Umberto Lollio
A GRANDE
RICHIESTA
TUTTI I MIEI MIGLIORI RACCONTI
FORZA ROMA EDITORE
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A GRANDE RICHIESTA
Tutti i miei racconti migliori
«Misericordia! cos’ha, signor padrone?»
«Niente, niente,» rispose don Abbondio, lasciandosi andar
tutto ansante sul suo seggiolone
I Promessi Sposi - Alessandro Manzoni
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INDICE
MIO FIGLIO ERA FIGLIO...
7
UNA SITUAZIONE
21
L’ADOLESCENTE
30
RAPPORTO SUL PIANETA ACQUA
35
L’OMICIDIO NON È UN GIOCO
42
X-n-WY
55
IL BARLUME, OVVERO STORIA DI UN’AMICIZIA INCREDIBILE
63
IL MIO ANNO PREFERITO
93
OTTOBRE ’72
105
MIO FIGLIO ERA FIGLIO...
8
I
Mio figlio era figlio del suo tempo.
E la nostra era la migliore epoca che l’umanità avesse mai
avuto. Avevamo raggiunto un tale livello di evoluzione fisico-intellettuale e avevamo organizzato una società così perfetta che anche un’eventuale divinità avrebbe provato invidia.
Tutto era iniziato con l’unificazione delle razze e dei popoli
in un’unica, grande “Organizzazione” su scala mondiale, migliaia di anni prima. Ciò era stato possibile grazie allo sviluppo scientifico raggiunto, che permise di accelerare l’evoluzione della nostra specie favorendo la comparsa nel nostro
genoma di geni favorevoli ogni nuova generazione e non nell’arco di decine di migliaia di anni come era stato fino ad allora. Come si intuisce, ciò non significava “scegliere” chi far
nascere secondo un mero e comunque soggettivo criterio morale, estetico o fisico, ma isolare e favorire mutazioni che sarebbero comunque avvenute durante la nostra naturale evoluzione, sebbene in un lasso di tempo così lungo che forse non
avrebbero fatto in tempo a manifestarsi. In pochi secoli, insomma, sapemmo quale era il fine naturale dell'evoluzione:
noi stessi.
In verità fisicamente non eravamo cambiati molto: dal momento in cui la nostra specie aveva cominciato ad evolversi
rapidamente il nostro fisico si era indebolito, eravamo più alti
in media di circa dieci centimetri, praticamente senza più
nessuna differenza razziale di colore o struttura fisica, con
unghie molli ed altre piccole e non importanti differenze
strutturali. Ma un grosso, importante e decisivo cambiamento
si era verificato nella struttura del nostro cervello: l’Uomo
aveva raggiunto la maturità.
La nostra era una società ricca ma senza le beghe delle leggi
economiche, nella quale ognuno si dedicava alle più svariate
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attività creative o scientifiche, mentre dei robot svolgevano i
lavori più umili e soddisfacevano i nostri fabbisogni e piaceri.
Questo cambiamento, questa trasformazione, era stata possibile grazie alla comparsa nel nostro sistema nervoso di una
nuova funzione che i fisiologi avevano denominato “Istinto
Ontogenetico del Sapere”, per la quale, proprio come per
istinto, l’essere umano fin dal primo vagito ripercorreva “ontogeneticamente” le tappe del Sapere, assimilando indelebilmente tutta la scala “filogenetica” della cultura e della scienza che la nostra specie aveva creato e scoperto nella sua storia
vecchia di quasi un milione di anni.
Questo significava che, senza nessun maestro, un bambino
sapeva parlare e leggere alla perfezione la nostra attuale lingua a circa sette mesi di età e cominciava a scrivere e a comporre testi prima di saper camminare, a condizione che gli si
facesse trovare un ambiente culturale adatto, quale quello esistente presso qualunque nucleo familiare. Verso i cinque anni,
poi, il bimbo aveva acquisito conoscenze storico-archeologiche e un grado di curiosità tali che il suo passatempo preferito
era lanciarsi in pseudo-viaggi tramite la TV a 3D; all’età di
sei anni ormai conosceva alla perfezione tutte le lingue morte
anche senza averle mai sentite e ciò gli consentiva di consultare tutto il nostro scibile in lingua originale. A sette anni leggeva e componeva musica per ogni strumento od orchestra: in
questo periodo le personalità cominciavano ad essere ben distinte e i bambini già offrivano alla società le loro performances. Quasi tutta la musica che ascoltavamo era stata composta
da bambini di quell’età. Tra i sei e i sette anni inoltre il bambino completava la sua conoscenza botanica e zoologica e
scopriva il principio biochimico della vita. Molti si appassionavano alla geologia e alla paleontologia, altri invece si dedicavano all'astronomia.
Ma l’età più bella di questo fantastico cammino si aveva verso gli otto anni, tanto che l’ottavo compleanno era celebrato
nelle famiglie in modo speciale: al festeggiato veniva regala10
to un piccolo ma completo laboratorio con il quale egli poteva cominciare il cammino nella conoscenza della Chimica e
della Fisica pura, ed evolvere e completare la preparazione
matematica.
Intanto anche gli altri campi dello scibile venivano seguiti dal
bambino fin verso i dieci anni, come le arti grafiche, l’architettura, la letteratura, la medicina o l’ingegneristica, ma dopo
quell’età i ragazzi, pur continuando nel loro eclettismo, cominciavano a seguire un qualche ramo particolare della Conoscenza, umanistico o scientifico: io, tanto per fare un
esempio, mi ero dedicato all’Ingegneria aerospaziale e, solo
da qualche anno, mi stavo occupando del software di una particolare funzione di bordo delle astronavi che riguardava
l’Idrogeno. Mia moglie aveva scelto il teatro con discreto
successo, sia come attrice che come regista.
Ma torniamo alla mia storia, cioè a mio figlio: dicevo che era
figlio del suo tempo e quindi all’ottavo compleanno gli allestii il laboratorio fisico-chimico che già era stato mio. Pochi
giorni dopo quella data, egli entrò nel mio studio trafelato,
annunciandomi:
«Papà! E=mc2!!»
Mi ricordo che avevo il viso imperlato di sudore, perché stavo lavorando con il microscopio elettronico manipolatore a
non so quale microcircuito. Comunque gli sorrisi bonariamente, meravigliandomi ed inorgogliendomi un poco per
come presto aveva raggiunto quella antica ma basilare tappa
della Fisica. Non ricordo se risposi, ma ricordo perfettamente
ciò che lui disse dopo:
«Ti rendi conto delle enormi possibilità di cui si potrebbe disporre a poter usare tutta l'energia contenuta anche in un solo
sassolino? Ma che dico! In una singola molecola?». Questa
sua riflessione mi lasciò perplesso: mai mi era venuta in mente una cosa simile, perché avevo sempre pensato a quella
formula collegandola alle relative implicazioni sull’utilizzazione dell’energia nucleare, di fissione e di fusione, peraltro
11
ormai da tempo abbandonata. Anche adesso non comprendo
come si possa solo supporre una simile teoria. Ma mio figlio
non solo era figlio del suo tempo, era anche qualcosa di più:
me ne accorsi perché, nonostante l'età, abbandonò ogni altra
branca del Sapere, pur cercando di dissimularlo e si gettò
anima e corpo nello studio della chimica e soprattutto della
fisica. Io ero un po' preoccupato da questa sua anomalia, ma
non mi sarei mai aspettato quello che successe due anni dopo.
II
«Papà, vuoi venire un momento nel mio laboratorio? Ho da
mostrarti una cosa» Lo seguii. «Ecco» continuò una volta entrati «vedi quel liquido?». C'era uno strano contenitore trasparente, con le pareti molto spesse, largo un metro ed alto
non più di venti centimetri, posto sopra una specie di macchinario cubico di cui faceva parte. Dentro, in una cavità sferica
di dieci centimetri di diametro, era contenuto ciò che lui aveva chiamato liquido, completamente trasparente, nel quale si
muoveva casualmente e lentamente un piccolo ovoide luminosissimo.
«Quel liquido» continuò mio figlio «in verità è materia allo
zero assoluto, e ciò non è certo una novità per la nostra tecnologia1. Questa materia è il substrato che mi è servito per poter
trasformare ogni corpo che voglio nel suo contenuto di energia, per di più in maniera biologicamente assimilabile»
Nota di precisazione del ragazzo al padre: «Ora tu sai che per la teoria della
relatività in pratica, massa ed energia sono una in funzione dell'altra, anzi sono
effettivamente un’identità ed una grandezza che non sono statiche come nella
fisica primordiale, in cui m=f/a, ma variano in funzione della velocità e quindi più
questa si avvicina a c (=velocità della luce) più la massa aumenta e con essa il
contenuto di E (=energia). Ma in fin dei conti, a livello molecolare, cos’è la velocità? Non è altro che energia cinetica, che si misura in T (=temperatura). La T
aumenta all'aumentare della velocità delle molecole. E questo vale per tutti gli
stati fisici: anzi, lo stato fisico (solido, liquido e gassoso), è tale solo perché le
molecole sono più o meno veloci: nell’acqua le molecole si muovono più che nel
ghiaccio e meno che nel vapore»
1
12
Rimasi attonito, cercando di intuire i concetti che aveva
espresso, poi ribattei allarmato:
«Ma... quell’ovoide luminoso allora... è energia... A cosa apparteneva? A quanto ammonta?»
In maniera distaccata mi informò:
«Era, anzi è, un cubo di ferro di un grammo di massa inerziale». Poi continuò: «Ti starai chiedendo che effetto ha sugli
organismi se somministrata... Ecco» e mi mostrò una gabbietta di vetro «qui dentro c'è un’Effimera: ieri le ho somministrato una frazione infinitesima di quel cubo di ferro ed è ancora viva. Pensavo poi che sarebbe diventata grandissima,
oppure fortissima. Invece ha accelerato i suoi processi biologici e riparativi ad una velocità impressionante: per questo è
ancora viva. In pratica quindi, usa questo enorme surplus di
energia per restare nelle sue attuali condizioni il più a lungo
possibile. D’altronde ciò, se ci si riflette, rientra nella logica
della biologia degli esseri viventi»
Detto questo catturò l’Effimera con delle pinzette e le strappò
un’ala: almeno sembrò avesse fatto questo, solo che l’ala rimase al suo posto e tra le sue dita era apparsa un’altra ala.
Ovviamente era successo il contrario, ma ad una velocità tale
da confondere le idee. Poi schiacciò tra le dita il povero animaletto, e lo tenne così per qualche minuto: come fosse di
gomma, l’Effimera si materializzò nuovamente appena allentata la presa. La ripose nella gabbietta.
«Ma come è potuto succedere...» mormorai stupefatto.
E lui, pedantemente, mi spiegò:
«Si crea una particolare miscela gassosa contenente tutti gli
elementi della tavola periodica; si cerca di mantenerla per un
millesimo di secondo (quindi un tempuscolo piuttosto lungo)
a dieci milioni di gradi centigradi. Capito dove era finito quel
tuo contenitore magnetico per UHT (ultra-high-temperature)
che avevi perso? Ora cerca di seguirmi: prendi il millesimo di
secondo e dividilo in milionesimi. È ovvio che un milionesimo di millesimo di secondo è un tempuscolo così piccolo da
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avvicinarsi molto al teorico tempuscolo infinitesimo ɛ (épsilon). Questo è quanto sono riuscito a realizzare con l’aiuto
del mio fedele Tommy...»
(Tommy era il suo PC: considerate che fino ad allora la
scienza ufficiale, disponendo di tutt’altro che di Tommy, non
era mai riuscita a raggiungere tali frazioni temporali in una
reazione chimica. E in questo, se ci fosse stato bisogno di ulteriori prove, si poteva intuire che razza di genio fosse mio
figlio: forse era l'effetto di una nuova mutazione, dopo che
per secoli non ne erano più avvenute di favorevoli? Ma sentiamolo concludere).
«Quindi io e Tommy prendiamo questa miscela gassosa, la
portiamo a dieci milioni di gradi centigradi per un millesimo
di secondo e proprio nell’ultimo milionesimo di millesimo di
secondo avviciniamo un qualunque oggetto solido, dal quale
si voglia ricavare energia. Se lo avvicinassimo al milionesimo
di millesimo precedente, si dissolverebbe insieme alla miscela, divenendone parte indistinguibile. Altra condizione necessaria è raffreddare il tutto allo zero assoluto al milionesimo di
millesimo di secondo successivo al contatto: la miscela, che
sta iniziando un processo di fusione nucleare e quindi è diventata materia elementare, si blocca per assenza di energia
cinetica: l’oggetto che ne è venuto a contatto non ce la fa a
trasformarsi in materia elementare, ma sparisce come massa e
rimane come energia pura, quasi “materializzata”: se noi comunque potessimo analizzare quella luce, scopriremmo che
non sono né protoni, né elettroni, né fotoni. Forse sono quanti, ma non sarebbe certo rilevabile1. Comunque, non essendoci materia, in quell’energia non c’è energia cinetica e ciò la
rende assimilabile senza “fonderci” con essa. La stessa temperatura di “zero assoluto” in cui è confinata impedisce che si
possa ritrasformare. Non sono però ancora riuscito a capire
1
In verità, è impossibile che esista energia senza massa. Ma altrimenti, che racconto fantastico sarebbe? (n.d.a.)
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come questi processi avvengano: è solo un caso che le cose
stiano così. Inoltre, come noterai, l’Ovoide Energetico un po’
si muove e questo dimostra l’instabilità della reazione, come
il fatto che probabilmente lo “zero assoluto” non è stato ancora raggiunto, al contrario di quel che ha dimostrato la nostra
scienza»
Guardai affascinato quel ragazzino di dieci anni: altro che
figlio del suo tempo! Altro che genio! Non avrebbe sfigurato
neppure come dio. Allora gli chiesi incantato:
«E come fai a far assimilare quelle “pillole” energetiche ad
un essere vivente...» oltre che incantato ero anche curioso e
forse un po’ presuntuoso, dato che pensavo di conoscere la
risposta: difatti, dentro il recipiente, appeso tra il coperchio e
la superficie della miscela, c’era un aggeggio tipo contagocce
manovrabile dall’esterno. Così, mentre finivo di formulare la
domanda: «...con questo “contagocce”?» provai anche ad
usarlo, spingendolo verso l’Ovoide luminoso, per “aspirarne”
qualche “goccia”. Nell’attimo in cui lo toccai, avvertii una
fortissima scossa, rimanendo intontito per qualche secondo.
III - CONCLUSIONE
«PAZZO! Incredibile pazzo ciaccione!! Troglodita!!!»
Furono le prime parole che sentii dopo l’accaduto, e che stridevano proferite da una voce infantile
«Non è così che si usa!»
Guardai con apprensione al contenitore e con sollievo notai
che l’Ovoide c’era ancora... ma subito notai anche che mancava il “contagocce”...
«Cos’è successo?» gli chiesi allarmato. Ironicamente e con
perfidia, mi spiegò:
«È successo che hai assimilato TUTTO il cubetto di ferro!»
«E l’Ovoide che si vede...» balbettai io.
«È il “contagocce”» aggiunse cinico lui «che poi non era un
contagocce ma un “Trasportatore Temporale di Energia” che
15
attirava quantità infinitesime di energia pura dall’Ovoide e le
trasportava nell’Iperspazio fino all’essere vivente che si voleva infondere, Trasportatore che ho ideato io stesso con mezzi
rudimentali1 » e così dicendo mi fece notare un altro apparecchietto-contagocce simile a quello scomparso, posto sulla
gabbietta dove era rinchiusa l’Effimera. «Ora» continuò «tu
l'hai distrutto, mettendolo in contatto con l’Ovoide e contemporaneamente ne hai assimilato tutta l’energia, una quantità
tale che per scriverla in forma numerica non basterebbe un
elenco telefonico. Potevi diventare anche tu “Energia pura” e
in verità, oltre al contagocce, è disciolto anche il tuo braccio,
che il tuo organismo energizzato ha già ricostruito...» mi
guardai subito il braccio e notai che infatti era nudo e privo
della mia vecchia cicatrice al gomito «...e sarebbe stato meglio come ipotesi...» aggiunse amaramente «...penso infatti
che tu sia diventato irrimediabilmente immortale. Cioè, forse
continuerai ad invecchiare, magari un giorno ogni centomila
anni, ma ciò ti sarà di magra consolazione. E non c’è modo di
neutralizzare l’effetto, proprio per definizione: tu hai in
ognuna delle tue cellule un po’ di quell’energia disciolta e,
anche immergendoti nell’Ovoide, non faresti che peggiorare
la situazione, perché le tue cellule “berrebbero” avidamente
ulteriore energia pura»
«Ma tu riuscirai certamente a trovare l’antidoto! Tu sei un
genio» gli dissi, cercando più di rassicurare me stesso che una
conferma. Mio figlio mi guardò con aria scettica, poi aggiunse voltando le spalle e accingendosi ad uscire dalla stanza:
«Essere un genio non significa poter eseguire magie o miracoli, tant’è che queste non esistono, e solo loro potrebbero
l’impossibile»
1
Non male, eh? (n.d.a.)
16
Tralascio ulteriori particolari di quel lontanissimo giorno, che
capitava pochi mesi prima del mio trentatreesimo compleanno.
In seguito mio figlio divenne mio fratello, poi mio padre, infine mio nonno. Lo stesso ciclo seguirono i miei nipoti e pronipoti. Dopo circa duecento anni persi il conto dei figli e delle famiglie che ebbi, non riuscendo neanche più a rintracciare
la mia famiglia originaria. Mi specializzai in tutte le scienze e
le arti che potevo scoprire. Dopo centomila anni non ero minimamente invecchiato, ma la mia specie cominciò a regredire. Fui Presidente, Imperatore, Re, Capotribù. L’ultima moglie che ebbi era così diversa da me, così regredita e brutta
che non riuscii neppure a farla procreare.
Mi ritrovai alfine solo, su di un mondo deserto e ostile e col
sole che minacciava di esplodere in nova da un millennio all’altro. Non mangiavo e non bevevo da migliaia di anni, anche perché non c’era più cibo né acqua: ma non ne risentivo,
come non m’importava del gelo che stava attanagliando quel
mondo morente.
Decisi di costruirmi un’astronave e di andarmene, altrimenti
avrei rischiato di passare il resto dei miei milioni di anni nel
vuoto, dopo che il sole si fosse trasformato in nova. Per
l’energia che serviva a muovere l’astronave, non c’era problema: ne disponevo comunque in quantità illimitata, poiché
avevo conservato il recipiente con l’Ovoide al quale avevo
nel frattempo riposizionato un nuovo Trasportatore d’energia,
perfezionato anche per usi non biologici.
Cominciai a peregrinare per lo Spazio alla velocità della luce.
È passato, da quel giorno fatidico, più di un milione di anni.
Nel frattempo ho visitato decine di mondi nei quali si erano
sviluppate forme di vita: in alcuni (pochi, per la verità), queste avevano prodotto delle specie intelligenti, ma con civiltà
decisamente primitive. In uno degli ultimi, mi successe un
fatto curioso: fui scambiato per un predicatore locale, certo
Salvatore, forse per la mia altezza o per la mia carnagione
17
chiara e i lunghi capelli biondi che mi distinguevano e mi facevano risaltare rispetto a quel popolo umanoide becero e
primitivo. Comunque fui anche “giustiziato” in sua vece in
modo davvero originale e crudele: mi crocifissero. Feci finta
di morire e me la svignai tre giorni dopo dal sepolcro, quando
si erano calmate le acque, togliendo così quel poveraccio da
una brutta situazione.
Adesso sono proprio solo. Infatti, lo scorso millennio, è morta anche l’Effimera, unico altro essere energizzato oltre me,
con la quale avevo imparato a comunicare, anche se in modo
molto elementare. Dovrei avere (ho in effetti perso il conto
del tempo) ad occhio e croce raggiunto il trentaquattresimo
anno di età reale, anche se fisicamente sono immutato. Sto
tentando alcuni esperimenti: assimilo tutte le sostanze più
carcinogene che conosco. Chissà se, riuscendo a sviluppare
un tumore maligno questo, fornitagli la dovuta energia, non
riesca a sopraffarmi... prima della fine dell’Universo.
FINE (?)
18
Questo racconto è il mio preferito, perché da subito è piaciuto
a tutti e continua a riscuotere un discreto successo (è pubblicato su Wattpad in rete). L’ho scritto ai tempi dei primi anni
universitari, un periodo fecondo anche se purtroppo la maggior parte dei racconti che scrissi sono andati persi. È un racconto di fantascienza per cui non cercate il pelo nell’uovo,
sarà pieno di inesattezze scientifiche! Però l’idea è divertente
e il finale originale.
19
UNA SITUAZIONE
«Cristo! Non mi diverto affatto! Proprio per niente! Che cavolo ci sto a fare io qui. Sono quelle situazioni che ti fanno
incazzare a bestia! Ecco cosa ci si guadagna ad accompagnare i vecchi: loro ti rifilano a qualche stupido figlio dei loro
amici, che è terribilmente diverso da te, e questo ti trascina in
qualche stupida festa e ti abbandona! Che cazzo gli frega a lui
che cazzo faccio io! Lui va con la sua stupida amica puttana e
ti pianta a fare la statua in mezzo al casino e alle luci psichedeliche! M’avesse presentato un cane, quel lurido bastardo!
Dev’essere anche un po’ fascio. E chissà per quanto ne ho
ancora...»
Finì d’un sorso la coca e si mise a guardare gli altri che si
dimenavano. C’erano ragazze e ragazzi sicuramente in pari
numero e tutti si dimenavano e si divertivano. Certamente
erano tutti accoppiati, figurarsi. Doveva essere uno di quei
ritrovi del sabato pomeriggio, dove tutti quelli di un giro si
davano appuntamento in casa di uno. Che cazzo ci faceva un
estraneo. Niente: e questi poi lo ignoravano tranquillamente.
«Ah, i miei amici! Quelli sì!» pensava mentre si scolava
un’altra coca: «Però hanno un bello stereo! Cazzo! I soldi
questi ce li hanno! Marantz... due piatti... il mixer...deve valere un fottio...»
Stava ammirando ora l’apparato delle luci quando una voce
femminile gli chiese: «Ti stai annoiando eh?»
«Beh... sì, un po’»
“E questa chi è” pensò “che sia una come me?” Era un po’
sorpreso, soprattutto per non averla notata prima. Lui notava
tutte le ragazze, era un suo vizio. Qualche volta guardava anche i maschi, soprattutto se erano in coppia con una ragazza,
per vedere se stavano bene, se si miglioravano o meno l’uno
con l’altra. Ma le ragazze le notava tutte, belle o meno: parti-
va dalle gambe e le squadrava fino ai capelli, non si capiva se
per sfacciataggine o ingenuità.
«Sai» continuò lei «anch’io non conosco nessuno. Come te.
