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Primo piano
Mercoledì 28 maggio 2008
Storie di Calabria
Era la sera del 21 giugno del 1980 quando
la criminalità organizzata cetrarese
decise di uccidere il suo peggior nemico
“Don Giannino”
un eroe per caso
Molte verità nascoste dietro la tragica fine dell’assessore
comunista di Cetraro e segretario capo della Procura di Paola
di LUCIANA DE LUCA
DON GIANNINO quella sera aveva partecipato al consiglio comunale e poi, prima di
tornare a casa, era passato a salutare sua
madre. Con lei aveva assistito ai calci di rigore della partita Italia-Cecoslovacchia.
Poi, percorrendo a piedi le strade di una
Cetraro deserta, rintanata in casa per seguire la partita, raggiunse la sua auto, una
“Fiat 126” azzurrina, per fare ritorno a casa
e ritrovare sua moglie, i figli.
Don Giannino non immaginava neanche
lontanamente che da lì a poco la sua vita sarebbe stata spazzata via. Per sempre.
Era il 21 giugno del 1980, e quella sera la
criminalità organizzata cetrarese aveva deciso di alzare il tiro e colpire il suo peggior
nemico: Giannino Losardo, segretario capo
della Procura di Paola e assessore comunista
del Comune della cittadina tirrenica.
A bordo di una moto, che un carabiniere
aveva visto passare dalla piazza principale
del paese subito dopo l’auto di Losardo, i killer avevano seguito don Giannino e una volta fuori dal centro abitato, erano entrati in
azione colpendolo più volte. Ma Losardo non
morì subito. Fu trasportato in ospedale e a
un amico fidato disse qualcosa, pregandolo
di riferirlo ai giudici onesti. Probabilmente
però, la volontà espressa da un uomo in punta di morte, non è mai stata rispettata. La
paura di fare la stessa fine ha cucito la bocca
a chi, per ruolo e per responsabilità morale,
avrebbe dovuto denunciare fatti precisi di
cui era venuto a conoscenza e che avevano
portato alla morte di Losardo.
Alla moglie dell’assessore comunista, in
quelle ore, fu impedito di vedere il marito in
ospedale. «Se a me avesse detto qualcosa - affermò nel corso di un’intervista - io avrei parlato. Io, come moglie, mi sarei assunta quella responsabilità».
Tanti buchi neri. La morte di Giannino Losardo ancora oggi è circondata da un alone
di mistero: troppe ambiguità e connivenze. E
da uomo perbene non si era mai reso conto
che ostacolando e denunciando ciò che vedeva in procura: i fascicoli nascosti, la richiesta continua di spiegazioni a chi non era in
grado di darne senza denunciare la sua appartenenza al clan, stava scrivendo un romanzo tragico, dal finale scontato. Proprio
la sua fermezza minacciava quel processo di
sottomissione al quale si lavorava da tempo
per ottenere, secondo un progetto ben definito, il controllo assoluto del territorio da
parte di appartenenti al clan del “re del pesce”.
Per l'omicidio Losardo vennero rinviati a
giudizio davanti alla Corte d'Assise di Bari,
Francesco Muto, ritenuto il mandante,
Francesco Roveto, Antonio Pignataro, Franco Ruggiero e Leopoldo Pagano, come esecutori materiali dell'assassinio.
Losardo ferito e prossimo alla morte trova
la forza di denunciare i suoi assassini. Dice a
un maresciallo dei carabinieri: “Tutta Cetraro sa chi mi ha sparato”.
Ma la richiesta di parlare, di dire quello
che sapeva, fatta da don Giannino, non viene
accolta da chi ha condiviso con lui gli ultimi
istanti della sua vita.
Nel processo di Bari vengono coinvolti magistrati e noti politici cetraresi accusati di
collusione con la mafia. L'esito del procedimento è noto a tutti: condanne in primo grado e poi assoluzioni negli altri due gradi di
giudizio.
Nonostante il clamore suscitato dall'omicidio Losardo che determinò all'epoca una
mobilitazione politica generale - autentica
da parte di alcuni, assolutamente strumentale da parte di altri - con la creazione di una
commissione antimafia nella quale spiccava
anche il nome del comunista Francesco Martorelli, i malavitosi continuarono, tra un interrogatorio e l'altro, a fare i loro affari e a
creare una rete di soggezione e terrore nella
comunità. Anzi, “l'immunità giudiziaria” di
cui sembravano godere, grazie a giudici collusi con la criminalità che avrebbero avuto
un ruolo determinante anche nella decisione
di eliminare Giannino Losardo, e le amicizie
con i potenti, li rendeva ancora più temibili e
consapevoli delle loro potenza.
