PERCORSI DIDATTICI
La creazione dell’Otello
nel carteggio tra Verdi e Ricordi
Giuseppina La Face Bianconi
IL PROCESSO CREATIVO D’UN ARTISTA NON È FACILE DA RICOSTRUIRE:
MEN CHE MAI IN UN’ARTE SFUGGENTE COM’È LA MUSICA,
INTESSUTA SULLA TRAMA ESILE DEL TEMPO E DEL MOVIMENTO.
IL CASO DI GIUSEPPE VERDI.
S
u che cosa si può basare lo storico
della musica per ricostruire il
processo creativo d’un artista?
Può analizzare le partiture, dai primi abbozzi (se sono conservati) fino alla stesura definitiva; se poi si occupa di melodrammi, può interrogare genesi e
struttura del libretto, in relazione con la
partitura. Può anche valersi delle dichiarazioni scritte lasciate dai compositori,
dai loro collaboratori (i librettisti in primis), dai critici: trattati, recensioni, riflessioni, carteggi. Di compositori come
Wagner o Schumann abbiamo molti
enunciati di poetica; altri invece, come
Schubert o Rossini, si sono pronunciati
assai di rado sul proprio lavoro. Di
Giuseppe Verdi (1813-1901) non possediamo alcun trattato, è vero: ma il suo
vastissimo epistolario è una fonte fondamentale per la comprensione delle sue
opere, sull’arco di un’operosità più che
cinquantennale (la prima opera, Oberto
conte di S. Bonifacio, è del 1839; l’ultima,
Falstaff, del 1893).
Giuseppe Verdi
e il suo editore
Pubblicato di recente, il Carteggio Verdi-Ricordi 1886-1888 consente di gettare
uno sguardo molto circostanziato nell’officina creativa del Maestro all’apice
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della fama, nel suo modus operandi,
nelle categorie del suo pensiero creativo,
anche nel suo rapporto col mondo.
Sono gli anni dell’Otello, il «dramma lirico» che andò in scena alla Scala il 5 febbraio 1887: accanto a Verdi c’è un librettista d’eccezione, lo scapigliato Arrigo
Boito, che nel verseggiare la tragedia di
Shakespeare si rifece non solo al testo inglese dell’Othello (1604), ma anche alle
traduzioni in voga allora, quelle italiane
di Giulio Carcano, Andrea Maffei, Carlo
Rusconi, e quella francese di FrançoisVictor Hugo (il figlio dell’autore dei Miserabili). Il carteggio con Ricordi esibisce
una rete complessa di avvenimenti attorno alla creazione di Otello e ci dà un’immagine vivida del mondo della produzione teatrale negli anni ’80 dell’Ottocento. Dal gioco dei rimandi emergono
le idee del Maestro in fatto di poetica, la
sua attenzione rivolta a tutti gli aspetti
dello spettacolo, anche quelli a prima vista insignificanti.
Quando Otello va in scena Verdi ha 73
anni, ed è consacrato come grandissimo
operista in tutt’Europa. Giulio Ricordi
ne ha 47, Arrigo Boito 45. La differenza
anagrafica tra i tre, anziché ostacolare,
deve aver stimolato la creatività verdiana:
se il compositore porta con sé un’esperienza straordinaria e un talento formi-
dabile, Boito sbandiera una visione
nuova dell’arte e del teatro, e Giulio Ricordi offre l’entusiasmo dell’imprenditore, unito a grandi doti di pazienza e diplomazia. Del resto, non è questo l’unico
caso in cui la distanza anagrafica fra i
partner ha stimolato la creatività di
grandi artisti, propiziando risultati fuor
del comune. Due esempi: il rapporto del
giovane Brahms con Clara Schumann,
o quello di Rainer Maria Rilke con
Lou Salomé (14 anni di differenza in
ambo i casi, tanto più “pesanti” siccome
la più anziana dei due è la donna).
Nel carteggio fra il Maestro e l’editore
il dialogo va oltre la mera relazione di
affari e tocca una varietà di temi, dalla
drammaturgia alla scelta dei cantanti,
dalla cultura generale alle vicende politiche e aziendali, fino alle faccende familiari. Lo scambio è amichevole, sebbene non sempre ci sia concordia di vedute fra i due. L’editore è deferente ma
anche ostinato, in certe lunghe lettere
impartisce consigli al Maestro, altre
volte invece ne richiede, ben sapendo che
Verdi è uomo pratico. Le lettere sono intrise d’ironia scherzosa, e talvolta di adulazioni certo non ipocrite: «Ella è un
Mago!! Maestro... io so quel che dico!!».
