l’antifascista
fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini
Periodico degli antifascisti di ieri e di oggi • Anno LX - n° 1, 2, Gennaio-Febbraio 2013
L’Editoriale
È finita la seconda Repubblica
Dalle urne esce lo spettro dell’ingovernabilità
di Giovanni Russo
L’incognita Grillo preoccupa
di Antonella Amendola
Ma come ci può essere democrazia
senza partiti? Lo tsunami di Grillo è
arrivato, complici una crisi economica senza precedenti e una casta riottosa a riformarsi, e ci chiediamo che
faranno i 163 eletti nel Movimento
5 Stelle. Si assumeranno impegni e
responsabilità di fronte al Paese? I 3
milioni di persone che hanno votato
alle primarie del Pd con procedure
acclarate, controllate con atti notarili, sono un’espressione concreta
della democrazia come l’abbiamo
conosciuta fino a oggi. I parlamentari di Grillo furono selezionati con
una consultazione in Rete: 25 mila
click sulle cui procedure di garanzia
poco sappiamo. Come fa una persona
che riceve 79 preferenze (è capitato!)
a ritrovarsi in Parlamento? Che cosa
c’è in quel bacino politico che attraverso la Rete tende alla cosiddetta
democrazia partecipata? Chi prende
le decisioni? Troppe sono le incognite che ci turbano e ci lascia di stucco
la capogruppo del M5S alla Camera,
Roberta Lombardi, quando dichiara: «Prima che degenerasse il fascismo aveva un altissimo senso dello
Stato». Chi insulta, evita la stampa
italiana, punta l’indice contro i sindacati ci preoccupa, anche se è una
casalinga con la faccia perbene che
fino a ieri lottava per l’acqua pubblica. E poi la Costituzione parla chiaro:
tutela i partiti in quanto espressione
della vita democratica. Altra cosa
sono i movimenti con la loro carica
di protesta, magari per motivi sacrosanti. Noi continuiamo a credere che
in Parlamento si va per discutere i
propri argomenti con altri legittimati dal voto popolare.
I
mponendosi alla Camera come primo partito, il Movimento Cinque Stelle ha
portato alla luce come la crisi italiana non sia solo di carattere sociale ed
economico, ma anche politico. Nessuno si aspettava un’affermazione così
clamorosa, perché sono stati sottovalutati l’insofferenza e il malcontento che
affondavano radici ben più profonde di quanto si pensasse. L’intuizione di Grillo
è stata di non limitarsi ad incarnare il portavoce della protesta, ma di riflettere
segue a pagina 2
I luoghi della storia
Como. Il Monumento alla
Resistenza europea
Attualitá
Mark Covell
a pagina 3
Lampedusa
a pagina 5
di Maura Sala e Valter Merazzi
Cultura
(Centro di ricerca Schiavi di Hitler, Como)
Natali e Nomellini
Il monumento alla Resistenza Europea di Como recupera
la sua importanza per la città il 25 Aprile: nonostante il suo
significato e il suo pregio artistico è quasi assente dalle guide
e dai percorsi dei tour operator e più in generale è poco valorizzato e compreso dagli stessi comaschi.
Il monumento è disposto in asse con la diga foranea, sul
lungo Lario Mafalda di Savoia, deceduta a Buchenwald, ricordata con una scultura bronzea realizzata da Massimo Clerici.
Accanto si trova il cippo dedicato a Giorgio Perlasca, uno
dei “giusti”, nato a Como, che a Budapest salvò migliaia di
continua a pagina 14
Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma
a pagina 10
Memorie
Michele Cifarelli
a pagina 12
Luigi Tarantini
a pagina 16
Noi
Addio Vinka
a pagina 23
2
Attualità
come in uno specchio a doppia faccia
una classe politica che aveva perso il
contatto con la realtà sociale.
Per uscire dalla situazione in cui
ci troviamo, occorre riflettere sulla
natura del grillismo. Si pensava di
esorcizzare il fenomeno liquidandolo come antipolitica: un modo per
nascondere anche a se stessi il vero
significato del movimento, nato a
livello locale e allargatosi in un anno
dalla sua formazione all’intera società
I media ai suoi piedi
Se il fine cui tende Beppe Grillo pare
piuttosto misterioso e inquietante,
non c’è dubbio che l’abilità tecnica
che ha impiegato per conquistare il
suo primo traguardo, il clamoroso
successo elettorale, è stata magistrale:
basti pensare a come ha sfruttato il
medium televisivo. Mentre tutti gli
altri concorrenti facevano a gara per
essere presenti nei vari talkshow, lui
non ha mai partecipato a un dibattito.
Lo si vedeva certo in Tv, ma sempre
per pochi istanti, ripreso mentre diceva la battuta fulminante, l’insulto
colorito, o suscitava applausi e risate.
All’immobilità imposta dalle trasmissioni televisive, che non facevano che
riproporre i soliti ospiti contegnosi
intervistati dai soliti giornalisti nei
soliti studi Tv, Grillo ha sempre contrapposto un volto in movimento.
La telecamera, anziché inquadrare
un’immagine fissa, è stata costretta a
inseguirlo mentre si dimenava sui palchi di fortuna, montati in tutta fretta
nelle varie capitali della penisola dove
non faceva ragionamenti pacati a sostegno della propria candidatura, ma
insultava a destra e a manca con fare
esagitato.
Beppe Grillo non ha mai partecipato
a dibattiti, ma nessuno come lui è stato
presente in Tv. Coloro che hanno mandato in onda con ritmo ossessivo il suo
bombardamento di brevissimi slogan
pubblicitari, veri e propri messaggi subliminali, non si sono resi conto dell’enorme servizio che gli rendevano:
contribuivano a segnare l’abissale
differenza fra “solite vecchie facce”,
che tanto ricordavano i personaggi
rappresentati dal museo delle cere di
Madame Toussaud e il dinamismo di
questo comico, prestato alla politica,
assolutamente nuovo. (g.r.)
Tartassati dalle tasse, costretti a fare i conti con la diminuzione del potere
d’acquisto dell’euro e nessuna prospettiva per il futuro, esasperati dai continui
scandali gli italiani avevano cominciato a dare segni di insofferenza sempre
più tangibili: il desiderio di una nuova classe politica si era trasformato in
esigenza ineludibile. La mossa di Pier Luigi Bersani di indire le primarie per
coinvolgere il numero più largo possibile di elettori nell’elezione del candidato premier della sinistra è stata abile, ma ha ottenuto il risultato opposto:
il “nuovo”, rappresentato da Matteo Renzi, è stato sconfitto ed emarginato. È
cominciata così una diminuzione dei consensi verso la sinistra.
Il Presidente della Repubblica era stato indotto a instaurare un governo di
tecnici perché la situazione era tanto grave che l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi era stato costretto a dimettersi. La barca faceva acqua da
tutte le parti e Mario Monti, con l’appoggio di quasi tutte le forze parlamentari, era riuscito a non farla affondare a prezzo di sacrifici durissimi imposti,
però, in pratica solo alla classe media e ai ceti popolari.
A ritirare la fiducia al Governo a un anno dalla scadenza naturale della
legislatura è stata però non la sinistra, rappresentante della parte della popolazione più tartassata, ma il centro destra che, avendo gestito il potere quasi
ininterrottamente negli ultimi vent’anni, era il maggiore responsabile della
situazione fallimentare in cui s’era venuta a trovare l’Italia. Con la sua decisione di “salire in politica”, Mario Monti, le cui ricette, sia pur dolorose,
avevano salvato il Paese dal disastro, ha però indebolito ulteriormente la sinistra, come dimostra il risultato del voto per il governatore della Lombardia: ad
Ambrosoli per essere eletto sono mancati esattamente i voti andati ad Albertini.
Il berlusconismo, definito da Repubblica un “sistema di patacche e di bugie”
ormai al tramonto, era invece tutt’altro che morto. La carta vincente di Berlusconi è stata quella di rassicurare quella parte della popolazione che il “nuovo”
non lo auspicava, ma lo temeva: quella parte che voleva solo risolvere il più
in fretta possibile e con meno sacrifici possibili la propria difficile situazione
finanziaria. La restituzione dell’Imu, definita ad urne chiuse da Giuliano
Ferrara nient’altro che “un ludo cartaceo”, sembrava pertanto la panacea,
senza rischiare salti nel buio.
Il Pd, convinto di ottenere una facile la vittoria elettorale, ha avuto per
queste ragioni risultati inferiori alle aspettative e deve ora trovare alleanze
per governare: manca infatti la possibilità, almeno in apparenza, di creare
una maggioranza parlamentare che esprima un governo capace di restituire
fiducia al Paese e credibilità all’estero, il che è tutt’altro che facile sia per l’atteggiamento di Grillo, il cui movimento è entrato a vele spiegate con il vento in
poppa nel porto parlamentare, sia con il peso di piombo che cerca di mandare
a fondo ogni tentativo di novità: il berlusconismo.
Bersani ha tentato di ottenere l’appoggio del Movimento Cinque Stelle, ma
Grillo pretende la resa incondizionata del Pd, presentandosi come il tribuno del
popolo che si contrappone ai politici da lui definiti traditori della democrazia.
In realtà, pare più un autocrate che un difensore delle libertà democratiche.
Se le cose rimarranno così, anche se si riuscirà a formare un governo, questo
avrà poche probabilità di durare e dovremo ritornare alle urne con grave
rischio per la democrazia. A meno che gli italiani non abbiano una salutare
reazione e si richiamino a quegli ideali che furono all’origine della Repubblica e su cui fondammo la rinascita e la ricostruzione del nostro Paese e delle
nostre istituzioni dopo la seconda guerra mondiale e la caduta del fascismo.
I media hanno inconsapevolmente (!?) amplificato la campagna elettorale di Grillo
3
Attualità
Mark Covell: quando sono morto!
Parla il giornalista inglese andato in coma fuori dalla scuola Diaz a margine del G8 di Genova del 2001
di Vincenzo Perrone
Un polmone perforato, 16 denti
rotti, alcune costole fratturate e 14 ore
di coma. Fu ridotto così Mark Covell,
giornalista inglese di Indymedia,
network di portali indipendenti, dopo
l’assalto da parte delle forze dell’ordine
alla scuola “Armando Diaz” di Genova,
dove dormivano manifestanti e
giornalisti, nella notte tra il 21 e il 22
luglio 2001, al termine di un G8 già
molto insanguinato che costò la vita al
giovane Carlo Giuliani. Lo incontriamo
nella casa romana della sua compagna
Laura.
Di cosa ti occupavi a Genova.?
«Il mio lavoro a Genova si svolgeva
prevalentemente al media center nella
scuola Pascoli; ricevevo messaggi sul
cellulare dai colleghi nelle varie piazze
e poi, fatte le opportune verifiche,
postavo tutto sul sito di Indymedia. Non
sono mai sceso in piazza a manifestare».
Cosa accadde la notte del 21 luglio?
«Quando sono arrivati i poliziotti
ero tra le due scuole, ovvero la Pertini,
usata come dormitorio, e la Pascoli, il
media center. Ho cercato di spiegare
alla polizia che ero un giornalista, ma
la risposta è stata “No tu sei un black
block e i black block noi li uccidiamo”.
A questo punto inizio a subire un
pestaggio a più riprese. I primi a
picchiarmi sono gli uomini comandati
da Vincenzo Canterini, comandante
del VII nucleo di Roma, in diverse parti
del corpo ed alle ginocchia, facendomi
cadere a terra».
«Dopo qualche minuto altri poliziotti,
sempre di quel reparto, mi hanno preso
a calci rompendomi le costole sinistre
e perforandomi un polmone, con una
conseguente emorragia interna. A
questo punto è arrivato un carabiniere,
vice del tenente Luigi Cremonini,
che ha cercato di fermare i poliziotti
trascinandomi più in disparte, ma poi è
andato via».
«Io ero quindi, a terra, mentre gli
uomini di Canterini stavano cercando
di sfondare il cancello di entrata della
Diaz-Pertini, quando si è avvicinato
un poliziotto riconducibile al gruppo
di Carlo Di Sarro, vice capo della
Digos di Genova, che mi ha colpito
con un manganello di ferro ricoperto
di gomma, mentre un altro mi ha dato
un calcio in bocca e così ho perso i sensi.
Il manganello con cui sono stato picchiato
non era in dotazione alle forze dell’ordine
ma è stato acquistato per “l’occasione”.
Dopo essere andato in coma sono stato
lasciato in strada per circa mezz’ora.
C’è anche una conversazione tra Luigi
Cremonini e Francesco Gratteri, direttore
del servizio centrale operativo della
polizia, in cui il carabiniere chiede al
poliziotto se ha chiamato un’ambulanza
per me. Gratteri rassicura Cremonini,
ma in realtà l’ambulanza arriverà perché
chiamata da altre persone. Sulle prime tra
la polizia circola la voce, come si evince da
alcune intercettazioni telefoniche, che io
sia morto. C’è una grande concitazione, i
poliziotti vengono avvertiti di non parlare
di me alla stampa, fino a quando alle 5,30
del mattino la BBC dichiara in diretta
nazionale la mia morte. Notizia che verrà
smentita un’ora dopo».
Gli autori materiali del tuo pestaggio
non sono stati identificati ufficialmente.
C’è stato un muro di omertà sulla tua
vicenda, anche negli anni a seguire?
«Il gip Adriana Petri, che ha archiviato
il mio caso, ha parlato della mancata
collaborazione degli investigatori con la
procura, denunciando una specie di spirito
di corporazione tra le forze dell’ordine,
volto a coprire i propri reati».
Nel corso degli anni hai svolto un
lavoro molto scrupoloso di ricerca video
ed immagini. Come ha influito questo
nel corso delle indagini?
«Ho notato che inizialmente il
reperimento delle immagini e dei video era
molto approssimativo. Così ho deciso io
stesso di cercare delle prove. Ho creato un
primo video con 4 schermi sincronizzati,
la versione finale ne ha ben 6, che ha
impressionato molto il pm Enrico Zucca.
Lui stesso mi ha aperto i loro archivi,
permettendomi di perfezionare il mio
“Supervideo”. Sono riuscito a ultimarlo
nel novembre 2007 per il processo».
Tra le prime prove che la polizia
mostrò per giustificare l’attacco alla
Diaz ci furono due bottiglie molotov
trovate nella scuola. Tu hai cercato di
dimostrare, riuscendoci e scoprendo la
verità, che le molotov furono portate
dagli stessi poliziotti.
«Un video fondamentale che ho scoperto
con le mie ricerche è stato quello del
Mark Covell come è oggi
giornalista Rai Fabio Chiucconi, reperito
soltanto nel 2007, perché la Rai aveva
affermato che la cassetta era stata distrutta,
non divulgando i nomi dei giornalisti
coinvolti. Nel video si vedono i poliziotti
Francesco Gratteri, Giovanni Luperi,
Vincenzo Canterini,Spartaco Mortola,
Gilberto Caldarozzi, Michele Burgio e
Pasquale Troiani davanti alla scuola, con
la busta contenente le molotov».