Perché tu non conosci nessuno, è un po’ che ti guardo. Ti
guardavo e pensavo: questo o ha litigato con la bimba o è stato trascinato qui come me. Ma poi ho pensato che non avevi
la faccia triste ma scocciata e allora ho capito che non era
perché avevi litigato con la tua ragazza ed eccomi qui»
Le rispose con un “mh” e poi pensò tra sé un po’ colpito: “Ma
sentila, ha pensato che ero scocciato... e se a me non andava
di vedere nessuno? Bella faccia! Però... ha delle belle caviglie. Sì, proprio niente male: anche con i calzini le si indovinano bene...”. Poi tornò a guardare gli altri. Gli scocciava che
lei fosse stata così invadente. Sentiva quasi un complesso
d’inferiorità: pensò che se lui fosse stato al posto suo, sì insomma, se fosse stato lui a notare lei, forse non avrebbe avuto
il coraggio di avvicinarsi. E questo lo faceva sentire quasi
umiliato. Ma non era proprio scocciato... anzi, chissà se quella giornata balorda prendeva una svolta diversa...
Lei pure comunque non lo guardò e non parlò più. Si limitò a
stargli seduto vicino, con le gambe di sghembo, come stanno
le ragazze, ed il mento sui pugni chiusi, e guardava gli altri.
In verità non guardava: pensava a quello strano ragazzo e
pensava che non si era comportato mica bene. Le aveva a malapena rivolto la parola. Che si fosse sbagliata? Sembrava
così spaurito e timido, con quegli occhiali, vestito diverso e
non all’ultima moda, ma con i soliti jeans e maglione, un po’
come lei. Le aveva fatto un misto di tenerezza e curiosità. E
poi era carino. Comunque stettero ancora una decina di minuti senza parlare, sorseggiando le rispettive coche. Si vedeva
però che stavano soltanto cercando un pretesto per ricominciare a parlare. Lui faceva finta di ascoltare la musica, ma in
verità il suo cervello stava turbinosamente cercando un qualche argomento di conversazione. Intanto, furtivamente, la
guardava: era decisamente carina: le gambe finivano dove
22
dovevano finire, anche se al buio si vedeva poco: il seno era
piacevolissimo e le si indovinavano i piccoli capezzoli, mentre il viso era semplicemente angelico, contornato da una cascata di capelli di cui non si capiva il colore. Gli sembrava
anche di aver intravisto delle lentiggini. Certo che doveva
essere giovane... quattordici, quindici... non di più. Che cosa
ci faceva una cosina così giovane lì. Ma lui aveva un debole
per le giovani (oddio, non che fosse vecchio! ma a diciotto
anni ci si sente adulti), e lo attirava specialmente il particolare
dei capezzoli che tiravano la lana... e così, come suo solito e
senza accorgersene, cominciò a fissarla.
Lei pure, comunque, non è che l’avesse dimenticato. Si era
un po’ rintanata sulle sue per il suo comportamento e ora,
semplicemente, gli lasciava l’iniziativa. Se lui l’avesse ancora
ignorata, non avrebbe fatto che togliere le chiappe di lì e andare in veranda al fresco; anzi, questa era quasi quasi una
buona idea: gli avrebbe detto “beh, ciao!” e sarebbe andata a
godersi il fresco e ad aspettare che quella stronza di sua cugina la riportasse a casa invece di continuare a puttaneggiare. E
che lui si tenesse il suo broncio, i suoi occhiali, i blu jeans e
tutte le coche che voleva. Se gli piaceva annoiarsi, che cavolo
ci poteva fare lei. Si girò per salutarlo... e lo vide che la fissava: aveva anche la bocca mezza aperta. Gli mancava solo la
bava e poi era veramente a posto. Lì per lì rimase quasi sconcertata, poi qualcosa le disse di buttarla sul ridere e lo apostrofò:
«Beh? che c'è? che per caso ho le scarpe slacciate?»
Lui diventò rosso come un peperone rosso, ma le luci psichedeliche lo salvarono. Si riprese maledicendosi in silenzio e
schiarendosi la voce, un po’ impacciato, disse:
«No... cioè non lo so... ecco... io veramente stavo pensando
solo ai fatti miei. Mi sto veramente scocciando, e...»
«Beh, scusami!» questa volta era proprio incavolata per il suo
modo di fare «tanto ora me ne devo andare»
23
«No! Aspetta!» questo lui lo urlò quasi e qualcuno si voltò
nonostante il casino. Lei ora era in piedi e lui per un attimo
notò che aveva anche le gambe fatte bene, ma che ora delle
gambe e del resto gli importava di meno: era stata solo la sua
abitudine. In effetti quella ragazza era un appiglio e lui lo
stava perdendo «Aspetta! Non hai capito! Non è che ti volessi
mandar via... è che... che cosa possiamo fare?»
«Vieni fuori un momento dal casino. Vieni a prendere una
boccata d’aria in veranda. Qui si soffoca»
Gli dette la mano per alzarsi: sentì che lui gliela stringeva e si
tirava su in piedi. Sentì anche che aveva una mano da ragazzo
e vide anche che aveva il corpo da ragazzo e che era poco più
alto di lei. Inoltre sembrava non avesse ancora barba. Chissà
quanti anni aveva, si sorprese a pensare. Lui le mormorò un
grazie, poi fece per seguirla in mezzo ai forsennati. In piedi la
musica era più assordante e lui cercava di non perderla seguendole la nuca. Non sapeva un accidente di come era fatta
quella casa e non sapeva dove era la veranda. Inciampò in un
corpo, che come un automa continuò a dimenarsi, cambiando
colore a tempo di musica. Poi raggiunse la veranda. Lo sorprese il fatto che era già buio. Guardò l'orologio e vide che
erano le otto e capì che ormai era vicino il momento di andarsene: non si sentì per niente contento.
La veranda era in mattoni rossi di cotto, poco illuminata, e
dava su un pratino all’inglese. C’erano delle poltrone di vimini, un tavolino e nel punto più in ombra si intravedevano
delle sedie a sdraio. Si guardò intorno per capire dove diavolo
si fosse cacciata, ma non la vedeva. Poi riconobbe un “ehi!” e
la individuò dove erano le sdraio. Vi andò e la trovò distesa
su una sdraio con i piedi sul muretto, che guardava il prato.
Era bello essere fuori dal fumo e dal casino: si cominciava
addirittura a percepire il rumore dei grilli. La luce della luna
(o di un lampione, ma lui preferì pensare che fosse della luna)
la colpiva e le faceva risaltare, come fossero fosforescenti,
solo il maglione e i calzettoni tra gli scarponcini e l’orlo dei
24
pantaloni, perché erano bianchi. Lui fu colpito da quella posizione e gli piacque. Gli piaceva la naturalezza della situazione e sentiva una specie di calore nella pancia, a vampe. Sentiva anche il sesso che si ingrossava, ma decise di ignorarlo.
Sentiva come un impulso di prenderle le caviglie, alzargli le
gambe e mettersele in grembo sedendosi sul muretto di fronte
a lei, per parlarle piano accarezzandola fino alle ginocchia,
poi dolcemente scivolarle tra le gambe fino ad abbracciarla in
ginocchio e ad appoggiare la testa sul suo seno accoccolandosi su quel maglione bianco per sentire il battito del cuore.
Sentiva precisamente questo impulso e si spaventò un poco
perché lui era già innamorato di una ragazza e le altre le
guardava e basta, mai sentiva questi impulsi. Ma lo sentiva, e
questo era tutto. Comunque si sedette impacciato su una sedia
a sdraio vicina cercando di non guardarla
«Bella serata» lei constatò, riflettendo tra sé che era proprio
una bella conversazione, sì, proprio bella. E d’altra parte che
cosa pretendeva, che in un’ora si raccontassero tutta la propria vita? Ogni volta, ogni giorno, qualcosa le cadeva dentro.
C’era stato un tempo che lei riteneva che tutti i ragazzi e le
ragazze si potessero capire con pochi gesti e che bastava
guardarsi in faccia per intuire le varie personalità o scoprire i
problemi che uno aveva. E forse era così, o forse era così
perché c’erano meno esigenze. Ora non avrebbe saputo cosa
dare per scoprire che stava pensando quello, che problemi
aveva, se era felice o no, se e cosa studiava... Dio quante cose
c’erano da chiedergli! Ad un certo punto pensò che se si fosse
alzata e gli avesse dato un bacio subito si sarebbero sciolti.
Ma poi pensò che nel migliore dei casi tutto sarebbe rimasto
uguale ed, anzi, ci sarebbe stato ancor più imbarazzo. E poi
che cavolo di pensieri le venivano in mente! Un bacio non si
dà mica al primo venuto. Per quel che ne sapeva, lui poteva
anche essere uno stronzo, e datogli un dito si sarebbe preso il
braccio... e tutto il resto. Oppure era un frocio... Accennò un
sorriso a questo pensiero e cercò di immaginarsi come com25
portarsi ad una simile eventualità. Le sarebbe davvero dispiaciuto che lui fosse omosessuale e... ancora si sorprese: “Anna” si disse tra sé, “ma che cavolo di pensieri ti vengono in
mente! Stasera hai l'immaginazione un po’ stravolta! Non
avranno mica messo aspirina nella coca!”
Lui pensava che gli sarebbe piaciuto sapere come si chiamava. Non sapeva perché, ma credeva che si chiamasse Laura, o
Elena. Stava per chiederglielo, quando si disse che poi ci
mancava solo che le chiedesse anche quanti anni aveva, che
scuola faceva, dove abitava, insomma tutta la solita sfilza di
domande banali che venivano fatte in questi casi. D’altronde
non poteva mica esordire con “Cosa ne pensi della disputa
ideologica tra Craxi e Berlinguer?”. Stava sorridendo all'idea,
quando sentì una voce:
«Anna! Dove sei!»
«Sono qui!» rispose lei
«Vestiti!» continuò la voce «che è tardi! Si va via!»
«Beh,» disse lei a lui «devo andare. Divertiti. Ciao»
Lui la guardò alzarsi con un senso di impotenza e mormorò:
«Cristo, come siamo scemi. Ma perché!». Lui l’aveva mormorato, ma lei sentì; si voltò, lo guardò a sua volta e gli rispose:
«Non lo so. Ma forse è meglio così. Io con te ho immaginato
tante cose piacevoli, e anche se sembra stupido, sono stata
bene e in fondo mi sembra di averti conosciuto e che mi piaci: ma è solo una mia illusione, e ora è bene che scappi cosicché questa illusione rimanga ancora per qualche ora». E se ne
andò. Lui rimase a bocca aperta e voleva urlarle di rimanere,
voleva urlarle che l’amava, ma poi capì che aveva ragione lei,
che era tutta immaginazione, sì insomma, che era un’illusione. Sorrise, guardò la luna (o il lampione...), chiuse gli occhi
e si abbandonò felice a quell’illusione, poggiando i piedi sul
muretto ed immaginandosi ancora il maglione e i calzettoni
bianchi illuminati.
ESTATE 1979.
26
Questo raccontino l’ho scritto in un momento di romanticismo e di nostalgia per l’adolescenza perduta da poco.
In quel periodo stavo leggendo tutto Hemingway, e forse lo
stile lo ricorda un po’.
27
L’ADOLESCENTE
30
Oramai il momento era giunto. Lo sentiva dentro il proprio
corpo, sentiva di non essere più un bambino: fra poco sarebbe
diventato un Adulto, avrebbe conosciuto altri Adulti, avrebbe
fatto quello che facevano Loro, sarebbe entrato nel Loro
mondo. Fin da piccolissimo, fin da quando aveva preso coscienza di sé, non aveva fatto altro che sentir parlare di questo favoloso momento: fra poco avrebbe lasciato quel mondo
popolato solo di bambini e bambine, lo avrebbe lasciato definitivamente.
Non capiva che cos’era che gli dava questa illusione: aveva
solo visto quello che accadeva ai ragazzi più grandi ed era
certo che ciò stava accadendo anche a lui; qualche tempo
prima, si ricordò, un ragazzo più grande gli aveva confidato
di aver provato delle strane sensazioni verso le ragazze, quasi
voglia di assalirle e gli aveva detto che per questo pensava
che tra non molto gli Adulti lo avrebbero chiamato. Difatti, di
lì a poco, si era aperta la Porta messa in fondo al loro mondo,
e una moltitudine di ragazzi grandi, compreso il ragazzo con
cui aveva parlato, vi si era precipitata tra l’indifferenza degli
altri bambini. Quella volta si era chiesto come mai gli altri
bambini non fossero così curiosi come lui e non avessero tentato di seguire quella moltitudine come invece aveva tentato
di fare lui. Purtroppo allora, giunto vicino alla Porta aperta,
aveva provato una paura indicibile ed era corso indietro.
Non era trascorso molto tempo da quell'episodio, la Porta si
era riaperta solo qualche altra volta, ma sentiva che la prossima lui sarebbe stato chiamato ed aspettava impaziente: già
due ragazze si erano difese dai suoi assalti (effettivamente la
seconda l’aveva importunata più per provare agli Adulti di
essere cresciuto che per desiderio). Si guardò intorno, in cerca di qualcuno dei suoi amici che probabilmente sarebbe partito con lui: ne riconobbe uno e lo raggiunse per confidarsi.
Questi stava mangiando e quando lo vide lo salutò calorosamente. Anch’egli era dell'avviso che la prossima volta gli sa31
rebbe stato concesso di vedere gli Adulti. Si ammirarono entrambi e lodarono vicendevolmente i rispettivi fisici, come
per rassicurarsi tra loro che l’infanzia fosse trascorsa del tutto: i muscoli delle cosce fremevano per la voglia di correre e
il cuore batteva forte nel petto di toraci che ormai avevano la
possanza di quelli adulti.
Mentre erano lì a discutere la Porta si aprì.
Non capì come se ne accorse, sentì solo un desiderio fantastico di correre verso quella Porta e, mentre correva, percepì
visioni di amplessi, di corse, di lotte, di quel mondo che lui
aveva sempre solo immaginato e che finalmente stava per
incontrare. Il cuore gli batteva all’impazzata. Si voltò a guardare per l'ultima volta e con un pizzico di rimpianto la moltitudine di bambini che rimanevano e che si erano fermati per
guardarli andar via, con occhi pieni di invidia. Solo i piccolissimi continuavano a giocare.
Poi si trovò al buio.
Chiamò il suo amico e capì che era davanti a lui. Si ritrovarono in una specie di corridoio, spinti dalla moltitudine degli
altri. Il corridoio era stretto e basso, poco illuminato. Procedevano a fatica, e cominciava a mancare l'aria, quando il corridoio curvò e...
Quello che vide fu allucinante: gli Adulti erano lì, immensi,
molto più di quello che non aveva mai pensato. Si vedeva di
Loro solamente delle enormi gambe: davanti a sé e agli altri
un percorso obbligato; procedette come un automa, poi si
sentì prendere alle caviglie e si ritrovò a testa all'ingiù, ormai
quasi impazzito dal terrore. Anche gli altri ebbero lo stesso
trattamento e tutti insieme furono trascinati in avanti. L’ultima cosa che gli sembrò di percepire fu un gigantesco strano
volto schiacciato, con gli occhi frontali, senza penne (forse il
viso di un Adulto?), poi il collo gli si infilò tra due sbarre,
avvertì un dolore acutissimo e infine più nulla: la cresta gli
divenne paonazza, le ali gli ciondolarono inerti e un rivolo di
sangue gli uscì dal becco semiaperto; entrò in uno strano
32
macchinario assieme a centinaia di altri galletti appesi e ne
uscì spennato e incellofanato.
Nel capannone di allevamento dei pulcini, la “Ferormon Automatic Door” si richiuse con uno scatto1.
FINE
Grant Wood - Adolescence - 1940
I ferormoni sono sostanze simili agli ormoni, però volatili, di cui fanno grande
uso gli invertebrati come gli insetti o i primi vertebrati come i pesci, ma sembra
anche gli esseri più in alto nella scala evoluzionistica, come gli uccelli, i mammiferi e gli stessi primati. Tra le molteplici funzioni attribuite a queste sostanze, vi è
quella di influenzare la vita sessuale.
1
33
Un giorno assistetti ad un documentario televisivo, forse era
la serie “A come Agricoltura”, nel quale veniva descritto un
moderno allevamento di pollame. Si parla di una trentina
d’anni fa. Probabilmente mi stavo preparando un frugale
pranzo e distrattamente guardavo la TV. Il documentario mi
colpì perché chi lo commentava ne parlava in modo positivo
mentre a me pareva la descrizione di un lager. Poco dopo,
mentre leggevo una copia di una rivista, probabilmente
“L’Espresso”, vidi la foto del quadro di Wood “Adolescence”. Fu come se si fosse accesa una lampadina: ritagliai la
foto, scrissi di getto il racconto e... il risultato lo avete appena
letto. Ritengo il quadro parte integrante del racconto, come
fosse parte dello scritto. Quando lo scrivevo, stava nascendo,
o era al mondo da poco, lo scrittore Foer Jonathan S., autore
di “Ogni cosa illuminata” e “Molto forte, incredibilmente vicino”. Tra le sue cose, ha scritto un saggio che si intitola “Se
niente importa” che vi invito a leggere e che parla, in modo
molto più serio, del problema degli allevamenti intensivi.
34
RAPPORTO SUL PIANETA ACQUA
Al Magnifico Ecc.mo
Sovrano e Imperatore
dell’Intero Universo
SEQUOIUS II
IV Pianeta del Sistema Siriano
IMPERO VERDE
OGGETTO: Rapporto sull’esplorazione del III Pianeta
del Sistema Solare
Mi inchino ai Suoi Millenari Rami.
Come Ella stabilì, due secoli siriani or sono, nel II millennio
del Suo Impero, partì un drappello di piante per esplorare il
III pianeta della Stella “SOLE”. Questo drappello si componeva del Capitano Algus Carnosus e del Tenente Rododendrus Arboreus, del Sergente magg. Pinus Maritimus, dei militi Cardus Rasposus e Abetis Major, nonché del sottoscritto
Colonnello Comandante Platanus Secolaris.
Ci accompagnavano in qualità di esperti la biologa Rosa Purpurea, il geologo Lichenis Abbarbicatus e gli Ingegneri Reali
Ananas Succulentus e Palma Altissima. Mio compito è ora
riferirLe i risultati della missione.
Come i Nostri Scienziati avevano scoperto pochi millenni fa
(ricordo che ero cadetto in Accademia), il III Pianeta di Sole
presenta condizioni ideali per lo sviluppo di forme di vita simili alla nostra, poiché è ricoperto dalle acque per 3/4 della
sua superficie. Inoltre, anche le terre emerse sono ricche di
corsi d’acqua e di laghi, e solo poche zone si possono considerare completamente aride: e difatti abbiamo chiamato questo pianeta “Acqua”. Infine, Atmosfera, Temperatura media,
Gravità, cicli stagionali e Humus sono forse più favorevoli
che su Sirius IV: nessuna meraviglia quindi abbiamo mostrato constatando l’abbondanza di vita ivi presente, sia di tipo
acquatico che terrestre.
Del poco che abbiamo sperimentato (siamo rimasti su Acqua
solo 152 anni siriani), le specie incontrate sono molto simili a
quelle presenti sul Nostro Pianeta, sia macroscopicamente
che strutturalmente. Persino i processi biochimici sono praticamente gli stessi, a parte qualche enzima di secondaria importanza, e la clorofilla abbonda in tutte le specie. Sembra poi
che anche la filogenesi abbia seguito un corso simile a quello
avvenuto sul Nostro Pianeta: abbiamo scoperto esseri primitivi unicellulari come batteri e alghe azzurre, altri esseri poco
evoluti come le felciacee e esseri altamente specializzati ed
evoluti, che hanno preso il sopravvento e rappresentano la
maggioranza delle specie che hanno colonizzato il pianeta,
quali ogni tipo di alberi, erbe, cespugli, arbusti e piante acquatiche. C’è una caratteristica di questi esseri però che lascia
a dir poco perplessi: nonostante il loro alto grado di evoluzione, non sembra che abbiano sviluppato un sistema nervoso, neanche rudimentale, e quindi appaiono assolutamente
immobili e insensibili. Ma se questo può già destare profonda
meraviglia, un altro mistero sconcerta profondamente: nonostante la sicura e provata condizione puramente esistenziale e
priva del pur minimo barlume di intelligenza di questi abitanti, il pianeta brulica di strani macchinari complicatissimi, in
parte frutto di elevata tecnologia, soprattutto bioingegneristica, da far apparire i nostri prodotti più sofisticati ridicoli e
antiquati. Questi macchinari sono in grado di fornire cibo e
anidride carbonica in quantità pressoché illimitata: non solo!
per fabbricare queste sostanze, essi utilizzano elementi di
scarto come cadaveri di piante o parte di eccesso delle piante
(chiome arboree troppo folte, erbe, etc.), ma anche loro stessi,
una volta guastati. Da prime impressioni sembra ci siano al36
cune di queste incredibili macchine deputate a “distruggere”
quelle in sovrappiù. Questo fatto ci ha lasciato perplessi, perché non è stato individuato dove questi macchinari vengano
prodotti. Probabilmente c’è un sistema industriale automatizzato che produce un numero programmato di macchine, anche perché il notevole grado di sofisticazione raggiunto presenta come rovescio della medaglia un facile deterioramento,
per cui la durata media di queste macchine è di pochi anni. A
parte ciò, questi aggeggi incredibili devono essere stati concepiti da menti geniali: già ho riferito come essi producano
molto cibo e anidride carbonica; la cosa straordinaria è che
essi non utilizzano per funzionare combustibili, fossili o non,
né energia elettrica, ma (udite!) Ossigeno! Lei è sicuramente
conscio dell’angoscioso problema dell’eliminazione dell’Ossigeno dai nostri pianeti e soprattutto da Sirio IV a causa del
vertiginoso aumento della popolazione negli ultimi millenni.
La maggior parte delle nostre risorse tecnologiche sono state
investite ultimamente in questa questione, e i migliori scienziati hanno fallito o hanno proposto soluzioni insoddisfacenti.
Spinti quindi dalla possibilità di dare un grande contributo
alla soluzione di questa situazione drammatica, abbiamo
esaminato e smontato una di queste macchine meravigliose.
