Il Brufolo
Di
Marco Costa
A Musetta
<<Davvero riesci a mangiarti quella roba?>>
<<Ce l’hai con me o sei uno schizzato che parla da solo?>>
<<Sei nuova tu. Lo so perché qui a scuola.. praticamente..>>
<<Conosci tutti?>>
<<Esatto.>>
<<Come i bidelli.>>
<<Da dove vieni?>>
<<Da Bangor, nel Maine.>>
<<Dove vive Stephen King, cazzo non dirmi che lo conosci.>>
<<Chi?>>
<<Stephen King, lo scrittore horror. Mio cugino dice che è il più grande scrittore del
mondo.>>
<<Tuo cugino non capisce un cacchio.>>
<<Come ti chiami?>>
<<Mary Jane.>>
<<Un nome bellissimo.>>
<<Lo so, me l’ ha dato mia madre. Anche lei ha un nome bellissimo. Si chiama
Francesca.>>
<<E’ un nome Italiano Francesca. Tu sei Italiana?>>
<<Oh no.>>
<<Comunque io sono Eddie J. Largo.>>
<<E allora? Cosa vuoi?>>
<<Niente, era così per presentarmi. Ho visto che eri nuova e volevo presentarmi.>>
<<Sono qui già da una settimana.>>
<<Lo so, e so anche che non parli mai con nessuno.>>
<<Sono loro che non parlano con me.>>
<<Io ti sto parlando.>>
<<Sì. Praticamente questo fa di te un mio amico.>>
<<Perché ti sei trasferita?>>
<<Che ti frega?>>
<<Così per sapere..>>
<<Bangor non ci piaceva più. Cioè a mia madre non piaceva più, io ci sarei rimasta.>>
<<E qui le piace?>>
<<Qui c’è sua sorella, stanno tutto il giorno insieme. Parlano.>>
<<Che lavoro fa tua madre?>>
<<La disegnatrice.>>
<<Disegnatrice? Che lavoro è?>>
<<Un lavoro che si fa con la carta, la matita e la fantasia.>>
<<E che disegna? Cose tipo mobili, oppure ritratti..>>
<<Fumetti. Disegna ogni settimana una striscia satirica sul Daily Express.>>
<<Oh. Sai una cosa?>>
<<Cosa?>>
<<Mi piace molto il trucco che ti sei messa sugli occhi.>>
<<Prendi per..>>
<<No, davvero, ti rende speciale, affascinante, non lo so, è bellissimo.>>
<<L’avevo visto su un giornale. Si chiama Notte argentata. Mi ha aiutato mia madre a
farmelo. Stamattina ci siamo svegliate troppo presto senza motivo, abbiamo fatto
colazione e così per ammazzare il tempo le ho chiesto se mi aiutava a truccarmi. Le ho
fatto vedere la fotografia sul giornale e..>>
<<Lo fai spesso?>>
<<Truccarmi?>>
<<Eh..>>
<<Questa è la prima volta, ma mi sa che ho esagerato.Mi guardano tutti.>>
<<Fregatene, è perché ti sta bene che ti guardano.>>
<<Dici?>>
<<Ma certo.>>
<<Ma tu non mangi? Non hai fame?>>
<<Come? Oh no, io non mangio quasi mai.>>
<<Non sai che ti perdi.>>
<<Senti Mary Jane, tu qui non ti sei ancora fatta un gruppo d’amici.>>
<<Nh-nh..>>
<<Magari nel week end non sai che fare.>>
<<Mi stai chiedendo un appuntamento Eddie J.Largo?>>
<<Ci stavo arrivando.>>
Tra le sei e le sette di quel pomeriggio Eddie J. Largo si chiuse nel bagno preferito di
casa sua per masturbarsi. Voleva farlo pensando alla nuova ragazza conosciuta a scuola,
Mary Jane. L’aveva vista quasi subito appena giunto in classe. Lei se ne stava in
seconda fila, composta e silenziosa nel suo banco. Era bella come la luna d’estate,
riflessa in frammenti sulla cruna delle onde.
Si era truccata gli occhi. Ecco un’altra cosa che aveva notato subito. Ombretto nero
appena accennato inseguito da una tinta bianco perlacea sfumata sino alle sopracciglia.