Diversi funzionari di polizia hanno
ricevuto condanne in cassazione. Si
poteva fare di più?
«Sono contento del verdetto della
cassazione, ma è chiaro che non andranno
in prigione per via dell’indulto».
Ritieni giusto il risarcimento di
350mila che hai ricevuto in sede civile
dal Ministero dell’interno?
«Originariamente il risarcimento era
stabilito in 600mila euro. Non ho potuto
ricevere il risarcimento completo perché
Spartaco Mortola, capo della Digos
di Genova, distrusse i miei referenti
all’ospedale “San Martino” di Genova,
come testimoniato dal personale medico».
4
Attualità
Un asteroide chiamato Levi Montalcini
Nella biografia della scienziata un forte richiamo alle radici dell’antifascismo
di Giulietta Rovera
I
nsignita del Premio Nobel per
la medicina e delle massime
onorificenze in Italia, Francia,
Spagna, Usa, membro della Royal
Society di Londra, 14 lauree honoris
causa, prima donna ammessa alla
Pontificia Accademia delle Scienze,
autrice di un numero sterminato di
opere a carattere scientifico e di
divulgazione nonché senatrice a vita:
potrebbe essere riassunta in queste
poche righe la straordinaria vita
della più longeva vincitrice di un
Nobel, Rita Levi Montalcini. Il 30
dicembre 2012, nel dare notizia della
sua morte, la stampa di tutto il
mondo - dal New York Times all’Economist, da Le Nouvel Observateur a
El Mundo – ha sottolineato il
carisma, la tenacia, la ferrea volontà,
la rara combinazione di intuizione e
passione di questa donna minuta ed
elegante che ha contribuito alla “rinascita della democrazia” in Italia,
“capace di affrontare con eguale serenità le durezze della crudeltà fascista e
la repressione con cui ebbe a che fare
essendo ebrea, i pregiudizi e la discriminazione contro le donne e il semiisolamento e le sfide di chi lavora per
l’innovazione della scienza”.
Era nata a Torino il 22 aprile 1909 in
un’agiata famiglia ebrea. Per il padre,
lo studio non si addice a una fanciulla,
il cui destino deve essere quello di
moglie e di madre: ma Rita non vuole
sposarsi, una decisione che non
rimpiangerà mai, vuole iscriversi all’Università di Medicina e Chirurgia, dove
si laurea nel ‘36 summa cum laude. Il
suo obiettivo è dedicarsi alla ricerca
neurologica, comprendere il ruolo
dei fattori genetici e ambientali nella
differenziazione dei centri nervosi,
sulla scia del lavoro del professor
Victor Hamburger, noto embriologo di
St. Louis. Nel ‘38 l’emanazione delle
leggi razziali, che impediscono ai non
ariani di perseguire carriere accademiche, dovrebbe fermarla, ma Rita
non si arrende. Il pensiero che il duce
possa considerarla “inferiore” la lascia
impassibile: rischiando la prigione e la
morte, continua gli esperimenti, con
aghi da cucito e pinzette da orologiaio,
sugli embrioni dei pulcini nel laboratorio improvvisato in camera da letto.
Nel 1945 può finalmente pubblicare le
sue intuizioni e le sue scoperte su riviste scientifiche internazionali. E un
giorno riceve l’invito da Hamburger di
raggiungerlo alla Washington University di Saint Louis: le offre la cattedra
di docente del corso di Neurobiologia
oltre alla possibilità di continuare le
ricerche sugli embrioni. Il 1952 l’incontro con il biochimico Stanley Cohen
segna l’inizio della fruttuosa collaborazione che nel 1986 li porterà a
vincere il Nobel, grazie alla scoperta
del “fattore di crescita nervoso” (NGF),
una proteina che gioca un ruolo primario nella crescita e differenziazione
delle cellule nervose sensoriali e
simpatiche.
La lunga permanenza negli Stati
Uniti non le impedisce di tornare
di frequente in Italia, dove riveste la carica di Direttrice del Centro
di Ricerche di neurobiologia presso
l’Istituto Superiore di Sanità e del
Laboratorio di Biologia cellulare del
CNR, e diviene membro dell’Accademia Nazionale delle Scienze. Nel 1983
è presidente dell’Associazione Italiana
Sclerosi Multipla, nonché dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana. Il 1°
agosto 2001, “per aver illustrato la
Patria con altissimi meriti nel campo
scientifico e sociale”, il Presidente
della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi
la nomina senatrice a vita. Nonostante resa parzialmente cieca da una
maculopatia degenerativa, pubblica
libri e articoli, tiene conferenze,
prosegue l’attività di ricerca presso
l’Istituto Europeo di Ricerca sul
Cervello (Fondazione EBRI) da lei
fondato nel 2001. Continua cioè a
condurre la vita di sempre: cinque
ore di sonno, un pranzo al giorno
(una zuppa, un’arancio) e un ferreo
orario di lavoro.
Con gli anni, Rita Levi Montalcini
diviene un’icona, prova vivente che
si possono ottenere i più alti onori
insistendo, a volte ad alta voce, altre
silenziosamente, su ciò che si vuole,
senza perdere stile ed eleganza: la
chiamano “Nostra Signora della
scienza”, la “Lady of the Cells”, in
suo onore battezzano “Levi Montalcini” l’asteroide 9722 scoperto
nel 1981. Il giorno in cui compie
cent’anni, durante il party organizzato in Campidoglio, sollevando una
coppa di champagne dichiara che
il suo cervello è in forma migliore
di quando aveva vent’anni. Non lo
mette in dubbio nessuno di coloro
che la conoscono e la frequentano,
ma ironizzare sull’età della più
grande scienziata italiana diviene
un tema fisso per chi vuole demolirne il mito: nel 2001 durante uno
spettacolo Beppe Grillo le dà della
“vecchia puttana”; nel 2007 Francesco Storace si offre di fornirle
un paio di stampelle. Inquietante
5
Attualità
la reazione via Internet sul blog di
quest’ultimo: “Che ci fa al Senato?
Le darei un incarico politico nel
ghetto”. Lei non delega la propria
difesa a nessuno: «Sento il bisogno di rispondere», scrive in una
lettera aperta a La Repubblica, «per
esprimere il più profondo sdegno,
non per gli attacchi personali,
ma perché le loro manifestazioni
riconducono a sistemi totalitari
di triste memoria». Sa di essere
un bersaglio perché rappresenta
tutto ciò che è inviso all’estrema
destra: è ebrea, donna, antifascista.
Non le è perdonato il suo impegno ad ampio raggio, l’appoggio
al Governo Prodi, la lotta a Berlusconi ogniqualvolta questi presenta
provvedimenti contrari alla ricerca,
né che si sia dichiarata favorevole
all’eutanasia attiva, all’ingegneria
genetica, alla libertà della ricerca
(“non si può mettere un lucchetto
al cervello umano”), al Movimento
di Liberazione Femminile per la
regolamentazione dell’aborto e
alle campagne contro le mine antiuomo. «La vita ha valore», non
si stanca di dichiarare, «se non
concentriamo l’attenzione soltanto
su noi stessi, ma anche sul mondo
che ci circonda».
Fino alla fine dei suoi giorni,
la sua guerra al fascismo non ha
conosciuto tregua. «Essere antifascisti oggi», ha detto in più di
un’occasione, «significa mantenere
vivi quei valori morali, quei principi
etici distrutti dal fascismo e che si
stanno perdendo per via dei revisionisti. Antifascisti dovremmo
esserlo tutti. Purtroppo non è
così».
Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa
La lettera che il nuovo Sindaco di Lampedusa
ha inviato all’Italia e all’Europa
Con questa amara denuncia Giusi Nicolini ha già ottenuto un risultato: è stata
segnalata sul sito nazifascista Stormfront
S
ono il nuovo Sindaco delle isole
di Lampedusa e di Linosa. Eletta
a maggio 2012, al 3 di novembre
mi sono stati consegnati già 21 cadaveri di persone annegate mentre tentavano di raggiungere Lampedusa e
questa per me è una cosa insopportabile. Per Lampedusa è un enorme
fardello di dolore. Abbiamo dovuto
chiedere aiuto attraverso la Prefettura
ai Sindaci della provincia per poter
consideri questo tributo di vite umane
un modo per calmierare i flussi, se
non un deterrente. Ma se per queste
persone il viaggio sui barconi è tuttora
l’unica possibilità di sperare, io credo
che la loro morte in mare debba essere
per l’Europa motivo di vergogna e
disonore. In tutta questa tristissima
pagina di storia che stiamo tutti scrivendo, l’unico motivo di orgoglio ce lo
offrono quotidianamente gli uomini
Sepoltura anonima di migranti a Lampedusa (© Marco Delbò)
dare una dignitosa sepoltura alle
ultime 11 salme; il Comune non aveva
più loculi disponibili. Ne faremo altri,
ma rivolgo a tutti una domanda:
quanto deve essere grande il cimitero
della mia isola?
Non riesco a comprendere come
una simile tragedia possa essere
considerata normale, come si possa
rimuovere dalla vita quotidiana l’idea,
per esempio, che 11 persone, tra cui 8
giovanissime donne e due ragazzini
di 11 e 13 anni, possano morire tutti
insieme, come sabato scorso, durante
un viaggio che avrebbe dovuto essere
per loro l’inizio di una nuova vita. Ne
sono stati salvati 76 ma erano in 115,
il numero dei morti è sempre di gran
lunga superiore al numero dei corpi
che il mare restituisce.
Sono indignata dall’assuefazione che
sembra avere contagiato tutti, sono
scandalizzata dal silenzio dell’Europa
che ha appena ricevuto il Nobel della
Pace e che tace di fronte ad una strage
che ha i numeri di una vera e propria
guerra. Sono sempre più convinta che
la politica europea sull’immigrazione
dello Stato italiano che salvano vite
umane a 140 miglia da Lampedusa,
mentre chi era a sole 30 miglia dai
naufraghi, come è successo sabato
scorso, ed avrebbe dovuto accorrere
con le velocissime motovedette che il
nostro precedente governo ha regalato
a Gheddafi, ha invece ignorato la loro
richiesta di aiuto. Quelle motovedette
vengono però efficacemente utilizzate
per sequestrare i nostri pescherecci,
anche quando pescano al di fuori delle
acque territoriali libiche.
Tutti devono sapere che è Lampedusa, con i suoi abitanti, con le forze
preposte al soccorso e all’accoglienza,
che dà dignità di esseri umani a queste
persone, che dà dignità al nostro Paese
e all’Europa intera.
Allora, se questi morti sono soltanto
nostri, allora io voglio ricevere i telegrammi di condoglianze dopo ogni
annegato che mi viene consegnato.
Come se avesse la pelle bianca, come
se fosse un figlio nostro annegato
durante una vacanza”.
Giusi Nicolini
6
Cultura
La mafia come metodo
La storia, i metodi, le stragi, ma anche la crisi del sistema politico repubblicano e la presunta trattativa Stato-mafia.
Tutto questo nel libro di Nicola Tranfaglia
di Mauro Nenciati
L
a mafia come metodo di
Nicola Tranfaglia, edito da
Mondadori Università, è un
libro di storia della mafia, ma non solo.
L’autore, partendo da una settecentesca protomafia siciliana, costituita
da sette segrete come i Beati Paoli, che
configurano il prototipo della mafia
come onorata società, passa poi a fare
la storia della mafia dopo l’Unità
d’Italia .
Nella seconda metà dell’800 e nei
primi due decenni del ‘900 la mafia
cresce nei grandi possedimenti agrari
e nelle aree industriali della Sicilia,
come le zolfatare, con la costituzione
di cosche che utilizzano i metodi
mafiosi della violenza privata, dell’intimidazione, dei ricatti, degli attentati
e degli omicidi.
Tranfaglia arriva, quindi, a uno
snodo cruciale, il fenomeno mafioso
nell’Italia del ventennio fascista,
con il tentativo fallito, da parte della
dittatura, di porre un argine alla criminalità organizzata in Sicilia con metodi
forti. Mussolini inviò il prefetto Mori
(il Prefetto di ferro) per operazioni
repressive e violente fino alla tortura,
con l’inosservanza delle più elementari garanzie di difesa ed il brutale
disprezzo dei diritti fondamentali
degli imputati. Dalla scrupolosa ricostruzione di quel momento particolare
emerge che le campagne repressive si
piegano spesso agli interessi in ballo nelle lotte interne tra le correnti fasciste
dell’isola.
Da qui Tranfaglia analizza la mafia, anzi le mafie, del dopoguerra. Si le
mafie, perché alla mafia siciliana si sono aggiunte in Calabria la ‘ndrangheta,
in Campania la camorra, in Puglia la Sacra corona unita. Nel periodo repubblicano dopo gli anni ‘60 e ‘70 le mafie si espandono da fenomeno territoriale
regionale fino ad interessare l’intero Paese.
Ed è qui l’incontro fra mafia, politica, imprenditoria. L’autore riporta
ed esamina i lavori della Commissione parlamentare antimafia. Istituita nel
‘63, presidente il giurista socialdemocratico Paolo Rossi, e subito sciolta, la
commissione ebbe in successione due presidenti democristiani Pafundi e
Cattanei, mentre le commissioni successive furono presiedute nel 1976 da
Carraro, nel 1993 da Violante.
Il fallimento delle politiche economiche per il Mezzogiorno da parte di
tutti i governi che si sono succeduti alla guida del Paese, spesso con cadenza
stagionale, la crisi del sistema politico repubblicano, il sempre maggiore divario sociale fra Nord e Sud, potenziano le mafie, sicure di poter portare avanti
attività criminali approfittando anche della profonda sfiducia dei cittadini
nello Stato e nelle istituzioni.
Tranfaglia passa poi a esaminare il fenomeno dell’affrancamento della mafia
dai politici negli anni ‘80: la criminalità organizzata fa politica direttamente,
influenzando e incanalando i voti, così da eleggere i propri uomini, infiltrandosi direttamente nello Stato e nelle istituzioni.
È degli anni ‘80 e ‘90 l’idea che la mafia è ormai un fenomeno politico,
sociale, ed economico di tali dimensioni da dover essere affrontato con misure
radicali ad ogni livello, non solo repressivo.
Due capitoli del libro sono dedicati all’azione svolta dai due magistrati
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, le loro sfide, le loro parziali vittorie, il
loro abbandono da parte dello Stato, la loro tragica fine.
Gli interessi della mafia si sono ormai espansi: non solo traffico di stupefacenti, ma controllo degli appalti pubblici, riciclaggio di denaro sporco,
traffico di armi su scala internazionale, smaltimento di rifiuti tossici rappresentano negli ultimi decenni i nuovi e più lucrosi affari criminali.
