SOCIETÀ
DIVENTARE ADULTI.
CHE PAURA!
Dietro a due recenti casi editoriali, che inneggiano rispettivamente la pigrizia e l’ozio, sul lavoro e nella vita, si può individuare una tendenza all’infantilismo. Ma
una società di immaturi è proprio quello che vogliamo?
Ida Bona
B
DIRIGENTE 11-2005
uongiorno pigrizia1 di Corinne Maier e L’ozio come stile di
vita2 di Tom Hodgkinson,
due edizioni nei primi mesi
dell’anno, inneggiano al disimpegno e
all’edonismo: il dolce far niente e lo scansare ogni possibile responsabilità vengono proposti come ideale a cui tendere, anche per quanto riguarda la vita di lavoro.
Per chi, come me, è nato a ridosso della
seconda guerra mondiale (e quindi si appresta a concludere la propria vita professionale) queste tesi sono sconcertanti:
sono cresciuta con un’etica del lavoro di
stampo “calvinista”, mi sono nutrita di testi di cultura manageriale che consideravano la realizzazione personale e professionale come la massima aspirazione e di
conseguenza l’imbattermi in un “libretto”
quale quello della Maier (che si presenta
come il vademecum per “sopravvivere in
azienda lavorando il meno possibile”)
provoca irritazione e sconcerto. Le domande che sorgono spontanee sono: avrò
sbagliato tutto? sono una moralista? sono
nel giusto o si tratta di invidia per chi può
permettersi quello che io non sono stata
capace di concedermi?
Il ricordo va subito a un classico della letteratura manageriale degli anni Sessanta
– Il manager di professione3 di Mc Gregor
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Ida Bona è psicologa e consulente aziendale.
– e a quanto sostenuto in questo libro in tema di sviluppo organizzativo: il fine a cui
tendere consiste nel superare la “teoria X”,
basata su una visione negativa del lavoratore, considerato pigro, poco intelligente e
di conseguenza da stimolare e controllare
in continuazione, per cercare invece di
realizzare la “teoria Y”, l’unica veramente
in grado di sviluppare le potenzialità
dell’essere umano lasciandolo libero di autogestirsi e di esprimere la propria creatività, convinti che solo in questo modo sarà
possibile realizzare qualcosa di vantaggioso sia per l’azienda sia per chi vi lavora.
In realtà, Buongiorno pigrizia è uno
splendido esempio di quel tipo di marketing che prende l’aspetto di un prodotto,
in sé marginale ma di sicura attrattiva
per il consumatore (nel caso di questo libro, poche righe o al massimo poche pagine), e realizza un successo commerciale facendo leva su di esso.
Infatti, il contenuto prevalente di questo
“libretto” è una critica piena di acrimonia e di livore (che vorrebbe essere spiritosa ma riesce a mala pena ad essere
sarcastica) del sistema capitalistico, o
1
Corinne Maier, Buongiorno pigrizia, Bompiani, 2005.
2
Tom Hodgkinson, L’ozio come stile di vita,
Rizzoli, 2005.
3
Douglas Mc Gregor, Il manager di professione, Isedi, 1971 (tit. orig. The Human Side of
Enterprise, McGraw-Hill, 1960).
In quest’ottica, che aspira a
presentarsi come dissacrante,
tra le cose considerate inutili c’è lo stesso
linguaggio aziendale, definito “criptico e
falsificante”: è la cosiddetta neolingua,
nella quale sono formulati i messaggi lan-
ciati dall’impresa, che vanno letti “invertendo i segni”. Questi messaggi servono
all’autrice per riempire alcune pagine di
esempi che vorrebbero essere divertenti, e
potrebbero esserlo se fossimo ancora nel
1968, ma sono invece ormai diventati vecchi e resi banali dal tempo trascorso.
Lo stesso vale per alcuni concetti, come
ad esempio quello relativo alla cultura
d’impresa (definita “la cristallizzazione
della stupidità di un gruppo di persone
in un momento dato”) o all’etica (di cui
si afferma che “meno ce n’è, più la si
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meglio delle aziende – specie se di grandi dimensioni – viste non solo come entità disumanizzanti, ma anche finalizzate soprattutto al perpetuare se stesse
e la propria inutilità più che al conseguire un profitto o allo sviluppare le
proprie potenzialità.
sbatte in faccia a chiunque capiti a tiro”): in un mondo come questo l’unica
cosa da fare è cercare di imitare il “quadro medio”, ma senza lasciarsi coinvolgere dal lavoro, utilizzare il suo stesso
linguaggio e soprattutto avere sempre
l’aria indaffarata (questo – unitamente
al consiglio di non uscire mai dall’ufficio senza portarsi una cartellina sotto il
braccio – è il suggerimento proposto
“per sopravvivere in azienda lavorando
il meno possibile”).
