PERCORSI DIDATTICI
Vincenzo Bellini al lavoro
con la poesia
Alessandro Roccatagliati
IL «LABORATORIO POETICO» DI VINCENZO BELLINI E DEL SUO LIBRETTISTA DI FIDUCIA FELICE ROMANI: UNA
COLLABORAZIONE INDAGATA ATTRAVERSO L’ANALISI DI PASSI TRATTI DA LA SONNAMBULA E NORMA.
Drammi in versi e musica
La carriera del grande operista Vincenzo
Bellini (Catania, 1801 - Parigi, 1835) fu
tanto fortunata quanto breve. Al di là di
due opere giovanili scritte durante gli
anni di conservatorio a Napoli (Adelson
e Salvini, 1825; Bianca e Gernando,
1826), la sua parabola creativa da professionista durò nemmeno otto anni in
tutto: dall’ottobre1827, in cui esordì e
trionfò a Milano con Il pirata, al gennaio1835, che coi Puritani lo vide affermarsi nel panorama dei teatri musicali
parigini (tanto da guadagnargli l’alto
riconoscimento di Stato della Legion
d’Onore). Proprio mentre preparava
quest’ultima partitura, Bellini ebbe tali
difficoltà col librettista improvvisato che
era riuscito a reperire nella capitale
francese – Carlo Pepoli, uno dei tanti
esuli italiani fuggiti là dopo i moti carbonari del 1830-31 – che lo rimproverò
anche per lettera. Ci lasciò però così
una dichiarazione preziosa:
Anonimo, Ritratto di Vincenzo Bellini (ca.
1830), collezione privata.
tuazioni» che risultino d’«effetto». Vale
a dire, di forte impatto emotivo: Bellini
mira a trascinare l’animo dello spettatore verso estremizzazioni («piangere,
inorridire, morire») che si sposano in
pieno con le sue inclinazioni al gusto
estetico romantico. Nel dramma per
musica quegli effetti si raggiungono
Il dramma per musica deve far piangere,
però grazie ad un mezzo peculiare e
inorridire, morire cantando… Gli artipotente, ossia «cantando»; un canto che
fizi musicali ammazzano l’effetto delle
prende vita poiché vi si uniscono, vi si
situazioni, peggio gli artifizi poetici in
nutrono reciprocamente sia invenzioni
un dramma per musica; poesia e musica,
poetiche sia invenzioni musicali. Per le
per fare effetto richiedono naturalezza e
quali serve «naturalezza e niente più»,
niente più.
lontana da tutti «gli artifizi»: ciò che
Come sempre nelle creazioni destinate Pepoli fa fatica a capire e realizzare,
alle scene teatrali, la principale preoc- mentre verseggia I puritani, e che Bellini
cupazione dell’artefice è dare vita a «si- vuole insegnargli.
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Inventare musica di massima genuinità
ed efficacia stava a lui, al compositore.
Aveva già dimostrato di saperlo fare
molto bene, all’epoca, coi suoi altri
grandi successi: La straniera, 1829; I Capuleti e i Montecchi, 1830; La Sonnambula e Norma, 1831. Scrivere poesia in
grado d’assecondare questa sua capacità, invece, non era cosa da tutti. Bellini
era abituato molto bene. Arrivato a Milano, aveva incontrato fin da subito il
miglior librettista sulla piazza, forse già
allora il più apprezzato d’Italia: il ligure
Felice Romani. Questi gli aveva fornito
il testo poetico del Pirata, e di lì in poi
scrisse tutti i libretti che Bellini musicò
per i teatri italiani prima del suo trasferimento a Parigi (1833). Fu una collaborazione solida e sempre più rodata,
insomma. Il musicista aveva idee chiare
sul perché tenersi caro il poeta di fiducia: rifiutò un altro quotato librettista in
quanto «mai mai potrebb’essere un verseggiatore come Romani, e specialmente per me che sono molto attaccato alle parole; ché vedi dal Pirata
come i versi e non le situazioni mi
hanno ispirato del genio, … e quindi
per me Romani è necessario».
Necessarie al buon far musica, dunque,
le parole di quei drammi tessuti integralmente in versi. Perché? Su quanti
diversi piani? E con che tipo di lavoro
rispettivo, per il poeta prima e il musicista poi?