L’ultimo capitolo riguarda il clamore dell’inchiesta giudiziaria sulla presunta
trattativa Stato-mafia e la polemica tra il Quirinale e la Procura di Palermo.
Su questo particolare aspetto l’autore manifesta tutta la sua preoccupazione.
Si dichiara angosciato per il degrado etico e democratico della nostra società,
per la profonda sfiducia dei cittadini nei partiti, per la mancanza di partecipazione alla vita democratica, per il qualunquismo e il cinismo dilaganti.
La mafia non sarà quindi mai vinta? Lo Stato non sarà mai capace di
attuare i principi della Costituzione repubblicana?
L’autore del saggio non fornisce alcuna risposta diretta, ma avverte: «l’avvenire è sempre di necessità aperto ed ignoto e possiamo dire soltanto che
staremo a vedere quel che succederà».
NICOLA TRANFAGLIA
La mafia come metodo
Mondadori Università, pag. 166, Euro 12,50
7
Cultura
Il bambino che disegnava la guerra
Nelle vignette del piccolo Marcello Cossu gli orrori del nazifascismo a Roma
di Fabiana Tacente
E
mozioni e ricordi di un bambino ai tempi della seconda guerra
mondiale. Questa è l’intensa e originale testimonianza che il professor
Marcello Cossu riesce a renderci attraverso il suo libro L’immagine e
l’immaginario (Lorenzo editore), quasi un diario con 43 disegni realizzati tra
il marzo 1942 ed il marzo 1946.
«Mantenere vivo il ricordo e tramandare la memoria storica ai giovani è
uno dei compiti più importanti di chi ha vissuto eventi e momenti che hanno
segnato il mondo», ricorda Cossu. Quando a evocare un tragico passato sono i
disegni di un bambino di 7 anni la riflessione sugli orrori del secolo breve è
ancora più coinvolgente soprattutto per adolescenti e studenti, come si è capito
lo scorso 25 gennaio, nell’aula magna del liceo Tasso di Roma, intitolata a Pilo
Albertelli, dove si è svolta la presentazione del piccolo, commovente libretto.
Erano presenti l’autore Marcello Cossu, il suo amico d’infanzia Guido Albertelli, altro pezzo di memoria storica, figlio del professor Pilo Albertelli, vittima
delle Fosse Ardeatine, e Giuseppe Pagano, membro dell’associazione Amici del
Tasso.
«L’idea di far conoscere i miei disegni nacque nel 1995 quando li ritrovai in
un cassetto. D’un tratto era come se a contatto con quei fogli impilati, ancora
leggibilissimi, ritrovassi il filo della memoria infantile. Ho rivissuto in una
carrellata di flashback la mia storia di bambino di guerra, con le mie paure, le
mie ansie di fronte a qualcosa di oscuro e minaccioso che terremotava la tranquilla vita familiare».
Durante la presentazione è stato anche proiettato un filmato, realizzato dal
comune di Torino: attraverso fotogrammi d’epoca e un attore bambino ci pare
quasi di seguire il percorso creativo del piccolo disegnatore. Marcello Cossu,
figlio di professori di liceo con idee antifasciste, visse quegli anni in modo
intenso, direttamente coinvolto negli eventi; più volte la sua famiglia ospitò
persone perseguitate dal regime. Il clima che si respirava a Roma e nella casa
di famiglia al quartiere Salario veniva riportato nei vivaci disegni, affollati di
presenze popolari. «Sapevo disegnare», spiega Cossu. «Me lo dicevano tutti e
mi divertiva farlo. Il primo disegno è datato 22 marzo 1942, non avevo ancora
8 anni».
Su alcuni degli avvenimenti il piccolo artista interviene attingendo alla
fantasia: non conoscendo direttamente eventi e fatti capitati nel vasto mondo,
ma avendoli introiettati attraverso gli echi dei giornali, le suggestioni di
tavole pittoriche, li reintepreta nel suo
contesto domestico. Il piccolo a volte
predilige tratti satirici, da vignettista,
a volte le sue composizioni assumono
una valenza più favolistica.
Nel disegno Soldati tedeschi
svaligiano le case a Napoli Cossu
rappresenta i militari nazisti intenti a
svaligiare il salotto di casa sua; nello
schizzo Gerarca Fascista, invece, l’ambiente da lui disegnato è lo studio del
padre, dove, però, tra elementi tipici
del regime, come il fascio littorio e vari
cimeli africani, alla scrivania siede un
gerarca.
Oltre questi schizzi, che uniscono
realtà e immaginazione, ci sono
disegni relativi a episodi vissuti personalmente. «Il disegno che preferisco»,
spiega Cossu, «è il ritratto del Papa Pio
XII, per il senso di pace che infonde
tra scenari di violenza e di guerra.
Lo schizzo nacque dopo un’udienza
privata concessa dal pontefice alla mia
famiglia negli ultimi giorni del luglio
1943. Quello che invece considero il
mio piccolo capolavoro è Una retata,
ricostruzione grafica di un episodio
avvenuto nel mio quartiere, rappresentato con un tocco di neorealismo
nei piccoli dettagli della quotidianità. Nel disegno c’è una scena molto
movimentata, davanti ad un rivenditore di Sali e tabacchi, in cui sono
coinvolti poliziotti che, nel panico
generale, caricano su un camion
alcune persone».
Altro disegno molto intenso è quello
che rappresenta l’attentato di via
Rasella, in cui i partigiani uccisero un
plotone tedesco e le SS, per vendicarsi,
sterminarono 335 italiani, nel tragico
eccidio delle Fosse Ardeatine. Tra
le vittime dell’eccidio ci fu il professor Pilo Albertelli, padre di Guido,
che ha raccontato al pubblico del liceo
Tasso l’immane tragedia che sconvolse
la sua giovane vita. «Mio padre era
un filosofo», ricorda Albertelli. «Si
L’IMMAGINE E L’IMMAGINARIO. Disegni,
emozioni, ricordi di un bambino di tanti anni fa.
Roma 1942-1946 è il titolo della ristampa del bel
volumetto dove Marcello Cossu ha raccolto i suoi
disegni di “bambino di guerra” (a lato quello
intitolato Una retata).
È una cronaca per immagini che ha commosso ed
emozionato storici, giornalisti, studenti e cittadini.
La nuova edizione, apparsa per i tipi della Lorenzo
Editore di Torino, può essere richiesta scrivendo a
[email protected]
8
Cultura
Guido Albertelli, Marcello Cossu e la professoressa Antonietta Corea durante la presentazione del libro
gettò nella lotta al nazifascismo, trasformando se stesso e vivendo quel periodo
come un partigiano esperto. Divenne comandante delle forze armate romane
del Partito d’azione e fu un capo ammirato dai compagni. I Cossu erano amici di
famiglia, noi ragazzi giocavamo insieme. Fu proprio a casa dei Cossu che arrivò
la tragica notizia che mio padre era tra gli uccisi alle Fosse Ardeatine. Rammento
che noi bambini eravamo impegnati in un gioco e che da quel giorno non ci fu più
niente di divertente nella mia vita».
Alla fine dell’incontro il professor Cossu ha concluso con un
interessante episodio: «Seguendo
un programma televisivo di storia
ho visto riportati i disegni di un
bambino francese, Yves Congar, che
durante la prima guerra mondiale
aveva vissuto con la sua famiglia le
vicende belliche e la lunga e pesante
occupazione tedesca della città di
Sedan, nelle Ardenne, dove abitava.
Incuriosito, scrissi al sindaco della
città francese e dopo pochi giorni
ho ricevuto una copia dei disegni di
questo bambino, contenuti in una
raccolta».
Ancora una volta la potenza del
disegno riesce a far rivivere eventi
drammatici con una semplicità
spiazzante. Solo gli occhi di un
bambino possono mettere a nudo,
nella loro crudeltà, certi orrori e
non fa meraviglia che i disegni di
Marcello Cossu siano studiati da
psicoanalisti e specialisti della
psicologia infantile.
Nel suo studio Renato Sasdelli fa luce su una pagina poco nota della Facoltà bolognese
“Ingegneria” in guerra
di Massimo Meliconi
D
al settembre 1943 sino alla
liberazione di Bologna la sede
della Facoltà di Ingegneria
perse il suo ruolo di luogo deputato
all’insegnamento e allo studio, essendo
prima requisita dai Comandi germanici di piazza e di presidio poi adibita a
caserma della Guardia Nazionale
Repubblicana e sede del suo Comando
provinciale. Nell’autunno 1944 vi si
stabilì anche l’Ufficio Politico Investigativo della GNR e nella storia della
Facoltà cominciò un periodo del tutto
sconosciuto sul quale questo lavoro di
Renato Sasdelli fa finalmente luce.
La GNR aveva compiti militari e
anche di polizia, questi ultimi svolti
dall’UPI che si occupava di indagini e
repressione nella lotta contro le formazioni partigiane, oltre che di reati
comuni. L’UPI bolognese utilizzò i
locali della Facoltà per rinchiudere e
interrogare con metodi violenti donne
e uomini della Resistenza, talvolta
mandandoli a morte o uccidendoli
direttamente. Un gruppo di criminali
guidati dal famigerato “colonnello” Angelo Serrantini, si accanì contro i partigiani caduti nelle loro mani.
Sasdelli ha riunito documenti e testimonianze in parte editi e in parte
inediti e ha rintracciato numerosi partigiani detenuti nella Facoltà raccogliendone i ricordi. Non è noto il numero di quanti passarono per le celle create
nella Facoltà, ma ha comunque stilato un elenco di circa settanta nominativi
(tra cui cinque partigiane) riportando, quando disponibili, brani di testimonianze scritte o orali sulla loro esperienza. Diversi gli orientamenti politici
e la condi­zione sociale di questi patrioti: operai e coloni in maggioranza, ma
anche militari e studenti universitari. Da quelle celle alcuni furono inviati
in campo di concentramento o in caserme del nord Italia, altri finirono nelle
carceri bolognesi sotto l’autorità del comando SS da dove in sette, nel marzo
1945, furono prelevati e fucilati presso la stazione del rione di S. Ruffillo. Uno
morì per le torture subite in Facoltà.
L’ultimo inverno di guerra fu durissimo per la popolazione bolognese e le
forze della Resistenza. Dopo lo sbandamento seguito alle battaglie di Porta
Lame e della Bolognina, per il cedimento sotto le torture di alcuni, per il
tradimento di altri, i partigiani ebbero in quei mesi più caduti che in tutto
il precedente 1944. Circa cinquecentomila persone, in gran parte ammassate entro la cerchia delle mura, vissero in balia delle violenze fasciste, in
condizioni igieniche terribili, al freddo e al buio. La clandestina Commissione tecnica del CLN dell’Emilia Romagna (ne fecero parte due docenti della
Facoltà) stimò che ogni abitante disponesse di elettricità equivalente grosso
modo a quella necessaria per alimentare una sola lampadina da 40 watt.
Questa ricerca ha anche il merito di fornire particolari sull’attività della
GNR. Dimenticando il ruolo attivo che la Repubblica sociale e i suoi uomini
9
Cultura
ebbero in quei tragici mesi di
guerra, troppo spesso e a lungo si
sono sottolineati gli aspetti di sottomissione del fascismo al più potente
alleato nazista, identificato con il
“male assoluto” e il solo colpevole
degli episodi violenti e criminosi
durante l’occupazione tedesca. Con
questo tipo di lettura si è costruito un alibi per i fascisti italiani, a
cominciare da Mussolini, presentati come più miti rispetto ai loro
alleati, attribuendo alla Repubblica sociale e ai suoi uomini colpe
inferiori rispetto a quelle degli occupanti nazisti e così contribuendo
al silenzio sui crimini compiuti dai
repubblichini sui partigiani e i civili
italiani.
Il libro racconta alcuni di questi
crimini, riportando letestimonianze
sulle torture, i pestaggi, le violenze
commesse dai fascisti della GNR,
una milizia non di rado presentata come meno connotata ideologicamente e,
di conseguenza, meno feroce delle Brigate nere. Significative le testimonianze
di partigiani consegnati in carcere ai tedeschi dopo le torture subite dai fascisti a Ingegneria: uno lo considerò il passaggio dall’inferno al purgatorio e a un
altro, vedendo la brandina della cella, parve di essere in albergo.
Al pari di tanti altri criminali fascisti, tornarono presto liberi anche quei
componenti dell’Ufficio politico della
GNR bolognese che non avendo fatto
in tempo a ottenere la protezione degli
Alleati furono catturati dai partigiani.
Le condanne a morte o all’ergastolo
ricevute dopo la Liberazione furono
convertite nel giro di un paio di anni in
brevi periodi di detenzione o addirittura cancellate grazie all’applicazione
che la magistratura fece della “amnistia Togliatti”: qualcuno tornò libero
appena un anno dopo la condanna a
morte avuta nel processo di primo
grado.
Questo libro è attuale anche per
lo scandaloso rifiuto di vari governi
italiani di recepire la Convenzione
internazionale contro la tortura:
ancora nel 2010 il rappresentante del
governo berlusconiano ha votato alle
Nazioni Unite contro l’introduzione
del reato di tortura nel nostro codice
penale. Nella sentenza di condanna
dei poliziotti colpevoli nel 2001 delle
violenze alla scuola Diaz la magistratura ha sottolineato l’impossibilità di
applicare tale reato.
Negare l’olocausto è una menzogna
«Il negazionismo è un piccolo universo autoreferenziale, per alcuni aspetti quasi un
genere letterario a sé, che non viene scalfito dalla ragione poiché ha una sua ragione
che riposa sulla negazione»: soprattutto è un fenomeno carsico, perché a intervalli più
o meno regolari, si ripresenta con inquietante costanza negando l’evidenza dello sterminio degli ebrei e, con esso, delle condotte criminali assunte dalla Germania nazista.
La «totalità della menzogna non sta nelle singole affermazioni ma nel loro utilizzo in
sequenza, all’interno di un universo di significati che è menzognero poiché perviene
a negare la realtà dei fatti. Il negazionismo, sul piano dei concetti, non è propriamente un’ideologia compiuta così come, sul versante di coloro che lo professano e lo
condividono, non costituisce una setta, anche se molte delle sue manifestazioni e dei
comportamenti di coloro che si riconoscono in esso farebbero pensare altrimenti. Si
tratta piuttosto di un atteggiamento mentale che si traduce in un modo di essere nei
confronti del passato. Al giorno d’oggi, si presenta come il prodotto della stratificazione
e dell’interazione di tre elementi: il neofascismo, il radicalismo di alcuni piccoli gruppi
della sinistra più estrema e il viscerale antisionismo militante delle frange islamiste».
Claudio Vercelli ricostruisce storicamente il fenomeno negazionista, ne descrive i protagonisti e gli ideologi e racconta la mappa concettuale che dalla fine della guerra a oggi
ne ha segnato l’evoluzione.
