L’opera è una faccenda di donne Siamo ancora scossi dell’incontro di ieri –tavola rotonda al Museo Glauco Lombardi di Parma- in cui abbiamo rivissuto i drammi di donne vittime di violenze inaudite. Oggi, invece, protagoniste sono alcune eroine appassionate del melodramma, alcune delle quali mostrano un destino simile a quelle della realtà: è il caso di Gilda, la figlia ‘segreta’ del deforme Rigoletto, perdutamente innamorata di uno studente, povero, semplice, che noi sappiamo essere il Duca di Mantova, magnetico libertino senza scrupoli. Nell’aria di Gilda “Tutte le feste al tempio” troviamo il verso scritto da Francesco Maria Piave che è diventato il titolo dello spettacolo “Ciel dammi coraggio”. Tutte le feste al tempio Mentre pregava Iddio, Bello e fatale un giovane S’offerse al guardo mio... Se i labbri nostri tacquero, Dagli occhi il cor parlò. Furtivo fra le tenebre Sol ieri a me giungeva... «Son studente, povero,» Commosso mi diceva, E con ardente palpito Amor mi protestò. Partì... il mio core aprivasi A speme più gradita, Quando improvvisi apparvero Color che m’han rapita, E a forza qui m’addussero Nell’ansia più crudel. Gilda, sedotta e rapidamente abbandonata, nella voracità di continue conquiste del Duca, sceglierà di farsi uccidere, morendo al suo posto. Tale è l’amore per lui, da portarla al desiderio di annullarsi, offrendosi quale vittima sacrificale. La vita del Duca vale per Gilda più di qualsiasi altra cosa. La donna che sacrifica se stessa fino all’estremo, come sarà Leonora nel Trovatore, pur di offrire una salvezza all’uomo che ama rappresenta un soggetto tradizionale – e evidentemente accettato come giusto – nella morale del melodramma. Ma chi è l’antesignano del Duca, se non quel famoso Don Giovanni che ne ha amate (e di conseguenza abbandonate) ben 1003 in Spagna, 640 in Italia eccetera…Egli sfida tutto e tutti cercando si sedurre anche Zerlina, la giovane contadina mentre festeggia le nozze. Al risentimento del marito Masetto, lei invoca una punizione corporale, descritta come un gioco anche se l’ambiguità c’è tutta, perché alcune parole escono pesanti, a fronte di una musica leggera come una piuma e scherzosa “Batti batti, o bel Masetto, la tua povera Zerlina”: così canta Zerlina, insidiata e forse mai catturata dal seduttore libertino protagonista dell’opera, nell’ultimo giorno della sua esistenza. “Batti batti”, picchiami picchiami, chiede lei a Masetto, mentre festeggiano le nozze, circondati da amici giovani e allegri. Quando è entrato in scena Don Giovanni, e tutti i piani prestabiliti sono andati in fumo. L’Aria di Zerlina forse non va presa alla lettera, nel significato delle parole del libretto di Lorenzo Da Ponte: “Batti batti o bel Masetto, la tua povera Zerlina; starò qui come agnellina le tue botte ad aspettar.” Forse è solo un gioco, malizioso, ammiccante. Forse rappresenta un modo, per lei, di farsi perdonare, dopo che la sua vicinanza con il Libertino è apparsa a tutti un po’ scoperta è generosa. Possiamo tranquillamente prenderla come un momento spiritoso, divertente. Però, staccandola dal contesto musicale, “Batti batti” arriva a dire parole tremende: “Lascerò straziarmi il crine, lascerò cavarmi gli occhi. E le care tue manine lieta poi saprò baciar”: dove ci sta portando Mozart? Va bene che all’opera il registro degli eccessi era una consuetudine obbligata. Va bene che il Don Giovanni incarna per eccellenza il titolo dove gli eccessi vengono sempre portati alle estreme conseguenze. Va bene che nelle esagerazioni si poteva cogliere il lato buffo che continuamente affiora in questo capolavoro. Tuttavia che la nostra Zerlina sia disposta a farsi strappare i capelli e gli occhi, e poi baci quelle mani che hanno compiuto una azione tanto efferata, lascia un poco di inquietudine. A sollevarci, con un autentico respiro di sollievo, viene per fortuna l’ultima strofa dei versi di Da Ponte: “Ah, lo vedo, non hai core! Pace, pace, o vita mia, in contento ed allegria notte e dì vogliam passar”: Masetto non ha il coraggio di sfiorare la sua bella compagna. Forse è anche lei che, giusto in tempo, gli ferma le mani e invoca, danzando, una veloce rappacificazione. Pace, perdono: parole chiave del teatro di Mozart. Da Mozart a Rossini il passo è consequenziale per epoca ed intendimenti. Tra le sue opere, Tancredi che scrisse a 22 anni nel 1813 (l’anno in cui è nato Verdi) è considerato il suo primo capolavoro cosiddetto serio. I drammi cominciano a fare capolino ed i personaggi pian piano pur rimanendo ‘eroi’ cominciano ad assumere tratti più….. veri. La vicenda del Tancredi è ambientata nel 1005 in una Siracusa sconvolta dalla guerra intestina tra le sue due famiglie più influenti il giovane nobile Tancredi è deciso a palesare il proprio amore per Amenaide, figlia del potente Argirio, il quale aveva organizzato il fidanzamento della ragazza con il rivale Orbazzano tentando di porre fine alle lotte cittadine. Amenaide che va addirittura in carcere, perché pensano che se la intenda con il nemico, il saraceno Solamir, deve dunque sottostare alla volontà del padre che solo alla fine si ravvede dello sbaglio Le parole del recitativo che precede l’aria del carcere, No, che il morir non è….sono un concentrato del dramma….a quel punto per Amenaide ‘il morir non è Sì barbaro’, ma quasi una liberazione tra i tormenti. GIOACHINO ROSSINI Tancredi No, che il morir non è soprano Valentina Varriale Due sono le parole chiave del nostro percorso ‘Sacrificio’ e ‘Gelosia’ una femminile ed una maschile. Al Sacrificio che sono pronte a compiere le nostre eroine corrisponde la disperata Gelosia… degli eroi (detto con aria avvilita. La gelosia è… Otello che arriva a far morire con le proprie mani la moglie Desdemona. Dalla visione terribile di Shakespeare e Verdi a quella più distaccata infinitamente più rassicurante di Ariosto nell’Orlando furioso. Da Otello di Shakespeare, Arrigo Boito atto IV, seconda scena: OTELLO Dimmi, che cosa sei? DESDEMONA Vostra moglie, signore; la vostra fedele e leale moglie. OTELLO Su, giuralo, e ti dannerai; all’inferno!!! ma siccome i diavoli, credendoti un angelo, avranno paura di afferrarti, sarai dannata due volte. Giura che sei onesta. DESDEMONA Il cielo senza dubbio lo sa. OTELLO Il cielo senza dubbio sa che sei falsa come l’inferno. DESDEMONA Falsa per chi, signore, con chi e in che modo? OTELLO ah Desdemona! vattene! vattene! vattene DESDEMONA Ma che triste giorno! Perché piangete? Sono io la causa delle vostre lacrime!?! Se per caso sospettate mio padre, non gettate su me il vostro biasimo: se voi lo avete perduto, ecco, l’ho perduto anch’io. OTELLO Fosse piaciuto al cielo di mettermi alla prova con ogni sventura, di gettarmi in schiavitù con tutte le mie speranze, avrei trovato in un angolo del mio animo una goccia di pazienza. Ma fare di me un immobile fantoccio su cui punta lenta il dito immobile l’ora dell’irrisione. Muti colore, giovane cherubino dalle labbra di rosa, e diventi torvo come l’inferno! DESDEMONA Spero che il mio nobile signore mi creda onesta. OTELLO Oh, sì, come le mosche d’estate nei macelli che ingrassano della loro stessa putrefazione. O tu, mala erba, così adorabilmente bella e dolce e profumata che torturi i sensi, oh non fossi mai nata!! DESDEMONA Quale colpa ho commesso senza saperlo? OTELLO Questo bel foglio, questo splendido libro era forse fatto per scrivervi sopra “puttana”? Quale colpa hai commesso? Commesso! Tu, donna di strada! Quale colpa hai commesso! Il cielo si tura il naso al sentirlo, la luna chiude gli occhi, e il vento impudico che bacia tutto quello che incontra si rintana silenzioso nelle grotte della terra e non vuole ascoltarlo. Quale colpa hai commesso! Baldracca svergognata! DESDEMONA Mio Dio, mi fate torto. OTELLO Non siete una puttana? DESDEMONA No, quanto