Solo le donne, le vedove, a differenza di
tanti altri “banditori' si sono presentate davanti ai giudici di Bari, hanno raccontato e
chiesto giustizia per i loro mariti ma anche
per chi rimaneva, per i loro figli che probabilmente meritavano di vivere in un luogo
migliore. Così non è stato.
La storia di Cetraro si compone di tante
parti: alcune sane, straordinarie, altre irrimediabilmente malate. Tra queste è doveroso ricordare il ruolo di una parte della magistratura dell'epoca, che ha avuto un ruolo attivo nella morte violenta di uomini dello
spessore morale di Losardo. La verità di questo delitto è contenuta nei cassetti della Procura e nella memoria di qualche toga nera
che per avidità e codardia, ha consentito
l’ascesa criminale di un gruppo di malavitosi che ha posto fine a esistenze nobili come
quella di don Giannino, un eroe per caso: lui
che odiava il clamore mai avrebbe potuto immaginare che la sua storia sarebbe stata indissolubilmente legata al nome di uomini
violenti, portatori di morte e di oscurità.
Raffaele Losardo, il figlio dell’assessore
communista ucciso, solo da un po’ di tempo
ha trovato la forza di raccontare quel padre
che gli è stato strappato così bruscamente.
«L'educazione all'ascolto della musica
classica costituisce uno degli insegnamenti
fondamentali che ho ricevuto da mio padre:
fin da piccolissimi io e mia sorella venivamo
messi a contatto con le opere dei gandi compositori classici e papà ci spiegava non soltanto i timbri dei diversi strumenti musicali,
ma anche la struttura ed i temi fondamentali
delle opere che ci faceva ascoltare. Tra queste vi erano certamente anche quelle di Beethoven, forse non tanto la settima sinfonia,
ma sicuramente la terza e la quinta sinfonia
e, soprattutto, l'ouverture dell'Egmont».
Don Giannino era un uomo colto, sensibile, attento alle esigenze dei deboli, tenero e
protettivo con la sua famiglia. Allegro, accoglieva le persone, le rassicurava con la sua
autorevolezza, le avvolgeva d’affetto con il
suo sorriso appena accennato ma aperto,
sincero.
Aveva un’idea alta delle istituzioni e della
giustizia e per questo, aveva trovato molte
difficoltà nell’accettare e condividere le storture di apparati malati dello Stato. Con semplicità e naturalezza si batteva per gli ideali
in cui credeva, cercava di dare il suo contributo per la crescita civile della società, amava la sua terra e voleva difenderla da predatori senza scrupoli. Giannino Losardo sentiva la bellezza del mondo che lo circondava: i
suoi pensieri e il suo lavoro trasudavano di
impegno. Non era un eroe don Giannino, era
un uomo consapevole, testardo, con la passione per la vita.
I discorsi
in occasione
dei funerali
di Giovanni
Losardo
seguiti da una
grande folla
L’anticipazione tratta dal volume che
«Vi racconto il sorriso
di RAFFAELE LOSARDO
politica, perché aveva coinvolto tutta la
polis, e non soltanto noi familiari.
Con questo spirito ho partecipato al
processo che si è celebrato a Bari e alle
tante iniziative che le scuole, le istituzioni locali, la stessa amministrazione
della giustizia hanno assunto per venire a capo del caso Losardo.
Non sta a me fare il bilancio di questo
sforzo collettivo.
Ma sento, ora che abbiamo fatto un bel pezzo
COME era giusto che
di strada insieme e che
fosse, ho cercato di esfinalmente il cielo semsere partecipe, in quebra essersi rischiarato,
sti anni, di tutte le inisento di dovere in un
ziative assunte nelle
certo senso ricalibrare
più diverse sedi istituil mio modo di partecizionali sulla vicenda di
parvi.
Giovanni Losardo.
Quando sono stato
Ho ritenuto giusto e
invitato a questa cerianche doveroso che anmonia sono stato molto
che io, pur vivendo oraindeciso se intervenire
mai da anni lontano da
(anche perché allora i
qui, facessi avvertire la
miei impegni e affetti
mia partecipazione al
familiari sembrava dotravaglio della società
vessero trattenermi a
calabrese e delle sue
Roma) e mi sono anche
istituzioni per cercare
chiesto se e in che modi uscire dal tunnel;
do, se mi fossi liberato
che anche io, pur diretda quegli impegni,
tamente colpito e graavrei potuto portare ogvato da quella perdita,
gi un mio ulteriore concondividessi lo sforzo
tributo.
