diverse. Se questo è sostenibile, allora ne consegue che alcuni atteggiamenti del caregiver necessitano di essere ripensati. Un errore molto grave del caregiver – per se stesso, per il malato e per l’intero mondo intorno – è rinchiudere l’esistenza alla sola attività di cura. Credo che solo in casi del tutto eccezionali questa condizione non comporti una sofferenza così elevata e destinata prima o poi a trasformarsi in una vera e propria patologia. Non solo per questa ragione, ovviamente, ma è noto che il 30-40% dei caregiver soffre di depressione, disturbi del sonno, modificazioni nell’alimentazione tali da condurlo a dover ricorrere all’aiuto di un medico e ad assumere psicofarmaci (Beeson,6 2003). Uno studio americano abbastanza recente, che conferma molte delle cose suddette, ha valutato le caratteristiche del paziente e del caregiver per ipotizzare l’eventuale depressione dei caregivers. Le caratteristiche del malato sono l’età piuttosto giovane e la gravità della malattia (ad esempio i disturbi comportamentali, tra questi l’aggressività, incidono di più dei disturbi cognitivi); nel caregiver potenzialmente depresso troviamo un basso reddito economico, la relazione stretta con il paziente (moglie o figlia), l’elevato numero di ore dedicate alla cura e la condizione fisica non buona del caregiver stesso. È evidente quindi che la depressione del caregiver è motivata non solo da caratteristiche legate alla malattia, ma anche a condizioni proprie della persona che assiste, per cui è necessario trovare modalità di riposte che sappiano tener conto di questa realtà multifattoriale e non credere che la sola risposta medicalizzata sia in grado di risolvere il problema (Covinsky KE., 2003). 7 6 . Beeson R.A, Loneliness and Depression in spousal Caregivers of Those With Alzheimer’s Disease Versus Non – Caregiving Spouses Electronic Version , in Archives of Psychiatric Nursing, n. 17 , pp. 135-143, 2003. 7 Covinsky KE., Newcomer R., Fox P., Wood J., Sands L., Dane K. & Yaffe K., Patient and Caregiver Characterisctics Associated with Depression in Caregivers of Patients with Dementia Electronic Version, in Journal of General Internal Medicine, n. 18, pp. 1006-1014, 2003. 20 Aiutare il caregiver Innanzitutto facendo cultura, perché solo l’informazione corretta potrà portare i familiari ad un consapevole ruolo di cura. In secondo luogo alcune semplici raccomandazioni: di fronte ai disturbi della memoria sarebbe meglio fornire le informazioni, evitando richiami a fatti o cose Non sollecitare la memoria dimenticate. Rispetto ai problemi di linguaggio bisognerebbe cercare di comprendere il senso del discorso, anche se le parole sono inesatte, rispondere alle domande, anche a quelle ripetitive e cercare di continuare a parlare con il malato. Per quanto concerne i problemi di comprensione degli stimoli e in genere dell’ambiente, sarebbe meglio sostituirsi a lui nel fare le cose solo quando è davvero inevitabile. Se si aiuta il malto a fare alcune azioni, bisogna ricordarsi che c’è bisogno di molta sensibilità, i gesti devono essere semplici. Se possibile, sarebbe bene adattare la casa alle possibilità residue del malato. Quando compaiono le difficoltà con l’utilizzo di oggetti di uso comune, come il pettine, conviene rimuoverli perché non essendo più riconosciuti porterebbero al malato solo ansia. Quando non vengono riconosciute cose o persone è del tutto inutile cercare di “far ragionare” il malato; la logica non è nel suo mondo e sono i “normali” che si devono adattare. L’attenzione del malato è molto limitata e serve a fare poco e una cosa sola alla volta quindi mai chiedere più cose contemporaneamente, mai proporre compiti complessi o così difficili che porteranno il malato a comprendere la sua incapacità e quindi sofferenza per la frustrazione conseguente. Bisogna sempre ricordare che un sintomo centrale della malattia è la confusione. Anche se “i normali” vanno in confusione quando il carico a cui sottoponiamo la mente è eccessivo, il malato molto spesso è confuso perché non riesce a percepire correttamente l’ambiente che lo circonda. La reazione normale a questo stato di cose è la più varia: i malati possono urlare, diventare aggressivi, fuggire, mettersi a vagabondare senza una vera meta. È importante verificare l’ambiente di vita, per esempio se è troppo carico di stimoli, troppi rumori, troppe luci o troppa gente. A volte la confusione del malato può essere segno di qualcosa che non funziona come un improvviso dolore fisico. Bisogna riconoscere la gestualità che si accompagna alla confusione 21 Fare gesti semplici (sguardi in più direzioni, camminare in tondo senza fermarsi, afferrare e lasciare oggetti diversi); bisogna allora fermarsi, provare a distrarre il malato, Distrarre il malato in confusione comprendere se è veramente pronto e disponibile a fare quello che gli si chiede, aiutarlo perché si senta a proprio agio, rispettarne i tempi e i modi, farsi vedere bene quando ci si avvicina e fare tutto con grande. Più drammatici appaiono i disturbi comportamentali quali il vagabondaggio e l’affaccendamento inoperoso (gesti ripetitivi senza alcuna finalità). A fronte di Ambiente sicuro e attività manuali semplici e gratificanti questo occorre ricordarsi che i gesti possono essere legati ad azioni del passato e non a condizioni del presente, Permettiamo al malato di camminare e muoversi liberamente in un ambiente il più possibile sicuro, proponiamogli attività di tipo manuale che richiedano uno sforzo minimo e che possano dare anche una minima gratificazione. La condizione del delirio è spesso molto complessa da essere compresa e gestita dal caregiver, perché il malato può credere di essere derubato dallo stesso, di essere abbandonato dalle persone care, di voler tornare alla propria casa natale, di essere tradito sessualmente. Si dovrebbe cercare di non smentire il malato, di parlare con lui in maniera chiara e rassicurante per evitare che si isoli, cercare di sviare la sua attenzione verso stimoli diversi e capaci di fermare le idee deliranti. Se il malato non riuscisse a stare fermo, continuasse a chiedere di qualcuno che deve arrivare, bisognerebbe cercare di comprendere quali possano essere le cause, parlare con calma, rassicurarlo. Mi rendo perfettamente conto di quanto questi suggerimenti non siano sempre praticabili. Penso, per esempio, all’aggressività che si esprime con insulti, parolacce, bestemmie, pugni, graffi, morsi e che noi interpretiamo come una reazione difensiva verso qualcosa che è sentito dal malato come una minaccia, come quando si pretende che si lavi (anche se aiutato) o si vesta. Il caregiver dovrebbe essere in grado di ridurre al minimo le situazioni a rischio, sviare l'attenzione per prevenire l’aggressività ma se questa insorge proporre le cose con calma, cambiare l'interlocutore o aspettare un momento più propizio e non sgridare il malato. Tutto ciò non sempre riesce ed è questa una condizione di grande imbarazzo e di scelte molto radicali, come l’istituzionalizzazione. 22 Il delirio Come si arriva all’istituzionalizzazione Tra le tante possibilità di intervento nei confronti del caregiver e della sua depressione dobbiamo citare quella che cerca di rompere il meccanismo che porta il caregiver a ritenersi perno centrale della cura del malato, a credere il proprio ruolo indispensabile e insostituibile. Il tempo della malattia è troppo lungo e tutti devono poter avere, almeno a un certo punto del cammino terapeutico, delle pause. Il malato deve avere più gestori e se questi non sono presenti nella famiglia allora è necessario trovarli fuori. Tra questi assumono un ruolo fondamentale i Servizi di Assistenza Domiciliare, i Centri Diurni, e forse in alcuni casi i Ricoveri di Sollievo. Una recensione da parte del gruppo “Cochrane Dementia and Cognitive Improvement Group” dei lavori presenti in letteratura ha portato alla conclusione – non definitiva perché gli studi sono pochi ed eterogenei – che le evidenze a disposizione non dimostrano alcun effetto benefico – ma neanche un effetto avverso – del ricorso ai Ricoveri di Sollievo sia per il malato che per il caregiver. Tuttavia gli autori sottolineano la necessità di affrontare il tema con una ricerca strutturata e scientificamente adeguata. Nell’attesa di queste evidenze scientifiche il caregiver vicino all’esaurimento di “energie” deve ricorrere all’aiuto esterno. Rivolgersi a una entità istituzionale (assistenti sociali) o ad una associazione di familiari non equivale a tentare di scaricare il malato, ma al contrario significa tentare nuove strategie, per consentire – se ancora possibile – la permanenza del malato nella sua casa. Il problema centrale delle demenze è il loro carattere “progressivo”: la malattia più o meno lentamente progredisce, le modalità di reazione - e in genere tutto il comportamento del malato – si modificano. Anche nei momenti di discussione dei gruppi di aiuto è difficile riuscire a trasmettere ciò che accade al malato. La perdita progressiva della memoria cancella le facce e gli ambienti. Il malato non riconosce più i familiari e il mondo che lo circonda, così il caregiver non riconosce nel malato la persona conosciuta; se non accetta che la causa di tutto questo è la malattia, si troverà a soffrire, perché privato del rapporto con il malato e di tutta la sua storia di affetti. In queste condizioni il tempo segna solo successive “perdite”: facce, ambienti, parole. Il malato necessita di cure sempre maggiori, le preoccupazioni per il caregiver aumentano, per la salute, per il 23 Il ricovero tempo, per le spese, per gli aiuti ormai indispensabili. I deliri e le allucinazioni insieme a un vagabondare senza senso, l’aggressività – se non la vera e propria violenza, a volte assolutamente ingiustificato – rendono la vita così difficile che, dopo aver chiesto aiuto disperatamente al medico - “non ce la faccio più”, “lei mi deve aiutare”, “ci deve essere qualcosa da dargli perché si calmi” - dopo che le medicine non fanno più nulla, anche il migliore dei caregiver può convincersi che è giunto il momento dell’istituzionalizzazione, del ricovero in una struttura dove saranno altri a prendersi l’onere di assistere il malato in questa ultima parte del viaggio. È una decisione difficile e sofferta, vissuta dalla famiglia e dal caregiver come l’evento più significativo nel percorso di cura iniziato molti anni prima. È un evento traumatico nella storia relazionale con il malato. Il caregiver, improvvisamente privato del suo ruolo assistenziale, decisionale e di tutore, rischia di riaffacciarsi alla vita senza essere preparato: ennesima violenza con cui fare i conti, mentre perde il suo ruolo di primo attore nella gestione dei bisogni e nelle scelte per il malato. Da quel momento può solo accettare e condividere le decisioni prese da altri. Può allora credere che le persone che si prendono cura del malato non siano adeguate, che le cure che riceveva prima fossero migliori e questo rende conflittuale il rapporto tra lui e la nuova condizione del malato. Ovviamente possono essere sempre gli aiuti esterni che aiutano a modificare tali atteggiamenti, prima che il caregiver si immetta in un cammino di stress, di sensi di colpa sempre maggiori e di profonda depressione. Di nuovo il medico che ha seguito il malato potrebbe rappresentare l’“ancora”; potrebbe essere colui che chiarisce il problema, che delimita le responsabilità di questa operazione e che permette la “metabolizzazione del lutto”. Il medico potrebbe essere anche colui che aiuta il caregiver a non sviluppare una relazione conflittuale con il personale infermieristico e con il resto dell'équipe. L’istituzionalizzazione può invece costituire in altri casi una sorta di liberazione. Ricordo la frase “O lui – il malato – o me” come segno di un traguardo, di un limite che si è raggiunto, la necessità di recuperare lo spazio esterno alla casa che era diventato come una “tomba”. “Io sono ancora troppo giovane”: non contano l’età, ma la qualità e la quantità di tempo trascorso accanto a quella persona che ora è ancora più lontana con i suoi urli, le 24 bestemmie, o la identica parola e frase ripetuta all’infinito. Un dolore per l’impossibilità di modificare la situazione che rende la vita un inferno che “se non l’hai vissuto non lo puoi capire”. Allora viene il momento in cui chi può, chi ne ha autorità morale e culturale deve aiutare a far sì che il caregiver accetti la necessità della delega, accetti l’idea che la vita deve continuare e che la famiglia non è più il luogo in cui si possa gestire un malato tanto complesso e stressante. A questo punto, spero sia chiaro che, lungo il percorso della malattia e del caregiving, sono necessari uno o più operatori socio sanitari. È altrettanto indispensabile un luogo di ascolto per le famiglie, dove l’incontro possa sostituirsi alla solitudine, dove la persona che ascolta possa davvero comprendere i bisogni reali che non sempre trovano spazio nelle parole, ma in tutte quelle forme di comunicazione che gli esseri umani praticano anche inconsciamente. È un posto ancora da costruire, ma di cui, sono certo, molti sentono il bisogno. Il malato e il caregiver non hanno bisogno di giudizi in cui si espliciti la ragione o il torto di uno o dell’altro o chi fa bene e chi fa male, hanno bisogno di operatori qualificati in grado di valutare la situazione del malato e del caregiver, di