Tariffa Assoc. Senza Fini di Lucro: Poste Italiane S.P.A - In A.P -D.L. 353/2003 (Conv. in L. 27/02/ 2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB/43/2004 - Arezzo - Anno XVI n° 1/2012
La crisi
è opportunità
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SOMMARIO
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Primapagina
Non fuggire, è solo crisi
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Quando la vita ci chiede di saper aspettare
Lavorare per vivere o lavorare per la vita?
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10 Andare incontro all’onda
Più forti della crisi
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14 Il primo passo di un lungo viaggio
Ripartire dalla famiglia
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Il nuovo anno della Fraternità
22
20 La danza di Willy
24 Nuovo libro di Luigi Verdi
Calendario Veglia di Romena
26
Graffiti
29
28 Festa di Pasqua
trimestrale
Anno XVI - Numero 1 - Marzo 2012
REDAZIONE
località Romena, 1 - 52015 Pratovecchio (AR)
tel. 0575/582060
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e-mail: [email protected]
DIRETTORE RESPONSABILE:
Massimo Orlandi
REDAZIONE e GRAFICA:
Raffaele Quadri, Massimo Schiavo, Luca Buccheri
FOTO:
Massimo Schiavo, Giuditta Scola, Piero Checcaglini,
Fiorenza Picozza
Copertina: Daniele Fattaccio
Hanno collaborato:
Luigi Verdi, Pier Luigi Ricci, Luigi Padovese, Maria Teresa Marra Abignente, Wolfgang Fasser, Alberto Ottanelli
Filiale E.P.I. 52100 Arezzo
Aut. N. 14 del 8/10/1996
Crisi e opportunità. Mi nego l’accento, non me lo sono guadagnato. Per me una crisi è un
detonatore di ansia. E l’ansia, nelle crisi, si fa largo, ti lascia senza respiro.
La mia è una fragilità molto comune; che sia personale, esistenziale, o sociale, la crisi oggi
è pericolosa perché si gonfia di paure, e così perde di vista ogni orizzonte.
Bisogna irrobustirsi. E Christiane ci aiuta, invitandoci a dare fiducia alla vita, accettandone
anche il carico di sofferenze, senza anestesie: “Quando si è cominciato a capire che la vita
è un pellegrinaggio, quando a una tappa di questo pellegrinaggio ci si guarda indietro, ci
si accorge che le donne e gli uomini che ci hanno fatto soffrire su questa terra sono i nostri
veri maestri, e che le sofferenze, le disperazioni, le malattie, i lutti sono stati veramente le
nostre sorelle e i nostri fratelli lungo la strada”.
Ci è prezioso sapere che una crisi produce nuovi passi nel nostro cammino di vita. Ma il
problema è quando ci sei dentro, quando la vivi. Noi, ci dice Christiane, di solito reagiamo
in due modi: con lo sfogo, cioè con il gridare ciò che fino ad ora era represso, o con la rimozione, cioè semplicemente ingoiando rospi e avvelenandosi così corpo e anima.
Eppure c’è anche una terza possibilità: “Sedersi in mezzo al disastro e divenire testimoni,
svegliare in sé quell’alleato che altro non è se non il nucleo divino in noi”.
Dentro un uragano esiste un punto, spiega la scrittrice, in cui niente si muove. Bisogna non
fuggire, avere il coraggio di restare e trovare quel punto. Perché se lo si trova la vita si rovescia, e quella situazione nella quale sentivamo di perderci, in realtà ci permette di ritrovarci,
ma in un luogo diverso, con un punto di vista nuovo.
Solo teoria? Alcuni anni dopo aver scritto questo testo, Christiane ha saputo che le restavano
pochi mesi di vita. Da quel momento si è dedicata a congedarsi con tenerezza da tutto ciò che
amava. Ogni giorno, finché le energie glielo hanno consentito, ha composto un libro-diario
(“Ultimi frammenti di un lungo viaggio”), cucendo parole e vita in un unico ordito: “Coloro che vedono nella malattia un fallimento o una catastrofe – scrive – non hanno ancora
iniziato a vivere. Perché la vita comincia nel punto in cui si frantumano le categorie. Ed è
uno spazio di immensa libertà”.
Il libro di Christiane non ci sta qui dentro. Possiamo però immaginare lei, voce calda, sguardo
di luce, che ci legge la frase con cui lo conclude.
È un verso di Rainer Maria Rilke: “E, di sconfitta in sconfitta, egli cresceva”.
Massimo Orlandi
PRIMAPAGINA
“Nel corso della vita ho raggiunto la certezza che le catastrofi servono ad evitarci il peggio”.
Christiane Singer alza i suoi occhi curiosi per indugiare su quelli spaesati di chi ascolta.
Poi continua: “Sapete che cosa è il peggio? È aver trascorso la vita senza naufragi, è esser
sempre rimasti alla superficie delle cose”.
“Del buon uso delle crisi”, si intitola così quella conferenza poi divenuta un libro.
Se potessi spingerei a forza tutto il testo dentro queste righe. “Nella nostra società – leggo
ancora – tutta l’attenzione è concentrata a sviarci da ciò che è autentico. Viviamo la più
gigantesca cospirazione di una civiltà contro l’anima”. In quest’epoca, secondo la scrittrice
francese, la crisi diventa “l’unico ariete capace di sfondare le mura della fortezza in cui ci
siamo rinchiusi”, l’unico modo per riconsegnarci a noi stessi, oltre ogni maschera.
Non fuggire, è solo crisi
di Luigi Verdi
La parola libertà in ebraico, contiene la radice
hfsh che vuol dire cercare. Un uomo è libero se
continua a cercare. Le crisi, che sembrano bloccarci, in realtà aprono spazi, rompono gusci di
comodità e creano le condizioni per mettersi di
nuovo in marcia, in ricerca.
Sono questi momenti di vuoto, di sospensione,
di attesa, che rinnovano il mondo.
Non dobbiamo temerli, ma viverli.
Ciò che ci deve preoccupare, oggi, non è la crisi
in quanto tale, ma l’ìndisponibilità a viverla.
Non ci fidiamo del futuro, dell’inedito che contiene, e ci abbarbichiamo al presente per trattenerlo.
Questa crisi ha lo stato d’animo degli apostoli,
che dopo le apparizioni di Gesù si rinchiudono
nel cenacolo, intimoriti sul da farsi, o, peggio,
di Giuda, appeso alla corda del contingente, del
sicuro, incapace di guardare oltre.
Il timore di perderci rallenta qualsiasi movimento di crescita. La vera crisi è dunque nell’assenza di fiducia, nella cecità verso l’impossibile di
oggi, che sarà possibile domani.
Questa situazione può sbloccarsi solo riaprendoci al movimento naturale della vita, quel movimento del quale la crisi è parte, perché annullando le nostre sicurezze, ci apre al cambiamento.
Fermati
Il primo movimento che ci occorre è in realtà un
non-movimento. Una sosta. Shabbat, chiamano
gli ebrei il giorno del riposo. È il giorno in cui
si cancella ciò che si crede di sapere, in cui si
abbandona quello che si crede di avere. Questa
sosta è necessaria per liberarci dal condizionamento mentale di ciò che siamo, per aprirci gli
occhi. Shabbat è il tempo liberato dalla costrizione del fare, dai vincoli del già visto, già conosciuto; per questo ci permette di vegliare su ciò
che non si vede, di andare al di là del visibile,
di inventare nuove strade, di ricreare e ricrearsi.
Senza fretta
Che passi subito, ci diciamo sempre. Ed è una
frustrazione. Vorremmo trovare un immediato
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benessere per uscire dalla crisi, scoprire quel
farmaco che possa cancellare il male. Ma la
fretta è il demone della felicità senza sforzo e
ci porta a non affrontare i problemi che stanno
dietro le crisi e che, rimossi troppo velocemente,
sono come veleni non smaltiti.
La fretta non permette alle ferite di guarire, anestetizza solo la parte dolente, nega il vissuto, ci
priva del diritto alla convalescenza. Chi si rialza
troppo in fretta da una malattia sa che è destinato a ricadute.
Quello che ci serve è altro: accogliere con fiducia e abbandono le domande che ci salgono dal
cuore e dal mistero della vita degli uomini.
Guarda dentro
Il nostro punto di partenza è il luogo da cui vorremmo fuggire. Il nostro quotidiano.
È nel groviglio d’ogni giorno, nel piccolo frammento che ci è stato affidato che si nasconde il
senso della nostra esistenza. Dare valore al quotidiano ci permette di toccare la vita, di starci
dentro senza scappare e di amarla.
Occorre uno sguardo profondo che faccia leggere la realtà e porti alla luce ciò che sta dentro, e
un cuore attento e duttile, così agile da poter vedere fra i crepacci del presente il fiore che nasce.