è vero che sono cristiana. Se difendere questo corpo per il mio signore da ogni altro colpevole, illecito contatto, non vuol dire essere una sgualdrina, io non lo sono. OTELLO Come! non sei una puttana? DESDEMONA No, come spero di salvarmi l’anima. OTELLO E’ mai possibile? DESDEMONA Il cielo abbia pietà di noi. OTELLO Allora, vi prego, perdonatemi. Vi avevo scambiato per quella scaltra puttana di Venezia che ha sposato Otello. Abbiamo finito. Adesso chiudete la porta e custodite il segreto. DESDEMONA Mi sento come morta. GIUSEPPE VERDI Otello Piangea cantando soprano Roxana Herrera Diaz “Io non ho scusanti e mi devo curare. Ma il suo comportamento mi feriva talmente tanto. Se tu sai che io non riesco più a trattenere la calma e ti alzo le mani, perché vuoi arrivare a questo? Mancanza di rispetto, bugie, falsità. Lei mi metteva sempre alla prova. Perché così io mi sarei preso la colpa e me ne sarei andato. Portandomi alla disperazione…” “La signora mi ha buttato dietro dei profumi. Avevamo litigato per le solite cose. Io sono corso e l’ho strattonata. Siamo finiti a letto e poi a terra. Poi lei ha chiamato i carabinieri” “Sono arrivato a casa e le ho dato 2, 3, 4 sberle. Perché ero tornato a casa. Ero uscito il sabato mattina e sono tornato alle 10 di sera. Dovevamo andare in una pizzeria e non sono tornato. Cosa dovevo rispondere? Ero in torto…” “Le lesioni non ce ne ha. Io non sono violento. I referti medici parlavano di una ferita all’orecchio destro e una perforazione all’orecchio sinistro. Ma se gli davo uno schiaffone, con i miei 130 kg ne rimaneva ben poco” [Testimonianze tratte da “Il continente sconosciuto. Gli uomini e la violenza maschile” di Marco Deriu.] Un salto da brivido nella nostra realtà con la lettura di queste testimonianze raccolte da uomini violenti. A queste tragedie, le parole di Ariosto ci fanno un po’ sorridere… anche perché lui è un eroe… Dal canto XXIII dell’ Orlando Furioso: “Non son, non sono io quel che paio in viso: quel ch’era Orlando è morto ed è sotterra; la sua donna ingratissima lo ha ucciso: sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra. Io son lo spirto suo da lui diviso, ch’in questo inferno tormentandosi erra, acciò con l’ombra sia, che sola avanza, esempio a chi in Amor pone speranza.” Straziato dal pensiero ossessivo del tradimento di Angelica, il paladino Orlando perde il senno: dopo aver attraversato un bosco dove vede incisi nei tronchi degli alberi, sui sassi, i nomi intrecciati di lei e del rivale, chiede ospitalità per la notte in un casolare di pastori. Per fatalità, tuttavia, finisce per dormire proprio nel letto che aveva pure in precedenza ospitato la coppia. Impazzito dalla gelosia, in un crescendo di ossessioni, Orlando delira: si strappa le armi, le getta con violenza nel bosco, si squarcia i vestiti e rimane completamente nudo. Commenta l’Ariosto: “e cominciò la gran follia, sì orrenda, che de la più non sarà mai ch’intenda.” Il senno di Orlando verrà ritrovato sulla luna. Dove, a sorpresa, si scopre che molti altri sono lì, conservati in ermetiche ampolle: appartengono a uomini illustri, di cui nessuno sospetterebbe la mancanza di cervello. Tornando al nostro Verdi e a proposito di gelosia: nell’Ernani sono in tre ad essere innamorati di Elvira compreso il ‘vecchio’ Silva “l’odiato veglio“. Ed anche se il tema principale è politico, il riflesso passionale ha il suo peso, tanto da uccidere il bandito Ernani di cui Elvira è perdutamente innamorata. Qui è lui ad avere la peggio… (una volta tanto, diciamo noi….) GIUSEPPE VERDI Ernani Surta è la notte….Ernani! Ernani, involami soprano Vittoria Ji Won Yeo Adesso ci chiediamo: da dove partono le opere del nostro Verdi per approdare a questo realismo drammatico? La prima opera romantica, nel senso compiuto del termine, è Lucia Lammermoor di Gaetano Donizetti, che per la prima volta scende nelle profondità tra i