comprendere i punti di forza e le criticità. Anche quando non si conoscono a fondo la storia e i vissuti dei partecipanti, si deve collaborare con loro per trovare possibili strategie che diano forza. Questo parlare e ascoltare, tentare di condividere, può essere fondamentale nelle fasi iniziali della malattia. Le persone sono molto più disorientate di quello che appaiono, hanno bisogno di un grande aiuto, non hanno esperienze o ricordi a cui attingere e devono quindi imparare. Spesso sono proprio le strategie di intervento inadeguate o sbagliate che rendono ancora più difficile la strada dell’assistenza: aiutare a modificare le strategie e a definire quelle più adeguate è quanto si potrebbe chiedere a un operatore che deve rimanere in prima linea dando suggerimenti in moltissimi ambiti, ad esempio come riorganizzare l’ambiente per renderlo idoneo alla condizioni del paziente, come gestire alcuni strumenti (telefono, televisione), come usufruire della rete dei servizi. Tutto questo è alla base di una corretta informazione che poi è quello che ormai, quasi sempre dopo i primi colloqui, ci chiedono le persone che entrano in contatto con noi. Adesso definiamo alcuni concetti sulle demenze. I caregiver 25 Luoghi di ascolto per le famiglie devono infatti poter riconoscere i “segni” della malattia, identificare le cause dei comportamenti del malato, capire che cosa realmente accade nel cervello per poter meglio dominare l’insieme delle situazioni familiari. L’informazione e la conoscenza portano le persone a trovare meccanismi di difesa più funzionali, ottenendo così anche un discreto controllo delle emozioni. Sapere infatti che l’alternanza tra la lucidità e la confusione sono frutto della malattia e non di cattiveria o dispetto aiuta il caregiver a razionalizzare la situazione e a relazionarsi meglio col malato. Il caregiver impara così ad attribuire la responsabilità del gesto bizzarro alla malattia e non al malato evitando l’inutile rimprovero cui seguirebbe il senso di colpa. 26 PARTE II Di seguito si riassumono le informazioni che la ricerca scientifica mette a disposizione sulla Malattia di Alzheimer e sulle altre le altre malattie che causano demenza. Le demenze e le malattie che ne sono la causa Se ci si domanda da dove debba mai cominciare l’informazione, direi che definire i termini potrebbe servire almeno a fare chiarezza. Per demenza s’intende la compromissione globale delle funzioni cerebrali Cos’è la demenza superiori – ivi comprese la memoria, la capacità di far fronte alle richieste del vivere quotidiano e di svolgere le prestazioni percettive e motorie già acquisite in precedenza, di mantenere un comportamento sociale adeguato alle circostanze e di controllare le proprie reazioni emotive – in assenza di compromissione dello stato di vigilanza. Questa condizione diventa con il tempo tanto severa e invalidante che porta la persona ammalata a non essere più in grado di svolgere in maniera adeguata le attività tipiche del normale vivere – dal preparare il cibo ad avere cura della propria persona – e quindi altri devono prendersi cura di lei. La demenza quindi è un insieme di sintomi. Possiamo paragonare la demenza alla febbre: un rialzo della temperatura indica solo che una persona non è in piena salute, ma non dà nessuna informazione sulla causa del disturbo che ha generato la febbre. La demenza indica che lo stato della mente – del cognitivismo – di una persona è alterato, ma non dà alcuna informazione sulle cause che determinano tale disturbo. La demenza non è una malattia, ma è la presentazione clinica di una malattia che ne è alla base. Molte sono le malattie che possono causare la demenza; alcune reversibili come l’ipotiroidismo e alcune condizioni di mancanza di vitamine. L’ipotiroidismo – molto più presente nelle donne – si realizza con una marcata riduzione dei livelli ematici di triodotironina T3 e tiroxina T4 dovuta a differenti cause, nella maggioranza dei casi per un aumento dei livelli di TSH, ormone stimolante la tiroide. Mentre negli anni passati la condizione patologica era legata alla mancanza di iodio – assunto con gli alimenti – oggi il più delle volte è chiamato in 27 L’ipotiroidismo causa il trattamento medico degli stati di ipertiroidismo. In sintesi questa forma di demenza – dovuta al rallentamento dei processi metabolici in tutto il corpo e quindi anche nel cervello – è quella che si osserva nelle persone sui 40-50 anni che hanno il gozzo e un aspetto particolare: il volto inespressivo, di bassa statura e obese, insofferenti al freddo; inoltre, si riscontrano mancanza di forza, sonnolenza, rallentamento dell’eloquio, disturbi della memoria più o meno marcati. Questa particolare forma di demenza può ovviamente essere risolta se si accerta la causa: la riduzione degli ormoni tiroidei, i quali possono essere introdotti nell’organismo con una terapia sostitutiva. Purtroppo il più delle volte la demenza è dovuta a malattie degenerative del cervello. Queste malattie al momento non hanno una cura per cui si definiscono croniche e ingravescenti nel tempo. Sulla base di tale definizione – formulata nel 1982 dal Royal College of Physicians, UK – sono state individuate diverse forme di demenza, suddivise in alcuni grandi gruppi. 1. Il 15% circa è costituito dalle demenze cosiddette secondarie con cause infettive, metaboliche, psichiatriche o generate da processi espansivi endocranici o da idrocefalo normoteso. 2. Un altro 15% circa è costituito dalle demenze vascolari, derivanti cioè da uno o più infarti cerebrali. 3. Il 70% circa è quello relativo alle demenze degenerative primarie, causate da lesioni degenerative a carico di un numero rilevante di cellule in diverse aree cerebrali. In questo ultimo gruppo vi è la Malattia di Alzheimer (MA), che da sola costituisce circa il 60% di tutte le forme di demenza. Le altre forme degenerative comprendono diverse forme di degenerazione fronto-temporali, le demenze con “corpi di Lewy”, le demenze nella malattia di Parkinson, le demenze nella paralisi sopranucleare progressiva, le demenze nella degenerazione cortico-basale, le demenze nella malattia di Huntington, le demenze nelle malattie da prioni, rare e comunemente denominate “da mucca pazza”. È chiaro che anche se al momento attuale avere tutte queste classificazioni non ha grande importanza ai fini pratici, in quanto non si hanno a disposizione farmaci in grado di fermare o rallentare la malattia, quando – e si spera presto – i farmaci ci saranno, sarà sicuramente 28 Le malattie degenerative del cervello della massima importanza conoscere in maniera sicura il processo patologico che conduce alla demenza; sembra infatti probabile che i farmaci saranno specifici per le singole forme morbose. Nuovi criteri diagnosti. Nell’Aprile 2011 è stato pubblicato un lavoro scientifico in cui si annuncia che dopo ben 27 anni l’aggiornamento dei criteri per la diagnosi clinica della malattia di Alzheimer che risalivano al 1984 (McKhann 1984).8 Da tempo molte delle persone addentro ai problemi delle demenze chiedevano una revisione dei criteri diagnostici in quanto le conoscenze che si erano accumulate negli anni esigevano una rinnovata capacità diagnostica. Un gruppo di esperti aveva avanzato, su di una prestigiosa rivista medica, una proposta perché era ormai chiaro che la malattia iniziava decine di anni prima della comparsa dei sintomi clinici (Dubois B., 2010). 9 In estrema sintesi si proponeva di abolire il concetto che vedeva la malattia di Alzheimer definita come una duplice entità clinico-patologica per cui la diagnosi necessitava di un cattivo funzionamento di almeno due diverse funzioni cognitive con compromissione delle attività della vita quotidiana (demenza) e di specifici cambiamenti neuropatologici, le matasse neurofibrillari, le placche senili, l’atrofia cerebrale e la perdita sinaptica; questo comportava la diagnosi a malattia conclamata e in stadi avanzati, impediva la diagnosi della malattia “in vivo”, che veniva quindi definita solo “probabile”. Dubois e colleghi proponevano invece di definire la Malattia di Alzheimer solo sul piano clinico e sintomatologico (escludendo cioè quello anatomopatologico) e di includere sia la fase di predemenza che quella di demenza, questo grazie anche alla possibilità di utilizzare dei marcatori biologici 8 McKhann GM., Knopman DS., Chertkow H., Hyman BT., Jack CR. Jr., Kawas CH., Klunk WE., Koroschetz WJ., Manly JJ., Mayeux R., Mohs RC., Morris JC., Rossor MN., Scheltens P., Carillo MC., Thies B., Weintraub S., Phelps CH., The diagnosis of dementia due to Alzheimer’s disease. Recommendations from the Natinal Institute on Aging e The Alzheimer’s Association workgroup. Alzheimers Dement, 20 Aprile 2011. Epub ahead of print; McKhann GM. et al., Clinical diagnosis of Alzheimer’s disease: report of the NINCDS-ADRDA Work Group under the auspices of Department of Health and Human Services Task Force on Alzheimer’Disease, in Neurology, n. 34, pp. 939-944, 1984. 9 Dubois B., H. H. Feldman, C. Jacova, J.L. Cummings, S.T. DeKosky, P. Barberger-Gateau, A. Delacourte, G. Frisoni, N.C. Fox, D. Galasko, S. Gauthier, H. Hampel, G.A. Jicha, K. Meguro, J. O’Brien, Florence Pasquier, P. Robert, M. Rossor, S. Salloway, M. Sarazin, L.C. de Souza, Y. Stern, P.J. Visser, P. Scheltens., Revising the definition of Alzheimer’s disease: a new lexicon, in Lancet Neurol, n. 9, pp. 1118–1127, 2010. 29 L’aggiornamento dei criteri per la diagnosi clinica che permettono la diagnosi in vivo (se ovviamente sono presenti i disturbi cognitivi). I marcatori biologici ritenuti più validi sono: i livelli nel liquido cefalo rachidiano di beta amiloide, di proteina tau totale e della sua frazione fosforilata; la presenza di depositi cerebrali di beta amiloide evidenziati da specifici traccianti con l’esame PET; l’atrofia del lobo temporale mediale evidenziato con la risonanza magnetica; ipometabolismo temporale e/o parietale evidenziato con il tracciante PET fluorodesossiglucosio. Inoltre avanzavano la possibilità di considerare una fase preclinica e/o prodromica oltre alla condizione di malattia di Alzheimer manifesta. Infine fu proposto di tenere in considerazione la condizione di decadimento cognitivo tale da non presentare ancora l’impedimento alle attività della vita quotidiana – Mild Cognitive Impairment, MCI, decadimento cognitivo lieve – caratterizzata essenzialmente da un disturbo di memoria isolato con alto rischio di eventi avversi, la progressione in demenza e mortalità. Si stima che fra il 30 e il 70% degli ultra75enni ne sia affetta. Il disturbo cognitivo lieve è una delle condizioni che pone i soggetti a maggior rischio di sviluppare demenza. Clinicamente i disturbi cognitivi lievi presentano aspetti cognitivi al limite tra l’invecchiamento normale e la compromissione di tipo Alzheimer. La Malattia di Alzheimer La condizione sociale. Nei paesi sviluppati una speranza di vita elevata ha sempre rappresentato un obiettivo fondamentale, progressivamente conquistato grazie sia al miglioramento delle condizioni di vita – alimentazione, igiene, ambienti di lavoro – sia alla possibilità di accedere a presidi sanitari di qualità a partire dall'infanzia. Questo ha reso possibile il raggiungimento di un'età avanzata da parte di una considerevole quota di popolazione. Negli ultimi venti anni si è verificata una nuova realtà. A determinare l’allungamento dell’aspettativa di vita sono, almeno nei paesi a economia avanzata, le decadi più anziane. Per questo, il progressivo invecchiamento della popolazione ha portato a una incidenza sempre maggiore di malattie degenerative, cerebrali e non. Oggi, l'obiettivo non può più essere solo quello di conquistare altri anni di vita, ma anche quello di consentire che gli anni guadagnati siano vissuti in maniera dignitosa e proficua. 30 L’aumento della vita media Una ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista “Lancet” ci dà un quadro 10 aggiornato del problema (Jagger C., 2008). Gli autori puntano l’attenzione sulle L’aspettativa di vita in salute differenze nell’aspettativa di vita in salute (AVS) tra le 25 nazioni europee. Il divario constatato è impressionante: l’AVS per gli ultracinquantenni maschi danesi è di 23,6 anni mentre per gli estoni di 9,1 anni. L’Italia si colloca tra i primi posti. Per i maschi italiani l'aspettativa di vita è di 80,4 anni, e l’AVS è, dopo i 50 anni, di 20.6 anni; per le donne l'aspettativa di vita è di 85,3 anni e l’AVS, dopo i 50, di 20,86 anni. Tornando allo specifico dell’Alzheimer nel nostro paese, i dati più recenti parlano di circa 1 milione di persone con MA – circa 30-40.000 già accertati in Liguria, regione in cui la presenza di ultrasessantacinquenni è decisamente superiore alla media nazionale – e la sua prevalenza può essere stimata in circa il 3% delle persone – maschi e femmine – di età compresa tra i 65 ed I 75 anni. La percentuale delle persone colpite dalla MA sale a circa il 50% se si considerano coloro che hanno più di 85 anni d’età (The Italian Longitudinal Study on Aging., 1997).11 I dati previsionali informano di un forte ridimensionamento delle classi d’età adulte, ovvero quelle proprie dei potenziali caregivers, con conseguente necessità di prefigurare anche possibili figure alternative con le quali poter almeno condividere il carico assistenziale. Il problema, già oggi molto grave, si presenta quindi come esplosivo per i prossimi decenni – si presumono 115 milioni di malati nel mondo nel 2050 – e richiede la progettazione di interventi mirati non solo alla cura in senso stretto, bensì anche al sostegno delle reti informali che erogano assistenza. La malattia di Alzheimer è sicuramente quella che occupa il primo posto tra tutte le possibili cause di demenza e rappresenta fino al 60% di tutte le forme di malattie con demenza. Il Dott. Alois Alzheimer. La malattia deve il nome al medico Alois Alzheimer, figlio del notaio Eduard, nato il 14 giugno 1864 nella piccola città bavarese di 10 Jagger C., Gillies C., Moscone F., Cambois E., Van Oyen H., Nusselder W., Robine J-M and the EHLEIS team, Inequalities in healthy life years in the 25 countries of the European Union in 2005: a cross-national meta-regression. Analysis, in Lancet, n.372, pp. 2124–2131, 2008. 