Verdi scrive lettere più brevi, è diretto,
lapidario, ogni tanto fa il divo, il bizzoso,
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Otello afferra
Jago alla gola
e lo atterra
(atto II, scena V),
disegno e
incisione
di A. Bonamore
dall’allestimento
scaligero, nel
numero unico de
«L’Illustrazione
italiana» dedicato
a Otello (febbraio
1887).
il brusco, ma poi si lascia condurre per
mano: il carteggio è insomma un esempio preclaro di come si possano mescolare cortesia, affetto, qualche tic, delle
pose, sul fondo di un rispetto reciproco
assoluto.
Creazione dell’opera:
cantanti e messinscena
La prima di Otello alla Scala fu un avvenimento importante per l’Europa intera,
atteso con impazienza e seguito con attenzione. L’opera, diretta da Franco
Faccio, eseguita da cantanti famosi
come Francesco Tamagno (Otello), Romilda Pantaleoni (Desdemona) e Victor
Maurel (Jago), riscosse un successo
strepitoso. La composizione costò fatica
al compositore, consapevole di attendere
a un lavoro particolare, nuovo, diverso
dagli altri. La stanchezza lo coglieva, si
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lasciava andare a esclamazioni esasperate: «Otello, quasi lo abbrucierei», «maledettissimo Otello quante noje! quante
noje! non lo avessi mai scritto». Dopo la
stanchezza arriva la gioia, la liberazione
per l’opera compiuta: comunica la notizia a Giulio (1° novembre 1886) infarcendo la lettera di punti esclamativi: «Vi
scrivo per dirvi che Otello è completamente finito!! Proprio finito!!!!... Finalmente!!!!!!!!». Da parte sua Giulio,
l’indomani, prende carta e penna e risponde non a Giuseppe Verdi, bensì a
Giuseppina Strepponi, la moglie: quest’atto dimostra in quanta considerazione fosse tenuta la signora Verdi, compagna d’una vita. Giulio manifesta grande
entusiasmo: «Dunque, ecco finito questo
prodigioso Otello!!... davvero prodigioso!!.... grande nei dettagli, grande nelle forme generali!!! È un colosso miche-
langiolesco, cesellato dal Cellini!». L’editore mostra di comprendere profondamente la straordinarietà dell’Otello verdiano: in esso le pennellate spavalde, i
vasti affreschi, i quadri sublimi si combinano appunto con la cura minuta del
dettaglio, la sfumatura, il particolare non
appariscente.
Un serio problema fu per Verdi la scelta
dei cantanti per Otello. Li ascoltava e non
era mai contento. Francesco Tamagno,
il protagonista del 1887, secondo il
Maestro non sapeva usare la mezza
voce, e dopo l’uccisione di Desdemona
non avrebbe saputo cantare con voce
«semispenta e velata», così come ci si sarebbe aspettati dal Moro, ormai «spossato fisicamente e moralmente».
La parte di Desdemona fu ancor più
problematica: Verdi aveva ascoltato
tante artiste, ma nessuna gli andava a genio; alla fine fu scelta la Pantaleoni, ma
il Maestro la considerava troppo «appassionata, ardente, violenta» e dunque incapace di «moderarsi e contenersi nella
passione calma ed aristocratica di Desdemona». Né aveva avuto minor difficoltà con Jago, che a suo avviso non
avrebbe dovuto «né cantare né alzare la
voce». Verdi pensava a un’emissione
quasi parlata, a fior di labbra, e in certi
punti – sulle parole «Temete, signor, la
gelosia!» – ricercava un accento particolare, «cupo, fatale, sentenzioso, quasi
profetico». Anche la messinscena lo
preoccupava: vedeva un gran divario fra
la sua concezione dell’azione drammatica e la realizzazione dello spettacolo.
Per la prima della Scala esprime una sequela di lamentele sulle decorazioni, la
“meschinità” della scena della tempesta
(ad apertura del prim’atto), e per una ripresa genovese critica l’orchestra, il
coro, il teatro nel suo insieme.