conflitti interiori dei personaggi. Al centro l’amore contrastato ed impossibile fra due innamorati divisi dalle rivalità tra le famiglie e da un matrimonio forzato. Ma la novità consiste ‘nella sceneggiatura’: un’ambientazione carica di presagi che porta la protagonista al delirio, alla pazzia ed infine alla morte. Nel primo atto, Lucia racconta alla sua damigella una lugubre storia di un Ravenswood che, in quello stesso luogo, uccise per gelosia la propria amata, il cui fantasma, da quel giorno, si aggira inquieto vicino alla fontana. Lucia afferma di aver visto anche lei il fantasma. Inutile dire che si tratta di un cattivo presagio. Il canto ornato e fiorito di Lucia ha anche il compito di esprimere orrore e terrore: lo notiamo nella scena della pazzia e nella seconda parte della cavatina “Regnava nel silenzio”. GAETANO DONIZETTI Lucia di Lammermoor Regnava nel silenzio soprano Valentina Varriale E’ paradossale ma è così: che i primi esempi di realismo drammatico per avere forza devono includere elementi visionari e sovrannaturali, pensiamo anche a Norma, erede della Medea… Sono situazioni in cui la natura femminile viene fatta esprimere in modo nuovo e profondo con conseguente pretesa di soprani all’altezza della situazione. Una piccola dimostrazione è il nostro percorso: Quindi dalla Lucia di Donizetti, a Verdi con Giovanna d’Arco e la portentosa figura di Lady Macbeth la cui statua allucinata domina questo teatro quasi soggiogandoci (il teatro è l’Arena del Sole di Roccabianca, dove sono custodite nove statue del complesso monumentale di Giuseppe Verdi) Aspetti visionari frutto nell’interazione tra forze ultraterrene e vicende umane, ci viene data nella Giovanna d’Arco dove la protagonista è travolta dalla passione essendo divisa fra la donna innamorata del suo Re e la vergine pura alla quale viene affidata una missione importante da compiere. Giovanna si consuma tra le due opposte idee: abbandonarsi ad una tranquilla vita familiare o diventare l’eroina guerriera del suo popolo…… Il dilemma sarà risolto compiendo la sua missione di vergine guerriera. Perché rimango or qui?... chi mi trattiene?... canta Giovanna appena prima dell’aria O fatidica foresta. GIUSEPPE VERDI Giovanna d’Arco O fatidica foresta soprano Roxana Herrera Diaz Lugubri visioni in un mix esplosivo si ha in Macbeth, il primo Shakespeare di Verdi, che contiene un’altra scena della pazzia introdotta dal sonnambulismo e con esito suicida. Riguarda la Lady Macbeth che in uno stato di torpore inconscio confessa gli orrendi delitti perpetrati; la prova è la macchia di sangue che non va più via dalle sue mani. La musica sottolinea tutto l’orrore e l’abisso della coscienza che non sa liberarsi dai rimorsi. Già dall’inizio dell’opera Vieni! T’affretta ne rappresenta un efficace preludio. GIUSEPPE VERDI Macbeth Vieni! T’affretta soprano Vittoria Ji Won Yeo La follia d’amore vibra nelle tempeste giovanili dei tenori protagonisti della cosiddetta Trilogia popolare di Verdi: Alfredo in Traviata, con un gesto di rabbia, paga davanti a tutti Violetta, gettandole addosso il denaro appena vinto al gioco; il Duca di Mantova, nella sua Ballata di esordio nel Rigoletto, con spavalderia proclama che Questa o quella per me pari sono. Ma è Manrico, il nobile, poetico, amoroso Trovatore, a utilizzare, nel delirio della gelosia, le espressioni più inaccettabili. Dopo aver da poco delibato una delle Romanze più delicate e toccanti di tutta l’opera: “Ah sì, ben mio, coll’essere io tuo, tu mia consorte, avrò più l’alma intrepida il braccio avrò più forte” Lo ritroviamo acceso di gelosia, quando nel finale Leonora va per liberarlo, dalla prigione dove è rinchiuso, ma lasciandogli presagire il prezzo pagato per quel riscatto: “Pur figgi, o donna, in me gli sguardi! Da chi l’avesti ed a qual prezzo? Parlar non vuoi! … Balen tremendo!... Dal mio rivale!... Intendo, intendo!... Ha