Dopo un’attenta cernita, abbiamo deciso di esaminarne una
abbastanza rappresentativa come numero e sufficientemente
longeva da permettere un qualche esperimento. La macchina
prescelta dura circa 70 anni, ancora poco per capirne sufficientemente il funzionamento, anche perché se si cerca di
smontarle, queste spariscono nel giro di pochi giorni, come
liquefacendosi. È comunque la durata di questi esemplari prescelti tra le più alte; alcune difatti non siamo neppure sicuri
che esistano, poiché sono apparse e scomparse in poche frazioni di anno. La macchina prescelta, è fornita da quattro appendici, due prensili e due deambulatorie, che ne denota la
sua funzione multiuso. La meccanica è banale nella sua sem37
plicità, ma non per questo meno geniale: sotto certi punti di
vista assomiglia alle nostre: vi si trova ad un’estremità una
fessura, difficilissima da vedere per i rapidissimi movimenti
che effettua, dove sembra si introducano gli scarti: un po’
come la “bocchetta” del serbatoio del metano che si trova sulle nostre. Da questa fessura, parte un tubo flessibile che trasforma gli scarti stessi in cibo, per tutti i gusti. Il meccanismo
di trasformazione è solo un’intuizione della nostra biologa
Dr. Purpurea, anche se gli ingegneri Palma e Ananas non sono del tutto d’accordo. Comunque, secondo la Dr. Purpurea,
questo meccanismo non consiste nella mera “aggiunta” di
materie prime al metano, come avviene nelle nostre, perché
gli stessi scarti introdotti li contengono in “nuce”, ma dovrebbe esserci una trasformazione dei prodotti (enzimatica?)
all’interno del tubo, che li depura, e una produzione di metano da parte probabilmente di batteri metaniferi. La Dr. Purpurea suggerisce tra l’altro che questa soluzione era stata prospettata agli Ingegneri Reali dal suo Maestro, Prof. Roseto,
alcuni secoli or sono, e che essi scartarono, sicuramente allora per validi motivi, ma che portarono al suicidio il valente
scienziato. Allora fu scelta invece la soluzione prospettata dal
Prof. Ing. Bao Bab Gigans, suo Illustrissimo cognato, che
comunque sembra abbia risolto solo minimamente i problemi
di eccesso d’Ossigeno e scarsità di Metano che ci affliggono.
Difatti, altra intuizione geniale che hanno avuto gli ignoti
progettisti di queste macchine Solari, è stato l’inserimento di
un sistema a mantice semplicissimo, per cui viene aspirato
ossigeno, utilizzato come carburante per la trasformazione
degli scarti in cibo, producendo ed espellendo anidride carbonica, al contrario delle nostre macchine, che utilizzano il
metano stesso per la fabbricazione del cibo, non producono
anidride carbonica e la quantità di ossigeno bruciata, che doveva essere la soluzione dei nostri problemi, si è rilevata largamente insufficiente. Ma a parte tutto ciò, anche se concettualmente tutto quello che c’era di rivoluzionario è stato det38
to, la cosa che più a stupito noi profani di queste macchine è
la varietà infinita di cibo prodotto, già caldo e con aromi e
spezie che fanno impallidire le nostre cucine più elaborate.
Ve ne è per tutti i gusti, a seconda di quale macchina si scelga: alcune lo producono da cereali, con odorini leggeri e delicati, altre da sostanze altamente proteiche, dai sapori forti e
profumi intensi, altre ancora sono in grado di variare i loro
prodotti a secondo del tipo di materiale che viene introdotto.
Che scorpacciate! Anche nelle acque, a detta dell’Ufficiale
Algus Carnosus che si è occupato di quel settore, esistono
macchinari in grado di produrre cibo senza mai uscire sulla
terra, forse utilizzando l’ossigeno sciolto nell’acqua.
Rimane un quesito: chi le ha progettate e prodotte? Come si
possono essere conservate fino ad ora ho già formulato quale
possa essere l’ipotesi. Riguardo all’ultima domanda non è
facile fornire un’ipotesi convincente: forse un’unica razza,
intelligente ma timida, che al nostro arrivo si è tenuta nascosta o è fuggita in qualche pianeta vicino (Acqua ha tra l’altro
un enorme satellite, quasi un pianeta gemello); oppure sono
frutto di un’antica Civiltà, estinta per cause sconosciute, forse
per una guerra fratricida; o ancora gli attuali abitanti non sono altro che dei vuoti simulacri di una popolazione trasformata da qualche malattia che ne ha distrutto le facoltà intellettive. Possiamo solo dire che abbiamo trovato enormi giacimenti di carbon fossile e petrolio che fanno pensare ad un’estinzione di massa. È certo che per capire il mistero di Acqua vi
sarà bisogno di una lunga serie di viaggi e missioni.
Prostrandomi alle Sue Radici
Comandante
Platanus Secolaris
39
Questo “divertissment”, che fa morire di risate i bambini quando glielo leggo, soprattutto quando descrive i sapori
e i profumi delle “fatte”, l’ho impostato proprio durante una
seduta, sull’unico supporto là disponibile, un rotolo di carta
igienica. Come mai avessi avuto anche una penna con me,
resterà un mistero.
40
L’OMICIDIO NON È UN GIOCO
42
1. Un uomo banale
Si può definire la mediocrità? La banalità può essere un
concetto che prescinde da epoche e civiltà? Un nome, infine,
può condizionare una vita?
Alle cinque e un minuto il signor Rossi si alzò dalla
scrivania e, indossato il soprabito, s’incamminò verso l’uscita. Timbrò il cartellino e si diresse verso la sua vecchia utilitaria parcheggiata nel cortile della banca. Per coprire i cinque
chilometri dalla banca a casa ci metteva dai 10 ai 13 minuti.
Incontrava cinque semafori: il secondo e il terzo erano collegati in modo che se il secondo era verde necessariamente il
terzo sarebbe stato rosso. Solo una volta, un giovedì che per
lui era restato storico, un giovedì estivo di tre anni prima,
c’era stata quella rara coincidenza per cui aveva attraversato
il secondo semaforo nell’attimo in cui era scattato il verde e,
senza rallentare, era arrivato in velocità al terzo che aveva
ancora acceso il giallo. A questa rara evenienza, si era aggiunta la fortuna di trovare gli altri tre semafori tutti verdi.
Quello storico giovedì aveva impiegato nove minuti netti.
Cercò di ripararsi con la vecchia cartella perché si era
messo a piovere intensamente: era la fine dell’inverno ma
ancora non c’erano segni di primavera. Appena entrato, i vetri
della piccola auto si appannarono all’istante. Mise in moto e
accese il riscaldamento, avviandosi verso casa. Giunto al
cancello del cortile, trovò il passo carrabile occupato da
un’altra auto che nel tentativo di uscire dal cortile a marcia
indietro si era incastrata nel paletto del cancello. Il guidatore
stava provando maldestramente a disincagliarsi, peggiorando
la situazione e distruggendo la fiancata. Dopo qualche secondo, il signor Rossi scese sotto la pioggia battente e, impaziente, bussò al finestrino dell’altra auto. Il guidatore, anzi, la
guidatrice abbassò il vetro: lui riconobbe una segretaria del
43
piano superiore, gli sembrava si chiamasse Elena o Eleonora,
con un cognome che finiva in etti, tipo Capetti o Losetti. Era
una donna non più giovane, schiva, ma con due grandi occhi
chiari imploranti e, in quel momento, disperati. S’impietosì e
le chiese se avesse potuto risolverle lui la situazione. Annuendo grata, la donna scivolò sul sedile del passeggero e poi
uscì dall’auto, aprendo un ombrello. Lui si mise al volante e
in pochi secondi liberò l’auto: quando però cercò di uscire, si
accorse che la portiera si era incastrata e non si apriva più.
Uscì anche lui dalla parte del passeggero, pensando che la
moglie sarebbe già stata impaziente. Una volta che ritardò di
pochi minuti, la trovò sbraitante, ché doveva uscire e blà blà
blà. Ma mentre stava risalendo sulla sua utilitaria, la donna
gli si avvicinò e gli sussurrò:
«Mi potrebbe accompagnare lei a casa?». Rimase sorpreso,
cercò di inventarsi una scusa ma poi i suoi occhi lo bloccarono: «Non me la sento di guidare ed abito qui vicino, in via...».
Calcolò che in effetti era una piccola deviazione e poteva farlo. parcheggiò l’auto di lei e la invitò a salire sulla sua. Lei si
sedette rigida, senza guardarlo. Partirono e lui si immerse
nella guida. I tergicristalli faticavano a tenere pulito il parabrezza: all’interno lo stesso era così appannato che colavano
gocce. Alzò il riscaldamento al massimo ma con scarso risultato. Prese un panno dal ripiano mezzo sfondato sotto il cruscotto e asciugò il vetro. Trovò il primo semaforo verde.
Quando giunse al secondo semaforo, si accorse che stava per
verificarsi la rara congiunzione col terzo: l’AVANTI! pedonale lampeggiava e lui passò senza rallentare nel momento in
cui scattava il verde. Sorrise soddisfatto guardando la donna,
che era rimasta impassibile, poi realizzò che non poteva sfruttare quell’occasione. Difatti, cento metri prima del terzo semaforo avrebbe dovuto girare a destra per accompagnarla.
Rallentò bruscamente e scalò in seconda grattando, svoltando
quasi con rabbia.
44
«Ha una guida molto... sicura» commentò lei. Questa osservazione lo rabbonì. Dopo poco si fermò davanti ad un anonimo palazzo che lei gli aveva indicato.
«Grazie. È stato molto gentile». Poi, senza preavviso, quasi
d’istinto, lo baciò in bocca, fugacemente. Arrossì immediatamente e scese correndo sotto la pioggia, dimenticandosi
persino di aprire l’ombrello. Lui rimase per qualche istante
sorpreso. Poi, perplesso, tirò la levetta d’accensione e ripartì
verso casa.
Aprì il portone di casa con quasi quindici minuti di ritardo. Come aveva previsto, la moglie, in ciabatte e scarmigliata, lo investì di lagnanze. Il figlio maggiore, un bambino
grassottello e indolente, senza aspettare che la madre finisse
le sue invettive cominciò ad accusare la sorella di non si sa
quale angheria nei suoi confronti. Forse per la prima volta
nella sua vita, li considerò tutti sotto un’altra luce. Li odiò.
Tutti. Anche la figlia, apparsa nel frattempo, che era identica
al fratello e dal quale si distingueva soltanto per una lunga
treccia nera. Fu quasi sorpreso dell’intensità di quello che
provava. Si sentiva come uscito da una trance, come se qualcuno con un forte schiocco lo avesse risvegliato da un’ipnosi.
Fino ad allora c’era stata indifferenza, forse anche rassegnazione. L’ineluttabilità della sua vita lo aveva sopraffatto.
Aveva poco più di quarant’anni ma si sentiva vecchio. Non
riusciva a distinguere i giorni l’uno dall’altro. L’unica parentesi da qualche anno l’aveva avuta d’estate, quando il resto
della famiglia passava una settimana al mare da un’amica
della moglie e lui restava solo, godendo essenzialmente della
sorpresa che la solitudine gli procurava. Ma anche quell’occasione probabilmente si era persa: difatti aveva saputo per
caso, e non dalla moglie, che c’era stato un tremendo litigio
tra le due amiche.
45
Qualcosa delle sue sensazioni dovette essere percepito
anche dalla moglie e dai figli, perché quasi subito le lamentele cessarono. Lui si tolse il soprabito, posò la borsa e andò nel
suo studiolo, come faceva di solito. Si sedette e l’intensità di
ciò che aveva provato non accennava a diminuire. Ad ondate
lo assaliva, togliendogli quasi il respiro. Chi era quella gente
che aveva invaso la sua casa, la casa dove era nato e che era
stata dei suoi genitori. Come aveva fatto quella donna ad entrare nella sua vita. Ma si maledisse: era stata colpa sua. Ricordò come quindici anni prima l’aveva vista uscire dalla casa dei suoi sogni, quella villetta viareggina che lo assillava
ogni volta che ci passava vicino. Già allora era una donna
sgraziata e quasi asessuata, ma sua coetanea. Seppe che, orfana, viveva con la zia, sorella del padre, proprietaria della
villetta. Il corteggiamento durò pochissimo e nel giro di sei
mesi si sposarono. Fu tutto inutile. Alla morte della zia, dovettero rinunciare all’eredità per il rischio di perdere anche la
sua di casa. Riuscirono a salvare solo alcuni mobili, di nascosto, non ancora inventariati. A questi ricordi una rabbia omicida lo riprese: se avesse potuto li avrebbe uccisi, tutti e tre, e
ne avrebbe goduto. Forse l’episodio accaduto all’uscita dal
lavoro, rompendo per la prima volta un ritmo uguale da anni,
aveva compiuto il miracolo di farlo tornare in sé. E non stava
certo fantasticando sulla scialba segretaria, di cui nemmeno
ricordava bene il volto, ma solo gli occhi. D’altronde non era
certo un fanatico del sesso né pensava di essere stato mai innamorato in vita sua. Eppure quel sentimento d’odio così violento gli dava uno strano piacere, così che indugiava, ci si
crogiolava, cercava di non perderlo. Sentì persino un’iniziale
eccitazione che involontariamente lo sorprese a toccarsi. Sorrise, quindi aprì la cartella e tirò fuori “La Settimana Enigmistica”, insieme ad un lapis 2B ben temperato ed ad una gomma per cancellare. Dispose tutto in ordine sulla scrivania e
aprì la rivista sugli “Incroci Obbligati”. Risolse il cruciverba
in poco più di un quarto d’ora senza nemmeno aver avuto bi46
sogno di usare la gomma. Una volta finito, quasi soprappensiero, lesse il corsivo sotto il cruciverba, anche se sapeva perfettamente cosa c’era scritto: “Destinato ai solutori più che
abili”. Era vero, lui era un solutore più che abile. Risolveva
senza difficoltà tutto ciò che era pubblicato sulla rivista, rebus, crittogrammi, cruciverba, indovinelli, sciarade... Era
giunto il momento di risolvere qualcosa di più complesso e
che gli potesse dare qualche reale vantaggio.
2. La Premeditazione e il Movente
Un delitto. Cos’è un delitto? Per la nostra civiltà il crimine è qualcosa di ben catalogato, misurato, fin dai tempi
dell’antica Roma. Ogni tipo di reato ha una sua punizione,
graduata secondo criteri etici ed obiettivi. Le pene sono
enormemente variabili e ogni caso giudiziario è a sé stante.
La Legge sa bene che tipo di pena somministrare. E il Re dei
reati è sicuramente l’omicidio premeditato. Più è elaborato,
più ha la possibilità di sfuggire alla Giustizia e più la Giustizia s’incazza e non perdona. Ecco il motivo per cui l’omicidio premeditato, anche se non danneggia nessuno al di fuori
della vittima, ottiene sempre il massimo della pena. In Italia
l’ergastolo ma in altre nazioni addirittura la pena capitale.
Certo, anche la rapina a mano armata con morti, oppure le
stragi volontarie possono ottenere la stessa sentenza: eppure
in quei casi è più facile trovare circostanze attenuanti, nonostante per la Società quei delinquenti siano decisamente più
pericolosi. In effetti, chi elabora un piano per uccidere una
persona precisa e solo quella, e ci riesce, ha ottenuto il suo
scopo e probabilmente non lo farà più. Sicuramente al vicino
di casa, che venga arrestato o meno il colpevole, non viene
compromessa la sua sicurezza. Ma queste riflessioni non facevano che eccitare il Signor Rossi, il Signor Nessuno come
si sentiva considerato, a sfidare la sorte. C’era il vantaggio
appunto che gli altri lo consideravano un mediocre, mentre
47
invece era un fallito (e questa è una condizione decisamente
più pericolosa); inoltre agli occhi degli investigatori praticamente non avrebbe avuto movente: per quale motivo avrebbe
dovuto premeditatamente far fuori tutta la famiglia? Che vantaggi economici o altro ne avrebbe conseguito? Questi delitti
si compiono d’istinto, sotto un raptus, non dedicandoci mesi
e mesi di preparazione. Inoltre, quasi sempre si concludono
con il suicidio dell’autore. Lui, invece, era pronto a dedicare
tutto il tempo che ci voleva per portare a termine il suo piano.
Anche anni. L’odio che provava, quello sì forse irrazionale,
invece di portarlo al raptus lo portava freddamente a giocare,
a considerare la premeditazione come un quiz di una rivista
di enigmistica: “Come uccidere moglie e figli e uscirne libero
e felice godendosi il resto della vita”. E non era certo un
enigma facile. Già è complesso premeditare un “delitto perfetto”, figuriamoci tre, possibilmente in contemporanea.
Quello sì che si meritava la dizione “destinato ai solutori più
che abili”. Infine, ma non certo meno importante, che aveva
da perdere? In Italia non è prevista la pena di morte. Anche se
fosse stato scoperto, non avrebbe fatto altro che cambiare tipo
di galera.
La moglie aprì la porta dello studiolo senza alcun preavviso e con tono impersonale lo informò che era pronta la
cena. Questo diritto arbitrario che i suoi familiari avevano di
impedirgli una qualsiasi intimità lo irritò ancor di più. Guardò
la sveglia sulla scrivania: in effetti erano già le otto e mezza.
Era stato più di un’ora a rimuginare. Si alzò svogliatamente e
li raggiunse a tavola. I due bambini avevano ricominciato a
litigare ma lui non se ne accorse neppure. Mangiò in silenzio,
non fece alcun tentativo di conversazione su alcune considerazioni fatte dalla moglie. Poi, si alzò prima del caffè e, con
una banale scusa di lavoro, si chiuse nuovamente nello studiolo.
48
3. Elisa Scarlatti
Elisa Scarlatti, così si chiamava la donna soccorsa il
giorno prima, aveva lasciato sulla sua scrivania un biglietto.
Con una certa curiosità lo lesse:
“Caro Mario - posso chiamarti così, vero? - la tua disponibilità è stata per me come se il sole fosse apparso tra quei
grossi nuvoloni grigi che ieri rattristavano la giornata. Per la
prima volta nella mia vita ho conosciuto un uomo gentile,
disinteressato, che mi ha fatto sentire importante. Non sai
quanto bene mi hai fatto! Mi piacerebbe conoscerti meglio,
sapere qualcosa di più su di te, sulla tua famiglia. Ti prego,
dammi la possibilità di diventare tua amica, non te ne pentirai.
Tua Elisa”
La sua prima reazione fu di fastidio. Il biglietto era patetico, ridicolo. Anche se l’ultima frase conteneva una certa
ambiguità... Comunque prese un foglio bianco e cominciò a
risponderle:
“Gentile Signorina Elisa,
Il Suo biglietto mi ha fatto molto piacere. Purtroppo
come Lei sa bene, sono felicemente sposato e ho due meravigliosi bambini...”
A questo punto però si interruppe di colpo, come folgorato. Accartocciò la lettera e distrattamente la gettò nel cestino. Aveva passato parecchie ore la sera prima nel suo studio a
cercare di abbozzare una linea di condotta, un qualche piano
che prevedesse un alibi plausibile. Era giunto ad una conclusione sulla quale si era arenato: in ogni caso non ci sarebbero
stati altri indiziati che lui, unico sopravvissuto. Non era cre49
dibile infatti inscenare una rapina nella quale miracolosamente sopravviveva solo lui, oppure riuscire ad ucciderli e poi far
credere di essere da un’altra parte. Invece se fosse esistita almeno un’altra persona che potesse avere un movente valido
da giustificare una tale strage. Ma dove trovarla? Loro non
avevano parenti né amici o creditori o debitori. La loro vita
sociale rispecchiava la sua vita lavorativa. Ma un’eventuale
amante disillusa... Doveva sapere di più su questa Elisa.
Andò a trovare il suo capufficio, che aveva fama di
“tombeur de femmes” e si narrava che in banca non se ne fosse fatta scappare una che non fosse men che accettabile. Prese
con sé il biglietto di Elisa e bussò al suo ufficio:
«Giuseppe, ti posso disturbare un secondo?»
«Vieni, vieni avanti!»
Gli raccontò la vicenda del giorno precedente e gli fece vedere il biglietto.
«Bene, bene! Sembra che l’uccellino si sia finalmente svegliato!» commentò sarcasticamente Giuseppe «Io, fossi in te,
Elisa non me la farei scappare. È un po’ lunatica, ma anche
una gran scopatrice. E poi fa certi lavoretti...»
«La conosci bene?» Giuseppe lo guardò con un sorriso da
marpione, che da solo valeva più di una risposta. «È» riprese
il signor Rossi perplesso «che ho paura d’impegnarmi... sai,
la moglie, i figli. Una scopatina me la farei ma possibilmente
senza rischi». Il capufficio si fece serio, poi disse:
«Senti, Elisa è una ragazza molto calda. Se si appassiona ti fa
perdere il capo. Qui se la sono fatta oltre a me almeno altri
due, e non ci sono stati particolari problemi. Stava al gioco.
Tutti e tre siamo sposati e anche lei aveva un convivente da
molti anni. Però devo dire con tutta sincerità che la situazione
è cambiata. Il suo uomo l’ha piantata alcuni mesi fa e lei non
l’ha presa bene. Io farei così: invitala senza impegno qualche
sera, guarda che aria tira e poi agisci. Se hai bisogno di qualche consiglio fammelo sapere. Comunque starei in campana:
un biglietto così a me non l’aveva mai scritto». Il signor Ros50
si ringraziò il suo capufficio per i consigli e tornò alla sua
scrivania. Se qualcuno si fosse preso la briga di scrutargli il
volto l’avrebbe trovato raggiante. Prese carta e penna e rispose a Elisa:
“Mia dolce Elisa, mai avrei sperato che tu mi notassi,
l’insignificante Signor Rossi, figuriamoci che tu addirittura
volessi conoscermi. Da quando mi hai baciato...”
Le scrisse una lettera così appassionata e intrisa di luoghi
comuni che mentre la scriveva ci rideva sopra. Ma tutto filò
come aveva previsto.
4. Sei mesi dopo...
Le urla, i pianti che si sentivano dentro la toilette del
personale della banca, avevano attirato molti impiegati. Soprattutto si sentiva la voce di Elisa Scarlatti, mentre tra una
sua frase urlata e l’altra, il signor Rossi rispondeva quasi sussurrando. Lei urlava frasi tipo “Non puoi farmi questo! Non
dopo tutto quello che c’è stato!” oppure: “Non è vero! Non ti
credo! Non puoi lasciarmi! Non è giusto!” e infine, chiaramente: “Quella stronza! Se potessi l’ammazzerei come una
cagna!”. A quel punto si udì anche il signor Rossi: “Calmati,
tesoro, non è ancora tutto perduto. Vedrai, oggi ne riparleremo e cercherò di convincerla”.