Un velo di cipria sulle guance. Molto raffinata ed infinitamente tenera. Nessuno più di
lei portava in volto i segni del disagio e dell’imbarazzo di chi al mattino, dando ascolto
a chissà quali lumi, in un eccesso di aspirazione al bello, aveva deciso di truccarsi senza
preoccuparsi di mantenere la propria decisione in accordo con le circostanze. Si sentiva
osservata. E lo era. Fosse stata ad un ricevimento in un’ ambasciata i cavalieri avrebbero
fatto la fila per invitarla a ballare. Ma si trovava a scuola, era giovedì mattina ed il cielo
era grigio e compatto come l’asfalto delle strade che solcano le campagne.
Al cambio dell’ora Eddie l’aveva vista alzarsi frettolosamente e camminare a testa
bassa, per il corridoio, affidando il compito di guardarsi intorno alla coda dei suoi occhi.
L’aveva seguita a distanza per tutta la mattina. A pranzo finalmente aveva trovato il
coraggio di parlarle. Lei si era seduta in un tavolo con la sola compagnia del suo
vassoio. Eddie per parlarle aveva persino dimenticato di mangiare e quando lei glielo
aveva fatto notare se l’era cavata con una sbilenca bugia.
Seduto sul water, fece appello a tutto ciò che sapeva di lei. Veniva dal Maine, e già
questo era un buon inizio. Chissà quali bizzarre abitudini sessuali devono avere le
ragazze di quelle parti. Sapeva che forma avevano le sue gambe, magre e muscolose,
con una invisibile peluria bionda di cui ti potevi accorgere soltanto in controluce, così
com’era successo a lui osservandola nel prato dietro alla scuola mentre faceva
ginnastica con le altre ragazze. Sapeva che l’impronta del suo viso era resa inimitabile
da un paio d’occhi spiritati, lievemente felini, appuntiti come frecce scagliate contro il
mondo. A Eddie evocavano le atmosfere di un artista circense dell’Europa dell’Est.
Ricordava benissimo i seni piccoli e i fianchi stretti. Ma soprattutto conosceva il suono
della sua voce. E questa è una cosa triste da descrivere perché mai le parole renderanno
giustizia alla dilettevole sgraziataggine del suo tono. Come il verso d’un animale a metà
tra la cornacchia e il pavone. Deformò tutto quel che aveva sentito dire su di lei e il
resto se lo inventò nel silenzio del bagno.
Una volta appagato gli venne fame e scese a cenare. La madre senza fiatare gli aveva
messo sotto il naso del brodo di pecora. Bevendolo a piccole cucchiaiate Eddie aveva
pensato a cosa mettersi a disegnare subito dopo. Chissà com’è potuto succedere! Mi
sono dimenticato di dirvi questa cosa fondamentale su di lui. Comunque. Eddie J.Largo
era il più grande pittore di tutta Muontain View. Neanche lui si ricordava più quando
aveva cominciato a disegnare e usare i colori a cera e gli acquarelli. Doveva esser stato
di certo assai precoce. Delle volte se l’era chiesto perché invece di starsene tutto il
giorno a contrabbandare figurine del baseball o diventare migliore amico di un qualsiasi
Joe, Matt, Stanley o Mickey e dirsi con uno di loro: <<Perbacco Mickey noi sì che
siamo amici per la pelle, ora, promettiamo che nessuna donna si metterà mai fra di
noi.>>, lui Eddie J .Largo preferiva tracciare studi a carboncino di mani o piedi su
album e quaderni, imitando la natura nei suoi istanti più suggestivi. Se l’era chiesto. Ma
la risposta non l’aveva mai trovata. In questo la faccenda era molto simile alla religione.
E’ così perché è così e basta. E poi era l’unica cosa che sapeva fare, si rispondeva
quand’ancora era un pittore modesto poco prima di entrare nella sua fase titanica,
superomistica. Una delle cose che gli venivano meglio erano i ritratti. La madre ne
teneva uno splendido esemplare, eseguito a matita proprio sopra la testiera del letto. Era
un piccolo disegno di lei, pensierosa con il mento appoggiato allo schienale di una
sedia, eseguito almeno due anni prima della storia che sto qui a raccontarvi. Nel tratto,
avrebbe postulato un esperto d’arte, v’era infusa una sfrenata,commovente sicurezza.