quest’infame l’amor venduto… Venduto un core che mi giurò!” Da Verdi a Puccini che fa morire tutte le sue donne protagoniste tranne Minna (dalla Fanciulla del West). Almeno due di queste si ‘sacrificano’ immolandosi all’altare dell’amore perduto: come Butterfly e Liù il cui sacrificio oltre a favorire lo ‘sgelamento’ della principessa Turandot, salva Calaf, perché lei non rivelerà il suo nome. Puccini teneva così tanto a questo personaggio che scrive di suo pugno le parole, oltre che le note, dell’aria struggente Tu che di gel sei cinta con la quale si chiude l’opera dato che muore prima di portarla a compimento. Io chiudo stanca gli occhi perché egli vinca ancora... per non... per non vederlo piu!”… e questo “per non vederlo più” viene ripetuto per ben due volte. Liù muore perché non regge di vedere la realizzazione dell’amore tra Calaf e Turandot, e questo la rende molto umana. GIACOMO PUCCINI Turandot Tu che di gel sei cinta soprano Roxana Herrera Diaz Dopo aver cantato l’aria, Liù sottrae una spada, sfilandola dalla cintura di un soldato, e si uccide. Viene in mente l’altro suicidio dell’altra eroina orientale, quello di Butterfly la piccola fanciulla-farfalla di 14 anni. Dopo la scoperta che Pinkerton non tornerà più a lei si rende conto che il suo amore era basato su una idealizzazione. Quanta modernità in questo soggetto: mi viene in mente il cosiddetto turismo sessuale…. Pinkerton – “Dammi ch’io le baci le tue manine care Mia Butterfly! … come t’han ben nomata tenue farfalla… - Butterfly – “Dicon ch’oltre mare se cade in man dell’uom, ogni farfalla da uno spillo è trafitta ed in tavola infitta! - Pinkerton – “Un po’ di vero c’è. E tu lo sai perché? Perché non fugga più. Io t’ho ghermita… Ti serro palpitante. Sei mia.” Quando Butterfly realizza attraverso il tradimento di Pinkerton che il vero tradimento è il suo, verso sé stessa e la propria anima, si suicida in modo rituale, riprendendo così contatto, attraverso la morte, con i propri antenati e chiedendo perdono agli dei della sua religione. Quindi la morte per l’eroina giapponese è l’unico modo di ritrovare sé stessa, seguendo l’esempio dei suoi antenati, e la morte è una scelta di fedeltà a sé stessi e ai valori dello Spirito. Ma il contesto dell’Aria Un bel dì vedremo è ancora di viva speranza che il suo amore ritorni. GIACOMO PUCCINI Madama Butterfly Un bel dì vedremo soprano Vittoria Ji Won Yeo Quando si affaccia il Novecento, nel teatro musicale (e non solo) si cerca di recitare la propria vita: a volte non è chiaro dove comincia l’una e dove il palcoscenico un luogo magico che colora vistosamente anche banali espressioni…. Giusto Cielo! Che feci in tal giorno? e poi… Scostatevi, profani!... La commistione regna sovrana, quando si snoda una trama da ‘teatro nel teatro’. E’ il caso dell’Adriana Lecouvreur di Francesco Cilea: un’altra prima donna tratteggiata con intensità che è un personaggio del 1700 realmente esistito un’attrice. Possiamo immaginare la commistione tra realtà è finzione nella trama e guarda caso troviamo temi a noi noti: la gelosia, questa volta tra donne e la pazzia finale sua sorta di delirio provocate dalla violette avvelenate portatele in dono dalla sua rivale principessa di Bouillon. L’opera si apre nel foyer della Comédie Française al momento in cui, prima della rappresentazione, gli attori si preparano e le attrici si truccano; l’entrata di Adriana - che prova il suo ingresso in scena e ripassa (declamando, non cantando) la sua parte - culmina nell’aria Io son l’umile ancella /del Genio creator, assai significativa del carattere più intimo del personaggio stesso. FRANCESCO CILEA Adriana Lecouvreur Io sono l’umile ancella soprano Roxana Herrera Diaz Magda l’eroina della Rondine è l’amante del ricco banchiere Rambaldo: un giorno, nel suo salotto, si discute dell’ultima moda parigina: l’amore romantico ovvero l’illusione amorosa. Rimasta sola