Claudio Vercelli è ricercatore di Storia contemporanea presso l’Istituto di studi storici Gaetano Salvemini di Torino, dove coordina il progetto didattico pluriennale “Usi
della storia, usi della memoria”. È coautore del manuale di storia Un mondo al plurale (a
cura di Valerio Castronovo, La Nuova Italia 2009) e autore di Tanti olocausti. La deportazione e l’internamento nei campi nazisti (La Giuntina 2005); Israele: storia dello Stato.
Dal sogno alla realtà (1881-2007) (La Giuntina 2007-2008); Triangoli viola. Le persecuzioni e la deportazione dei testimoni di Geova nei
Lager nazisti (Carocci 2012). Per i tipi della Laterza, Storia del conflitto israelo-palestinese (2010).
Claudio Vercelli, Il negazionismo. Storia di una menzogna
Laterza editore, collana Storia e Società, Bari-Roma 2013, pp. 230 euro 20,00
10
Cultura
Renato e Plinio divisi dalla politica
Perché Livorno ama Renato Natali e snobba Plinio Nomellini
di Mauro Nenciati
N
ella seconda metà dell’800
Livorno fu il laboratorio della
pittura italiana con Giovanni
Fattori, Serafino de Tivoli, Eugenio
Cecconi, protagonisti tra i Macchiaioli, movimento tra i più creativi nella
storia dell’arte. Al caffè Michelangelo
di Firenze, attorno al critico d’arte
Diego Martelli, oltre ai già citati pittori
livornesi, troviamo Niccolò Cannicci,
Silvestro Lega, Telemaco Signorini,
Adriano Cecioni, Raffaele Sernesi,
Eugenio Prati, Giuseppe De Nittis,
Giovanni Boldini, Giuseppe Abbati. Il
termine Macchiaiolo fu utilizzato per
la prima volta nel 1862 in un articolo
apparso sulla Gazzetta del Popolo.
Questa scuola rinnovò la cultura pittorica nazionale e non solo. Infatti, con
le frequenti visite e soggiorni a Parigi,
alcuni componenti del gruppo influenzarono importanti artisti francesi del
periodo: la tecnica macchiaiola sarà
l’incubatrice dell’Impressionismo.
Che cosa inseguono i Macchiaioli? Mettono in primo piano la realtà,
affermano che la rappresentazione
Renato Natali, La serenata
del vero è un contrasto di macchie di
colore e di chiaroscuri. Avversano il
mito, la retorica, le false celebrazioni,
sono invece alla ricerca della quotidianità, del colpo d’occhio nella natura,
nella semplicità dei paesaggi agresti, nelle campagne assolate, nei laghi,
nel mare. A noi interessa esaminare
la pittura di Renato Natali e quella di
Plinio Nomellini, post Macchiaioli,
veri e propri antagonisti, contrapposti nelle idee, nel linguaggio pittorico,
nella vita quotidiana e sociale.
Renato Natali, nato a Livorno nel
1883, prese a modello la sua città e
i suoi concittadini, cogliendone in
pieno il carattere. Dipinge strade,
piazze, il quartiere della Venezia, i
canali, il porto. Popola le viuzze di
gente minuta, uomini e donne dai
colori forti e sgargianti. Ferma sulla
tela costumi e tradizioni, le cene fuori
dalle osterie, marinai e signorine, stornelli e serenate con chitarre, ribotte,
zuffe e baruffe. Ancora le colorate
feste in maschera al Teatro Goldoni,
fra buffoni e coriandoli, i tramonti sul
mare con il contrasto in cielo fra il
rosso sanguigno ed il blu cobalto
intenso. La sua pittura è di getto,
verace, carica dei colori del mare
mosso dal vento di libeccio: il livornese ci sente quasi l’odore del
salmastro, riconosce come suoi
i colori dei cieli blu che contrastano con i gialli delle lanterne, dei
lampioni accesi nelle strade, dei
lumi a petrolio che illuminano una
finestra.
I livornesi riconoscono in quei
quadri i loro gesti, l’essere un po’
“ sfrontati ”, un po’ “ beceri “ per
il loro parlare ad alta voce, riconoscono la loro “volgarità”, ma anche
la loro generosità popolana, tracotante sì, ma sentimentale, sincera,
spontanea, sanguigna e irruenta.
Livorno era un porto franco con i
suoi abitanti multietnici giunti lì
con spirito d’avventura, pronti ad
affrontare il domani con intraprendenza.
Natali, tuttavia, non aveva, né
i gesti, né il parlare dei popolani
11
Cultura
livornesi, né l’aspetto forte e muscoloso dei risicatori e dei portuali.
Era piccolo, parlava sottovoce, si
muoveva adagio e con garbo, quasi
con attenzione, e invece cantava
nei suoi quadri una città dai sentimenti guasconi e spavaldi, con gli
abitanti sempre sopra le righe, come
sulla scena di un tumultuoso melodramma.
Il 13 febbraio del 1974 incontrai
Renato Natali durante la cerimonia per la consegna al maestro, da
parte del Sindaco di Livorno Bino
Raugi, della Livornina d’Oro,
massima onorificenza del Comune.
Ero insieme a mio padre, amico di
Bino, con cui aveva diviso, nel 1943,
la cella nel carcere di Regina Cieli
a Roma, in quanto entrambi perseguitati politici antifascisti, e in
quella occasione Natali raccontò un
episodio della sua gioventù che mi
sembra utile riferire per poi introdurre il discorso su Plinio Novellini.
Disse Natali: «Ero a Venezia
con Dedo (Amedeo Modigliani)
e passeggiavamo in piazza San
Marco, era tardi ed era piovuto,
avevamo l’ombrello al braccio.
«Incontrammo Plinio Nomellini in compagnia di Puccini,
il musicista. “Ehi, giovanotti,
come vi permettete di bighellonare a quest’ora!” gridò Nomellini
con piglio autoritario, e infatti in
seguito diventò un bel fascistone. Io
pensai che scherzasse, è evidente,
ma Dedo che non lo poteva soffrire
minacciò di spaccargli l’ombrello in
testa. Nomellini rispose per le rime.
Io e Puccini intervenimmo per bloccare la lite. Il fatto era che già allora
Dedo beveva».
Ecco come Renato Natali definì
Plinio Nomellini: un fascistone.
Anche Nomellininacque a Livorno
e fu uno dei massimi esponenti della
pittura macchiaiola e soprattutto
divisionista. A 19 anni frequentò
l’Accademia delle Belle Arte di
Firenze dove fu allievo di Giovanni
Fattori, apprese da Silvestro Lega
e Telemaco Signorini. Frequentò
circoli culturali, si appassionò al
Divisionismo, dopo aver incontrato
un altro pittore livornese Alfredo
Muller, grande impressionista.
Plinio, durante il periodo trascorso
a Genova, assunse impegni sociali e
politici, avvicinandosi agli ambienti
del socialismo rivoluzionario ed
Renato Natali, Il chiosco (particolare)
anarchico per cui, nel 1894, fu coinvolto in un processo contro un gruppo
di anarchici, fu anche arrestato ed
imprigionato. La sua casa di Viareggio divenne ritrovo di intellettuali,
frequentò Grazia Deledda, Gabriele
D’Annunzio,
Giacomo
Puccini.
Dipinse quasi sempre dal vero portandosi dietro colori e cavalletto. Nei
suoi quadri paesaggi campestri con
animali, contadini al lavoro, marine
cariche di luce, ma anche soggetti
garibaldini e grandi quadri a sfondo
allegorico e sociale.
Nomellini fu completamente padrone
della tecnica impressionista e divisionista e divenne il pittore della luce,
con le sue figure e i suoi paesaggi che
emergono frammentati in un tripudio
di colori e di chiaroscuri. Negli anni
Venti aderì al fascismo e i suoi quadri
e manifesti e opere grafiche divennero spesso allegorie del regime. Di
quel periodo sono le grandi tele, Camicie Nere, Marcia su Roma, Incipit
nova aetas. Sfilate fasciste, emblemi
e simboli della dittatura compaiono
nelle sue opere.
Fu per questa adesione al fascismo
che Plinio Nomellini non divenne il
pittore dei livornesi? Certo Livorno
non l’amò, anzi lo ignorò, e forse lo
rinnegò .
Nomellini e la sua pittura furono
estranei al popolo livornese, almeno
fino agli anni Settanta, quando venne
rivalutato. Mi ricordo che mio padre,
per diversi anni vicino al Gruppo dei
Pittori Labronici, non ne parlava
mai e se ne parlava con gli altri pittori
livornesi era sempre con distacco e con
scarsa simpatia. Non gli perdonavano
l’adesione al fascismo.
Plinio Nomellini, Camicie nere
12
Memorie
Quell’avvocato paladino dell’Appia antica
Ricordo di Michele Cifarelli, fondatore del Partito d’Azione a Bari
di Giovanni Russo
A
Michele Cifarelli mi legavano i
comuni ideali e un sentimento
di amicizia. Era uno dei più
attivi esponenti del Partito d’Azione a
Bari, dove si era creato uno dei nuclei
più importanti del movimento liberalsocialista. Aveva 30 anni, ma sembrava
ancora più giovane, e ha conservato,
sempre, questo suo giovanile aspetto,
la rapidità dei gesti, la facilità
dell’eloquio.
Nei primi mesi del 1944, dopo il
Congresso nazionale dei Comitati
di liberazione nazionale, a Bari, egli
venne a Potenza. Non gli fu difficile
convincerci a fondare una sezione del
Partito d’Azione. Io sollevai una sola
obiezione: ero stato avanguardista
e avevo anche i gradi di capo centuria. Ricordo ancora il sorriso con cui
accolse questa mia confessione. Mi
rassicurò dicendomi che mi assolveva
da questo mio passato.
Nato a Bari l’8 agosto 1913 (morì
nel 1998) si laurea in Giurisprudenza.
Appassionato di studi letterari, nel
1938 vince il concorso in Magistratura.
Cifarelli si forma e matura la sua
critica al regime in un gruppo di
giovani aspiranti alla libertà che
s’incontrano, come Tommaso Fiore,
l’autore di Un popolo di formiche, alla
libreria Laterza, dove transitava Croce.
Nel giovane Cifarelli ci sono insieme
la passione politica, l’elaborazione
culturale, ma anche la voglia d’azione,
che così sintetizza in un suo diario del
‘36: «Non si può studiare senza scrivere e lottare».
Già fin dal ‘35 svolgeva propaganda
antifascista alla spicciolata presso
parenti, amici e amiche e colleghi,
prima universitari e poi magistrati. Il
18 novembre del 1941 nella sua abitazione di Bari, col fratello Raffaele e
con gli amici, costituì clandestinamente l’associazione liberal-socialista
Giovane Europa di cui divenne la guida.
Il programma del gruppo pone al
primo punto la realizzazione della
Repubblica. Molti scritti di propaganda antifascista, alcuni composti
direttamente da Cifarelli, vengono
diffusi tra amici e conoscenti, nel
Mezzogiorno, come Il decalogo del
partito
liberal-socialista,
Liberalismo e l’ora presente, Lettera ai francesi
redatta da lui e inviata clandestinamente in Francia per avviare rapporti
di collaborazione nella lotta contro
Cifarelli durante un comizio del Pri (1952) - ASSR - Fondo M. Cifarelli, doc. post 1950, serie 3 “opere e Giorni”
la dittatura e per la costruzione
della futura Europa unita. C’è già il
nucleo di quel pensiero federalista,
l’aspirazione a un’Europa unita che
costituì uno degli scopi principali
della sua azione politica, accanto
all’impegno meridionalista.
Erano scritti ispirati agli ideali
di Giustizia e Libertà e alla critica
a ogni tipo di dittatura, compresa
quella comunista: solo ora gli
ex-comunisti ne riconoscono la validità.
Agli inizi del giugno ‘43 Cifarelli
è arrestato, nell’ambito di un’operazione di polizia, insieme a Guido
Calogero, Guido De Ruggiero
e Tommaso Fiore. Liberato il
28 luglio, subito dopo la caduta
del fascismo, nell’agosto del ‘43
riprende il suo posto nella magistratura, senza abbandonare, anzi
intensificando il suo impegno politico.
Nel suo libro Il regno del Sud
Agostino degli Espinosa così
descrive le iniziative del gruppo di
giovani antifascisti baresi: «Subito
dopo l’annunzio dell’armistizio
gli uomini del Fronte Nazionale di
Azione, centro dell’antifascismo
militante, capeggiati da Michele
Cifarelli, volevano armare il popolo
e sollevando una rivolta popolare
procedere alla cattura delle truppe
tedesche e si rivolsero al prefetto».
Radio Bari in quel periodo
diviene uno strumento importante
per la propaganda alleata e soprattutto per mantenere i contatti con
le formazioni partigiane che andavano nascendo nel centro e nel nord
del Paese.
A Bari operavano in quei giorni
Agostino degli Espinosa, Alba
de Cespedes, Diego Calcagno,
Antonio Piccone Stella, il corrispondente di guerra Cecil Sprigge,
l’azionista Claudio Salmoni, il
sottotenente del Genio Giorgio
Spini, lo scrittore Antonio Baldini,
il comunista Antonio Pesenti.
Da Radio Bari Cifarelli conduce
la rubrica Parole di un cittadino italiano commentando i fatti
politici e presentando la guerra
come una guerra di liberazione
13
Memorie
dall’occupazione nazista.
Il maggiore inglese Greenlees,
che era il responsabile del P.W.B.
(ufficio di propaganda psicologica
che controllava la radio) quando
Cifarelli cessò la rubrica gli scrisse:
«La migliore propaganda è la verità
che, per essere vera, bisogna che sia
sentita. E lei sentiva ciò che diceva».
La sua attività in quel periodo
cruciale è instancabile: sia con articoli sulla stampa azionista, sia nei
giornali che fioriscono a Napoli.
Il primo numero del quotidiano
del Partito d’Azione Italia libera,
pubblicato nell’ottobre del 1943,
portava un articolo di fondo di
Michele Cifarelli intitolato Il dovere
supremo che sosteneva la necessità di combattere contro i tedeschi
perché si doveva giudicare inammissibile che essi dovessero essere
cacciati dall’Italia solo in virtù delle
armi alleate.
La sua ferma opposizione al
governo Badoglio e alla monarchia
gli procurano una diffida ufficiale
per cui lascia la magistratura, scrivendo nella lettera di dimissioni:
«Ho giurato fedeltà allo Stato e
non a una persona, sia pure quella
del monarca o di una casata. Tutti
gli italiani sono cittadini e non
sudditi».
Tra il ‘43 e il ‘46 fonda il C.L.N.
di Bari e il Partito d’Azione, coordina molti altri C.L.N. che vanno
sorgendo nelle province meridionali, tiene centinaia di comizi in
tutto il Mezzogiorno.
