Mariano Fresta I DETTI PIACEVOLI DI ANGELO POLIZIANO 1. La storia del testo. Nel 15481, Ludovico Domenichi, un poligrafo non alieno dallo spacciare per sue le opere di altri, pubblicò un Bel libretto, (così lui lo chiama), che un suo amico amanuense gli aveva regalato; questo bel libretto, che conteneva facezie e aneddoti vari, ebbe un grande successo, tanto che il Domenichi lo ristampò due anni dopo. Ma, accusato da Anton Francesco Doni, un altro poligrafo, di aver pubblicato aneddoti di contenuto contrario alla morale cristiana, fu costretto, nel 1564, a farne un’edizione purgata, che è arrivata fino a noi. Nel 1929 il Wesselski, uno studioso tedesco, confrontò una raccolta di facezie, edita dal Papanti nel 1874, con quella del Domenichi, ed accorgendosi che ben 140 facezie uguali si trovavano nelle due antologie cominciò ad indagare il contenuto dei motti e degli aneddoti, per vedere se potesse trovare qualche appiglio per individuarne l'autore; e in effetti i motti e le facezie danno dei suggerimenti perché spesso parlano di personaggi storici di cui si può ricostruire la biografia; addirittura in qualche caso si può ricostruire il momento in cui quella facezia è nata, contenendo esse alcune date ben precise. Una facezia in particolare interessò il Wesselski ed è quella che si trova al numero 319 della sua edizione2: La Ginevra de' Benci, idest la Bencina, giocando noi a un gioco che si danno palmate, et essendo accaduto che Piero di Lorenzo de' Medici, mio discepolo, m'ebbe a dare una palmata, e poi a caso si ripartiva. e andava in camera a scrivere; dimandandolo io dove andasse, rispose ella prontamente: "Dove credete voi che vadi? Va a cancellarvene una di quelle che avete date a lui". In questa facezia tre sono i personaggi: Ginevra de’ Benci, che gli storici ci dicono essere stata una dama assidua della corte dei Medici e loro famigliare; Piero, figlio di Lorenzo il Magnifico, e il maestro di Piero. A raccontare la storiella è proprio quest’ultimo. Si sa che Piero ebbe tre maestri: Martino della Commedia, Bernardo Nicolozzi e, infine, Angelo Poliziano. Il maestro che racconta l’aneddoto è certamente un famigliare di casa Medici: chi potrebbe giocare a palmate con Piero se non una persona di grande confidenza e intimità? Ora, per quanto si sa, né Martino né il Nicolozzi erano così intimi da poter dimorare a lungo in casa Medici e giocare col figlio di Lorenzo. L’unico che poteva avere questi requisiti era il Poliziano. Partendo dunque da questa facezia n. 319 e utilizzandone altre, il Wesselski poté dimostrare, con relativa facilità, che l’autore delle 1 La ricostruzione della storia del testo dei Detti piacevoli viene qui sintetizzata al massimo: non vengono ricordati il Papanti e il Di Francia per le discussioni avvenute tra Ottocento e Novecento, né la scoperta di M. Messina di un ms. molto importante che avrebbe dato al Folena la possibilità di confermare (nel 1953) le tesi del Wesselski. 2 Nell’edizione dello Zanato, per cui cfr. la nota 5, la facezia porta il n. 323. Da questo momento in poi tutte le facezie saranno citate secondo il numero che portano nell’edizione dello Zanato. 2 facezie della raccolta Papanti e quelle pubblicate a suo tempo dal Domenichi era proprio Angelo Poliziano e che la composizione dell’opera si collocava tra il 1477 e il 14793. L’ipotesi di Wesselski è stata confermata poi da Gianfranco Folena e più recentemente da Tiziano Zanato, il quale ha pubblicato due lavori che sgombrano il campo da tutti i dubbi; uno di questi lavori è intitolato "Sull'attribuzione della cronologia dei Detti piacevoli"4 e ricostruisce la storia di quasi tutti gli aneddoti, in maniera molto minuziosa, e la storia dei personaggi che in queste facezie fanno da protagonisti, fissando pure la data di composizione degli aneddoti. L'altro lavoro dello Zanato è l'edizione critica del testo dei Detti piacevoli5, condotta su tutti i codici e le stampe esistenti e su altri manoscritti da lui rintracciati. L'analisi delle facezie, iniziata dal Wesselski, è portata a termine dallo Zanato con una più rigorosa e completa ricostruzione storica che toglie ogni dubbio sull'attribuzione definitiva al Poliziano. Lo Zanato, poi, precisa i diversi momenti della composizione dell’opera, che fu cominciata nel 1477 e abbandonata e ripresa più volte, per essere definitivamente chiusa nel 1482. 