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Intreccio, personaggi,
situazioni, “numeri” musicali
naggi, la primadonna veniva fatta uscire
sulle scene solo una ventina di minuti
dopo l’inizio, un momento drammatico intenso veniva individuato per costruirci sopra una grande scena collettiva intermedia (il cosiddetto ‘finale
centrale’), un certo numero di pezzi doveva infine toccare obbligatoriamente
ad ogni ‘prima parte’. Ciascuna situazione-“numero”, poi, andava articolata
al suo interno in maniera accurata.
V’andava infatti dato ampio spazio all’espressione emozionale dei cantanti
principali; occorreva alternarvi fasi in
cui l’azione procedeva rapida e fasi in
cui essa rallentava o si fermava; e lo
stesso succedersi di queste fasi era codificato in sequenze canoniche (che
vennero poi dette “solite forme”).
Ebbene, tutto ciò, per poterlo realizzare
poi in musica, andava organizzato in
versi. In forme metriche, cioè: i dialoghi,
i monologhi, le espressioni dei gruppi
collettivi si configurano, nei libretti,
come sequenze di versi sciolti (endecasillabi e settenari alternati) e di strofe variamente disposte: simmetriche o diversificate per numero di versi, perlopiù
uniformi nel metro poetico, che però
muta piuttosto spesso. Parole verseggiate che via via, in bocca ai personaggi,
Non era certo frutto di libera fantasia
letteraria, un libretto dell’epoca. Derivato pressoché sempre da drammi di
teatro recitato, nel crearlo occorreva seguire consuetudini note, dette “convenzioni”: solo rispettandole, magari
con qualche elemento innovativo, era
possibile dare agli intrecci e ai vari momenti scenici ricavati dagli originali un
taglio e un andamento che risultassero
efficaci una volta posti in musica. Il
pubblico dei teatri d’opera, infatti,
aveva determinate attese, derogabili
solo in parte.
Una normale compagnia di cantanti, ad
esempio, prevedeva di solito tre, raramente quattro interpreti di gran livello,
le cosiddette “prime parti”. Uguali di
numero dovevano perciò essere i personaggi principali del libretto, con altre,
poche figure minori a fare da contorno
(destinate ai cantanti “comprimari”).Un
melodramma intero, poi, andava concepito come una sequenza d’una decina-dozzina di situazioni precise, prima
selezionate e poi organizzate in modo
tale da poter divenire, nelle mani d’un
Bellini (o Donizetti, o Verdi, ecc.), altrettanti brani musicali distinti, detti
“numeri”. Nei quali, ovviamente, occorreva potessero risplendere via via le doti
di uno, due, tre o quattro personaggicantanti primari (rispettivamente per
arie, duetti, terzetti e quartetti), con o
senza la presenza di comprimari e coro
(al quale toccavano di norma un paio di
pezzi in esclusiva).
Si trattava dunque di riconfigurare in
base a questi principi qualsiasi trama
teatrale scelta, e di cavarsela al meglio
con estro anche combinatorio, fin dal
momento in cui si disponevano in successione le situazioni-brani. Per prassi,
infatti, un’opera doveva iniziare con un
coro e un’introduzione a più perso- F. Romani (1788-1865).
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danno vita alle varie situazioni e azioni
drammatiche entro le diverse ambientazioni sceniche – spesso almeno un
paio – in cui si suddividono gli atti di
ciascuna opera (due o tre, di norma).
Questo, dunque, il mestiere in cui Felice
Romani eccelleva. Questo, dunque, il
tipo di lavoro preparatorio sulle «parole» che era «necessario» a Bellini: il libretto quale sorta di campo molto ben
dissodato – grazie a vocaboli, espressioni e frasi, ma anche metri, strofe e
successioni strofiche – sul quale melodie, armonie e ritmi musicali potevano
essere seminati e fiorire al meglio. Merita dare un’occhiata a come ciò sia talvolta avvenuto, tra Romani e Bellini.
Col musicista colto di quando in
quando mentre fiancheggia, fattivo, lo
stesso librettista.