11 The Italian Longitudinal Study on Aging. Prevalence of chronic disease in older Italians: comparing self-reported and clinical diagnoses., in Int J Epidemiol, n. 26, pp. 995-1002, 1997. 31 La scoperta di Alzheimer Marktbreit. Alois frequentò diverse Università, Aschaffenburg, Tübingen, Berlino, e Würzburg, dove nel 1887 ottenne la Laurea in Medicina e nello stesso anno discusse la tesi del suo dottorato: "Über die Ohrenschemalzdrnsen" (trad. “Sulle ghiandole ceruminose”), frutto del lavoro sperimentale condotto presso il laboratorio del massimo istologo dell'epoca, Rudolf Albert von Kölliker. L'anno successivo iniziò a lavorare presso Städtischen Heilanstalt für Irre und Epileptische di Francoforte sul Meno, luogo gestito dallo stato dove erano ricoverate persone con malattie mentali. Qui iniziò a studiare la psichiatria dedicandosi a quello che sarebbe poi stato il suo massimo interesse, la neuropatologia. Fondamentale l’incontro con il celebre neurologo Franz Nissl, trasferito presso lo stesso istituto. I due, insieme, si dedicarono allo studio del sistema nervoso, in particolare all'anatomia patologica della corteccia cerebrale e diedero alle stampe il prodotto della loro ricerca, il monumentale "Histologische und histopatologische Arbeiten über die Grosshirnrinde" (trad. “Studi patologici e istopatologici della corteccia cerebrale”). Nissl si trasferì poi a Heidelberg e Alzheimer fu nominato direttore della Clinica Psichiatrica. Qui rimase fino al 1895 quando Emil Kraepelin – luminare della psichiatria noto per il suo tentativo di classificare tutte le forme di malattia mentale conosciute al tempo – lo chiamò a Heidelberg, dove lavorò ancora con Nissl. Nel 1903 Kraepelin e Alzheimer si trasferirono a Monaco, nella clinica psichiatrica universitaria. Qui Alzheimer, nel novembre del 1906, descrisse "una rara malattia della corteccia cerebrale", basandosi sugli studi effettuati su una donna morta a 51 anni nella clinica di Monaco, Auguste D. Della donna si conserva ancora oggi la cartella clinica e una fotografia scattata durante il ricovero. La signora Auguste era stata portata all’osservazione del Dott. Alzheimer perché presentava gravi turbe cognitive; il sintomo principale, oltre a perdita della memoria e a confusione, era, in quelle prime fasi di malattia, un delirio di gelosia nei confronti del marito. In seguito si definì il corteo sintomatologico più tipico della malattia che oggi ben conosciamo – disorientamento spazio temporale e difficoltà nella lettura e scrittura – e alla morte della paziente venne concessa l’autorizzazione a eseguire l’autopsia. 32 L’esame istopatologico mise in evidenza una corteccia cerebrale più sottile del normale – corteccia atrofica – con presenza di alcune alterazioni peculiari: la prima era una formazione - “placca senile” - già osservata nei cervelli di altre persone anziane e la seconda una matassa neuro fibrillare all’interno di neuroni morti. Questa alterazione corticale, mai descritta prima, permise di capire che ci si trovava di fronte a una nuova condizione patologica che Kraepelin chiamò “Morbo di Alzheimer” nell’edizione del suo “Manuale di Psichiatria” del 1910. Nel 1910 Alzheimer fondò la Rivista generale di neurologia e psichiatria insieme al neurologo Max Lewandowsky e nel 1912 l'imperatore Guglielmo II gli offrì l’incarico di professore ordinario di psichiatria presso la Clinica Psichiatrica e Neurologica dell’Università Federico Guglielmo a Breslavia (oggi in Polonia). In quell’anno durante un viaggio in treno Alzheimer si ammalò. Morì, a soli 51 anni, nel dicembre del 1915, anno in cui stava preparando le nozze della figlia con il suo grande amico, il Dott. G. Strerz. Il cervello malato. Oggi sappiamo che il cervello delle persone con MA contiene delle formazioni proteiche – le placche di beta-amiloide e le matasse neurofibrillari – che all’inizio della malattia sono concentrate in regioni del cervello che giocano un ruolo chiave nei processi di memorizzazione: le strutture ippocampali e para ippocampali site nella parte più interna o mediale di entrambi i lobi temporali. Con l’avanzare della malattia l’intero cervello viene coinvolto. Anche se è noto che molte persone in età avanzata possono presentare placche di beta-amiloide del tutto simili a quelle trovate nei malati dementi, la quantità delle placche è molto maggiore nei malati di Alzheimer. Da alcuni anni si conosce la composizione delle placche, come si formano e un loro possibile ruolo nella genesi della malattia. Le placche sono costituite da frammenti extracellulari di un peptide beta-amiloide che derivano dalla demolizione di una proteina di membrana, l’Amiloid Precursor Protein (APP), la proteina precursore dell’amiloide. La demolizione avviene ad opera di alcuni enzimi (l’enzima è una proteina che permette e/o facilita i processi biochimici che si svolgono all’interno e/o all’esterno del neurone), e precisamente la beta e la gamma secretasi. Avviene così il troncamento dell’APP, di cui una parte, la beta-amiloide, viene 33 Le placche di betaamiloide lasciata libera, fuori dalla membrana cellulare. La beta-amiloide compattandosi con altre molecole e con i neuroni e le cellule gliali, forma le note placche di Alzheimer (Schettini G., 2010).12 Le matasse neuro fibrillari sono un’altra formazione tipica della malattia. Normalmente i neuroni sono costituiti da uno scheletro interno di supporto, che Le matasse neurofibrillari in parte è formato da strutture chiamate microtubuli, subunità stabilizzate di una proteina definita tau. Nella malattia di Alzheimer avviene una modificazione di questa proteina– in linguaggio chimico si dice che la tau è iperfosforilata – dando origine alla fusione delle diverse proteine tau. A lungo andare il processo provoca anche un cambiamento della struttura dei neuroni che si aggroviglia e porta a morte le cellule. Ovviamente la malattia di Alzheimer non è la sola patologia in cui tali proteine si trovano alterate. Di particolare interesse è però la relazione temporale tra queste alterazioni cerebrali e la comparsa della sintomatologia dementigena. Infatti, prima che i disturbi cognitivi diventino chiari,tanto da essere riconosciuti dalle persone che normalmente circondano il malato, devono trascorrere alcune decine di anni, tra 40 e 50. Un recente studio condotto sui cervelli di 42 individui di età compresa tra i 4 ed i 29 anni ha rilevato in circa la metà dei casi alterazioni che daranno origine alle matasse neuro fibrillari in strutture cerebrali sotto corticali. La ricerca suggerirebbe che queste modificazioni cerebrali potrebbero avere origine addirittura nella fase preadolescenziale della nostra vita (Braack, Del Tredici, 2011).13 L’altra grande modificazione dei cervelli dei malati di MA che si riscontra all’autopsia è l’atrofia cerebrale: perdita consistente di cellule – neuroni e glia – e dei loro collegamenti. Le aree più colpite sono generalmente la parte anteriore del lobo temporale, le sue componenti più profonde o mesiali (in special modo l’ippocampo), come pure il lobo frontale e quello parietale. Molte altre strutture sono generalmente interessate dall'atrofia come le aree limbiche. Queste aree definite anche come “sistema limbico” (anche se non tutti i ricercatori nel settore 12 Schettini G., Govoni S., Racchi M., Rodriguez G., Phosphorylation of APP-CTF-AICD domains and interaction with adaptor proteins: signal transduction and/or transcriptional role-relevance for Alzheimer pathology, in J.Neurochem, n. 115, pp. 1299–1308, 2010. 13 Braak H., Del Tredici K., The pathological process underlying Alzheimer’s disease in individuals under thirty, in Acta Neuropathol, n. 121 , pp. 171–181, 2011. 34 L’atrofia cerebrale delle neuroscienze si trovano d’accordo sul termine “sistema”) comprendono una serie di strutture cerebrali che includono l'ippocampo, l'amigdala, i nuclei talamici anteriori e la corteccia limbica (giro del cingolo, corteccia olfattoria e entorinale ed altre strutture tra cui, per alcuni, possono includersi anche le aree frontali sovra orbitali) che supportano svariate funzioni psichiche come emotività, comportamento, memoria a lungo termine e olfatto (Braak H., Braak E., 1991). 14 Il sistema limbico influenza anche il sistema endocrino e il sistema nervoso autonomo è connesso con il nucleus accumbes – la degenerazione di questi circuiti è stata associata all'insorgere di sindromi schizofreniche – e riceve una importante afferenza dopaminergica da parte della via mesolimbica. Uno dei centri principali di questo sistema è proprio il nucleus accumbens che insieme al sistema limbico sembra coinvolto nei meccanismi di ricompensa e punizione. Infine, come su accennato, si ricordano le importanti connessioni con la corteccia prefrontale che sono parte di un sistema decisionale più di tipo emozionale che razionale anche secondo le ipotesi suggerite da alcuni ricercatori tra cui Antonio Damasio (Damasio, 2000).15 Altra area ritrovata atrofica è il nucleo basale di Meynert (Whitehouse PJ., 1981).16 Questa struttura è importante perché sede di neuroni che utilizzano come neurotrasmettitore l’acetilcolina, uno dei trasmettitori cerebrali di tipo attivante, e per le numerose connessioni con aree cerebrali attive in moltissimi processi cognitivi quali quelli mnesici (ippocampo). Nel cervello dei malati di MA è stata trovata un’importante riduzione di acetilconina (nei malati l’attività corticale acetilcolinergica è ridotta di circa il 60-70%) e anche su questa osservazione si basa il trattamento con inibitori delle acetil colinesterasi – gli enzimi che catabolizzano l’acetilcolina – praticato nella MA e di cui parleremo in seguito. La degenerazione sinaptica è tipica della MA. L’autopsia rivela una diminuzione del numero di sinapsi una carenza di sostanze proteiche presenti 14 Braak H., Braak E., Neuropathological stageing of Alzheimer-related changes, in Acta Neuropathol, n. 82, pp. 239–259, 1991. 15 Antonio R. Damasio, Emozione e coscienza, Adelphi, 2000. 16 Whitehouse PJ., Prince DL., Clark AW., Coyle JT., DeLong M., Alzheimer disease: Evidence for selective loss of cholinergic neurons in the nucleus basalis, in Annals of Neurology, n. 10, pp. 122– 126, 1981. 35 La diminuzione delle sinapsi nelle sinapsi di cellule sane. La degenerazione ha una buona correlazione con il decorso e l'entità della malattia. I sintomi della demenza potrebbero dunque essere interpretati come conseguenza del deficit sinaptico, in quanto i neuroni hanno difficoltà a comunicare. Ovviamente la domanda che tutti ci poniamo è perché mai si formino sia le placche che le matasse fibrillari. Purtroppo la risposta non è ancora stata data e Le alterazioni genetiche questo condiziona anche la ricerca farmaceutica. Tra le ipotesi formulate una riguarda la possibilità che alla base della malattia ci sia un’alterazione genetica. Contro questa ipotesi, anche se solo parzialmente, è il dato che solo circa il 5-10% dei casi di MA è di tipo ereditario: in questi casi, la malattia è definita “familiare” perché più persone della stessa famiglia sono colpite dalla malattia che ha insorgenza molto più precoce di quanto avvenga nella forma sporadica (tra i 35 ed i 50 anni). Tra le alterazioni genetiche ricordiamo quella del gene della proteina amiloide (APP), localizzato sul cromosoma 21 che presenta mutazioni molto rare, La proteina amiloide circa 43 famiglie finora identificate nel mondo; quella del gene della presenilina 1 (PS1) localizzato sul cromosoma 14 con oltre 125 diverse mutazioni finora identificate in malati appartenenti a 254 famiglie, in tutto il mondo. Queste mutazioni – le preseniline sono proteine che hanno la funzione di tagliare la proteina amiloide e per questo l'ipotesi è che il loro alterato funzionamento potrebbe portare all’accumulo di proteina amiloide – rappresentano la causa più comune delle forme di Alzheimer familiare a esordio precoce (tra i 28 ed i 60 anni). La mutazione del gene della presenilina 2 (PS2), localizzato sul cromosoma 1, è stata identificata solo in 6 casi in pazienti appartenenti a famiglie americane originarie dell’Europa dell'Est e in 2 famiglie italiane; in queste famiglie l’età di esordio può essere precoce (30 anni) ma anche molto tardivo (oltre 80). Si è trovata una mutazione genetica anche a carico del cromosoma 21 – responsabile della formazione della proteina precursore dell'amiloide – e del cromosoma 14. La variante genetica del gene 19 - denominata ApoE-e4 – è presente nel 15% della popolazione sana ma nel 50% della popolazione affetta da MA. Tale variante è stata pertanto considerata un fattore genetico di rischio. 