2. La tradizione delle facezie e il Poliziano Il termine facetia si trova per la prima volta in Cicerone6, il quale scrive che ci sono due generi di facezie: uno, che lui chiama cavillatio, equivale al nostro “umorismo; l’altro pungente e saltuario (peracutum et breve) che è detto “mordacità” (dicacitas) . Ma già in epoca greca Senofonte aveva composto i Memorabilia di Socrate. E’, comunque, nel Medioevo che le facezie sono largamente presenti in quelle compilazioni che servivano da prontuario a cui attingevano aneddoti, nello stesso tempo esemplificativi e piacevoli, predicatori e scrittori di vite dei santi, nonché lettori laici che vi trovavano un patrimonio concreto di civiltà e di intelligenza, da cui prendere modelli di comportamento e lezioni di vita7. In seguito le facezie vennero innalzate dal Boccaccio al rango di novelle, come si può specialmente vedere nella VI Giornata del Decameron, nella quale la gran parte di esse è costruita sul gusto classico dei memorabilia e si conclude con un motto di spirito. Nel Quattrocento gli imitatori del Boccaccio conservarono il gusto per la frase spiritosa, per il motto pieno di arguzia, ma l’avvento dell’Umanesimo latino fece sì che la facezia prendesse due strade diverse: da un lato essa continuava quella del volgare, assumendo via via tratti popolareschi, come nelle Buffonerie del Gonnella (1478) e nei Motti e facezie del Piovano Arlotto (1485-88); dall’altro, ritornava ai modelli greci e latini che la presentavano come espressione dell’intelligenza di uomini colti e raffinati. Il rappresentante maggiore di quest’indirizzo è certamente Poggio Bracciolini che nel suo Liber facetiarum (1438-52) volle provare l’attitudine del latino a dire cose quotidiane e leggere. Il tentativo riuscì perché, grazie alla somma perizia dell’autore, la lingua latina assunse modi, forme e ritmi narrativi vicini alla lingua parlata fiorentina; ma nella traduzione poggiana quell’ arguzia, che è propria della facezia, risulta in qualche modo umiliata e repressa. 3. Angelo Polizianos Tagebuch (1477-79), zum ersten Male herausgegeben von Albert Wesselski, Jena 1929. Una riproduzione dell'edizione del Wesselski è in A. POLIZIANO, I detti piacevoli, a cura di M. Fresta, Montepulciano 1985. 4. Il saggio si trova in «Cultura neolatina», XLIII (1983), pp. 72-102. 5. A. POLIZIANO, Detti piacevoli, a cura di Tiziano Zanato, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1983. 6 M. T. CICERONE, De oratore, II, 54. 7 Una famosa compilazione rispondente a questa cultura laica è il Novellino. 2 3 Privata dell’originaria freschezza e spontaneità, la facezia, anche dopo il ritorno degli intellettuali all’uso del volgare, può essere istituzionalizzata e teorizzata come una delle risorse indispensabili dell’uomo di corte. E’ quanto fa Baldesar Castiglione nel suo Cortegiano (L. II, 43). La facezia, dunque, era un fatto di costume che interessava quasi tutti gli strati della società, dai popolani fruitori delle Buffonate di Gonnella ai raffinati lettori delle Facezie di Bracciolini; essa si propagava di città in città, da una regione all’altra, trasportata dai discorsi dei numerosi viaggiatori - mercanti, predicatori, pellegrini, vagabondi -, o veicolata attraverso i libri manoscritti e successivamente attraverso quelli stampati nelle prime tipografie. Come si sono diffuse nel tempo e nello spazio le favole e così come, ai tempi nostri, si propagano e diffondono le barzellette, allo stesso modo le facezie circolavano e penetravano in tutti i settori della società, tramandandosi sia oralmente, sia attraverso la scrittura. Che tale circolazione avvenisse si può vedere da un rapido riscontro eseguito sulle raccolte dell’epoca: facezie identiche si trovano in Poliziano, in Bracciolini, nella raccolta del pievano Arlotto, nel De sermone del