Uscirono dai bagni mentre il resto dell’uditorio si dileguava
facendo finta di niente. Da alcune settimane erano diventati
lo zimbello della banca tra litigi e riappacificazioni. Persino il
Direttore ne era infastidito e temeva per il prestigio della filiale. Ma per il signor Rossi tutto stava andando esattamente
come era nei suoi piani. Erano passati solo sei mesi. Sei mesi
nei quali tutto si era svolto secondo le sue previsioni. Era incredibile come qualunque cosa avesse previsto si era puntualmente verificata. La facilità con la quale era riuscito a farla innamorare. Il divertimento a mentirle, a tenerla sulla corda. Finalmente il frutto era maturo. Contrariamente a quanto
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pensavano di sapere i colleghi e la sua amante, la moglie e i
figli erano all’oscuro completamente della sua relazione adultera. E ovviamente non era vero per niente che la moglie lo
avesse minacciato di impedirgli di rivedere i figli se lui avesse continuato a frequentare “quella donna”. Le aveva promesso che avrebbe lasciato la moglie per andare a vivere con lei,
le aveva fatto credere che la moglie avrebbe capito, che era
una donna intelligente, civile. Ma anche le aveva detto chiaramente che non sapeva immaginare la sua vita lontano dagli
adorati figli. Aveva quindi inventato il ricatto della moglie,
ogni giorno aggiungendo particolari, dando false speranze per
poi toglierle il giorno dopo. Giurandole eterno amore per poi
ritrattare piangendo, pregandola di capire che lui doveva rinunciare al loro amore perché senza i suoi figli si sarebbe ucciso. La stava esasperando e attirarla nelle toilette per rendere
pubblica l’ultima scenata era stato il suo “tocco finale”. Tutti
l’avevano sentita urlare che avrebbe desiderato uccidere sua
moglie. La creazione di un altro indiziato più credibile di lui
stesso era compiuta. Soprattutto se questo fosse a sua volta
morto e non fosse stato in grado di difendersi.
Non restava che terminare il gioco. Aveva definito anche gli ultimi particolari: il giorno precedente le aveva sottratto di nascosto la piccola calibro 7,65 che le aveva regalato
qualche mese prima, con la scusa che, vivendo sola, potesse
esserle utile. Il mattino successivo lei sarebbe stata libera,
perché aveva un appuntamento con il ginecologo, mentre dopo l’una, come al solito, tutta la sua famiglia era a casa. Non
doveva far altro che chiamarla e dirle che l’avrebbe aspettata
il giorno dopo con la moglie a casa sua durante la pausa
pranzo. Lui sarebbe stato in strada e insieme sarebbero saliti
al suo appartamento. Una volta entrati l’avrebbe uccisa usando la sua pistola, con un colpo a bruciapelo alla tempia e poi,
all’apparizione della moglie e dei figli avrebbe sparato anche
a loro. Subito dopo avrebbe inscenato un omicidio-suicidio e
sarebbe tornato in banca. Ai colleghi, prima della pausa pran52
zo, avrebbe detto che sarebbe andato a mangiarsi un panino
nel parco di fronte.
Arrivò il giorno fatidico. Elisa accettò senza sospetti
tutto quello che lui le disse. La illuse nuovamente dicendole
che la moglie aveva finalmente capito e non l’avrebbe ricattato con la storia dei figli. La poveretta al telefono era raggiante. Quella mattina, come ulteriore precauzione, aveva lasciato
l’auto dal meccanico per un tagliando e si era fatto prestare
un veicolo sostitutivo, tra l’altro una piccola utilitaria identica
alla sua ma di colore diverso. Riteneva giustamente che così
nessuno avrebbe potuto notare la sua auto nei pressi di casa
all’ora del delitto. Uscì gongolando e eccitato dalla banca all’una esatta. Passò il primo semaforo con il verde. Arrivato al
secondo semaforo, notò con soddisfazione che anche la sorte
gli era favorevole. L’AVANTI! stava lampeggiando e lui accelerò sorridendo passando nell’attimo in cui scattava il verde
e già adocchiando il prossimo semaforo ancora verde. Contemporaneamente, però, il conducente di un grosso furgone
proveniente da sinistra, vedendo scattare il giallo accelerò a
sua volta passando il semaforo nell’attimo in cui si accendeva
il rosso. L’urto fu violentissimo, essendo tutti e due i mezzi in
accelerazione. La piccola utilitaria fu scaraventata contro il
palo di un lampione, il motore schizzò fuori dal cofano posteriore e s’infilò dentro l’abitacolo di una grossa berlina parcheggiata venti metri prima dell’incrocio. Dopo pochi attimi,
la piccola auto prese fuoco. Anche il conducente del furgone
fu scaraventato fuori attraverso il parabrezza e si schiantò
contro un’auto che si era appena fermata di fronte, entrando
nell’abitacolo attraverso il parabrezza. Solo a tarda sera riuscirono a capire chi era quel cadavere carbonizzato. Nessuno, invece, si accorse della piccola pistola quasi fusa sul pavimento accartocciato dell’utilitaria.
FINE
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Ecco un gialletto. Non è un genere nel quale riesca
molto e in fin dei conti il racconto di giallo ha poco. Quello
che però secondo me rende il racconto interessante è il tratto
psicologico del protagonista, la sua rabbia verso il fallimento
della sua vita. Si sente defraudato, superiore intellettualmente
all’umanità che lo circonda, ingiustamente relegato ad un
ruolo comprimario dalla vita. La vicenda è senza tempo, anche se vagamente si potrebbe collocare negli anni settanta.
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X-n-WY
Il DIP (Dispositivo Integrato Personalizzato) l’avvertì: «È
presente ad una distanza max. di 20 metri un X-300-WY.
Vuoi contattarlo?». Un brivido le percorse la schiena. Un X300... Ne aveva sentito parlare dalle amiche, aveva visto tutti
gli spot che lo riguardavano. Sì, doveva contattarlo. Doveva
assolutamente vederlo dal vivo. Si morse le labbra e si guardò
intorno. Riguardò il messaggio sul display del suo vecchio X200-WY. Il proprietario dell’altro X era lì intorno e anche lui
aveva sicuramente ricevuto un messaggio analogo. Tutti gli
apparecchi della serie X si riconoscevano. Aspettò, fremendo.
Era uso dare comunque un segnale di ricevuto, magari anonimamente. La sicurezza che ciò avvenisse però non ce
l’aveva e se il proprietario si allontanava senza rispondere
avrebbe perso questa occasione unica. Decise quindi di prendere l’iniziativa. Riguardò il piccolo schermo per accertarsi
che il messaggio ci fosse ancora e poi dettò al suo DIP:
«Ciao. Mi piacerebbe vedere il tuo nuovo X-300. Se sei d’accordo, manda il segnale di riconoscimento. Alla fine del messaggio partirà il mio». Guardò il messaggio dettato, poi si fece coraggio e ordinò: «Invia!». Dopo pochi secondi l’apparecchio cominciò ad emettere il classico bip-bip che aumentava d’intensità man mano che si avvicinava all’altro DIP.
Scoprì subito il proprietario, un ragazzo della sua età magro,
con la faccia simpatica e gli occhi sinceri, sorridente. Il Centro Incontri quel sabato pomeriggio brulicava di persone, famigliole, coppie di anziani. I pannelli pubblicitari insistevano
con l’immagine del modello X-300-WY, ma lei sapeva che
ben pochi avevano già potuto permetterselo. Lei era l’unica
del suo gruppo ad essere riuscita ad acquistare un DIP della
serie X, già tre mesi prima. Le sue amiche avevano tutti vecchi modelli di sei, otto mesi fa e non riusciva a capire come
potessero continuare il loro tran-tran senza cambiare i loro
apparecchi. Finché non aveva acquistato il suo, lei non riusciva a dormire, aveva paura di perdere occasioni importanti, di rimanere emarginata. Aveva già vent’anni e ancora non
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era riuscita ad uscire dalla sua Unità Territoriale. Ed era fortunata perché, lavorando nella Ditta che produceva i DIP della serie X, poteva avere delle piccole facilitazioni al loro acquisto. Era convinta che solo il possesso di quegli apparecchi
dava la possibilità di uscire dall’Unità Territoriale d’appartenenza, grazie ad eventuali contatti fortunati. Quel pomeriggio
però rimase delusa: conosceva quel ragazzo, anche se solo di
vista, e sapeva che anche lui abitava nella stessa Unità. Lui,
d’altronde, non si aspettava certo un incontro importante, sapendo quale modello lo aveva contattato. Fece un sorriso di
circostanza e la salutò.
«Posso vederlo?» gli domandò.
«Eccolo» e le mostrò il suo nuovissimo X-300. A prima vista
sembrava uguale al suo ma il ragazzo la prevenne: «Pesa 1
grammo meno del tuo ed è ben 5 micron più sottile. Inoltre
mi hanno assicurato che la batteria dura almeno 30 secondi di
più...». 30 secondi! Incredibile. Lei cominciò ad invidiarlo e
guardava l’X-300 con avidità. «Sai che non posso fartelo toccare perché riconosce solo le mie impronte»
«Ti è costato molto?»
«Puoi immaginarlo...»
«Beh, grazie»
«Ciao»
«Ciao». Il ragazzo scomparve tra la folla e con lui scomparve
anche l’avviso sul display. Da quel momento i suoi pensieri
non furono altro che per l’X-300-WY. Doveva averlo. A tutti
i costi. Sentiva una specie d’angoscia allo stomaco che le diceva che se entro poco non fosse riuscita a comprarlo, sarebbe crollata la sua vita, le sue speranze. Però costava, lo sapeva, costava troppo. E doveva ancora finire di pagare quel maledetto X-200! Guardò l’ora nei numerosi schermi del Centro
e capì che per quel giorno non poteva fare più nulla. E il
giorno dopo era domenica. L’angoscia l’attanagliò.
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Come passò il giorno festivo lo ricordò appena. Non finiva
mai. Spilluzzicò qualcosa a pranzo e a cena. Nessuno venne a
trovarla e l’apparecchio rimase silenzioso. Lei lo guardò con
odio. Era sicura che se avesse avuto un X-300-WY la domenica sarebbe stata certamente diversa. Il suo micromonolocale doppio spazio con servizi a scomparsa le sembrava addirittura troppo grande. Pensò a quanto avrebbe risparmiato se
l’avesse cambiato con uno a spazio singolo. Fece e rifece
conti su conti per vedere se poteva permettersi il nuovo X300-WY, poi sconsolata si sdraiò ed entrò in sonni agitati.
Il lunedì arrivò al lavoro stanchissima. Interrogò il Computer
Capo per chiedere un’ora di permesso, che le fu accordata al
prezzo di 10 centesimi di titolo. Erano tanti, poiché aveva
richiesto negli ultimi due anni già tre permessi, e ogni permesso in più ne aumentava la trattenuta di un centesimo l’ora.
Inoltre aveva anche avuto ben due giorni di malattia e altri
due di riposo obbligatorio e il prossimo stipendio sarebbe stato di quasi un titolo in meno. Pazienza. Le fu accordato un
permesso di un’ora a partire dalle 11:00. Appena apparve il
segnale delle 11:00, schizzò al quinto piano dove si trovava il
Computer Economo. Si sedette e lo interrogò: la situazione
non era affatto rosea. Quel mese avrebbe avuto uno stipendio
di 14,27 titoli. Di questi le sarebbero rimasti solo 5 titoli, il
minimo ritenuto necessario per la sopravvivenza. Il resto andava per l’affitto e soprattutto per le rate dell’X-200-WY: ben
7 titoli, 42 centesimi e 7 millesimi. E questo per altri 10 anni.
E fortuna che lavorava per la loro Ditta, così che gli interessi
applicati alle rate invece che del 42% erano solo del 41,54%.
Chiese al Computer se poteva permettersi l’acquisto di un X300-WY. il Computer elaborò i dati per alcuni secondi, poi
apparve una striscia rossa intermittente con scritto in nero:
‘IMPOSSIBILE’. Sapeva che il Computer era programmato
prevedendo per lei un tempo massimo di impiego di 10 anni,
per cui aveva previsto la risposta. Infatti, la maggior parte
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degli impiegati della Ditta, tra cui lei, venivano assunti all’età
di 15 anni e si prevedeva che lavorassero al massimo per 15
anni. Poi di regola ricevevano offerte di impieghi più pesanti
ma più redditizi e si licenziavano. Solo pochi continuavano
per quello stipendio e chiedevano la conferma. Lei ipotizzò
altri dieci anni di impiego e riformulò la domanda, questa
volta speranzosa, ma di nuovo comparve la scritta ‘IMPOSSIBILE’. Chiese quanto tempo doveva rimanere impiegata
per poter avere il prestito. Il Computer dopo pochi secondi
indicò:
«50 anni, 3 mesi, 14 giorni, 7 ore, 32 minuti, 15 secondi.
Vuole confermare?». Guardò l’orologio. Erano le 11:24.
Chiese:
«Se dovessi licenziarmi prima di quella scadenza, quanto mi
costerebbe?». Il Computer rispose:
«L’intero prezzo del modello X-300-WY più gli stipendi corrisposti fino ad allora maggiorati del 50%. Vuole confermare?». Le 11:31. Che doveva fare? Sapeva di avere un apparecchio che non le serviva più a nulla ed inoltre lo stava pagando una fortuna. Le condizioni erano onerose, però forse
con l’apparecchio nuovo la Grande Occasione sarebbe finalmente arrivata. Sempre tramite il Computer Economo cambiò
il suo micromonolocale con un altro a servizio singolo: risparmiò quasi un anno di ferma. E di nuovo:
«Vuole confermare?». L’orologio pulsava le 11:45. Tutto le
girava intorno, poi come un automa sussurrò:
«Sì». Sullo schermo del Computer apparve:
«Parola non conosciuta. Prego rispondere con voce chiara Sì
o No. Vuole confermare?». Le 11:53. Drizzò la testa, si schiarì la voce e pronunciò chiaramente:
«Sì!». Lo schermo si riempi di numeri per qualche secondo
poi apparve il messaggio:
«Ritirare il buono necessario all’acquisto del modello X-300WY dall’apposita fessura». Lei guardò in basso, dove tre mesi prima aveva ritirato il buono per l’X-200-WY ed eccolo.
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Ce l’aveva fatta! E anche in tempo. Infatti erano le 11:56.
Tornò di corsa al suo piano, si sedette al suo posto ed attivò la
presenza alle 11:59:32. Le avrebbero ritirato solo 10 centesimi.
Mezz’ora dopo la fine del turno era al piano terra, allo spaccio per i dipendenti. Arrivò trionfante al banco e mostrò il
buono: solo allora si avvide che il commesso era lo stesso
ragazzo proprietario dell’X-300-WY incontrato il sabato pomeriggio al Centro del Territorio.
«Vedo che non hai saputo resistere...»
«Eh, già. Che dici, ho fatto male?»
«Stai scherzando. Vedrai. Ti cambierà la vita. Lo sai che i
messaggi ora sono personalizzati?»
«Fantastico!»
«Mi raccomando, tienilo sotto carica la prima volta almeno
per due giorni. Poi accendilo e toccalo. Da quel momento sarà solo tuo»
«Lo so, come feci per l’X-200-WY»
«A proposito: dammelo, tanto ora non ti servirà più, e riconoscendo solo le tue impronte, una volta attivato l’altro ti diventa inutile: infatti sai che è proibito possederne due»
«Eccolo. Te lo do volentieri». Il commesso lo prese e lo tagliò in due, come una carta di credito, gettandolo nella spazzatura. Poi, in modo cerimonioso, le consegnò la confezione
dove campeggiava la scritta ‘X-300-WY’ e le disse:
«Benvenuta nell’esclusivo club dei possessori dell’X-300!».
Lei uscì dallo spaccio aziendale raggiante. Aveva dimenticato
tutte le angosce, i sacrifici, gli infiniti anni che avrebbe passato alla Ditta. Dopo due giorni lo attivò e aspettò impaziente il
sabato pomeriggio. Infine il grande momento arrivò. Alle
15:00 in punto, appena aprì il Centro Incontri del suo Territorio, lei fu tra le prime ad entrare. Girava tenendo d’occhio
solo il display e... finalmente apparve il messaggio di avviso,
davvero personalizzato:
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«Ciao! sai che qui vicino, massimo a 20 metri, c’è un X-400WY? Vuoi contattarlo?»
FINE
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Quanti di voi stanno aspettando l’iPhone 5? Meditate,
gente, meditate
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IL BARLUME, OVVERO STORIA DI
UN’AMICIZIA INCREDIBILE
Sabato 26 febbraio 1966 - Martedì 2 agosto 1966
Il Barlume (Nino)
«C’è qualcosa che non torna» si disse «Io mi chiamo Nino,
ho undici anni, dodici fra cinque mesi, a luglio. Non supero
i quaranta chili e il metro e mezzo, eppure mi sento come un
vecchio quarantenne calvo e grasso. È vero che ho la mente
confusa, quasi solo un barlume di coscienza e non ricordo
bene come mai. L’ultima cosa che ricordo è l’allenamento
che ho fatto con la squadra e che domani pomeriggio andrò
all’Olimpico con papà a vedere il derby. Per l’occasione lui
mi ha regalato il completo della Roma con il numero sette
sulla maglia, lo stesso che ho io in squadra. Insieme a queste poche cose però ho anche vivida una visione da incubo:
mi stavo portando in braccio morto. So che è impossibile:
ma la sensazione era proprio questa. Nell’incubo io stesso
portavo il mio corpo esanime in braccio per seppellirlo sotto
un grosso pino...»
«Sono nel buio più totale, ma insieme a me avverto la presenza di un altro. Una presenza immanente e molto più forte
di me, che ha la completa padronanza del mio corpo. Questa
presenza non mi permette alcuna volontà. Non posso vedere, percepire o muovermi. È come se stessi in un nulla e sono terrorizzato. Se provo a ricordare qualcosa di più mi accorgo di invadere parte di quest’altra presenza e la cosa mi
spaventa e mi ritraggo. A volte l’altra presenza mi lascia
inaspettatamente un po’ di spazio e avverto alcune sensazioni. Come quella di avere un vecchio corpo imbolsito.
Oppure riesco a percepire qualche cosa dall’altra presenza.
Desideri, pensieri, ricordi assolutamente estranei. Adesso
l’altra presenza si sta ritraendo: provo a riprendere il controllo. Ecco: riesco ad aprire un occhio. Sono in una stanza
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sconosciuta, dentro ad un letto matrimoniale e vicino a me
dorme una donna che russa. La stanza è praticamente al
buio... L’altro si sta riprendendo velocemente ed io mi ritraggo nuovamente e abbandono il controllo. Sono confuso
e spaventato. Non so cosa fare. È come essere contornati da
una nebbia fittissima, non solo esteriore ma anche interiore.
Non posso chiedere aiuto. Non posso neppure sfogare la
mia disperazione. L’unica certezza che ancora mi dà un minimo di forza per non soccombere completamente è quella
della mia identità. Ma la coscienza dell’altro è fortissima e
agisce ignorandomi completamente. Inoltre ho la sensazione che non sarebbe una buona cosa che l’altro mi “sentisse”.
Devo approfittare dei momenti in cui per stanchezza lascia
un po’ di campo libero per capirci qualcosa...»
«È passato del tempo. Non so quanto, ma direi abbastanza.
Le cose che sto scoprendo via via sono sconvolgenti. Ho
capito che il mio corpo è cambiato. O forse non esiste più.
Ora sono davvero vecchio ma è come se non fossi io. Non
mi riconosco in nulla. Inoltre ho capito che siamo veramente durante il mio dodicesimo anno. Cioè, non sono passati
trenta e più anni. Il poco di realtà che l’altro mi concede di
percepire è lo stesso di quel poco che riesco a ricordare.
Qualche momento fa, l’altro si è ritirato per un po’, come
succede quando si addormenta. Ho aperto gli occhi (ogni
volta che lui si ritira è l’unica cosa che riesco a fare) e ho
visto che ero seduto al volante di un’auto in sosta, una Giulia, e che eravamo sicuramente a Roma anche se in un quartiere che non conosco. Le auto che passavano erano le stesse che vedo tutti i giorni. Davanti c’era un cartellone pubblicitario comunissimo, quello della benzina Supercortemaggiore, con il cane a sei zampe. Poi ho sentito una donna
che chiamava -Mario!-. L’altro s’è svegliato (ormai posso
dire che è così) e io sono tornato nel mio rifugio dove non
percepisco più nulla, e che ho chiamato Limbo. Però ho im65
parato a non essere completamente all’oscuro. Riesco a
sfiorare le sensazioni che prova l’altro per cercare di capire.
Quando si lascia andare, oppure quando è molto impegnato
a fare qualcosa, riesco anch’io a partecipare senza che se ne
accorga. Ma se provo a forzare, a farmi sentire, l’altro mi
invade fino quasi ad annientarmi. Anche se la sua è una reazione inconscia. L’altro non sa che ci sono. Oppure semplicemente non fa caso a me...»
«Comincio a rendermi conto di tante cose. Devono essere
passati alcuni mesi. Infatti fa caldo. Probabilmente siamo in
piena estate. Ormai dovrei aver compiuto dodici anni. Il mio
ospite si chiama effettivamente Mario e sono sicuro che il
corpo che, ora lo posso dire, coabitiamo, è il suo. Io sono un
intruso. Come ci sono arrivato, non lo so. Come non so se
sono esistito o se esisto ancora da qualche altra parte, o in
qualche altra dimensione. Certamente non conosco quest’uomo né le persone che lui frequenta. Non conosco questa parte di città e non ho più visto il mio quartiere. In tutto
questo tempo, infatti, non siamo mai capitati dalle mie parti,
al quartiere Nomentano. Ho conquistato una zona della sua
mente che lui non sfrutta mai, così sono riuscito a ricostruire parte dei miei ricordi. Ho scoperto infatti che andando
verso zone del cervello che lui non usa o usa pochissimo (e
ne ha tante), riesco ad impadronirmene e a sfruttarle per ricostruirmi. Adesso ricordo distintamente i miei genitori, la
mia sorellina Anna, la mia bella casa, la mia classe, il mio
amico del cuore, i miei giocattoli... Insomma, tutto quello
che fa (o faceva?) parte del mio mondo. Chissà se esiste ancora, se io esisto ancora, o addirittura se è mai esistito quel
mondo. Se non sono che un desiderio inconscio di quest’individuo. Ho tanta tristezza e melanconia. Ma devo stare attento: quando sono molto giù e la disperazione che sento è
fortissima, lui percepisce qualcosa. Fortunatamente però
crede sia un suo stato d’animo. A volte, in questi casi, si
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ubriaca. In quei momenti io divento padrone assoluto della
sua mente, anche se purtroppo non riesco a comandarne il
corpo. Così sono riuscito anche a conoscere di più la sua
vita. E non mi piace per nulla. Quest’uomo mi fa paura. È
cattivo con la moglie, che picchia spesso. Litiga con tutti.
Una volta ha preso a pugni un altro e mentre lo faceva
un’onda di piacere proveniente da lui mi ha sfiorato. È una
specie di mostro. Non ha un lavoro fisso: vive di furti che
compie con dei suoi pari. Ma ho capito anche che ha dei
soldi nascosti, avuti in modo certamente poco lecito, con cui
ha comprato l’auto, di cui va molto fiero e che guida in
modo a dir poco spericolato...»
Martedì 2 agosto 1966 - mercoledì 3 agosto 1966
Roberto
I quattro ragazzini uscirono dal cinema che era quasi ora di
cena. Erano eccitati e divertiti.
