l’antifascista fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini Periodico degli antifascisti di ieri e di oggi • Anno LX - n° 1, 2, Gennaio-Febbraio 2013 L’Editoriale È finita la seconda Repubblica Dalle urne esce lo spettro dell’ingovernabilità di Giovanni Russo L’incognita Grillo preoccupa di Antonella Amendola Ma come ci può essere democrazia senza partiti? Lo tsunami di Grillo è arrivato, complici una crisi economica senza precedenti e una casta riottosa a riformarsi, e ci chiediamo che faranno i 163 eletti nel Movimento 5 Stelle. Si assumeranno impegni e responsabilità di fronte al Paese? I 3 milioni di persone che hanno votato alle primarie del Pd con procedure acclarate, controllate con atti notarili, sono un’espressione concreta della democrazia come l’abbiamo conosciuta fino a oggi. I parlamentari di Grillo furono selezionati con una consultazione in Rete: 25 mila click sulle cui procedure di garanzia poco sappiamo. Come fa una persona che riceve 79 preferenze (è capitato!) a ritrovarsi in Parlamento? Che cosa c’è in quel bacino politico che attraverso la Rete tende alla cosiddetta democrazia partecipata? Chi prende le decisioni? Troppe sono le incognite che ci turbano e ci lascia di stucco la capogruppo del M5S alla Camera, Roberta Lombardi, quando dichiara: «Prima che degenerasse il fascismo aveva un altissimo senso dello Stato». Chi insulta, evita la stampa italiana, punta l’indice contro i sindacati ci preoccupa, anche se è una casalinga con la faccia perbene che fino a ieri lottava per l’acqua pubblica. E poi la Costituzione parla chiaro: tutela i partiti in quanto espressione della vita democratica. Altra cosa sono i movimenti con la loro carica di protesta, magari per motivi sacrosanti. Noi continuiamo a credere che in Parlamento si va per discutere i propri argomenti con altri legittimati dal voto popolare. I mponendosi alla Camera come primo partito, il Movimento Cinque Stelle ha portato alla luce come la crisi italiana non sia solo di carattere sociale ed economico, ma anche politico. Nessuno si aspettava un’affermazione così clamorosa, perché sono stati sottovalutati l’insofferenza e il malcontento che affondavano radici ben più profonde di quanto si pensasse. L’intuizione di Grillo è stata di non limitarsi ad incarnare il portavoce della protesta, ma di riflettere segue a pagina 2 I luoghi della storia Como. Il Monumento alla Resistenza europea Attualitá Mark Covell a pagina 3 Lampedusa a pagina 5 di Maura Sala e Valter Merazzi Cultura (Centro di ricerca Schiavi di Hitler, Como) Natali e Nomellini Il monumento alla Resistenza Europea di Como recupera la sua importanza per la città il 25 Aprile: nonostante il suo significato e il suo pregio artistico è quasi assente dalle guide e dai percorsi dei tour operator e più in generale è poco valorizzato e compreso dagli stessi comaschi. Il monumento è disposto in asse con la diga foranea, sul lungo Lario Mafalda di Savoia, deceduta a Buchenwald, ricordata con una scultura bronzea realizzata da Massimo Clerici. Accanto si trova il cippo dedicato a Giorgio Perlasca, uno dei “giusti”, nato a Como, che a Budapest salvò migliaia di continua a pagina 14 Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma a pagina 10 Memorie Michele Cifarelli a pagina 12 Luigi Tarantini a pagina 16 Noi Addio Vinka a pagina 23 2 Attualità come in uno specchio a doppia faccia una classe politica che aveva perso il contatto con la realtà sociale. Per uscire dalla situazione in cui ci troviamo, occorre riflettere sulla natura del grillismo. Si pensava di esorcizzare il fenomeno liquidandolo come antipolitica: un modo per nascondere anche a se stessi il vero significato del movimento, nato a livello locale e allargatosi in un anno dalla sua formazione all’intera società I media ai suoi piedi Se il fine cui tende Beppe Grillo pare piuttosto misterioso e inquietante, non c’è dubbio che l’abilità tecnica che ha impiegato per conquistare il suo primo traguardo, il clamoroso successo elettorale, è stata magistrale: basti pensare a come ha sfruttato il medium televisivo. Mentre tutti gli altri concorrenti facevano a gara per essere presenti nei vari talkshow, lui non ha mai partecipato a un dibattito. Lo si vedeva certo in Tv, ma sempre per pochi istanti, ripreso mentre diceva la battuta fulminante, l’insulto colorito, o suscitava applausi e risate. All’immobilità imposta dalle trasmissioni televisive, che non facevano che riproporre i soliti ospiti contegnosi intervistati dai soliti giornalisti nei soliti studi Tv, Grillo ha sempre contrapposto un volto in movimento. La telecamera, anziché inquadrare un’immagine fissa, è stata costretta a inseguirlo mentre si dimenava sui palchi di fortuna, montati in tutta fretta nelle varie capitali della penisola dove non faceva ragionamenti pacati a sostegno della propria candidatura, ma insultava a destra e a manca con fare esagitato. Beppe Grillo non ha mai partecipato a dibattiti, ma nessuno come lui è stato presente in Tv. Coloro che hanno mandato in onda con ritmo ossessivo il suo bombardamento di brevissimi slogan pubblicitari, veri e propri messaggi subliminali, non si sono resi conto dell’enorme servizio che gli rendevano: contribuivano a segnare l’abissale differenza fra “solite vecchie facce”, che tanto ricordavano i personaggi rappresentati dal museo delle cere di Madame Toussaud e il dinamismo di questo comico, prestato alla politica, assolutamente nuovo. (g.r.) Tartassati dalle tasse, costretti a fare i conti con la diminuzione del potere d’acquisto dell’euro e nessuna prospettiva per il futuro, esasperati dai continui scandali gli italiani avevano cominciato a dare segni di insofferenza sempre più tangibili: il desiderio di una nuova classe politica si era trasformato in esigenza ineludibile. La mossa di Pier Luigi Bersani di indire le primarie per coinvolgere il numero più largo possibile di elettori nell’elezione del candidato premier della sinistra è stata abile, ma ha ottenuto il risultato opposto: il “nuovo”, rappresentato da Matteo Renzi, è stato sconfitto ed emarginato. È cominciata così una diminuzione dei consensi verso la sinistra. Il Presidente della Repubblica era stato indotto a instaurare un governo di tecnici perché la situazione era tanto grave che l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi era stato costretto a dimettersi. La barca faceva acqua da tutte le parti e Mario Monti, con l’appoggio di quasi tutte le forze parlamentari, era riuscito a non farla affondare a prezzo di sacrifici durissimi imposti, però, in pratica solo alla classe media e ai ceti popolari. A ritirare la fiducia al Governo a un anno dalla scadenza naturale della legislatura è stata però non la sinistra, rappresentante della parte della popolazione più tartassata, ma il centro destra che, avendo gestito il potere quasi ininterrottamente negli ultimi vent’anni, era il maggiore responsabile della situazione fallimentare in cui s’era venuta a trovare l’Italia. Con la sua decisione di “salire in politica”, Mario Monti, le cui ricette, sia pur dolorose, avevano salvato il Paese dal disastro, ha però indebolito ulteriormente la sinistra, come dimostra il risultato del voto per il governatore della Lombardia: ad Ambrosoli per essere eletto sono mancati esattamente i voti andati ad Albertini. Il berlusconismo, definito da Repubblica un “sistema di patacche e di bugie” ormai al tramonto, era invece tutt’altro che morto. La carta vincente di Berlusconi è stata quella di rassicurare quella parte della popolazione che il “nuovo” non lo auspicava, ma lo temeva: quella parte che voleva solo risolvere il più in fretta possibile e con meno sacrifici possibili la propria difficile situazione finanziaria. La restituzione dell’Imu, definita ad urne chiuse da Giuliano Ferrara nient’altro che “un ludo cartaceo”, sembrava pertanto la panacea, senza rischiare salti nel buio. Il Pd, convinto di ottenere una facile la vittoria elettorale, ha avuto per queste ragioni risultati inferiori alle aspettative e deve ora trovare alleanze per governare: manca infatti la possibilità, almeno in apparenza, di creare una maggioranza parlamentare che esprima un governo capace di restituire fiducia al Paese e credibilità all’estero, il che è tutt’altro che facile sia per l’atteggiamento di Grillo, il cui movimento è entrato a vele spiegate con il vento in poppa nel porto parlamentare, sia con il peso di piombo che cerca di mandare a fondo ogni tentativo di novità: il berlusconismo. Bersani ha tentato di ottenere l’appoggio del Movimento Cinque Stelle, ma Grillo pretende la resa incondizionata del Pd, presentandosi come il tribuno del popolo che si contrappone ai politici da lui definiti traditori della democrazia. In realtà, pare più un autocrate che un difensore delle libertà democratiche. Se le cose rimarranno così, anche se si riuscirà a formare un governo, questo avrà poche probabilità di durare e dovremo ritornare alle urne con grave rischio per la democrazia. A meno che gli italiani non abbiano una salutare reazione e si richiamino a quegli ideali che furono all’origine della Repubblica e su cui fondammo la rinascita e la ricostruzione del nostro Paese e delle nostre istituzioni dopo la seconda guerra mondiale e la caduta del fascismo. I media hanno inconsapevolmente (!?) amplificato la campagna elettorale di Grillo 3 Attualità Mark Covell: quando sono morto! Parla il giornalista inglese andato in coma fuori dalla scuola Diaz a margine del G8 di Genova del 2001 di Vincenzo Perrone Un polmone perforato, 16 denti rotti, alcune costole fratturate e 14 ore di coma. Fu ridotto così Mark Covell, giornalista inglese di Indymedia, network di portali indipendenti, dopo l’assalto da parte delle forze dell’ordine alla scuola “Armando Diaz” di Genova, dove dormivano manifestanti e giornalisti, nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001, al termine di un G8 già molto insanguinato che costò la vita al giovane Carlo Giuliani. Lo incontriamo nella casa romana della sua compagna Laura. Di cosa ti occupavi a Genova.? «Il mio lavoro a Genova si svolgeva prevalentemente al media center nella scuola Pascoli; ricevevo messaggi sul cellulare dai colleghi nelle varie piazze e poi, fatte le opportune verifiche, postavo tutto sul sito di Indymedia. Non sono mai sceso in piazza a manifestare». Cosa accadde la notte del 21 luglio? «Quando sono arrivati i poliziotti ero tra le due scuole, ovvero la Pertini, usata come dormitorio, e la Pascoli, il media center. Ho cercato di spiegare alla polizia che ero un giornalista, ma la risposta è stata “No tu sei un black block e i black block noi li uccidiamo”. A questo punto inizio a subire un pestaggio a più riprese. I primi a picchiarmi sono gli uomini comandati da Vincenzo Canterini, comandante del VII nucleo di Roma, in diverse parti del corpo ed alle ginocchia, facendomi cadere a terra». «Dopo qualche minuto altri poliziotti, sempre di quel reparto, mi hanno preso a calci rompendomi le costole sinistre e perforandomi un polmone, con una conseguente emorragia interna. A questo punto è arrivato un carabiniere, vice del tenente Luigi Cremonini, che ha cercato di fermare i poliziotti trascinandomi più in disparte, ma poi è andato via». «Io ero quindi, a terra, mentre gli uomini di Canterini stavano cercando di sfondare il cancello di entrata della Diaz-Pertini, quando si è avvicinato un poliziotto riconducibile al gruppo di Carlo Di Sarro, vice capo della Digos di Genova, che mi ha colpito con un manganello di ferro ricoperto di gomma, mentre un altro mi ha dato un calcio in bocca e così ho perso i sensi. Il manganello con cui sono stato picchiato non era in dotazione alle forze dell’ordine ma è stato acquistato per “l’occasione”. Dopo essere andato in coma sono stato lasciato in strada per circa mezz’ora. C’è anche una conversazione tra Luigi Cremonini e Francesco Gratteri, direttore del servizio centrale operativo della polizia, in cui il carabiniere chiede al poliziotto se ha chiamato un’ambulanza per me. Gratteri rassicura Cremonini, ma in realtà l’ambulanza arriverà perché chiamata da altre persone. Sulle prime tra la polizia circola la voce, come si evince da alcune intercettazioni telefoniche, che io sia morto. C’è una grande concitazione, i poliziotti vengono avvertiti di non parlare di me alla stampa, fino a quando alle 5,30 del mattino la BBC dichiara in diretta nazionale la mia morte. Notizia che verrà smentita un’ora dopo». Gli autori materiali del tuo pestaggio non sono stati identificati ufficialmente. C’è stato un muro di omertà sulla tua vicenda, anche negli anni a seguire? «Il gip Adriana Petri, che ha archiviato il mio caso, ha parlato della mancata collaborazione degli investigatori con la procura, denunciando una specie di spirito di corporazione tra le forze dell’ordine, volto a coprire i propri reati». Nel corso degli anni hai svolto un lavoro molto scrupoloso di ricerca video ed immagini. Come ha influito questo nel corso delle indagini? «Ho notato che inizialmente il reperimento delle immagini e dei video era molto approssimativo. Così ho deciso io stesso di cercare delle prove. Ho creato un primo video con 4 schermi sincronizzati, la versione finale ne ha ben 6, che ha impressionato molto il pm Enrico Zucca. Lui stesso mi ha aperto i loro archivi, permettendomi di perfezionare il mio “Supervideo”. Sono riuscito a ultimarlo nel novembre 2007 per il processo». Tra le prime prove che la polizia mostrò per giustificare l’attacco alla Diaz ci furono due bottiglie molotov trovate nella scuola. Tu hai cercato di dimostrare, riuscendoci e scoprendo la verità, che le molotov furono portate dagli stessi poliziotti. «Un video fondamentale che ho scoperto con le mie ricerche è stato quello del Mark Covell come è oggi giornalista Rai Fabio Chiucconi, reperito soltanto nel 2007, perché la Rai aveva affermato che la cassetta era stata distrutta, non divulgando i nomi dei giornalisti coinvolti. Nel video si vedono i poliziotti Francesco Gratteri, Giovanni Luperi, Vincenzo Canterini,Spartaco Mortola, Gilberto Caldarozzi, Michele Burgio e Pasquale Troiani davanti alla scuola, con la busta contenente le molotov». Diversi funzionari di polizia hanno ricevuto condanne in cassazione. Si poteva fare di più? «Sono contento del verdetto della cassazione, ma è chiaro che non andranno in prigione per via dell’indulto». Ritieni giusto il risarcimento di 350mila che hai ricevuto in sede civile dal Ministero dell’interno? «Originariamente il risarcimento era stabilito in 600mila euro. Non ho potuto ricevere il risarcimento completo perché Spartaco Mortola, capo della Digos di Genova, distrusse i miei referenti all’ospedale “San Martino” di Genova, come testimoniato dal personale medico». 