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100% MADE IN ITALY
Giorgio Rimoldi
La vita è tutta un Casinò
Riflessioni
Giorgio Rimoldi
La vita è tutta un Casinò
ISBN 978-88-6628-198-6
copyright 2013 Caosfera Edizioni
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soluzioni grafiche e realizzazione
A mia moglie e ai miei due figli, bontà loro…
A Mazzanti R. un amico impareggiabile.
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Nota dell’autore
Anche se gli avvenimenti descritti nella prima parte del romanzo
sono veramente accaduti, non si menziona mai che si fosse nel
pieno degli “anni di piombo”. Devo ammettere che nessun giocatore
era interessato al grave momento che viveva l’Italia, dove stragi di
stato, omicidi, gambizzazioni, rapimenti riempivano le prime pagine
dei quotidiani.
Scioperi, cortei, manifestazioni, contro-manifestazioni, rivoluzioni
delle masse operaie, contro-rivoluzioni delle masse contadine,
scontri tra estrema destra ed estrema sinistra: BR, NAR ecc, fu un
proliferare di sigle altamente idiote e un fermento basato sul nulla,
dove l’unico dato certo furono oltre 270 persone assassinate.
Le rapine nei ristoranti per autofinanziarsi ottennero solo la blindatura
e la chiusura anticipata dei locali; in quegli anni, a Milano, resistevano
sette, otto ristoranti che tenevano la cucina aperta dopo le ore 21, le
meretrici erano introvabili per le strade, tutta la metropoli era una
bella addormentata, solo il gioco rendeva in piccola parte vive le città.
I “dannati” erano tra i pochi temerari notturni in giro per bar e viali e il
loro unico interesse lo sbattimento, mentre parlavano in esclusiva di
calcio, donne e motori.
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L’incidente
31. 05. 1979
Prologo
Alcune settimane prima
Il fragore prolungato e insistente di un pneumatico che scoppia,
all’improvviso, tranciò l’aria trasparente dell’alba.
Cristiano, inebetito, guardava impotente la scena che si stava
svolgendo sotto il suo sguardo incredulo. L’automobile del suo amico
Massimiliano che lo precedeva sull’Aurelia, sbandando, si dirigeva a
velocità sostenuta contro la roccia, all’altezza della “curva del leone”.
Frenò e chiuse gli occhi, per non assistere all’epilogo del disastro, già
presagiva il boato dell’esplosione e le fiamme dell’incendio. Scese
dalla macchina e corse verso il luogo dell’impatto. Si trovò di fronte
a uno scenario raccapricciante: l’auto era un ammasso contorto di
lamiere e all’interno si intravedeva il corpo di Massimiliano esanime
e coperto di sangue.
Entro per la millesima volta in questo squallido bar e per la millesima
volta mi chiedo che cazzo sono venuto a farci. Il martedì è una serata
loffia con giocatori loffi sotto ogni punto di vista, denaro compreso.
Mi avvicino al bancone, dove il proprietario “Big Boss” sta aspettando
che non entri più nessuno, per cacciare fuori chi è dentro, chiudere e
andare a sbattere in qualche bisca circolo bar.
Big Boss è un personaggio unico. In vita sua avrà ballato decine di
miliardi in tutti i giochi leciti o illeciti. Si è giocato diversi bar prima
vinti e poi ripersi.
Trent’anni fa, giovane e di bell’aspetto, in un’ora giocava cifre che
mio padre, meccanico specializzato, guadagnava in un mese,
straordinari compresi; aveva i soldi che gli uscivano dalle tasche,
grazie a un import-export di liquori sudamericani.
Era accompagnato da donne bellissime che naturalmente pagava,
perché non rompessero i coglioni.
Oggi è stirato come una quaglia, pieno di debiti e ricco di carte bollate
della moglie che chiede alimenti e vita agiata.
Sono le ventuno, e quel pirla di Cristiano non si vede; è il mio migliore
amico, ci siamo conosciuti proprio da Big Boss. Vent’anni fa eravamo
due sbarbati che frequentavano questo bar con un’altra trentina di
ragazzi e ragazze, dove tutti hanno imparato a giocare grazie a Big,
quindi noi due siamo giocatori inseparabili, ci chiamano, infatti, “i
gemellini”.