«Hai visto che fico quel “Biondo”?»
«E com’è zozzone “il Brutto”! È fortissimo!»
«Anche Lee Van Cleef, però, è forte! È cattivissimo!»
«A Robbè, te nun dichi gnente?»
«Sì, sono d’accordo ragazzi. Però ora devo andare a casa. È
tardi, fra meno di un quarto d’ora torna mio padre e andiamo a cena»
«Anvedi che palle che sei!»
«Lascialo stà, ha raggione. Anch’io devo annà a casa. Senti,
Robbè, ci vediamo domani? Forse annamo a Ostia coi miei»
«No, Maurizio, da domani mio padre è in ferie e partiamo
per la Val d’Aosta per due settimane. Prima però ci fermiamo a Torino dai nonni. Torniamo dopo ferragosto»
«Ah, ggià che te sei torinese e juventino! Ecco perché sei
così fregnone!»
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«La volete smette de rompergli le palle? A Robbè dijelo te
che nun è vero che sei fregnone!»
«Lascia stare, Maurizio, lo sai che mi sento romano. Non ho
mai vissuto a Torino. E del calcio non è che mi interessi più
di tanto. È più una tradizione familiare che tifo vero. Comunque ragazzi, davvero, mi piacerebbe restare ancora un
po’ con voi, ma proprio non posso. Ci rivediamo dopo ferragosto! Ciao, eh?»
«Ciao Robbè. Divertiti. Portece quarche stella alpina!»
Roberto inforcò la sua Atala rossa n. 24 tre marce con il
manubrio stretto sportivo, a cui aveva applicato ogni sorta
di accessorio: le frecce a pila, il tachimetro, gli specchietti,
le strisce di plastica colorate che ciondolavano alle estremità del manubrio, così che gli sembrava di cavalcare Napoleone, il cavallo di Capitan Miki, invece di una bicicletta, e
mentre il tramonto si era già trasformato in crepuscolo, attaccò la dinamo e partì verso casa. Abitava a pochi isolati
dal cinema, meno di due chilometri. Il fruscio della dinamo
gli teneva compagnia e in quel momento si sentiva bene,
eccitato dalla vacanza che lo aspettava, divertito dal film
appena visto a cui ripensava, soprattutto dalla scena del
“triello”. Quando la Giulia lo bloccò contro il marciapiede
la prima reazione fu di sorpresa e quasi si indignò per la
maleducazione del guidatore. Poi tutto avvenne velocemente, come in un sogno. Un uomo trasandato, che sembrava
vecchio, calvo e in canottiera scese dal lato di guida, gli si
gettò addosso e, sollevandolo letteralmente dalla bici, aprì
lo sportello posteriore destro e lo scaraventò dentro l’auto,
entrando a sua volta. Gli premette sul viso con una mano un
fazzoletto che aveva un’odore molto forte e tutto svanì.
I ricordi da quel momento si fecero confusi e disordinati. In
seguito l’unica cosa vivida nella sua mente fu quella di essersi trovato nudo, bocconi, su un materasso sporco e maleodorante, immobilizzato da un peso sopra la schiena. Quan68
do provò a divincolarsi, qualcosa gli strinse la gola soffocandolo e di nuovo tutto si fece buio.
Il Barlume (Nino)
«Lo sta facendo di nuovo. Sta facendo ad un altro quello
che ha fatto a me. Tutto mi è chiaro ora: mi ha ucciso, ad
un certo punto mi ha ucciso. Ha aspettato che fosse pagata
una parte del riscatto e poi mi ha ammazzato. Mi ha ucciso
e mi ha sotterrato sotto il grosso pino dell’aia di questo podere. Non era un incubo. E tutto si sta svolgendo esattamente come era successo a me. Anch’io stavo tornando a casa in
bicicletta, dopo aver fatto l’allenamento. Anche il mio rapimento si è svolto come questo. Solo l’auto era diversa,
una vecchia millecento. Ora ha una Giulia comprata con
quei soldi maledetti. Anch’io sono stato gettato nel sedile
posteriore e drogato: ho provato di nuovo lo stesso terrore
insieme alla sensazione di onnipotenza e di eccitazione che
lui mi ha trasmesso quando ha fatto le stesse cose a questo
povero ragazzo. E ora lo sevizierà e poi lo ucciderà, come
ha fatto con me. E lui vivrà questi ultimi momenti in uno
stato di semi-incoscienza indotto dal terrore, dal dolore e
dalla droga. L’unica cosa che ancora non capisco è come e
quando sono finito nella sua coscienza, anzi, nella sua mente. Mi sembra di ricordare come un vortice nero nel quale
mi sono tuffato. Un vortice come... Come questo che si sta
formando sotto di me!»
«Adesso ho cambiato, di nuovo. Sono insieme alla coscienza di questo ragazzo. La vedo, anzi. È ripiegata su se stessa,
assolutamente immobile. Provo a sfiorarla, ad invaderla, a
trasmetterle degli impulsi. Ma è come se fosse annientata. E
anch’io mi sento soffocare. Ho bisogno di ossigeno. Sta morendo! Devo riuscire a farlo respirare. Mi concentro e finalmente il senso di soffocamento se ne va. Sto respirando
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di nuovo. Sì, adesso è meglio. Anche il cuore mi sembra
abbia ricominciato a battere più regolarmente. Ora che la
situazione è tranquilla, esploro questo cervello: provo a salire in superficie, ad aprire gli occhi. Sono sul materasso. È
incredibile come tutto sia rimasto uguale a quando questo è
successo a me. Lo stesso odore nauseante. Lo stesso materasso lurido. Solo la temperatura è diversa: quando è successo a me c’era un freddo tremendo che mi aveva quasi
anestetizzato. Ora invece fa un caldo afoso. Per questo ragazzo deve essere davvero un’esperienza terrificante. Mario
al momento non c’è. Mentre mi trasferivo deve essere uscito dalla stanza. Cerco di riordinare i ricordi di quando ero io
al posto suo. Ogni volta che ero più cosciente, prima mi
spaventava con minacce terribili se i miei non avessero pagato, poi mi iniettava un po’ di droga e usciva dalla stanza,
chiudendo la porta a chiave. Io non ho mai provato ad uscire o a scappare. Non ne ero in grado. Rimanevo sdraiato in
stato d’incoscienza in attesa della visita successiva. Fino a
quando, ormai ridotto ad una bambola senza alcuna reazione, lui mi strangolò. Fu il senso di soffocamento che paradossalmente mi riportò in vita, anche se solo per un attimo.
E in quell’attimo si aprì il vortice sotto di me ed io semplicemente non mi opposi a quel fenomeno»
«Provo a fare quello che non mi è mai riuscito mentre ero
ospitato nel cervello di Mario: provo a prendere possesso di
questo corpo. È facile. La coscienza di questo ragazzo è
completamente paralizzata. È come se fosse morto. La droga non sembra faccia alcun effetto sulla mia volontà. Forse
lo stato di catalessi era dovuto solo al dolore e al terrore, e
Mario poco fa non gli ha iniettato nulla. Anzi, prima di trasferirmi ho percepito un impeto di rabbia da parte di Mario:
sono certo che pensa di averlo già ucciso»
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«Rapidamente riacquisto tutta la corporeità perduta. Muovo
le braccia, le gambe. Apro e chiudo gli occhi. Mi rigiro supino e mi metto a sedere. Provo di nuovo a stimolare l’altra
coscienza, senza risultato. La stanza è come me la ricordo.
C’è una finestra, chiusa con un foglio di cellofan. È notte
fonda e si sente il frinire di migliaia di grilli. Ci deve essere
luna piena perché nella stanza c’è abbastanza luce. Sono
completamente nudo e ho le cosce bagnate di urina. Ho
escoriazioni alle braccia e alle gambe, ma niente di rotto.
Cerco qualche straccio da mettermi addosso, ma non c’è
traccia dei vestiti di questo ragazzo. Mi avvicino alla finestra e strappo una parte del cellofan per guardare fuori. In
effetti la luna è quasi piena e illumina l’aia con il grosso
pino e la sua auto parcheggiata. Il podere è completamente
isolato. Non c’è una luce visibile da nessuna parte. La finestra è però troppo alta per poter scappare. Era prevedibile
perché anche nella stanza è il tetto della casa che fa da soffitto. Provo con la porta, sperando che Mario l’abbia lasciata aperta ritenendo questo ragazzo ormai morto. Invece è
chiusa a chiave. Mi accorgo però che il pavimento è pieno
di detriti e che le assi di legno del tetto sono nuove. Non
erano così quando successe a me. Anzi, non c’era neppure il
cellofan alla finestra, che era semplicemente priva di infissi.
Capisco che stanno ristrutturando. Strappo del tutto il cellofan e guardo in alto. Il bordo del tetto, con la gronda di rame
nuova nuova è lì, a poche decine di centimetri dalla parte
superiore della finestra. Mi accovaccio per riflettere. L’avere un corpo così simile al mio mi sta esaltando. Sento che
posso fargli fare le stesse cose che facevo io. Mi guardo le
mani e le braccia, le gambe... Sì, ce la posso fare. Mi dimentico completamente della presenza della coscienza proprietaria di questo corpo. Sono di nuovo io, Nino Proietti di
anni undici e mezzo (anzi, ormai dodici). E sono anche un
ragazzino spericolato. Me lo dicono sempre i miei. Mi arrampico su tutti gli alberi, so fare la ruota e la verticale
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camminando sulle mani a testa in giù. Ho fatto salti da quasi
tre metri d’altezza. Inoltre sono un atleta, un’ala destra imprendibile, come Angelillo. O come Sivori, anche se purtroppo non gioca con la Roma. È vero, mi sono anche rotto
un braccio quando avevo otto anni, cercando di saltare un
ostacolo con i pattini. Che sarà mai perciò arrampicarsi su
questo tetto. Pulisco bene il davanzale dai detriti e mi ci
siedo, con la schiena rivolta all’esterno. Facendo scorrere le
mani lungo il bordo della finestra cerco di aggrapparmi alla
grondaia, ma è troppo in alto. Capisco che debbo salire in
piedi sul davanzale. Lo faccio, prima mettendomi in ginocchio, poi centimetro dopo centimetro tirandomi su. Ora sono in piedi sempre con la schiena rivolta fuori e la testa a
pochi centimetri dal bordo del tetto. Sono eccitato e spaventato. Ho il cuore che mi batte a mille ma queste sensazioni
perdute sono bellissime. Sono aggrappato ai bordi della finestra e comincio a far scorrere la mano destra fino ad alzarla e ad afferrare la grondaia. Poi allento le ginocchia e
provo a saggiare la resistenza della grondaia: non ha difficoltà a reggere il mio peso. Così allungo anche l’altra mano
e mi aggrappo alla grondaia con tutte e due. Provo a penzolare: non succede nulla. La gronda regge perfettamente.
Rimetto i piedi sul davanzale e finalmente sporgo la testa
sopra il tetto. Poi mi do una spinta sia con le gambe che con
le braccia e mi trovo con il petto appoggiato alla gronda.
Riesco a tirare su la gamba destra ed ad appoggiare il piede
sulla gronda e... è fatta! Sono sul tetto. Sono euforico! Salgo
fino in cima al tetto, facendo attenzione a non far rumore
con le tegole. Mi guardo di nuovo intorno. La luna sta tramontando e fra poco sarà più buio. Dall’altro lato della casa
c’è un terrazzo collegato a terra con una scala. Probabilmente l’entrata principale. Mi avvicino e mi metto sdraiato
sul bordo per capire che altezza c’è: dal bordo del tetto saranno meno di tre metri. Decido di provare a saltare. Sempre sdraiato a pancia sotto, sporgo prima le gambe e poi mi
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lascio scivolare lentamente oltre il bordo fino ad aggrapparmi alla gronda e penzolare nel vuoto. Guardo sotto: il
terrazzo è veramente vicino. Mi lascio andare e atterro non
troppo bruscamente ammortizzando con le ginocchia. Un
dolore acuto al calcagno destro però mi strappa un lamento.
Rimango immobile per qualche secondo sperando che Mario non si sia accorto di nulla. Poi mi siedo e mi guardo la
pianta del piede ferito. Sono atterrato su una scheggia di
mattone che mi si è conficcata nel calcagno. La estraggo e
una piccola bolla di sangue ne esce fuori. La tampono e
provo ad appoggiare il piede: non mi fa poi così male. Posso camminarci. I muscoli dell’avambraccio, invece, dopo
questi sforzi, mi fanno male. Questo ragazzino non mi sembra molto allenato. Non deve avere un gran voto in Educazione Fisica! Chissà che aspetto ha il suo viso. Se è biondo
o moro. Mi accarezzo la testa: è strano non sentire sotto le
dita i miei riccioli. Infatti questo ragazzo ha i capelli lisci,
con la divisa a sinistra, almeno mi sembra, perché in verità
sono arruffati e appiccicosi. La luna sta tramontando velocemente. Scendo le scale e arrivo sull’aia. Mi fermo accanto
alla Giulia e mi viene un’idea. Mi guardo intorno e trovo
quel che mi serve, un chiodo. Svito i tappi delle ruote e aiutandomi con il chiodo sgonfio tutti e quattro i pneumatici.
Poi, sempre più euforico, comincio a correre attraverso l’aia
verso la strada... In quel momento mi accorgo che i muscoli
stanno contrastando la mia volontà. Capisco che la coscienza di questo ragazzo si sta svegliando. Mi fermo, proprio
sotto al grande pino e mi sdraio sull’erba umida, forse proprio sopra di me...»
Roberto
Roberto aprì gli occhi e vide sopra di sé un cielo con milioni di stelle, in parte coperto dalle fronde di un grosso pino.
Cercò di ricordare cos’era successo. Sentì l’umidità dell’er73
ba sulla schiena e sulle gambe nude, poi si appoggiò sui
gomiti e guardò avanti. Vide il podere avvolto nell’oscurità
e la Giulia ferma davanti. Di colpo il terrore che aveva provato lo invase di nuovo e cominciò a tremare. Gli tornò in
mente tutto, lucidamente e vividamente, come uno schiaffo
di violenza inaudita. L’unica cosa che non capiva era come
fosse finito lì, sul prato. Si alzò in piedi e un dolore acuto al
calcagno destro gli strappò un piccolo urlo. Si ributtò in terra e si massaggiò il piede alleviando il dolore. Poi si alzò di
nuovo, appoggiando solo la punta del piede destro e si avviò
zoppicando lungo il bordo erboso della stradina, allontanandosi dal podere
Il Barlume (Nino)
«Come con Mario, non riesco a mettermi in contatto con la
coscienza di questo ragazzo. Però, quando si è ripresa, io
non mi sono ritirato subito ma l’ho aspettata e per uno strano fenomeno e solo per un attimo sono stato lui. Si chiama
Roberto, ha qualche mese meno di me, infatti ha finito la
quinta elementare mentre io sono, cioè ero, già in prima
media. Ha un carattere completamente diverso dal mio ma è
un ragazzo sincero e buono. Forse un po’ troppo timido. Il
problema però è che sta facendo delle cose idiote e così rischia di farsi riprendere. Sta già albeggiando e lui cammina
zoppicando a due all’ora! Gli sto urlando di correre, di lasciare questa stradina e di buttarsi giù, verso la macchia. Di
nascondersi! Mario può uscire da un momento all’altro e
sono sicuro che anche con le ruote sgonfie ci inseguirà. Ma
non riesco a comunicargli nulla. Nulla! Mi guardo indietro
per vedere... Ehi! Sono riuscito a girare il collo. E lui me
l’ha lasciato fare. Forse ha pensato ad un gesto automatico...»
Roberto
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Roberto si volse automaticamente, e vide che stava sorgendo il sole. Si bloccò impaurito e di colpo capì che doveva
nascondersi, togliersi da lì dove poteva essere ripreso.
Ormai aveva intuito di essere scappato. Senza sapere come,
forse in “trance”, ma era scappato e non si sarebbe fatto riprendere. Cercò di appoggiare il calcagno del piede ferito.
In fondo non faceva così male. Guardò a sinistra, dove alla
fine di un campo incolto in pendenza cominciava una macchia. Ecco dove si sarebbe nascosto. Cominciò a correre
giù per la sterpaglia. Sentiva bucare le piante dei piedi da
sterpi e sassi ma la frenesia cominciò a prenderlo e non si
fermò se non quando si trovò ben dentro il bosco. Si mise a
sedere su un tronco caduto, ansimando per la corsa e per la
paura, e si massaggiò i piedi doloranti e feriti. Le mani gli si
macchiarono di sangue. Cominciò a singhiozzare a grosse
lacrime. Dopo poco smise e una grande stanchezza lo invase. Scivolò dal tronco e perse di nuovo conoscenza.
Il Barlume (Nino)
«È svenuto! Però è probabile che anch’io avrei avuto le sue
reazioni. Ora non sono reale, sono solo un ricordo lontano
di quel che mi è successo. D’altronde quando mi è successo
non sono stato in grado di fare nulla e sono stato ammazzato. Comunque forse è meglio sia svenuto. Ecco... la sua coscienza è di nuovo ripiegata su sé stessa. Ritorno alla corporeità e metto in allerta tutti i sensi. Sento il motore della
Giulia e il rumore dei pneumatici sgonfi. Appena in tempo.
La stradina sterrata è a circa cento metri da qui ma siamo
ben nascosti. L’auto sparisce dalla visuale e il rumore si allontana. Decido di prendere in mano la situazione. Mi alzo e
comincio a camminare parallelo alla strada. Non c’è segno
di altre costruzioni ma di fronte, a meno di un chilometro,
c’è un’altura ricoperta dalla vegetazione, attraversata dalla
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strada che porta al podere. Difatti dopo poco vedo la polvere sollevata dalla Giulia. Calcolo la direzione e mi inoltro
nella macchia. Fortunatamente non è molto fitta. Il problema sono i piedi nudi. Capisco che così vado avanti troppo
lentamente. Mi guardo intorno: ci sono delle felci. Ne strappo un po’ e mi avvolgo i piedi con quelle foglie larghe e abbastanza resistenti, fissandole con dell’edera che funge da
cordicella. Funziona. Posso camminare più spedito senza
provare dolore. Certo, dopo poco il bendaggio artigianale si
disfa, ma è solo questione di perfezionarlo. Roberto è ancora in catalessi e mi auguro che ci rimanga. Ripeto l’operazione ai piedi e ricomincio a camminare. Dopo un’oretta
arrivo ad un torrente, quasi un fiume. Nonostante l’estate
avanzata l’acqua è abbastanza impetuosa. Impossibile provare ad attraversarlo. Sulla destra, ad un centinaio di metri,
c’è il ponte della strada che porta al podere. Ma appare irraggiungibile perché l’argine è impraticabile. Mentre sto
pensando a come fare sento che Roberto sta tornando in
sé...»
Roberto
Roberto si appoggiò al tronco di un albero e si guardò intorno. Di nuovo quella sensazione di assoluta confusione. Davanti a sé un torrente impetuoso, dietro il bosco e, in parte
nascosto dalle fronde degli alberi, il podere. Non ricordò come ci era arrivato. Poi di colpo la realtà gli ripiombò addosso.
Stava scappando da un mostro. Misto al fragore del torrente,
sentì il rumore di un’auto. Si sporse e vide poco lontano un
ponte, sulla destra, in direzione della corrente. Subito sul
ponte apparve la Giulia che si fermò proprio nel mezzo. Ne
scese il mostro e Roberto si ritrasse immediatamente tra i cespugli. Si inginocchiò e attraverso le foglie spiò quello che
succedeva. Aveva un po’ paura, ma non tanta come prima. Si
rendeva conto di essere ben nascosto. Il fatto poi di essere
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stato capace di scappare e di essere ancora libero gli dava un
senso di fiducia. L’uomo si sporse da una parte e dall’altra del
parapetto e scrutò le acque tumultuose. Neanche per un momento volse lo sguardo in direzione del nascondiglio di Roberto. Poi risalì in auto e ripartì verso il podere. Roberto si
sentì decisamente più tranquillo. Notò di avere i piedi fasciati
da foglie di felce: anche questo non ricordava di averlo fatto,
ma si congratulò con sé stesso. In effetti camminare era molto
meno doloroso. Si sedette e cominciò a ragionare. Il sole era
già alto, ma non ancora a picco. Qualcosa gli suggerì che doveva trovare il modo di attraversare il torrente: se la strada lo
attraversava e poi finiva al podere, voleva dire che per uscire
bisognava andare dalla parte opposta. Calcolò velocemente se
conveniva provare a raggiungere il ponte, ma scartò subito
l’idea. Un po’ per la paura di incontrare il suo aguzzino, e poi
anche perché da dove si trovava sarebbe stato impossibile a
patto di tornare sulla strada. Anche cercare di guadare il torrente sarebbe stata un impresa. Il letto nel punto dove si trovava era larghissimo, venti o forse addirittura trenta metri. La
sponda era alta almeno tre metri, ed era a picco. La corrente
poi era davvero molto forte. Inoltre, l’acqua sembrava profonda ed era molto torbida, con pezzi di legno e detriti portati
dalla corrente. Probabilmente più a monte doveva esserci stato un temporale. Il torrente infine in quel punto faceva una
larga curva e la sponda dove si trovava il ragazzo era quella
esterna, dove la corrente era più impetuosa. In montagna suo
padre gli aveva sempre detto che più si risalgono e più i torrenti diventano stretti. Decise di seguire questo consiglio.
Prima però strappò un paio di enormi foglie che aveva notato
sulla sponda e, utilizzando dei rampicanti a mo’ di cintura, si
preparò una specie di gonnellino con cui finalmente si coprì.
Sembra niente, ma quando si è vestiti in qualche modo ci si
sente meno vulnerabili. Così conciato, come un piccolo elfo,
cominciò a camminare dentro il bosco per non farsi vedere,
cercando di dirigersi contro corrente, guidato dal rumore del77
l’acqua, e allontanandosi dal ponte. Dopo quasi due ore la
macchia si aprì in una piccola radura e ritrovò nuovamente di
fronte la sponda: il torrente lì compiva una curva brusca, quasi ad angolo retto. Inoltre scorreva dentro una specie di gola,
profonda una ventina di metri e larga una decina. Sotto l’acqua ruggiva in modo assordante. Però era anche il punto dove
il torrente era più stretto. Si sporse con cautela (soffriva terribilmente di vertigini) e osservò affascinato la rapida: incredibilmente non provò alcuna paura del vuoto. Come se non
avesse mai sofferto di vertigini. Si alzò e si guardò intorno.