Verdi–Shakespeare
Alcune lettere fra Verdi e Ricordi vertono
su un aspetto nevralgico: il rapporto tra
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l’Otello e l’Othello, tra Verdi e Shakespeare. Il 19 dicembre 1886 Giulio gli scrive
d’aver visto la tragedia interpretata dal
grande attore Giovanni Emanuel. Le parole dell’editore sono entusiastiche: riconosce la grandezza del dramma di
Shakespeare («è un colosso!! una meraviglia») e dice che «in scena guadagna le
cento volte sulla lettura». Mette a confronto il dramma di Shakespeare e il libretto di Boito: sottolinea che il letterato
milanese ha «estratto il succo vitale», e
che le parole di Shakespeare che più avevano impressionato il pubblico erano
state fedelmente mantenute da Boito. A
una recita dell’Otello con Emanuel avevano assistito anche i cantanti scritturati
per l’Otello verdiano, mancava invece Arrigo Boito. Questi scriverà a Verdi due
righe inequivocabili sul perché avesse desistito: Emanuel «è un mediocrissimo attore, freddo, monotono, antipatico. Se
dall’ovo di una gallina non può nascere
un’aquila, dalla testa dell’Emanuel non
può venir fuori nessuna specie d’interpretazione d’Otello...».
Verdi lascia passare qualche giorno: la vigilia di natale risponde a Giulio manifestando una posizione che potrebbe
sembrare “oscurantista”: se sulla base
dell’interpretazione di Emanuel i cantanti dovessero modificare quel che lui
e Boito hanno concepito, sarà di certo
un guaio; meglio sarebbe non aver visto
lo spettacolo. Riprende il discorso il 26
dicembre, spiegando che «la visione
ottica» sarebbe stata vantaggiosa per i
cantanti se Emanuel «era nel vero»;
ma «se Emanuel ha fatto d’Otello un
uomo debole, ed in certi punti quasi un
vecchio piagnucoloso (come l’han rimproverato) sarebbe una brutta lezione
per Tamagno». Il Maestro tocca qui un
punto cruciale, evinto dall’attenta lettura
della tragedia. Otello non è un soccombente, è un eroe. È un guerriero, che un
destino avverso fa stramazzare al suolo,
ma nel profondo dell’animo resta pur
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sempre eroe. Verdi ne scolpisce bene il carattere, laddove, nel prim’atto, fa ch’egli
irrompa in scena proclamando con voce
di tuono il difficilissimo «Esultate!»,
che sovrasta il tumulto della tempesta e
il vociare della ciurma. Ma lo fa risaltare
anche nella pagina commovente dell’atto
II in cui, già convinto del tradimento di
Desdemona e consapevole d’aver perso
tutto, enuncia «Ora e per sempre addio
sante memorie»: in questo passo straordinario Verdi fa emergere dall’orchestra
– come se rimbombassero nella mente
e nell’animo del personaggio – gli squilli
delle battaglie; quelle battaglie che Otello
aveva vinto, che lo avevano consacrato
condottiero, e che egli rammemora anche nel tenerissimo duetto d’amore con
Desdemona nell’atto primo («Già nella
notte densa»). Non dimentichiamo peraltro che, nel libretto di Boito, le prime
parole con cui Desdemona si rivolge a
Otello sono: «Mio superbo guerrier!».
Nelle lettere Verdi si sofferma anche su
Desdemona: non ha letto il solo Othello,
ha meditato anche altri drammi di Shakespeare, e interpreta la dolce fanciulla
veneziana alla luce di altre figure femminili del drammaturgo inglese.
Desdemona, «che si lascia maltrattare, schiaffeggiare» eppur
perdona, «pare una stupidina»,
dice Verdi. Ma non è così. Essa
«non è una donna, è un tipo! È
il tipo della bontà, della rassegnazione, del sagrifizio! Sono
esseri nati per gli altri, inconsci
del loro proprio Io! Esseri che
Shakespeare ha poetizzati e divinizzati creando Desdemona,
Cordelia, Giulietta ecc.: tipi che
non hanno riscontro forse che
nell’Antigone del teatro antico».
Per questo personaggio “non
umano”, emblema della bontà e
dell’accettazione, il compositore
scrive frasi melodiche lunghe
lunghe lunghe, quasi infinite.
Così, se Otello passa dal canto appassionato all’urlo selvaggio, se Jago può declamare e ricaner (sogghignare), Desdemona – per volontà dichiarata del compositore – deve cantare dalla prima
nota del recitativo fino all’ultima nota
dell’implorazione accorata «Otello…
non uccidermi...».