Anche L’ozio come stile di vita inneggia a
un nuovo edonismo, all’elogio di una vita
senza obblighi o impegni professionali,
partendo dalla constatazione che i soldi,
unico reale vantaggio offerto dal lavoro,
servono solo per acquistare quei beni di
consumo che dovrebbero garantire la felicità sedando le ansie della vita quotidiana:
se elimino il desiderio di possedere oggetti, che sono per lo più inutili, non ho bisogno di soldi e di conseguenza non occorre
che io lavori, se non quel minimo indispensabile per la sopravvivenza.
La società, secondo Hodgkinson, tende
a spronare le persone e a incitarle a lavorare per paura di quella che viene definita la “creatività” dell’ozioso: chi segue questo “programma di vita” non è
controllabile perché non produce e non
consuma oggetti inutili e ha quindi tempo per prendere la vita con estrema calma e per pensare. Hodgkinson esorta a
non confondere l’efficienza con la frenesia e invita a rimanere nel presente
evitando di vivere sia nel passato, coi
suoi rimpianti e recriminazioni, sia nel
futuro, con le sue ansie.
L’ozio è “l’opposto del tedio di un’applicazione incessante, regolare e prolungata”, ma non esclude periodi di “esplosioni di attività improvvisa e frenetica”: per
essere davvero oziosi bisogna essere efficienti e ordinati, perché nel disordine si
perde troppo tempo a cercare le cose.
L’attuale società privilegia l’azione sostenendo il diktat “non parlare, fallo!”, mentre sarebbe più opportuno sostenere
“non farlo, parlane!”, in quanto solo la riflessione e lo scambio di opinioni permette di realizzare i piani migliori. La
routine o la rigidità dei sistemi sono intollerabili per l’ozioso: il suo desiderio e
la sua massima aspirazione sono di vivere senza regole, salvo quelle che egli stesso si è dato, perché se non ci sono regole non c’è pericolo di trasgredirle e quindi di sentirsi in colpa.
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Evitare i sensi di colpa, non assumersi responsabilità, vivere alla
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giornata cercando di massimizzare il piacere sensoriale (anche attraverso le droghe
o gli alcolici, come suggerisce Hodgkinson)
sono tutti indicatori di un desiderio di regredire se non alla prima infanzia, quanto
meno alla prima adolescenza. In altre parole, niente di molto diverso dalla figura descritta nella “teoria X” di Mc Gregor, costruita pensando proprio a come gestire e
far lavorare un essere umano che si sia fermato nel suo sviluppo a questo periodo della vita.
Per simili persone è necessario utilizzare
l’autorità come forma di
supervisione,
dare indicazioni e ordini precisi, controllare
e rinforzare il
bisogno di dipendenza: l’organizzazione
deve essere basata su strutture e gerarchie
ben definite, e deve utilizzare meccanismi
di premio/punizione anche monetari (forma più evoluta del classico “bastone e carota”) per ottenere i comportamenti desiderati e controllare l’ostilità e l’antagonismo di chi preferirebbe non fare niente.
Il gioco di specchi delle aspettative reciproche alimenta un circolo vizioso:
quanto più il capo considera il dipendente un infido buono a nulla da controllare strettamente, tanto più il dipendente cercherà spazi di sabotaggio, simili a quelli proposti dalla Maier, per
sfuggire all’oppressione e, così facendo,
costringerà il capo ad aumentare il proprio controllo, in un crescendo di oppressione e diffidenza reciproca. In quest’ottica le esigenze dell’azienda prevalgono su quelle del collaboratore, il quale accetta di essere diretto e comandato
in cambio della retribuzione e della sicurezza del lavoro.
Molto diverse sono le figure del capo e del
dipendente proposte dalla “teoria Y”, che
si basa sulla fiducia nella voglia di crescere e di realizzare, anche attraverso il
lavoro, le proprie potenzialità: gli esseri
umani che vivono in una società in cui sia
ormai stato per lo più superato il livello
del bisogno di sopravvivenza (raffigurato
alla base della piramide di Abraham Maslow 4) aspirano a soddisfare esigenze di
livello superiore, quali il desiderio di essere accettati, riconosciuti per le proprie
qualità e di autorealizzarsi.