4 Attualità Un asteroide chiamato Levi Montalcini Nella biografia della scienziata un forte richiamo alle radici dell’antifascismo di Giulietta Rovera I nsignita del Premio Nobel per la medicina e delle massime onorificenze in Italia, Francia, Spagna, Usa, membro della Royal Society di Londra, 14 lauree honoris causa, prima donna ammessa alla Pontificia Accademia delle Scienze, autrice di un numero sterminato di opere a carattere scientifico e di divulgazione nonché senatrice a vita: potrebbe essere riassunta in queste poche righe la straordinaria vita della più longeva vincitrice di un Nobel, Rita Levi Montalcini. Il 30 dicembre 2012, nel dare notizia della sua morte, la stampa di tutto il mondo - dal New York Times all’Economist, da Le Nouvel Observateur a El Mundo – ha sottolineato il carisma, la tenacia, la ferrea volontà, la rara combinazione di intuizione e passione di questa donna minuta ed elegante che ha contribuito alla “rinascita della democrazia” in Italia, “capace di affrontare con eguale serenità le durezze della crudeltà fascista e la repressione con cui ebbe a che fare essendo ebrea, i pregiudizi e la discriminazione contro le donne e il semiisolamento e le sfide di chi lavora per l’innovazione della scienza”. Era nata a Torino il 22 aprile 1909 in un’agiata famiglia ebrea. Per il padre, lo studio non si addice a una fanciulla, il cui destino deve essere quello di moglie e di madre: ma Rita non vuole sposarsi, una decisione che non rimpiangerà mai, vuole iscriversi all’Università di Medicina e Chirurgia, dove si laurea nel ‘36 summa cum laude. Il suo obiettivo è dedicarsi alla ricerca neurologica, comprendere il ruolo dei fattori genetici e ambientali nella differenziazione dei centri nervosi, sulla scia del lavoro del professor Victor Hamburger, noto embriologo di St. Louis. Nel ‘38 l’emanazione delle leggi razziali, che impediscono ai non ariani di perseguire carriere accademiche, dovrebbe fermarla, ma Rita non si arrende. Il pensiero che il duce possa considerarla “inferiore” la lascia impassibile: rischiando la prigione e la morte, continua gli esperimenti, con aghi da cucito e pinzette da orologiaio, sugli embrioni dei pulcini nel laboratorio improvvisato in camera da letto. Nel 1945 può finalmente pubblicare le sue intuizioni e le sue scoperte su riviste scientifiche internazionali. E un giorno riceve l’invito da Hamburger di raggiungerlo alla Washington University di Saint Louis: le offre la cattedra di docente del corso di Neurobiologia oltre alla possibilità di continuare le ricerche sugli embrioni. Il 1952 l’incontro con il biochimico Stanley Cohen segna l’inizio della fruttuosa collaborazione che nel 1986 li porterà a vincere il Nobel, grazie alla scoperta del “fattore di crescita nervoso” (NGF), una proteina che gioca un ruolo primario nella crescita e differenziazione delle cellule nervose sensoriali e simpatiche. La lunga permanenza negli Stati Uniti non le impedisce di tornare di frequente in Italia, dove riveste la carica di Direttrice del Centro di Ricerche di neurobiologia presso l’Istituto Superiore di Sanità e del Laboratorio di Biologia cellulare del CNR, e diviene membro dell’Accademia Nazionale delle Scienze. Nel 1983 è presidente dell’Associazione Italiana Sclerosi Multipla, nonché dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana. Il 1° agosto 2001, “per aver illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo scientifico e sociale”, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi la nomina senatrice a vita. Nonostante resa parzialmente cieca da una maculopatia degenerativa, pubblica libri e articoli, tiene conferenze, prosegue l’attività di ricerca presso l’Istituto Europeo di Ricerca sul Cervello (Fondazione EBRI) da lei fondato nel 2001. Continua cioè a condurre la vita di sempre: cinque ore di sonno, un pranzo al giorno (una zuppa, un’arancio) e un ferreo orario di lavoro. Con gli anni, Rita Levi Montalcini diviene un’icona, prova vivente che si possono ottenere i più alti onori insistendo, a volte ad alta voce, altre silenziosamente, su ciò che si vuole, senza perdere stile ed eleganza: la chiamano “Nostra Signora della scienza”, la “Lady of the Cells”, in suo onore battezzano “Levi Montalcini” l’asteroide 9722 scoperto nel 1981. Il giorno in cui compie cent’anni, durante il party organizzato in Campidoglio, sollevando una coppa di champagne dichiara che il suo cervello è in forma migliore di quando aveva vent’anni. Non lo mette in dubbio nessuno di coloro che la conoscono e la frequentano, ma ironizzare sull’età della più grande scienziata italiana diviene un tema fisso per chi vuole demolirne il mito: nel 2001 durante uno spettacolo Beppe Grillo le dà della “vecchia puttana”; nel 2007 Francesco Storace si offre di fornirle un paio di stampelle. Inquietante 5 Attualità la reazione via Internet sul blog di quest’ultimo: “Che ci fa al Senato? Le darei un incarico politico nel ghetto”. Lei non delega la propria difesa a nessuno: «Sento il bisogno di rispondere», scrive in una lettera aperta a La Repubblica, «per esprimere il più profondo sdegno, non per gli attacchi personali, ma perché le loro manifestazioni riconducono a sistemi totalitari di triste memoria». Sa di essere un bersaglio perché rappresenta tutto ciò che è inviso all’estrema destra: è ebrea, donna, antifascista. Non le è perdonato il suo impegno ad ampio raggio, l’appoggio al Governo Prodi, la lotta a Berlusconi ogniqualvolta questi presenta provvedimenti contrari alla ricerca, né che si sia dichiarata favorevole all’eutanasia attiva, all’ingegneria genetica, alla libertà della ricerca (“non si può mettere un lucchetto al cervello umano”), al Movimento di Liberazione Femminile per la regolamentazione dell’aborto e alle campagne contro le mine antiuomo. «La vita ha valore», non si stanca di dichiarare, «se non concentriamo l’attenzione soltanto su noi stessi, ma anche sul mondo che ci circonda». Fino alla fine dei suoi giorni, la sua guerra al fascismo non ha conosciuto tregua. «Essere antifascisti oggi», ha detto in più di un’occasione, «significa mantenere vivi quei valori morali, quei principi etici distrutti dal fascismo e che si stanno perdendo per via dei revisionisti. Antifascisti dovremmo esserlo tutti. Purtroppo non è così». Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa La lettera che il nuovo Sindaco di Lampedusa ha inviato all’Italia e all’Europa Con questa amara denuncia Giusi Nicolini ha già ottenuto un risultato: è stata segnalata sul sito nazifascista Stormfront S ono il nuovo Sindaco delle isole di Lampedusa e di Linosa. Eletta a maggio 2012, al 3 di novembre mi sono stati consegnati già 21 cadaveri di persone annegate mentre tentavano di raggiungere Lampedusa e questa per me è una cosa insopportabile. Per Lampedusa è un enorme fardello di dolore. Abbiamo dovuto chiedere aiuto attraverso la Prefettura ai Sindaci della provincia per poter consideri questo tributo di vite umane un modo per calmierare i flussi, se non un deterrente. Ma se per queste persone il viaggio sui barconi è tuttora l’unica possibilità di sperare, io credo che la loro morte in mare debba essere per l’Europa motivo di vergogna e disonore. In tutta questa tristissima pagina di storia che stiamo tutti scrivendo, l’unico motivo di orgoglio ce lo offrono quotidianamente gli uomini Sepoltura anonima di migranti a Lampedusa (© Marco Delbò) dare una dignitosa sepoltura alle ultime 11 salme; il Comune non aveva più loculi disponibili. Ne faremo altri, ma rivolgo a tutti una domanda: quanto deve essere grande il cimitero della mia isola? Non riesco a comprendere come una simile tragedia possa essere considerata normale, come si possa rimuovere dalla vita quotidiana l’idea, per esempio, che 11 persone, tra cui 8 giovanissime donne e due ragazzini di 11 e 13 anni, possano morire tutti insieme, come sabato scorso, durante un viaggio che avrebbe dovuto essere per loro l’inizio di una nuova vita. Ne sono stati salvati 76 ma erano in 115, il numero dei morti è sempre di gran lunga superiore al numero dei corpi che il mare restituisce. Sono indignata dall’assuefazione che sembra avere contagiato tutti, sono scandalizzata dal silenzio dell’Europa che ha appena ricevuto il Nobel della Pace e che tace di fronte ad una strage che ha i numeri di una vera e propria guerra. Sono sempre più convinta che la politica europea sull’immigrazione dello Stato italiano che salvano vite umane a 140 miglia da Lampedusa, mentre chi era a sole 30 miglia dai naufraghi, come è successo sabato scorso, ed avrebbe dovuto accorrere con le velocissime motovedette che il nostro precedente governo ha regalato a Gheddafi, ha invece ignorato la loro richiesta di aiuto. Quelle motovedette vengono però efficacemente utilizzate per sequestrare i nostri pescherecci, anche quando pescano al di fuori delle acque territoriali libiche. Tutti devono sapere che è Lampedusa, con i suoi abitanti, con le forze preposte al soccorso e all’accoglienza, che dà dignità di esseri umani a queste persone, che dà dignità al nostro Paese e all’Europa intera. Allora, se questi morti sono soltanto nostri, allora io voglio ricevere i telegrammi di condoglianze dopo ogni annegato che mi viene consegnato. Come se avesse la pelle bianca, come se fosse un figlio nostro annegato durante una vacanza”. Giusi Nicolini 6 Cultura La mafia come metodo La storia, i metodi, le stragi, ma anche la crisi del sistema politico repubblicano e la presunta trattativa Stato-mafia. Tutto questo nel libro di Nicola Tranfaglia di Mauro Nenciati L a mafia come metodo di Nicola Tranfaglia, edito da Mondadori Università, è un libro di storia della mafia, ma non solo. L’autore, partendo da una settecentesca protomafia siciliana, costituita da sette segrete come i Beati Paoli, che configurano il prototipo della mafia come onorata società, passa poi a fare la storia della mafia dopo l’Unità d’Italia . Nella seconda metà dell’800 e nei primi due decenni del ‘900 la mafia cresce nei grandi possedimenti agrari e nelle aree industriali della Sicilia, come le zolfatare, con la costituzione di cosche che utilizzano i metodi mafiosi della violenza privata, dell’intimidazione, dei ricatti, degli attentati e degli omicidi. Tranfaglia arriva, quindi, a uno snodo cruciale, il fenomeno mafioso nell’Italia del ventennio fascista, con il tentativo fallito, da parte della dittatura, di porre un argine alla criminalità organizzata in Sicilia con metodi forti. Mussolini inviò il prefetto Mori (il Prefetto di ferro) per operazioni repressive e violente fino alla tortura, con l’inosservanza delle più elementari garanzie di difesa ed il brutale disprezzo dei diritti fondamentali degli imputati. Dalla scrupolosa ricostruzione di quel momento particolare emerge che le campagne repressive si piegano spesso agli interessi in ballo nelle lotte interne tra le correnti fasciste dell’isola. Da qui Tranfaglia analizza la mafia, anzi le mafie, del dopoguerra. Si le mafie, perché alla mafia siciliana si sono aggiunte in Calabria la ‘ndrangheta, in Campania la camorra, in Puglia la Sacra corona unita. Nel periodo repubblicano dopo gli anni ‘60 e ‘70 le mafie si espandono da fenomeno territoriale regionale fino ad interessare l’intero Paese. Ed è qui l’incontro fra mafia, politica, imprenditoria. L’autore riporta ed esamina i lavori della Commissione parlamentare antimafia. Istituita nel ‘63, presidente il giurista socialdemocratico Paolo Rossi, e subito sciolta, la commissione ebbe in successione due presidenti democristiani Pafundi e Cattanei, mentre le commissioni successive furono presiedute nel 1976 da Carraro, nel 1993 da Violante. Il fallimento delle politiche economiche per il Mezzogiorno da parte di tutti i governi che si sono succeduti alla guida del Paese, spesso con cadenza stagionale, la crisi del sistema politico repubblicano, il sempre maggiore divario sociale fra Nord e Sud, potenziano le mafie, sicure di poter portare avanti attività criminali approfittando anche della profonda sfiducia dei cittadini nello Stato e nelle istituzioni. Tranfaglia passa poi a esaminare il fenomeno dell’affrancamento della mafia dai politici negli anni ‘80: la criminalità organizzata fa politica direttamente, influenzando e incanalando i voti, così da eleggere i propri uomini, infiltrandosi direttamente nello Stato e nelle istituzioni. È degli anni ‘80 e ‘90 l’idea che la mafia è ormai un fenomeno politico, sociale, ed economico di tali dimensioni da dover essere affrontato con