Riprendi il cammino
Nella vita noi non avanziamo per colpi di volontà, ma per scoperta di tesori:“Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”.
Occorre quindi metterci fiduciosamente in cammino, consapevoli che la vita ha dinamiche di
resistenza, ma che queste non ci devono bloccare. In tutti noi c’è la capacità di ribellarsi e
affrontare questa realtà. Non siamo di fronte a
forze contro cui è impossibile combattere. È ancora possibile recuperare la densità del presente
e restituire all’esistenza la sua misura.
E allora dobbiamo avere il coraggio di percorrere strade che nessuno ha ancora percorso, di
pensare idee che nessuno ha ancora pensato.
La crisi del mondo non deve trascinarsi dietro la
crisi della nostra speranza.
Quando un uomo esce dall’abisso,
non ripete parole di altri,
non intona vecchie canzoni.
Uscire dal baratro è nascere.
Ogni nascita è novità.
Foto di Giuditta Scola
Ermes Ronchi
Quando la vita ci chiede di saper aspettare
di Pier Luigi Ricci
La crisi è sempre opportunità? Non è detto, non è scontato. È una questione di fede: la
fede che un significato ci sia, anche quando proprio non riesci a vederlo.
Ripensando alla mia vita, non credo di essere
riuscito sempre a far tesoro dei miei momenti di
crisi. A volte l’ansia è rimasta per un bel pezzo
e con lei i sensi di colpa, il rammarico, la paura.
E la crisi è riuscita a lasciare il segno.
Riconoscere questo mi è stato utile, per potermi
dire di nuovo che se desidero che la crisi diventi
opportunità tutto questo dipende da me e non
dalle circostanze.
Allora mi sono chiesto quale sia stata la risorsa o l’atteggiamento che nel tempo, a volte, mi
abbia permesso di compiere quel passo. Perché
per fortuna quel passaggio qualche volta sono
riuscito a farlo accadere. Le cose migliori sono
nate da lì, dai momenti di difficoltà, subito dopo
la bufera e oggi posso dirlo, anche grazie alla
crisi. Ho cambiato direzione, ho aperto strade
nuove, ma quel che più conta sono diventato
migliore, un po’ meno sicuro, ma anche certamente meno orgoglioso e più saggio. Non credo
che per far questo bisogna essere bravi o intelligenti o così forti da piegare gli eventi. Credo
si tratti di una disposizione del cuore e della
mente. Forse più si è disarmati e impreparati
più si può andare avanti.
Se la crisi si impossessa di te, se mentre la racconti senti che non esiste altro e mentre parli di
lei parli di te, allora arriverai a farci l’abitudine,
a vestirti di lei e tutt’al più a trovare qualche
buona soluzione.
Ma l’opportunità che ti aspetta non è mai rappresentata dalla semplice soluzione del problema, è qualcosa di più, è qualcosa di altro. Sta in
un’altra pagina della tua vita.
Hai mai provato a guardare le tue cose da fuori,
a raccontarle come se tu fossi a distanza? Ti accorgeresti che tu sei altro dalla crisi e scopriresti
che essa è un pezzetto di qualcosa di più grande e che vista così, che vista da lì, essa ha un
significato. Rappresenta una parte della strada,
un pezzetto di vita che forse ti doveva proprio
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accadere e che potrebbe servirti.
Ogni tanto nella vita appare un bivio. È un
istante in cui devi decidere.
Puoi rinchiuderti in te stesso, maledire la situazione in cui ti trovi e rafforzare l’idea di essere
sfortunato. Ed allora comincerai ad andare in
basso. Se tu invece cominci a dire che ciò che
stai vivendo ha un senso, anche se non sai quale
possa essere questo senso e questa utilità, allora
ricomincerai a vivere e a salire.
Quel passo è decisivo. Poi il senso verrà e lo
capirai. Ma in quel momento serve solo un atto
di fede.
Ho capito a mie spese che non servono le fughe,
le maschere: una crisi è una crisi e fa star male,
nasconderla ti riporta indietro.
Ma il solo riconoscere che esiste un significato,
il solo dire questa cosa a sé stessi fa scattare
qualcosa che basta. È una passività carica di
consapevolezza e di fiducia, è una passività, ma
basta. A volte gli esseri umani riescono a fare
delle cose meravigliose, come trasformare una
crisi in opportunità, proprio diventando passivi
e più calmi, smettendo di opporre resistenza.
Il significato è un dono ed arriva, come tutti i
doni, quando gli pare.
Tu puoi cercarlo, ma arriva quando è il momento e dalla direzione che vuole. Il significato arriva da fuori, anche se poi lo devi far tuo. Arriva
come un dono da un incontro inaspettato che ti
rassicura, da un fatto che ti sorprende, da una
parola, una frase che ti chiarisce.
Chiedi il significato di ciò che ti sta accadendo
e che ti fa male, se credi, a Dio, alla tua anima
o a chi vuoi te. Ma è l’atteggiamento che conta.
Puoi essere fuori dal labirinto, quando ancora
ne sei dentro, se sei ancora libero di lasciarti
sorprendere ed emozionare da qualcosa che ancora non c’è, ma che già ti sta aspettando. E anche se questo atteggiamento dipende solo da te,
ricordati però che non potrai fare tutto da solo.
Cominciate col fare ciò che è necessario,
poi ciò che è possibile.
E all’improvviso vi sorprenderete
a fare l’impossibile.
Foto di Fiorenza Picozza
Francesco d’Assisi
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Lavorare per vivere o lavorare per la vita?
di Luigi Padovese
Al centro delle crisi di questo tempo, c’è una parola: lavoro: il lavoro che non c’è. Il lavoro che non
dà certezze. Il lavoro nel quale, spesso, non ci riconosciamo. E allora forse questa crisi è proprio
l’occasione per ripensare il rapporto tra la nostra vita e il lavoro. E per trovare nuove strade.
Ieri sera ho visto l’anteprima di un bellissimo
film francese, “Le nevi del Kilimangiaro” di
Robert Guèdiguian. Un film sulla perdita del
lavoro, della dignità, sulla vita di un operaio
sindacalista che, a 50 anni, perde il posto e deve
confrontarsi anche con chi è più “povero” di
lui, mettendo in crisi valori in cui ha creduto,
insieme alla moglie, per una vita. È però anche un film di grande speranza. Partendo dal
licenziamento e da una “violenza” subita (viene
rapinato da un giovane ex collega con minori
diritti e tutele di lui), ritrova in questo percorso
la voglia di vivere e di riaffermare l’umanità,
la solidarietà, l’apertura verso l’altro. La ritrova sia con la forza e la tenerezza del rapporto
che lo lega alla compagna di una vita sia con
i valori di onestà e giustizia in cui ha sempre
creduto. Non nega i sentimenti che prova nei
momenti difficili, di rabbia, di depressione, di
rivalsa, di smarrimento; li affronta, ne entra in
contatto, anche con l’aiuto della moglie, degli
amici, dei figli.
La crisi personale che attraversa diventa un’occasione per rinsaldare e ampliare le sue relazioni, per aprirsi agli altri, accettando di aiutare
e di farsi aiutare, non accetta la “seduzione” di
fare la vittima, di restare passivo, ma prende
l’iniziativa, assume le proprie responsabilità.
Partendo da questo film possiamo riflettere sulla
crisi e sul lavoro, guardando al lavoro come uno
dei luoghi della nostra vita dove si può generare
soddisfazione, benessere, crescita, ma dove si
può incontrare anche disagio, sofferenza, crisi.
Quando si attraversa la stanza buia della crisi è
difficile riconoscere e cogliere le opportunità di
cambiamento presenti.
Cosa possiamo fare per uscire da questa “trappola”, che appare senza via d’uscita? Come
possiamo trasformare un momento di crisi in
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una ricerca attiva di una nuova consapevolezza personale? Quello della crisi può essere un
tempo in cui è possibile riconoscere l’essenziale,
ciò che ci sta davvero a cuore, un tempo in cui
possiamo trovare il coraggio di potare cose inutili, abitudini che ostacolano, situazioni che non
hanno sbocco. Fare spazio, dunque, al “nuovo”.