Bellini e Romani
nel laboratorio poetico
Abbiamo testimonianze dirette e indirette, su come Bellini e il suo poeta prediletto lavoravano insieme. Lettere dell’uno e dell’altro ci forniscono informazioni precise riguardanti più momenti d’elaborazione, e a proposito di
varie opere. Nitidi ricordi di Romani
sulle loro collaborazioni, sebbene vecchi
di decenni, furono trasmessi nella sua
biografia: tanto partigiana quanto ben
documentata, la scrisse la sua vedova
nel 1882. Fortuna vuole però che siano
giunti sino a noi anche veri e propri
manoscritti di lavorazione ai libretti, in
buon numero e per la maggior parte
autografi. Sono conservati in archivi di
Milano e, in particolare, di Siena, dove
all’Accademia Chigiana sono raccolte
molte carte di preparazione verseggiata
della Sonnambula e di Norma. Ed è grazie all’insieme di queste documentazioni che talvolta è possibile seguire
quasi passo passo l’operare dei due,
nella fucine della poesia per musica.
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Manoscritto librettistico autografo di Romani e Bellini, per La Sonnambula, I, 5.
Causa esigenze di rifinitura drammatica, o magari anche di diverso risalto
da dare a ciascun cantante-personaggio, non fu per nulla raro che lavorassero a quattro mani per calibrare le
forme poetiche date alle singole situazioni, ossia ai ‘numeri’ musicali in cui
quei versi si sarebbero trasformati. La
prima aria di Elvino, il tenore protagonista maschile della Sonnambula, fu
ad esempio pensata in un primo mo-
mento tutta consacrata a lui come di
prassi (ce lo dicono abbozzi di Romani). Ma il poeta stesso a un certo
punto ne inviò al musicista una stesura incompleta delle ultime sezioni,
con una pagina destra lasciata bianca
per la dovuta conclusione. E questa
conclusione fu tutt’altra dal previsto
(cfr. manoscritto): mezza di mano di
Romani, mezza di Bellini, con varie
cancellature, la pagina venne infine
I stesura
Nor.
(L’istesso incanto… il mio delirio
istesso)
Ad.
Sola, furtiva, al tempio
io l’aspettai sovente;
ed ogni dì più fervida
crebbe la fiamma ardente.
“Vieni”, ei dicea, “concedi
ch’io mi ti prostri ai piedi,
lascia che l’aura io spiri
de’ dolci tuoi sospiri,
del tuo bel crin le anella
dammi poter baciar.”
Nor.
II stesura
Nor.
Ad.
Nor.
Nor.
Ad.
Ahi! sì fatal favella
seppe me pur bear.
Nor.
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(Oh! rimembranza! io fui
così rapita al sol mirarlo in volto.)
Ma non mi ascolti tu?
Segui… t’ascolto.
Sola, furtiva, al tempio
io l’aspettai sovente;
ed ogni dì più fervida
crebbe la fiamma ardente.
(Io stessa… anch’io
arsi così: l’incanto suo fu il mio.)
“Vieni”, ei dicea, “concedi
ch’io mi ti prostri ai piedi,
lascia che l’aura io spiri
de’ dolci tuoi sospiri,
del tuo bel crin le anella
dammi poter baciar.”
(Oh! cari accenti!
così li proferia…
così trovava del mio cor la via.)
riempita con versi che davano ampia
parte alla protagonista femminile,
Amina; così che vennero immessi robusti elementi da “duetto amoroso” in
quel brano dove comunque continuava a risplendere, anzitutto, il primo
tenore.
Ancora più raffinato, e altrettanto incisivo, fu l’intervento che Bellini sollecitò per mettere a punto la prima parte
d’un duetto famosissimo, quello tra la
sacerdotessa Norma e la sua ancella
Adalgisa, nel prim’atto di Norma. Inconsapevoli, amano ambedue, colpevoli poiché religiose, lo stesso uomo.
Mentre la più giovane narra del suo innamoramento recente, la più matura
rammenta tra sé il proprio, già più lontano nel tempo. Romani originariamente scrisse la prima strofa come sotto
a sinistra; poi, seguendo idee di Bellini,
la trasformò come a destra (vedi box).
Evidente cosa Bellini volle: ampliare,
intensificare gli struggenti interventi di
Norma. Per cui tre versi in tutto, un endecasillabo iniziale e due settenari conclusivi, Romani li espanse in otto versi
di tipo recitativo distribuiti agli inizi,
alla fine, e pure intercalati entro la strofa
originaria. Il risultato musicale? Un’invenzione tra le più memorabili dell’opera di sempre.
Numerosi furono anche i casi di plurimi rifacimenti della versificazione per
uno stesso specifico brano musicale.