Aprendo i lavori del primo
congresso dei Comitati di liberazione nazionale, che si svolse
nel Teatro Piccinni il 28 e il 29
gennaio del 1944, Cifarelli disse:
«Ce lo siamo faticosamente conquistato. Questa nostra affermazione
democratica è la prima assemblea
dalla quale si può trarre auspicio
circa le sorti future della libertà e
della democrazia». La posizione
solennemente assunta da Benedetto Croce nei confronti del re,
che definì il “superstite rappresentante del fascismo” nel suo
discorso inaugurale del congresso,
è stata fondamentale per l’avvio
alla Repubblica e per scongiurare la
formazione di una Vandea monarchica nel Mezzogiorno.
I lavori si conclusero con un
ordine del giorno secondo il quale i
presupposti della ricostruzione morale
e intellettuale dell’Italia erano l’abdicazione del re, responsabile delle
sciagure del Paese, e la necessità di un
governo al quale partecipassero tutti i
partiti rappresentati al congresso.
Nei mesi successivi Cifarelli si dedica
sempre più al Partito d’Azione di cui
diventa segretario organizzativo. Al
congresso di Cosenza del 1944, dove
già si profilano i primi gravi dissensi
in seno al partito, ascolta il discorso
di Ugo La Malfa ed è colpito dalle sue
argomentazioni. Da allora, come egli
stesso amava ricordare, fu un fedele
seguace di La Malfa.
In quel periodo promuove anche
il Movimento Sindacale Democratico e accetta di andare a dirigere a
Napoli l’Ufficio Regionale del Lavoro.
A Napoli partecipa alla vita culturale animata da personalità del Partito
d’Azione, tra cui emerge Adolfo
Omodeo. Intanto nel Partito d’Azione
emerge il conflitto tra le sue due
anime, quella filo-socialista e quella
non classista, conflitto che culminerà nel primo congresso nazionale,
nel febbraio del 1946, che sarà anche
l’ultimo, e porterà alla scissione del
partito, un evento che segnò profondamente la sua vita come quella di tutti
i maggiori esponenti, da Parri a La
Malfa a Riccardo Lombardi a Emilio
Lussu.
Convinto della necessità di una
formazione laica e democratica, orientata verso sinistra ma rivolta ai ceti
medi, Cifarelli entra insieme a La
Malfa e Parri nel Partito repubblicano di cui diventa uno dei maggiori
esponenti. Indica le linee di una politica meridionalista che vengono
considerate il primo nucleo teorico
dell’Intervento straordinario, diventa
uno degli artefici e promotori della
Cassa del Mezzogiorno (1950) di cui
è stato prima consigliere d’amministrazione e poi vice Presidente per vari
anni.
Nel 1951 sposa la figlia del professore di Diritto all’Università di Bari,
Saverio Nisio, e nel 1952 diventa
padre di due gemelli, Giulio e Luisa.
Cetta, oltre che moglie affettuosa e
premurosa, è stata sua preziosa collaboratrice, e ne ha condiviso le idee.
Negli anni ‘50 diventano sempre
più stretti i rapporti con Francesco Compagna, direttore di Nord e
Sud, non solo sui temi meridionalisti:
nell’intento di creare un’Europa forte
Cifarelli a MIlano (dicembre 1992) - ASSR - Fondo
M. Cifarelli, doc. postr 1950, UA 352
e sovranazionale si battè per la Comunità Europea di Difesa(CED).
Le sue posizioni nel Pri avevano
coinciso con quelle di Pacciardi
con cui costituisce una corrente di
minoranza. Ma quando Pacciardi
abbandona il partito Cifarelli non lo
segue e gli scrive: «Ho sempre dichiarato che non sarei uscito dal Pri, né
avrei fatto qualcosa per rompere la
compagine. Distruggere un partito,
che è piccolo, per farne due piccolissimi, è assurdo».
Più volte eletto al Senato a partire
dal 1968, è stato poi deputato nella
nona legislatura, nel 1983.
Oltre l’impegno politico la grande
passione civile di Cifarelli era la difesa
dell’Ambiente e del patrimonio dei
Beni culturali. Tra i fondatori d’Italia nostra, di cui per molti anni è
stato il vicepresidente, si è battuto per
strappare l’Appia antica alla speculazione edilizia. Ci piace riferire questo
riconoscimento di Antonio Cederna:
«Cifarelli è stato uno dei pochi uomini
politici che da sempre si è battuto per
i Beni culturali, ambientali e naturali,
uno dei pochi, un esemplare raro nella
quasi generale indifferenza dimostrata
per molto tempo da parlamentari e
pubblici amministratori».
È come un ritorno alla giovinezza il
suo ultimo impegno come Presidente
dell’Associazione per gli Interessi del
Mezzogiorno d’Italia.
La sua concezione della democrazia e la sua formazione spirituale ne
fanno un erede della grande tradizione
dell’illuminismo meridionale.
I luoghi della storia
14
segue da pag. 1
Como. Il Monumento alla Resistenza europea
di Maura Sala e Valter Merazzi (Centro di ricerca Schiavi di Hitler, Como)
ebrei dalla deportazione. La centralità
cerimoniale e l’attenzione istituzionale si esauriscono con la ricorrenza
della Liberazione. Nel resto dell’anno
questi segni della dignità, del coraggio
e della sofferenza sono abbandonati al
loro destino di arredo urbano, immersi
nel verde dei giardini a lago, frequentati nella bella stagione da famiglie con
bambini e frotte di turisti, che gettano
loro sguardi frettolosi.
Il monumento alla Resistenza
Europea, venne realizzato dal Comune
di Como e inaugurato il 28 maggio
1983 dal presidente Sandro Pertini. Ai
fini della sua realizzazione determinante fu la figura di Giusto Perretta,
fondatore dell’Istituto Comasco per la
Storia del Movimento di Liberazione
(oggi Istituto di Storia Contemporanea
Pier Amato Perretta), che trovò l’attenzione convinta del sindaco Antonio
Spallino (figlio di Lorenzo, rappresentante della Dc nel Cln) e della sua
amministrazione.
Giusto Ultimo Perretta (Napoli 1919
- Como 2008) è stato il terzo figlio di
Pier Amato Perretta (Laurenzana 1885
– Milano 1944), che non si sottomise
al fascismo, fu costretto a dimettersi
dalla magistratura, subì due arresti e la
distruzione dello studio da parte degli
squadristi. Pier Amato fu inviato al
confino, la sua pena venne poi mutata
in ammonizione. Elemento di spicco nei
residui circoli antifascisti comaschi, arringò la folla in piazza del Duomo l’8 settembre 1943, chiamando i cittadini alla
difesa nazionale, per poi partecipare al
movimento di liberazione con compiti
dirigenti ed essere infine sorpreso dalle
milizie fasciste a Milano il 15 novembre
1944, colpito a morte alla schiena nel
tentativo di fuga. La guerra non risparmiò i figli: Fortunato cadde nel 1941 sul
fronte greco-albanese, Lucio dopo l’8
settembre fu deportato e internato in
Germania, da dove tornò minato nello
spirito. Lo stesso Giusto, catturato in
Africa alla fine del 1940, fu imprigionato
degli inglesi in India fino al tardo 1946.
La tragedia familiare fece da leva al
Una delle prospettive del Monumento alla Resistenza Europea
pervicace bisogno di Giusto di testimoniare e dare un senso alla memoria:
per quanti non avevano compreso o
non volevano capire, per quanti venivano dopo.
Fondò l’Istituto nel 1977 nella convinzione che la storia si costruisce
giorno per giorno e che disperderla
sia un atto contro la consapevolezza
presente e futura dei cittadini e
soprattutto dei giovani. Molti tra i
protagonisti della Resistenza erano
viventi e intorno all’Istituto si era
raccolta un’area di società civile che
faceva riferimento all’intero quadro
politico del vecchio Cln. La memoria
era impressa nelle menti e nei cuori e
il lavoro certosino era quello di recuperare avvenimenti e storie dei tanti
sconosciuti e di quanti avevano pagato
con la vita, la liberazione dal fascismo.
Fu in questo contesto che nacque
l’idea del Monumento e si raccolse la
forza necessaria a renderla concreta.
In una città che solo tre anni prima
aveva chiuso le sue ultime fabbriche
I luoghi della storia
tessili e si avviava al terziario a spron
battuto, dove le classi dirigenti si indirizzavano alla finanza e alla rendita, la
discussione pubblica scontò l’ostilità
di reazionari e conservatori. Spese e
opportunità gli argomenti, ma al fondo
un sordo silenzio. Più vivaci furono i
radicali, che si opposero affiancando
alle critiche sui costi la riflessione
sulla monumentalizzazione della
memoria, tema di spessore che animò
il dibattito pubblico, ma non fermò il
progetto, che intendeva pienamente
recuperare il senso di una città, “Como
porta d’Europa”, così segnata da storie
di confine.
Il Monumento alla Resistenza
Europea venne realizzato dallo scultore Gianni Colombo (1937-1993). Si
trattò di una scelta forte, fatta da una
commissione di prestigio (Bertelli,
Gregotti, Restany, Dorfles, Calvesi)
che indicò l’artista milanese d’avanguardia. Nonostante le resistenze e le
incertezze cittadine, la scelta fu fatta
propria dal sindaco, dopo un concorso
a cui parteciparono 34 progetti, scartati da una prima giuria locale.
L’opera è composta da più elementi,
a cominciare da tre scale convergenti
fra loro, con gradini in marmo ad alzata crescente, per richiamare le scalinate che i deportati nei campi di sterminio, con sempre maggior tormento,
dovevano percorrere e più in generale
rimanda ad un vissuto di sofferenza.
Sono da salire possibilmente a occhi
chiusi, per meglio cogliere la difficoltà
che si prova nel procedere in modo
così inconsueto.
Tre grezze grandi lastre metalliche,
appoggiate di sbieco alla fine delle
scale, occupano lo spazio centrale del
monumento e riportano, a sbalzo e in
lingua originale, frasi estratte delle
ultime lettere dei condannati a morte
della Resistenza europea. I 18 messaggi carichi di dolore e speranza, di
sprone ai compagni e ai posteri, appartengono a cittadini di Austria, Belgio,
Bulgaria, Cecoslovacchia, Danimarca,
Francia, Germania, Grecia, Italia,
Jugoslavia, Lussemburgo, Norvegia,
Olanda, Polonia, Romania, Ungheria,
Unione Sovietica, e a un giovane ebreo
polacco. È un coro di alfabeti, fonemi,
calligrafie diverse, un coro di giovani e
meno giovani, donne e uomini di tutte
le classi sociali, con diverse convinzioni politiche e religiose, che con una
15
Monumento rimanda ad ammonimento (etimo del vocabolo monumento) e a
trasmissione della memoria. In questo caso vuole essere anche un messaggio per una
comunità con provenienze e lingue sempre più diverse.
Capita che, nelle visite guidate agli studenti, ci siano giovani che sanno leggere gli
scritti nella loro lingua e questo provoca sempre emozione e attenzione.
Margherite Bervoets, insegnante e poetessa belga scrive:
“Sono morta per attestare che si può amare follemente la vita e insieme accettare una morte necessaria”.
Istvàn Patagi, operaio ventenne di Budapest:
“Lo dico anche ora: ne è valsa la pena”.
Julius Fucik (Cecoslovacchia) giornalista quarantenne:
“Uomini, vi amavo, vegliate!”
Per l’Italia è riprodotta una frase di Pier Amato Perretta, che così scrive al figlio
Giusto prigioniero a Yol il 10 agosto 1943: “Questa tremenda esperienza avrà giovato a qualcosa? Si impone una rieducazione profonda e costante, altrimenti
nemmeno questa lezione servirà”.
Centrale è il tema della necessità di opporsi all’oppressione, con la consapevolezza
di non dover mai abbassare la guardia. Oltre la semplice speranza le frasi mostrano
una direzione, una prospettiva nonostante tutto. È questo un sentimento che percorre
l’Europa intera e trova qui la sua monumentalizzazione, forse non così inutile, anche
se luogo poco frequentato e con scarsa manutenzione. Senz’altro l’unico monumento
alla Resistenza europea in Italia, o almeno così ci risulta.
scelta e un sacrificio personale operarono alla costruzione di un mondo
libero da dittature, soprusi, guerre,
violenze.
L’apertura ad un Europa coesa sui
valori dell’antifascismo, in grado
di sviluppare pensiero e azione, ma
soprattutto cuore, è il messaggio
profondo. Questo è sconvolgente se
misuriamo il provincialismo del dibattito (settantennale a questo punto) sul
movimento di liberazione italiano e
più ancora la sua percezione pubblica,
a fronte di un orizzonte continentale
e oltre, in cui collocare non solo e non
tanto storiografia, ma prospettive
politiche e soprattutto ideali. Siamo
convinti che riportare la Resistenza
italiana nell’ambito della Resistenza
europea ai fascismi sia un valore e uno
strumento potente quanto utile, oggi
più che mai.
Nel percorso di avvicinamento
alle lastre metalliche sono collocati
dei bassi parallelepipedi in pietra,
che riportano (in verità in modo
sempre meno leggibili) le frasi riprodotte sulle lastre e poco più avanti
una stele racchiusa in una bacheca,
contenente pietre provenienti dai
campi di sterminio di NatzweilerStruthof, Ravensbrueck, Auschwitz,
Dachau, Bergen Belsen, Mauthausen,
Theresienstadt, Risiera di San
Sabba, Buchenwald, Sachsenhausen,
Flossenburg, in ricordo della deportazione razziale e politica e delle sue
vittime. In un altro angolo è incastonata in una piccola struttura in ferro
una pietra proveniente da Hiroshima.
Ultimo degli orrori, con Nagasaki, di
una guerra costata oltre 70 milioni di
morti, tre quarti dei quali civili.
Per una politica di adozione e mantenimento ognuno deve fare la sua parte,
le amministrazioni quanto gli istituti,
l’Anpi e le associazioni dei reduci
quanto i cittadini. È questo un compito
a cui siamo chiamati tutti.
Da parte nostra, come centro di
ricerca Schiavi di Hitler, abbiamo
proposto che nell’ambito del monumento ci sia spazio per una lapide per
ricordare gli internati militari italiani,
catturati dopo l’8 settembre 1943, che
pagarono con il lager e il lavoro forzato
la loro non adesione ai fascismi. Essi
rientrano a pieno titolo nella storia
della Resistenza italiana ed europea.