Il protagonista del film riesce a dare la giusta
prospettiva agli eventi, dimostrando, con le
sue scelte che il coraggio vero è conoscere le
proprie paure e continuare a camminare, nonostante la fatica di rimanere fedeli a ciò in cui si
crede. La speranza che traspare dal film si fonda,
così, sul coraggio. Un coraggio che viene visto
come: saper vedere e farsi carico della propria
vita, delle proprie scelte; saper esprimere concretamente coerenza tra idee e pratica, capacità
di amare e di aprirsi agli altri, indipendenza di
giudizio e di scelta; riuscire a ricordare sempre
quello che si è stati, ma anche quello che si può
diventare. La strada proposta appare così a portata di mano occorre guardare l’altro, a partire
dalle cose semplici, legate al proprio quotidiano,
dedicare spazio al pensiero, rimettersi in discussione, piuttosto che rimanere chiusi in se stessi,
nel proprio presunto fallimento, nel torto subito.
Nei momenti importanti della nostra vita, intrecciando crisi e opportunità, sempre ci troviamo di fronte ad una scelta: “siediti e aspetta”
oppure “alzati e cammina”…Nel trovare la
“nostra” risposta dobbiamo, però, ricordare
che non siamo “mendicanti” di fronte alla vita,
siamo solo “mendicanti di luce”, per illuminare e riconoscere il senso che abbiamo dato alla
nostra vita e per intravedere il sogno e la direzione da seguire, per andare oltre e procedere
nel nostro cammino.
L’interruttore della luce è dentro di noi, ricordiamoci di accenderlo!
Foto di Piero Checcaglini
La bellezza
è una respirazione
più ampia che
per entrare in noi
inizialmente ci soffoca.
Christian Bobin
Andare incontro all’onda
di Maria Teresa Marra Abignente
Che cosa possiamo fare quando monta la tempesta della crisi? Come possiamo gestirla affinchè non
sia distruttiva? Maria Teresa ci porta in mare aperto, per ricevere un prezioso insegnamento…
Una vita come un unico panorama, con un solo
paesaggio che non cambia alle stagioni. Una vita
tutta in pianura, senza salite che fanno rompere
il fiato e senza discese che accelerano. Una vita
senza mani che tremano, senza occhi che si
spalancano, senza voci che si spezzano.
No, non mi piacerebbe una vita così. Eppure
quando immaginiamo la nostra vita futura,
la sognamo in questo modo: perfetta come
un cerchio, senza fratture, senza ostacoli che
interrompano il nostro placido corso.
Eppure quante volte, guardandoci alle spalle,
abbiamo capito che i momenti di difficoltà o
di sofferenza ci sono serviti? E quante volte
abbiamo benedetto quel che in un primo
momento ci sembrava essere una disgrazia,
qualcosa che avremmo fatto volentieri a meno
di vivere, ma che non abbiamo potuto scansare e
che, una volta attraversata e solo dopo (e spesso
molto dopo), si è rivelata essere una ricchezza?
I momenti di smarrimento sono così: sembrano
non avere senso, anzi sembrano quasi che il
senso ce lo facciano perdere, ci disorientano,
ci confondono, e stravolgono le nostre misere
e timide certezze. E viviamo questo tempo
annebbiati e soffocati, doloranti e disperati.
Eppure in momenti come questi qualcosa matura,
così come in questo periodo invernale i germogli
si gonfiano sotto la scorza nuda e infreddolita
della terra: la lenta attesa della primavera non
può fare a meno di questo tempo.
Noi invece, razionali ed intelligenti come siamo,
non sappiamo attendere, ed è forse questa la
terribile seduzione di questo secolo: illuderci
che ogni cosa, anche il nostro maturare, sia
possibile subito, senza travaglio. “Travaglio”
sì, cioè quel dolore convulso e intenso che
prepara la nascita e che segue una sua andatura
inarrestabile.
C’è una sapienza infinita nell’attesa, la stessa
del grembo che lievita e quindi della vita.
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C’è la sapienza di chi si sente incompiuto e
spera, di chi abbraccia con il presente anche il
futuro, di chi questo futuro lo sente già innestato
nella sua vita, pronto a sbocciare, anche se a
fatica, anche se con sofferenza.
Ma come vivere una condizione di crisi, di
fragilità, di debolezza con il cuore orientato
verso il futuro, quando sembra invece che tutto
crolli, che tutto si incendi senza lasciare altro
che cenere?
Chi ha un po’ di esperienza del mare sa che
quando arriva un’onda, una di quelle grosse, di
quelle che improvvisamente ti si parano innanzi,
non serve scappare perché l’onda è più veloce, ti
inseguirà e ti raggiungerà alle spalle: dobbiamo
invece andarle incontro, vincendo il terrore
che può assalirci, lasciarci sollevare e poi farci
trasportare fino a riva. Solo così non ci farà male,
o ce ne farà molto meno. Puntare la prua verso
l’onda, nonostante i brividi di paura, andare
incontro a ciò che in quel momento sembra più
forte con gli occhi bene aperti e con il cuore
tremante, vivere lo spasimo di quell’attesa.
La crisi somiglia proprio a quel momento,
quando l’onda sopraggiunge e noi siamo tentati
di fuggire o di restare paralizzati. È l’attimo in
cui sembra che tutto sia ormai finito, quando
viene la tentazione di lasciarsi sopraffare.
È anche l’attimo in cui non resta altro che
abbandonarsi, perché finalmente capiamo che
non siamo perfetti e invincibili, che qualcosa
in noi, come un’onda, come un germoglio, si
sta gonfiando per donarci il nuovo, per aprirci
un altro panorama, per metterci in una nuova
prospettiva.
Bisogna viverlo questo momento, bisogna
andargli incontro ad occhi aperti. Su quella riva,
dove l’onda ci porterà ci sono, chissà, tesori
inaspettati: di certo ad attenderci ci sarà la nostra
vita, resa più intensa e forte da una tempesta. E
da un’onda che ci ha accompagnato.
E se la speranza
nascesse proprio
dal disincanto?
E se dalle rotture
nascesse il nuovo?
Foto di Fiorenza Picozza
Franco Barbero
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Più forti della crisi
Conversazione con Roberto Mancini*
“Dobbiamo svegliarci e dire che vogliamo governare la nostra storia, la nostra vita, perché sia
capace di futuro e non sia un’infelicità organizzata”. Un filosofo sapiente e appassionato ci invita
a leggere in profondità le due parole di fondo che dominano l’orizzonte presente: la parola crisi
e la parola cambiamento.“
Nei tuoi libri usi con molta forza questa espressione: “crisi di civiltà”. È un’espressione molto forte, drammatica: quali sono i caratteri di
questa crisi di civiltà?
La crisi attuale non è soltanto un dissesto sorto
dalla crisi dei mutui negli Stati Uniti, o dalle assicurazioni e dalle banche. Non è qualcosa come
un temporale, per il quale ci si chiede semplicemente: quando passerà? Questa crisi rappresenta
il capolinea, anche se non si può neanche dire
che sia l’ultima fase, di un sistema che non ha
fondamenti di giustizia e che quindi naturalmente produce crisi.
Questo andamento traumatico non è eccezionale, non è
un’anomalia. È nell’ordine
naturale della logica di questo
sistema di vita e della civiltà
che ha realizzato.
Quando noi utilizziamo la
parola globalizzazione diciamo che questo modello
di economia non è solo una
dimensione della vita, ma
pretende di essere la dimensione complessiva della vita.
Non è quindi un’ideologia. Semmai ha trionfato
tra le ideologie, ma ha trionfato in maniera così
radicale che è diventato sistema globale entro cui
siamo immersi.
Così, per esempio, parliamo di persone come
“costo del lavoro” oppure come “esuberi”. E se
sei un esubero in una società concepita come un
mercato vuol dire che non sei solo disoccupato,
ma che sei fuori dalla società. Oppure parliamo
di “risorse” che detto alle persone non è un complimento, eppure noi lo diciamo agli stranieri, ai
giovani, pensando di essere gentili. Risorsa lo
posso dire a un martello, a un microfono, a uno
strumento, non a una persona.
Ma perché questo sistema entra in crisi?
Perché rovescia il rapporto tra strumenti e fini:
non riconosce la dignità delle persone, non riconosce la dignità delle relazioni, non riconosce
la dignità del mondo naturale. Lo strumento si
perverte quando diventa il fine, il soggetto e gli
uomini diventano strumento. E così abbiamo una
politica del potere per il potere, un’economia del
denaro per il denaro.
Un’altra cosa che dovremmo riconoscere non è
tanto la crisi, ma lo specifico di questa crisi, che
non accetta critica e non ha memoria: quella che
dal 2008 chiamiamo crisi, gli
altri popoli in Asia, in Africa,
in America latina la conoscono da decenni, da secoli, anche in forme più cruente.