Che poteva essere scritto e riscritto per
dire le stesse cose in metri diversi, a seconda delle esigenze mutevoli del musicista. Una celebre cabaletta di Norma,
che nella versione definitiva fu in settenari e inizia coi versi «Ah! bello a me ritorna | del fido amor primiero», era
stata dapprima pensata con l’esordio
«Tutti, ah tutti tradisco i miei voti | profanata, delusa, demente!» (in decasillabi), poi con quello «Ah! riedi ancor |
qual eri allor | che il cor ti diedi» (in
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quinari); e sappiamo che ne era stata
ipotizzata anche una versione in versi
ottonari. Oppure, poteva capitare che il
poeta o il musicista stentassero a trovare
il registro stilistico giusto per strofe
d’un metro che rimaneva sempre
quello stabilito: del pezzo con cui
Amina conclude La sonnambula, ossia
la cabaletta in ottonari «Ah non giunge
uman pensiero», rimasero negli autografi almeno altre cinque versioni diverse.
Ragioni schiettamente musicali potevano condurre Bellini a imporre direttamente la modifica anche d’un singolo
verso, come accadde nell’aria-duetto di
Elvino e Amina già citata. Poiché a un
certo punto il musicista decise d’usare
la stessa melodia assegnata in precedenza al solo tenore sul verso «Prèndi,
l’anel ti dono» anche per iniziare il
pezzo “a due” di poco seguente, non gli
andò affatto bene il verso che Romani
gli aveva creato allo scopo in prima battuta. Questo iniziava infatti con «Dal dì
che i nostri cori», con accento forte sulla
seconda sillaba. Ma quella melodia –
notissima ancor oggi – prevedeva accento forte sulla prima sillaba; così, Bellini scrisse di sua mano, nel foglio poetico autografo di Romani, quel «Càro\a,
dal dì che univa» (cfr. manoscritto) che
da allora risuona ad ogni esecuzione
dell’opera.
Simili condizionamenti di musica “già
pronta” sui versi finali d’un libretto potevano verificarsi, del resto, anche su
scala ben più vasta. Nei luoghi e momenti più vari, Bellini annotava su quadernetti idee melodiche che gli sorgevano in mente, ovviamente prive di
parole. Al momento di impiegarle in
un’opera, il poeta doveva quindi sapersi
adattare; tanto che Romani, arrabbiatissimo con lui allorché litigarono per il
cattivo esito di Beatrice di Tenda (1833),
dichiarò pubblicamente che era stato
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G. Migliara, Ritratto di Romani e Bellini (in piedi) in gita marina con amici.
«tormentato ogni giorno da’ suoi ca- fuoco di essa, certo, poche parole o silpricci, e torturato più che Orombello [il labe potevano anche andar bruciate.
tenore dell’opera] dalle armonie prestaAlessandro Roccatagliati
bilite della suddetta sua musica».
Università di Ferrara
Comprensibile dunque che, talvolta, il
poeta volesse conservare la propria dignità professionale di letterato rispetto
ai versi che il musicista finiva per diBIBLIOGRAFIA
sporre in partitura sotto le voci. Ne deM.R. Adamo - F. Lippmann, Vincenzo
rivarono discrepanze, di solito minime,
Bellini, ERI, Torino 1981.
che sono ancor oggi riscontrabili tra i liC. Neri, Vincenzo Bellini. Nuovo epistobretti stampati e venduti dai teatri dellario (1829-1835), Agorà, Catania 2005.
Vincenzo Bellini nel secondo centenario
l’epoca (prodotto artistico dal poeta) e
della nascita, atti del convegno interle parole effettivamente cantate in
nazionale (Catania, 8-11 novembre
scena: differenze che si ritrovano nel
2001), a cura di G. Seminara e A. Tedesco, Olschki, Firenze 2004.
Pirata, nei Capuleti e i Montecchi, nella
A. Roccatagliati, Felice Romani librettiSonnambula, e anche altrove. Perché
sta, LIM, Lucca 1996.
Bellini, è vero, cesellò più volte la poeA. Roccatagliati, Introduzione a Vinsia che gli innescava la fantasia gomito
cenzo Bellini, La sonnambula, a cura di
A. Roccatagliati e L. Zoppelli, Casa Ria gomito con l’apprezzato Romani. Ma
cordi, Milano 2009 («Edizione critica
l’effetto dei melodrammi suoi esplodelle opere di V. Bellini», 7), pp. XI-XLVI.
deva pur sempre grazie alla musica,
J. Rosselli, Bellini, Ricordi, Milano 1995.
cantata, che egli solo inventava. E nel
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