Nella radura c’era un grosso leccio e all’altezza del primo
ramo partivano due corde tese sopra la gola che erano legate
ad un albero analogo sull’altra sponda. Erano messe una sopra l’altra a distanza di un metro circa. Aveva già visto un
passaggio analogo durante le sue escursioni in montagna, utilizzato da persone esperte con cime di sicurezza. Sapeva come andava usato: ci si metteva in piedi di traverso sulla corda
inferiore aggrappandosi a quella superiore e piano piano, passo dopo passo, mantenendo sempre tre punti di appoggio, si
giungeva dall’altra parte. Sul tronco del leccio, chi aveva costruito quel rudimentale ponte aveva anche inchiodato delle
assi di legno, a formare un abbozzo di scaletta per arrivare al
ramo dove erano fissate le corde, ramo che si trovava almeno
a tre metri da terra. Si sedette appoggiandosi al tronco, chiudendo gli occhi. Facendo dei gran respiri, per calmarsi e riflettere, cercò di trovare il coraggio e la concentrazione per
provare quel passaggio. Si sentiva ancora condizionato dal
timore che, una volta lassù, si sarebbe paralizzato per le vertigini. Poi di scatto si alzò, si strappò via le foglie di felce dai
piedi e cominciò a scalare il tronco. In breve si trovò sul ramo. Subito si accorse di un altro imprevisto: le due corde
erano ad una distanza comoda per un adulto, non certo per un
bambino. Si mise in piedi sul ramo e si allungò il più possibile per cercare di afferrare la corda più alta, ma non ci riuscì,
per pochissimo. Più avanti, lungo il ramo, le due corde sem78
bravano avvicinarsi. Strappò un rametto a forma di uncino e
facendo una cosa che mai avrebbe pensato di essere in grado
di fare, cominciò a camminare lungo il ramo, come un equilibrista: dopo soli tre passi allungò il rametto e agganciò la
corda tesa sopra la sua testa, tirandola in basso. Con l’altra
mano e allungandosi riuscì finalmente ad afferrarla, ma proprio in quell’istante il piede di appoggio scivolò e si trovò a
penzolare nel vuoto aggrappato con una sola mano. Lasciò il
rametto e si aggrappò alla corda anche con l’altra mano, poi
facendosi dondolare riuscì a ritrovare sotto i piedi la sicurezza del ramo. Dopo essersi ripreso dallo spavento, cominciò la
traversata. Arrivato dove il ramo diventava troppo sottile,
passò sulla corda inferiore: la traversata si compì senza altre
brutte sorprese e in pochissimo si trovò sull’altra sponda, scese dall’albero gemello usando una scaletta analoga e lanciò
un urlo liberatorio di sfogo e di esultanza...
Il Barlume (Nino)
«È stato in gamba Roberto! Io non sarei riuscito a fare di meglio. Giuro che non l’ho aiutato! Ha fatto tutto di testa sua.
Cioè, forse con la faccenda delle vertigini... che poi è solo
paura del vuoto... Quando si è sporto, ho visto chiaramente
che la sua mente stava creando una visione terrorizzante del
suo corpo che precipitava nella gola. Non ho fatto altro che
buttarmici sopra a pesce (alla visione) e lui ha percepito solo
quello che vedevano i suoi occhi, senza immaginarsi niente di
catastrofico. Ci credereste? Quando si è trovato sul leccio, il
fenomeno non si è più presentato. Penso di averlo guarito!
Comunque devo ricredermi: il ragazzo ha stoffa e coraggio e
quel pizzico di prudenza che io non avrei. Inoltre conosce
delle cose straordinarie. Io avrei cercato sicuramente di usare
quelle corde, ma chissà in quale modo suicida. Mi sono proprio divertito. E che emozione quando è scivolato! Sono orgoglioso di lui, è un degno rappresentante di noi undicenni!»
79
Roberto
È incredibile come il dover agire prima e il successo dopo ti
galvanizzino, ti diano sicurezza. Roberto, un bambino di
undici anni, un “soldo di cacio” come dicevano sempre i
suoi genitori, che poche ore prima giaceva inerte come un
bambolotto, ora si sentiva invincibile. Aveva fame e soprattutto sete, ma questi problemi non facevano altro che stimolarlo, che farlo sentire vivo. Si guardò intorno: questo lato
del torrente sembrava decisamente meno selvaggio. Un sentiero simile a quelli che percorreva con i genitori nelle passeggiate in montagna, partiva dalla radura e rapidamente
scendeva verso la sponda del torrente, fino ad arrivare al
livello dell’acqua. L’acqua stessa formava dietro alcuni
grossi massi delle morte dove era placida e limpida. Si diresse subito verso quel posto invitante. Si sfilò il vestito improvvisato e entrò nella più grande di queste pozze. L’acqua
era fredda, alta non più di mezzo metro e calma e lui, arso
dalla sete, bevve ad ampie sorsate. Poi si immerse e godette
della frescura e della sensazione di pulizia. Dopo il bagno,
si rimise il gonnellino silvestre ed esplorò i dintorni della
sponda trovando un roveto da cui colse alcune manciate di
more dolcissime, placando anche la fame. Infine, stanco ma
felice, si sdraiò sul prato vicino alla sponda, sotto l’ombra
di un alberello e si appisolò.
Roberto e Nino
Roberto si svegliò con la sensazione che qualcuno stesse giocando a pallone. Sentiva infatti dei tonfi ritmici come quando
si prende ripetutamente a calci un pallone. Aprì gli occhi e si
sedette. Davanti a lui, nel prato, c’era un bambino biondo e
riccio, suppergiù della sua età, che indossava un completo
della Roma con il numero sette sulla schiena e che stava pal80
leggiando da dio, colpendo la palla con tutti e due i piedi e
anche con le ginocchia e contando i palleggi ad alta voce:
«Settantotto, settantanove...»
Roberto lo osservò ammirato: lui a calcio era sempre stato
una frana, anzi una “pippa” come dicevano i suoi compagni,
che le rare volte che lo facevano giocare lo mettevano sempre
in porta. Arrivato a novantanove, il ragazzino calciò la palla
più in alto e poi, concludendo con un: «...e cento!», prima che
ricadesse a terra si girò e la colpì in sforbiciata al volo di destro, con un gesto simile a quello che c’era sull’album delle
figurine Panini. Il pallone arrivò addosso a Roberto, che
d’istinto lo parò respingendolo.
«E bravo Roberto! Bella parata!» esclamò il ragazzino avvicinandosi e sedendosi a gambe incrociate davanti a lui.
«Tu mi conosci?» domandò Roberto perplesso.
«Certo, ma anche tu mi conosci»
Roberto lo guardò curiosamente. In effetti quel bambino gli
era familiare. Era sicuro di non averlo mai incontrato, ma era
come se lo conoscesse da sempre. Soprattutto non era sorpreso di vederselo davanti.
«Tu sei Nino!» affermò d’improvviso, come se si fosse ricordato di una cosa ovvia «Nino Proietti!». Poi aggiunse confuso: «Ma sei vero o ti sto sognando?»
«L’uno e l’altro» rispose Nino «Se in questo momento arrivasse qualcuno vedrebbe solo un ragazzino con un buffo
gonnellino di foglie addormentato sotto un albero. Quasi una
scena da Peter Pan, lasciatelo dire! Però io sono anche reale.
Diciamo che comunque lo sono stato» Allungò le braccia verso di lui e aggiunse: «Dammi le mani...».
Roberto obbedì e afferrò le mani di Nino. Subito seppe ogni
cosa, sul mostro e su quello che era successo cinque mesi
prima, un sabato di fine febbraio. E poi per un momento infinito diventò lui stesso Nino, così che il suo mondo, i suoi ricordi e i suoi sogni si mischiarono ai propri. Si rese conto che
loro due erano diversi ma anche simili. Che parole come
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“amicizia” o “lealtà” avevano lo stesso significato per tutti e
due. Quando si lasciarono le mani, Roberto aveva gli occhi
umidi di pianto, ma Nino sorrideva.
«Ora sono contento» disse «so che la mia breve vita è custodita per sempre da un grande amico»
...in seguito
Quella giornata finì velocemente. Roberto, seguendo il sentiero, uscì dalla macchia e trovò, ai margini di un campo di
stoppie, un contadino che vicino ad una baracca stava zappando l’orto ascoltando un transistor. Passata la sorpresa di
trovarsi davanti quel bambino seminudo, lo portò con il proprio Apino alla stazione dei Carabinieri del paese vicino. Lì
fu riconosciuto subito dal Maresciallo come il bambino di cui
era stata segnalata la scomparsa, Roberto Ferlinghetti, e da
quel momento gli eventi portarono velocemente ad una giusta
e logica conclusione. Roberto, oltre a far arrestare immediatamente il rapitore pedofilo e il suo complice, il proprietario
del podere, indicò il posto dove era stato sepolto Nino raccontando che era stato lo stesso rapitore a mostrarglielo, con
la minaccia di fargli fare la stessa fine se avesse tentato di
ribellarsi.
Da allora Roberto ebbe una vita serena e piena di soddisfazioni. Diventò una discreta ala destra, procurandosi l’ammirazione dei compagni, specialmente quando palleggiava, anche se non praticò il calcio che per diletto. Inoltre da giovane
si appassionò alle scalate in parete e al volo a vela, di tutti i
tipi, dal deltaplano al parapendio e anche al paracadutismo.
Tutte le volte che vola (perché ancora vola) o scala una parete
difficile, ripensa a Nino. Diventato medico, cercò anche una
spiegazione logica al fenomeno che aveva vissuto. Poteva
essere successo che nel momento estremo, un barlume della
coscienza di Nino, desiderando di sopravvivere, avesse trova82
to rifugio nella mente del bruto suo malgrado, durante quell’incontro fisicamente e psichicamente coinvolgente anche se
terribile e terrorizzante. Per cinque lunghi mesi questo barlume si era alimentato con le energie di quel cervello, sostenuto
solo dalla volontà di sopravvivere come identità. Quando la
stessa cosa era toccata a lui, quella coscienza ritornata ad essere Nino riuscì a passare nella sua mente, questa volta scientemente, sfruttando i momenti drammatici ma così simili che
aveva già sperimentato. Nel breve ma intenso e unico loro
incontro, Nino gli comunicò quello che aveva sentito nel
momento del trasferimento:
«Mario ti stava uccidendo perché ti eri ribellato. Probabilmente non ti aveva drogato abbastanza e quando ha iniziato
a... farti del male, tu ti sei ribellato, ti divincolavi e l’hai morso. Per reazione ti stava strozzando e in verità la tua coscienza si è spenta quasi subito e non respiravi più. Io ero disperato perché non sapevo come impedire questo nuovo delitto,
però mi ero accorto che il terrore che avevo “sentito” veniva
da te. Mi sono guardato intorno e ho notato nuovamente quella specie di vortice che mi aveva consentito di far passare
l’ultimo barlume della mia coscienza nella mente di Mario e
l’ho utilizzato. Come sono “entrato” nella tua mente, mi sono
accorto che la tua coscienza era priva di qualunque volontà.
Anche il cervello non reagiva quasi più e c’è voluto da parte
mia uno sforzo enorme per farti riprendere a respirare. Sono
convinto che quel mostro pensava di averti già ucciso»
Più passava il tempo e più Roberto era sicuro che Nino avesse ragione e che la sua esistenza la doveva interamente a quel
bambino. Da quel giorno “il barlume di Nino”, come lui stesso si era autodefinito in quell’incontro, non si era più manifestato. Ma non credeva che fosse sparito: semplicemente non
c’era più bisogno che si nascondesse e quella parte di Nino
che era sopravvissuta si era fusa con lui stesso. Ora lui era
Roberto, certamente, e l’infanzia che ricordava era la sua. Ma
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distinta e non per questo meno reale, trovava posto anche la
breve esistenza di Nino.
Mercoledì, 27 maggio 2009
Roberto
«Eccole la ricetta, signora»
«Dottor Ferlinghetti, c’è il Dottor Costa al telefono per lei»
disse entrando nell’ambulatorio l’infermiera.
«Me lo passi» rispose Roberto.
«Roberto, hai finito? Sono quasi le sei!»
«(coprendo un attimo la cornetta) Mi scusi signora, un collega... Ho l’ultima visita, se me la fai finire»
«Ma ti rendi conto che fra poco più di due ore comincia la
finale? Guarda che io massimo alle sette e mezza voglio stare
all’Olimpico»
«Non ti preoccupare che la partita non ce la perdiamo. Ti
aspetto sotto casa alle sette. Andiamo con il tuo scooter, vero?» concluse Roberto.
«Che va a vede la finale, Dottò?» s’intromise la paziente «Ce
vanno puro mi marito co mi fijo e i nipoti. Tutti a gridà Forza
Roma! Io nun posso pecché so vecchia. La guarderò su Scai»
«Sì signora,» le rispose Roberto «vado alla partita con degli
amici. Però io tifo per la Juve. Sono torinese, sa»
«Vabbè, nessuno è perfetto. Comunque nun è grave, nun se
preoccupi. Vedrà che stasera guarirà»
Roberto non era mai entrato in uno stadio in vita sua. Il calcio
professionistico era sempre stato un mondo marginale dei
suoi interessi. Quel giorno, però, non poté fare a meno di rimanere colpito dai colori e dalla coreografia che il pubblico
aveva preparato per quell’avvenimento eccezionale, soprattutto nel settore della curva sud. Una volta che si sedette in
84
tribuna, con un gruppetto di amici tutti juventini, il dottor Costa tirò fuori da un sacchetto due magliette bianconere, una di
Del Piero e una di Trezeguet, e dette quella del francese a
Roberto
«No,» si schernì lui
«Ma dài che stasera gliene facciamo quattro»
«Meno male che sei ottimista»
«Non è ottimismo: è realismo. Abbiamo vinto lo scudetto e in
campionato loro sono arrivati quinti. Li abbiamo stracciati sia
a Roma che a Torino»
«Mah, sarà» replicò Roberto «Io ti dico che non sarà una passeggiata. La Roma gioca bene, è una partita secca, sono nel
loro stadio»
«Perché non sei un vero tifoso» replicò con stizza il dottor
Costa
«E meno male» gli rispose Roberto «almeno vedo le cose con
più distacco e obiettività»
La partita iniziò e Roberto si dimostrò certamente più realista. Alla fine del primo tempo le squadre erano ancora sullo
zero a zero ma la Roma aveva obiettivamente giocato meglio.
«Che ti dicevo, Marco?»
«Ma che tanto tanto vòi portà jella? Li abbiamo fatti stancare.
Ora entra Alessandro e vedrai...»
Ma anche nel secondo tempo il gioco lo condussero i giallorossi e all’ottantesimo accadde l’inevitabile. Da un anticipo di
Juan, il pallone passò a De Rossi che di prima imbeccò Tonetto. Rapido scambio con Vucinic, poi cross teso a mezza
altezza e dal limite dell’area bianconera il Capitano colpì in
sforbiciata al volo di destro, “come il giocatore sulla copertina dell’album delle figurine Panini”, pensò Roberto, “anzi,
come avrebbe fatto Nino” e il pallone s’insaccò nel set, imparabile anche per Buffon.
L’urlo gli uscì liberatorio e cominciò a saltare, unico con la
maglia bianconera, ebbro di gioia, gridando a ripetizione
85
GOOOL! e FORZA ROMA! Gli altri lo guardavano stupefatti. Il dottor Costa disse malignamente:
«È questo il tuo distacco?». Roberto lo guardò raggiante, poi
si tolse la maglietta e gliela gettò addosso:
«Questa non credo che mi serva, tu che dici? Te saluto, Marco! Godite la sconfitta!»
Proprio sotto di loro, ad una decina di metri, una famigliola
stava festeggiando rumorosamente. Roberto fu colpito dal
bambino, un ragazzino di dieci, undici anni, con i riccioli
biondi, che indossava un completo della Roma decisamente
retrò, con la maglietta di lana leggera di un rosso d’altri tempi
e il colletto a polo giallo, non ocra, i pantaloncini bianchi di
cotone e i calzettoni di lana rossi con la risvolta gialla. Sulla
schiena un bel sette bianco. Roberto non ebbe alcuna esitazione.
«Bel completo che hai» disse al ragazzino. Lui si voltò e continuando a saltare di gioia gli rispose:
«Era di mio zio!»
«Lo so. Di tuo zio Nino»
«Anch’io mi chiamo Nino!»
«Non avevo dubbi»
«Scusi, ma lei conosceva mio fratello?» li interruppe la madre.
«Praticamente eravamo la stessa persona» le rispose Roberto.
«Il suo nome, se non sono indiscreta?» lo interrogò con sospetto.
«Sono Roberto Ferlinghetti, signora Anna». La madre del
piccolo Nino mormorò tra sé rivolta al marito:
«Il bambino che fece arrestare l’assassino di mio fratello...»
poi rivolgendosi di nuovo a Roberto,
«Ma lei non può averlo conosciuto. Nino era già morto da più
di cinque mesi»
«Oh, si sbaglia signora. Sa, quando si è bambini la nozione
del tempo è molto soggettiva. Lo conoscevo, suo fratello. Lo
86
conoscevo molto bene». Parlando poi al piccolo Nino continuò: «Sai, l’ultima volta che ho visto tuo zio, era vestito proprio con il completo che ti ha lasciato e mi ha fatto un tiro
identico a quello di Totti di stasera. Solo che io l’ho parato.
Anche se ripensandoci forse voleva che lo parassi...»
«Senta» sbuffò la madre «questo è impossibile! Mio fratello
non ha mai indossato questo completo, glielo posso assicurare!»
«Se lo dice lei, deve essere vero...» confermò Roberto strizzando l’occhio al piccolo Nino. Poi, di nuovo al bambino:
«Hai una sciarpa anche per me?»
«Tieni!» fece Nino, passandogli la sua.
«Posso sedermi vicino a te per assistere alla premiazione?»
«Certo, zio, vieni qui che a ‘sti juventini jamo fatto li bozzi!»
FINE
87
Quanti di voi hanno già letto “Diario minimo...” troveranno molti punti in comune con questo racconto, scritto
nel 2008, a cominciare dal nome di uno dei due protagonisti e
dall’epoca, anche se la storia è completamente diversa. Inoltre, il fantasma di Nino è il personaggio più commovente che
ho mai ideato. In letteratura c’è una cosa simile, un romanzo
di una scrittrice sudamericana, Gioconda Belli, intitolato “La
donna abitata”, che però ho scoperto dopo aver scritto questo
racconto. Infine voglio dare questa precisazione: il racconto è
stato scritto l’anno che la Roma sfiorò lo scudetto con Spalletti e immagina che la finale dell’edizione di Champions
League dell’anno successivo, che si sarebbe svolta a Roma,
avesse come protagoniste la Roma e la Juve. E forse in un
mondo parallelo è andata proprio così. Di seguito ho allegato
anche un po’ d’iconografia.
88
ICONOGRAFIA
Mi sono divertito a ritrovare le foto degli oggetti e dei personaggi nominati nel racconto. Così ho allegato le immagini di
Angelillo, Sivori e della copertina dell’album della Panini del
1966 (ho ancora gli album dei Calciatori dal 1963 al 1966,
quelli che ho riempito da bambino), della Alfa Romeo Giulia
e della Fiat 1100, della pubblicità d’epoca della Supercortemaggiore, il manifesto de “Il Buono, Il Brutto e Il Cattivo” e
infine alcune strisce di Capitan Miki dove l’eroe si rivolge al
proprio cavallo.
89
90
91
IL MIO ANNO PREFERITO
PREFAZIONE
Nick Hornby ha pubblicato una divertente raccolta di racconti
scritti da personaggi più o meno famosi in Inghilterra e Irlanda che hanno come tema il tifo per la propria squadra di calcio. In particolare ognuno doveva descrivere l’anno calcisticamente più importante o particolare. La raccolta si intitola
“il Mio Anno Preferito - Racconti di Calcio” e in Italia è pubblicato da Guanda. Le storielle sono simpatiche ma hanno il
limite per noi italiani che riguardano solo squadre inglesi o
irlandesi, a volte di serie infime (third o fourth Division) e di
un ambiente che non conosciamo. Se da una parte ti rivela un
mondo del calcio decisamente più sano e radicato rispetto al
nostro (quando mai in Italia ci sono 30.000 persone a vedere
partite di C2?), d’altro canto la maggior parte di allusioni o di
ricordi riguarda eventi a noi sconosciuti. Così ho provato a
prendere spunto dal libro come fosse un invito e ho scritto
anch’io un resoconto di quello che per me fino ad oggi considero l’anno più incredibile che ho passato da tifoso.
Dalle Stelle... alle Stalle
Roma 1985/86
I tifosi hanno sempre degli stati d’animo estremi. O sono in
un momento di eccezionale felicità o di tremenda disperazione. E questo a prescindere di come si comporti la squadra del
cuore. Anche il campionato più anonimo porta sempre delle
aspettative: quella data partita, quel turno di coppa. Il sabato
si è in trepida attesa e la domenica o si è al settimo cielo o
alla disperazione. Chi è un vero tifoso lo sa: non esistono le
mezze misure. Diffidate di chi si definisce tifoso e poi rimane
tiepido di fronte ai risultati della domenica. Ci sono però dei
periodi eccezionali dove questa alternanza non c’è e, o la
squadra cade in un vortice irrefrenabile di sconfitte che porta
inevitabilmente alla retrocessione (e in tal caso alla disperazione subentra una sorta di rassegnazione), oppure al contrario i propri beniamini diventano pressoché invincibili e ti
fanno vivere in una specie di trance che hai paura possa finire
da un momento all’altro. Situazione decisamente più rischiosa per la propria stabilità psichica.
Anche se quello che affermerò ora sarà contestato dai tifosi
dell’Inter, sono però arciconvinto che la mia squadra. per chi
non lo sapesse ancora l’AS Roma, abbia una caratteristica
che le altre presentano molto più raramente. Quella di illuderti, di farti sognare e poi di gettarti nello sconforto non in un
fine settimana, dopo una partita, ma per un intero campionato
o torneo internazionale. Non ricordo più quante partite già
vinte sulla carta, incontri della svolta o delle conferme sono
invece finiti con la sconfitta. È come se qualcosa si rompesse
quando ormai il più è fatto. La Roma è riuscita a perdere
campionati dominati, l’unica finale di Coppa dei Campioni
disputata e per giunta nel proprio stadio, finali di coppa
UEFA o semifinali di Coppa delle Coppe, finali di Coppa Italia. Se avesse vinto tutte le volte che è arrivata lì per lì adesso
avrebbe una bacheca paragonabile a quella degli squadroni
del nord.
Ma il Campionato 1985/86 è rimasto e rimarrà inarrivabile.
Forse si è avvicinato a quell’evento incredibile solo il Campionato scorso (2005/06), caratterizzato da un’entusiasmante
rincorsa alla Fiorentina per il 4° posto (valevole per l’ingresso ai preliminari di Champions League) partendo da -12,
94
conclusasi con il sorpasso a metà circa del girone di ritorno
grazie allo straordinario record di 11 vittorie consecutive, ma
risoltasi a favore dei viola nell’ultima parte del campionato
dopo un’alternanza di sorpassi e controsorpassi. Ma in questo
caso la conclusione, seppur accompagnata da una delusione
cocente, specialmente per me che vivo a Firenze, è stata abbastanza prevedibile (era già un paio di turni che si era capito
che la Roma non aveva più birra). E poi lo scandalo di calciopoli ha reso vano tutto quanto.