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Io scapolo, Cristiano sposato con Carla, una mentecatta, crede a
tutte le idiozie che le racconta per giustificare qualsiasi orario di
rientro a casa, fosse passata da poco la mezzanotte o fosse stato
fuori di casa due giorni. L’unica cosa che chiede in cambio sono
soldi, più sono e meno rompe.
Con il suo appoggio, ho trovato lavoro come venditore di spazi
pubblicitari per un annuario. Sono occupato un pelo più di lui e
guadagno poco meno, ma non posso di certo lamentarmi, per le
poche ore che impegno, guadagno un capitale.
Cristiano non arriva e io mi vergogno ad avvicinarmi agli squattrinati
in attesa di giocarsi i quattro bottoni che hanno in tasca. Giocano
molto malvolentieri sia con me sia con Cristiano, sanno di non
riuscire a vincere, e a me scoccia sentirmi dire “non gioco”, come se
fossi un baro.
Mentre continuo a scazzarmi, eccolo che compare. Ha la faccia
da bufalo infuriato, sicuramente Carla deve averlo prosciugato per
l’ennesima volta.
«Cristiano, ma dove sei stato?» gli chiedo, aspettandomi un vaff…
come risposta.
«Carla mi ha chiesto 250.000 lire per un abitino “che guarda non se ne
può fare a meno”… figa se continua così la uccido o mi prostituisco;
vanno bene i compromessi per non avere rotture di coglioni, cazzo,
ma qui si esagera.»
Sembra un fiume in piena, è talmente inviperito meglio lasciarlo
stare per un po’; alla fine, tranquillo tranquillo si calma da solo per
mancanza di ulteriori provocazioni.
Intanto lo squallore del martedì sera prosegue, Big Boss ci invita in
una scorribanda notturna presso qualche circolo (Milano ne è piena)
per sollazzarci giocando a chiusura, “cocincina” o altro. Cristiano è
stirato, io no, ma l’avventura al momento non ci tenta, così decliniamo
l’invito.
Intanto il mio “gemellino” ha trovato una partita a boccette ai 3 punti,
chi arriva primo vince la puntata.
Io e Cristiano a banco: Cristiano gioca, io prendo le scommesse. Il
giocatore alla punta ha il diritto di partenza, quindi boccia il pallino
sperando di fare minimo i 3 punti richiesti, se li fa viene pagato;
cambia il giocatore alla punta, si riscommette e si riparte.
Se non fa i 3 punti o più, si continua a giocare sino a che o la punta
o noi a banco si arrivi ai fatidici 3 punti. È più difficile spiegarlo che
giocarlo. Cristiano è un puntista formidabile, quindi o la punta vince
al primo tiro o sono dolori.
Verso le ventitre, stirati i “pelabrocchi”, non ci rimane che seguire Big
Boss; saliamo sulla sua lussuosa “600” e andiamo al club “Amici del
libro”, dove un insieme di soci semianalfabeti giocano milioni.
Big Boss è subito invitato dal presidente del club a giocare, si ballano
duecentomila lire a partita, tredici carte chiusura in mano, massimo
tre minuti a partita. Stiamo alle sue spalle e guardiamo qualche
smazzata, dove al momento nessuno dei due rivali primeggia, così
dopo un’oretta io e il mio amico andiamo verso il bar, dove una
fanciulla assai carina prepara pizzette, panini, leccornie e mesce
bevande. Cristiano, snocciolando una battuta dietro l’altra, cerca di
entrare nelle simpatie della “tusa”, ma la lunga esperienza maturata
dalla fanciulla con i “broccoli” non ci lascia nessuna speranza
di approfondita conoscenza. Seduti sugli sgabelloni ci stiamo
veramente annoiando, anche perché i quattro soldi vinti ai 3 punti
non ci permettono di giocare una partita seria con qualche socio.
Per passare il tempo Cristiano mi domanda come va il lavoro e
se ho degli appuntamenti per il giorno dopo. In realtà, avevo un
appuntamento con un’azienda nuova, non inserita nell’annuario.
Il titolare ci aveva spedito una brochure dei suoi uffici, tre locali più il
cesso, ed era convinto di essere il proprietario della FIAT. Anche nella
lettera di accompagnamento chiedeva come fosse stata possibile
una simile mancanza.