misure radicali ad ogni livello, non solo repressivo. Due capitoli del libro sono dedicati all’azione svolta dai due magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, le loro sfide, le loro parziali vittorie, il loro abbandono da parte dello Stato, la loro tragica fine. Gli interessi della mafia si sono ormai espansi: non solo traffico di stupefacenti, ma controllo degli appalti pubblici, riciclaggio di denaro sporco, traffico di armi su scala internazionale, smaltimento di rifiuti tossici rappresentano negli ultimi decenni i nuovi e più lucrosi affari criminali. L’ultimo capitolo riguarda il clamore dell’inchiesta giudiziaria sulla presunta trattativa Stato-mafia e la polemica tra il Quirinale e la Procura di Palermo. Su questo particolare aspetto l’autore manifesta tutta la sua preoccupazione. Si dichiara angosciato per il degrado etico e democratico della nostra società, per la profonda sfiducia dei cittadini nei partiti, per la mancanza di partecipazione alla vita democratica, per il qualunquismo e il cinismo dilaganti. La mafia non sarà quindi mai vinta? Lo Stato non sarà mai capace di attuare i principi della Costituzione repubblicana? L’autore del saggio non fornisce alcuna risposta diretta, ma avverte: «l’avvenire è sempre di necessità aperto ed ignoto e possiamo dire soltanto che staremo a vedere quel che succederà». NICOLA TRANFAGLIA La mafia come metodo Mondadori Università, pag. 166, Euro 12,50 7 Cultura Il bambino che disegnava la guerra Nelle vignette del piccolo Marcello Cossu gli orrori del nazifascismo a Roma di Fabiana Tacente E mozioni e ricordi di un bambino ai tempi della seconda guerra mondiale. Questa è l’intensa e originale testimonianza che il professor Marcello Cossu riesce a renderci attraverso il suo libro L’immagine e l’immaginario (Lorenzo editore), quasi un diario con 43 disegni realizzati tra il marzo 1942 ed il marzo 1946. «Mantenere vivo il ricordo e tramandare la memoria storica ai giovani è uno dei compiti più importanti di chi ha vissuto eventi e momenti che hanno segnato il mondo», ricorda Cossu. Quando a evocare un tragico passato sono i disegni di un bambino di 7 anni la riflessione sugli orrori del secolo breve è ancora più coinvolgente soprattutto per adolescenti e studenti, come si è capito lo scorso 25 gennaio, nell’aula magna del liceo Tasso di Roma, intitolata a Pilo Albertelli, dove si è svolta la presentazione del piccolo, commovente libretto. Erano presenti l’autore Marcello Cossu, il suo amico d’infanzia Guido Albertelli, altro pezzo di memoria storica, figlio del professor Pilo Albertelli, vittima delle Fosse Ardeatine, e Giuseppe Pagano, membro dell’associazione Amici del Tasso. «L’idea di far conoscere i miei disegni nacque nel 1995 quando li ritrovai in un cassetto. D’un tratto era come se a contatto con quei fogli impilati, ancora leggibilissimi, ritrovassi il filo della memoria infantile. Ho rivissuto in una carrellata di flashback la mia storia di bambino di guerra, con le mie paure, le mie ansie di fronte a qualcosa di oscuro e minaccioso che terremotava la tranquilla vita familiare». Durante la presentazione è stato anche proiettato un filmato, realizzato dal comune di Torino: attraverso fotogrammi d’epoca e un attore bambino ci pare quasi di seguire il percorso creativo del piccolo disegnatore. Marcello Cossu, figlio di professori di liceo con idee antifasciste, visse quegli anni in modo intenso, direttamente coinvolto negli eventi; più volte la sua famiglia ospitò persone perseguitate dal regime. Il clima che si respirava a Roma e nella casa di famiglia al quartiere Salario veniva riportato nei vivaci disegni, affollati di presenze popolari. «Sapevo disegnare», spiega Cossu. «Me lo dicevano tutti e mi divertiva farlo. Il primo disegno è datato 22 marzo 1942, non avevo ancora 8 anni». Su alcuni degli avvenimenti il piccolo artista interviene attingendo alla fantasia: non conoscendo direttamente eventi e fatti capitati nel vasto mondo, ma avendoli introiettati attraverso gli echi dei giornali, le suggestioni di tavole pittoriche, li reintepreta nel suo contesto domestico. Il piccolo a volte predilige tratti satirici, da vignettista, a volte le sue composizioni assumono una valenza più favolistica. Nel disegno Soldati tedeschi svaligiano le case a Napoli Cossu rappresenta i militari nazisti intenti a svaligiare il salotto di casa sua; nello schizzo Gerarca Fascista, invece, l’ambiente da lui disegnato è lo studio del padre, dove, però, tra elementi tipici del regime, come il fascio littorio e vari cimeli africani, alla scrivania siede un gerarca. Oltre questi schizzi, che uniscono realtà e immaginazione, ci sono disegni relativi a episodi vissuti personalmente. «Il disegno che preferisco», spiega Cossu, «è il ritratto del Papa Pio XII, per il senso di pace che infonde tra scenari di violenza e di guerra. Lo schizzo nacque dopo un’udienza privata concessa dal pontefice alla mia famiglia negli ultimi giorni del luglio 1943. Quello che invece considero il mio piccolo capolavoro è Una retata, ricostruzione grafica di un episodio avvenuto nel mio quartiere, rappresentato con un tocco di neorealismo nei piccoli dettagli della quotidianità. Nel disegno c’è una scena molto movimentata, davanti ad un rivenditore di Sali e tabacchi, in cui sono coinvolti poliziotti che, nel panico generale, caricano su un camion alcune persone». Altro disegno molto intenso è quello che rappresenta l’attentato di via Rasella, in cui i partigiani uccisero un plotone tedesco e le SS, per vendicarsi, sterminarono 335 italiani, nel tragico eccidio delle Fosse Ardeatine. Tra le vittime dell’eccidio ci fu il professor Pilo Albertelli, padre di Guido, che ha raccontato al pubblico del liceo Tasso l’immane tragedia che sconvolse la sua giovane vita. «Mio padre era un filosofo», ricorda Albertelli. «Si L’IMMAGINE E L’IMMAGINARIO. Disegni, emozioni, ricordi di un bambino di tanti anni fa. Roma 1942-1946 è il titolo della ristampa del bel volumetto dove Marcello Cossu ha raccolto i suoi disegni di “bambino di guerra” (a lato quello intitolato Una retata). È una cronaca per immagini che ha commosso ed emozionato storici, giornalisti, studenti e cittadini. La nuova edizione, apparsa per i tipi della Lorenzo Editore di Torino, può essere richiesta scrivendo a [email protected] 8 Cultura Guido Albertelli, Marcello Cossu e la professoressa Antonietta Corea durante la presentazione del libro gettò nella lotta al nazifascismo, trasformando se stesso e vivendo quel periodo come un partigiano esperto. Divenne comandante delle forze armate romane del Partito d’azione e fu un capo ammirato dai compagni. I Cossu erano amici di famiglia, noi ragazzi giocavamo insieme. Fu proprio a casa dei Cossu che arrivò la tragica notizia che mio padre era tra gli uccisi alle Fosse Ardeatine. Rammento che noi bambini eravamo impegnati in un gioco e che da quel giorno non ci fu più niente di divertente nella mia vita». Alla fine dell’incontro il professor Cossu ha concluso con un interessante episodio: «Seguendo un programma televisivo di storia ho visto riportati i disegni di un bambino francese, Yves Congar, che durante la prima guerra mondiale aveva vissuto con la sua famiglia le vicende belliche e la lunga e pesante occupazione tedesca della città di Sedan, nelle Ardenne, dove abitava. Incuriosito, scrissi al sindaco della città francese e dopo pochi giorni ho ricevuto una copia dei disegni di questo bambino, contenuti in una raccolta». Ancora una volta la potenza del disegno riesce a far rivivere eventi drammatici con una semplicità spiazzante. Solo gli occhi di un bambino possono mettere a nudo, nella loro crudeltà, certi orrori e non fa meraviglia che i disegni di Marcello Cossu siano studiati da psicoanalisti e specialisti della psicologia infantile. Nel suo studio Renato Sasdelli fa luce su una pagina poco nota della Facoltà bolognese “Ingegneria” in guerra di Massimo Meliconi D al settembre 1943 sino alla liberazione di Bologna la sede della Facoltà di Ingegneria perse il suo ruolo di luogo deputato all’insegnamento e allo studio, essendo prima requisita dai Comandi germanici di piazza e di presidio poi adibita a caserma della Guardia Nazionale Repubblicana e sede del suo Comando provinciale. Nell’autunno 1944 vi si stabilì anche l’Ufficio Politico Investigativo della GNR e nella storia della Facoltà cominciò un periodo del tutto sconosciuto sul quale questo lavoro di Renato Sasdelli fa finalmente luce. La GNR aveva compiti militari e anche di polizia, questi ultimi svolti dall’UPI che si occupava di indagini e repressione nella lotta contro le formazioni partigiane, oltre che di reati comuni. L’UPI bolognese utilizzò i locali della Facoltà per rinchiudere e interrogare con metodi violenti donne e uomini della Resistenza, talvolta mandandoli a morte o uccidendoli direttamente. Un gruppo di criminali guidati dal famigerato “colonnello” Angelo Serrantini, si accanì contro i partigiani caduti nelle loro mani. Sasdelli ha riunito documenti e testimonianze in parte editi e in parte inediti e ha rintracciato numerosi partigiani detenuti nella Facoltà raccogliendone i ricordi. Non è noto il numero di quanti passarono per le celle create nella Facoltà, ma ha comunque stilato un elenco di circa settanta nominativi (tra cui cinque partigiane) riportando, quando disponibili, brani di testimonianze scritte o orali sulla loro esperienza. Diversi gli orientamenti politici e la condizione sociale di questi patrioti: operai e coloni in maggioranza, ma anche militari e studenti universitari. Da quelle celle alcuni furono inviati in campo di concentramento o in caserme del nord Italia, altri finirono nelle carceri bolognesi sotto l’autorità del comando SS da dove in sette, nel marzo 1945, furono prelevati e fucilati presso la stazione del rione di S. Ruffillo. Uno morì per le torture subite in Facoltà. L’ultimo inverno di guerra fu durissimo per la popolazione bolognese e le forze della Resistenza. Dopo lo sbandamento seguito alle battaglie di Porta Lame e della Bolognina, per il cedimento sotto le torture di alcuni, per il tradimento di altri, i partigiani ebbero in quei mesi più caduti che in tutto il precedente 1944. Circa cinquecentomila persone, in gran parte ammassate entro la cerchia delle mura, vissero in balia delle violenze fasciste, in condizioni igieniche terribili, al freddo e al buio. La clandestina Commissione tecnica del CLN dell’Emilia Romagna (ne fecero parte due docenti della Facoltà) stimò che ogni abitante disponesse di elettricità equivalente grosso modo a quella necessaria per alimentare una sola lampadina da 40 watt. Questa ricerca ha anche il merito di fornire particolari sull’attività della GNR. Dimenticando il ruolo attivo che la Repubblica sociale e i suoi uomini 9 Cultura ebbero in quei tragici mesi di guerra, troppo spesso e a lungo si sono sottolineati gli aspetti di sottomissione del fascismo al più potente alleato nazista, identificato con il “male assoluto” e il solo colpevole degli episodi violenti e criminosi durante l’occupazione tedesca. Con questo tipo di lettura si è costruito un alibi per i fascisti italiani, a cominciare da Mussolini, presentati come più miti rispetto ai loro alleati, attribuendo alla Repubblica sociale e ai suoi uomini colpe inferiori rispetto a quelle degli occupanti nazisti e così contribuendo al silenzio sui crimini compiuti dai repubblichini sui partigiani e i civili italiani. Il libro racconta alcuni di questi crimini, riportando letestimonianze sulle torture, i pestaggi, le violenze commesse dai fascisti della GNR, una milizia non di rado presentata come meno connotata ideologicamente e, di conseguenza, meno feroce delle Brigate nere. Significative le testimonianze di partigiani consegnati in carcere ai tedeschi dopo le torture subite dai fascisti a Ingegneria: uno lo considerò il passaggio dall’inferno al purgatorio e a un altro, vedendo la brandina della cella, parve di essere in albergo. Al pari di tanti altri criminali fascisti, tornarono presto liberi anche quei componenti dell’Ufficio politico della GNR bolognese che non avendo fatto in tempo a ottenere la protezione degli Alleati furono catturati dai partigiani. Le condanne a morte o all’ergastolo ricevute dopo la Liberazione furono convertite nel giro di un paio di anni in brevi periodi di detenzione o addirittura cancellate grazie all’applicazione che la magistratura fece della “amnistia Togliatti”: qualcuno tornò libero appena un anno dopo la condanna a morte avuta nel processo di primo grado. Questo libro è attuale anche per lo scandaloso rifiuto di vari governi italiani di recepire la Convenzione internazionale contro la tortura: ancora nel 2010 il rappresentante del governo berlusconiano ha votato alle Nazioni Unite contro l’introduzione del reato di tortura nel nostro codice penale. Nella sentenza di condanna dei poliziotti colpevoli nel 2001 delle violenze alla scuola Diaz la magistratura ha sottolineato l’impossibilità di applicare tale reato. Negare l’olocausto è una menzogna «Il negazionismo è un piccolo universo autoreferenziale, per alcuni aspetti quasi un genere letterario a sé, che non viene scalfito dalla ragione poiché ha una sua ragione che riposa sulla negazione»: soprattutto è un fenomeno carsico, perché a intervalli più o meno regolari, si ripresenta con inquietante costanza negando l’evidenza dello sterminio degli ebrei e, con esso, delle condotte criminali assunte dalla Germania nazista. La «totalità della menzogna non sta nelle singole affermazioni ma nel loro utilizzo in sequenza, all’interno di un universo di significati che è