Che il mondo stia in piedi
sulla base della competizione, ma possa rifondarsi solo
sulla base della giustizia, cioè
che ci siano condizioni di
vita adeguate per tutti, questa
è una verità elementare. Ci
vorrebbero persone profeticamente lucide come Aldo
Capitini ed Ernesto Balducci per ricordarci che
la storia respira a intervalli e procede in modo
imprevedibile. Non siamo ancora arrivati a un
vero ordine mondiale, a un ordine di convivenza
davvero umano. Dovremmo anzitutto recuperare la memoria di tutti quelli che già sono stati
travolti da questo modello di società che ora travolge anche noi.
Stiamo cercando delle soluzioni che esasperano
le cause che hanno prodotto la crisi. È come se
fossimo sotto un grande ricatto e anziché chiederci; come si fa a spezzare la spirale di questo
ricatto? Noi stiamo lì a dire: che cosa vuole il
*Filosofo, è docente di filosofia teoretica all’Università di Macerata.
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ricattatore? Come possiamo compiacerlo ancora
di più? È come una collettiva sindrome di Stoccolma in cui ci siamo affezionati al sequestratore.
Dalla parola crisi trasferiamoci al termine che
ne consegue, che quasi ne deriva. Cambiamento. Tu spesso parli di “antropologia della condivisione, di economia relazionale”: è da qui,
dalla riscoperta del fare le cose insieme, che
parte il cambiamento?
Il cambiamento è un processo che richiede diversi
passaggi: il primo è proprio il risveglio, il riconoscere che il modo di sopravvivere a cui siamo
indotti e la logica dominante non sono adeguati. Il
mondo sarà cambiato non dalle persone che si sacrificano nel senso moralistico, ma dalle persone
che conservano in se stesse la fedeltà alla felicità
e perciò si prendono cura della felicità degli altri.
Non siamo nati per soffrire o far soffrire, per
morire o far morire. Quando un figlio viene
generato il primo atto creativo, qualunque sia,
inizia con un sogno. Vedi, desideri e ami la cosa
che nascerà prima ancora di vederla. Il rapporto
con il sogno non è l’astrazione, ma l’essere umano ha due possibilità di rapporto con la realtà, lo
elabora il rapporto con la realtà.
A volte la felicità sarà affrontare la sofferenza
insieme, non è il privilegio, né la fortuna. Piuttosto, la felicità è una vita sensata condivisa.
Quando uno sta dentro a questa prospettiva veramente si risveglia. Dicevano i greci antichi:
“solo i desti hanno un mondo comune”.
Il secondo passo è creare zone franche nel tessuto della quotidianità, zone liberate che siano
una parrocchia, un posto di lavoro, la famiglia,
la scuola, dove contano più le persone che il denaro, il potere, il merito, la colpa, le prestazioni,
l’utilizzo, l’interesse, dove contano le persone.
Il terzo passaggio consiste nell’incidere sugli
stili di vita e cioè su come noi pensiamo e organizziamo l’esistenza quotidiana.
Questo non basterà. Dovremo anche recuperare il
buon funzionamento di quelle leve della vita sociale che sono la politica, l’economia, l’educazione, l’informazione. Abbiamo bisogno di persone
che facciano politica o economia, o educazione
oppure informazione secondo questo spirito.
Il cambiamento parte da noi, ma non si esaurisce dentro la microsfera della nostra quotidianità, chiede di attivare cambiamenti che siano
politici, sociali, economici, educativi, culturali.
Più persone sono capaci di vedere l’alternativa e
di vedere che questo sistema non è necessario,
e più sarà possibile realizzare il cambiamento.
Oggi la grande carenza è che non abbiamo né
nell’economia né nella politica persone che
credono nel cambiamento, al massimo razionalizzano il presente. Occorre iniziare a dire e a
praticare un’alternativa al modo di organizzare
la società. Un’alternativa che sia testimoniata,
abitata, sperimentata.
L’attraversamento del deserto dell’angoscia
comporta la scoperta o il ritrovamento di un
senso per vivere, di una speranza di vita che non
è solo per me, perché la incontrerò nel bene e
nell’esistenza dell’altro.
Le cause che ostacolano il vero cambiamento
non sono materiali, non sono economiche, sono
tutte di ordine culturale. L’impossibilità di cambiamento risiede anzitutto nello sguardo e nel
cuore chiuso; se si riapre il cuore si accende lo
sguardo. Bisogna cominciare a costruire l’alternativa da noi, noi siamo la nostra responsabilità.
Dire “io”, secondo Emmanuel Lévinas, significa
dire “eccomi”.
Le Parole e il Silenzio vol. 5
Ricominciare dalla crisi
L’intervista è un estratto dalla conversazione che potete trovare nel libro
Ricominciare dalla crisi. Il libro, delle edizioni Romena, contiene gli incontri
del ciclo “Le parole e il silenzio” con Silvia Ronchey (storica), Pier Luigi Celli
(ex direttore della Rai), Vandana Shiva (scienziata ambientalista), il nostro
Wolfgang Fasser e, naturalmente, Roberto Mancini.
ISBN 978-88-89669-44-0 € 10,00
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Il primo passo di un lungo viaggio
di Wolfgang Fasser
C’è qualcosa che possiamo fare quando le difficoltà ci stringono e la mente non trova strade.
Wolfgang indica un percorso concreto. Che già oggi possiamo iniziare.
Immaginate un uomo che cammina su una
corda sospesa nel vuoto. È una condizione nella quale possiamo sentirci anche noi quando,
per un disagio, una crisi, una malattia, sentiamo la nostra vita appesa a un filo e avvertiamo
che è diventato tanto difficile non solo andare
avanti o indietro, ma addirittura non cadere. E
allora che cosa si può fare? Esattamente quello
che deve fare un uomo sospeso nel nulla: bisogna ritrovare un equilibrio. Se ristabiliremo
una giusta armonia dentro di noi, cominceremo da subito a star meglio.
Sono quattro a mio avviso, gli elementi di vita
semplici, quotidiani, umani, che ci possono permettere di rimetterci in equilibrio, da subito.
Muoversi all’aria aperta
Il primo punto è dedicarsi al nostro corpo.
Diamogli luce, aria, movimento. Non serve
nient’altro che aprire la porta di casa e uscire.
Una bella passeggiata al mattino fa circolare il
sangue, ci fa scoprire il mondo, ci fa sentire la
forza che abbiamo dentro; e poi, con una bella
sudata, gli ormoni circolano meglio.
Quante persone si muovono solo dentro un’auto o in treno. E invece, basta una passeggiata
fuori: fa bene al nostro corpo quanto alla nostra mente. Non esiste una palestra che possa
proporci qualcosa di più ricco.
Abitare le relazioni
Oggi troppo spesso le relazioni hanno un
ruolo di secondo piano. Vengono dopo il lavoro. Secondo le statistiche un babbo vede i
figli mediamente per appena venti minuti al
giorno. Si corre per mille motivi, ma manca il
tempo relazionale.
La settimana scorsa un prete pugliese, don
Luigi, mi diceva: “Se vogliamo essere davvero vicino ai giovani, dobbiamo perdere tempo con loro”. Ha ragione. Quest’idea di non
perdere tempo per le relazioni non ci fa bene.
Così come non ci fa bene l’isolamento. Vivere
relazioni positive, alimentare l’amicizia ci nutre, ci spinge e ci protegge.
14
Riscoprire il nostro compito nella società
La cultura economica di quest’epoca ha associato il lavoro al suo compenso, ai soldi con cui
viene retribuito. E invece lavoro è il compito
che svolgiamo nella nostra società. Dobbiamo
ricordarci che ognuno ha un compito, ognuno
di noi, anche se disoccupato, può contribuire
alla società. E il suo impegno non deve essere
per forza un qualcosa di monetizzabile. Arturo Paoli ci dice che la cosa più importante è
“amorizzare il mondo” immettere dinamiche
di amore nel mondo. E questo è un compito
che spesso svolgono gli anziani.
Ma ognuno di noi ha un suo compito. Riconoscerlo ci fa sentire il valore della nostra presenza nella comunità umana.
Attingere alle nostre fonti vitali
Bisogna risalire alle sorgenti di ciò che ci dà
forza, energia, di ciò che alimenta i nostri sogni, la nostra fantasia. In una parola bisogna
cercare, in profondità, il senso profondo per
cui viviamo. Una vita che non trova senso
spinge verso il basso, è come una spirale che
va giù. Se si attinge alle fonti della vita si trova
più forza per affrontare le difficoltà.
In Uganda, quando è dilagata l’epidemia
dell’Aids, si è vista questa cosa: mentre gli uomini, ammalati, nel giro di pochi anni morivano, le loro mogli, sieropositive, continuavano
a vivere senza ammalarsi. Eppure il virus era
lo stesso. Qual era la differenza? Che le donne
avevano un senso fortissimo della loro vita, il
cui scopo era quello di creare un mondo per i
loro figli. Questo dava loro talmente forza da
rendersi più resistenti alla malattia.