Pontano, ecc.; alcune, addirittura, tramandate oralmente, sono arrivate fino a noi8. Le facezie, dunque, erano depositate nella memoria collettiva da dove, ogni tanto, qualcuno, mettendole per iscritto e facendole proprie, le trasportava, per dirla con De Saussure, dalla langue alla parole. Così gli aneddoti riacquistavano vigore ed entravano in circolazione in altri ambienti. Anche il Poliziano compie questo trasferimento da quella collettiva alla sua memoria che filtra e sceglie gli aneddoti secondo questi due scopi: esaltare la famiglia dei Medici e raccogliere, da buon filologo, espressioni linguistiche, modi di dire, giochi di parole, motti e proverbi che segnalino, oltre che l’intelligenza del locutore, la sapidità e l’icasticità della lingua. 3. I Detti piacevoli La raccolta polizianea si presenta come una specie di monumento alla famiglia Medici e soprattutto al suo capostipite. Circa una sessantina di facezie, sulle 423 della raccolta, hanno per protagonisti Cosimo, Piero, Lorenzo, Giuliano, Pierino; ve ne sono numerose altre in cui compaiono i loro uomini più fidati. Questi personaggi si muovono in un quadro, un clima che può essere paragonato a quello che, utopisticamente, il Boccaccio aveva delineato nella VI e nella X giornata del Decameron. Ma mentre nell’opera del Boccaccio c’è la rappresentazione di una borghesia mercantile in ascesa, impegnata nella costruzione di una società che avrebbe dovuto avere nell’intelligenza e nella liberalità i suoi tratti fondamentali, nei Detti questa società si è ormai realizzata e consolidata, tanto che si può fare a meno di descriverla, perché a rappresentarla basta fare i ritratti stilizzati dei suoi protagonisti e sintetizzarne lo spirito e la cultura nei motti arguti, nelle espressioni linguistiche lapidarie ed incisive. Questa società dei Detti non è destinata solo alle classi più alte, ma è aperta anche a tutti gli strati del popolo fiorentino. Certo i mercanti, ovvero gli ex-mercanti che ora reggono le sorti di Firenze, sono i protagonisti in assoluto, anche se abitualmente se ne stanno dietro le quinte e mandano sulla scena i loro ministri, i loro intellettuali, i loro diplomatici. Ma quando è il momento anch’essi vengono alla ribalta e chiaramente manifestano quali sono i pilastri ideologici su cui si fonda la società che amministrano: come accade nella facezia 175, nella quale Cosimo afferma che il mercantilismo e la società di cui esso è alla base hanno le loro fondamenta nella fiducia reciproca: 8 E’ il caso della facezia n. 93 che è raccontata in Sicilia come blasone ironico nei confronti degli abitanti di Acireale (Catania). 3 4 ... Il tesoro dei mercatanti è la fede, e quanto più fede ha il mercatante, tanto più è ricco. E’ una fede concreta, che deve produrre quella ricchezza concreta senza la quale anche l’arte e la poesia non possono esistere: Cosimo predetto soleva dire che la casa loro di Cafaggiuolo in Mugello vedeva meglio che quella di Fiesole, perché ciò che quella vedeva era loro, il che di quella di Fiesole non avveniva.(n. 3) Ma concretezza significa pure saper accettare la lezione che viene da parte di chi, privo di beni materiali, ma non di quelli dello spirito e della ragione, fa capire a Cosmo che nel mondo tutto è temporaneo e provvisorio e che le ricchezze vanno e vengono, introducendo così, in un mondo che nelle facezie appare olimpicamente immutabile, quella consapevolezza della fragilità e precarietà delle cose umane, che era una delle note più alte della cultura umanistica: Fu a Cosmo un litterato malvestito il quale dimandato che voleva dire che era sì povero disse essere stato rubato tra via. E dicendo Cosmo: Guardati piuttosto di non avere giocato, rispose: Voi dite il vero che io ho giocato e perduto e voi mi avete vinta la mia parte, come anche a degli altri la loro; mostrando per questo le ricchezze essere un gioco di fortuna. Meravigliatosi di questo Cosmo il rivestì e diedegli danari. (268) Accanto ai mercanti, ci sono i popolani che si possono distinguere in tre gruppi: i portatori dell’arguzia popolare, spesso anonimi (Una vecchietta...; Un