menzognero poiché perviene a negare la realtà dei fatti. Il negazionismo, sul piano dei concetti, non è propriamente un’ideologia compiuta così come, sul versante di coloro che lo professano e lo condividono, non costituisce una setta, anche se molte delle sue manifestazioni e dei comportamenti di coloro che si riconoscono in esso farebbero pensare altrimenti. Si tratta piuttosto di un atteggiamento mentale che si traduce in un modo di essere nei confronti del passato. Al giorno d’oggi, si presenta come il prodotto della stratificazione e dell’interazione di tre elementi: il neofascismo, il radicalismo di alcuni piccoli gruppi della sinistra più estrema e il viscerale antisionismo militante delle frange islamiste». Claudio Vercelli ricostruisce storicamente il fenomeno negazionista, ne descrive i protagonisti e gli ideologi e racconta la mappa concettuale che dalla fine della guerra a oggi ne ha segnato l’evoluzione. Claudio Vercelli è ricercatore di Storia contemporanea presso l’Istituto di studi storici Gaetano Salvemini di Torino, dove coordina il progetto didattico pluriennale “Usi della storia, usi della memoria”. È coautore del manuale di storia Un mondo al plurale (a cura di Valerio Castronovo, La Nuova Italia 2009) e autore di Tanti olocausti. La deportazione e l’internamento nei campi nazisti (La Giuntina 2005); Israele: storia dello Stato. Dal sogno alla realtà (1881-2007) (La Giuntina 2007-2008); Triangoli viola. Le persecuzioni e la deportazione dei testimoni di Geova nei Lager nazisti (Carocci 2012). Per i tipi della Laterza, Storia del conflitto israelo-palestinese (2010). Claudio Vercelli, Il negazionismo. Storia di una menzogna Laterza editore, collana Storia e Società, Bari-Roma 2013, pp. 230 euro 20,00 10 Cultura Renato e Plinio divisi dalla politica Perché Livorno ama Renato Natali e snobba Plinio Nomellini di Mauro Nenciati N ella seconda metà dell’800 Livorno fu il laboratorio della pittura italiana con Giovanni Fattori, Serafino de Tivoli, Eugenio Cecconi, protagonisti tra i Macchiaioli, movimento tra i più creativi nella storia dell’arte. Al caffè Michelangelo di Firenze, attorno al critico d’arte Diego Martelli, oltre ai già citati pittori livornesi, troviamo Niccolò Cannicci, Silvestro Lega, Telemaco Signorini, Adriano Cecioni, Raffaele Sernesi, Eugenio Prati, Giuseppe De Nittis, Giovanni Boldini, Giuseppe Abbati. Il termine Macchiaiolo fu utilizzato per la prima volta nel 1862 in un articolo apparso sulla Gazzetta del Popolo. Questa scuola rinnovò la cultura pittorica nazionale e non solo. Infatti, con le frequenti visite e soggiorni a Parigi, alcuni componenti del gruppo influenzarono importanti artisti francesi del periodo: la tecnica macchiaiola sarà l’incubatrice dell’Impressionismo. Che cosa inseguono i Macchiaioli? Mettono in primo piano la realtà, affermano che la rappresentazione Renato Natali, La serenata del vero è un contrasto di macchie di colore e di chiaroscuri. Avversano il mito, la retorica, le false celebrazioni, sono invece alla ricerca della quotidianità, del colpo d’occhio nella natura, nella semplicità dei paesaggi agresti, nelle campagne assolate, nei laghi, nel mare. A noi interessa esaminare la pittura di Renato Natali e quella di Plinio Nomellini, post Macchiaioli, veri e propri antagonisti, contrapposti nelle idee, nel linguaggio pittorico, nella vita quotidiana e sociale. Renato Natali, nato a Livorno nel 1883, prese a modello la sua città e i suoi concittadini, cogliendone in pieno il carattere. Dipinge strade, piazze, il quartiere della Venezia, i canali, il porto. Popola le viuzze di gente minuta, uomini e donne dai colori forti e sgargianti. Ferma sulla tela costumi e tradizioni, le cene fuori dalle osterie, marinai e signorine, stornelli e serenate con chitarre, ribotte, zuffe e baruffe. Ancora le colorate feste in maschera al Teatro Goldoni, fra buffoni e coriandoli, i tramonti sul mare con il contrasto in cielo fra il rosso sanguigno ed il blu cobalto intenso. La sua pittura è di getto, verace, carica dei colori del mare mosso dal vento di libeccio: il livornese ci sente quasi l’odore del salmastro, riconosce come suoi i colori dei cieli blu che contrastano con i gialli delle lanterne, dei lampioni accesi nelle strade, dei lumi a petrolio che illuminano una finestra. I livornesi riconoscono in quei quadri i loro gesti, l’essere un po’ “ sfrontati ”, un po’ “ beceri “ per il loro parlare ad alta voce, riconoscono la loro “volgarità”, ma anche la loro generosità popolana, tracotante sì, ma sentimentale, sincera, spontanea, sanguigna e irruenta. Livorno era un porto franco con i suoi abitanti multietnici giunti lì con spirito d’avventura, pronti ad affrontare il domani con intraprendenza. Natali, tuttavia, non aveva, né i gesti, né il parlare dei popolani 11 Cultura livornesi, né l’aspetto forte e muscoloso dei risicatori e dei portuali. Era piccolo, parlava sottovoce, si muoveva adagio e con garbo, quasi con attenzione, e invece cantava nei suoi quadri una città dai sentimenti guasconi e spavaldi, con gli abitanti sempre sopra le righe, come sulla scena di un tumultuoso melodramma. Il 13 febbraio del 1974 incontrai Renato Natali durante la cerimonia per la consegna al maestro, da parte del Sindaco di Livorno Bino Raugi, della Livornina d’Oro, massima onorificenza del Comune. Ero insieme a mio padre, amico di Bino, con cui aveva diviso, nel 1943, la cella nel carcere di Regina Cieli a Roma, in quanto entrambi perseguitati politici antifascisti, e in quella occasione Natali raccontò un episodio della sua gioventù che mi sembra utile riferire per poi introdurre il discorso su Plinio Novellini. Disse Natali: «Ero a Venezia con Dedo (Amedeo Modigliani) e passeggiavamo in piazza San Marco, era tardi ed era piovuto, avevamo l’ombrello al braccio. «Incontrammo Plinio Nomellini in compagnia di Puccini, il musicista. “Ehi, giovanotti, come vi permettete di bighellonare a quest’ora!” gridò Nomellini con piglio autoritario, e infatti in seguito diventò un bel fascistone. Io pensai che scherzasse, è evidente, ma Dedo che non lo poteva soffrire minacciò di spaccargli l’ombrello in testa. Nomellini rispose per le rime. Io e Puccini intervenimmo per bloccare la lite. Il fatto era che già allora Dedo beveva». Ecco come Renato Natali definì Plinio Nomellini: un fascistone. Anche Nomellininacque a Livorno e fu uno dei massimi esponenti della pittura macchiaiola e soprattutto divisionista. A 19 anni frequentò l’Accademia delle Belle Arte di Firenze dove fu allievo di Giovanni Fattori, apprese da Silvestro Lega e Telemaco Signorini. Frequentò circoli culturali, si appassionò al Divisionismo, dopo aver incontrato un altro pittore livornese Alfredo Muller, grande impressionista. Plinio, durante il periodo trascorso a Genova, assunse impegni sociali e politici, avvicinandosi agli ambienti del socialismo rivoluzionario ed Renato Natali, Il chiosco (particolare) anarchico per cui, nel 1894, fu coinvolto in un processo contro un gruppo di anarchici, fu anche arrestato ed imprigionato. La sua casa di Viareggio divenne ritrovo di intellettuali, frequentò Grazia Deledda, Gabriele D’Annunzio, Giacomo Puccini. Dipinse quasi sempre dal vero portandosi dietro colori e cavalletto. Nei suoi quadri paesaggi campestri con animali, contadini al lavoro, marine cariche di luce, ma anche soggetti garibaldini e grandi quadri a sfondo allegorico e sociale. Nomellini fu completamente padrone della tecnica impressionista e divisionista e divenne il pittore della luce, con le sue figure e i suoi paesaggi che emergono frammentati in un tripudio di colori e di chiaroscuri. Negli anni Venti aderì al fascismo e i suoi quadri e manifesti e opere grafiche divennero spesso allegorie del regime. Di quel periodo sono le grandi tele, Camicie Nere, Marcia su Roma, Incipit nova aetas. Sfilate fasciste, emblemi e simboli della dittatura compaiono nelle sue opere. Fu per questa adesione al fascismo che Plinio Nomellini non divenne il pittore dei livornesi? Certo Livorno non l’amò, anzi lo ignorò, e forse lo rinnegò . Nomellini e la sua pittura furono estranei al popolo livornese, almeno fino agli anni Settanta, quando venne rivalutato. Mi ricordo che mio padre, per diversi anni vicino al Gruppo dei Pittori Labronici, non ne parlava mai e se ne parlava con gli altri pittori livornesi era sempre con distacco e con scarsa simpatia. Non gli perdonavano l’adesione al fascismo. Plinio Nomellini, Camicie nere 12 Memorie Quell’avvocato paladino dell’Appia antica Ricordo di Michele Cifarelli, fondatore del Partito d’Azione a Bari di Giovanni Russo A Michele Cifarelli mi legavano i comuni ideali e un sentimento di amicizia. Era uno dei più attivi esponenti del Partito d’Azione a Bari, dove si era creato uno dei nuclei più importanti del movimento liberalsocialista. Aveva 30 anni, ma sembrava ancora più giovane, e ha conservato, sempre, questo suo giovanile aspetto, la rapidità dei gesti, la facilità dell’eloquio. Nei primi mesi del 1944, dopo il Congresso nazionale dei Comitati di liberazione nazionale, a Bari, egli venne a Potenza. Non gli fu difficile convincerci a fondare una sezione del Partito d’Azione. Io sollevai una sola obiezione: ero stato avanguardista e avevo anche i gradi di capo centuria. Ricordo ancora il sorriso con cui accolse questa mia confessione. Mi rassicurò dicendomi che mi assolveva da questo mio passato. Nato a Bari l’8 agosto 1913 (morì nel 1998) si laurea in Giurisprudenza. Appassionato di studi letterari, nel 1938 vince il concorso in Magistratura. Cifarelli si forma e matura la sua critica al regime in un gruppo di giovani aspiranti alla libertà che s’incontrano, come Tommaso Fiore, l’autore di Un popolo di formiche, alla libreria Laterza, dove transitava Croce. Nel giovane Cifarelli ci sono insieme la passione politica, l’elaborazione culturale, ma anche la voglia d’azione, che così sintetizza in un suo diario del ‘36: «Non si può studiare senza scrivere e lottare». Già fin dal ‘35 svolgeva propaganda antifascista alla spicciolata presso parenti, amici e amiche e colleghi, prima universitari e poi magistrati. Il 18 novembre del 1941 nella sua abitazione di Bari, col fratello Raffaele e con gli amici, costituì clandestinamente l’associazione liberal-socialista Giovane Europa di cui divenne la guida. Il programma del gruppo pone al primo punto la realizzazione della Repubblica. Molti scritti di propaganda antifascista, alcuni composti direttamente da Cifarelli, vengono diffusi tra amici e conoscenti, nel Mezzogiorno, come Il decalogo del partito liberal-socialista, Liberalismo e l’ora presente, Lettera ai francesi redatta da lui e inviata clandestinamente in Francia per avviare rapporti di collaborazione nella lotta contro Cifarelli durante un comizio del Pri (1952) - ASSR - Fondo M. Cifarelli, doc. post 1950, serie 3 “opere e Giorni” la dittatura e per la costruzione della futura Europa unita. C’è già il nucleo di quel pensiero federalista, l’aspirazione a un’Europa unita che costituì uno degli scopi principali della sua azione politica, accanto all’impegno meridionalista. Erano scritti ispirati agli ideali di Giustizia e Libertà e alla critica a ogni tipo di dittatura, compresa quella comunista: solo ora gli ex-comunisti ne riconoscono la validità. Agli inizi del giugno ‘43 Cifarelli è arrestato, nell’ambito di un’operazione di polizia, insieme a Guido Calogero, Guido De Ruggiero e Tommaso Fiore. Liberato il 28 luglio, subito dopo la caduta del fascismo, nell’agosto del ‘43 riprende il suo posto nella magistratura, senza abbandonare, anzi intensificando il suo impegno politico. Nel suo libro Il regno del Sud Agostino degli Espinosa così descrive le iniziative del gruppo di giovani antifascisti baresi: «Subito dopo l’annunzio dell’armistizio gli uomini del Fronte Nazionale di Azione, centro dell’antifascismo militante, capeggiati da Michele Cifarelli, volevano armare il popolo e sollevando una rivolta popolare procedere alla cattura delle truppe tedesche e si rivolsero al prefetto». Radio Bari in quel periodo diviene uno strumento importante per la propaganda alleata e soprattutto per mantenere i contatti con le formazioni partigiane che andavano nascendo nel centro e nel nord del Paese. A Bari operavano in quei giorni Agostino degli Espinosa, Alba de Cespedes, Diego Calcagno, Antonio Piccone Stella, il corrispondente di guerra Cecil Sprigge, l’azionista Claudio Salmoni, il sottotenente del Genio Giorgio Spini, lo scrittore Antonio Baldini, il comunista Antonio Pesenti. Da Radio Bari Cifarelli conduce la rubrica Parole di un cittadino italiano commentando i fatti politici e presentando la guerra come una guerra di liberazione 13 Memorie dall’occupazione nazista. Il maggiore inglese Greenlees, che era il responsabile del P.W.B. (ufficio di propaganda psicologica che controllava la radio) quando Cifarelli cessò la rubrica gli scrisse: «La migliore propaganda è la verità che, per essere vera, bisogna che sia sentita. E lei sentiva ciò che diceva». La sua attività in quel periodo cruciale è instancabile: sia con articoli sulla stampa azionista, sia nei giornali che fioriscono a Napoli. Il primo numero del quotidiano del Partito d’Azione Italia libera, pubblicato nell’ottobre del 1943, portava un articolo di fondo di Michele Cifarelli intitolato Il dovere supremo che sosteneva la necessità di combattere contro i tedeschi perché si doveva giudicare inammissibile che essi dovessero essere cacciati dall’Italia solo in virtù delle armi alleate. La sua ferma opposizione al governo Badoglio e alla monarchia gli procurano una diffida ufficiale per cui lascia la