Quando ci sentiamo bloccati, immobilizzati da una difficoltà si può partire da qui. Si
può cominciare subito, È tutto gratis, e ogni
giorno è buono per farlo. E se la montagna dei
problemi ci sembra immensa, ricordiamo che
ogni viaggio, anche il più lungo, comincia dal
primo passo. Camminando, dice un proverbio
sudamericano, si apre cammino.
Foto di Piero Checcaglini
Gridare
dal fondo dell’abisso
è rialzarsi dall’abisso.
E il grido è l’inizio
di una liberazione.
Sant’Agostino
16
Foto di Massimo Schiavo
No, non lasciate chiuse
le porte della notte,
del vento,
del lampo,
quelle del mai veduto.
P. Salinas
17
Ripartire dalla famiglia
di Alberto Ottanelli
C’è un luogo inatteso dove può iniziare un cammino per andare oltre gli spazi soffocanti
della crisi: è la famiglia. Bruno Volpi ci racconta l’esperienza delle comunità di famiglie:
piccole realtà familiari che entrano in contatto, si aiutano, sperimentano concretamente
un modo alternativo, liberante, di vivere.
“Uno dei segnali più decisivi della crisi di una
civiltà è la sua incapacità di stabilire un metodo
con cui rapportarsi col mondo, con le cose, con
gli altri popoli, uomini, culture – in una parola:
con la realtà”. Lo scrive lo scrittore Luca Doninelli e in queste poche parole sembra di leggere
la descrizione perfetta della situazione nella quale
stiamo vivendo. Crisi economica, crisi di valori,
crisi istituzionale, crisi spirituale, crisi della
famiglia. Non c’è speranza, dunque? Oppure,
cambiando la prospettiva e il modo di rapportarsi
con la realtà, possiamo trovare, all’interno della
crisi, le potenzialità per uscirne?
Giro la domanda a Bruno Volpi, presidente e fondatore dell’associazione “Mondo di Comunità e
Famiglia – MCF”, nata 30 anni fa dall’esperienza
del primo condominio solidale di Villa Pizzone a
Milano. Bruno è stato ospite a Romena nei mesi
scorsi per parlare di una “alternativa possibile”.
Bruno, in che modo una vita familiare basata
sull’accoglienza, sull’apertura, sulla condivisione può diventare una risposta alla crisi?
“Di fronte alla crisi si può reagire in diversi
modi: c’è chi si lascia andare, e si abbandona
18
alla rassegnazione. Oppure c’è chi d’istinto, al
grido di “si salvi chi può”, tenta di risollevare le
proprie sorti a discapito degli altri e comunque
da solo. O ancora, c’è chi può essere indotto a
delegare altrove le possibili soluzioni: allo Stato,
alla Chiesa, a qualche altra istituzione. Ed infine
c’è chi invece, di fronte ad un momento critico,
inizia a percorrere strade nuove, a cercare soluzioni alternative. Una “minoranza creativa” che
coglie la vera opportunità insita in ogni crisi:
quella di inventare una cosa che prima non c’era.
La proposta di MCF è questa. Una alternativa
possibile – non certo l’unica - all’organizzazione
“normale” della vita, del lavoro e della famiglia
che permetta a tutti di essere felici e, di conseguenza, di rendere felici gli altri.
Ma come si fa, nel nostro piccolo e concretamente, a lottare contro un sistema che sembra troppo
forte e pervasivo per ammettere eccezioni?
Il primo passo è ammettere di aver bisogno degli
altri. Capire che se “così non va”, dobbiamo salire
il primo gradino e iniziare a coltivare il desiderio
di cambiare. E questo non vuol dire cambiare il
mondo, ma noi stessi. Il mondo è quello che è,
ed il problema è starci, amarlo, non cambiarlo.
Non è detto che un altro mondo sia possibile. Ma
un altro modo si. Non dobbiamo cercare deleghe,
ma essere convinti che abbiamo le risorse per
farcela. E la prima risorsa, la nostra risposta, è
la famiglia.
Ma come può una famiglia superare le piccole e
grandi crisi che la vita pone sul suo cammino?
Può farlo se non è da sola. Da solo non ce la
faccio, ma insieme a una comunità si. E la famiglia è di per sé già una piccola comunità. La
nostra proposta è quella di creare delle reti tra
famiglie, delle comunità di comunità, nelle quali
tutti - anche i singoli, anche chi la famiglia l’ha
persa o chi dalla famiglia è stato
tradito – possano vivere la “familiarità”. Familiarità vuol dire avere
qualcuno che ti aspetta, qualcuno
che ti pensa, qualcuno che ti ama
per quello che sei, comunque sei.
Qualcuno che ti aiuta a superare
tutte le crisi.
Puoi raccontarci quali sono
i passi da fare per mettersi in
cammino?
Riconoscere di avere bisogno degli altri, noi
per primi, è l’inizio del cammino. A quel punto
noi proponiamo l’ingresso in un “gruppo di
condivisione”, ovvero un gruppo di persone che
periodicamente si ritrova per parlare ed ascoltare
i bisogni ed il vissuto di tutti e di ciascuno, con
l’obiettivo di un profondo discernimento personale, e della scoperta della propria vocazione
personale e familiare. Il passaggio successivo è la
nascita di una “comunità territoriale”, una realtà
più profonda nella quale le famiglie sono legate
da un patto di solidarietà reciproca. Un legame
intimo che le porta a condividere, nelle modalità
che esse stesse stabiliscono, anche le risorse
economiche, nell’ottica dell’auto e mutuo aiuto.
Le “comunità residenziali”, che noi chiamiamo
“condomini solidali” rappresentano un patto
ancora più radicale, nel quale si sceglie di condividere la vita e l’abitazione, pur nel rispetto degli
spazi, dei tempi e delle vocazioni di ogni singola
famiglia. È chiaro che questo può avvenire solo
se c’è una fiducia reciproca, che è coltivata anche
dallo strumento della cassa comune, nella quale
confluiscono le risorse economiche di tutti e dalla
quale tutti attingono secondo i propri bisogni. In
questo modo non esiste più il ricco e il povero,
ma tutti hanno il necessario.
Sembrano cose grandi, ma sono possibili. E
da questa impostazione che rivoluziona lo stile
dell’abitare possono nascere esperienze che cambiano anche l’organizzazione del lavoro, come
è successo in molte delle nostre comunità, che
hanno dato vita a cooperative ed imprese sociali.
Questo porta ad una riflessione sul “come” usiamo i soldi. E la nostra risposta è quella “economia
del dono” che rigenera sempre nuove risorse.
Da qui l’accoglienza ai bisogni
degli altri, la sobrietà nello stile di
vita, l’apertura delle nostre case a
chi viene a bussare, la carità come
stile di vita.
Quando racconti della tua esperienza di vita, citi sempre una
frase che è stata detta a te e a tua
moglie Enrica quando siete partiti
per un periodo di volontariato in
Africa. La frase era: “Fate quello
che siete capaci di fare. Non vi mancherà mai
niente”. Come si può concretamente impostare
la propria vita sulla “professione di fede” che è
implicita in quella frase?
È vero, la fede aiuta, ma quello che è importante
è avere voglia di mettersi in discussione. Mettersi
al lavoro insieme ad altri, rovesciare il tavolo e
mettere in pista le opportunità di cambiamento
che ogni crisi offre. Capirle e coglierle. Non
bisogna scoraggiarsi. San Paolo, nella lettera ai
romani, ce lo ricorda con delle parole bellissime:
“La tribolazione produce pazienza, la pazienza
una virtù provata e la virtù provata la speranza.
La speranza poi non delude, perché l’amore di
Dio è stato riversato nei nostri cuori”. Per tradurlo
in termini più chiari: la crisi è la tribolazione;
davanti ad essa dobbiamo avere la pazienza di
reagire con una virtù provata, ovvero con qualcosa di nuovo, virtuoso e concreto. Questo produce
speranza, e la speranza non delude, perché la via
alternativa è, davvero, possibile.
19
La danza di Willy
di Massimo Orlandi
Si può ballare anche non potendo muovere né le gambe né le mani. Si può far
festa alla vita, anche quando si avrebbero mille motivi per lamentarsene. Si
può. Il nostro incontro con William Boselli, con la sua storia, con il suo mondo
pieno di amici. Con la sua leggerezza. La leggerezza di un ballerino.
“Ogni gesto che compio silenziosamente resta racchiuso all’interno del mio corpo. Io
lo so di muovermi benissimo. Solo che voi
non lo vedete. Ma sono un gran ballerino,
credetemi”.
Il passo di danza di Willy è fatto di palpebre
e guance: le prime giocano con gli occhi,
le seconde fanno da quinta al suo sorriso.