che tanti uomini e donHo deciso di intervene, in ogni angolo del
nire dopo che le vicende
paese, andavano fatico- La folla immensa ai funerali
familiari sembrano fisamente
compiendo di Giovanni Losardo
nalmente essersi appianel tentativo di isolare
e fermare le cellule criminali che ave- nate (una mia zia, un affetto per me parvano sparso sangue e lutti; che impe- ticolarmente caro, dopo essere stata per
gnassi le mie forze nella comune ricer- lungo tempo ricoverata a Roma per seri
ca delle cause che avevano portato a problemi di salute è finalmente sulla
quell'impazzimento, nell'individuazio- via della guarigione) dopo avere sentito
ne delle connessioni esistenti tra cellu- un fraterno amico. il nostro comune
le impazzite e settori anche estesi della amico Francesco Elmo dott. d'Emmasocietà e delle stesse istituzioni, nel- nuele che con parole piene di affetto mi
l'impresa di ristabilire una normale ha fatto riflettere sul senso che avrei
dovuto dare a questa mia partecipazioconvivenza.
Ho cercato, dunque, in questi anni di ne.
Vedete, in tutti questi anni e proprio
non far mancare a questo sforzo collettivo un contributo mio e, pur senza in- per le ragioni che dicevo prima e cioè
vadere campi che non erano i miei e per poter intervenire in modo razionale
senza assumere responsabilità che e con ponderazione sugli sviluppi che
spettavano ad altri, ho sentito il dovere l'assassinio di mio padre aveva determidi offrire ogni qual volta ne sono stato nato nella vicenda politica e perché sarichiesto le mie risposte quanto più ra- pevo che a questi sviluppi era inevitagionate e meditate possibili e le mie in- bilmente legato il mio desiderio che mio
terpretazioni intorno ad una vicenda padre avesse un po' di giustizia in quePubblichiamo qui di seguito, per gentile
concessione del “Laboratorio Losardo”, un’anticipazione dal volume “Quel giugno dell’Ottanta”, dedicato alla memoria di Giovanni Losardo, con l’intervento del figlio, Raffele Losardo, che ripercorre il dramma vissuto dalla famiglia dell’assessore comunista
ucciso dalla mafia
Primo piano
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IL PREMIO
“Losardo Laboratorio 2003”
A Diamante la cerimonia
per la sesta edizione
CETRARO - Sarà distribuito nell’ambito
della sesta edizione del “Premio Losardo Laboratorio 2003”, il volume “Quel giugno
dell’Ottanta”, dedicato alla memoria di Giovanni Losardo, assassinato dalla mafia il 21
giugno del 1980.
Il libretto, curato da Francesca Villani,
con prefazione di Michele Borrelli, ricostruisce il clima di paura di quegli anni, che
hanno trasformato Cetraro da un centro
tradizionalmente tranquillo in un vero e proprio Far
West.
Rapine, gambizzazioni,
omicidi e lupare bianche
sconvolgono nel giro di pochi anni la cittadina tirrenica, che si ritrova nel mezzo
di una devastante conflittualità omicida culminata
nell’assassino di Losardo.
Omicidio questo definito dal
segretario nazionale del Pci
dell’epoca Enrico Berlinguer, il più grave omicidio
politico-mafioso compiuto in Calabria.
Il narrato di “Quel giugno dell’Ottanta” si
svolge attraverso i contributi dei giornalisti
Luciana de Luca, Filippo Veltri, Annarosa
Macrì ed Arcangelo Badolati, insigniti del
Premio Losardo nelle edizioni precedenti,
che tracciano i tratti distintivi del fenomeno
mafioso dell’epoca, estendendo l’analisi anche alla fase contemporanea con i riflettori
puntati sul rapporto tra mafia e politica.
Francesca Villani ricostruisce il clima degli anni Ottanta, avvalendosi del supporto
della stampa dell’epoca sia nazionale che re-
gionale.
Significativo e toccante l’intervento di
Raffele Losardo, che ripercorre il dramma
degli affetti familiari prematuramente
spezzati.
La sesta edizione del premio si svolgerà
domani, al cinema Vittoria di Diamante e
prevede gli interventi del sindaco Ernesto
Magorno, dell’assessore alla Cultura Battista Maulicino, del docente dell’Unical Michele Borrelli, del prefetto
di Cosenza Pietro Lisi, del
presidente della Provincia
di Cosenza Mario Oliverio e
del vicepresidente della
commissione parlamentare antimafia Mario Tassone.
Il Cristo d’argento raffigurante il sacrificio di Losardo, sarà assegnato al sociologo Pino Arlacchi, al
magistrato Nicola Gratteri
e ai giornalisti Antonio Nicaso e Arcangelo Badolati.