Nel 1985/86 la Roma veniva da un campionato precedente
scialbo, finito con un settimo posto, il primo della coppia
Clagluna - Eriksson in panchina dopo la partenza del “Barone” Liedholm, del “bimbo” Ancelotti e di Capitan Di Bartolomei (tutti e tre approdati al Milan). Di quell’anno si ricorda
solo il coro “che sarà, sarà” cantato dall’intero stadio dopo
l’eliminazione in coppa UEFA da parte del Bayern e che affascinò gli stessi giocatori e tifosi tedeschi. La breve ma intensa
stagione di grandeur iniziata con il Campionato 1980/81
(quello del gol di Turone annullato e che regalò lo scudetto
alla Juventus), culminata nel 2° scudetto (1982/83) e nella
finale romana di Coppa Campioni persa ai rigori contro il Liverpool (30/5/1984), sembrava definitivamente finita. Il “Barone” aveva portato con la sua Roma il gioco a zona in Italia
e quella squadra aveva fatto innamorare molti bambini di allora. Oserei dire che ancora oggi gli unici tifosi giallorossi
non romani che ho trovato sono trentenni che all’epoca di
Liedholm, Conti e Falcao avevano 10 anni e che ammettono
candidamente di essere diventati tifosi della “Maggica” in
quel periodo e per quegli atleti. Quel periodo è stato possibile
grazie ad un grande Presidente, Dino Viola. Costui è stato
senza dubbio il più grande Presidente che la Roma abbia avuto. Suppliva con la fantasia, la competenza dei suoi tecnici e
l’audacia al gap economico con le tre grandi squadre del
nord. Prima aveva scommesso e vinto con la zona e Li95
edholm, lanciando un giocatore semisconosciuto come Falcao. Poi, finito il ciclo, si ricordò di un altro allenatore svedese, che qualche anno prima aveva umiliato la grande Roma
all’Olimpico con il suo Benfica in Coppa UEFA, e che predicava una zona molto più spregiudicata e aggressiva: Sven
Goran Eriksson. Allora in Italia vigeva una regola che impediva di impiegare allenatori stranieri. Viola mise al posto di
Liedholm un allenatore ombra, Clagluna, e ingaggiò come
vero tecnico lo svedese più giovane, sfidando le ire del palazzo. Dopo il primo anno di quella strana coppia, Viola cercò di
accontentare lo svedese e rinforzò la rosa. Arrivarono un
buon terzino di fascia, Gerolin, un centrocampista di sostanza
come Desideri e soprattutto il bello di notte, lo juventino Zibì
Boniek. Boniek, uno dei migliori giocatori mai arrivati a Roma, giocò con la maglia giallorossa praticamente solo quel
campionato, ma si innamorò completamente e incondizionatamente di quella squadra e del suo pubblico (e come non
avrebbe potuto?) così che ancora oggi è uno dei primi tifosi
giallorossi.
Il campionato cominciò con fortune alterne. Dopo le prime
due partite, vinte entrambe, la Roma cominciò una serie di
vittorie casalinghe e sconfitte esterne che ad un tifoso superficiale fecero pensare nella migliore delle ipotesi ad un campionato di transizione (così i tifosi chiamano i campionati deludenti) di metà classifica, magari con qualche soddisfazione
in coppa Italia. Ma io non ero un tifoso disattento e le poche
volte che riuscivo a seguire la squadra mi accorgevo che il
gioco espresso era semplicemente esaltante. La Juventus intanto volava, avendo vinto le prime otto partite e accumulato
già un pesante vantaggio su quelle che si pensava potessero
essere le concorrenti: le solite Inter e Milan, il Napoli di Maradona, il Verona campione in carica, il Torino e la Fiorentina. Eppure la Roma non era una squadra mediocre. Le sconfitte fuoricasa erano bugiarde. La Roma creava molte palle
96
gol che poi non sfruttava e in difesa ancora i nuovi meccanismi del fuorigioco non funzionavano a dovere. Ma la squadra
divertiva e se la giocava.
Io quell’anno vivevo a Pisa. Avevo cominciato a lavorare
come medico delle Carceri e intanto mi stavo specializzando
in Chirurgia. Quando non ero di turno al carcere, continuavo
a fare il volontario nella Chirurgia ospedaliera dove ero arrivato ormai da quattro anni. Il Pisa quell’anno era in serie A,
ma il reparto brulicava di juventini e interisti. In particolare il
caposala della Sala Operatoria era uno juventino piuttosto
acceso, che mi prendeva per scemo primo perché venivo a
lavorare gratis, anche la notte, e poi perché ero romanista.
Poco prima di Natale, domenica 15 dicembre 1985, ci fu la
svolta. La Roma vinse la sua seconda partita fuoricasa, contro
il Lecce, con un rotondo 3-0. Vedo già i sorrisini furbi di chi
non ci può soffrire. Di chi sa come andò a finire. Eppure sì,
come in un copione banale, tutto cominciò a Lecce. Nessuno
ci fece caso se non pochi tifosi attenti come me. Il Lecce era
ultimo e le prendeva da tutti, indifferentemente in casa e fuoricasa. Non era certo stata un’impresa storica. Però la Juve
quella domenica pareggiò e i punti di distacco da 9 passarono
ad 8. Si, eravamo esimi, tra noi e loro c’erano almeno altre
cinque squadre. Ma quella domenica le occasioni furono
sfruttate, i fuorigioco funzionarono a meraviglia. La squadra,
insomma, dette spettacolo. E da allora continuò a darlo per
tutta Italia. 4 -0 a Bergamo, 2-0 a Udine, 5 -1 a Avellino, 1 - 0
a Milano rossonera e a Torino granata. E poi vinceva in casa,
ovviamente: splendido il 3 - 1 all’Inter con Cerezo che sbaglia 2 rigori e la Sud a urlare “Cerezo! Cerezo!”. E i punti
dalla Juve diminuivano, uno alla volta, domenica dopo domenica. I versi del nostro inno (“Dimmi cos’è che ti fa sentire
Re quando senti le campane la domenica mattina?”) avevano
finalmente un significato reale. E ogni lunedì entravo in Sala
Operatoria come un Re, guardavo l’odiato caposala e gli fa97
cevo: “Meno 7!” “Meno 6”... E lui a prendermi per il culo.
Anche se ogni volta con meno convinzione. Intanto i ragazzi
guardavano sempre più in alto. Superarono il Milan, l’Inter,
la Fiorentina, il Torino, il Napoli. Ma non gli bastava? Ma
che volevano? A cavallo tra febbraio e marzo ebbi l’occasione di passare tre settimane alle Maldive come medico di un
villaggio turistico. Partii con entusiasmo, e quelle tre settimane sono state un sogno che ancora adesso riempie i miei ricordi. Ma la Roma era sempre lì, inguattata. Mi aspettò. La
lasciai a 4 punti dalla Juve, ritornai che i punti erano diventati
5. Aveva perso nei minuti di recupero una partita incredibile a
Verona per 3 - 2 dopo averla dominata e, dicevano, con un
arbitraggio quantomeno strano. Ma non era vero: mi stava
aspettando. Tornai giusto in tempo per godermi il più bello
spettacolo di sempre. Domenica 16 marzo alle 14,30, sotto un
cielo primaverile di un azzurro intenso, l’Olimpico si esibì
anch’esso in uno spettacolo incredibile. L’anello era completamente diviso da innumerevoli spicchi alternati di giallo e
rosso. Non c’era niente che assomigliasse vagamente a una
bandiera bianconera. Sì, arrivò la Juventus. Arrivò l’apoteosi.
E la Roma quella domenica imitò il suo pubblico. Fece sembrare la Signora una squadretta di periferia, non le concesse
neanche l’ombra di una speranza che potesse finire diversamente da come finì. Quando Boniek siglò il 3 - 0 il destino
sembrava ineluttabile: una sola squadra meritava di vincere
quel campionato, e non erano certo gli sparring-partner in
bianconero visti quella domenica all’Olimpico.
E l’aggancio arrivò, naturalmente, ovviamente, puntualmente
e senza discussioni alla terzultima giornata. La Roma vinse a
Pisa 4 a 2 e la Juve pareggiò con la Sampdoria. Alla penultima giornata di campionato, un’altra splendida domenica primaverile, il 20 aprile, il giorno prima del Natale di Roma, la
classifica recitava: Roma e Juventus 41, Napoli 35. La Roma
98
giocava contro il Lecce in casa, la Juve contro il Milan, sempre in casa.
Qui faccio una pausa di riflessione. Vi invito, o voi che avete
avuto la pazienza di seguire questa straordinaria e incredibile
avventura a provare, anche se di fede avversa, a mettervi nei
panni di un tifoso romanista quella domenica. A rivivere
quelle splendide vittorie del girone di ritorno ridicolizzando
squadroni ben più attrezzati, l’Inter, la Fiorentina, il Napoli di
Maradona, il Toro e soprattutto la Juve. Il sogno si era già
avverato. Poteva forse una squadra già condannata da mesi,
che aveva vinto solo 4 partite e nessuna fuoricasa, una squadra già ampiamente battuta all’andata, anzi la squadra che
aveva dato il là a quel sogno, poteva dicevo questa umile
squadretta giallorossa (perché sono giallorossi pure loro...) di
provincia rovinare la festa? Poteva distruggere il sogno di
centomila persone? È vero che si gioca 11 contro 11, ma andiamo... C’è già stato il giro d’onore, Viola è già stato sotto la
Curva Sud. Già si pensa a chi verrà per la nuova avventura in
Coppa Campioni. E io in Tribuna Monte Mario a godermi
quella festa annunciata, col “Messaggero” che in prima pagina presentava il disegno di un lupo famelico e sotto il titolo,
kitch ma efficace: “S.P.Q.R. Sorpasso Per Questa Roma”.
Poteva finire tutto in modo così incompiuto?
Poteva, poteva...
La partita cominciò e dopo solo 8 minuti la Roma era già in
vantaggio. Alla seconda o terza occasione, Graziani di testa ci
porta in vantaggio sotto la curva Nord. Siamo primi. Soli. La
Roma continuò ancora per inerzia a macinare calcio, fino al
15’ circa quando Pruzzo raddoppiò in contropiede. Ma l’urlo
si strozzò in gola, il guardalinee era fermo con la bandierina
alzata. Fa niente.
99
Fa niente un cavolo. La Roma si spense, dopo quel gol. Come
se uno girasse l’interruttore. Come se si fosse voltata indietro
e avesse visto tutte quelle squadre sotto, la Juventus, poi il
Napoli, poi il Toro, La Fiorentina, L’Inter, il Milan... Tutte
dietro. E le vennero le vertigini. Il Lecce era una squadretta
ma aveva giocato pur sempre in serie A. Poi quello stadio tutto giallorosso... E se fosse stato per loro? Che si prova? Che
fate, campioni, ci fate provare che vuol dire? Solo un pochetto, poi vi facciamo vincere. tanto a noi che ce frega, come
dite qua. Siamo già in B. Così Di Chiara si esalta sentendo il
suo vecchio pubblico festeggiare, i tifosi che non l’avevano
capito, la squadra che lo aveva snobbato. 1 - 1. Poi Barbas
capisce i sentimenti del compagno: sono io l’attaccante del
Lecce, ti aiuto io. Slalom, entra in area... Aoh, ma ‘ndo vai?
Fermatelo! E lo fermarono. Rigore: 1 - 2. Fine primo tempo.
E la Juve? Come. Quando mai chiedevamo che faceva la Juve? Beh, per una volta... Comunque, sempre 0 - 0. E centomila cuori cominciarono a chiedere il miracolo a chi la Roma
l’aveva amata. A Capitan Di Bartolomei. Al Barone...
Comincia il secondo tempo e la Roma pare ritornata se stessa.
Azioni su azioni. Palo esterno! Parata! Ehi, ma non è Barbas
quello? 1 - 3. E sul tabellone, freddo, implacabile: Juventus 1
Milan 0. A tre minuti dal termine Kawasaki segnò il 2 - 3, ma
sott’acqua si vede male. Io non me lo ricordo.
L’ultima cosa che mi ricordo di quella giornata strana, uscendo mestamente da un sogno e tornando alla realtà, fu una
scena emblematica. Seduto sulla spalletta del ponte, mentre
un fiume di persone silenziose gli sciamavano vicino come
fantasmi, un omone grande e grosso, sicuramente sopra il
quintale, con una barba di tre giorni sale e pepe e in dosso
una ridicola perché troppo piccola maglietta della Roma con
davanti lo scudetto e la scritta Barilla e dietro il 5 di Falcao,
piangeva senza ritegno, come un bambino a cui hanno tolto il
100
giocattolo, e ogni tanto alzava lo sguardo al cielo e chiedeva:
“Perché, perché proprio a me? Che ho fatto di male?”
I tifosi della Roma non sono né meglio né peggio dei tifosi di
tutto il mondo. Mi dà fastidio sentir dire da altri tifosi che una
data squadra è antipatica perché i suoi tifosi sono teppisti che
distruggono le vetrine quando vengono a giocare da loro. Da
che esiste il tifo, e non solo nel calcio, ci sono purtroppo atti
di teppismo. E sono questi che vanno demonizzati, non i tifosi. E’ ovvio che i tifosi del Treviso in trasferta a Roma, in un
numero che non arriva a cento persone, sono più tranquil- li
dei tremila romanisti che invadono la ridente cittadina veneta.
Ma come i tifosi delle altre squadre di grandi o medie città
che normalmente militano nella massima serie hanno i loro
alti e bassi, così quelli della Roma possono essere più o meno
violenti. Di solito sono bravi quando la squadra va bene, sono
cattivi quando va male. I tifosi della Roma dopo quella partita
diventarono forse un po’ più cattivi, almeno per qualche tempo. Bisogna capirli. In loro difesa, se in fatto di comportamento sono simili agli altri, devo dire che i tifosi della Roma
sono forse unici in quanto ad inventiva e calore verso la
squadra. Anche quando palesemente è una squadra di brocchi. Solo la Sud ha impedito che fatalmente in molte annate
la Roma scivolasse in serie B. Molti dei cori che si sentono in
giro in Italia per i campi di calcio sono nati all’Olimpico.
Molte delle più belle coreografie le ha mostrate la Sud.
A volte ripenso a quello strano anno e ancora non mi capacito
di come possa essere successo. A distanza di vent’anni, mi
dico che è stato solo un incubo. La Roma in vero vinse quello
scudetto, sono io che sono scivolato in un mondo parallelo e
crudele. Non ci sono altre spiegazioni razionali. Poi però rivivo quella rincorsa, le sensazioni di quell’anno. Sì, sarebbe
stato tutto fantastico se avessimo anche vinto lo scudetto, ma
comunque quello che c’è stato prima di quella partita è stato
101
vero e la dimostrazione sta nel fatto che per me il periodo più
esaltante da romanista non sono stati gli ultimi due scudetti,
ma quello straordinario, unico anno. Vincere forse sarebbe
stato troppo...
FINE
102
Allegati
1. Tabella dei distacchi tra Roma e Juventus del Campionato
1985/86:
Giornata
Data
Distacco
1
8/9
-
2
15/9
-
3
22/9
-2
4
29/9
-3
5
6/10
-3
6
13/10
-5
7
20/10
-5
8
27/10
-7
9
3/11
-5
10
10/11
-7
11
24/11
-6
12
1/12
-8
13
8/12
-9
14
15/12
-8
15
22/12
-8
16
5/1
-7
17
12/1
-6
18
19/1
-5
19
26/1
-5
20
9/2
-4
103
21
16/2
-3
22
23/2
-4
23
2/3
-4
24
9/3
-5
25
16/3
-3
26
23/3
-3
27
6/4
-1
28
13/4
-
29
20/4
-2
30
27/4
-4
2. Classifica finale Serie A anno 1985/86
Squadra
Gio Pti
Vit Par Sco Gol Gol DR
F
S
1 JUVENTUS
30
45
18
9
3
43
17
26
2 Roma
30
41
19
3
8
51
27
24
3 Napoli
30
39
14
11
5
35
21
14
4 Torino
30
33
11
11
8
31
26
5
5 Fiorentina
30
33
10
13
7
29
23
6
6 Inter
30
32
12
8
10
36
33
3
7 Milan
30
31
10
11
9
26
24
2
8 Atalanta
30
29
7
15
8
27
26
1
9 Como
30
29
7
15
8
32
32
0
10 Verona
30
28
9
10
11
31
40
-9
11 Avellino
30
27
9
9
12
28
38
-10
12 Sampdoria
30
27
8
11
11
27
25
2
13 Udinese
30
25
6
13
11
31
37
-6
104
14 Pisa
30
23
5
13
12
27
40
-13
15 Bari
30
22
5
12
13
18
31
-13
16 Lecce
30
16
5
6
19
23
55
-32
In maiuscolo/grassetto la squadra Campione d'Italia, in rosso/grassetto le squadre retrocesse
3. Formazione della AS Roma campionato 1985/86
Tancredi, Gerolin, Oddi, Boniek, Nela, Righetti, Conti,
Cerezo, Pruzzo, Ancelotti, Tovalieri, Gregori, Lucci,
Graziani, Desideri, Impallomeni, Di Carlo, Bonetti, Baroni; Allenatore Sven Goran Eriksson
105
OTTOBRE ’72
Il ragazzo cominciò a fare l’autostop poco dopo le undici. I
libri di scuola sottobraccio, legati con una cinghia elastica
gialla tutta scarabocchiata, si era avviato lungo la statale, sul
marciapiede, fin quasi al termine del paese, fermandosi dopo
l’ultimo incrocio. Era una bella giornata, quasi estiva. Appena
deciso dove appostarsi, mostrò il pollice col braccio teso alla
prima auto in transito, una 125 color crema, che lo ignorò.
Trascorsero così una ventina di minuti, senza che nessuna
delle auto che transitavano, per la verità poche a causa dello
scarso traffico, dessero speranza di un passaggio. Dopo aver
inutilmente segnalato ad una Opel Kadett verde metallizzata,
subito dietro sopraggiunse una Fulvia bianca, targata Spezia,
che rallentò abbastanza bruscamente e si fermò accostando al
marciapiede una ventina di metri più avanti, di fronte ad un
tabaccaio. Il ragazzo si voltò a guardare l’auto speranzoso:
non aveva capito se si era fermata per lui o per altro motivo.
Dall’auto scese un uomo calvo, sui quarantacinque anni, senza giacca e con la cravatta allentata. Si stirò, ignorando il ragazzo, e si avviò verso il tabaccaio. Il ragazzo, deluso, tornò a
scrutare la strada in attesa di altre auto e tese di nuovo il
braccio con il pollice alzato ad una 128 giallo senape.
Una volta dentro il negozio, l’uomo comprò una stecca di
Marlboro morbide, pagando con una banconota da cinquemila lire e ricevendone di resto una da cinquecento. Uscendo dal
Tabacchi, si fermò sul marciapiede, prese un pacchetto dalla
stecca che poi, aperto lo sportello posteriore della Fulvia, gettò sul sedile. Aprì il pacchetto di sigarette e se ne accese una
con un accendino Remington. Finalmente si guardò intorno,
aspirando voluttuosamente la prima boccata, e notò il ragazzo
che stava invano chiedendo un passaggio, di cui non si era
accorto prima di fermarsi, perché intento ad individuare l’in-
segna di un tabaccaio. L’uomo si era alzato presto quella
mattina, per fare un giro di clienti che lo avrebbe portato la
sera a Roma, dove la mattina dopo avrebbe avuto l’ultimo e
più importante appuntamento. Se per molti il suo mestiere di
rappresentanza era di scarso interesse, lui invece con quel
lavoro aveva trovato un equilibrio perfetto e per nulla al
mondo l’avrebbe cambiato. Sposato da oltre vent’anni e con
un figlio ormai all’Università, nel poco tempo che passava in
famiglia era un marito premuroso e un padre prima affettuoso
e ora generoso. Durante i frequenti viaggi che duravano invariabilmente due-tre giorni, invece, da molti anni aveva potuto
manifestare apertamente la sua omosessualità. Aveva potuto
fare questa doppia vita proprio grazie al suo lavoro. La moglie non aveva mai sospettato della sua passione nascosta,
così come i suoi conoscenti e parenti. Solo un paio di amici
fidati conoscevano la sua seconda vita segreta. Tempo addietro aveva preso una sbandata importante per un avvocato, un
uomo molto dolce e colto, con dei riccioli neri che ancora lo
facevano sospirare di nostalgia. Una sbandata che aveva messo in sospetto la moglie. Grazie alla complicità dei suoi amici
l’aveva scampata. Poi scoprì che l’uomo aveva almeno un
altro amante e dopo una furiosa litigata si erano lasciati. Da
allora aveva evitato accuratamente di avere storie con uomini
del posto e s’incontrava solo con amanti trovati durante i suoi
viaggi. Da alcune settimane aveva conosciuto un ragazzo romano di trent’anni, per caso e inaspettatamente. Era un autista di autobus a cui aveva chiesto le indicazioni per arrivare
in un certo posto nel quartiere salario. Il giovane l’aveva convinto a terminare con lui la corsa perché stava a fine turno e,
abitando vicino al posto dove doveva andare, l’avrebbe accompagnato volentieri. Parlarono per ore, cenarono insieme e
si trovarono l’uno nelle braccia dell’altro senza quasi accorgersene. Non vedeva l’ora di arrivare quella sera a Roma.
Con questi pensieri, finì la sigaretta e spense la cicca pestandola con la suola. Guardò di nuovo il ragazzo che, senza suc108
cesso, continuava a chiedere un passaggio alle auto in transito. Tipico adolescente, capelli lunghi chiari tenuti fermi da
una fascetta di spugna da tennista sulla fronte, magro e non
molto alto, le spalle larghe e il bacino stretto, fasciato dai
jeans, dimostrava diciassette o diciott’anni. Indossava oltre ai
jeans, una polo a maniche corte celeste, ai piedi i classici desert boot di camoscio chiaro che tanto andavano di moda. Bel
ragazzo, anche se ancora molto giovane. Il ragazzo si voltò
per un attimo per seguire con lo sguardo una 124 Special grigia che aveva rallentato, ma che stava rapidamente accelerando, cosicché poté vedergli il volto, un viso ancora acerbo,
imberbe. Forse aveva anche meno, quindici o sedici anni.
Non aveva mai avuto storie con ragazzini, né ci aveva mai
pensato. Gli adolescenti lo intimorivano, non li capiva. Quel
ragazzo però gli suscitava qualcosa di strano. Fisicamente era
molto bello, già adulto. Gli tornarono in mente i suoi diciassette anni, durante la guerra, quando s’innamorò per la prima
volta, un tenente dell’aviazione inglese che aveva trovato rifugio per qualche settimana nel casolare dove erano sfollati.