Non serve altro, nemmeno la musica: solo
mettersi a sedere. E guardare.
Sono passati quasi trent’anni da quando
William Boselli scopre di aver un ospite
inatteso che si aggira malefico nel suo cervello. La freschezza dei suoi diciott’anni si
misura con la sfida a quel perfido angioma
che lo stuzzica, che lo fa barcollare. Che lo
mette al tappeto.
Non si può restituire la bellezza e l’armonia
dei propri movimenti proprio nel cuore della
20
loro efficienza. Ma a Willy accade proprio
questo. Prima le gambe, poi, gradualmente,
le mani. Che la sua vita sia un distillato di
sofferenza? Willy non lo pensa mai, anche
se qualche indizio pesa. “Sapete cosa significa sentire la pipì e non potersi alzare per
pisciare?” No, non lo sappiamo. Lui sì. Gli
indizi peggiori della sua condizione di tetraplegico non riguardano le corse nei prati o le
nuotate al largo. Ma gli esercizi più scontati
per noi, che si fanno tabù per lui.
Eppure. C’è un “eppure” che all’inizio è
piccolo, ma che poi prende forza. Eppure
indica la presenza di una via d’uscita, di
un pertugio apparentemente secondario in
quella selva intricata di dolore. Eppure è il
segno che ci si può fare, che ci si può provare. Solo che quella parola non puoi pronunciarla da solo. Ci vuole l’affetto di una
famiglia, di babbo e mamma, delle sorelle,
ci vuole l’abbraccio convinto e non compassionevole degli amici. Ci vuole amore,
amore a più non posso per la vita, per gli altri, per tutto. Eppure. Eppure Willy ce la fa.
Sentitevi addosso il brivido che Willy non
può avvertire. Ma avete letto bene: ce la fa.
Immaginatelo ora nella nostra pieve, Willy.
Immaginatelo che ci racconta la sua storia,
che ci fa ridere, che ci commuove. La vita
è bella, ci dice. Bella, sì, anche quando la
guardi e non la puoi toccare con le mani,
anche quando non puoi, fisicamente, correrle incontro.
E tutto questo Willy non solo lo dice, te lo
fa respirare. Per la sua leggerezza, per la sua
autoironia, perchè di tutto quello che abbiamo, e molto di questo lui non può assaporarlo, lui sa cosa conta veramente. “La cosa
più importante è sapere vivere tutti i giorni.
Guardate che non è bello stare in ‘carrozza’, io stavo bene anche senza, però cerco di
vivere in maniera piena e particolare quello
che mi viene dato. Ogni anno festeggio volentieri il mio compleanno perchè è un anno
in più che ho vissuto. E così oggi essere qua
con voi per me è una vittoria, un regalo”.
Il racconto di Willy scorre come acqua fresca sulle noste vite spesso inutilmente attorcigliate. Lui che ha dovuto fare i conti con
quasi tutte le nostre paure, ora sa come ge-
stirle. Lui che ha dovuto gestire mille limiti,
invece che sprofondarci li ha circoscritti.
In nessun incontro come in questo sento
pronunciare tante volte la parola fortuna.
Fortuna i genitori, che non lo hanno mollato
un istante, fortuna gli amici che riempiono la sua vita, fortuna anche la tecnologia
domotica grazie alla quale nella sua stanza
può scrivere, rispondere al telefono, cambiare il canale alla tv. Ma Willy è ancora più
semplice e schietto delle cose che diciamo
di lui. “La rinuncia più grande? È quella
all’autonomia. Sono sempre stato abituato
fin da ragazzo a muovermi con molta libertà. All’inizio il dover chiedere è stato molto
faticoso. Poi mi sono adeguato. D’altra parte che potevo fare?”
Su Internet c’è un sito che parla di Willy e
gli assomiglia. Il sito (www.wtkg.it) è popolato di volti, di frasi, di saluti, è come essere nella sua camera e guardare le pareti e
vederle animate di ricordi vivi, di persone.
È un luogo festoso, vibrante di vita: il saper
vivere di una persona non dipende dai suoi
limiti, ma da come ci si muove, a partire da
essi.
“È vero, non ho ballato – dirà Willy alla
fine dell’incontro di Romena – però spero
di aver lasciato un buon ricordo e un sorriso”. Già, il sorriso. Il suo passo di danza
migliore.
C’è un “eppure” che all’inizio è piccolo,
ma che poi prende forza.
21
Il nuovo anno della Fraternità
di accoglienza libera a cui ciascuno,
quando vuole, può partecipare.
Questo cammino di accoglienza ha
sempre più bisogno dei giusti spazi in
cui calarsi. Per questo continuano i lavori nella vicina fattoria. Lo diciamo
con orgoglio: sta diventando un luogo
bellissimo. Contiamo entro l’estate di
cominciare a poter fruire dei primi
ambienti completati: il punto ristoro,
la nuova libreria, l’atrio nel quale co-
2012 - 2013
3
Un filo sottile collega tutto il cammino
della fraternità nel nuovo anno di attività che per noi, lo sapete, inizia con
il periodo Pasquale.
Il filo è quello della creazione di spazi
di accoglienza, di incontro, di condivisione. Nel libretto allegato a questo
giornalino troverete raccolte tutte le
opportunità di incontro che abbiamo cercato di confermare e, laddove
possibile di rafforzare. Troverete il
programma dei corsi, le attività dei
gruppi, i viaggi, le iniziative delle realtà e delle figure legate alla fraternità. Noterete come abbiamo cercato di
approfondire l’attenzione sulle attività
de La domenica di Romena e del Tempo di Fraternità, cioè di quegli spazi
22
minceremo ad ambientare gli incontri
domenicali in attesa dell’auditorium. È
un’impresa che ci riempie i pensieri (le
spese sono enormi, l’impegno esorbitante), ma anche il cuore: perché la fattoria sembra impregnarsi della stessa
atmosfera calda, semplice, vera della
nostra pieve. Sembra fatta apposta per
abbracciarla, e per abbracciare tutti
voi quando vorrete, ci auguriamo presto, poterne fruire.
E allora, cominciamo con gioia il cammino nel nuovo. Come diceva l’Abbé
Pierre: “Tutti insieme, continuiamo!”
23
NUOVO LIBRO
di Luigi Verdi
a Romena
preghiere
Prefazione
GIANFRANCO RAVASI
“Il Dio invocato in queste pagine è quello
della consolazione e della compassione,
della ricerca della pecora perduta. È il
Dio che, in silenzio, “cammina accanto
a me”.
Sono solo alcune delle parole che il
Cardinale Gianfranco Ravasi dedica al
nuovo libro di don Luigi Verdi, Preghiere
a Romena. La prefazione del Cardinale,
che qui vi anticipiamo, apre il cuore e
la mente alla lettura di queste preghiere
nate nella nostra Pieve, ispirate dai volti
e dalle storie di chi è passato da qui.
24
Come diceva l’antica tradizione giudaica, dovremmo essere capaci di comporre «un canto ogni
giorno, un canto per ogni giorno». È un po’ quello
che fa don Luigi Verdi con queste preghiere sbocciate nell’incantevole paesaggio toscano di Romena,
ove egli vive con una fraternità abituata a cantare
le stagioni, i mesi, i cicli liturgici, la storia umana.
«Dio viene attraverso crepe di luce», come la colomba del Cantico dei cantici che amava «le fenditure
della roccia» (2,14). In esse il mistero si svela e si
cela al tempo stesso, ammiccando con le sue epifanie di luce. Infatti, «il vento di Dio ha trovato miriadi
di varchi» per aprirsi una strada e giungere fino a
noi; questo soffio divino invade e pervade i «crocevia furiosi» delle vicende umane, i crocicchi delle
strade attraversati da uomini e donne ora distratti,
ora festosi, ora sconsolati.
A tutti don Luigi ricorda la sua esperienza, vissuta al calore del roveto ardente della Rivelazione divina: «Abbiamo visto che non è il dolore / che annulla la speranza, / non è il morire, / ma l’essere senza
conforto». È per questo che il Dio invocato in queste
pagine è quello della consolazione e della compassione, della ricerca della pecora perduta, come
canta una delle prime poesie oranti. È il Dio che «in
silenzio, / cammina accanto a me / e mi insegna ad
ascoltare, / a guardare, ad attendere, a capire». È il
«Dio che è un bacio / che prepara alla lotta, / come
una strada apre il mio sorriso».