Comunque dopo cena se n’era salito in camera a disegnare donne bellissime in abito da
sera che affogavano e si confondevano con il turchese dell’oceano. Nel farlo si era
addormentato senza firmare e intitolare il disegno com’era solito fare. Sempre.
Il giorno dopo al mattino accarezzandosi e grattandosi la faccia allo specchio Eddie si
accorse dell’apparizione di un apparentemente innocuo brufolo in mezzo alla fronte. A
metà tra un piccolo cecio e una grande lenticchia. Si sciacquò il viso abbondantemente
chissà perché convinto che ciò avrebbe attenuato il magnetismo di quella escrescenza
cutanea. Andando a scuola si era toccato la fronte per tutta la durata del viaggio,
cercando di sedare quei subitanei moti d’ira che l’assalivano ogni qual volta gli pareva
di sentire il brufolo accrescersi. Provò a non pensarci e ci riuscì, fino a che per i corridoi
della scuola incrociò e fu costretto a salutare Mary Jane. Durante il dialogo del giorno
prima Eddie era riuscito a farsi invitare da lei utilizzando tutto il fascino che poteva
cavare fuori da un atteggiamento di simpatica quasi arrogante sfacciataggine. Ma oggi
non ne era più così convinto. La trovava ancora eccezionale e tutto il resto chi lo nega,
ma quel brufolo in bella vista lo impacciava come un paio di pantaloni alle caviglie
quando devi camminare.
<<Allora ti vengo a trovare nel pomeriggio.>> Le disse lui tra spontaneità e costrizione
mentre la sensibilità di tutto il corpo gli si era fissata in un punto preciso della fronte.
Lei gli aveva ripetuto l’indirizzo -i numeri di telefono se l’erano già scambiati il giorno
prima- e tirandosi indietro i lunghi capelli biondi si era allontanata ancora avvolta da un
cangiante bagliore di mistero. Mary Jane. Mary Jane. Mary Jane. Mary Jane. Avreste
dovuto vederla mentre si incamminava tra gli spicchi di luce di quel corridoio.Era una
cosa da non credere.
Eddie percorse a piedi l’isolato che lo separava dalla casa di Mary Jane. Trovò subito il
grande palazzo bianco in cui abitava. Non che a Eddie il palazzo non piacesse ma
trovava che sarebbe stato più appropriato in una città d mare, con le sue grandi finestre e
i bambini che facevano avanti e indietro con i piedi bagnati dalla spiaggia e tutto
quell’intonaco bianco. Si avvicinò ai citofoni. Cercò il cognome di Mary Jane ma notò
che non ve n’erano. Nessun cognome. Se volevi chiamare qualcuno che abitava in quel
palazzo dovevi citofonare all’interno otto, o al dodici o al sedici o al trentadue insomma
avete capito. Eddie notò che l’ingresso era aperto. Entrò convinto che gli sarebbe venuta
qualche idea facendosi quattro passi su e giù per le scale del condominio. Ad ogni piano
c’era una grande specchio che prendeva una parte della parete tra l’ascensore e il
pianerottolo. Ad ogni piano Eddie ci si specchiava. Alla terza volta che questo avvenne
si fermò. Si vide riflesso ancora una volta ed iniziò a dubitare del modo in cui era
vestito. Nulla da dire per i jeans, ma la camicia che indossava sembrava più adatta per
un pranzo di cresima in un ristorante all’aperto. Si avvicinò ad un campanello sul quale
c’era scritto: Interno trentadue. Suonò. Un ragazzo magro, col viso terroso ma ben
curato, solcato da deboli rughe vicino alla bocca aprì la porta. Aveva un’espressione
seria e convinta ma la sua testa ciondolava lascivamente. Le labbra, leggermente
rigonfie sgorgavano all’infuori, carnose. Portava una maglietta nera, senza maniche, con
un drago disegnato sopra. In testa calzava un foulard rosso calato fino a metà fronte,
coperto da un cappello con la visiera portato al contrario. Biascicò un esclamazione di
benvenuto. Eddie fece comunque la sua domanda. Se conoscevano qual’era il numero
dell’appartamento di Mary Jane. Il ragazzo con le labbra carnose accennò una frivola
risata facendo un passo indietro e dicendo che non era a lui, tesoro, che doveva
domandarlo, magari era meglio se parlava con Tobhias visto che era lui ad essersi
trasferito da poco in quell’appartamento. <<Aspetta okay?>> Si era voltato nella
direzione del salotto da cui proveniva una musica di pianoforte mista a suoni della
natura, tipo uccelli che cinguettano, il mare che fischia sulle cime degli alberi e il
frangersi delle onde sopra la scogliera. In quel momento era squillato un cellulare. Il
tizio col foulard rosso si poggiò il palmo aperto sullo sterno sospirando disorientato;
fece un passo verso il telefonino che squillava e due verso Eddie. Lo tirò dentro con
garbo e sveltezza ad un tempo, gli disse di nuovo aspetta okay? e rispose
all’apparecchio. Nell’appartamento c’era un odore nocivo, non molto forte che sapeva
di smalto per pavimenti o di solvente. La telefonata doveva venire da Parigi o giù di lì
perché il tizio si era messo a parlare in francese gridando ou là là e voilà, con una mano
infilata di taglio sotto l’ascella e piegandosi in due dalle risate, scrollando la testa.