16
Memorie
La Resistenza è nata in fabbrica
Luigi Tarantini, ex operaio dell’Alfa Romeo, ricorda gli scioperi del marzo 1943 a Milano
di Evaldo Violo
L
uigi Tarantini aveva solo 14 anni quando entrò a
lavorare alla Alfa Romeo di Milano, il cosiddetto
Portello, nel marzo del 1943. «Ero arrivato a Milano
da Barletta, nel 1936, con la famiglia, che era alla ricerca di
lavoro e di una vita migliore», racconta. «Non era stato difficile trovare lavoro. Durante la guerra tutti gli uomini validi
erano al fronte, nei posti di lavoro c’erano gli anziani, gli
invalidi e gli imboscati Oltre alle donne, naturalmente, che
facevano anche lavori che nei tempi normali facevano solo
gli uomini, come guidare un tram o consegnare la posta
nelle case».
Appena si presentò alle porte della fabbrica, in via Renato
Serra, fu indirizzato all’ufficio del personale, registrato e
assunto seduta stante. Gli fecero fare un mese di apprendistato, in cui gli fu insegnato a usare la lima, il trapano
e il tornio. Poi un mese di fattorino al piano della direzione: doveva portare comunicazioni e promemoria nei
vari uffici e nei vari reparti, così si fece un’idea esauriente
della realtà della fabbrica. Poi fu messo in reparto: Sezione
Gruppo motori, 8 ore lavorative al giorno per 6 giorni alla
settimana, paga oraria Lire 1,03. In fabbrica c’era la mensa:
il primo costava Lire 0,65, il secondo Lire 1,25. Per risparmiare e portare qualche soldo in più a casa Luigi prendeva
due primi e un po’ d’acqua.
«I tempi erano difficili, l’atmosfera pesante, ogni
giorno c’erano degli allarmi aerei», prosegue. «Quando si
avvicinavano alla città aerei nemici (inglesi o americani )
veniva suonata la sirena che avvertiva del pericolo e tutti
dovevano recarsi il più velocemente possibile nei rifugi
antiaerei . C’erano già stati pesanti bombardamenti in città,
che avevano fatto danni gravissimi alla rete ferroviaria,
agli impianti industriali e anche alle abitazioni civili, con
innumerevoli morti e feriti. I rifugi all’Alfa Romeo erano
nei sotterranei blindati, sotto la fabbrica, e le entrate
indicate da alte torri. Poiché il rumore dentro i reparti
era assordante e nessuno avrebbe sentito la sirena, un
usciere che stava nel piazzale della fabbrica aveva l’incarico di azionare la sirena interna quando sentiva l’allarme
aereo».
L’atmosfera era triste, ma Luigi ricorda di essere
stato accolto bene dai compagni di lavoro più vecchi, che
gli spiegavano cosa doveva fare e come doveva comportarsi. Gli spiegarono fin da subito che la fabbrica lavorava
per i tedeschi, per l’industria bellica germanica. Loro non
facevano alcun prodotto finito, facevano solo componenti di motori, di carri da trasporto e carri armati, che
venivano spediti in Germania e lì assemblati e montati.
I tedeschi erano molto esigenti: la produzione doveva
rispettare i programmi, qualsiasi cosa succedesse. E
succedevano ogni giorno interruzioni, a causa degli
allarmi aerei o di bombardamenti. A Luigi fu fatto capire
dai compagni più anziani che bisognava sfruttare ogni
occasione per rallentare la produzione e sabotarla, ma
bisognava anche essere molto accorti perché i tedeschi,
ma anche i loro compari fascisti, controllavano molto
attentamente il comportamento delle maestranze e punivano molto duramente i sabotatori. Luigi si dichiarò
subito disponibile a collaborare e gli fu dato l’incarico di
nascondere dei manifestini che al momento debito dovevano essere distribuiti di nascosto ai lavoratori.
Gli stabilimenti dell’Alfa Romeo dopo i bombardamenti del 1943 (© Alfa Romeo Automobilismo Storico, Centro documentazione Arese, Milano)
Memorie
«Le condizioni di lavoro erano molto cattive»,
ricorda, «ma gli operai si lamentavano soprattutto per
il cibo scarso e di scadente qualità. Le condizioni di vita
erano cattive anche fuori della fabbrica perché mancava
tutto e le poche cose che si potevano trovare erano care.
Alla mensa si poteva comprare il primo e il secondo,
ma non il pane. Il pane, come tutto, era razionato e io
compravo il pane con la mia tessera annonaria prima
di entrare in fabbrica; la razione era di 200 grammi e
mangiavo tre quarti del panino facendo la strada per
entrare in fabbrica. A fatica riuscivo a tenere l’ultimo
pezzetto per il pasto di mezzogiorno in mensa. Per cui
gli operai decisero di organizzare delle fermate di protesta per richiedere migliori condizioni di lavoro, ma
soprattutto un po’ più di cibo e di miglior qualità. Arrivavano subito i soldati tedeschi con i mitra spianati e
facevano riprendere il lavoro con la forza. Era molto
pericoloso organizzare queste fermate di lavoro e interrompere il lavoro, perché lo sciopero era vietato da una
legge fascista e per di più si era in guerra, ma tutti erano
d’accordo e le fermate venivano puntualmente attuate».
Poiché tutta l’attività all’interno della fabbrica era scandita dal suono della sirena, per segnalare l’inizio e la
fine del lavoro, anche per segnalare l’inizio di uno sciopero bisognava usare la sirena. Al momento prestabilito,
un operaio doveva avvicinarsi, senza farsi vedere, alla
sirena e metterla in azione. Sono questi i famosi scioperi
all’Alfa Romeo contro i tedeschi. Naturalmente fu pagato
un pesante prezzo. Ricorda Luigi quello che successe più
volte: «Senza preavviso gli operai vedevano entrare nel
reparto un plotone di soldati tedeschi al comando di un
ufficiale, si dirigevano sicuri e precisi verso un banco del
reparto, l’ufficiale urlava un nome e il malcapitato veniva
portato via. E non ritornava più. Era stato individuato
come uno degli organizzatori delle fermate».
Gli storici della Resistenza hanno indicato questi scioperi all’Alfa Romeo, come in molte altre grandi industrie
del Nord, la Fiat, la Breda, la Marelli, la Falck, la Brown
Boveri, la Pirelli, come l’inizio della resistenza contro
il fascismo e il nazismo, prima ancora del tremendo ed
eroico episodio della resistenza dei soldati italiani ai
tedeschi a Cefalonia, seguito dall’eccidio di più di 5000
soldati italiani, e della lotta armata alla macchia delle
forze organizzate partigiane.
Questi scioperi hanno come causa principale motivi
puramente economici (bassi salari, ritmi di lavoro
oppressivi, scarsità di cibo e impossibilità di approvvigionamento), ma nello stesso tempo hanno anche cause
politiche di critica e opposizione al regime fascista,
alleato col nazismo, e alla guerra. Gli operai che scioperavano rischiavano la vita e il campo di concentramento;
non erano in montagna, alla macchia, non combattevano
con le armi in pugno, erano in città in un preciso luogo
di lavoro ma resistevano al nazi-fascismo, rallentavano il
lavoro, sabotavano la produzione con un eroismo oscuro
e silenzioso.
Il giovane Luigi Tarantini, che aveva solo 14 anni,
era maturato rapidamente a causa delle vicende storiche in cui si era trovato. Il suo temperamento ribelle, il
suo senso della giustizia e della rivendicazione sociale
si risvegliarono immediatamente, si svilupparono e si
consolidarono. Capì subito cosa era giusto fare e da quale
Milano. Luigi Tarantini (al microfono) alla celebrazione del 29° anniversario della
Liberazione con l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini
parte stare, anche se questo comportava dei rischi e dei
pericoli gravi. A casa parlava poco di queste cose, ma la sua
mamma gli raccomandava sempre di non esporsi e di non
mettersi in pericolo, come fa naturalmente ogni mamma. I
contrasti con la madre e la disperazione di questa arrivarono
al culmine in occasione dell’occupazione dell’Alfa Romeo,
ordinata dal C.L.N. ( Comitato di Liberazione Nazionale
) il 22 aprile del 1945, alla vigilia della Liberazione . «Gli
operai», ricorda Tarantini, «occuparono la fabbrica per
impedire che i tedeschi, prima di fuggire, distruggessero
gli impianti, cioè una ricchezza della nazione e la fonte di
pane e lavoro per gli operai. L’occupazione avvenne regolarmente, senza spargimento di sangue, perché le forze
tedesche si erano ritirate prima ancora dell’ordine del
C.L.N. Io occupai la fabbrica assieme ai miei compagni e
dormii sul posto di lavoro per 3 notti, con la mamma che si
disperava e mi veniva a chiamare».
Così la fabbrica fu la prima e l’unica scuola politica
di Luigi Tarantini. Fin dai primi giorni di lavoro fu avvicinato da compagni più anziani, che gli dettero le prime
nozioni di politica, di dignità e di senso dei propri diritti.
Sentì parlare per la prima volta di comunismo e infatti, di
lì a poco, Luigi si iscriverà al Partito Comunista Italiano
grazie all’opera dottrinaria e all’interessamento del compagno Eugenio Ducchini . C’erano altri compagni in fabbrica,
Luigi ricorda Renzo Pecorari e Sandro Fantini e, dopo la
Liberazione del 25 Aprile, vide che c’erano molti altri iscritti
al Partito comunista, anche quadri importanti, che, però, si
erano tenuti, naturalmente, nell’ombra per poter agire più
efficacemente e senza essere individuati.
Parlando di quei tempi difficili ed eroici Luigi non può
fare a meno di ricordare il terribile bombardamento del 20
ottobre 1944: «Quando suonò la sirena dell’allarme e, all’interno della fabbrica, la sirena che indicava l’interruzione
del lavoro con la fermata della macchine, tutti gli operai si
avviarono verso i rifugi antiaerei, le cui entrate si trovavano a 200 metri dall’uscita dei reparti. L’Alfa Romeo aveva
più di 6000 operai e naturalmente l’operazione richiedeva
tempo e poteva provocare qualche ingorgo. Così avvenne
anche quella volta, ma gli sfortunati furono i primi usciti.
Una bomba cadde vicino a una delle torri d’entrata e investì un folto gruppo di operai. Morirono più di 80 uomini. Io
ero un po’ più indietro e mi salvai. Finito il bombardamento
17
18
Memorie
aereo i morti furono rimossi, i feriti portati in ospedale e i
tedeschi imposero subito la ripresa del lavoro . Poiché molti
reparti erano stati colpiti, fecero alzare dei muri che chiudessero i settori disastrati, ripararono i macchinari e la
produzione fu ripresa immediatamente. Era stata colpita
e distrutta anche la mensa e quindi le condizioni di lavoro
peggiorarono ancora. Da quel momento gli operai dovettero
mangiare nel piazzale, senza tavoli né sedie, servendosi di
gavette militari che tenevano in mano».
Passato il lunghissimo e durissimo inverno 1944-1945,
che vide altre aspre lotte e il grandioso sciopero generale del marzo 1944, finalmente il 25 aprile 1945 portò la
Liberazione dall’oppressione nazi-fascista e la nascita di
un nuovo stato italiano che doveva essere repubblicano
e antifascista
Gli scioperi del 1943-1944
Dopo 3 anni di guerra le condizioni di vita della popolazione erano progressivamente peggiorate, scarseggiavano i generi
alimentari e tutti i generi di primi necessità, dalle scarpe ai vestiti, a prodotti come il sale per la cucina. Il malcontento quindi
cresceva ogni giorno di più. Nelle grandi città industriali, e non solo in quelle, c’erano stati tremendi bombardamenti che avevano
provocato distruzione, morti e ancora peggiori condizioni di vita. La gente si domandava a cosa servisse la guerra nella quale
il Paese era coinvolto e dove avrebbe portato. Si spiegano così gli scioperi che si verificarono in quegli anni in Italia, che non
hanno corrispondenti in nessun altro paese europeo . Bisogna ricordare che lo sciopero era vietato da una legge fascista del 1926
e inoltre si era in guerra e lo sciopero diventava sabotaggio, quindi un reato ancora più grave. Malgrado questo, nel marzo del
1943, furono proclamati scioperi nelle maggiori fabbriche dell’Italia settentrionale, a partire dalla FIAT di Torino e, a Milano
, alla Breda aeronautica, alle acciaierie Falck, alla Pirelli, alla Magneti Marelli e poi all’Alfa Romeo, alle Officine Borletti, alla
Brown Boveri, alla Caproni, alla Face Standard, alla Franco Tosi, alla Salmoiraghi. Dopo l’8 settembre 1943 e la fine dell’alleanza
con i tedeschi e lo sbarco degli Alleati nel Sud Italia , l’Italia rimane divisa in due. Al Nord viene costituita la Repubblica di Salò,
un governo fascista fantoccio dipendente dai tedeschi e inizia la Resistenza partigiana. I tedeschi occupano l’Italia del Nord e
scioperare diventa ancora più pericoloso. Ma gli scioperi continuano. Ce ne fu uno durissimo il 13 dicembre 1943 che coinvolse
tutte le aziende di Sesto S. Giovanni già elencate sopra: Falck, Breda, Ercole Marelli, Pirelli Sapsa, Magneti Marelli, cui aderirono
decine di migliaia di lavoratori. Viene inviato a Milano dall’Alto comando tedesco il generale Zimmerman , con poteri straordinari , per risolvere la situazione . Viene operata una vasta serie di arresti di operai ritenuti responsabili di aver organizzato gli
scioperi. Il 20 dicembre ci furono le fucilazioni di patrioti all’Arena di Milano e il 31 dicembre al Poligono di tiro della Cagnola.
La lotta dei lavoratori delle grandi fabbriche di Sesto S. Giovanni fu così implacabile e tenace che Sesto fu soprannominata la “
Stalingrado d’Italia “. Effettivamente dopo l’8 settembre inizia l’organizzazione della resistenza partigiana e nelle fabbriche si
crea una rete clandestina di coordinatori della lotta sindacale, che diventa anche politica perché rappresenta una resistenza al
regime nazi-fascista. Il primo marzo 1944 viene attuato uno sciopero generale nel Nord Italia. Con le grandi fabbriche scendono
in sciopero anche i tranvieri di Milano, i tipografi e i giornalisti che fermano l’uscita del “Corriere della Sera” per alcuni giorni.
Anche le banche restano chiuse, assieme ad altri uffici pubblici. La reazione dei tedeschi fu durissima. Nel corso del 1944, in
tutta l’Italia settentrionale, più di diecimila lavoratori furono arrestati, portati in carcere, spediti nei campi di concentramento in
Germania. Alcune centinaia furono fucilati. Al Parco Nord di Milano è stato innalzato un “ Monumento al Deportato “, a ricordo
dei patrioti vittime delle persecuzioni dei fascisti e dei nazisti. Gli scioperi del 1943 e 1944 devono essere considerati a pieno titolo
parte della lotta di resistenza al nazi-fascismo. (e.v.)