Illuminati, riscaldati, abbracciati dal Signore, indos-
siamo i paramenti della festa: «Rivesto il mantello
della giustizia… Getto il mantello del lutto, / ridoni
loro abito di gioia». Ci mettiamo, così, in marcia verso l’orizzonte della verità, della fedeltà, dell’amore,
della profezia, del Regno, accompagnati da tante figure evangeliche che s’affacciano in queste pagine,
dal Battista a Maria, dai Magi a Pietro, dalla Maddalena a Tommaso fino a Giuda. «Destati! È l’ora di
andare. / Andare lasciando il nostro peso alla terra,
/ affidandoci a quella forza e a quel coraggio / che
traversano i piedi / e al custode dei cammini e guardiano del fuoco».
Le preghiere di don Verdi stilisticamente amano
la ripetizione, come accade nelle melopee d’Oriente, ma anche come si ha nella dolce reiterazione del
rosario e nello stesso linguaggio degli innamorati.
Diventano, così, simili a un caleidoscopio le cui tessere di base sempre uguali si trasfigurano in mille
iridescenze sempre diverse. Egli è consapevole che
ormai abbiamo davanti solo «parole contorte e macerie», un po’ come suggeriva già il biblico Qohelet:
«Tutte le parole sono logore e l’uomo non può più
usarle» (1,8).
È per questo che ha deciso di «far riposare le parole
ferite» e di intonare un “canto nuovo”, come invita il
Salterio. E alla fine quello che si compie con queste
preghiere affidate al lettore è espresso da don Luigi
in modo folgorante: sarà «un pugno di luce lanciato
in faccia al mondo».
Entra
Card. Gianfranco Ravasi
Entra
e snoda i quattro venti
perché mi sciolgano dal fuoco di passione
che mi ha lasciato preda
delle mie conquiste.
Entra
con i tuoi occhi
spalancati di bambino
che amano le lampade che dondolano
nel cuore degli uomini.
Entra
e forza i miei mutismi,
il mio essere trascinato
quando mi rimetto in fila per abitudine
più che per fiducia.
Entra
quando il dolore non vuole sorpassi
e toglimi l’istinto di dare forma,
che io torni a creare
oltre i dubbi dell’esperienza
oltre i dubbi non risolti.
25
VEGLIA di romena
M endicanti di luce
È dall'abbaglio della resurrezione
che quest'anno ci lasceremo indicare la strada
per dare sapore al vivere di ogni giorno.
ROVERETO
Parrocchia di Santa Caterina - Frati Cappuccini
VERONA
Parr. San Nicolò all’Arena - P.zza San Nicolò, 13
IMOLA
Convento dei Cappuccini, via Villa Clelia, 10
BOLOGNA
19 marzo 2012
ore 21,00
20 marzo 2012
ore 21,00
21 marzo 2012
ore 21,00
22 marzo 2012
Chiesa S.M. della Misericordia, p.zza di Porta Castiglione ore 21,00
26
BRINDISI
16 aprile 2012
Chiesa San Vito Martire - via Sicilia 10
ore 20,30
GALATONE (LE)
17 aprile 2012
Santuario Madonna delle Grazie
ore 20,30
BARI
18 aprile 2012
Chiesa di San Marcello - L.go D.F.Ricci,1
ore 20,30
NOCI (BA)
19 aprile 2012
Parrocchia S. Maria della Natività - p.zza Plebiscito, 16
ALTAMURA
20 aprile 2012
Chiesa San Sabino - Loc. Fornello
POTENZA
ore 20,30
7 maggio 2012
Chiesa di Sant’Anna - via Dante 104
SALERNO
ore 19,00
8 maggio 2012
Parrocchia Gesù Redentore - Pastena
NAPOLI
ore 21,00
9 maggio 2012
Istituto Maria Ausiliatrice -via Cimarosa - Vomero
CAMPOBASSO-ISERNIA
ore 21,00
10 maggio 2012
Santuario Maria SS. Addolorata - Castelpetroso (IS)
FONDI (LT)
Monastero San Magno - Fondi
PERUGIA
Chiesa di Santo Spirito - via Parione,17
ore 20,30
ore 21,00
11 maggio 2012
ore 21,00
23 maggio 2012
ore 21,00
27
Festa di Pasqua
È la nostra festa del cuore. Ed è anche
il momento per raccontarci del nostro
cammino e delle prossime tappe che
vogliamo scandire insieme.
L
a festa di Romena di quest’anno propone
questi ingredienti nel contesto di sempre:
uno stare insieme semplice e festoso.
Il programma si sviluppa dal giovedì santo
seguendo il percorso di avvicinamento alla
Pasqua, con la lavanda dei piedi del giovedì,
la veglia del venerdì e la messa di notte del
sabato e del pomeriggio della domenica.
Il lunedì mattina si comincia con la messa
del Vescovo di Fiesole Mario Meini. Poi
il pranzo comunitario negli spazi della
fraternità e nel pomeriggio le animazioni per
bambini, uno spazio di musica e animazione
per gli adulti.
Alle 17.30 in pieve don Luigi e i collaboratori
della fraternità parleranno del cammino
di Romena, dei suoi progetti e dei suoi sogni.
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Giovedì 5 Aprile: ore 21
Lavanda dei piedi
Venerdì 6 Aprile: ore 21
Veglia al Crocifisso
Sabato 7 Aprile: ore 22.30
Veglia e Messa di Pasqua
Domenica 8 Aprile: ore 16.30
Messa di Pasqua
Lunedì 9 Aprile: Festa della Fraternità
Ore 10: ritrovo, apertura degli stand
Ore 11: Santa Messa officiata dal Vescovo di Fiesole
Ore 13: Pranzo comune
Ore 15: Spettacolo per bambini della “Compagnia
delle Arti di Romena” musica con i “Vallesanta Corde”
Ore 17.30: Don Luigi presenta il nuovo programma di
attività della Fraternità per il 2012-2013
Gli aggiornamenti sulla festa e sul programma li
potrete trovare sul sito www.romena.it
5x1000… Grazie!
Cominciamo subito dicendovi grazie.
Grazie per averci aiutato, negli
ultimi devolvendo il 5 per mille della
dichiarazione dei redditi alla Fraternità di
Romena. Il vostro aiuto è stato prezioso,
ha sostenuto in maniera molto significativa
tutte le nostre attività.
Anche in questi momenti non facili per
l’economia personale e familiare di tutti,
vi chiediamo di sostenerci ancora.
28
Il programma
Il cinque per mille non è un costo aggiuntivo
nella dichiarazione dei redditi: se lo destinate
alla Fraternità, ci aiuterà in maniera
fondamentale nel proseguimento delle attività
e nei lavori di ristrutturazione della fattoria,
grazie ai quali presto avremo nuovi spazi di
accoglienza a disposizione di tutti.
Il codice di Romena è
92040200518
E grazie ancora!
GRAFFITI
a sofferenza struggente ormai si è
attutita,non so da quando,non è più
sempre presente,alle volte riaffiora,
non violenta come prima,ovattata dal tempo, più
silente.
Mi resta il tuo ricordo. Ti penso e mi capita (è una
fortuna) di sognarti; in sogno sei di nuovo viva e
una rinnovata tenerezza mi rimane al risveglio.
Alle volte sei lontana, poi, mi capita quando cammino solo o sono solo in macchina, ti sento vicina, sei lì in macchina con me; vorrei abbracciarti
ma mi accontento di sentirti solo vicina. Il destino
ha voluto così.
Niente più i tuoi sorrisi, il tuo agire, la tua presenza gioiosa, le tue giovani lotte, le tue ire, la grazia dei tuoi movimenti, i tuoi colori tenui e caldi, i
tuoi sentimenti forti e accattivanti, i tuoi impegni
femministi, la tua visione di vita pregna di verità
e amore.
Diversi anni sono passati da quella terribile notte
che a noi ha sconvolto la vita e a te l’ha tolta.
Sulla nostra famiglia è piombata una scure e
da allora non è stata più la stessa: una famiglia
monca, una famiglia ferita.
Ma il nostro soffrire è stato poca cosa rispetto a
quello che hanno fatto a te. Spero sempre che
tu almeno non ti sia accorta di niente e che non
abbia sofferto. Il tempo ha aiutato il nostro dolore,
quello fisico intendo, resta l’amarezza di quello
che hanno fatto a te, mentre felice correvi la vita.
La natura era stata benigna con te e tu trasmettevi agli altri questi tuoi doni, da sempre, quasi
intuissi della brevità della tua vita. Ora non sei
più fisicamente con noi ma tu, così come quando
c’eri fisicamente, ci rendi più uniti e più attenti
l’un l’altro e di questo ti ringrazierò sempre.
Un padre alla figlia che non c’è più.