«Non poteva capitarti un pirla più pirla» mi disse Cristiano offrendosi
di accompagnarmi all’appuntamento. «A uno così gli pigliamo quattro
zucche e poi con le provvigioni maturate andiamo a passare il
pomeriggio in qualche casinò.»
Infatti, quando capitava un cliente così, Cristiano godeva a poterlo
fregare con le armi dell’adulazione e del finto prestigio, gli brillavano
gli occhi non tanto per il guadagno, quanto per il gusto di sfruttare
l’ego e la relativa pirlaggine delle persone, sicuramente si sentiva
superiore.
Così ridendo e scherzando, torniamo al tavolo di Big Boss dove
siamo colti dal panico.
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Lo sciagurato era sotto di una dozzina di partite e la posta era stata
raddoppiata. Noi sapevamo benissimo che poteva avere in tasca sei,
settecentomila lire, non avrebbe mai potuto saldare quella perdita,
i suoi assegni erano “cabriolet”, nessuno ne avrebbe mai accettato
uno.
Noi eravamo con lui, non giocavamo in percentuale, ma a chi lo
raccontavamo? Al Presidente? Ci rompeva le balle fare la figura di
essere amici di un simpatico scoppiato.
Ormai la notte stava passando, la perdita era certa, il pagamento
meno.
Quattro del mattino, siamo stanchi, ma se non si paga, di qui non se ne
viene fuori sani, Big Boss guarda i suoi compagni di gioco cercando
di convincerli a continuare, perde otto partite da quattrocentomila,
tre milioni e due totale. Riuscirebbe a rientrare solo se andasse in
“culo marcio”, ma non è serata, quindi io e Cristiano, rinchiudendoci
in bagno per consultarci, decidiamo di saldare la perdita, per uscire
vivi da quel posto cazzuto, e per andare a dormire. Quando avremmo
ripreso i nostri soldi? Al momento, quello era il minimo dei problemi.
Che martedì di merda!
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I Parte
L’appuntamento
Alle 9.50, puntuali come due troie, siamo sotto il portone “dell’azienda”
da censire per l’annuario. Lo stabile è un anonimo condominio
anteguerra di Milano, zona Lambrate, dignitoso e nulla più.
Siamo intappati come due dandy, dobbiamo colpire il “pollo”, dottor
Di Rienzi, amministratore unico della… non mi ricordo neppure il
nome. Cristiano è il mio ispettore, la tecnica che useremo per cercare
di fargli spendere il massimo è di offrirgli tutti i servizi; se è come
pensiamo li accetterà con tanti ringraziamenti. Lui come ispettore
non parlerà, dovrà solo annuire con la testa, in segno di grande
assenso e muoverà il dito indice, alzandolo e continuando ad annuire
con il capo.
L’importante è convincerlo che siamo convinti.
Giunti al terzo piano, suoniamo e ci viene ad aprire una discreta
fanciulla, sicuramente è la segretaria che sulla brochure si vede
solamente da lontano.
I tre locali sono accoglienti per una famiglia di tre persone non certo
per la FIAT, infatti lo spazio è ristretto.
Per farci accomodare, il presidente ci viene subito incontro, invitandoci
nel suo ufficio da “Top Manager”. Si scusa per la mancanza di spazio,
ma è un ufficio di comodo, trovato all’ultimo minuto, fra qualche mese
ci sarà il trasloco nella nuova prestigiosa struttura.
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Dopo le cazzate di preambolo, entriamo in argomento, cercando
le posizioni dove poterlo inserire; Cristiano tace e annuisce. Il top
manager ci facilita il compito, dichiarando di conoscere a menadito
l’annuario, poiché ha lavorato in società già presenti che, per la loro
attività, consultavano spesso il volume.
Mentre conversavo con il cliente, “l’ispettore” apre l’opera per vedere
com’erano inserite le ex aziende del “diretur”. Entrambe a pagamento,
bene, bene, molto bene si viaggiava in autostrada! Quindi, finito il
dove il come il quando l’azienda andava inserita, non rimaneva che
da valutare i costi. Vedo il presidente che mi guarda interrogativo:
«Ma non è gratuito? Poi se voglio compro l’annuario (lire ottantamila).»
Devo dire che non riesco nemmeno a incazzarmi, vuoi vedere che il
coglione è meno coglione di quanto sembri? Non ho più la più pallida
idea di quello che passa nella testa di Cristiano, così per saperlo non
posso che passargli la palla!