36 I cromosomi 21, 14 e il gene 19 Una ricerca del 2005 mette in luce che i frammenti 151 e 421 della proteina tau sono in grado di portare a morte i neuroni ippocampali, che sappiamo essere una della zone chiave della MA. Più recentemente in un modello animale di MA si è trovato che alla comparsa dei primi sintomi della malattia, nell'ippocampo compariva un eccesso della proteina caspasi-3, che comportava il deterioramento delle sinapsi e quindi della memoria (D'Amelio M., 2011). 17 Infine gli studi epidemiologici hanno messo in luce un rischio di circa 3-4 volte maggiore di sviluppare la MA in persone che abbiano i genitori – uno o entrambi – malati; la malattia inoltre presenta anche un decorso più rapido. A fronte di tali condizioni è bene conoscere in dettaglio il senso generale di ereditarietà. Tutte le informazioni che servono alle cellule dell’organismo umano per svolgere i compiti loro assegnati sono immagazzinate nel DNA in una proteina del nucleo cellulare, suddivisa in strutture, chiamate cromosomi, ereditate dai genitori, metà da parte materna e metà da parte del padre. Nel DNA le informazioni sono organizzate a blocchi, cosiddetti “geni”, ognuno dei quali codifica determinate azioni. Quando per una qualsiasi ragione, i geni si modificano – le cosiddette mutazioni – l'azione di cui è responsabile il gene non avverrà più nella forma in cui era in precedenza codificata: il nuovo prodotto genico potrà portare sia a miglioramenti – la chiave di volta per spiegare l’evoluzione della specie umana e di tutte le creature della terra – ma anche a problemi che si possono esprimere in anomalie o patologie e quindi alterazioni patologiche che verranno dette ereditarie. Quindi, malattie ereditarie o genetiche sono quelle anomalie di strutture o funzioni presenti dalla nascita che derivano da un errore generato in un singolo gene oppure da anomalie strutturali dei cromosomi. Alcune malattie genetiche danno segni visibili alla nascita. Tali patologie possono derivare da mutazioni di un singolo gene o da anomalie a carico dei cromosomi. 17 D'Amelio M. ,Cavallucci V., Middei S., Marchetti C., Pacioni S., Ferri A., Diamantini A., De Zio D., Carrara P., Battistini L., Moreno S., Bacci A., Ammassari-Teule M., Marie H., Cecconi F., Caspase-3 triggers early synaptic dysfunction in a mouse model of Alzheimer's disease, in Nat Neurosci, n. 14, pp. 69-76, 2011. 37 La proteina caspasi3 Le forme più comuni della MA – quelle sporadiche, non legate direttamente alla ereditarietà – sono la maggioranza (circa il 75% dei casi), non colpiscono i parenti del malato e come già detto non sono certe le cause. Per spiegare la MA, tra le altre ipotesi avanzate, ma con pochi chiari indizi a La causa virale suo favore ricordo quella virale. Si è pensato che possano influire negativamente a livello cerebrale gli alti livelli di alluminio trovati nel cervello di persone con MA. Infatti, sali di alluminio posti direttamente sulla corteccia cerebrale di animali da esperimento producono matasse neurofibrillari, ma non vi sono prove dirette che la MA possa essere causata da una forma di intossicazione da alluminio. Anche il sistema immunitario è stato chiamato in causa potendo l'organismo produrre anticorpi che attaccano selettivamente i neuroni per l'acetilcolina, come pure la Barriera Emato Encefalica, struttura che serve a separare nel cervello i neuroni dal circolo ematico. Secondo questa ipotesi, una mutata permeabilità della barriera ematoencefalica permetterebbe a sostanze tossiche di entrare nel cervello e di attaccare i neuroni. Nessuno può attualmente escludere che due o più di queste ipotesi combinate costituiscano la patogenesi del morbo di Alzheimer (Reitz C., 2011). 18 La diagnosi. Per molto tempo si è ritenuto corretto ritenere che la diagnosi di LA DIAGNOSI MA richiedesse, oltre a tutta la parte clinica sintomatologica, anche la conferma autoptica delle tipiche alterazioni cerebrali. Essendo queste rilevabili solo dopo la morte del malato, si comprende che in vita il medico poteva fare solo una diagnosi di “probabile” MA. Da alcuni anni, però, da parte di molti gruppi di ricerca si è posto l’accento sulla necessità di superare questa diagnosi e di accettare nuovi criteri. Molto recentemente queste idee sono state oggetto di pubblicazioni di prestigiose riviste internazionali, spero che presto anche la medicina di base possa far proprie queste nuove posizioni. La novità è che negli ultimi anni si è fatta luce, dopo una serie di osservazioni strumentali, sulla presenza nei malati ma anche in persone che hanno sviluppato la MA di quadri particolari e in parte specifici di MA. Tra queste i radiofarmaci 18 Reitz C., Brayne C. Mayeux R., Epidemiology of Alzheimer disease, in Nature Reviews/Neurology, n. 7, pp. 137-152, 2011. 38 PET che sono in grado di legarsi alla proteina beta-amiloide e quindi di rendere visibile la deposizione di beta-amiloide cerebrale utilizzando un’apparecchiatura, la PET (tomografia ad emissione di positroni). Queste “neuroimmagini” sono molto importanti non solo perché permettono di evidenziare nei malati la deposizione di beta-amiloide, ma anche di mostrarla nei cervelli di persone che sono ad alto rischio di sviluppare la MA ma non presentano ancora il tipico corteo sintomatologico dei disturbi cognitivi. Così molti ricercatori ritengono di poter attribuire questi quadri ad una fase pre clinica della malattia di Alzheimer. Con la PET è inoltre possibile evidenziare, grazie ad un tracciante radioattivo – il desossifluoro-glucosio che viene intrappolato nelle cellule cerebrali normalmente funzionanti – un’alterazione del metabolismo cerebrale nelle regioni parietali posteriori del cervello nei malati di MA. Anche con questo tipo di esame è possibile evidenziare delle alterazioni anni prima dello sviluppo dei sintomi. Ancora è possibile con la Risonanza Magnetica strutturale cerebrale pesare la perdita del tessuto cerebrale a causa dell’atrofia e in particolare valutare il volume di una regione molto importante nella genesi della malattia, l’ippocampo. Alcuni gruppi di ricerca hanno elaborato dei sistemi automatici per la “pesatura” dell’ippocampo e si può quindi sperare che, quando questi sistemi saranno definitivamente accettati dalla comunità scientifica, sarà possibile disporre di uno strumento accessibile a tutti in grado di definire il rischio potenziale di sviluppare la MA (Chincarini, 2010).19 Infine molto indicativi di MA sono anche i rapporti tra la concentrazione di beta amiloide – variante Abeta42 – e di tau, la proteina indicatore di danno Il rapporto tra betaamiloide e tau citoscheletrico neuronale. Gli anziani sani hanno livelli elevati di Abeta42 e bassi di tau nel liquor, mentre nelle fasi anche molto iniziali di malattia di Alzheimer il rapporto è invertito (bassi livelli di Abeta42 e alti di tau). Ricordo anche che, sia per le forme familiari che per quelle sporadiche, è stato introdotto anche un esame genetico per un particolare allele – l’allele 4 – del gene della Apolipoproteina E (APOE4). L’APOE è una proteina che si lega alla proteina 19 Chincarini A., Corosu M., Gemme GL., Calvini P., Monge R., Penco MA., Rei L., Squarcia S., Boccacci P., Rodriguez G., Automatic Morphological Analysis of Medial Temporal Lobe The Open Nuclear, in Medicine Journal, n. 2, pp. 31-39, 2010. 39 L’esame dell’allele 4 e della apolipoproteina amiloide e diversi studi hanno mostrato che l’allele 4 è più frequente nelle persone affette da MA rispetto a quelle sane (Reitz C., 2011). 20 Da quanto detto appare evidente come fossero maturi i tempi per modificare finalmente i criteri diagnosti della Malattia di Alzheimer. Nell’Aprile del 2011 sono stati pubblicati i nuovi criteri di diagnosi che sostituiscono quelli del 1984 che, ovviamente, riflettevano le scarse conoscenze del momento e che davano alla malattia una singola fase, quella della demenza, e che basavano la diagnosi solo sui criteri clinici. Si assumeva così che le persone senza demenza fossero anche non malate di Alzheimer; diagnosi confermata all’esame autoptico. Da allora si è ormai accertato che la malattia di Alzheimer può causare danni al cervello decine di anni prima dalla comparsa dei sintomi e che i sintomi non sempre sono strettamente correlati ai danni che l’Alzheimer causa al cervello. Inoltre, sembra ormai appurato che i depositi di amiloide cominciano presto, durante il percorso della malattia, ma la formazione delle matasse neuro fibrillari e la perdita dei neuroni avviene più tardi e addirittura possono accelerare proprio nel periodo che precede la comparsa dei tipici sintomi. I nuovi criteri diagnostici per la malattia di Alzheimer proposti coprono tre distinte fasi della malattia (Jack CR., 2011). 21 1- Preclinica. La fase preclinica, per la quale le linee guida si applicano solo in NUOVI CRITERI PER LA DIAGNOSI CLINICA un ambiente di ricerca, descrive una fase in cui le modificazioni del cervello – la formazione delle placche di amiloide e degli altri precoci cambiamenti a carico delle cellule nervose – potrebbe essere già in corso. In questa fase, non sono ancora evidenti significativi sintomi clinici. In alcune persone, l'accumulo di amiloide può essere rilevato grazie alla tomografia a emissione di positroni (PET) e all’analisi del liquido cefalo rachidiano, ma a tutt’oggi per queste persone non si sa quale sia il vero rischio di una progressione verso la demenza di Alzheimer. Tuttavia, al momento, l'uso delle indagini di imaging 20 Ibidem. Jack CR. Jr, Albert M., Knopman DS., McKhann GM., Sperling RA., Carrillo MC., Thies B., Phelps CH., Introduction to revised criteria for the diagnosis of Alzheimer’s disease. National Institute on Aging and the Alzheimer’s Association workgroup. Alzheimers Dement, 20 aprile 2011, Epub ahead of print. 21 40 Le tre fasi stabilite dai nuovi criteri diagnosti cerebrale e di ricerca di biomarcatori sono consigliati solo a scopo di ricerca. Questi biomarcatori sono ancora in una fase di sviluppo e non ancora standardizzati per cui non sono ancora adottabili nella pratica clinica routinaria. 2- Disturbo cognitivo lieve (MCI). Anche le linee guida per la fase del MCI sono in gran parte per la ricerca, anche se chiariscono quelle già esistenti per MCI da utilizzare in ambienti di clinica routinaria. La fase del MCI è caratterizzata da sintomi che si riferiscono a difficoltà di memoria, tali da essere notati e pesati con opportuni test neuropsicologici, che non non compromettono l'indipendenza di una persona. Le persone con MCI possono o no progredire verso la demenza di Alzheimer. La ricerca, in questa fase, dovrebbe concentrarsi in particolare sulla standardizzazione dei biomarcatori per l’amiloide e per gli altri possibili marcatori di danno cerebrale. Attualmente, i biomarcatori includono: elevati livelli di proteina tau e diminuzione dei livelli di beta-amiloide nel liquido cerebrospinale; ridotta captazione del glucosio nel cervello, come si evidenzia con l’esame PET, e l'atrofia di certe aree del cervello, come si è visto con la risonanza magnetica strutturale (MRI). Questi test saranno utilizzati principalmente in ambito di ricerca, ma potrebbero anche essere applicati in ambienti clinici specializzati per la diagnostica delle malattie che portano alla demenza, allo scopo di dare maggior valore ai test clinici standardizzati così da giungere alla comprensione delle possibili cause dei sintomi di MCI. 3- La Malattia di Alzheimer. I criteri stabiliti valgono per la fase finale della malattia e sono più importanti per i medici e i pazienti. I criteri definiscono i modi con cui i medici dovrebbero valutare le cause e la progressione del declino cognitivo. Le linee guida inoltre espandono il concetto di malattia di Alzheimer oltre la perdita di memoria come sua caratteristica più peculiare. Un calo in altri aspetti dei domini cognitivi, come trovare le parole corrette, alterazioni visuo/spaziali e la compromissione del ragionamento o della capacità di giudizio potrebbero essere i primi sintomi notati. In questa fase, i risultati della 41 valutazione dei biomarcatori possono essere utilizzati, in alcuni casi, per aumentare o diminuire il livello di certezza di una diagnosi di malattia di Alzheimer e per distinguere la demenza tipo Alzheimer da altre forme di demenza, anche se la validità di tali prove per l'applicazione nella pratica clinica quotidiana è ancora in fase di studio. I sintomi. Nelle fasi più precoci della malattia i disturbi cognitivi sono molto I SINTOMI vaghi. Tra questi, come è ben noto, è la perdita di memoria che, a volte, può anche compromettere le capacità lavorative mentre, altre volte, si esprime solo come incapacità per esempio di ritrovare le cose riposte da qualche parte. Ci sono poi piccole difficoltà nelle attività della vita quotidiana o sul posto di lavoro La I fase (ad esempio non saper più che fare di fronte ad compito normalmente eseguito senza problemi; dimenticare parole semplici o sostituirle con parole improprie, rendendo quello che si dice difficile da capire), momenti di disorientamento sia nel tempo (non ricordare le date o l’anno in corso) e nello spazio (trovarsi in un La perdita di memoria e il disorientamento posto noto e non sapere più dove si è), diminuzione della capacità di