magistratura, scrivendo nella lettera di dimissioni: «Ho giurato fedeltà allo Stato e non a una persona, sia pure quella del monarca o di una casata. Tutti gli italiani sono cittadini e non sudditi». Tra il ‘43 e il ‘46 fonda il C.L.N. di Bari e il Partito d’Azione, coordina molti altri C.L.N. che vanno sorgendo nelle province meridionali, tiene centinaia di comizi in tutto il Mezzogiorno. Aprendo i lavori del primo congresso dei Comitati di liberazione nazionale, che si svolse nel Teatro Piccinni il 28 e il 29 gennaio del 1944, Cifarelli disse: «Ce lo siamo faticosamente conquistato. Questa nostra affermazione democratica è la prima assemblea dalla quale si può trarre auspicio circa le sorti future della libertà e della democrazia». La posizione solennemente assunta da Benedetto Croce nei confronti del re, che definì il “superstite rappresentante del fascismo” nel suo discorso inaugurale del congresso, è stata fondamentale per l’avvio alla Repubblica e per scongiurare la formazione di una Vandea monarchica nel Mezzogiorno. I lavori si conclusero con un ordine del giorno secondo il quale i presupposti della ricostruzione morale e intellettuale dell’Italia erano l’abdicazione del re, responsabile delle sciagure del Paese, e la necessità di un governo al quale partecipassero tutti i partiti rappresentati al congresso. Nei mesi successivi Cifarelli si dedica sempre più al Partito d’Azione di cui diventa segretario organizzativo. Al congresso di Cosenza del 1944, dove già si profilano i primi gravi dissensi in seno al partito, ascolta il discorso di Ugo La Malfa ed è colpito dalle sue argomentazioni. Da allora, come egli stesso amava ricordare, fu un fedele seguace di La Malfa. In quel periodo promuove anche il Movimento Sindacale Democratico e accetta di andare a dirigere a Napoli l’Ufficio Regionale del Lavoro. A Napoli partecipa alla vita culturale animata da personalità del Partito d’Azione, tra cui emerge Adolfo Omodeo. Intanto nel Partito d’Azione emerge il conflitto tra le sue due anime, quella filo-socialista e quella non classista, conflitto che culminerà nel primo congresso nazionale, nel febbraio del 1946, che sarà anche l’ultimo, e porterà alla scissione del partito, un evento che segnò profondamente la sua vita come quella di tutti i maggiori esponenti, da Parri a La Malfa a Riccardo Lombardi a Emilio Lussu. Convinto della necessità di una formazione laica e democratica, orientata verso sinistra ma rivolta ai ceti medi, Cifarelli entra insieme a La Malfa e Parri nel Partito repubblicano di cui diventa uno dei maggiori esponenti. Indica le linee di una politica meridionalista che vengono considerate il primo nucleo teorico dell’Intervento straordinario, diventa uno degli artefici e promotori della Cassa del Mezzogiorno (1950) di cui è stato prima consigliere d’amministrazione e poi vice Presidente per vari anni. Nel 1951 sposa la figlia del professore di Diritto all’Università di Bari, Saverio Nisio, e nel 1952 diventa padre di due gemelli, Giulio e Luisa. Cetta, oltre che moglie affettuosa e premurosa, è stata sua preziosa collaboratrice, e ne ha condiviso le idee. Negli anni ‘50 diventano sempre più stretti i rapporti con Francesco Compagna, direttore di Nord e Sud, non solo sui temi meridionalisti: nell’intento di creare un’Europa forte Cifarelli a MIlano (dicembre 1992) - ASSR - Fondo M. Cifarelli, doc. postr 1950, UA 352 e sovranazionale si battè per la Comunità Europea di Difesa(CED). Le sue posizioni nel Pri avevano coinciso con quelle di Pacciardi con cui costituisce una corrente di minoranza. Ma quando Pacciardi abbandona il partito Cifarelli non lo segue e gli scrive: «Ho sempre dichiarato che non sarei uscito dal Pri, né avrei fatto qualcosa per rompere la compagine. Distruggere un partito, che è piccolo, per farne due piccolissimi, è assurdo». Più volte eletto al Senato a partire dal 1968, è stato poi deputato nella nona legislatura, nel 1983. Oltre l’impegno politico la grande passione civile di Cifarelli era la difesa dell’Ambiente e del patrimonio dei Beni culturali. Tra i fondatori d’Italia nostra, di cui per molti anni è stato il vicepresidente, si è battuto per strappare l’Appia antica alla speculazione edilizia. Ci piace riferire questo riconoscimento di Antonio Cederna: «Cifarelli è stato uno dei pochi uomini politici che da sempre si è battuto per i Beni culturali, ambientali e naturali, uno dei pochi, un esemplare raro nella quasi generale indifferenza dimostrata per molto tempo da parlamentari e pubblici amministratori». È come un ritorno alla giovinezza il suo ultimo impegno come Presidente dell’Associazione per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia. La sua concezione della democrazia e la sua formazione spirituale ne fanno un erede della grande tradizione dell’illuminismo meridionale. I luoghi della storia 14 segue da pag. 1 Como. Il Monumento alla Resistenza europea di Maura Sala e Valter Merazzi (Centro di ricerca Schiavi di Hitler, Como) ebrei dalla deportazione. La centralità cerimoniale e l’attenzione istituzionale si esauriscono con la ricorrenza della Liberazione. Nel resto dell’anno questi segni della dignità, del coraggio e della sofferenza sono abbandonati al loro destino di arredo urbano, immersi nel verde dei giardini a lago, frequentati nella bella stagione da famiglie con bambini e frotte di turisti, che gettano loro sguardi frettolosi. Il monumento alla Resistenza Europea, venne realizzato dal Comune di Como e inaugurato il 28 maggio 1983 dal presidente Sandro Pertini. Ai fini della sua realizzazione determinante fu la figura di Giusto Perretta, fondatore dell’Istituto Comasco per la Storia del Movimento di Liberazione (oggi Istituto di Storia Contemporanea Pier Amato Perretta), che trovò l’attenzione convinta del sindaco Antonio Spallino (figlio di Lorenzo, rappresentante della Dc nel Cln) e della sua amministrazione. Giusto Ultimo Perretta (Napoli 1919 - Como 2008) è stato il terzo figlio di Pier Amato Perretta (Laurenzana 1885 – Milano 1944), che non si sottomise al fascismo, fu costretto a dimettersi dalla magistratura, subì due arresti e la distruzione dello studio da parte degli squadristi. Pier Amato fu inviato al confino, la sua pena venne poi mutata in ammonizione. Elemento di spicco nei residui circoli antifascisti comaschi, arringò la folla in piazza del Duomo l’8 settembre 1943, chiamando i cittadini alla difesa nazionale, per poi partecipare al movimento di liberazione con compiti dirigenti ed essere infine sorpreso dalle milizie fasciste a Milano il 15 novembre 1944, colpito a morte alla schiena nel tentativo di fuga. La guerra non risparmiò i figli: Fortunato cadde nel 1941 sul fronte greco-albanese, Lucio dopo l’8 settembre fu deportato e internato in Germania, da dove tornò minato nello spirito. Lo stesso Giusto, catturato in Africa alla fine del 1940, fu imprigionato degli inglesi in India fino al tardo 1946. La tragedia familiare fece da leva al Una delle prospettive del Monumento alla Resistenza Europea pervicace bisogno di Giusto di testimoniare e dare un senso alla memoria: per quanti non avevano compreso o non volevano capire, per quanti venivano dopo. Fondò l’Istituto nel 1977 nella convinzione che la storia si costruisce giorno per giorno e che disperderla sia un atto contro la consapevolezza presente e futura dei cittadini e soprattutto dei giovani. Molti tra i protagonisti della Resistenza erano viventi e intorno all’Istituto si era raccolta un’area di società civile che faceva riferimento all’intero quadro politico del vecchio Cln. La memoria era impressa nelle menti e nei cuori e il lavoro certosino era quello di recuperare avvenimenti e storie dei tanti sconosciuti e di quanti avevano pagato con la vita, la liberazione dal fascismo. Fu in questo contesto che nacque l’idea del Monumento e si raccolse la forza necessaria a renderla concreta. In una città che solo tre anni prima aveva chiuso le sue ultime fabbriche I luoghi della storia tessili e si avviava al terziario a spron battuto, dove le classi dirigenti si indirizzavano alla finanza e alla rendita, la discussione pubblica scontò l’ostilità di reazionari e conservatori. Spese e opportunità gli argomenti, ma al fondo un sordo silenzio. Più vivaci furono i radicali, che si opposero affiancando alle critiche sui costi la riflessione sulla monumentalizzazione della memoria, tema di spessore che animò il dibattito pubblico, ma non fermò il progetto, che intendeva pienamente recuperare il senso di una città, “Como porta d’Europa”, così segnata da storie di confine. Il Monumento alla Resistenza Europea venne realizzato dallo scultore Gianni Colombo (1937-1993). Si trattò di una scelta forte, fatta da una commissione di prestigio (Bertelli, Gregotti, Restany, Dorfles, Calvesi) che indicò l’artista milanese d’avanguardia. Nonostante le resistenze e le incertezze cittadine, la scelta fu fatta propria dal sindaco, dopo un concorso a cui parteciparono 34 progetti, scartati da una prima giuria locale. L’opera è composta da più elementi, a cominciare da tre scale convergenti fra loro, con gradini in marmo ad alzata crescente, per richiamare le scalinate che i deportati nei campi di sterminio, con sempre maggior tormento, dovevano percorrere e più in generale rimanda ad un vissuto di sofferenza. Sono da salire possibilmente a occhi chiusi, per meglio cogliere la difficoltà che si prova nel procedere in modo così inconsueto. Tre grezze grandi lastre metalliche, appoggiate di sbieco alla fine delle scale, occupano lo spazio centrale del monumento e riportano, a sbalzo e in lingua originale, frasi estratte delle ultime lettere dei condannati a morte della Resistenza europea. I 18 messaggi carichi di dolore e speranza, di sprone ai compagni e ai posteri, appartengono a cittadini di Austria, Belgio, Bulgaria, Cecoslovacchia, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Italia, Jugoslavia, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Polonia, Romania, Ungheria, Unione Sovietica, e a un giovane ebreo polacco. È un coro di alfabeti, fonemi, calligrafie diverse, un coro di giovani e meno giovani, donne e uomini di tutte le classi sociali, con diverse convinzioni politiche e religiose, che con una 15 Monumento rimanda ad ammonimento (etimo del vocabolo monumento) e a trasmissione della memoria. In questo caso vuole essere anche un messaggio per una comunità con provenienze e lingue sempre più diverse. Capita che, nelle visite guidate agli studenti, ci siano giovani che sanno leggere gli scritti nella loro lingua e questo provoca sempre emozione e attenzione. Margherite Bervoets, insegnante e poetessa belga scrive: “Sono morta per attestare che si può amare follemente la vita e insieme accettare una morte necessaria”. Istvàn Patagi, operaio ventenne di Budapest: “Lo dico anche ora: ne è valsa la pena”. Julius Fucik (Cecoslovacchia) giornalista quarantenne: “Uomini, vi amavo, vegliate!” Per l’Italia è riprodotta una frase di Pier Amato Perretta, che così scrive al figlio Giusto prigioniero a Yol il 10 agosto 1943: “Questa tremenda esperienza avrà giovato a qualcosa? Si impone una rieducazione profonda e costante, altrimenti nemmeno questa lezione servirà”. Centrale è il tema della necessità di opporsi all’oppressione, con la consapevolezza di non dover mai abbassare la guardia. Oltre la semplice speranza le frasi mostrano una direzione, una prospettiva nonostante tutto. È questo un sentimento che percorre l’Europa intera e trova qui la sua monumentalizzazione, forse non così inutile, anche se luogo poco frequentato e con scarsa manutenzione. Senz’altro l’unico monumento alla Resistenza europea in Italia, o almeno così ci risulta. scelta e un sacrificio personale operarono alla costruzione di un mondo libero da dittature, soprusi, guerre, violenze. L’apertura ad un Europa coesa sui valori dell’antifascismo, in grado di sviluppare pensiero e azione, ma soprattutto cuore, è il messaggio profondo. Questo è sconvolgente se misuriamo il provincialismo del dibattito (settantennale a questo punto) sul movimento di liberazione italiano e più ancora la sua percezione pubblica, a fronte di un orizzonte continentale e oltre, in cui collocare non solo e non tanto storiografia, ma prospettive politiche e soprattutto ideali. Siamo convinti che riportare la Resistenza italiana nell’ambito della Resistenza europea ai fascismi sia un valore e uno strumento potente quanto utile, oggi più che mai. Nel percorso di avvicinamento alle lastre metalliche sono collocati dei bassi parallelepipedi in pietra, che riportano (in verità in modo sempre meno leggibili) le frasi riprodotte sulle lastre e poco più avanti una stele racchiusa in una bacheca, contenente pietre provenienti dai campi di sterminio di NatzweilerStruthof, Ravensbrueck, Auschwitz, Dachau, Bergen Belsen, Mauthausen, Theresienstadt, Risiera di San Sabba, Buchenwald, Sachsenhausen, Flossenburg, in ricordo della deportazione razziale e politica e delle sue vittime. In un altro angolo è incastonata in una piccola struttura in ferro una pietra proveniente da Hiroshima. Ultimo degli orrori, con Nagasaki, di una guerra costata oltre 70 milioni di morti, tre quarti dei quali civili. Per una politica di adozione e mantenimento ognuno deve fare la sua parte, le amministrazioni quanto gli istituti, l’Anpi e le associazioni dei reduci quanto i cittadini. È questo un compito a cui siamo chiamati tutti. Da parte nostra, come centro di ricerca Schiavi di Hitler, abbiamo proposto che nell’ambito del monumento ci sia spazio per una lapide per ricordare gli internati militari italiani, catturati dopo l’8 settembre 1943, che pagarono con il lager e il lavoro forzato la loro non adesione ai fascismi. Essi rientrano a pieno titolo nella storia della Resistenza italiana ed europea. 