nuovo pesce...), il cui rappresentante principale è il Piovano Arlotto; quelli che, elevatisi socialmente, sono riusciti ad entrare nella cerchia dei Medici (per es.: il Biliotti, “molto amico dello stato di Cosmo”, il poeta Matteo Franco, il Pucci); quelli, infine, che pur se hanno raggiunto un’alta collocazione nella scala sociale, sono rimasti privi dell’urbanità e della cultura necessarie all’arte del vivere; per questo essi finiscono per essere mitrati, cioè messi alla gogna, e frustati dalle arguzie degli uomini faceti. Larga parte delle facezie riguarda le relazioni politiche di Firenze con gli altri Stati italiani e con le loro classi dirigenti. A farne le spese sono ora i Milanesi, ora i Riminesi, ora i Veneziani; ma è soprattutto l’inimicizia con Siena che suggerisce le battute più mordaci. Tre aneddoti castigano la boria di Papa Pio II, il pientino Enea Silvio Piccolomini, tra cui questo: Bernardo Gherardi, essendo Gonfaloniere di Giustizia, rispose a Papa Pio il quale voleva, per boria, essere portato dai Signori fiorentini come era stato portato da’ senesi: Santo Padre, meglio è che vi portino questi vostri capitani, ché noi abbiamo i panni troppo lunghi (24). Quattro sono rivolti contro i Senesi, di cui l’ultimo, certamente tra i più feroci, conclude addirittura il bel libretto: Martino Scarfi in Siena, per essere grasso, e’ Sanesi l’uccellavano con dire che portava la valigia dinanzi; egli rispose: In terra di ladri s’usa così (423). 4 5 Né manca l’aspetto osceno, a volte velato e giocato sull’equivoco verbale, a volte scopertamente malizioso; ma qualche volta esso ci appare privo di buon gusto, forse perché, essendo la facezia incentrata sull’icasticità del termine e dell’espressione, viene a mancare quella giocosa atmosfera liberatoria che alleggerisce il tono delle novelle più scabrose del Boccaccio. C’è da dire, tuttavia, che questo tipo di pesante licenziosità era presente in quei raccontini in versi (fabliaux) di origine francese, che erano ampiamente diffusi in Italia in epoca medievale ed umanistica e da cui il Poliziano ha pure attinto qualcosa. La caratteristica più importante ed interessante dei Detti non consiste, tuttavia, nel contenuto delle facezie, che in sostanza riproducono la varietà e molteplicità di aspetti di un’intera società, ma è quella che riguarda i moduli narrativi, lo stile e la lingua del Poliziano. L’attenzione e la curiosità che egli riservava alla cultura popolare, ai canti carnascialeschi, alle barzellette di senso equivoco intonate sui trionfi, alle canzoni di Calendimaggio9 erano dovute, a nostro modesto parere, ad una precisa scelta filologica: la cultura popolare tradizionale gli dava, oltre alla freschezza e la schiettezza della creatività, quella concretezza della parola che andava cercando nei testi dei poeti antichi. Nelle sue mani, però, i motivi popolari, così come i materiali dei poeti greci latini ed italiani diventano strumenti di un gioco letterario raffinato ed aristocratico. Un gioco che può nascere solo se si è lontani dalle faticose vicende di tutti i giorni, se si può godere, come teorizzava Marsilio Ficino, dell’otium, della libertà, cioè, e della comodità necessarie allo studio. Ed il Poliziano concordava, visto che così si esprimeva in uno dei latinucci dettato al suo discepolo Piero: «Mi farei edificare una casetta e quivi mi ridurrei a studiare, et ingegnere’mi di riavere la grazia delle Muse, né muoverei un pie’ di lungi da loro»10. Il Poliziano alla ricerca, dunque, della concretezza della parola; ma questa, si sa, è proteiforme, assume significati diversi a seconda del contesto linguistico e di quello extralinguistico, a seconda di chi la proferisce e di come e quando e dove si proferisce. Basti pensare, ad esempio, al verbo appiccare, che tante volte ricorre nei Detti ed ogni volta con un significato nuovo. E poi la parola può essere scomposta nei suoi fonemi e ricomposta, come nell’anagramma di Sandro Botticelli: Questo vetro, chi ‘l votrà? Vo’ tre e io v’atrò (328) (Questo bicchiere chi lo vuoterà? Voi tre ed io vi aiuterò); essa può anche