Insistendo sulla diversa maniera di cantare dei personaggi, Verdi mostra di aver
còlto intensamente l’elemento drammaturgico essenziale che nell’Othello shakespeariano innesca la tragedia: l’elocuzione dei personaggi, le sfumature che
le parole assumono in bocca a questo o
a quello, il tono della voce, la finzione o
l’ambiguità insita nel dire e nel non dire.
Il risultato è la comunicazione equivocata o impedita. Tutto ciò Verdi lo sa rendere, impareggiabilmente, in musica
con le tante diverse modalità di canto dei
suoi personaggi.
La stessa scena descritta nella
Disposizione scenica per l’opera Otello...
compilata e regolata secondo la messa
in scena del Teatro alla Scala
(Ricordi, Milano 1888).
Giulio Ricordi, caricatura
di Luigi Conconi.
Aspetti personali
La confidenza crescente di Giulio con
Verdi instauratasi sul filo del carteggio
fa sì che l’editore si apra col Maestro anche su aspetti personali: ad esempio lo
rende partecipe della trasformazione
della casa editrice da impresa familiare
in società in accomandita (sarà costituita
il 3 ottobre 1887, e in questo passaggio
Verdi – ormai da tempo un facoltoso
proprietario terriero – concederà a Ricordi un prestito di 200.000 lire: poco
meno di 100.000 euro).
La dimensione dell’azienda, con l’acquisto della rivale Casa Lucca, si allarga no-
tevolmente, e il peso della gestione cade
su Giulio.
La riorganizzazione presenta difficoltà
sia economiche sia psicologiche: l’editore
le illustra in varie lettere, soffermandosi
con angoscia anche sulle problematiche
relative al personale che lavorava da Lucca e ora rischia il posto. Il Maestro
valuta tutto con attenzione, si dimostra
realistico e competente: «L’editore Ricordi deve fare onestamente quello che è
utile allo Stabilimento… Non lavorare
di fantasia, ma essere pratico… Ahimè,
ahimè! m’accorgo che monto in pulpito!
Il difetto dei vecchi!! Scusate!»
Giulio non tralascia di riferire i rapporti
coi i membri della famiglia (a volte tesi).
Il 7 settembre 1888 comunica la morte
del padre Tito. Verdi risponde laconico:
«Tutto finisce mio caro Giulio! Non vi
sono parole che valgano a confortare un
forte dolore! Il tempo ed il lavoro, e voi
ne avete tanto, vi daranno conforto e sollievo!». Di certo Giulio ha molto lavoro,
e ha anche molto tempo davanti a sé. È
possibile che nello scrivere queste parole
Verdi pensasse più al tempo che al
lavoro. Qualche giorno dopo, infatti, in
una lettera al direttore Faccio, manifestando apertamente il suo dolore per la
perdita di Tito, così si esprime: «E così
tutti gli amici e conoscenti della mia gioventù passata a Milano, in questi ultimi
anni, tutti i più intimi, quelli che vedevo
costantemente ogni giorno, tutti o quasi
sono spariti!! Quale desolante vuoto!!».
Con pochi tratti, delinea il dramma
della vecchiaia, della longevità, il dramma
di chi, vivendo a lungo, vede diradarsi la
cerchia delle amicizie e delle persone
care. (Nel 1926 Leoš Janácek darà una veste musicale e teatrale paradossale a
questo tema, nell’opera L’affare Makropulos.)
Tito se ne va, ma restano i giovani,
Giulio e Arrigo. E il Maestro, che ha perso tutti gli amici, quelli anziani, continuerà ancora la sua formidabile carriera.
La perdita dei compagni d’un tempo viene superata nel rapporto con questi
due straordinari giovani amici – Giulio
Ricordi e Arrigo Boito – che stimoleranno ancora la sua immensa, prodigiosa
creatività, spronandolo a comporre,
verso gli ottanta, l’ultimo capolavoro,
tratto anch’esso da Shakespeare, quel gioiello del teatro musicale comico che è
Falstaff.
Giuseppina La Face Bianconi
Università di Bologna
BIBLIOGRAFIA
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J.A. Hepokoski - M. Viale Ferrero, Otello di Giuseppe Verdi, Ricordi, Milano 1990 (facsimile della “disposizione scenica” e del
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S. Baia Curioni, Mercanti dell’Opera. Storie di Casa Ricordi, Il Saggiatore, Milano 2011.
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