Gli stabilimenti dell’Alfa Romeo dopo i bombardamenti del 1943 (© Alfa Romeo Automobilismo Storico, Centro documentazione Arese, Milano)
Memorie
Dalla Repubblica mazziniana a culla del liberalsocialismo
Breve storia della Roma democratica
di Nicola Terracciano
L
’immagine storico-politica di Roma spesso non
è positiva: è considerata una città sonnolenta,
dove tutto è consumato, impregnata di quello
spirito di realismo disincantato, che le viene dalla straordinaria storia millenaria, dalla presenza del centro direttivo della chiesa cattolica (controversa ancora oggi nella
storia d’Italia, specialmente negli aspetti negativi di
dogmatismo, di autoritarismo, di antimodernità).
Si dice che ha avuto una scarsa partecipazione alla
storia nazionale, che è una capitale parassita e burocratica, centro del governo, dell’amministrazione, delle
grandi mediazioni, dei più intricati interessi. Ma se si
allarga e si allunga lo sguardo storico si scoprono delle
sorprendenti verità: è l’unica città che ha un’impronta
insieme nazionale e internazionale; ha un’aria cosmopolita, che le viene non solo dalle sue grandi memorie,
repubblicane, imperiali e papali, dai flussi secolari di
visitatori e di pellegrini, ma dalla residenza di cardinali,
ambasciatori, intellettuali, artisti, giornalisti, istituzioni
internazionali.
A Roma si ha una proiezione nazionale e internazionale, a Roma le idee tendono a definirsi in modo
fermo, ampio e si estrinsecano a livello alto. A Roma si
esce da una dimensione limitata, provinciale, municipale. Solo a Roma, per esempio, hanno raggiunto i più alti
livelli di universalità Michelangelo, Raffaello, Borromini.
Lo stesso Cavour, che non è mai stato a Roma e che
era legatissimo alla sua Torino, indicò in Roma l’unica
città adeguata come capitale d’Italia, proprio per le
sue memorie non limitate: per dare un orizzonte, una
prospettiva alti alla nuova Italia uno dei più fedeli eredi di
Cavour, Quintino Sella, si adoperò per fare di Roma, dopo il
1870, la capitale internazionale della cultura e della scienza
moderne.
I primi modelli repubblicani di democrazia
La capitale ha dato lievito al sentimento e alla prospettiva repubblicani, col mito antico della Roma dell’energia,
dell’eroismo, del patriottismo, e con quello risorgimentale
mazziniano della Terza Roma, la Roma del Popolo, della
Democrazia moderna. Roma ha risposto a Mazzini nel
1849, dandogli la possibilità di sperimentarsi come uomo di
governo, con un’esperienza che fu e resta indimenticabile
e che fu ammirata da personalità come Tocqueville. E nel
solco, nella luce di Mazzini si colloca la stagione più memorabile nella storia contemporanea del Comune di Roma, agli
inizi del Novecento, con il grande sindaco ebreo Ernesto
Nathan, legato al grande genovese per amicizie familiari,
erede testamentario di Mazzini, nonché curatore della più
completa pubblicazione degli scritti mazziniani. Ernesto
Nathan era cugino di Giuseppe Rosselli, il padre di Carlo
e Nello, e, attraverso la linea Nathan-Rosselli, Mazzini e
il mazzinianesimo furono memorie costanti, già a livello
familiare, nella formazione dei due fratelli.
Roma ha memorie intorno al fecondo nesso tra repubblica-giustizia-libertà già a partire dalla Repubblica
liberaldemocratica romana del 1798-1799, che abolì il potere
temporale del papato e liberò dal ghetto gli ebrei, per arrivare a quella, già citata, del 1849, guidata da Mazzini, che
vide combattere insieme Garibaldi e Pisacane: a questa
triade si riferì poi l’organizzazione delle forze repubblicane
19
20
Memorie
di cui il Partito Sardo d’Azione di Lussu e Bellieni
(ancora esistente) è oggi testimone.
A Roma fu fondato nel 1922 il Partito socialista
unitario di Matteotti e Turati (al quale aderirono
anche Carlo Rosselli e Gaetano Salvemini), il primo
partito sostanzialmente liberalsocialista nella storia
della sinistra italiana, anche nel simbolo (Libertà-Socialismo). A Roma è morto Giacomo Matteotti, martire
socialista liberaldemocratico, assassinato dal fascismo di
Mussolini per le sue battaglie coraggiose, a viso aperto,
nel paese e nel Parlamento, a difesa della legalità, del
regime democratico, offesi dallo squadrismo degli anni
1921-1924. A Roma è nata l’Unione nazionale delle forze
liberali e democratiche (poi solo Unione democratica)
del martire Giovanni Amendola (nel cui ricordo Carlo
Rosselli diede il nome al primogenito), nel cui congresso
furono fissati i principi fondamentali di una rinnovata
tradizione liberaldemocratica, sempre vicina a una ispirazione liberalsocialista (vi aderì Nello Rosselli).
La famiglia Rosselli
Il Mausoleo Ossario Garibaldino sul Gianicolo dove, guidata da Giuseppe
Garibaldi, si svolse l’ultima strenua difesa della Repubblica Romana proclamata il
9 febbraio dello stesso anno. Il mausoleo accoglie i caduti nelle battaglie per
Roma capitale dal 1849 al 1870
e democratiche, che prese il nome di Partito d’Azione, nel
decennio di preparazione dell’Unità. A Roma riposano
Goffredo Mameli e Anita Garibaldi e i difensori della
Repubblica liberaldemocratica romana del 1849.
Un laboratorio aperto
A Roma, dopo la caduta del potere temporale della Chiesa
nel 1870, hanno operato fino alla morte protagonisti politici della Sinistra estrema, tra i quali Agostino Bertani e
Felice Cavallotti. A Roma è stato scritto nel 1890 il «Patto»
(steso in gran parte da Cavallotti), uno dei momenti più alti
della tradizione democratica-radicale, vera erede del Partito
d’Azione risorgimentale, già consonante con istanze quasi
liberalsocialiste, dal punto di vista programmatico ed organizzativo.
Francesco Saverio Merlino ha pubblicato a Roma nel
1899 la Rivista critica del socialismo, una delle prime voci
che argomenta un nuovo socialismo, libertario e liberale,
capace di uscire dalle tragiche secche del dogmatismo e del
marxismo.
Anche a Roma ha operato l’animazione democratica e
sostanzialmente liberalsocialista del grande, indimenticabile Gaetano Salvemini, che nella sua rivista l’Unità
affrontava i temi della partecipazione democratica, del
Mezzoggiorno, della lotta alla corruzione. A Roma il movimento combattentistico del primo dopoguerra ha cercato un
suo sbocco modernamente politico in senso autonomistico,
Di questa città i più antichi abitanti sono i membri
della comunità ebraica, insediati da millenni nell’area del ghetto. Tra di essi si ritrovano i Rosselli, come
emerge da fonti demografiche ottocentesche, recentemente esplorate. Anche quando si trasferirono a Livorno,
attratti dalle opportunità della neonata città franca,
mantennero la cittadinanza romana e legami costanti
con la città natale. Nella storia rosselliana, di antenati e di eredi, fino a oggi, costante è stato il legame con
Roma. La mamma e il papà di Carlo e Nello, Amelia e
Giuseppe, sono sepolti a Roma. Anche il ramo materno
della famiglia Rosselli, quello dei Pincherle, di origini
veneziane, ha trovato solo in Roma l’uscita da una dimensione cittadina, pur grande e straordinaria, come quella
di Venezia.
Gabriele, Amelia, Carlo Pincherle furono attratti
dopo l’Unità da Roma, dove le loro vite si elevarono alla
cultura nazionale: il primo divenne alto funzionario e
senatore, Carlo fu architetto (sarà il padre di Alberto
Moravia), Amelia maturò la sua formazione intellettuale
e sentimentale e a Roma incontrò Giuseppe Rosselli.
E a Roma nacquero Carlo, il 19 novembre 1899, e Nello,
il 29 novembre 1900, in via delle Convertite 21, in quel
palazzo Marignoli, che si trova di fronte a Palazzo Chigi,
e si affaccia su via del Corso, nel cuore storico quindi di
Roma: in ricordo dei due straordinari fratelli fu apposta nel 1999, in occasione del centenario della nascita di
Carlo, una lapide, su impulso soprattutto di Bruno Zevi e
del sottoscritto Nicola Terracciano, in collaborazione con
il Comune di Roma e le associazioni gielliste e liberalsocialiste.
L’annebbiamento della vera, memorabile, modernissima memoria rosselliana ha portato a deformazioni,
quali la loro origine fiorentina, fino a far nascere Nello
a Firenze (vedi l’Enciclopedia Italiana Treccani).
Firenze ha grandi memorie rosselliane, che mai devono
essere dimenticate, e accoglie degnamente e giustamente nel cimitero di Trespiano le tombe di Carlo e Nello
(oltre quelle, vicine, di Salvemini Ernesto Rossi, Nello
Traquandi), traslate da Parigi nel 1951. Firenze ha esercitato ed esercita una preziosa funzione di memoria e
Memorie
di divulgazione rosselliane, con
l’azione specialmente della Fondazione Circolo Fratelli Rosselli (con
la relativa preziosa rivista), presieduta da Valdo Spini. Ma le nodali
aperture intellettuali avvengono
sempre nel contatto costante con
Roma: questo vale anche per la
stessa esperienza storiografica di
Nello, che, pur nel legame fondamentale con la personalità di
Salvemini, matura la sua formazione scientifica a Roma presso
la scuola storica fondata da Volpe
nel 1924 e battezza quella Rivista
storica europea che resta uno dei
suoi lasciti intellettuali originali,
aperti al futuro.
I tanti volti del liberalsocialismo
Se il socialismo italiano è
soprattutto
centro-settentrionale, anche perché la classe operaia
e bracciantile, più diffusa e organizRoma, Palazzo Marignoli, dove nacquero Carlo e Nello Rosselli
zata, permetteva radicamenti stabili
e permanenti, col rischio di chiusure in una scolastica strettamente culturale, fino agli sparsi, ma sempre vigili
ideologica (prima marxista, poi anche leninista), Roma testimoni dell’oggi.
A Roma sono vissuti fino alla morte Ferruccio Parri e
mantiene un ruolo di elaborazione aperta.
Nella capitale lievitò in rivoli sotterranei il Cencio Baldazzi, Ugo La Malfa ed Ernesto Rossi, Ignapensiero di Carlo Rosselli, del suo socialismo liberale, zio Silone e Sandro Pertini, Vittorio Foa, Luciano Bolis
si formò Guido Calogero, il teorico e militante del libe- e Leone Bortone, Aldo Garosci, Aldo Visalberghi, Bruno
ralsocialismo, che proprio a Roma era nato nel 1904. Zevi, con uno sforzo eroico riformatore civile e politico in
Roma è stata una degli epicentri della nascita del Partito direzione liberaldemocratica e liberalsocialista e di lotta
d’Azione - Giustizia e Libertà nel 1942, presso lo studio per il dovere della memoria storica. In quella tensione ha
dell’avvocato Comandini. Roma ha conosciuto il martirio operato il nostro caro Presidente della repubblica, Carlo
dei caduti della Resistenza, da Regina Coeli (dove morì Azeglio Ciampi, allievo di Guido Calogero e così legato
Leone Ginzburg) fino alle Fosse Ardeatine (e si ricorda agli ideali di Giustizia e Libertà e del Partito d’Azione, e
Pilo Albertelli). A Roma sono nati altri noti e meno noti continuano a testimoniare con fedeltà ideale profonda altri
protagonisti della vicenda giellista e azionista (alcuni esponenti, ora più noti come Vittorio Gabrieli e Guido
vicinissimi a Carlo Rosselli a Parigi) come Franco Albertelli, ora meno noti, ma che si riferiscono nel loro
Venturi, Alberto Tarchiani, Alberto Cianca, Gioac- vivere e nel loro agire quotidianamente a quella straordichino Dolci, Manlio Rossi Doria, Altiero Spinelli, naria, modernissima, aperta al futuro, tradizione civile,
politica, culturale.
Fernando Schiavetti.
Roma è stata l’epicentro organizzativo e politico della nascita
della Repubblica e del radicamento, difficile, tormentato dei
valori liberali, democratici, socialisti, dopo i 20 anni della dittatura,
dopo la immane e spaventosa
guerra, dopo la guerra civile, con
l’attività del Partito d’Azione, delle
correnti eterodosse e più aperte
al futuro del socialismo democratico, del repubblicanesimo, del
liberalismo di sinistra, che hanno
avuto alti momenti con la ripresa
del Partito Socialista Unitario nel
1950, con Unità Popolare del 1953,
con diversi momenti del Partito
Radicale rinnovato, insieme all’esperienza de Il Mondo sul piano più Pilo Albertelli, Leone Ginzburg, Emilio Lussu
21
22
Noi
DA VERONA
L’Istituto veronese per la storia della
Resistenza e dell’età contemporanea,
l’ANPI, l’ANPPIA e l’ANED hanno organizzato alcune iniziative di cui di seguito
diamo conto.
12 gennaio 2013, per celebrare la
Giornata della memoria. Un giusto fra
gli uomini: Giorgio Perlasca. Conferenza
di Franco Perlasca, Presidente della
Fondazione Giorgio Perlasca. Nel corso
dell’incontro è stato proiettato un filmato a
ricordo di Giorgio Perlasca. Ha introdotto
Roberto Bonente.
Giorgio Perlasca (Como 1910-Padova
1992) si era trovato nel 1944 a Budapest
occupata dai tedeschi. Spacciandosi per un
diplomatico spagnolo riuscì a salvare migliaia di ebrei destinati alla deportazione.
Rimase pressoché sconosciuto fino a pochi
anni dalla morte quando venne pubblicato
il libro di Enrico Deaglio La banalità del
bene. Storia di Giorgio Perlasca. Lo Stato
d’Israele lo ha dichiarato «giusto delle
nazioni». Nel 2011 è stato inaugurato un
bosco di oltre 10.000 alberi nella foresta
di Ahilud, in Israele, che porta il nome di
Giorgio Perlasca e nel museo dello Yad
Vashem a Gerusalemme è stato piantato un
albero con il suo nome.
19 gennaio 2013, per celebrare la
Giornata della Memoria. Mischa Seifert
il boia del lager di Bolzano. Una conferenza di Bartolomeo Costantini, già
Procuratore capo al Tribunale Militare
di Verona. Nel corso dell’incontro è stato
proiettato proiettato un filmato che ricostruisce i vari momenti che portarono
alla cattura ed all’estradizione in Italia di
uno dei più efferati carcerieri del campo di
transito di Bolzano. Ha introdotto Olinto
Domenichini.