Era l’estate del ’44. Il tenente lo capì quasi subito e lo sedusse dopo pochi giorni, iniziandolo alle gioie del sesso. Cullò
per qualche istante questi ricordi, poi decise di concedere il
passaggio al ragazzo. Era là da tempo e gli faceva tenerezza.
Un po’ di compagnia durante il viaggio avrebbe spezzato la
monotonia. Non era avvezzo a tirar su gli autostoppisti, era
un tipo riservato che amava viaggiare da solo con i suoi pensieri, o ascoltando l’autoradio. Inoltre spesso trasportava oggetti di valore e poteva diventare pericoloso. Quel ragazzo
però non era il classico autostoppista. Probabilmente era uno
studente che, uscito anzitempo da scuola, stava cercando di
tornare a casa prima. Senza contare che era veramente bello
(almeno per i suoi canoni) e la curiosità di poterlo ammirare
più da vicino vinse le sue ultime reticenze. Così richiamò la
sua attenzione e gli fece cenno di avvicinarsi. Il ragazzo, dopo aver avuto conferma a gesti che l’uomo si rivolgeva pro109
prio a lui, si avviò di corsa verso l’auto bianca, soddisfatto di
aver finalmente trovato un passaggio. Mentre si avvicinava,
l’uomo l’osservò più attentamente. Correva con naturalezza,
senza sforzo. Non riuscì a dargli un’età precisa, poteva avere
dai sedici ai vent’anni. Arrivatogli vicino, gli chiese dove era
diretto. Il ragazzo gli nominò un paese che lui non conosceva.
«È sulla statale verso Roma?» gli chiese.
«Sì» gli confermò «a meno di quaranta chilometri da qui»
«Va bene, sali»
Entrarono in auto. Appena seduto, il ragazzo si girò indietro
per posare i libri sul sedile posteriore. L’uomo notò tra i libri
una grammatica di greco antico. Partirono e per alcuni chilometri non parlarono. Il ragazzo all’inizio studiò incuriosito
l’interno dell’auto, sfiorando con le dita il cruscotto e l’autoradio. L’uomo lo lasciò fare, mentre continuava a studiarlo,
guardandogli le mani che erano delicate, le dita lunghe e i
polsi sottili; gli avambracci e le braccia invece robusti, ricoperti solo da una leggerissima peluria trasparente che risaltava sulla pelle ancora abbronzata. Poi tornò a fare attenzione
alla guida, mentre il ragazzo si voltò verso destra a guardare
distrattamente il paesaggio che scorreva. L’uomo allora accese l’autoradio e la sintonizzò su Radio Montecarlo, tenendone
il volume basso. Stavano trasmettendo l’ultimo singolo di
Lucio Battisti. Guidava senza fretta, attraverso la campagna
autunnale. In quel tratto la statale era molto tortuosa, piena di
curve, cunette e dossi. Subito dietro una curva, si presentò
davanti a loro una coda di una ventina di auto che procedevano lentamente. In testa alla coda si intravedeva una macchina
agricola, un trattore con rimorchio. La Fulvia si accodò e
l’uomo abbassò completamente il finestrino. Il ragazzo lo
imitò. Una folata d’aria fresca e gradevole entrò nell’abitacolo. L’uomo approfittò e si accese una sigaretta, offrendone
una anche al ragazzo, che accettò volentieri. Il gesto dette il
via ad uno straccio di conversazione.
«Fai il Classico?»
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«Eh?»
«Ho intravisto che tra i libri hai una grammatica greca, così
ho pensato che fai il Liceo Classico. Che classe fai, la prima
o la seconda?»
«Sono al quarto anno»
«Quindi fai la seconda». Il ragazzo non rispose, tirò una boccata e scosse la cenere nel piccolo posacenere sul cruscotto.
L’uomo riprese a parlare:
«Il Liceo Classico è difficile. Alla tua età... Diciassette, vero?» il ragazzo annuì. «Alla tua età ero sfollato, c’era la guerra. 1944. Però sono riuscito a diplomarmi lo stesso, nel ’47.
In Ragioneria. Avevo un’amica che faceva il Classico. Quando scoppiò la guerra era in quinta ginnasiale, ma nel ’45 dette
la maturità da privatista e la passò. Ora è avvocato. Io invece
non sono andato all’Università. Te la cavi, con lo studio?» Il
ragazzo tirò un’altra boccata, poi rispose:
«Abbastanza»
«Bravo. Sai già cosa vorrai fare dopo?»
«No». L’uomo spense il mozzicone nel posacenere, imitato
dal ragazzo. La coda si stava esaurendo e ora davanti a loro
c’era solo una 500L blu e il trattore, che rallentò ulteriormente e imboccò una stradina sterrata sulla destra. L’uomo ingranò la seconda e, approfittando di un breve rettilineo sgombro,
mise la freccia a sinistra superando in scioltezza la 500. Avevano percorso già una ventina di chilometri. L’uomo richiuse
parzialmente il finestrino, il ragazzo invece tese il braccio
destro fuori dal finestrino e si divertì a contrastare il vento.
Poi, poiché l’auto aveva ripreso una discreta velocità, anche
lui ritirò il braccio e chiuse il finestrino. Alla radio stavano
discutendo di qualcosa, ma il volume molto basso impediva
di capire cosa. Il ragazzo tirò su la gamba destra e l’appoggiò
sul ginocchio sinistro, tenendosela con le mani e rilassandosi.
L’uomo ebbe l’impulso di posare una mano sulla sua caviglia,
ma si controllò.
«Fai dello sport?»
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«Al momento no. Da ragazzino ho fatto per un paio d’anni
Judo e giocavo in una squadretta locale di calcio, ma ora non
m’interessa più»
«Hai un fisico da nuotatore. Avrei giurato che facessi qualche
sport. Le spalle larghe, magro ma robusto. Hai davvero un bel
fisico, complimenti»
«Grazie». Il ragazzo si tolse la fascia di spugna dalla fronte e
si ravviò i capelli. Una frangia gli calò sugli occhi e lui la rimise all’indietro con un gesto vagamente femminile. Poi si
rimise la fascetta.
«Certo, voi giovani avete certi capelli lunghi...» osservò
l’uomo. Il ragazzo non replicò. Così l’uomo continuò: «Non
sarebbe più comodo portarli corti? E più maschio? Magari
molte ragazze invece li portano corti»
«È vero»
«Il mondo va proprio alla rovescia. Perché lo fate, per protesta o per cosa?»
«Semplicemente perché mi piace averli lunghi»
«I tuoi non dicono niente?»
«Sono solo con mio padre. Mia madre è morta quando ero
piccolo»
«Mi dispiace...»
«Fa niente. Tanto nemmeno la ricordo»
«E ora tuo padre è solo?». Il ragazzo lo guardò con aria interlocutoria. L’uomo si affrettò allora a riportare la conversazione su argomenti più impersonali: «Scusa. Chiedevo così per
chiacchierare. In effetti non mi dovrebbe importare. Ti occupi
di qualcosa, oltre allo studio?». Il ragazzo sospirò, poi come
se dovesse compiere un dovere, rispose. Nel farlo riportò giù
la gamba destra. L’uomo fu distratto dal gesto e della risposta
sentì solo la parola “assemblea studentesca”.
«Ti occupi di politica, allora»
«Non proprio. Più di rappresentanza di classe. Sono orientato
a sinistra, ma non riesco ad identificarmi con gruppi o partiti.
Frequento i CPS...». L’uomo stentava a trovare un argomento
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che potesse ravvivare la conversazione, anche perché era distratto dalla vicinanza del ragazzo. Mentre cercava di dialogare, la sua mente vagava in fantasie sempre più spinte. Se lo
immaginava nudo, cercava di indovinare se fosse ancora del
tutto glabro o no. Sentiva un groppo alla gola e allo stomaco
e aveva una semierezione che stentava a controllare. Il ragazzo, dalla sua, non dava segni di essere interessato ad una
qualsivoglia conversazione con lui e rispondeva solo per cortesia. Si vedeva che non vedeva l’ora di arrivare. La cosa irritava l’uomo, che voleva invece cercare di far colpo, voleva
cercare di entrare più in intimità, piccato di non suscitare nel
ragazzo alcun interesse. Dopo poco, l’uomo riprovò a ricomporre una conversazione:
«Tuo padre che lavoro fa?». Il ragazzo si voltò, infastidito
dall’insistenza dell’uomo. Lui ne rimase quasi intimorito. Ma
poi il ragazzo gli rispose, questa volta finalmente con qualche
parola in più rispetto ai monosillabi pronunciati fino a allora.
Forse aveva considerato che un po’ di relazione, se non altro
per cortesia, era giusto elargirla.
«Mio padre è medico condotto. Sono nato a... e abitiamo lì da
sempre. Mio nonno era medico del paese e mio padre ne ha
preso il posto. Abitiamo appena fuori, in una bella villetta.
Tutti i giorni vado e torno da scuola con il treno. Ancora non
abbiamo l’orario completo, così oggi siamo usciti alle 11 e ho
fatto l’autostop per non aspettare il treno dell’una». Quindi lo
guardò con un sorriso, convinto con questo di aver esaurito la
conversazione. Ma l’uomo non desistette.
«Vai d’accordo con tuo padre?»
«Per il poco che ci vediamo...»
«Ti somiglia?» La domanda gli venne spontanea, anche se si
rese conto subito che era una domanda strana. Cercò subito di
rimediare, giustificandola: «Anch’io ho un figlio. Siamo
completamente diversi! Lui ha preso da mia moglie. Ora fa
l’Università, Ingegneria. Ha qualche anno più di te. In effetti
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anche noi non ci vediamo spesso: lui ha la sua vita, la sua ragazza... Tu ce l’hai la ragazza?»
«Naturale». L’uomo non replicò. Finalmente era riuscito a
finire su un argomento che poteva portare a discutere di cose
più intime. Fingendo una complicità maschile, forse poteva
addirittura azzardarsi a parlare esplicitamente di sesso. Magari spacciandosi per eterosessuale. Avrebbe cercato di eccitarlo
evocandogli visioni femminili o inventandosi esperienze di
amanti e di amplessi. Per qualche minuto si concentrò per
superare un vecchio autotreno ansimante, che ad ogni accelerata li inondava di fumo nero. Una volta superato l’autotreno,
riattaccò:
«State insieme da molto?»
«Quasi un anno»
«È più giovane o più grande di te?»
«Frequentiamo la stessa classe»
«Perché non sei rimasto con lei, stamani?»
«Perché doveva andare con i suoi»
«Com’è, carina?» gli chiese con aria complice. Il ragazzo non
si scompose:
«Per me sì». Anche questa conversazione non stava portando
a niente. L’uomo capì che se avesse provato a chiedere più
esplicitamente qualcosa di più intimo, avrebbe trovato resistenza. Intanto non riusciva ad impedirsi di guardarlo, anche
se di nascosto. Il ragazzo mostrava un’espressione annoiata,
da bambino viziato. Era affascinato dal suo viso, perché glabro ma già spigoloso, virile. Un misto ancora tra fanciullezza
e maturità. Completamente privo di basette, i lobi parzialmente coperti dai capelli lunghi, un ombra di peluria sul labbro superiore e radi peli matti sul mento. Il naso grosso, la
fronte spaziosa, gli occhi azzurri, ravvicinati, con le sopracciglia chiare e le ciglia lunghe, delicate. Le labbra fini attraverso le quali s’intravedevano i grossi incisivi superiori. Con una
fitta allo stomaco immaginò di baciarlo. Si era completamente dimenticato dell’amante romano. La tensione erotica che la
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vicinanza di quel corpo giovane gli trasmetteva, il vago odore
di sudore, lo stavano letteralmente soggiogando. Si accorse
che lo stava desiderando come non aveva mai desiderato nessun altro uomo. Fantasticò su come iniziarlo, su come sedurlo. Ripensò a se stesso e al tenente inglese. Sentiva che era
arrivato ad un punto di non ritorno. La stessa indifferenza nei
suoi confronti che dimostrava l’atteggiamento del ragazzo, lo
spingeva a fare qualcosa di più concreto per uscire dall’impasse. Allora, senza preavviso, con un gesto che cercò di far
sembrare naturale, gli mise una mano sul ginocchio sinistro.
Il ragazzo s’irrigidì, sorpreso.
«È come con la tua ragazza, sai» gli sussurrò lascivamente. Il
ragazzo non rispose. Però neppure si sottrasse a quel contatto.
Rimase rigido, fissando la strada. L’uomo, come incoraggiato, continuò:
«Sei bellissimo. Anche la tua ragazza è così bella? Dovete
essere una coppia stupenda». Tolse la mano dal ginocchio e
gli carezzò con il dorso delle dita la guancia e il mento: «questi peletti... Te la sei mai fatta la barba?». Il ragazzo a quel
punto reagì:
«La prego, smetta». L’uomo riportò la mano sullo sterzo. Poi
però insistette:
«È presto. Non è ancora mezzogiorno. Non vorresti fare un
bel regalo alla tua ragazza? Sono sicuro che non hai problemi
di soldi. Ma io ti darei abbastanza per farle un regalo bellissimo. E t’assicuro che per pranzo saresti a casa». Il ragazzo
non disse nulla. «Quanto manca al tuo paese?»
«Siamo quasi arrivati,» rispose il ragazzo sollevato «fra due
chilometri c’è un sottopassaggio e dopo si entra in paese. Mi
può lasciare alla stazione. Ho la moto là». L’uomo rallentò.
Decise che a quel punto tanto valeva essere diretti. Non voleva perdere quell’occasione senza provarci esplicitamente. Se
ne sarebbe pentito per sempre:
«Diecimila lire» disse. Non avendo risposta, continuò: «Non
devi fare nulla. Chiudi gli occhi e ti faccio tutto io. Prima del115
l’una sarai a casa». Una DS li superò rabbiosamente, suonando il clacson. Il ragazzo si girò verso di lui. Aveva gli occhi
spalancati, leggermente umidi. Lo guardò con un’aria implorante. Sembrava un cucciolo intrappolato. L’uomo ne ebbe
compassione e a malincuore decise di finirla là. «Va bene,
caro. Non voglio insistere. Ti porto a casa».
«Diecimila lire?» mormorò inaspettatamente il ragazzo, con
un filo di voce. L’uomo accostò bruscamente sul ciglio della
strada e fermò l’auto. Si voltò e prese tra le sue una mano del
ragazzo.
«Diecimila lire» confermò.
«E io non devo fare nulla, vero? Non devo toccarti né altro.
Fai solo tu»
«Te lo giuro»
«E poi mi riporti immediatamente a casa»
«Contaci»
Il ragazzo ritirò la mano dalle sue. Si girò verso il finestrino e
senza guardarlo disse:
«Va bene. Prendi quella stradina poco più avanti, sulla sinistra. porta ad un casolare abbandonato. Ci vado sempre con la
mia ragazza». L’uomo, ancora incredulo per quello che stava
succedendo, si guardò intorno e vide subito la stradina indicata dal ragazzo. Mise in moto e la raggiunse, imboccandola.
Dopo poche centinaia di metri arrivarono all’aia del podere
abbandonato, un rudere invisibile dalla statale. Una volta
spento il motore, si voltò e cercò di riprendere la mano al ragazzo. Lui però si scansò e in modo molto pragmatico chiese
prima i soldi. L’uomo sorrise. Gli venne in mente, chissà per
quale strana associazione, il finale del secondo atto della Tosca. Scarpia che finalmente sta per agguantare la sua preda,
ma quella chiede prima il salvacondotto. Si girò e prese la
giacca dal sedile posteriore. Dalla tasca interna tirò fuori il
portafoglio, ne estrasse un foglio da diecimila lire e lo consegnò al ragazzo. Lui lo fece sparire nella tasca anteriore dei
jeans. Poi disse:
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«Facciamo presto» e si abbandonò sullo schienale.
«Eh no, ragazzino,» puntualizzò l’uomo «sono io che ho pagato e sono io che decido come fare»
«Avevi detto che non dovevo fare nulla!» ribadì preoccupato
il ragazzo.
«Infatti. Lo confermo. Ma non lo voglio fare in macchina.
Ora scendiamo e ti sdrai su un plaid che ho nel bagagliaio.
Poi ci penso io».
«E se non ci sto?»
«Non c’è problema. Ce ne torniamo via. Mi ridai le diecimila
lire e ce ne andiamo» bluffò l’uomo. Il ragazzo non rispose.
L’uomo scese dall’auto e aprì il bagagliaio, tirandone fuori un
grande plaid a scacchi e stendendolo accanto all’auto, su un
piccolo fazzoletto di prato. Poi si alzò e aspettò. Il ragazzo,
riluttante, scese dall’auto e rimase in piedi davanti a quel talamo improvvisato. Le braccia dietro la schiena, la testa reclinata in segno di sottomissione. L’uomo gli andò incontro
eccitato:
«Finalmente! Vedrai che ti piacerà» e fece per abbracciarlo.
Quando già lo aveva praticamente tra le braccia, sentì una
fitta dolorosissima al petto, così forte da lasciarlo senza respiro. Ebbe pochissimi attimi ancora di coscienza, che non gli
bastarono per capire cosa stava succedendo. Forse non si rese
neppure conto che stava morendo. Il suo corpo cadde fulminato all’indietro, gli occhi sbarrati con le pupille che lentamente si dilatavano, i calzoni che si bagnavano d’urina, qualche piccolo spasimo ancora delle mani, poi l’immobilità più
assoluta. Il ragazzo rimase a guardarlo senza alcuna espressione sul volto per qualche secondo, poi lentamente si voltò e
tornò all’auto. Prese la giacca dell’uomo e ne estrasse il portafoglio. Conteneva novantamila lire in pezzi da dieci e
15.500 lire in un altro scomparto. C’era anche un libretto
d’assegni, che estrasse dubbioso se prendere o meno, ma lasciandolo poi sul sedile insieme al portafoglio svuotato. Indossò la giacca: gli stava a pennello. Era anche in tinta con i
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jeans. Ripose i soldi nella tasca interna e girò dietro l’auto
fino al bagagliaio. Lì trovò la ventiquattrore dell’uomo.
L’aprì, forzandone le serrature con un cacciavite che prese
dagli attrezzi della Fulvia. Dentro vi trovò alcuni gioielli e
una mazzetta di fogli da cinquantamila lire. Li contò: erano
un milione e mezzo di lire. Sorrise soddisfatto. Lasciò i
gioielli e prese i contanti, riponendoli insieme agli altri soldi.
Poi tornò all’abitacolo. Vide la stecca di Marlboro sul sedile
posteriore e ne prese un pacchetto. L’aprì e si accese una sigaretta, fumandola con calma, seduto di traverso sul sedile
dell’auto, con lo sportello aperto, guardando il cadavere dell’uomo. Finita la sigaretta, la spense accuratamente, strappò
un pezzo di un giornale che stava nell’auto e ce la mise dentro, insieme alle altre cicche che c’erano nel posacenere, mettendosi tutto in tasca. Poi si alzò e s’avvicinò al morto. Gli
guardò con interesse l’orologio, ma decise che non ne valeva
la pena. Quindi s’inginocchiò alla destra dell’uomo, appoggiò
la mano sinistra sul torace esanime e con la destra impugnò il
manico d’avorio del coltello a serramanico che gli spuntava
da sotto lo xifoide, estraendolo con un gesto secco, esperto.
Solo una piccola bolla di sangue uscì dalla ferita. Quindi si
pulì sommariamente sull’erba e nettò il coltello con il giornale che aveva trovato nell’auto. Lo ripiegò e lo ripose nella
tasca posteriore dei jeans, dove stava di solito. Ritornò un’ultima volta all’auto, che aveva tre sportelli e il bagagliaio spalancati, guardando all’interno per vedere se aveva dimenticato qualcosa o se c’era qualcos’altro di utile. Sorrise vedendo i
libri che poco prima aveva sottratto di nascosto ad una ragazza nel parco mentre stava pomiciando con un coetaneo. Li
lasciò nell’auto. Prima di allontanarsi, dette un’ultima occhiata al casolare e si disse che quel giorno era stato davvero fortunato. Posto ideale. Quindi s’avviò fischiettando verso la
statale. La imboccò in direzione opposta a quella dalla quale
era venuto. Percorsi un centinaio di metri, sentì il rumore di
un’auto che si avvicinava: si voltò, era una Giulia GT 1300
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Junior rossa, forse una Quadrifoglio Verde. Continuando a
camminare all’indietro, alzò il pollice. L’auto lo superò e poi
si fermò poco più avanti. Dal finestrino aperto si sporse il
volto di un uomo sulla cinquantina, capelli brizzolati, baffetti
alla Clark Gable e fazzoletto al collo. Sorridendo, gli fece
segno di avvicinarsi. Il ragazzo gli andò incontro di corsa,
sorridendo a sua volta e toccandosi istintivamente la tasca
posteriore dei jeans.
FINE
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E così siamo giunti all’ultimo racconto, anche in ordine cronologico. L’ho elaborato durante le ultime vacanze e l’ho
scritto di getto al ritorno. Mi rendo conto rileggendolo che
può apparire come un racconto omofobo: se così sembra anche al lettore, mi dispiace, non era nelle mie intenzioni. Ho
cercato di presentare la vicenda in modo che il finale fosse
completamente inatteso (la presunta vittima che invece è uno
spietato carnefice). Soprattutto però la storia trae spunto da
un episodio che mi è realmente accaduto all’inizio di ottobre
del 1972, facendo l’autostop mentre tornavo da scuola. Fu
imbarazzantissimo perché l’uomo che mi dette il passaggio
poteva avere l’età di mio padre, ma fortunatamente si risolse
in un niente di fatto e l’uomo mi accompagnò alla stazione
senza insistere più di tanto né tantomeno chiedendomi qualcosa di esplicito, e salutandomi con un “Ciao, caro”. Però fu
un’esperienza scioccante. Aveva una Fulvia bianca targata
Spezia e stava andando a Roma. L’ultima parte del viaggio la
ricordo con terrore, l’uomo che mi sfiorava il mento e mi
palpava il ginocchio commentando la mia “bellezza”, assicurandomi che “è come con la tua ragazza”, ed io paralizzato,
fino a quando l’ho pregato di smettere. Fu la prima e l’unica
volta in vita mia che un uomo tentò di abbordarmi. Abbozzò,
probabilmente resosi conto che la cosa poteva farsi pericolosa
(ero minorenne e per niente consenziente. Inoltre già pensavo
di segnalare la cosa ai carabinieri). Quindi anche questo racconto è stato una scusa catartica per mettere nero su bianco
quella lontana vicenda autobiografica. Anche l’eventuale parallelo con la vicenda di Pasolini, di qualche anno più tardi, è
assolutamente arbitrario, essendo i due contesti completamente diversi.
Un caloroso saluto dall’Autore
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