Il premio sezione Giornalismo sarà assegnato ai giornalisti Pietro Melia e Cristina
Vercillo. Il premio sezione Impegno sociale
per la legalità sarà conferito al magistrato
di Paola, Alfredo Cosenza e al sindaco di Lamezia Terme, Gianni Speranza.
Nel corso della serata sarà consegnata al
regista Daniele Cribri la tessera di socio
onorario del Laboratorio.
La manifestazione culturale è presieduta
dall’assessore provinciale Donatella Laudadio, socio onorario del Laboratorio e premio
Losardo 2004.
Domani l’appuntamento
Sarà distribuito
il volume
“Quel giugno
dell’Ottanta”
ricostruisce il dramma di quei giorni
di mio padre»
sto mondo molto spesso ho dovuto
esaminare ed elaborare la vicenda
della sua morte nel modo il più distaccato possibile .
Per darvi un'idea del modo in
cui ho dovuto procedere vi voglio
raccontare un piccolo particolare.
Al mio studio conservo i faldoni
del processo che si celebrò a Bari
per le vicende che avevano insanguinato queste terre: sono gli atti
del processo che tutti oramai conoscono ed intendono come il Processo Losardo". Come tutti i faldoni di ogni processo, anche quelli
che contengono gli atti del processo che ha riguardato la vicenda di
mio padre hanno un'intestazione.
Ebbene, non ho trovato dì meglio
che dare a questi faldoni l'intestazione che mi veniva dall'espressione che era entrata nell'uso comune, e dunque “Processo Losardo";
anche se e voi lo comprendete bene
quelle carte non sono state per me
quelle di un qualsiasi processo, ne
mi è risultato indifferente pensare
alla persona di mio padre chiamandola con nome e cognome, anziché come fa un qualsiasi figlio
nei confronti del proprio genitore
e come ho sempre fatto io chiamandola papà.
Così ho fatto in questi anni; anche appena due anni fa, intervenendo qui all'inaugurazione della
sala riunioni a lui intitolata, preparai un intervento in cui il più
delle volte quando nominavo mio
padre lo facevo chiamandolo ancora con nome e cognome, Giovanni
Losardo.
In quell'occasione mi piacque
molto ascoltare l'intervento del
presidente di questo Tribunale, il
dott. D'Alitto, che invece volle ricordarlo chiamandolo con l'appellativo che tutti, qui a Paola, usavano rivolgergli, cioè Don Giannino.
E' parso giusto anche a me, per
questa occasione, rompere quel
distacco con il quale vi avevo parlato di mio padre in altre occasioni
(un distacco che mi è servito per
lungo tempo per preservare nelle
sedi di incontro pubblico gli aspetti più intimi e privati del mio rap-
porto con mio padre) e parlarvi un
po' di papà.
E tenterò perciò di parlarvi del
mio rapporto con papà.
Oggi viene scoperta la sua effigie ed io ringrazio coloro i quali
hanno voluto impegnarsi in questo iniziativa che ha indubbiamente lo scopo ed il merito dì non far
disperdere il senso della presenza,
anche come entità fisica e tangibile, di papà nel Tribunale di Paola,
anche per coloro che non l'hanno
conosciuto in vita e non potranno
quindi più conoscerlo personalmente.
Venendo qui per questa occasione mi è venuto di pensare (ma è un
pensiero che ritorna periodicamente) come sarebbe mio padre
oggi, fisicamente, se fosse ancora
vivo: e, poiché oggi avrebbe quasi
76 anni, ho provato e provo a raffigurarmelo con i capelli bianchi;
forse porterebbe una diversa montatura degli occhiali o forse inforcherebbe ancora quegli stessi occhiali con la montatura nera e
spessa, che oggi è anche tornata di
moda, o forse porterebbe solo le
lenti più spesse perché come accade, con l'andare degli anni la vista
spesso si indebolisce.
Mi sono chiesto spesso e mi chiedo come sarei io, oggi, quali altre
strade avrei preso e, anche se non
ne abbiamo mai parlato, questa
domanda so che se la pone o se l'è
certamente posta mia madre, che
sicuramente aveva pensato per
me un diverso avvenire; e so che
lei certamente si domanda quale
sarebbe stato l'avvenire di Angela,
mia sorella, se papà fosse ancora
vivo.