con le amiche, Magda confida loro una sua passione giovanile ed esprime il desiderio di provare ancora quel sentimento. Questo volta si rovescia tutto: Non di realtà si parla nell’opera, ma di sentimenti, di ricordi, di sogni: Fantasie! Fantasie!, come si esclamerà più volte e da più parti. La mantenuta Magda, dunque, pur non essendo affatto insensibile ai gioielli del suo ricco amante Rambaldo, sogna un’altra condizione. Ma questa condizione non si identifica con l’alternativa di un amore vero (ecco la differenza dalla Violetta Valéry della Traviata), ma con una nostalgia perduta per sempre. Chi il bel sogno di Doretta poté indovinar? contiene le sensazioni di quando, fanciulla pura e innocente, aveva incontrato un giovane studente al Bal Bullier, innamorandosene perdutamente e scappando via con il cuore gonfio dall’emozione GIACOMO PUCCINI La rondine Che il bel sogno di Doretta soprano Valentina Varriale “Io non ho scusanti e mi devo curare. Ma il suo comportamento mi feriva talmente “Quella (persona) mi ha messo un bollino come uomo violento. Mi accusa ancora di più. Il bollino di uomo violento: lo sono, lo sono stato, ma diamo un’opportunità, aiutiamolo a curare e ricostruire la famiglia” “Non penso di essere questo mostro come mi ha disegnato lei. Non penso che sia stata terrorizzata da me” “L’uomo è uomo, la donna è donna. La parità ok, ma come stira una donna non può stirare un uomo…Quando i ruoli cominciano a invertirsi…la donna deve impegnarsi nelle faccende di casa, nella conduzione della famiglia. Se vuole andare a lavorare va a lavorare. Ma può stare a casa, ci posso pensare io…certo io oggi mi trovo a fare il padre ma anche la pappina (però) in natura è così: il padre porta il becchime, ma chi lo mette in bocca è la madre. Forse questo si è perso. Ma non son maschilista” “Io mai nella mia vita…C’era stato un episodio. Per difendermi la colpii al labbro. Lei era convinta che la tradissi…è nata come una forma di violenza. La mia è stata una difesa. Forse una difesa più forte. Non mi sarei mai permesso. Non mi è mai capitato” (Testimonianze tratte da “Il continente sconosciuto. Gli uomini e la violenza maschile” di Marco Deriu.) Il Novecento è portatore di una visione del mondo amara e disincanta e a proposito di ‘violenza sulle donne’ vi è un’opera che Benjamin Britten scrive nel 1946 dove fa rivivere lo stupro di Lucrezia avvenuto ai tempi del re romano Tarquinio il Superbo. La tragedia insorge quando i due elementi - maschile e femminile - si incontrano, come se l’equilibrio inseguito fin qui si ribaltasse in catastrofe. Il mondo di equilibrio e bellezza creato da Lucrezia e il suo rapporto con il marito sono annientati a causa della brutale aggressione di Tarquinius. Non potendo vivere nel disonore, né avendo possibilità di ribellione, l’unica soluzione è il suicidio. Che nessuna donna viva disonorata: sono le estreme parole di Lucrezia prima del suicidio. Ma la morte della disonorata Lucrezia simboleggia anche il crollo di una monarchia disonorevole. Questa morte volontaria fu la prima pietra della Repubblica Romana. L’opera di Britten, che si apre con considerazioni e scommesse sulla fedeltà delle donne che molto ricordano Così fan tutte di Mozart, si sviluppa a passi tutto sommato anche molto veloci, con la premura di chi esprime con forza un’esigenza morale. Al tempo stesso Britten, creando un affresco sonoro di coinvolgente bellezza, cerca di risvegliare in noi un sentimento di commiserazione nei confronti della vittima e ci congeda con un finale concertante in cui all’angosciante domanda Is it all?, (E’ tutto?) le voci rispondono con infinita malinconia. Queste parole le facciamo nostre e sono tra le regioni che si continua a scrivere ed a amare il teatro “Ora, con parole esauste e con queste scarne note, tentiamo di decorare di canto la tragedia umana”. Testi di Carla Moreni e Giulia Bassi. © Verdissime.com