L
Ercole
risi…Questa parola evoca scenari di
disperazione, solitudine, rabbia, impotenza dai quali vorremmo fuggire, ma
possiamo noi scappare dalle inevitabili maree
della vita? Arrivano inaspettate e spazzano via
vecchie certezze a cui tutti noi ci abbarbichiamo
per combattere la fatica del quotidiano cammino.
Ho imparato che opporsi graniticamente non
serve, forse il valore della crisi sta nell’accogliere quella ritrovata nudità che ci rende bisognosi
degli altri, nell’accettare quella fragilità che ci fa
umili, capaci di ascoltare e di vedere con uno
sguardo nuovo quello che ci circonda.
Solo così potremo accorgerci di altri in faticoso
cammino,per costruire insieme reti solidali capaci di affrontare il nuovo che spaventa,portando
nelle scialuppe dei nostri cuori solo piccoli semi di speranza… E in questa notte in
ospedale,accanto a mia madre che dorme agitata, il mio cuore è colmo di gratitudine per chi in
questi giorni difficili mi è stato vicino con affetto e
stupore, per quella serenità e forza che non sono
mie, ma che vengono alimentate da quell’Amore
che mai ci abbandona anche nei momenti più bui.
C
Maria Grazia De Angeli
a parola crisi significa cambiamento,
secondo la sua etimologia greca. Tutto
dentro di noi continuamente cambia e si
trasforma in ogni secondo della nostra vita, a partire da ogni nostra singola cellula, fino al moto delle stelle, dei pianeti e al fluire dell’universo. Tutto è
in continuo movimento, tutto scorre, tutto muore e
si evolve, niente torna ad essere mai come prima.
Tutto ciò di cui siamo fatti e che ci circonda è crisi,
è cambiamento.
Nel Buddismo è molto forte l’idea di non rimanere
attaccati a niente e a nessuno, di riconoscere che
L
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nulla è nostro, tutto può arrivare e andarsene dalle
nostre vite senza il nostro permesso o controllo: in
questa ottica cercare di trattenere il passato o pretendere che niente cambi è solo energia sprecata.
Di solito le crisi personali arrivano spesso dopo un
cambiamento che noi percepiamo come negativo,
come una perdita… ma quando riconosciamo, accogliamo, accettiamo e cominciamo ad amare la
naturale instabilità e povertà della nostra esistenza… è allora che riconosciamo in ogni cambiamento l’energia calda della vita che si rinnova.
E in quest’ottica vedere il bicchiere mezzo pieno di
ogni cambiamento diventa un gioco bellissimo:
Grazie alle storie che finiscono, perchè danno spazio a nuovi innamoramenti.
Grazie alle crisi lavorative, perché danno spazio a
idee creative e a nuovi sbocchi professionali.
Grazie alla crisi economica mondiale, perché sta
forzando i paesi sviluppati a rallentare i ritmi nevrotici e distruttivi del capitalismo e porterà tutti noi a
una vita più equilibrata e a un futuro più sostenibile.
Grazie a sorella morte – come la chiamava S. Francesco – e al grande e dolce mistero di nuova vita
che porta con sé, da sempre.
E ancora – senza stancarci mai – continuiamo a
ringraziare, rivestiamo di gratitudine ogni nostro
fallimento, ogni nostro dolore e torniamo a essere
fiduciosi, come un bambino.
Permettiamo al bruco di morire, perché nasca
un’altra farfalla!
Permettiamo a Dio di abbandonarci da soli sulla
nostra croce, per poter poi resuscitare quando nessuno se l’aspetta!
Lasciamo che il nostro tempio venga distrutto, perché il Cristo lo possa di nuovo ricostruire!
Elisabetta Persiani
i parla di crisi? Ah!
Pane per i miei denti. Sono Chiara, ho 33
anni, 3 figli (1 di tre anni e 2 gemelli di 15
mesi).4 mesi fa mio marito mi ha ufficialmente annunciato che siamo in crisi, mentre ieri ha chiarito che se
ne andrà di casa a breve, ma – ha detto – non ci sarà
per me, ma per loro (i bimbi) sì. E vai.
12 anni insieme, e oggi il fumo. Ha ripetuto che non è
mai stato davvero bene con me, e che mi ha sposato
solo perchè – pensava – sarei cambiata.
Che si prova in questi momenti? Ci sei tu Gesù qui
dentro? Mi dicono che sei più vicino, mi consigliano di
cercare la “perla” nascosta in questa vicenda.
Ma io non la vedo, non la trovo, non Ti trovo.
Dalla crisi, se si riesce a uscire, si esce senz’altro più
forti. “diventerò un maciste” ho detto ieri a mio marito.
S
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Ma poi ci sei dentro alla crisi, e ti chiedi se mai ne uscirai,
e a volte temo proprio di no. Poi penso ai miei cuccioli, e
non posso abbattermi, e devo essere dolce per loro.
La crisi non la posso scaricare su nessuno, la devo affrontare. Ma che vorrà dire? Che sarà questo “arricciarsi” le maniche di cui parlano tutti? Oggi non so, ci sono
dentro. forse un giorno troverò una risposta, un senso…
Chiara
i sono due storie, nella Bibbia, che non mi
stanco mai di rileggere; quella di Giuseppe,
contenuta nel libro della Genesi, e quella di
Tobia, narrata nel libro omonimo.
Giuseppe tradito dagli stessi fratelli. Giuseppe oggetto di invidie e di gelosie. Giuseppe coperto di onori e
poi gettato in prigione. Eppure Giuseppe tenace nella
preghiera, costante nella confidenza e nel dialogo con
Dio. Giuseppe, nonostante tutto, sognatore. Infine riabilitato, e a seguire l’incontro con i fratelli, ormai pentiti
e risanati nel cuore.
Tobia. Ecco l’uomo fedele, l’uomo retto, colui che non
teme di sfidare l’ira dei potenti per compiere quegli atti
di pietà che la coscienza gli impone: soccorrere i deboli, seppellire i morti. Eppure anche su di lui, l’uomo
giusto, sembra accanirsi un destino avverso: un incidente domestico, all’apparenza banale, lo priva della
vista. Tobia il cieco, Tobia l’abbandonato da Dio, Tobia il deriso, perfino dalla stessa moglie: “Dove sono
le tue elemosine? Guarda come sei ridotto!”. Nella crisi e nell’avversità: Tobia il credente. Ed ecco che non
tarda a manifestarsi anche su di lui la benedizione di
Dio. Nelle vesti di un compagno di viaggio, un angelo
affianca il figlio di Tobia in un cammino verso un luogo
lontano e sconosciuto, al termine del quale il giovane
incontrerà colei che diventerà sua sposa, e dal quale
tornerà con un miracoloso unguento capace di sanare
la cecità del padre.
C
Ci fa del bene rileggere le vicissitudini di questi personaggi, forse perché abbiamo bisogno che la nostra
storia somigli un poco alla loro.
Abbiamo bisogno di sentirci dire che anche i nostri
momenti di crisi, di dubbio, di difficoltà non sono il
termine ultimo del nostro vivere. Anche noi vogliamo
aggrapparci alla speranza che il buio che avvolge certi periodi della vita è solo un capitolo e non è l’intera
nostra storia. E che la nostra fedeltà, il nostro abbandono nelle mani di un Padre, la nostra preghiera che,
nonostante tutto continua, ostinatamente fiduciosa,
non si perde come eco nel vuoto, ma è ascoltata e
custodita e attende solo il tempo che le è stato assegnato per fiorire.
Abbiamo bisogno di sapere che i nostri desideri, le attese che nascondiamo in quella zona segreta dell’anima dove solo Dio ha accesso, non sono solo sogni,
ma hanno il sapore del progetto, del miracolo, del “già
scritto” da qualche parte anche se non ancora visto.
Perché il nostro non è un Dio che si compiace del dolore e della fatica, ma un Dio sempre schierato dalla
parte della nostra gioia e della nostra felicità, anche
quando dolore e fatica hanno la meglio e sembrano
escludere qualsiasi altro orizzonte.
Con questo sguardo, alternando sgomento ad entusiasmo, trascinando zavorre o lasciandoci innalzare da ali d’aquila, lasciamo che si scriva la storia di
ognuno di noi e attendiamo che quando verrà posta
la parola FINE, anche la nostra possa essere, per chi
la leggerà, consolazione e speranza.
PROSSIMO NUMERO: il giornale in
uscita a Giugno approfondirà il tema:
“RIABBRACCIAMO IL SOGNO CON LA REALTÀ”.
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ultimo: 31 maggio 2012), preferibilmente
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Le iscrizioni ai corsi si aprono il primo giorno del
mese precedente al corso stesso.
Gloria Casati
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Foto di Massimo Schiavo
utunno,
L’aspogliando
i rami,
lascia vedere il cielo.
Christiane Singer
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2012/1 La crisi è opportunità