«Ispettore…» lui aspetta un attimo, poi inizia una filippica sulle
grandi aziende incluse nel volume e, con dovizia di espressioni e di
particolari, gli elenca nomi di primo piano (sicuramente a pagamento)
comprese le due ex aziende nelle quali il dottor Di Rienzi ha lavorato.
Lo sciagurato ci sta facendo perdere del tempo e ci sta allontanando
da un felice pomeriggio al casinò. Pertanto, se vuole comperarsi
il volume lo compri, ma di essere inserito gratuitamente se lo può
scordare: noblesse oblige.
Silenzio, silenzio, improvviso, fatale, glaciale, logorante. Chi parla
per primo cede, ogni secondo che passa è lungo un’ora, silenzio.
«Ma quanto mi costerebbe?»
Il cazzone si è arreso, siamo usciti con un contratto di un milione e
quattrocentomila lire, poco ma, come dice il proverbio “piuttosto che
niente, meglio piuttosto”. Adesso cosa facciamo? Eravamo pronti a
partire per Venezia, Ca’ Vendramin, un casinò con i dadi. L’idea ci
sfagiolava, ma il contrattino ci aveva depressi, poi eravamo anche
stanchi e avviliti per la nottata precedente, avevamo fatto mattina al
circolo con tre milioni in meno, eravamo demotivati.
«Ascolta» disse Cristiano «quel cornuto di Big Boss ci ha spremuto i
coglioni con quei cazzo di assegni. Io vado a dormire, ci vediamo alle
diciannove e pensiamo cosa fare per la serata.»
Ero svuotato e stanco anch’io, perciò non obiettai su nessun punto.
Le diciannove erano un bell’orario, avrei dormito quattro, cinque ore
ne sentivo la voglia, certo che la notte precedente, se non avessimo
firmato quegli assegni nel “prestigioso” club del libro non ne saremmo
usciti integri; troppe “tronce” ci guardavano e ci sfottevano con battute
poco gioviali sul piacere di giocare perdere e non pagare. Big Boss ci
ha giurato sul Corano di farci rientrare in un lampo, ma la possibilità
io la vedo così remota…
Alle diciannove in punto, freschi di bucato, siamo pronti a riprendere
l’attività di giocatori d’azzardo, decidiamo di andare al casinò di
Campione d’Italia, ci si ferma a mangiare un panino, per fortuna
non c’è in giro nessuno, sono tutti intenti, data l’ora, a mangiare e
guardare il Tg.
Arriviamo in un’ora. Il problema è che in Svizzera non c’è l’ora legale
come da noi, così siamo lì ancora alle diciannove e trenta con tutti gli
svizzeri intenti a cenare e a guardare il Tg.
Entriamo, il casinò è deserto, ai tavoli nessuno, ci sono solo croupier
che scazzati fanno girare le roulette a vuoto. Per tirare un orario
decente, ci avviciniamo e decidiamo di giocare con il sistema di
coprire trenta numeri e lasciarne perdenti sei più lo zero. Giochi
cinque pezzi e se esce uno dei trenta numeri giocati vinci un pezzo.
Non è che sia il massimo dei sistemi, ma con la roulette senza
giocatori e lanci in continuo seguire, pensavamo di racimolare una
decina di fiches vinte e poi aspettare altri giochi. Perciò cambiamo
tutti i nostri averi, circa un milione con pezzi da cento franchi cadauno
e con cinque copriamo i numeri dal sette al trentasei, lasciando
perdenti dallo zero al sei.
Una sequenza infernale di uscite 5-3-5-0 ci schianta, in meno di
quindici minuti siamo sul lastrico, non abbiamo più una lira; controllo
l’orologio, siamo entrati in territorio svizzero alle diciannove e quaranta,
usciamo dal casinò alle venti e diciotto, ora locale.Riprendiamo la
strada per l’Italia, se facciamo veloce abbiamo ancora la possibilità
del bar, magari ci rifacciamo con qualche lebbroso di turno. Arrivati
alla frontiera di Chiasso, i finanzieri ci formulano la solita domanda:
“Qualcosa da dichiarare?” Non so se le nostre facce sconvolte li
abbiano impressionati o se si trattava di un’altra serata di merda, ma i
nostri militi ci fanno scendere dal veicolo, se lo portano in un’autofficina
attrezzata per il controllo del contrabbando e lo smontano.