16 Memorie La Resistenza è nata in fabbrica Luigi Tarantini, ex operaio dell’Alfa Romeo, ricorda gli scioperi del marzo 1943 a Milano di Evaldo Violo L uigi Tarantini aveva solo 14 anni quando entrò a lavorare alla Alfa Romeo di Milano, il cosiddetto Portello, nel marzo del 1943. «Ero arrivato a Milano da Barletta, nel 1936, con la famiglia, che era alla ricerca di lavoro e di una vita migliore», racconta. «Non era stato difficile trovare lavoro. Durante la guerra tutti gli uomini validi erano al fronte, nei posti di lavoro c’erano gli anziani, gli invalidi e gli imboscati Oltre alle donne, naturalmente, che facevano anche lavori che nei tempi normali facevano solo gli uomini, come guidare un tram o consegnare la posta nelle case». Appena si presentò alle porte della fabbrica, in via Renato Serra, fu indirizzato all’ufficio del personale, registrato e assunto seduta stante. Gli fecero fare un mese di apprendistato, in cui gli fu insegnato a usare la lima, il trapano e il tornio. Poi un mese di fattorino al piano della direzione: doveva portare comunicazioni e promemoria nei vari uffici e nei vari reparti, così si fece un’idea esauriente della realtà della fabbrica. Poi fu messo in reparto: Sezione Gruppo motori, 8 ore lavorative al giorno per 6 giorni alla settimana, paga oraria Lire 1,03. In fabbrica c’era la mensa: il primo costava Lire 0,65, il secondo Lire 1,25. Per risparmiare e portare qualche soldo in più a casa Luigi prendeva due primi e un po’ d’acqua. «I tempi erano difficili, l’atmosfera pesante, ogni giorno c’erano degli allarmi aerei», prosegue. «Quando si avvicinavano alla città aerei nemici (inglesi o americani ) veniva suonata la sirena che avvertiva del pericolo e tutti dovevano recarsi il più velocemente possibile nei rifugi antiaerei . C’erano già stati pesanti bombardamenti in città, che avevano fatto danni gravissimi alla rete ferroviaria, agli impianti industriali e anche alle abitazioni civili, con innumerevoli morti e feriti. I rifugi all’Alfa Romeo erano nei sotterranei blindati, sotto la fabbrica, e le entrate indicate da alte torri. Poiché il rumore dentro i reparti era assordante e nessuno avrebbe sentito la sirena, un usciere che stava nel piazzale della fabbrica aveva l’incarico di azionare la sirena interna quando sentiva l’allarme aereo». L’atmosfera era triste, ma Luigi ricorda di essere stato accolto bene dai compagni di lavoro più vecchi, che gli spiegavano cosa doveva fare e come doveva comportarsi. Gli spiegarono fin da subito che la fabbrica lavorava per i tedeschi, per l’industria bellica germanica. Loro non facevano alcun prodotto finito, facevano solo componenti di motori, di carri da trasporto e carri armati, che venivano spediti in Germania e lì assemblati e montati. I tedeschi erano molto esigenti: la produzione doveva rispettare i programmi, qualsiasi cosa succedesse. E succedevano ogni giorno interruzioni, a causa degli allarmi aerei o di bombardamenti. A Luigi fu fatto capire dai compagni più anziani che bisognava sfruttare ogni occasione per rallentare la produzione e sabotarla, ma bisognava anche essere molto accorti perché i tedeschi, ma anche i loro compari fascisti, controllavano molto attentamente il comportamento delle maestranze e punivano molto duramente i sabotatori. Luigi si dichiarò subito disponibile a collaborare e gli fu dato l’incarico di nascondere dei manifestini che al momento debito dovevano essere distribuiti di nascosto ai lavoratori. Gli stabilimenti dell’Alfa Romeo dopo i bombardamenti del 1943 (© Alfa Romeo Automobilismo Storico, Centro documentazione Arese, Milano) Memorie «Le condizioni di lavoro erano molto cattive», ricorda, «ma gli operai si lamentavano soprattutto per il cibo scarso e di scadente qualità. Le condizioni di vita erano cattive anche fuori della fabbrica perché mancava tutto e le poche cose che si potevano trovare erano care. Alla mensa si poteva comprare il primo e il secondo, ma non il pane. Il pane, come tutto, era razionato e io compravo il pane con la mia tessera annonaria prima di entrare in fabbrica; la razione era di 200 grammi e mangiavo tre quarti del panino facendo la strada per entrare in fabbrica. A fatica riuscivo a tenere l’ultimo pezzetto per il pasto di mezzogiorno in mensa. Per cui gli operai decisero di organizzare delle fermate di protesta per richiedere migliori condizioni di lavoro, ma soprattutto un po’ più di cibo e di miglior qualità. Arrivavano subito i soldati tedeschi con i mitra spianati e facevano riprendere il lavoro con la forza. Era molto pericoloso organizzare queste fermate di lavoro e interrompere il lavoro, perché lo sciopero era vietato da una legge fascista e per di più si era in guerra, ma tutti erano d’accordo e le fermate venivano puntualmente attuate». Poiché tutta l’attività all’interno della fabbrica era scandita dal suono della sirena, per segnalare l’inizio e la fine del lavoro, anche per segnalare l’inizio di uno sciopero bisognava usare la sirena. Al momento prestabilito, un operaio doveva avvicinarsi, senza farsi vedere, alla sirena e metterla in azione. Sono questi i famosi scioperi all’Alfa Romeo contro i tedeschi. Naturalmente fu pagato un pesante prezzo. Ricorda Luigi quello che successe più volte: «Senza preavviso gli operai vedevano entrare nel reparto un plotone di soldati tedeschi al comando di un ufficiale, si dirigevano sicuri e precisi verso un banco del reparto, l’ufficiale urlava un nome e il malcapitato veniva portato via. E non ritornava più. Era stato individuato come uno degli organizzatori delle fermate». Gli storici della Resistenza hanno indicato questi scioperi all’Alfa Romeo, come in molte altre grandi industrie del Nord, la Fiat, la Breda, la Marelli, la Falck, la Brown Boveri, la Pirelli, come l’inizio della resistenza contro il fascismo e il nazismo, prima ancora del tremendo ed eroico episodio della resistenza dei soldati italiani ai tedeschi a Cefalonia, seguito dall’eccidio di più di 5000 soldati italiani, e della lotta armata alla macchia delle forze organizzate partigiane. Questi scioperi hanno come causa principale motivi puramente economici (bassi salari, ritmi di lavoro oppressivi, scarsità di cibo e impossibilità di approvvigionamento), ma nello stesso tempo hanno anche cause politiche di critica e opposizione al regime fascista, alleato col nazismo, e alla guerra. Gli operai che scioperavano rischiavano la vita e il campo di concentramento; non erano in montagna, alla macchia, non combattevano con le armi in pugno, erano in città in un preciso luogo di lavoro ma resistevano al nazi-fascismo, rallentavano il lavoro, sabotavano la produzione con un eroismo oscuro e silenzioso. Il giovane Luigi Tarantini, che aveva solo 14 anni, era maturato rapidamente a causa delle vicende storiche in cui si era trovato. Il suo temperamento ribelle, il suo senso della giustizia e della rivendicazione sociale si risvegliarono immediatamente, si svilupparono e si consolidarono. Capì subito cosa era giusto fare e da quale Milano. Luigi Tarantini (al microfono) alla celebrazione del 29° anniversario della Liberazione con l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini parte stare, anche se questo comportava dei rischi e dei pericoli gravi. A casa parlava poco di queste cose, ma la sua mamma gli raccomandava sempre di non esporsi e di non mettersi in pericolo, come fa naturalmente ogni mamma. I contrasti con la madre e la disperazione di questa arrivarono al culmine in occasione dell’occupazione dell’Alfa Romeo, ordinata dal C.L.N. ( Comitato di Liberazione Nazionale ) il 22 aprile del 1945, alla vigilia della Liberazione . «Gli operai», ricorda Tarantini, «occuparono la fabbrica per impedire che i tedeschi, prima di fuggire, distruggessero gli impianti, cioè una ricchezza della nazione e la fonte di pane e lavoro per gli operai. L’occupazione avvenne regolarmente, senza spargimento di sangue, perché le forze tedesche si erano ritirate prima ancora dell’ordine del C.L.N. Io occupai la fabbrica assieme ai miei compagni e dormii sul posto di lavoro per 3 notti, con la mamma che si disperava e mi veniva a chiamare». Così la fabbrica fu la prima e l’unica scuola politica di Luigi Tarantini. Fin dai primi giorni di lavoro fu avvicinato da compagni più anziani, che gli dettero le prime nozioni di politica, di dignità e di senso dei propri diritti. Sentì parlare per la prima volta di comunismo e infatti, di lì a poco, Luigi si iscriverà al Partito Comunista Italiano grazie all’opera dottrinaria e all’interessamento del compagno Eugenio Ducchini . C’erano altri compagni in fabbrica, Luigi ricorda Renzo Pecorari e Sandro Fantini e, dopo la Liberazione del 25 Aprile, vide che c’erano molti altri iscritti al Partito comunista, anche quadri importanti, che, però, si erano tenuti, naturalmente, nell’ombra per poter agire più efficacemente e senza essere individuati. Parlando di quei tempi difficili ed eroici Luigi non può fare a meno di ricordare il terribile bombardamento del 20 ottobre 1944: «Quando suonò la sirena dell’allarme e, all’interno della fabbrica, la sirena che indicava l’interruzione del lavoro con la fermata della macchine, tutti gli operai si avviarono verso i rifugi antiaerei, le cui entrate si trovavano a 200 metri dall’uscita dei reparti. L’Alfa Romeo aveva più di 6000 operai e naturalmente l’operazione richiedeva tempo e poteva provocare qualche ingorgo. Così avvenne anche quella volta, ma gli sfortunati furono i primi usciti. Una bomba cadde vicino a una delle torri d’entrata e investì un folto gruppo di operai. Morirono più di 80 uomini. Io ero un po’ più indietro e mi salvai. Finito il bombardamento 17 18 Memorie aereo i morti furono rimossi, i feriti portati in ospedale e i tedeschi imposero subito la ripresa del lavoro . Poiché molti reparti erano stati colpiti, fecero alzare dei muri che chiudessero i settori disastrati, ripararono i macchinari e la produzione fu ripresa immediatamente. Era stata colpita e distrutta anche la mensa e quindi le condizioni di lavoro peggiorarono ancora. Da quel momento gli operai dovettero mangiare nel piazzale, senza tavoli né sedie, servendosi di gavette militari che tenevano in mano». Passato il lunghissimo e durissimo inverno 1944-1945, che vide altre aspre lotte e il grandioso sciopero generale del marzo 1944, finalmente il 25 aprile 1945 portò la Liberazione dall’oppressione nazi-fascista e la nascita di un nuovo stato italiano che doveva essere repubblicano e antifascista Gli scioperi del 1943-1944 Dopo 3 anni di guerra le condizioni di vita della popolazione erano progressivamente peggiorate, scarseggiavano i generi alimentari e tutti i generi di primi necessità, dalle scarpe ai vestiti, a prodotti come il sale per la cucina. Il malcontento quindi cresceva ogni giorno di più. Nelle grandi città industriali, e non solo in quelle, c’erano stati tremendi bombardamenti che avevano provocato distruzione, morti e ancora peggiori condizioni di vita. La gente si domandava a cosa servisse la guerra nella quale il Paese era coinvolto e dove avrebbe portato. Si spiegano così gli scioperi che si verificarono in quegli anni in Italia, che non hanno corrispondenti in nessun altro paese europeo . Bisogna ricordare che lo sciopero era vietato da una legge fascista del 1926 e inoltre si era in guerra e lo sciopero diventava sabotaggio, quindi un reato ancora più grave. Malgrado questo, nel marzo del 1943, furono proclamati scioperi nelle maggiori fabbriche dell’Italia settentrionale, a partire dalla FIAT di Torino e, a Milano , alla Breda aeronautica, alle acciaierie Falck, alla Pirelli, alla Magneti Marelli e poi all’Alfa Romeo, alle Officine Borletti, alla Brown Boveri, alla Caproni, alla Face Standard, alla Franco Tosi, alla Salmoiraghi. Dopo l’8 settembre 1943 e la fine dell’alleanza con i tedeschi e lo sbarco degli Alleati nel Sud Italia , l’Italia rimane divisa in due. Al Nord viene costituita la Repubblica di Salò, un governo fascista fantoccio dipendente dai tedeschi e inizia la Resistenza partigiana. I tedeschi occupano l’Italia del Nord e scioperare diventa ancora più pericoloso. Ma gli scioperi continuano. Ce ne fu uno durissimo il 13 dicembre 1943 che coinvolse tutte le aziende di Sesto S. Giovanni già elencate sopra: Falck, Breda, Ercole Marelli, Pirelli Sapsa, Magneti Marelli, cui aderirono decine di migliaia di lavoratori. Viene inviato a Milano dall’Alto comando tedesco il generale Zimmerman , con poteri straordinari , per risolvere la situazione . Viene operata una vasta serie di arresti di operai ritenuti responsabili di aver organizzato gli scioperi. Il 20 dicembre ci furono le fucilazioni di patrioti all’Arena di Milano e il 31 dicembre al Poligono di tiro della Cagnola. La lotta dei lavoratori delle grandi fabbriche di Sesto S. Giovanni fu così implacabile e tenace che Sesto fu soprannominata la “ Stalingrado d’Italia “. Effettivamente dopo l’8 settembre inizia l’organizzazione della resistenza partigiana e nelle fabbriche si crea una rete clandestina di coordinatori della lotta sindacale, che diventa anche politica perché rappresenta una resistenza al regime nazi-fascista. Il primo marzo 1944 viene attuato uno sciopero generale nel Nord Italia. Con le grandi fabbriche scendono in sciopero anche i tranvieri di Milano, i tipografi e i giornalisti che fermano l’uscita del “Corriere della Sera” per alcuni giorni. Anche le banche restano chiuse, assieme ad altri uffici pubblici. La reazione dei