giudizio e difficoltà nel pensiero astratto, mettere le cose in posti del tutto inadeguati (un orologio nel barattolo dello zucchero), cambiamenti di umore o di comportamento, infine modificazioni della personalità e mancanza di iniziativa in molte o in tutte le solite attività. Come facilmente si intuisce, la malattia inizia in modo insidioso e subdolo, molte volte è preceduta da un lungo periodo in cui il malato è depresso e apatico, lentamente e gradualmente la sintomatologia progredisce. Prima di questa fase iniziale riconosciuta, le modificazioni che hanno danneggiato il cervello erano presenti da decenni anche se senza evidenti sintomi e segni, per cui, quando questi si manifestano e viene fatta la diagnosi clinica, ci si trova ad un punto di non ritorno, nonostante l’imprevedibilità del decorso clinico. Anche per queste ragioni è importante arrivare alla diagnosi il più precocemente possibile; dato il carattere progressivo della malattia, è ipotizzabile un suo arresto solo se il cervello non è danneggiato in maniera irreparabile. Inoltre la diagnosi precoce permette di mettere sull’avviso l’intero sistema familiare e di prendere da subito tutti quei provvedimenti, molti dei quali anche di tipo 42 La diagnosi precoce amministrativo, per una gestione più tranquilla della malattia. In questa fase potrebbe rilevarsi molto utile per il malato e per la famiglia la frequentazione di un Centro Diurno per MA. Queste strutture infatti, offrendo un ambiente in cui il malato è stimolato a compiere una serie di azioni che difficilmente possono essere fatte in ambiente familiare, sono un momento terapeutico importante. Ma anche per la persona o le persone che prestano le cure, perché il centro può rappresentare nella giornata un momento di pausa, indispensabile per reggere il carico della cura sul lungo periodo. Andando avanti nel suo corso naturale la malattia arriva ad una seconda fase La II fase in cui, oltre a presentare l’accentuazione di tutti i disturbi già presenti (si noterà un marcato peggioramento delle capacità della memoria), compaiono altri segni molto particolari: viene a mancare l’orientamento temporale per cui fissare un impegno o un appuntamento potrebbe generare nel malato un particolare stato di agitazione e quindi a un aumento della tensione ed irritabilità che può portare a stati di confusione, iperattività ed evidente ostilità. Il deficit dell’orientamento spaziale si esprime anche nei dintorni della propria abitazione e nei lunghi percorsi, l’ammalato comprende di non sapere più dove si trova e quindi tende spontaneamente a non uscire di casa. L’unica risposta di chi si prende cura del malato sarà quella di accompagnarlo ogni qual volta ci si allontana dall’ambiente domestico. Certamente in questa fase è ancora possibile stimolare, almeno in parte, le residue autonomie del malato convincendolo a passeggiare ad esempio in un giardino privato, o in spazi protetti vicini all'abitazione o anche frequentando luoghi molto familiari. Compare anche la compromissione delle capacità di astrazione: per il malato risulta sempre più difficile comprendere situazioni complesse per cui è necessario semplificare i messaggi, le istruzioni debbono essere molto elementari. Anche il linguaggio mostra alterazioni sempre più marcate e diventa difficile per tutti, anche per il caregiver, comprendere i motivi di un possibile disagio (anche fisico) oppure i bisogni che il malato non riesce più a comunicare in maniera chiara e intelligibile. Il malato non ha più la capacità di prevedere, controllare o incidere sull’ambiente circostante per cui sarà in un persistente stato di agitazione. Anche la capacità di giudizio si allenta e non è difficile sentire 43 Aggravamento dei sintomi già presenti raccontare di chi vorrebbe uscire di casa nudo o in vestaglia e non ritiene necessaria la cura della propria persona. L’apatia è sempre più presente e il Apatia malato riduce le proprie attività; anche per questo lo si vede, immobile e inerte, rimanere seduto (anche di fronte ad un televisore acceso) senza presentare alcun tipo di reattività. Infine, spesso, in questa fase compaiono nel malato allucinazioni in genere spiacevoli (ossia percezioni visive e/o uditive in assenza dei corrispondenti oggetti) che possono innescare veri e propri deliri che non Allucinazioni e deliri hanno nessun riscontro oggettivo. Tipici sono quelli in cui il malato è convinto che qualcuno voglia fargli del male o privarlo dei suoi averi: “mio figlio quando viene a casa mia mi ruba i soldi”. Ancora, i malati ritengono che le persone che li assistono siano degli impostori, oppure hanno la convinzione che visitatori immaginari vivano nella propria casa, spesso non riconoscono la propria immagine allo specchio e possono ritenerla appartenere ad un’altra persona, lo stesso accade quando il malato ritiene che quello che vede alla televisione sia a tutti gli effetti un evento reale. Inoltre, come conseguenza del danno cerebrale, alcuni malati di demenza possono anche confondere o interpretare erroneamente ciò che vedono, sentono o gustano. Per esempio, possono lamentarsi perché un dolce è salato, perché una musica è troppo forte, o perché fuori fa un freddo glaciale quando in realtà c'è un sole che spacca le pietre. Allucinazioni e deliri possono provocare paure intense o scatenare comportamenti aggressivi. A distanza di alcuni anni dal momento della diagnosi – tra i cinque e i sette La III fase anni – la malattia si aggrava e compaiono nuovi sintomi. Tra i più frequenti, l’incontinenza sfinterica è il sintomo che in alcune scale cliniche, utili per valutare il decorso della malattia, segna il passaggio verso le fasi più gravi. In genere compare prima quella urinaria e poi quella fecale. Il malato perde la capacità di riconoscere i familiari, come pure gli amici più stretti, può dimenticare il nome del proprio partner o addirittura scambiarlo per un’altra persona. Viene lentamente a mancare la capacità di legare gli avvenimenti, il malato non sa più nulla di tutto quello che recentemente è avvenuto, è completamente disorientato nel tempo e nello spazio, come anche è del tutto inconsapevole della dimensione temporale o degli spazi e degli ambienti in cui vive e fuori dalla 44 Disorientamento totale spazio domestico. In questa fase l’assistenza deve essere continua, 24 ore al giorno; il malato deve essere aiutato per la cura della persona (ormai l’igiene della persona è cosa inesistente) e per tutte le necessità primarie del vivere come ad esempio alimentarsi (il malato potrebbe lasciarsi morire di fame perché non è più in grado né di procurarsi né di prepararsi il cibo). Il sonno diventa completamente destrutturato (il malato spesso di notte si aggira per la casa) e Destrutturazione del sonno sono sempre più frequenti i disturbi comportamentali come pure le modificazioni e i cambiamenti emotivi e della personalità che si manifestano con ansia e agitazione, allucinazioni, deliri (gelosia, persecuzione), sintomi ossessivi e purtroppo anche con aggressività, verbale o fisica. Queste sono le modificazioni comportamentali che maggiormente compromettono la capacità di resistenza del caregiver. Così, lentamente, si arriva alla fase terminale della malattia: la mente perde La IV e ultima fase gli ultimi bagliori degli aspetti cognitivi rimasti e le persone, le cose e i luoghi perdono la dimensione che li aveva resi parte fondamentale dell’esperienza di vita del malato. Adesso il caregiver vive interamente il dramma della DE-mentis e il tempo del malato trascorre in una ovattata incoscienza. In queste condizioni, il malato è il più delle volte costretto a letto perché importanti disturbi motori – la Disturbi motori rigidità del tronco, della nuca e degli arti ed il tremore – gli impediscono la stazione eretta. Non ci sono più vere parole – quello che rimane del linguaggio consiste in una serie di suoni inarticolati ed incomprensibili – e quando l’emissione della voce cessa del tutto la fine è veramente vicina. Il malato non riesce più ad alimentarsi: per l’incapacità di coordinare i movimenti per la deglutizione, i liquidi devono essere gelificati per evitare che vadano nei polmoni ma nonostante tutte le precauzioni spesso compaiono complicanze come la polmonite, dovuta all’aspirazione di materiale alimentare nelle vie respiratorie. A questo punto non lo stato nutrizionale del malato è compromesso; questa condizione, insieme all’allettamento, determina la perdita di massa muscolare e la distruzione di massa ossea, con un aumento dell’eliminazione del calcio con le urine. Ormai il malato deve avere qualcuno sempre vicino. Si ripeteranno gli episodi di polmonite e lentamente, a fronte di qualsiasi sforzo, interverrà in pochi mesi la fine. 45 Assenza del linguaggio La terapia. Ancora oggi non esiste una cura per la MA: la malattia è LA TERAPIA progressiva, il malato continuerà a peggiorare sia che prenda o no le medicine sintomatiche oggi somministrate. Queste sono essenzialmente due tipi: gli anticolinesterasici (donezepil, rivastigmina e galantamina) e gli antagonisti del recettore NMDA (memantina). I primi sono giustificati dal fatto che durante la malattia si alterano i neurotrasmettitori e tra questi l’ACe è maggiormente Gli anticolinesterasici e gli antagonisti della nemantina interessata. Questi farmaci inibiscono la degradazione dell’ACe permettendo una sua maggiore presenza a livello delle sinapsi: in alcuni casi ciò conduce ad una stabilizzazione della sintomatologia per un tempo variabile, in genere per alcuni mesi. Gli altri farmaci cercano di combattere l’eccessiva stimolazione glutamminergica (in America sono stati ammessi per il trattamento delle fasi più gravi della malattia). Altri interventi sono: la terapia con antiossidanti (vitamina E) che non sembra essere efficace; quella con antinfiammatori o con alcuni estratti di erbe, senza alcuna reale evidenza scientifica. Durante il decorso della malattia possono comparire anche malattie organiche (cardiopatie, diabete, infezioni….) la cui presenza spesso aggrava i sintomi cognitivi e le capacità funzionali del soggetto, malattie che vanno pertanto diagnosticate e curate con attenzione , per non peggiorare la qualità di vita del paziente e di chi lo cura. Esiste infine una vastissima gamma di interventi sia con sostanze di origine naturale o con integratori alimentari di svariati tipi, come pure attività di ogni genere con le quali in tutte le parti del mondo si è tentato di arginare il decorso della malattia. Ad oggi, nessuno di questi tentativi si è dimostrato, in termini scientifici, in grado di modificare anche solo in minima parte il decorso naturale della malattia. Ciò nonostante molte attività possono giovare momentaneamente al malato, dargli una maggiore tranquillità e permettere così una migliore gestione della malattia anche nell’ambiente familiare. In effetti, molti di questi tentativi sono stati apprezzati essenzialmente dai caregivers perché hanno concesso loro momenti di maggiore tranquillità e una maggiore interazione con il malato. 46 Altri interventi Conclusione. La Malattia di Alzheimer è una malattia degenerativa, cronica, ancor oggi senza una cura. Coinvolge non solo il malato ma l’intero nucleo familiare, con un carico lavorativo per il caregiver spesso così drammatico da portare il rischio aggiuntivo di mortalità di circa una volta e mezzo. Il caregiver, infatti, completamente immerso nel ruolo di prestatore di cura, trascura totalmente la propria condizione di salute. I costi sociali e quelli a carico delle famiglie sono impressionanti: in media tra il 30 ed i 40 mila euro l’anno. Ovviamente i costi, minori nelle prime fasi, sono considerati nell’arco dell’intera malattia e aumentano progressivamente insieme al carico assistenziale. La maggior parte dei costi è a carico delle famiglie (circa 80%): questo rende ragione non solo della drammaticità della situazione ma anche della necessità di considerare la demenza una vera malattia sociale. Per queste ragioni e perché si ipotizza che nel 2050 saranno presenti nel mondo circa 150 milioni di malati, ci si dovrebbe dotare di un grandioso programma di ricerca scientifica in grado finalmente di trovare una cura per questa incredibile tragedia umana. 