E vorrei ancora trovare una risposta da offrire a Francesca e a
Margherita, che sicuramente si
sono chieste e si chiedono di questo nonno che non hanno mai conosciuto: in particolare a loro ancora oggi sento il dovere di offrire
una spiegazione di questa mancanza, ma non so trovare le parole
adatte, perché è troppo difficile far
capire a qualcuno, tanto più se si
tratta di un figlio, senza turbarne
la serenità, che la storia di un uo-
Giovanni Losardo (al centro, con gli occhiali) in una foto del 1966 gentilmente concessa dalla famiglia
mo può, essere interrotta da cinque colpi di arma da fuoco sparati
da una mano assassina cui non sono stati ancora associati un volto
ed un nome.
E a questo punto sono io che ho
bisogno del vostro contributo.
Perché sono pensieri, questi miei,
che vengono in mente, io credo, a
tutti coloro che hanno perduto
una persona assai cara, ma che diventa certamente ancora più difficile da riordinare quando un affetto ti sia stato tolto non da un evento naturale, ma in modo violento e
per volontà altrui.
Perché possiate aiutarmi, vi dico che è solo a questo punto delle
mie disordinate riflessioni quando non trovo più una risposta razionale al mio interrogarmi, che
interviene la ragione, quella che
insegna che la storia trascorsa,
anche quella dei singoli individui,
e quindi anche quella di mio padre, non si scrive con i "se".
Ed è solo a questo punto essendo
consapevole che non ho il talento
di un grande scrittore, perché tra
noi mortali solo ad un grande
scrittore è dato raccontare e far rivivere la storia di chi non è più nel
mondo dei vivi, evocandone lo spirito sulla pagina scritta, dandole
sviluppo non solo per come si è effettivamente svolta, ma anche per
come avrebbe potuto svolgersi è
solo a questo punto, dicevo, che mi
faccio prendere dalla piega dei ricordi.
Lo ricordo papà come una persona assai gioviale.
Mi ha raccontato perfino le discriminazioni che ha subito da
giovane (perché anche se qualche
mentecatto ancora si ostina a non
crederlo i comunisti qui in Italia
sono stati discriminati) sempre
con il sorriso e con sottile ironia.
Mi raccontava, ad esempio di
quando, nei primi anni '50, essendo a Milano sotto le anni ed essendo nota in caserma, perché già segnalata, la sua tendenza politica,
si accorse (trovandola manomessa), che gli veniva controllata e talvolta sottratta la corrispondenza.
E mi raccontava, però, di seguito il
risvolto positivo di questa vicenda, e cioè come riuscì ad incastrare il capitano che gli controllava la
corrispondenza, facendosi inviare
da casa un messaggio civetta e come sfruttò la circostanza per andare ad assistere senza problemi
ad un comizio di Togliatti a Milano.
Mi raccontò anche di quando
vinse il concorso da segretario comunale, ma non fu mai chiamato
a ricoprire il posto perchè allora
un comunista non poteva accedere a cariche di quel genere.
Di questi fatti non l'ho mai sentito dolersene più di tanto, credo
perchè la sua vita poi era andata
avanti ugualmente e non aveva
rimpianto nulla.
Mi viene in mente di quando mi
aiutava nei compiti e, in particolare, di quando dovendo a casa scrivere un tema sul compianto dei
troiani per la morte di Ettore mi
suggerì un passaggio del tema,
pregustando il bel voto che la mia
insegnante di lettere, la professoressa Antonella Bruno Ganeri mi
avrebbe certamente dato.
Questo frase la ricordo ancora, e
suonava così: "Rintocchi funebri,
donne meste, il pianto di un intero
popolo accompagnano all'estrema
dimora le spoglie mortali dell'eroe". Mai avrei pensato allora che
quelle parole avrebbero potuto descrivere anche il suo funerale.
Al tema presi un bel voto e papà
ne fu molto contento. Mi avvio alla
conclusione.
Io credo che ogni persona che
sia in età matura riesca ad accettare l'idea della morte, come fatto
naturale, come evento prodotto
dal processo di dissoluzione delle
risorse vitali di un qualsiasi organismo biologico.
Ciò che è difficile accettare è il
fatto che questo processo di dissoluzione possa essere innescato deliberatamente e senza necessità
dalla volontà cosciente di un altro
individuo.
Credo che ogni persona, in vita,
si auguri di poter lasciare una
qualche traccia del suo passaggio
ai posteri.
Scriveva il grande poeta Orazio,
in una celeberrima ode in cui
esprime il suo compiacimento e la
consapevolezza del valore e della
grandezza della sua opera poetica,
"Ho costruito un monumento più
duraturo del bronzo e più alto delle piramidi".
Si può vivere anche coltivando
ambizioni meno grandi.
Per parte mia, per quando toccherà la mia ora,, mi accontenterei di lasciare alle mie figlie un
buon ricordo di me come io porto
un buon ricordo di papà.
Faccio a tutti voi lo stesso augurio.
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