In questo contesto, o quanto meno in
quest’ottica, il controllo dall’esterno potrà essere ridotto al minimo e sostituito
con l’autocontrollo: al collaboratore verranno assegnati non compiti ma obiettivi, lasciandolo libero di muoversi, perfino di sbagliare, perché è proprio dall’errore che si può imparare di più.
L’impegno e la fatica necessariamente
profusi vengono ripagati non solo in termini economici, ma anche dalla soddisfazione del proprio operato e dalla possibilità di assumersi responsabilità, esercitare la propria inventiva e la propria
creatività: il lavoro in queste condizioni
può essere visto come fonte di gratificazione più che come biblica condanna.
Il ruolo del capo diventa quello del coordinatore, di colui che
tiene le fila dell’insieme, che media e integra le aspirazioni di crescita del collaboratore e gli obiettivi dell’impresa, che può
fungere da esperto o da sostegno, da allenatore della squadra. Stante la stretta interdipendenza tra il ruolo del capo e quello del collaboratore, solo là dove si crea un
clima di fiducia reciproca è possibile conseguire gli obiettivi di ciascuna delle parti. E quanto più questo clima si diffonde
in tutta l’organizzazione tanto più si possono superare le rivalità fra i diversi settori aziendali e lavorare insieme per il bene e la sopravvivenza globale: la proposta
di Mc Gregor per un futuro di crescita per
tutti è la consapevolezza che è mortifero
attribuire colpe agli altri per salvarsi (il
credere nel “mors tua vita mea”) e va sostituito col credere nel “vita tua vita mea”.
Il rileggere queste pagine de Il manager
di professione, purtroppo appesantite da
una traduzione che utilizza un vocabolario obsoleto, mi ha riportato alla mente i
primi anni Sessanta, epoca nella quale la
visione della vita e del lavoro era maggiormente caratterizzata dalla fiducia
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Maslow propose nel 1954 un ordine dei bisogni (bisogni fisiologici, di sicurezza, di appartenenza, di stima e di autorealizzazione,
a cui si aggiunse il bisogno di trascendenza), secondo il quale alcuni di questi vanno
soddisfatti prima che nascano quelli del livello successivo.
nelle persone e dall’apertura al loro desiderio di crescere verso la dimensione
adulta dell’assunzione di responsabilità:
non ci si nascondeva dietro l’idea che
questa concezione del mondo del lavoro
potesse essere un’utopia, dato che nella
realtà di quegli anni la maggior parte delle aziende era ancora distante da questo
modello, ma quanto meno si auspicava
che esso potesse in futuro realizzarsi.
Ben diverso è il modo di pensare proposto dai nostri due autori, che auspicano
un mondo basato sul rifiuto di qualsiasi
responsabilità.
Per spiegare come mai ci sia
stato un simile cambiamento si
può solo ipotizzare si sia verificata una delusione profonda che ha provocato la caduta di qualsiasi sistema di valori “adulti”: ne è derivata una situazione di tipo depressivo, che si manifesta con il rifiuto a
crescere espresso o dalla regressione alla
contestazione adolescenziale, aggressiva
nell’autrice francese, o dal ritiro edonistico nell’autore inglese. Per entrambi il
messaggio da trasmettere agli altri è:
“Non vale la pena di impegnarsi, quindi
godiamoci la vita!”, inneggiando a comportamenti infantili tanto più premianti
in quanto messi in atto in un mondo nel
quale al centro di tutto c’è l’adorazione
acritica delle nuove generazioni.
I bambini sono oggi il punto focale
dell’universo, a loro tutto è concesso immediatamente per timore che l’attesa
della gratificazione possa comprometterne la crescita e soprattutto la “creatività” spontanea.
Purtroppo però in questo modo sono privati della possibilità di desiderare qualcosa per il proprio futuro e di combattere per
conquistarlo, e sono sovraccaricati di richieste e di paure, data l’assoluta assenza
di limiti che li circonda: c’è il rischio che
una pedagogia che si basa su questi principi produca personalità disturbate in misura maggiore rispetto alle generazioni
precedenti, cresciute con un’educazione
diversamente concepita. Dal pericolo di
creare adulti schiacciati dai sensi di colpa
e dalle inibizioni si è passati al pericolo di
creare pseudo-adulti narcisisti e velleitari.
All’inizio dell’estate sul Corriere della Sera
è uscita una pubblicità a tutta pagina la
cui headline era “Da grande voglio fare il
bambino”: a quando il desiderio di tornare a essere lattanti o di regredire a una dimensione ancora antecedente quale quella dell’essere feti o embrioni?
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