47 Le altre malattie che possono causare i sintomi della demenza Under construction 48 Esperienze di approfondimento della conoscenza sulla diffusione delle demenze tra gli anziani e sui problemi correlati Lo Spi Cgil della Liguria ha realizzato in questi anni alcune esperienze e iniziative sul tema delle demenze negli anziani e sui bisogni delle famiglie che si curano di loro. Siamo partiti nel 2009, proponendo la compilazione di un questionario (Appendice 1) alle persone che si recavano, per altre necessità di informazione e tutela, in alcune delle nostre sedi (Cogoleto, Pegli, Sestri Ponente, Porto, San Teodoro, Corso Sardegna). Abbiamo pensato fosse utile partire da un lavoro di conoscenza e di presa di contatto, attraverso la distribuzione, appunto, di uno strumento semplice. Su un campione di 880 intervistati, hanno compilato la scheda di rilevazione 84 persone che hanno risposto “sì” alla domanda: “ha in famiglia persone con problemi, a suo giudizio importanti, di memoria e/o disorientamento?” Ciò che è emerso, confermando una valutazione già presente tra di noi, è stato che la diffusione delle demenze tra la persone anziane è un fenomeno che, per una parte significativa, rimane sommerso. Le persone interessate e i loro familiari rischiano di non accedere neppure ai servizi dedicati o ai sostegni pubblici ai quali hanno diritto. I risultati del questionario hanno confermato anche la necessità di avere un’attenzione specifica alle persone “che si prendono cura”: non solo il malato ha bisogno di essere individuato come destinatario di “cure”, ma anche chi gli sta accanto (http://www.liguria.cgil.it/attachments/6891_ricerca%20non%20autosufficienza.pdf). Da questa prima esperienza è nata una azione più approfondita, sperimentata nel Comune di Cogoleto. Il questionario è stato distribuito, con invio per posta, a tutti i nostri iscritti. Questa attività ha contribuito a generare nel Comune di Cogoleto un’attenzione al problema, che ha portato il Comune stesso a distribuire, in collaborazione con molte associazioni di volontariato, a circa 2700 cittadini ultrasessantacinquenni il test “Test Your Memory”, questionario autocompilativo, pubblicato originariamente sul British Medical Journal nel 2009 e ritenuto efficace nel diagnosticare precocemente alcuni tratti tipici della demenza. Ci sono stati riconsegnati 276 questionari compilati da altrettante persone; sono 223 le persone che hanno 49 totalizzato un punteggio pari o superiore al valore indicato come “soglia” al di sotto della quale è ipotizzabile la presenza di deficit cognitivi (Appendice 2). Questo studio ha i suoi limiti nella ristrettezza del campione preso in esame; inoltre rimangono dei dubbi su quanto esso sia rappresentativo della popolazione ultrasessantacinquenne residente nel comune di Cogoleto. Tuttavia ha reso possibile verificare una certa diffusione di situazioni nelle quale potrebbero esistere problemi e su cui i servizi preposti possono approfondire conoscenze e realizzare eventuali interventi. Alla fine di questo libretto, troverete il testo del questionario (Appendice 3). 50 Benefici, indennità e agevolazioni di legge. Cosa fare – Come fare – Dove andare Riconoscimento di handicap (Legge 104/1992) Portatore di handicap è colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale causa di difficoltà di apprendimento, relazione o integrazione lavorativa tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione. L’handicap può assumere connotazione di gravità (articolo 3 comma 3 della legge 104/92) se la minorazione riduce l’autonomia personale in modo tale da rendere necessario un intervento assistenziale permanente nella sfera individuale o in quella di relazione. Il riconoscimento dello stato di handicap è il presupposto per poter beneficiare delle tutele previste da questa legge che integra il sistema dei benefici previsti da altre norme per le diverse categorie di invalidi. Per potervi accedere è necessario il riconoscimento di handicap e in particolare di situazioni di “grave handicap”. Occorre quindi presentare una domanda all’INPS, corredata di certificato medico del Servizio Sanitario Nazionale (curante o specialista). La visita di accertamento è a cura della Commissione ASL integrata da un medico dell’INPS. Poiché la certificazione medica ha una valenza di 90 giorni occorre che la domanda amministrativa sia inviata entro tale termine pena la decadenza: l’invio della sola certificazione da parte del medico curante non equivale alla presentazione della domanda. La domanda e la certificazione medica devono essere inviate telematicamente; per la domanda ci si può avvalere dell’assistenza del patronato INCA. Per saperne di più consulta il sito dell’INCA: http://www.inca.it/Servizi/081Handicapedisabilita Permessi mensili per i familiari che assistono una persona gravemente disabile (Legge 104/1992 art.3, comma 3) La legge 104/1992 offre la possibilità al lavoratore dipendente, sia pubblico sia privato, di fruire di permessi retribuiti per l’assistenza al familiare affetto da handicap grave. Il lavoratore può beneficiare di tre giorni al mese, anche frazionati a ore. I permessi spettano al coniuge, parenti o affini entro il 2 grado. Il diritto può essere esteso ai parenti e agli affini di terzo grado della persona in situazione di disabilità grave soltanto qualora i genitori o il coniuge della persona disabile abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti. Per poter fruire dei 51 permessi la persona gravemente disabile non deve essere ricoverata a tempo pieno (24 ore) in strutture ospedaliere. Non è richiesta la convivenza tra il disabile e il familiare. Il datore di lavoro o l’Amministrazione pubblica non possono respingere la domanda del lavoratore. La modalità di fruizione dei permessi è un accordo fra le parti ed è necessario informare preventivamente il datore di lavoro delle giornate di permesso. La domanda deve essere inoltrata all’INPS per il settore privato o all’ufficio personale dell’Amministrazione se dipendente pubblico, allegando il verbale ASL di riconoscimento di handicap grave. Per saperne di più consulta il sito dell’INPS alla voce “assistenza ai disabili”: http://www.inps.it/portal/default.aspx?itemdir=5792 Congedo biennale retribuito (Legge 388/2000 art.80, comma 2 - Dlgs.151/2001) Il congedo biennale retribuito per i genitori che assistono un figlio disabile è stato introdotto con la legge 388/2000. Due sentenze della Corte Costituzionale hanno esteso il diritto per l’assistenza di un coniuge o di un genitore disabile. Ogni lavoratore ha diritto a due anni di congedo, complessivamente (i periodi di congedo non retribuito previsti dai contratti di lavoro concorrono al raggiungimento dei due anni complessivi). I periodi di congedo, che il datore di lavoro non può rifiutare, sono validi ai fini pensionistici. I requisiti richiesti: la persona disabile deve avere la certificazione di handicap in stato di gravità e non deve essere ricoverata a tempo pieno; il lavoratore richiedente il congedo, se coniuge o figlio della persona disabile, deve essere convivente con quest’ultima e deve avere un rapporto di lavoro in atto. Esiste una priorità fra i familiari aventi diritto al congedo retribuito: 1. il coniuge convivente della persona gravemente disabile; 2. i genitori (naturali, adottivi o affidatari) del figlio gravemente disabile 3. i fratelli o le sorelle conviventi con il familiare gravemente disabile nel caso in cui i genitori siano deceduti o gravemente inabili 4. il figlio convivente con il genitore gravemente disabile in caso si verifichino le condizioni seguenti: il genitore non sia coniugato o non conviva con il coniuge, oppure se coniugato e convivente con il coniuge, il coniuge non sia lavoratore o sia lavoratore autonomo; il coniuge rinunci espressamente a beneficiare del congedo nello stesso periodo; i genitori del disabile (i nonni del lavoratore) siano deceduti o totalmente inabili; il genitore disabile non abbia altri figli o non conviva con alcuno di loro. In caso di convivenza, tali altri figli non devono prestare attività lavorativa o essere lavoratori autonomi; oppure rinunciare espressamente a beneficiare del congedo nello stesso periodo il genitore disabile non abbia fratelli o non conviva con loro, a meno che i fratelli non prestino attività lavorativa o siano lavoratori autonomi oppure ancora rinuncino espressamente a beneficiare del congedo nello stesso periodo. 52 Il congedo biennale può essere fruito con modalità frazionata fra tutti gli aventi diritto, alternativamente e non contemporaneamente. A fronte di più lavoratori richiedenti è l’ordine prioritario degli aventi diritto a determinare chi fra loro per primo può beneficiarne. Per questa ragione, chi fra gli aventi diritto non vuole esercitare tale diritto deve rinunciare espressamente ad avvalersene nel periodo richiesto dall’altro avente diritto. Nel caso infatti di genitore gravemente disabile che convive con due figli, ambedue lavoratori dipendenti, il congedo è concesso al figlio richiedente se l’altro rinuncia espressamente a fruirne nello stesso periodo. Potrà godere, in un periodo successivo, di un periodo di congedo qualora i 24 mesi non siano già esauriti e il fratello (cioè il figlio che per primo ha fruito del congedo) a sua volta rinunci espressamente a fruirne nello stesso periodo. Il requisito della convivenza è richiesto con l’eccezione dei genitori che assistono il figlio/a disabile. Il familiare gravemente disabile per assistere il quale viene richiesto il congedo retribuito non può esercitare attività lavorativa durante la fruizione del congedo. I lavoratori del settore privato devono inoltrare domanda all’INPS e il dipendente pubblico alla propria Amministrazione. Entrambi devono allegare la certificazione sanitaria. Ci si può avvalere dell’assistenza del patronato INCA CGIL Genova. Per saperne di più consulta il sito INPS: http://www.inps.it/portal/default.aspx?iMenu=1&iNodo=5825 Congedo non retribuito per gravi motivi familiari (Legge 53/2000 art.4) La legge 53/2000 offre la possibilità ai lavoratori dipendenti pubblici e privati di chiedere un congedo non retribuito per gravi motivi personali e familiari, tra i quali l’assistenza e la cura di un familiare. Rispetto al precedente congedo, quello previsto dalla legge 53/2000 per gravi motivi di famiglia, non è retribuito e non è coperto da contribuzione. Nonostante il congedo non sia computabile ai fini previdenziali, il lavoratore può procedere al riscatto o al versamento volontario dei contributi. Il vantaggio non trascurabile è quello della conservazione del posto di lavoro in situazioni di grave difficoltà, in caso in cui per varie ragioni non possa essere utilizzato il congedo retribuito. Il datore di lavoro non ha l’obbligo di riconoscere il congedo, ma entro dieci giorni dalla richiesta deve dare la sua risposta e l’eventuale diniego deve essere motivato. Il congedo può essere utilizzato per assistere parenti e affini entro il terzo grado portatori di handicap anche non conviventi. Il congedo straordinario retribuito e quello per gravi motivi familiari non retribuito concorrono entrambi al raggiungimento del limite individuale dei due anni. Il lavoratore privato deve presentare domanda al datore di lavoro, il dipendente pubblico alla propria Amministrazione. Entrambi devono allegare la documentazione sanitaria. Indennità di accompagnamento (Legge 11 febbraio 1980, n. 18) L’indennità di accompagnamento, o assegno di accompagnamento, previsto dalla legge 11.2.1980 n.18 per le persone dichiarate totalmente invalide, è un sostegno economico statale pagato 53 dall’INPS. È la provvidenza economica riconosciuta dallo Stato, in attuazione dei principi sanciti dall’art. 38 della Costituzione, a favore dei cittadini la cui situazione di invalidità, per minorazioni o menomazioni, fisiche o psichiche, sia tale per cui necessitano di un’assistenza continua; in particolare, perché non sono in grado di deambulare senza l’assistenza continua di una persona oppure perché non sono in grado di compiere autonomamente gli atti quotidiani della vita. Tale provvidenza ha la natura giuridica di contributo forfettario per il rimborso delle spese conseguenti all’oggettiva situazione di invalidità, non è assimilabile ad alcuna forma di reddito ed è esente da imposte. L’indennità di accompagnamento è a totale carico dello Stato ed è dovuta per il solo titolo della minorazione, indipendentemente dal reddito del beneficiario o del suo nucleo familiare. Viene erogata a tutti i cittadini italiani o UE residenti in Italia, ai cittadini extracomunitari in possesso del permesso di soggiorno nella CE per soggiornanti di lungo periodo. L’importo corrisposto viene annualmente aggiornato con apposito decreto del Ministero dell’Interno. Il diritto alla corresponsione decorre dal primo giorno del mese successivo a quello in cui è stata presentata la domanda. Nel 2011 l’importo mensile è pari a 487,39. Per poter usufruire dell’indennità, il soggetto non deve essere ricoverato in strutture residenziali gratuitamente o a pagamento. Ogni anno il requisito relativo alla condizione di ricovero deve essere dichiarato attraverso un' autocertificazione resa al Caaf sul modello ICRIC01. Assegno per il Nucleo Familiare L’assegno per il nucleo familiare (ANF) è una prestazione previdenziale erogata al lavoratore dipendente nel corso dell’attività lavorativa o al pensionato alla cessazione del rapporto di lavoro dipendente. È una prestazione a sostegno del reddito delle famiglie dei titolari di pensione a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, dei Fondi speciali di previdenza, dell’Enpals e di ex dipendenti dello Stato, degli Enti locali e dell’Amministrazione postelegrafonici, che abbiano un reddito complessivo al di sotto delle fasce stabilite ogni anno per legge. L’assegno spetta in misura differente in rapporto al numero dei componenti e al reddito del nucleo familiare. I nuclei che comprendono soggetti inabili beneficiano di particolari condizioni di reddito cui vengono rapportati sia il diritto che la misura dell’assegno. Anche la vedova o il vedovo inabili titolari unici di pensione ai superstiti derivante da lavoro dipendente possono fruire dell’assegno. Il titolare di pensione ai superstiti può chiedere l’ANF anche solo per se stesso, purché inabile oppure orfano minore. Il riconoscimento dell’inabilità viene accertata dagli istituti previdenziali preposti all’erogazione dell’assegno, previa presentazione di idonea documentazione medica. Il riconoscimento dell’assegno o l’incremento di quello già in pagamento è possibile, con efficacia retroattiva, fino a un limite di 5 anni qualora si sia in grado di dimostrare, con idonea documentazione medica, che lo stato di inabilità è pregresso. 