26 gennaio 2013, per celebrare la
Giornata della Memoria. Proiezione del
dvd curato da Roberto Zoppi su progetto e
Verona. Franco Perlasca, presidente dell’Associazione dedicata a Giorgio Perlasca
consulenza storica di Carlo Saletti per la regia di Enzo Garlato dal titolo «L’infinita
mole di dolore». Ha introdotto Roberto Buttura. Il dvd si compone di quattro parti:
Il mondo di ieri, intervista a Patrick Desbois, La tomba nell’acqua intervista a Lucio
Alberto Fincato, Campi d’Italia, intervista a Costantino Di Sante e Lo spino del filo spinato, conversazione tra Pino Castagna e Dario Basevi. Sono intervenuti Dario Basevi,
Carlo Saletti e Roberto Zoppi
2 febbraio 2013. Le stagioni di Mario e le stagioni di Giulio. Ritirata di Russia
e fine della guerra nelle esperienze contrapposte di Mario Rigoni Stern e Giulio
Bedeschi. Una Conferenza di Emilio Franzina con l’introduzione di Roberto
Bonente
9 febbraio 2013, Giorno del Ricordo. Le diverse tragedie del confine orientale,
una conferenza di Costantino Di Sante introdotta Carlo Saletti.
Il confine orientale ha sempre costituito una zona di frizione e di scontro, una zona
sovente contestata e contesa. Dopo la fine della Grande Guerra e la sistemazione postbellica del territorio sulle ceneri dell’impero austro-ungarico (con la clamorosa protesta dell’occupazione di Fiume), il confine orientale vide l’affermarsi di una aggressiva
politica fascista, la durissima e violenta contesa con la Jugoslavia, la spartizione del
territorio sancita dal trattato di pace del 1947. Gli avvenimenti che accaddero in questo
lembo di suolo italiano durante la seconda guerra mondiale (occupazione italiana di
territori jugoslavi, deportazione di cittadini sloveni, Risiera di San Sabba, uccisione di
tanti italiani gettati nelle foibe mentre altri vennero deportati in campi di raccolta in
Slovenia e Croazia, esodo delle popolazioni istriane e dalmate) hanno lasciato ferite
non ancora rimarginate nella storia del nostro paese.
16 febbraio 2013. “Angelo mio…” L’odissea dei soldati veronesi sul fronte russo
attraverso i documenti e le testimonianze (1941-1943). Una conferenza di Silvano
Lugoboni introdotta da Olinto Domenichini
SOTTOSCRIZIONI
Eolo Passalacqua (Vi): 150,00
Bruno Bevilacqua (Mi): 15,00
Mirella
Bertolino
(Avigliana)
in memoria del padre Guglielmo
Bertolino: 170,00
Maria Rosa Militano in memoria
del marito Pasquale Melara: 60,00
Neviana Dusi (Cesenatico) in ricordo del padre Luigi Dusi e della madre
Ada Pagan: 30,00
Verona, Silvano Lugoboni durante la sua conferenza
23
Noi
23 febbraio 2013. In occasione della
Giornata del tesseramento Anppia
2013 ha avuto luogo la conferenza
Appuntamento nel lager di Bolzano.
Vite parallele di Ada Buffulini e
CarloVenegon di Dario Venegoni,
vicepresidente dell’Aned introdotta da
Roberto Bonente.
Carlo Venegoni (1902-1983) e Ada
Buffulini (1912-1991) si conobbero
sulla corriera che li portava nel lager di
Bolzano. Carlo, nativo di Legnano (MI),
cominciò a lavorare in fabbrica a 12
anni partecipando alla lotta sindacale
e politica. Dal 1921 fu tra i principali
esponenti del Partito comunista in
Lombardia e nel 1924 partecipò al V
Congresso dell’Internazionale comunista a Mosca. Per la sua attività antifascista venne condannato a 10 anni di
carcere dal Tribunale Speciale e subì
ulteriori arresti, condanne e reclusioni.
Entrato nella Resistenza venne arrestato nell’agosto del 1944 e inviato nel
lager di Bolzano da cui, alla fine di ottobre, riuscì a fuggire per poi trasferirsi
a Genova dove operò nelle Sap. Ada,
di origine triestina, proveniva da una
famiglia benestante e si era laureata
in medicina all’Università di Milano.
Qui aveva cominciato a frequentare gli
ambienti dell’antifascismo milanese.
Entrata nel movimento resistenziale
fondò e diresse il giornale clandestino
socialista “La Compagna”. Arrestata
nel luglio 1944 venne detenuta due mesi
nel carcere di San Vittore e quindi inviata a Bolzano, dove rimase fino alla
liberazione coordinando l’attività del
Comitato clandestino dei prigionieri.
Ada e Carlo si sposarono nel 1946.
DA VERCELLI
È improvvisamente mancato il senatore Irmo Sassone, era nato a Quinto
Vercelese, nel 1927 e viveva a Vercelli.
Bracciante agricolo in origine, poi
dirigente politico e sindacale, senatore della Repubblica nella VII e VIII
Legislatura (1976–1983). Componente
della IX Commissione agricoltura e
di una Commissione per la CEE. Ha
pubblicato dieci Quaderni Annuali.
Le lotte delle mondine e dei braccianti
vercellesi: Un secolo della nostra storia;
Le raccolte degli interventi in Aula al
Senato; le raccolte di poesie: Siamo
nati per vivere; La vita è dura; Nuova
qualità di vita; 35 ore settimanali; Il
futuro è in Europa; La globalizzazione;
I saggi: Sulla storia del movimento operaio
vercellese e la conquista delle 8 ore di lavoro in risaia; Dalle terre del Malcontento;
Sinistra in maggioranza; Coi piedi
per terra; Il vercellese tra sviluppo
e crisi; L’alba del
2000; Insieme per
il lavoro 1° Maggio
1999; Insieme nel
XXI Secolo per lo
sviluppo sosteniIl senatore Irmo
bile e il riequilibrio
Sassone
del mercato del
riso; Il vercellese in movimento; In Europa;
Risaia vuota (magazzini pieni); Un progetto di vita per lo sviluppo vercellese; La
conquista delle 8 ore. 1909 primo contratto
monda; Dal Premio Cattolica al Centenario
delle 8 ore; Dalle Terre del Malcontento
Alle Aule del Parlamento; Dalla risaia e dal
sindacato agli interventi nel Senato;
Tutti questi libri e saggi sono stati presentati mese per mese nella sede ARCI e
ANPPIA. Il nostro compagno ed amico ha
lasciato la moglie Sinalda che gli è sempre
stata vicina, e tutti noi, amici e compagni,
stentiamo renderci conto di questa perdita
così grave.
Personalmente lo ricorderò sempre
come uno splendido compagno ed amico,
che tanto mi ha insegnato.
Coordinatore per tanto tempo dell’Anppia, ha lavorato fino all’ultimo per divulgare la Democrazia e l’Antifascismo.
Caro Irmo non ti dimenticheremo mai, e
che la terra, la tua terra, ti sia leggera.
a due compagne, per essere rinchiusa in
un istituto per la rieducazione dei minorenni in via della Viola a Bologna. Lì, con
l’aiuto di una guardiana antifascista, riuscì
a prendere contatto con la Resistenza ed
il 5 ottobre 1943, in occasione di un bombardamento sulla città, si diede alla fuga e
fu portata a Longara di Calderara di Reno
dove conobbe Linceo Graziosi ed altri partigiani. Dopo un tentativo di insediamento
partigiano nella zona di Monte San Pietro,
scese a Bologna e fu ospitata nella casa
della famiglia Masi.
Divenne staffetta della 7ª Brigata GAP
assumendo il nome di “Lina”. Di questo periodo amava ricordare quando un giorno,
affaticata dal trasporto di una borsa
contenente una pesante bomba destinata
a Ferrara, fu aiutata a salire sul treno, evitando così un improvviso controllo, da un
gentile soldato tedesco che le salvò la vita
inconsapevole di cosa stava trasportando.
Rimase in città fino a metà giugno del 1944
quando dovette lasciare Bologna perché
ricercata.
Si recò a Modena dove continuò la sua
attività nella Brigata Garibaldi “Walter
Tabacchi” cambiando il nome di battaglia in “Vera”. Verso la fine dell’anno fu
chiamata ad operare al Comando Unico
Militare Emilia Romagna (CUMER) di
Modena con l’incarico di individuare la
dislocazione dei mezzi corazzati e delle
postazioni tedesche nonché l’accompagnamento di soldati alleati paracadutati in
quella zona e la trasmissione di ordini alle
varie brigate.
Il 22 aprile 1945 era ancora a Modena
Gustavo Salsa
DA BOLOGNA
Addio, coraggiosa Vinka!
Il 26 dicembre scorso è venuta a mancare, all’età di 86 anni, Vinka Kitarovic.
Partigiana di origini croate, per il suo
ruolo nella Resistenza ottenne il riconoscimento militare di capitano.
Nata a Sibenik (Sebenico) nel 1926, nella
primavera del 1941 frequentava il liceo
quando la sua città, importante porto militare, subì i bombardamenti degli aerei
tedeschi. Con lo sbarco dei fascisti italiani
cominciarono le violenze nei confronti
della popolazione civile e fu imposta la lingua italiana nelle scuole. In questo periodo
Vinka decise di iscriversi all’Unione della
gioventù comunista (SKO).
Nell’ottobre del 1942 fu arrestata dalla
polizia e venne deportata in Italia assieme
Vinka Kitarovic in bici a Modena nel giugno 1944
quando assunse il nome di battaglia “Vera” aderendo
alla Brigata “Walter Tabacchi”.
24
Noi
liberata dai partigiani quando entrarono
in città gli alleati anglo-americani.
Attualmente
faceva
parte
della
Presidenza provinciale dell’Anpi di
Bologna e del direttivo dell’Anppia.
L’estremo saluto ha avuto luogo il 29
dicembre all’obitorio della Certosa, la
salma è poi stata trasferita in una sala
della chiesa di San Girolamo della Certosa
dove, il Presidente dell’Anpi Provinciale
William Michelini e la figlia Jadranka
l’hanno ricordata.
DA VENEZIA
Dopo i Testimoni
Da quando si è cominciato a parlare della
Shoah, sono sempre state prese in considerazione le vicende personali, le testimonianze, ma cosa succederà quando anche
l’ultimo dei testimoni sarà scomparso?
Questa la riflessione alla base dell’evento
svoltosi all’Ateneo Veneto Come ricordare? Una riflessione a partire dal libro di
David Bidussa. Dopo l’ultimo testimone a
cui sono intervenuti Andreina Lavagetto
e Simon Levis Sullam, introdotti da
Renato Jona.
Il Giorno della Memoria, istituito il 20
luglio 2000 come occasione di riflessione
sulla tragedia, denuncia a oggi una crisi:
proposta come male assoluto, la Shoah
si presenta non come evento storico, ma
come dato etico-spirituale, come elemento
intangibile e astratto. Se è vero che il
contenuto di questa giornata si è definitivamente esaurito è pur vero che una delle
ragioni è l’aver voluto per motivi di convenienza focalizzare l’attenzione sulla tragedia specifica degli ebrei, senza pensare
che il Giorno della Memoria potesse essere
un’occasione di riflessione pubblica non
solo sull’antisemitismo, bensì sul razzismo
in tutte le sue declinazioni.
La memoria di oggi è costruita sull’offerta delle voci testimoniali, che lentamente vanno scomparendo e su una cospicua produzione editoriale e documentaristica. La prima battaglia gnoseologica
da fare è quella di riuscire ad indagare
gli eventi passati attraverso il mestiere di
storico, fatto di scavo nei documenti, di
ricostruzione della storia nella forma più
dettagliata possibile, tenendo conto però
che in definitiva nessun documento fornirà mai una versione totalmente esaustiva
dell’argomento.
Un’altra criticità del giorno della memoria è che non risulta essere un evento
emblematico che spinga a una riflessione
Il logo delle manifestazioni per la Giornata della Memoria, sotto l’egida del Comune di Venezia
sulle responsabilità italiane, ma piuttosto l’ennesimo paradigma del falso mito
che vede il buon italiano contrapposto
al terribile tedesco. Nessun passo avanti
è stato fatto negli anni affinché venisse
riconosciuta la connivenza e il diretto
coinvolgimento della società italiana nella
campagna discriminatoria successiva all’emanazione delle leggi razziali. Norme, che
ricordiamo, furono redatte da giuristi che
aderirono volontariamente all’ideologia
fascista.
Il risultato di un atteggiamento di pacificazione nazionale nel dopoguerra e la
scelta di un oblio politically correct che
deresponsabilizzasse l’italiano medio, vittima inconsapevole di un regime che non
riconosce più come suo, ha portato oggi a
quei fenomeni di rielaborazione storica, di
semplificazione che permettono, ad esempio, la messa in opera di monumenti dedicati a gerarchi fascisti, atti che sarebbe
impensabile in qualsiasi altro paese direttamente coinvolto nel conflitto mondiale.
La società tedesca, al contrario di quella
italiana, è riuscita a superare il velo di
vergogna e raccapriccio. Ha reso palese e
manifesto non solo il ricordo delle vittime,
ma anche dei carnefici, attuando un’analisi
attenta dei fenomeni politici e sociali che
hanno portato all’ideologia nazista, senza
minimizzare le proprie responsabilità alla
luce delle prove documentali e testimoniali
che via via negli anni sono state presentate.
La fase che ci apprestiamo ad affrontare, definita di postmemoria, non è che
un’opportunità: un’occasione di aprire una
nuova fase di analisi su come si dovrà da
oggi in poi veicolare la memoria, affinché
sia la coscienza viva della storia di tutti e
non diventi uno squallido rituale di convenienza che coinvolge minoranze estranee
alla collettività.
Michael Calimani (Venezia)
l’antifascista
Mensile dell’ANPPIA
Associazione Nazionale Perseguitati
Politici Italiani Antifascisti
Direttore Responsabile:
Antonella Amendola
In Redazione:
Luciana Martucci
SEDE LEGALE:
Corsia Agonale, 10 – 00186 Roma
Tel 06 6869415 Fax 06 68806431
www.anppia.it
anppia.blogspot.com
[email protected]
HANNO COLLABORATO A
QUESTO NUMERO:
Antonella Amendola, Massimo Meliconi,
Valter Merazzi, Mauro Nenciati, Vincenzo
Perrone, Giulietta Rovera, Giovanni
Russo, Maura Sala, Fabiana Tacente,
Nicola Terracciano, Evaldo Violo
TIPOGRAFIA
Cierre Grafica srl
Roma - Via del Mandrione 103A
PROGETTO GRAFICO
Marco Egizi www.3industries.org
Prezzo a copia: 2 euro
Abbonamento annuo: 15,00 euro
Sostenitore: da 20,00 euro
Ccp n. 36323004 intestato a “l’antifascista”
Chiuso in redazione il: 7 Marzo 2013
finito di stampare il: 13 Marzo 2013
Registrazione al Tribunale di
Roma n. 3925 del 13.05.1954
Scarica

I luoghi della storia L`Editoriale