entrare in gioco con altre parole di suono o senso affine, attraverso il bisticcio, il calembour, la paronomasia, l’equivoco, tutte figure presenti in modo massiccio nei Detti. La ricerca della parola concreta, allora, diventa difficile: bisogna inseguirla per sentieri tortuosi, andare dietro alle tracce della fantasia “sguinzagliata”, ma evitando di smarrire la strada e di ottenere, perciò, prodotti non degni di essere chiamati “poesia”, come si afferma nelle facezie n. 388 e 408. Talora, invece, la parola ha un significato univoco, quello solo: ciò avviene quando la realtà tangibile può essere espressa nell’aneddoto per mezzo di una “traslazione”, di una metafora che la precisa e puntualizza senza permettere che ci siano definizioni alternative. E’ il caso, per es., di quelle facezie in cui si dice che il vino non è vecchio ma rimbambito (n. 8), che lo strabico ha un occhio a scoppietti, l’altro a calcagnini (n. 60), che un cavallo troppo lungo è a due tuorli (279), 9 Questo interesse è testimoniato dalla lettera che il P. scrive a Lorenzo da Acquapendente, mentre accompagnava a Roma Clarice Orsini, moglie del Magnifico, datata 2 Maggio 1488; in essa l’umanista racconta di aver sentito canti di calendimaggio più interessanti di quelli toscani sia per il contenuto che per il canto. La lettera è riportata da I. DEL LUNGO, Prose volgari inedite e poesie latine e greche edite e inedite di A. Poliziano, Firenze 1867, pp. 74-75. 10 Il brano si trova in I. DEL LUNGO, Prose, op. cit., al n. XVII dei Latini. 5 6 che il cieco ti vorrebbe vedere impiccato non appena gli hai fatto l’elemosina (n. 321), ecc. Si tratta quasi sempre di arguzie, di giochi di parole tratti dalla parlata viva dei fiorentini, o coniati dai due spiriti bizzarri della corte medicea, Matteo Franco e Luigi Pulci, poeti con profonde radici nel mondo popolare, inventori briosi di espressioni scultoree e di motti furbeschi. Il passaggio, però, dall’oralità alla scrittura spetta al poeta-filologo, che sa usare, indifferentemente, sia il periodare lungo, esemplato sul giro sintattico del latino classico, come quello della facezia d’apertura: Lorenzo de’ Medici, richiesto di favorire nella elezzione de’ Signori non so chi alquanto sospetto allo stato, ma uomo a cui piaceva el succo della vite, e dicendogli chi gnene parlava: -Tu gli farai fare ciò che vorrai con un bicchiere di vino, - rispose: Che se un altro gnene dessi un fiasco, dove mi troverrei io? (1) sia il periodare popolaresco, basato sull’anacoluto, come quello dell’ultima facezia, poco fa ricordata. Tra questi due estremi si muove il Poliziano, toccando tutti i registri in suo possesso. Ecco dei semplici enunciati: Quello che insaccava nebbia, quello che udiva schiantare la gramigna di là dal mare... Uno che balestrava mosconi... Uno che mangiava massi... (222 e 223); sono forse titoli o frasi iniziali di aneddoti, di favole, di racconti lasciati in sospeso, che hanno un che di surreale che ci ricorda il Prevert di Paroles: Ceux qui pieusement... ceux qui copieusement... ceux qui tricolorent...11. Ma ecco un raccontino compiutamente racchiuso in un unico giro sintattico: Un pazzo solea dare consigli e facevasi dare due o tre braccia di refe e diceva: non t’accostare a’ pazzi quanto è lungo questo refe (n. 241). O quest’altro, che la sapienza narrativa trasforma in una piccola e divertente azione mimica: Un sensale bolognese, quando assaggiava e vini, faceva uno scoppietto con la bocca, inchinando gli occhi e accennando col capo; quando poi gli era detto: O, questo vino mi pare forte, rispondeva: Oh, te l’azzennai ben mi (391). Così, per tutto il bel libretto circolano la lepidezza, l’eleganza, la signorilità del Poliziano, che con una lingua ora schietta e felicemente rapida di scorci, ora colta e raffinata, ci dà l’esatta rappresentazione di uomini e fatti di una grande stagione. (Introduzione a A. Poliziano, I detti piacevoli, a cura di M. Fresta, Ed. del Grifo, Montepulciano 1985) 11J. PREVERT, Tentative de description d’un diner de têtes a Paris-France, in Paroles, Paris, Gallimard 1949, p. 5. 6