54 L’assegno non spetta ai titolari di pensione a carico delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, coltivatori diretti, coloni e mezzadri), per i quali è prevista la concessione delle quote di maggiorazione per carichi di famiglia (assegni familiari). Per l’inoltro della domanda di assegno al nucleo familiare con inabile nel nucleo ci si può rivolgere al Patronato INCA. Assegni familiari Gli assegni familiari vengono corrisposti sulle pensioni dei lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, coltivatori diretti). Il pagamento degli assegni è subordinato alla condizioni che i familiari beneficiari non superino un determinato limite di reddito personale. Inoltre, non deve essere superato un limite di reddito dell’intero nucleo familiare. Come nel caso dell’ANF i nuclei che comprendono soggetti inabili beneficiano di particolari condizioni di reddito per il diritto agli assegni. Diversamente dall’ANF, gli assegni familiari non spettano alla vedova o vedovo inabili titolari unici di pensione ai superstiti. Il riconoscimento degli assegni familiari può avere efficacia retroattiva quindi è possibile chiedere gli arretrati fino a un limite di 5 anni qualora si sia in grado di dimostrare che lo stato di inabilità è pregresso con idonea documentazione medica. Per l’inoltro della domanda di assegni familiari con inabile nel nucleo ci si può rivolgere al patronato INCA. Il Fondo per la non autosufficienza Il FRNA istituito con legge regionale 24 maggio 2006 n.12 – “promozione del sistema integrato di servizi sociali e sociosanitari” - prevede l’erogazione di un contributo economico per sostenere la permanenza delle persone non autosufficienti presso il proprio domicilio. Possono richiedere il contributo i cittadini italiani o europei, i cittadini extracomunitari titolari di permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo, invalidi al 100% con riconoscimento dell’indennità di accompagnamento. Il contributo non è erogabile alle persone che usufruiscono di servizi di assistenza residenziale o inserite in Centri diurni a totale carico del servizio pubblico e ai non titolari di indennità di accompagnamento. Da quest’anno, per effetto del taglio di 14 milioni di euro nei trasferimenti dallo Stato alla Regione operato dalla legge di stabilità 2011, solo le persone non autosufficienti con un reddito ISEE inferiore a 10 mila euro potranno beneficiarie del fondo ricevendo un assegno mensile da 350 euro. Fino allo scorso anno, invece, potevano ottenere l’ assegno regionale anche le persone non autosufficienti con un reddito ISEE fino a 20 mila euro. Il modulo della domanda può essere ritirato presso gli sportelli dei Distretti Socio Sanitari o degli Ambiti Territoriali Sociali di zona. 55 Agevolazioni fiscali La persona che ha il riconoscimento di handicap ha diritto ad usufruire di tutte le agevolazioni fiscali previste per i cittadini disabili, ad eccezione di quelle relative all’auto per cui sono necessarie ulteriori valutazioni. Deduzioni fiscali. Le spese mediche generiche e quelle di assistenza specifica sostenute dalle persone non autosufficienti o da chi le assiste sono deducibili dal reddito complessivo. Si considerano spese mediche generiche le prestazioni diagnostiche rese da un medico generico o specialista e l’acquisto di farmaci. Si considerano spese per assistenza specifica quelle infermieristiche e riabilitative svolte da personale qualificato o da operatori tecnici. I contributi previdenziali per gli addetti ai servizi domestici e familiari e all’assistenza personale sono deducibili nel limite di 1549,37 euro. Detrazioni fiscali. Detrazione del 19% della spesa di assistenza. La spesa di assistenza per una persona non autosufficiente, anche lo stipendio dell’assistente familiare “badante”, può essere detratta nella misura del 19% su un ammontare di spesa non superiore a 2100 euro quindi fino a un beneficio massimo di 399 euro l’anno della spesa di assistenza per una persona. Il reddito del contribuente non deve superare i 40.000 euro. Detrazione del 19% delle spese sanitarie. Le persone con handicap fruiscono dello stesso trattamento previsto per tutti i contribuenti. Detrazione fiscale senza limiti e franchigie. È prevista solo per le spese relative all’accompagnamento e alla deambulazione per i portatori di handicap. Per saperne di più consulta il sito dell’Agenzia delle Entrate. Tra le guide fiscali è possibile scaricare le agevolazioni fiscali per i disabili: http://www.agenziaentrate.gov.it/wps/portal/entrate/home L’Amministratore di sostegno (Legge 6/2004) L’ amministratore di sostegno è una figura istituita con la legge 6 del 2004 a tutela di chi, pur avendo difficoltà nel provvedere ai propri interessi, non necessita comunque di ricorrere all’interdizione o all’inabilitazione. La legge ha infatti la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana. L’amministrazione di sostegno si rivolge alle persone con grave e permanente disabilità intellettiva o psichica che materialmente hanno bisogno di protezione, anche per un periodo di tempo limitato, per provvedere ai propri interessi civili e/o patrimoniali, limitatamente ad alcuni atti, per 56 esempio per proporre istanze alla Pubblica Amministrazione, presentare la dichiarazione dei redditi, riscuotere la pensione. L’amministratore di sostegno viene nominato dal giudice tutelare e scelto, ove possibile, nello stesso ambito familiare dell’assistito: il coniuge non separato legalmente, la persona stabilmente convivente, il padre, la madre, i figli o il fratello o la sorella, o comunque un parente entro il quarto grado. L’ufficio di amministrazione di sostegno non prevede l’annullamento delle capacità del beneficiario a compiere validamente atti giuridici, e in ciò si differenzia dall’interdizione. Il procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno ha inizio con un ricorso al giudice tutelare del luogo di residenza del disabile che deve essere depositato presso il Tribunale civile, cancelleria della volontaria giurisdizione. Per saperne di più consulta il sito dell’INCA: http://www.inca.it/Servizi/081Handicapedisabilita/07Handicap+e+disabilità.htm Prestazioni socio sanitarie I Distretti Sanitari, punto qualificato dell’analisi dei bisogni e della relativa programmazione del sistema integrato dei servizi, hanno le funzioni di garantire l’accesso ai servizi sanitari e sociosanitari per gli utenti del proprio territorio assicurando l’integrazione tra il settore sanitario e quello sociale. Gli Ambiti territoriali sociali e le aziende ASL hanno realizzato una rete di Uffici accoglienza e relazioni con il pubblico per mettere a disposizione informazioni precise sull’offerta dei servizi sanitari e sociali, su come accedervi, sulle sedi e gli orari, i tempi d’attesa, le procedure e i moduli necessari per ottenere le prestazioni integrate, come ad esempio: Fornitura protesi: ausili per la deambulazione, carrozzine, pannoloni, materassi antidecubito. Assistenza geriatrica: cure domiciliari, centri diurni, riabilitativi, assistenza residenziale. Assistenza sociale. Per saperne di più consultare i siti delle ASL liguri: ASL 1 IMPERIESE http://www.asl1.liguria.it/ ASL 2 SAVONESE http://www.asl2.liguria.it/ ASL 3 GENOVESE http://www.asl3.liguria.it/ ASL 4 CHIAVARESE http://www.asl4.liguria.it/ ASL 5 SPEZZINO http://www.asl5.liguria.it/ Contributi per l’eliminazione e il superamento delle barriere architettoniche negli edifici privati (Dgr n. 1851 del 22 dicembre 2009) 57 Questa norma sostiene finanziariamente gli interventi volti all'abbattimento delle barriere architettoniche sia negli edifici pubblici che in quelli privati, per garantire un sempre maggiore utilizzo degli spazi edificati a tutti coloro che soffrono di una ridotta o impedita capacità motoria o percettiva. Gli interventi ammissibili a contributo ai sensi del paragrafo precedente possono consistere in: a) opere edilizie direttamente finalizzate all’eliminazione delle barriere architettoniche, fisiche e percettive; b) acquisto e installazione di attrezzature direttamente finalizzate all’eliminazione delle barriere architettoniche, fisiche e percettive, quali: • mezzi idonei a garantire il superamento dei dislivelli da parte delle persone con problemi di mobilità; • strumenti idonei a favorire la sicurezza d’uso e la fruibilità degli spazi da parte delle persone disabili; • dispositivi idonei a favorire l’orientamento e la mobilità negli ambienti; • dispositivi impiantistici idonei a favorire l’autonomia domestica delle persone disabili. I soggetti in possesso dei requisiti devono presentare domanda al Comune/Distretto ove è situato l’immobile da adeguare entro il 1° marzo di ogni anno. Per saperne di più, rivolgersi alle amministrazioni comunali, ai Distretti Socio-Sanitari oppure consulta il sito: www.regione.liguria.it Attività sociali Ricoveri di sollievo. Dura di solito dai 40 ai 60 giorni e ha lo scopo di sollevare il caregiver dall'attività di assistenza. L’attivazione di questo percorso può avvenire con richiesta del Medico di Medicina Generale di “Valutazione per ricovero di sollievo”, segnalazione al Nucleo Residenzialità in base alla Zona di appartenenza o all’accoglienza del Distretto socio sanitari competenti. Centri diurni. Luoghi di accoglienza in cui i pazienti vengono accuditi per mezza giornata o la giornata intera. L'accesso al servizio può avvenire presentando domanda autonomamente ai servizi sanitari di riferimento o, in caso si richieda un supporto economico al Comune di Genova per il pagamento della retta, è necessario fissare un appuntamento per un colloquio personale (Segretariato Sociale) presso gli Ambiti Territoriali Sociali (ATS). 58 Residenza sanitaria assistenziale. Sono strutture che ospitano persone non autosufficienti. Il caregiver deve procurarsi la richiesta del Medico di Medicina Generale (Valutazione per inserimento definitivo in struttura residenziale) ed effettuare la segnalazione telefonicamente al Nucleo Residenzialità, a seconda della Zona, o all’accoglienza del Distretto Sanitario di appartenenza. In seguito alla segnalazione, un geriatra del Dipartimento effettuerà una visita domiciliare. Servizi di assistenza domiciliare. Esistono due tipi di assistenza: 1. Assistenza domiciliare familiare (aiuto dell’anziano nella gestione della vita domestica - es. spesa, pulizia della casa, ecc.); 2. Assistenza domiciliare leggera ( es. piccola spesa, compagnia, disbrigo di pratiche, sostegno alla socializzazione, ecc.). È prevista la contribuzione al costo della prestazione erogata in relazione al valore dell’attestazione ISEE. È necessario fissare un appuntamento per un colloquio personale (Segretariato Sociale) presso: gli Ambiti Territoriali Sociali (ATS) oppure presso le sedi territoriali delle Agenzie Domiciliarità. Residenzialità per i pensionati INPDAP e/o coniugi conviventi I pensionati Inpdap e/o i loro coniugi conviventi, non autosufficienti, affetti da gravi patologie psicoinvolutive senili o altre patologie neurovegetative possono beneficiare dell’accoglienza, residenziale o diurna, presso strutture specializzate, Rsa o Case protette. La domanda va presentata alla Direzione regionale sul cui territorio si trova la struttura. Se le richieste eccedono i posti disponibili viene formata una lista d’attesa graduata in base all’indicatore Isee e al grado di non autosufficienza. Da un elenco di Rsa dislocate sull’intero territorio nazionale si sceglie, sulla base della localizzazione e dei costi sanitari a carico del pensionato, la struttura d’interesse. L’indicatore Isee non deve superare i 30.000 €. Per saperne di più, telefonare ai recapiti indicati sul sito: http://www.inpdap.it/webinternet/FiloDiretto/StrOrgCompartimenti.asp 59 Il Caffè di Oz Luogo di incontro accogliente per il malato di Alzheimer e la sua famiglia che offre ai malati la possibilità di svolgere, con personale dedicato, attività occupazionali di semplice esecuzione, mentre il caregiver può partecipare ad incontri tematici o approfittare del tempo libero per commissioni o svago. L’idea è stata accolta e condivisa dagli operatori dello Spazio Anziani-Cooperativa Saba- di Piazza dei Greci che da anni operano a favore degli anziani del quartiere. Il Caffè di Oz è aperto ogni giovedì dalle ore 14.30 alle ore 16.30 in Piazza dei Greci 5 Tel.: 0102476578. (Chiusura estiva ad agosto) Il calendario aggiornato degli incontri tematici è consultabile sul sito dell’Associazione Alzheimer Liguria www.alzheimer.liguria.it Per informazioni rivolgersi a: Ambito Territoriale Sociale 42 Sede: Piazza Posta Vecchia 3/3 Sara Medici: 010-2533126 Angela Lazzarino: 010-2533123 Luana Luiu: 010-2533125 Polo Castelletto: Corso Firenze 24 Eloisa Perricone: 010-2722800 010-2724344 Cooperativa S.A.B.A. Piazza dei Greci 5 Paola Giacopello: 010-2476578 L’Alzheimer Café Uno spazio gratuito e informale gestito dall’Associazione famiglie malati di Alzheimer (AFMA) dove si svolgono incontri e momenti di convivialità in un'atmosfera accogliente e rilassata. Gli ospiti sono seguiti dai volontari e da operatori specializzati. Le attività sono specifiche per stimolare le capacità di concentrazione e di manualità: ci sono i laboratori di musicoterapia, il decoupage, il giardinaggio, la modellatura di materiali vari, la ginnastica dolce pet therapy:. L’Alzheimer Café, è aperto al pubblico aperto al pubblico tutti i martedì dalle 15.00 alle 18.00 e il venerdì dalle ore 15.00 alle 18.00 in via Nino Cervetto 35. 