tedeschi fu durissima. Nel corso del 1944, in tutta l’Italia settentrionale, più di diecimila lavoratori furono arrestati, portati in carcere, spediti nei campi di concentramento in Germania. Alcune centinaia furono fucilati. Al Parco Nord di Milano è stato innalzato un “ Monumento al Deportato “, a ricordo dei patrioti vittime delle persecuzioni dei fascisti e dei nazisti. Gli scioperi del 1943 e 1944 devono essere considerati a pieno titolo parte della lotta di resistenza al nazi-fascismo. (e.v.) Gli stabilimenti dell’Alfa Romeo dopo i bombardamenti del 1943 (© Alfa Romeo Automobilismo Storico, Centro documentazione Arese, Milano) Memorie Dalla Repubblica mazziniana a culla del liberalsocialismo Breve storia della Roma democratica di Nicola Terracciano L ’immagine storico-politica di Roma spesso non è positiva: è considerata una città sonnolenta, dove tutto è consumato, impregnata di quello spirito di realismo disincantato, che le viene dalla straordinaria storia millenaria, dalla presenza del centro direttivo della chiesa cattolica (controversa ancora oggi nella storia d’Italia, specialmente negli aspetti negativi di dogmatismo, di autoritarismo, di antimodernità). Si dice che ha avuto una scarsa partecipazione alla storia nazionale, che è una capitale parassita e burocratica, centro del governo, dell’amministrazione, delle grandi mediazioni, dei più intricati interessi. Ma se si allarga e si allunga lo sguardo storico si scoprono delle sorprendenti verità: è l’unica città che ha un’impronta insieme nazionale e internazionale; ha un’aria cosmopolita, che le viene non solo dalle sue grandi memorie, repubblicane, imperiali e papali, dai flussi secolari di visitatori e di pellegrini, ma dalla residenza di cardinali, ambasciatori, intellettuali, artisti, giornalisti, istituzioni internazionali. A Roma si ha una proiezione nazionale e internazionale, a Roma le idee tendono a definirsi in modo fermo, ampio e si estrinsecano a livello alto. A Roma si esce da una dimensione limitata, provinciale, municipale. Solo a Roma, per esempio, hanno raggiunto i più alti livelli di universalità Michelangelo, Raffaello, Borromini. Lo stesso Cavour, che non è mai stato a Roma e che era legatissimo alla sua Torino, indicò in Roma l’unica città adeguata come capitale d’Italia, proprio per le sue memorie non limitate: per dare un orizzonte, una prospettiva alti alla nuova Italia uno dei più fedeli eredi di Cavour, Quintino Sella, si adoperò per fare di Roma, dopo il 1870, la capitale internazionale della cultura e della scienza moderne. I primi modelli repubblicani di democrazia La capitale ha dato lievito al sentimento e alla prospettiva repubblicani, col mito antico della Roma dell’energia, dell’eroismo, del patriottismo, e con quello risorgimentale mazziniano della Terza Roma, la Roma del Popolo, della Democrazia moderna. Roma ha risposto a Mazzini nel 1849, dandogli la possibilità di sperimentarsi come uomo di governo, con un’esperienza che fu e resta indimenticabile e che fu ammirata da personalità come Tocqueville. E nel solco, nella luce di Mazzini si colloca la stagione più memorabile nella storia contemporanea del Comune di Roma, agli inizi del Novecento, con il grande sindaco ebreo Ernesto Nathan, legato al grande genovese per amicizie familiari, erede testamentario di Mazzini, nonché curatore della più completa pubblicazione degli scritti mazziniani. Ernesto Nathan era cugino di Giuseppe Rosselli, il padre di Carlo e Nello, e, attraverso la linea Nathan-Rosselli, Mazzini e il mazzinianesimo furono memorie costanti, già a livello familiare, nella formazione dei due fratelli. Roma ha memorie intorno al fecondo nesso tra repubblica-giustizia-libertà già a partire dalla Repubblica liberaldemocratica romana del 1798-1799, che abolì il potere temporale del papato e liberò dal ghetto gli ebrei, per arrivare a quella, già citata, del 1849, guidata da Mazzini, che vide combattere insieme Garibaldi e Pisacane: a questa triade si riferì poi l’organizzazione delle forze repubblicane 19 20 Memorie di cui il Partito Sardo d’Azione di Lussu e Bellieni (ancora esistente) è oggi testimone. A Roma fu fondato nel 1922 il Partito socialista unitario di Matteotti e Turati (al quale aderirono anche Carlo Rosselli e Gaetano Salvemini), il primo partito sostanzialmente liberalsocialista nella storia della sinistra italiana, anche nel simbolo (Libertà-Socialismo). A Roma è morto Giacomo Matteotti, martire socialista liberaldemocratico, assassinato dal fascismo di Mussolini per le sue battaglie coraggiose, a viso aperto, nel paese e nel Parlamento, a difesa della legalità, del regime democratico, offesi dallo squadrismo degli anni 1921-1924. A Roma è nata l’Unione nazionale delle forze liberali e democratiche (poi solo Unione democratica) del martire Giovanni Amendola (nel cui ricordo Carlo Rosselli diede il nome al primogenito), nel cui congresso furono fissati i principi fondamentali di una rinnovata tradizione liberaldemocratica, sempre vicina a una ispirazione liberalsocialista (vi aderì Nello Rosselli). La famiglia Rosselli Il Mausoleo Ossario Garibaldino sul Gianicolo dove, guidata da Giuseppe Garibaldi, si svolse l’ultima strenua difesa della Repubblica Romana proclamata il 9 febbraio dello stesso anno. Il mausoleo accoglie i caduti nelle battaglie per Roma capitale dal 1849 al 1870 e democratiche, che prese il nome di Partito d’Azione, nel decennio di preparazione dell’Unità. A Roma riposano Goffredo Mameli e Anita Garibaldi e i difensori della Repubblica liberaldemocratica romana del 1849. Un laboratorio aperto A Roma, dopo la caduta del potere temporale della Chiesa nel 1870, hanno operato fino alla morte protagonisti politici della Sinistra estrema, tra i quali Agostino Bertani e Felice Cavallotti. A Roma è stato scritto nel 1890 il «Patto» (steso in gran parte da Cavallotti), uno dei momenti più alti della tradizione democratica-radicale, vera erede del Partito d’Azione risorgimentale, già consonante con istanze quasi liberalsocialiste, dal punto di vista programmatico ed organizzativo. Francesco Saverio Merlino ha pubblicato a Roma nel 1899 la Rivista critica del socialismo, una delle prime voci che argomenta un nuovo socialismo, libertario e liberale, capace di uscire dalle tragiche secche del dogmatismo e del marxismo. Anche a Roma ha operato l’animazione democratica e sostanzialmente liberalsocialista del grande, indimenticabile Gaetano Salvemini, che nella sua rivista l’Unità affrontava i temi della partecipazione democratica, del Mezzoggiorno, della lotta alla corruzione. A Roma il movimento combattentistico del primo dopoguerra ha cercato un suo sbocco modernamente politico in senso autonomistico, Di questa città i più antichi abitanti sono i membri della comunità ebraica, insediati da millenni nell’area del ghetto. Tra di essi si ritrovano i Rosselli, come emerge da fonti demografiche ottocentesche, recentemente esplorate. Anche quando si trasferirono a Livorno, attratti dalle opportunità della neonata città franca, mantennero la cittadinanza romana e legami costanti con la città natale. Nella storia rosselliana, di antenati e di eredi, fino a oggi, costante è stato il legame con Roma. La mamma e il papà di Carlo e Nello, Amelia e Giuseppe, sono sepolti a Roma. Anche il ramo materno della famiglia Rosselli, quello dei Pincherle, di origini veneziane, ha trovato solo in Roma l’uscita da una dimensione cittadina, pur grande e straordinaria, come quella di Venezia. Gabriele, Amelia, Carlo Pincherle furono attratti dopo l’Unità da Roma, dove le loro vite si elevarono alla cultura nazionale: il primo divenne alto funzionario e senatore, Carlo fu architetto (sarà il padre di Alberto Moravia), Amelia maturò la sua formazione intellettuale e sentimentale e a Roma incontrò Giuseppe Rosselli. E a Roma nacquero Carlo, il 19 novembre 1899, e Nello, il 29 novembre 1900, in via delle Convertite 21, in quel palazzo Marignoli, che si trova di fronte a Palazzo Chigi, e si affaccia su via del Corso, nel cuore storico quindi di Roma: in ricordo dei due straordinari fratelli fu apposta nel 1999, in occasione del centenario della nascita di Carlo, una lapide, su impulso soprattutto di Bruno Zevi e del sottoscritto Nicola Terracciano, in collaborazione con il Comune di Roma e le associazioni gielliste e liberalsocialiste. L’annebbiamento della vera, memorabile, modernissima memoria rosselliana ha portato a deformazioni, quali la loro origine fiorentina, fino a far nascere Nello a Firenze (vedi l’Enciclopedia Italiana Treccani). Firenze ha grandi memorie rosselliane, che mai devono essere dimenticate, e accoglie degnamente e giustamente nel cimitero di Trespiano le tombe di Carlo e Nello (oltre quelle, vicine, di Salvemini Ernesto Rossi, Nello Traquandi), traslate da Parigi nel 1951. Firenze ha esercitato ed esercita una preziosa funzione di memoria e Memorie di divulgazione rosselliane, con l’azione specialmente della Fondazione Circolo Fratelli Rosselli (con la relativa preziosa rivista), presieduta da Valdo Spini. Ma le nodali aperture intellettuali avvengono sempre nel contatto costante con Roma: questo vale anche per la stessa esperienza storiografica di Nello, che, pur nel legame fondamentale con la personalità di Salvemini, matura la sua formazione scientifica a Roma presso la scuola storica fondata da Volpe nel 1924 e battezza quella Rivista storica europea che resta uno dei suoi lasciti intellettuali originali, aperti al futuro. I tanti volti del liberalsocialismo Se il socialismo italiano è soprattutto centro-settentrionale, anche perché la classe operaia e bracciantile, più diffusa e organizRoma, Palazzo Marignoli, dove nacquero Carlo e Nello Rosselli zata, permetteva radicamenti stabili e permanenti, col rischio di chiusure in una scolastica strettamente culturale, fino agli sparsi, ma sempre vigili ideologica (prima marxista, poi anche leninista), Roma testimoni dell’oggi. A Roma sono vissuti fino alla morte Ferruccio Parri e mantiene un ruolo di elaborazione aperta. Nella capitale lievitò in rivoli sotterranei il Cencio Baldazzi, Ugo La Malfa ed Ernesto Rossi, Ignapensiero di Carlo Rosselli, del suo socialismo liberale, zio Silone e Sandro Pertini, Vittorio Foa, Luciano Bolis si formò Guido Calogero, il teorico e militante del libe- e Leone Bortone, Aldo Garosci, Aldo Visalberghi, Bruno ralsocialismo, che proprio a Roma era nato nel 1904. Zevi, con uno sforzo eroico riformatore civile e politico in Roma è stata una degli epicentri della nascita del Partito direzione liberaldemocratica e liberalsocialista e di lotta d’Azione - Giustizia e Libertà nel 1942, presso lo studio per il dovere della memoria storica. In quella tensione ha dell’avvocato Comandini. Roma ha conosciuto il martirio operato il nostro caro Presidente della repubblica, Carlo dei caduti della Resistenza, da Regina Coeli (dove morì Azeglio Ciampi, allievo di Guido Calogero e così legato Leone Ginzburg) fino alle Fosse Ardeatine (e si ricorda agli ideali di Giustizia e Libertà e del Partito d’Azione, e Pilo Albertelli). A Roma sono nati altri noti e meno noti continuano a testimoniare con fedeltà ideale profonda altri protagonisti della vicenda giellista e azionista (alcuni esponenti, ora più noti come Vittorio Gabrieli e Guido vicinissimi a Carlo Rosselli a Parigi) come Franco Albertelli, ora meno noti, ma che si riferiscono nel loro Venturi, Alberto Tarchiani, Alberto Cianca, Gioac- vivere e nel loro agire quotidianamente a quella straordichino Dolci, Manlio Rossi Doria, Altiero Spinelli, naria, modernissima, aperta al futuro, tradizione civile, politica, culturale. Fernando Schiavetti. Roma è stata l’epicentro organizzativo e politico della nascita della Repubblica e del radicamento, difficile, tormentato dei valori liberali, democratici, socialisti, dopo i 20 anni della dittatura, dopo la immane e spaventosa guerra, dopo la guerra civile, con l’attività del Partito d’Azione, delle correnti eterodosse e più aperte al futuro del socialismo democratico, del repubblicanesimo, del liberalismo di sinistra, che hanno avuto alti momenti con la ripresa del Partito Socialista Unitario nel 1950, con Unità Popolare del 1953, con diversi momenti del Partito Radicale rinnovato, insieme all’esperienza de Il Mondo sul piano più Pilo Albertelli, Leone Ginzburg, Emilio Lussu 21 22 Noi DA VERONA L’Istituto veronese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, l’ANPI, l’ANPPIA e l’ANED hanno organizzato alcune iniziative di cui di seguito diamo conto. 12 gennaio 2013, per celebrare la Giornata della memoria. Un giusto fra gli uomini: Giorgio Perlasca. Conferenza di Franco Perlasca, Presidente della Fondazione Giorgio Perlasca. Nel corso dell’incontro è stato proiettato un filmato a ricordo di Giorgio Perlasca. Ha introdotto Roberto Bonente. Giorgio Perlasca (Como 1910-Padova 1992) si era trovato nel 1944 a Budapest occupata dai tedeschi. Spacciandosi per un diplomatico spagnolo riuscì a salvare migliaia di ebrei destinati alla deportazione. Rimase pressoché sconosciuto fino a pochi anni dalla morte quando venne pubblicato il libro di Enrico Deaglio La banalità del bene. Storia di Giorgio Perlasca. Lo Stato d’Israele lo ha dichiarato «giusto delle nazioni». Nel 2011 è stato inaugurato un bosco di oltre 10.000 alberi nella foresta di Ahilud, in Israele, che porta il nome di Giorgio Perlasca e nel museo dello Yad Vashem a Gerusalemme è stato piantato un albero con il suo nome. 19 gennaio 2013, per celebrare la Giornata della Memoria. Mischa Seifert il boia del lager di Bolzano. Una conferenza di Bartolomeo Costantini, già Procuratore capo al Tribunale Militare di Verona. Nel corso dell’incontro è stato proiettato proiettato un filmato che ricostruisce i vari momenti che portarono alla cattura ed all’estradizione in Italia di uno dei più efferati carcerieri del campo di transito di Bolzano. Ha introdotto Olinto Domenichini. 