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Dopo un’ora, con mille scuse ce lo riconsegnano. Ormai siamo in
ritardo pauroso per cercare di recuperare le nostre perdite, quindi
decidiamo di riprendere con calma la strada del ritorno, anzi, per
mancanza completa di soldi, decidiamo di fare la statale per Milano.
All’improvviso una grande idea mi illumina la mente, a casa ho un
milione, somma che tenevo per pagare le spese condominiali già
scadute da diversi mesi. Può tornare utile per giocare a dadi in
qualche bisca. Cristiano è contrario, in una serata così merdosa
qualsiasi tentativo di rientro è fuori logica, è come buttare il denaro
nel cesso e sperare si raddoppi.
Certo che una sfiga così ti rompe i coglioni, è vero che nessuno dei
due soffre il “brucio”.
Perdere si può perdere, ma è la prima volta che ci bruciamo un
milione in tredici minuti, siamo angosciati per questa mancanza
forzata di gioco, di sbattimento, di quel qualcosa che ti fa soffrire e
maledire oppure renderti felice in pochi attimi. Daresti la vita pur di
continuare a giocare.
Cristiano è silenzioso dopo il suo “no!”, troppo silenzioso, sicuramente
rimugina su qualche soluzione; infatti, dopo una curva, all’apparire
del cartello “Autostrada A9 Milano - Como 4 km”, colpito da questa
illuminazione, esclama: «Ok chi la dura la vince.» Una “frase storica”,
nella nostra disperazione una “cazzata”.
Tornati in un attimo in autostrada, Milano si avvicina rapidamente, così
pure il casello per il pedaggio. Non ho una lira, il mio amico nemmeno,
con le monete racimolate arriviamo a quattrocentocinquanta lire, il
casellante ne vuole ottocento. Porca puttana, come facciamo? Ci
rompe il culo fare la figura dei barboni; siamo a duecento metri dal
casello, fermo l’auto, accendo le luci di cortesia e cominciamo la
ricerca di monete e monetine nel cassettino portadocumenti, nelle
tasche delle portiere, niente. All’improvviso, come in un’apparizione
della Madonna di Lourdes a Bernadette, incastrato tra il sedile del
passeggero e il binario di scorrimento c’è un ricco cinquecento
lire. La moneta sembra infilata nel cemento, non si muove, non è
raggiungibile, al massimo riusciamo a toccarla con la punta delle dita.
Bisogna smontare il sedile!
Ci guardiamo ridendo, nessuno di noi due ha la più pallida idea di
come si può fare. Il “fai da te” non fa parte del nostro patrimonio
genetico. Riusciamo sicuramente a rompere, mai ad aggiustare.
Così come ci sono delle persone dalle mani d’oro, pronte a sistemare
qualsiasi guasto, gente che fa la felicità delle proprie consorti, noi
siamo per gli artigiani, persone che svolgono un’attività preposta a
riparare i guasti.
Noi siamo per gli artigiani!
Comunque si decide, alzeremo la leva di scorrimento del sedile,
daremo uno strappo, nella speranza che la poltroncina scossa
esca dalla propria rotaia, toglieremo la moneta e, rifacendo poi
esattamente uguale, ridaremo un colpo con forza e precisione, et
voilà tutto ritornerà a posto.
E così è stato, siamo orgogliosi di noi. Il sedile è lì fermo bloccato e
noi abbiamo recuperato le cinquecento lire. È girata la fortuna, chi
ci fermerà? Risaliti in auto percorriamo i duecento metri, paghiamo
il casellante e via verso la metropoli, ma un istante dopo una paletta
della “madama” ci blocca. E questi che cazzo vogliono? Non vorranno
di nuovo stressarci le balle?
Fermi al margine dell’autostrada aspettiamo e, tempo un secondo un
brigadiere, dopo averci salutato militarmente, ci dice:
«Patente e libretto» e, allungandoli a un subalterno per il controllo,
prosegue:
«Cosa facevate fermi a trecento metri dal casello? Cosa
nascondevate?» No, cazzo, no!
Ci hanno tenuti fermi lì quasi due ore.
Che serata di merda!
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