60 http://www.afmagenova.org/alzheimer_cafe.html Entro la fine del 2011 verrà inaugurato Arcobalen, centro diurno di 2° livello per malati di Alzheimer gestito dall’AFMA. Per ulteriori informazioni, scrivi a [email protected] oppure vai alla pagina web http://www.afmagenova.org 61 NUMERI UTILI Distretti sanitari dell’Asl3 – Genova http://www.asl3.liguria.it/ Distretto Ponente 8 010/6449674 010/6449676 010/6449677 Distretto Medio Ponente 9 010/6447250 Sampierdarena 010/6447251 Sampierdarena 010/6447967 Sestri Ponente 010/6447973 Sestri Ponente Distretto Val Polcevera e Valle Scrivia 10 010/6449505 Distretto Centro 11 010/3447581 010/3447582 Distretto Valbisagno e Valtrebbia 12 010/3447920 010/3447939 Distretto Levante 13 010/3445630 Per consultare l’elenco dei distretti sanitari della Regione Liguria, vai alla pagina web: http://www.asl2.liguria.it/pdf/elencodistretti.pdf 62 Unità di valutazione Alzheimer – Genova Ambulatorio U.V.A. C/O Osp. San Martino Neurofisiologia Clinica 010/5552246 Responsabile: Guido Rodriguez Dipartimento Di Neuroscienze, Università Di Genova 010/3537040 Responsabile: Leonardo Cocito U.V.A. Geriatria - Università Di Genova 010/3537536 Responsabile: Patrizio Odetti U.V.A. Geriatria Eo Osp Galliera 010/5634391 Responsabile: Camilla Prete Ambulatorio U.V.A. c/o Rsa Chiavari 0185/329328 Responsabile: Babette Dijk Ambulatorio Psicogeriatria, Centro Salute Mentale Chiavari 0185/329330 Responsabile: Vittorio Uva Unità di Valutazione Alzheimer nelle province di Savona e La Spezia Divisione Neurologia, Pietra §Ligure (SV) 019/6234012 Responsabile: Tiziana Tassinari U.V.A. Geriatrica Asl 2, Savona 019/8405994 Responsabile: Giovanna Caorsi 019/8405294 Ambulatorio U.V.A. e disturbi cognitive dell’Anziano, La Spezia 0187/533314 Responsabile: Elena Carabelli 63 Unità di psicogeriatria U.V.A., Sarzana (SP) 0187/604933 Responsabile: Antonello Colameo Centri Diurni – Genova Via Sestri 1316154 Genova Sestri Ponente 010/6448733 Via Castelli 52r 16149 Genova 010/6423066 via Salita Inf. di Murta 2 16162 Genova 010/7411183 Via Peschiera 10 16122 Genova 010/886867 Località Serino 16165 Genova 010/804981 Cso Montegrappa 16137 Genova 010/814810 Via G. Maggio 6 16147 Genova 010/3446251 Via G. Maggio 6 16147 Genova 010/3446303 Per consultare l’elenco dei Centri diurni presenti in Liguria, vai alla pagina web: https://sisweb.regione.liguria.it/struttureresidenziali/Default.aspx I recapiti degli uffici provinciali del Patronato INCA sono consultabili alla pagina: http://www.liguria.cgil.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1305&Itemid=24 I recapiti degli uffici Spi provinciali e delle Leghe della provincial di Genova sono consultabili alla pagina: http://www.liguria.cgil.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1475&Itemid=75 I recapiti degli uffici dell’Auser Liguria sono consultabili alla pagina: http://www.auserliguria.it/dovesiamo.aspx 64 LINK UTILI http://3eta.accmed.org/ http://www.afmagenova.org http://www.aiesweb.it/ http://www.alzheimer.it/ http://www.alzheimer-europe.org/ http://www.alzheimerfamiliari.it/ http://www.alzheimerliguria.it/ http://www.fimmg.org/home http://www.pamonline.it/ 65 Appendice 1 SINDACATO PENSIONATI REGIONALE LIGURIA AREA METROPOLITANA DI GENOVA SCHEDA RILEVAZIONE MALATTIE LEGATE ALLA NON AUTOSUFFICIENZA E CONSEGUENZE SULLA VITA DELLE PERSONE CHE SI OCCUPANO DELLA CURA IN FAMIGLIA 1. Ha in famiglia persone con problemi importanti, a suo giudizio, di memoria e/o di disorientamento? 2. della persona con problemi, > grado di parentela con lei__________________________ > sesso: M F > età:______________________________ 3. Attualmente la persona con problemi vive: da solo col coniuge con figlia/o altro_________________________________________ 4. la persona che ha problemi riesce, da sola : > a gestire il denaro? SI NO IN PARTE > ad usare il telefonino? SI NO IN PARTE > a pensare alla propria igiene? SI NO IN PARTE > a fare la spesa? SI NO 66 > a farsi da mangiare? SI NO 5. E’ preoccupato/a di questa situazione?_________________________________________________ 6. Da quanto tempo sono presenti questi problemi? ______________________________________ 7. Di questi problemi ha già parlato con il medico di famiglia?______________________________ ____________________________________________________________________________________ 8. Si è mai rivolto/a ai servizi sociali?_____________________________________________________ 9. La persona, per questi problemi, è seguita, dal punto di vista medico, da: medico di base reparto ospedaliero centro UVA specialista privato 10. Se è seguita, come valuta, da 1 a 10, l’assistenza di cui dispone la persona con problemi? 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11. Da 1 a 10, quanto influisce, nella sua vita personale, avere una persona con problemi di memoria o/o disorientamento? 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 NOME………………………………COGNOME………………………………………………… INDIRIZZO……………………………………………………………………………………….. N. TEL………………………………………………………………………………………………... e-mail…………………………………………………………………………………………………. formula privacy Ricevuta l'informativa sull'utilizzazione dei miei dati personali ai sensi dell'art. 10 della legge n. 675/96, consento al loro trattamento nella misura necessaria per il perseguimento degli scopi statutari. 67 Appendice 2 TYM a Cogoleto Sono stati inviati circa 2700 questionari autocompilativi "Test Your Memory" alla popolazione residente a Cogoleto che avesse un'età superiore ai 65 anni. 276 persone hanno risposto positivamente a questo sondaggio, rinviandoci i questionari debitamente compilati. Il TYM test, pubblicato originariamente sul British Medical Journal nel 2009 è un test a 10 item che indagano vari aspetti del cognitivismo, ed è ritenuto efficace nel diagnosticare precocemente alcuni tratti tipici della demenza. 223 persone hanno totalizzato un punteggio pari o superiore a 43/50: questo valore è stato da noi indicato come "soglia", al di sotto del quale è ipotizzabile la presenza di deficit cognitivi. È bene sottolineare che nella versione originale del questionario, validata in lingua inglese, il valore di cut-off indicato era di 42/50. Abbiamo inserito questa piccola modifica per rendere più realistico il quadro, dato che nell'attribuzione dei punteggi abbiamo utilizzato alcune strategie per evitare possibili fattori confondenti e garantire una valutazione equa a tutti i partecipanti. Questi accorgimenti rendono forse ragione dell'alta percentuale di test valutati positivamente. Abbiamo infatti attribuito punteggio pieno nel primo item "se lo desidera può scrivere il suo nome e la sua data di nascita" anche a chi non ha scritto le proprie generalità, per non penalizzare coloro i quali abbiano voluto mantenere la privacy. Altri due item sono stati lievemente modificati: nel settimo, ("scriva il nome di cinque particolari di questo abbigliamento"), abbiamo aggiunto un punto di default a causa di un refuso. L'ultimo item ("aiuto prestato") risultava invece impossibile da determinare data la mancanza di supervisione diretta, quindi abbiamo dato punteggio massimo (5 punti) a tutti. Abbiamo inoltre correlato il punteggio di ogni partecipante alla sua età: i valori sono distribuiti intorno ad una linea di tendenza, che divide i partecipanti fra i maggiori e i minori di 70 anni. Pur non essendo statisticamente significativa, essa suggerisce che i soggetti d'età più avanzata totalizzino punteggi lievemente inferiori rispetto ai più giovani. Infine, abbiamo correlato la media dei punteggi di ogni singola prova alla media dei punteggi totali: questa operazione è stata fatta con l'obiettivo di individuare l'item che risultasse affetto più precocemente, cioè che fosse alterato anche quando gli altri risultavano nella norma. Questo item è risultato essere il decimo:"per favore senza girare il foglio scriva la frase che prima ha copiato" ("i bravi cittadini indossano sempre scarpe robuste"), seguito dall'ottavo "per favore unisca i cerchietti in modo da formare una 68 lettera". Il terzo posto nella graduatoria degli item "più difficili" è stato invece attribuito al nono "per favore disegni un quadrante d'orologio, i numeri 1¬12 e metta le lancette come se fossero le nove e 20". In conclusione i nostri dati fanno presupporre che la funzione mnesica di richiamo di un elemento precedentemente appreso sia precocemente alterata nei quadri di iniziale declino cognitivo. Questo studio ha i suoi limiti nella limitata numerosità del campione preso in esame; inoltre rimangono dei dubbi su quanto esso sia rappresentativo della popolazione ultrasessantacinquenne residente nel comune di Cogoleto. Tab 1 SOGGETTI CON DEFICIT E SENZA DEFICIT 250 200 150 100 50 0 Senza deficit Con deficit 69 Tab 2. GENERALITA’ Se lo desidera può scrivere il suo nome e la sua data di nascita: ………………………………………………………………………………………………………………… Oggi è …………………………………………………………………(Giorno della settimana) La data di oggi è ………….. mese……………………………….. …………………..20…….. Quanti anni ha: …………………………………anni Scriva la sua data di nascita…………./………………………........(Mese)/19…………. Tab 3. GRADUATORIA DEI PUNTEGGI IN BASE ALL'ETÀ DEI PARTECIPANTI 50 y = -0,1653x + 57,006 R² = 0,0676 40 30 Serie1 20 10 0 50 60 70 80 90 70 100 110 Tab. 4. CORRELAZIONE MEDIA PUNTEGGI SINGOLA PROVA MEDIA PUNTEGGI TOTALI 71 Appendice 3 Esamina la tua memoria The TYM-I (Test your memory Italian version) Se lo desidera può scrivere il suo nome completo ed un recapito telefonico …………………………………………………….. Oggi è ………………………………………………(Giorno della settimana) La data di oggi è ………….. mese……………………………….. 20 Quanti anni ha: …………………………………anni 1 Scriva la sua data di nascita…………./……………........(Mese)/19………) Per favore copi la frase che vede nella riga qui sotto I BRAVI CITTADINI INDOSSANO SEMPRE SCARPE ROBUSTE …………………………………………………………………………………………………………… Per favore legga di nuovo la frase e cerchi di ricordarla 2 Chi è l’attuale capo del governo …………………………………………. i In che anno l’Italia è entrata nella prima guerra mondiale …………… 3 Esegua queste operazioni 20 – 4 = ………………………… Scriva il nome di quattro animali che incominciano con la lettera S (esempio squalo) 16 + 17 = ………………………. 1S………………………………… 8 x 6 = ………………………….. 2S………………………………… 4 + 15 – 17 = ………………… 4 3S………………………………… 4S…………………………………………………… Perché una carota è simile ad una patata? ……………………………………………………………………………….. 72 Perché un leone è simile ad un lupo? …………………………………………………………………………………….. 4 Per favore scriva il nome dei cinque particolari di questo abbigliamento 4 5 Per favore unisca i cerchietti in modo da formare una lettera( escluda i quadratini) 3 Per favore disegni in questo quadrante d’orologio i numeri 1-12 e metta le lancette come se fossero le 9.20. 4 Senza girare il foglio per favore scriva sotto la frase che prima ha copiato ……………………………………………………………………………………………………………………………………… ………. 73 6 Per chi ha eseguito il test: Aiuto prestato : nessuno, minimo, poco, moderato, importante. ……………………………………………………………... Barrare il riquadro se le risposte sono state scelte dall’esaminatore e non dal paziente 74 …/50 5 Attribuzione dei punteggi Errori di ortografia e/o di punteggiatura assieme all’utilizzo di abbreviazioni non devono essere conteggiate come errori, ad eccezione del box due, se il significato delle parole è comprensibile. Box 1 Due punti per il nome completo, 1 punto se vengono scritte le sole iniziali o se sono presenti piccoli errori. Attribuire un punto alla data anche se è sbagliata di un giorno. Box 2 Due punti se tutto è corretto, 1 punto un errore in una parola, 0 punti per errori in due parole. Box3 Un punto per il nome, 1 punto per il cognome, 1 punto per la risposta 1915 Box 4 Un punto per ogni operazione corretta Box 5 E’ accettato ogni animale sia esso insetto, pesce, uccello o mammifero. Le razze di cani e gatti (per esempio spinone) vanno bene. Sono considerati errori le creature mitologiche (ad esempio mostri marini), e la parola squalo (che viene presentata come esempio). Box 6 Due punti per una definizione precisa come “verdura” o “animali/mammiferi/predatori/carnivori” . Risposte adeguate ma meno precise come cibo, hanno quattro zampe, animali feroci 1 punto. Se vengono date due risposte adeguate, anche se meno precise, si attribuiscono due punti (ad es. Animali feroci con quattro zampe). Descrizione della giacca Un punto per ogni risposta corretta. Lettera M Tre punti se viene eseguita senza nessun errore, 2 punti se viene disegnata una lettera diversa dalla M, se tutti i cerchietti vengono collegati senza che venga tracciata la lettera M 1 punto. Orologio Se vengono disegnati tutti i numeri dell’orologio 1 punto, per il corretto posizionamento dei numeri 1 punto, per ogni lancetta disegnata correttamente 1 punto. Frase Un punto per ogni parola ricordata correttamente sino ad un massimo di 6 punti. Attenzione Al punteggi totale va aggiunto il valore attribuito all’aiuto che si è dovuto fornire al/alla paziente come indicato sotto Nessuno 5 punti Minimo 4 punti Poco 3 punti Moderato 2 punti Importante 1 punto 75