26 gennaio 2013, per celebrare la Giornata della Memoria. Proiezione del dvd curato da Roberto Zoppi su progetto e Verona. Franco Perlasca, presidente dell’Associazione dedicata a Giorgio Perlasca consulenza storica di Carlo Saletti per la regia di Enzo Garlato dal titolo «L’infinita mole di dolore». Ha introdotto Roberto Buttura. Il dvd si compone di quattro parti: Il mondo di ieri, intervista a Patrick Desbois, La tomba nell’acqua intervista a Lucio Alberto Fincato, Campi d’Italia, intervista a Costantino Di Sante e Lo spino del filo spinato, conversazione tra Pino Castagna e Dario Basevi. Sono intervenuti Dario Basevi, Carlo Saletti e Roberto Zoppi 2 febbraio 2013. Le stagioni di Mario e le stagioni di Giulio. Ritirata di Russia e fine della guerra nelle esperienze contrapposte di Mario Rigoni Stern e Giulio Bedeschi. Una Conferenza di Emilio Franzina con l’introduzione di Roberto Bonente 9 febbraio 2013, Giorno del Ricordo. Le diverse tragedie del confine orientale, una conferenza di Costantino Di Sante introdotta Carlo Saletti. Il confine orientale ha sempre costituito una zona di frizione e di scontro, una zona sovente contestata e contesa. Dopo la fine della Grande Guerra e la sistemazione postbellica del territorio sulle ceneri dell’impero austro-ungarico (con la clamorosa protesta dell’occupazione di Fiume), il confine orientale vide l’affermarsi di una aggressiva politica fascista, la durissima e violenta contesa con la Jugoslavia, la spartizione del territorio sancita dal trattato di pace del 1947. Gli avvenimenti che accaddero in questo lembo di suolo italiano durante la seconda guerra mondiale (occupazione italiana di territori jugoslavi, deportazione di cittadini sloveni, Risiera di San Sabba, uccisione di tanti italiani gettati nelle foibe mentre altri vennero deportati in campi di raccolta in Slovenia e Croazia, esodo delle popolazioni istriane e dalmate) hanno lasciato ferite non ancora rimarginate nella storia del nostro paese. 16 febbraio 2013. “Angelo mio…” L’odissea dei soldati veronesi sul fronte russo attraverso i documenti e le testimonianze (1941-1943). Una conferenza di Silvano Lugoboni introdotta da Olinto Domenichini SOTTOSCRIZIONI Eolo Passalacqua (Vi): 150,00 Bruno Bevilacqua (Mi): 15,00 Mirella Bertolino (Avigliana) in memoria del padre Guglielmo Bertolino: 170,00 Maria Rosa Militano in memoria del marito Pasquale Melara: 60,00 Neviana Dusi (Cesenatico) in ricordo del padre Luigi Dusi e della madre Ada Pagan: 30,00 Verona, Silvano Lugoboni durante la sua conferenza 23 Noi 23 febbraio 2013. In occasione della Giornata del tesseramento Anppia 2013 ha avuto luogo la conferenza Appuntamento nel lager di Bolzano. Vite parallele di Ada Buffulini e CarloVenegon di Dario Venegoni, vicepresidente dell’Aned introdotta da Roberto Bonente. Carlo Venegoni (1902-1983) e Ada Buffulini (1912-1991) si conobbero sulla corriera che li portava nel lager di Bolzano. Carlo, nativo di Legnano (MI), cominciò a lavorare in fabbrica a 12 anni partecipando alla lotta sindacale e politica. Dal 1921 fu tra i principali esponenti del Partito comunista in Lombardia e nel 1924 partecipò al V Congresso dell’Internazionale comunista a Mosca. Per la sua attività antifascista venne condannato a 10 anni di carcere dal Tribunale Speciale e subì ulteriori arresti, condanne e reclusioni. Entrato nella Resistenza venne arrestato nell’agosto del 1944 e inviato nel lager di Bolzano da cui, alla fine di ottobre, riuscì a fuggire per poi trasferirsi a Genova dove operò nelle Sap. Ada, di origine triestina, proveniva da una famiglia benestante e si era laureata in medicina all’Università di Milano. Qui aveva cominciato a frequentare gli ambienti dell’antifascismo milanese. Entrata nel movimento resistenziale fondò e diresse il giornale clandestino socialista “La Compagna”. Arrestata nel luglio 1944 venne detenuta due mesi nel carcere di San Vittore e quindi inviata a Bolzano, dove rimase fino alla liberazione coordinando l’attività del Comitato clandestino dei prigionieri. Ada e Carlo si sposarono nel 1946. DA VERCELLI È improvvisamente mancato il senatore Irmo Sassone, era nato a Quinto Vercelese, nel 1927 e viveva a Vercelli. Bracciante agricolo in origine, poi dirigente politico e sindacale, senatore della Repubblica nella VII e VIII Legislatura (1976–1983). Componente della IX Commissione agricoltura e di una Commissione per la CEE. Ha pubblicato dieci Quaderni Annuali. Le lotte delle mondine e dei braccianti vercellesi: Un secolo della nostra storia; Le raccolte degli interventi in Aula al Senato; le raccolte di poesie: Siamo nati per vivere; La vita è dura; Nuova qualità di vita; 35 ore settimanali; Il futuro è in Europa; La globalizzazione; I saggi: Sulla storia del movimento operaio vercellese e la conquista delle 8 ore di lavoro in risaia; Dalle terre del Malcontento; Sinistra in maggioranza; Coi piedi per terra; Il vercellese tra sviluppo e crisi; L’alba del 2000; Insieme per il lavoro 1° Maggio 1999; Insieme nel XXI Secolo per lo sviluppo sosteniIl senatore Irmo bile e il riequilibrio Sassone del mercato del riso; Il vercellese in movimento; In Europa; Risaia vuota (magazzini pieni); Un progetto di vita per lo sviluppo vercellese; La conquista delle 8 ore. 1909 primo contratto monda; Dal Premio Cattolica al Centenario delle 8 ore; Dalle Terre del Malcontento Alle Aule del Parlamento; Dalla risaia e dal sindacato agli interventi nel Senato; Tutti questi libri e saggi sono stati presentati mese per mese nella sede ARCI e ANPPIA. Il nostro compagno ed amico ha lasciato la moglie Sinalda che gli è sempre stata vicina, e tutti noi, amici e compagni, stentiamo renderci conto di questa perdita così grave. Personalmente lo ricorderò sempre come uno splendido compagno ed amico, che tanto mi ha insegnato. Coordinatore per tanto tempo dell’Anppia, ha lavorato fino all’ultimo per divulgare la Democrazia e l’Antifascismo. Caro Irmo non ti dimenticheremo mai, e che la terra, la tua terra, ti sia leggera. a due compagne, per essere rinchiusa in un istituto per la rieducazione dei minorenni in via della Viola a Bologna. Lì, con l’aiuto di una guardiana antifascista, riuscì a prendere contatto con la Resistenza ed il 5 ottobre 1943, in occasione di un bombardamento sulla città, si diede alla fuga e fu portata a Longara di Calderara di Reno dove conobbe Linceo Graziosi ed altri partigiani. Dopo un tentativo di insediamento partigiano nella zona di Monte San Pietro, scese a Bologna e fu ospitata nella casa della famiglia Masi. Divenne staffetta della 7ª Brigata GAP assumendo il nome di “Lina”. Di questo periodo amava ricordare quando un giorno, affaticata dal trasporto di una borsa contenente una pesante bomba destinata a Ferrara, fu aiutata a salire sul treno, evitando così un improvviso controllo, da un gentile soldato tedesco che le salvò la vita inconsapevole di cosa stava trasportando. Rimase in città fino a metà giugno del 1944 quando dovette lasciare Bologna perché ricercata. Si recò a Modena dove continuò la sua attività nella Brigata Garibaldi “Walter Tabacchi” cambiando il nome di battaglia in “Vera”. Verso la fine dell’anno fu chiamata ad operare al Comando Unico Militare Emilia Romagna (CUMER) di Modena con l’incarico di individuare la dislocazione dei mezzi corazzati e delle postazioni tedesche nonché l’accompagnamento di soldati alleati paracadutati in quella zona e la trasmissione di ordini alle varie brigate. Il 22 aprile 1945 era ancora a Modena Gustavo Salsa DA BOLOGNA Addio, coraggiosa Vinka! Il 26 dicembre scorso è venuta a mancare, all’età di 86 anni, Vinka Kitarovic. Partigiana di origini croate, per il suo ruolo nella Resistenza ottenne il riconoscimento militare di capitano. Nata a Sibenik (Sebenico) nel 1926, nella primavera del 1941 frequentava il liceo quando la sua città, importante porto militare, subì i bombardamenti degli aerei tedeschi. Con lo sbarco dei fascisti italiani cominciarono le violenze nei confronti della popolazione civile e fu imposta la lingua italiana nelle scuole. In questo periodo Vinka decise di iscriversi all’Unione della gioventù comunista (SKO). Nell’ottobre del 1942 fu arrestata dalla polizia e venne deportata in Italia assieme Vinka Kitarovic in bici a Modena nel giugno 1944 quando assunse il nome di battaglia “Vera” aderendo alla Brigata “Walter Tabacchi”. 24 Noi liberata dai partigiani quando entrarono in città gli alleati anglo-americani. Attualmente faceva parte della Presidenza provinciale dell’Anpi di Bologna e del direttivo dell’Anppia. L’estremo saluto ha avuto luogo il 29 dicembre all’obitorio della Certosa, la salma è poi stata trasferita in una sala della chiesa di San Girolamo della Certosa dove, il Presidente dell’Anpi Provinciale William Michelini e la figlia Jadranka l’hanno ricordata. DA VENEZIA Dopo i Testimoni Da quando si è cominciato a parlare della Shoah, sono sempre state prese in considerazione le vicende personali, le testimonianze, ma cosa succederà quando anche l’ultimo dei testimoni sarà scomparso? Questa la riflessione alla base dell’evento svoltosi all’Ateneo Veneto Come ricordare? Una riflessione a partire dal libro di David Bidussa. Dopo l’ultimo testimone a cui sono intervenuti Andreina Lavagetto e Simon Levis Sullam, introdotti da Renato Jona. Il Giorno della Memoria, istituito il 20 luglio 2000 come occasione di riflessione sulla tragedia, denuncia a oggi una crisi: proposta come male assoluto, la Shoah si presenta non come evento storico, ma come dato etico-spirituale, come elemento intangibile e astratto. Se è vero che il contenuto di questa giornata si è definitivamente esaurito è pur vero che una delle ragioni è l’aver voluto per motivi di convenienza focalizzare l’attenzione sulla tragedia specifica degli ebrei, senza pensare che il Giorno della Memoria potesse essere un’occasione di riflessione pubblica non solo sull’antisemitismo, bensì sul razzismo in tutte le sue declinazioni. La memoria di oggi è costruita sull’offerta delle voci testimoniali, che lentamente vanno scomparendo e su una cospicua produzione editoriale e documentaristica. La prima battaglia gnoseologica da fare è quella di riuscire ad indagare gli eventi passati attraverso il mestiere di storico, fatto di scavo nei documenti, di ricostruzione della storia nella forma più dettagliata possibile, tenendo conto però che in definitiva nessun documento fornirà mai una versione totalmente esaustiva dell’argomento. Un’altra criticità del giorno della memoria è che non risulta essere un evento emblematico che spinga a una riflessione Il logo delle manifestazioni per la Giornata della Memoria, sotto l’egida del Comune di Venezia sulle responsabilità italiane, ma piuttosto l’ennesimo paradigma del falso mito che vede il buon italiano contrapposto al terribile tedesco. Nessun passo avanti è stato fatto negli anni affinché venisse riconosciuta la connivenza e il diretto coinvolgimento della società italiana nella campagna discriminatoria successiva all’emanazione delle leggi razziali. Norme, che ricordiamo, furono redatte da giuristi che aderirono volontariamente all’ideologia fascista. Il risultato di un atteggiamento di pacificazione nazionale nel dopoguerra e la scelta di un oblio politically correct che deresponsabilizzasse l’italiano medio, vittima inconsapevole di un regime che non riconosce più come suo, ha portato oggi a quei fenomeni di rielaborazione storica, di semplificazione che permettono, ad esempio, la messa in opera di monumenti dedicati a gerarchi fascisti, atti che sarebbe impensabile in qualsiasi altro paese direttamente coinvolto nel conflitto mondiale. La società tedesca, al contrario di quella italiana, è riuscita a superare il velo di vergogna e raccapriccio. Ha reso palese e manifesto non solo il ricordo delle vittime, ma anche dei carnefici, attuando un’analisi attenta dei fenomeni politici e sociali che hanno portato all’ideologia nazista, senza minimizzare le proprie responsabilità alla luce delle prove documentali e testimoniali che via via negli anni sono state presentate. La fase che ci apprestiamo ad affrontare, definita di postmemoria, non è che un’opportunità: un’occasione di aprire una nuova fase di analisi su come si dovrà da oggi in poi veicolare la memoria, affinché sia la coscienza viva della storia di tutti e non diventi uno squallido rituale di convenienza che coinvolge minoranze estranee alla collettività. Michael Calimani (Venezia) l’antifascista Mensile dell’ANPPIA Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti Direttore Responsabile: Antonella Amendola In Redazione: Luciana Martucci SEDE LEGALE: Corsia Agonale, 10 – 00186 Roma Tel 06 6869415 Fax 06 68806431 www.anppia.it anppia.blogspot.com [email protected] HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO: Antonella Amendola, Massimo Meliconi, Valter Merazzi, Mauro Nenciati, Vincenzo Perrone, Giulietta Rovera, Giovanni Russo, Maura Sala, Fabiana Tacente, Nicola Terracciano, Evaldo Violo TIPOGRAFIA Cierre Grafica srl Roma - Via del Mandrione 103A PROGETTO GRAFICO Marco Egizi www.3industries.org Prezzo a copia: 2 euro Abbonamento annuo: 15,00 euro Sostenitore: da 20,00 euro Ccp n. 36323004 intestato a “l’antifascista” Chiuso in redazione il: 7 Marzo 2013 finito di stampare il: 13 Marzo 2013 Registrazione al Tribunale di Roma n. 3925 del 13.05.1954