Eddie si sporse verso il salotto. Poteva intravederne soltanto una parte. Un paravento
cinese gli ostruiva la vista. C’erano dei cuscini zebrati e argentati per terra, intorno ad
un tavolo dal disegno orientale di legno scuro sul quale bruciavano alcuni incensi tra
bicchieri di vino e boccette tipo medicinale, di vetro scuro, aperte e mezze piene sul
tavolo. Riuscì a scorgere una parte di divano. C’erano due uomini di corporatura robusta
addossati l’uno all’altro con le gambe intrecciate. Continuavano a cantare in coro il
ritornello di una canzone mentre gli altri ridacchiavano.
Una cuscinata lanciata da chissà chi prese uno dei due in pieno volto.
<<Sei una puttana.>> Disse quello colpito.
Eddie si passò con pigrizia il dorso della mano su una guancia e la trovò calda e sudata.
Anche le narici iniziarono a dargli noia. Parevano addormentate e nello stesso tempo gli
bruciavano internamente. Magari è per questo cazzo d’incenso che mi brucia il naso, tu
senti che puzza, unito all’odore di vernice fresca, si disse poco prima che il cuore gli
cominciasse a tamburellare. Anche se sconcertato dalle manifestazioni anarchiche del
suo organismo Eddie scoppiò a ridere. Provò a smettere perché aveva visto che il
ragazzo che parlava il francese come una francesina aveva chiuso la telefonata ma
ridere e respirare erano già divenute una cosa soltanto. Vedendolo com’era ridotto il
tizio gli aveva ricambiato il sorriso accompagnandolo ad una carezza dietro l’orecchio e
giù per il collo fino alla spalla. Il suo tocco morbido ridiede a Eddie una manciata di
briciole della serietà perduta. <<Vuoi sapere della tua amica, okay..>> Gli disse il tizio
e chiamò Tobhias con una intonazione cantilenosa da parrucchiere delle star a Londra.
<<Me lo dici come ti chiami?>> Gli chiese dopo, incrociando le braccia molto in alto
sul petto ed inclinandosi da un lato.
<<Eddie J.Largo.>> Rispose Eddie, ormai convinto che stava per avere un attacco. Di
cosa non lo sapeva, ma un attacco.
<<E tu che cosa fai?>> Cambiò posizione mentre lo chiedeva, infilandosi le mani nelle
tasche e sollevando come in una danza prima l’una e poi l’altra spalla, uggioso.
<<Sono un pittore.>> Disse Eddie senza esitare.
Arrivò Tobhias con un bicchiere di vino in mano e un’ espressione sbalordita. Indossava
una giacca di pelle rossa bordeaux che aderiva giustamente al suo corpo. Sotto pareva
non avere nulla. Era più alto e più giovane del tizio che diceva sempre okay.
<<Lui è un pittore. Sta cercando la sua ragazza che abita in questo palazzo e si
chiama..>>
<<Mary Jane.>>
<<Mary Jane, okay.>> Disse quello a Tobhias che era il padrone di casa, il responsabile
della vernice melanzana per le pareti e la moquette azzurra per il pavimento.
Eddie spostò il peso da un piede all’altro provando un’ingannevole sensazione di
vertigine.
Tobhias si scusò ma non poteva aiutarlo. Non conosceva questa ragazzina di cui parlava
ma se voleva poteva usare il telefono, l’apparecchio era lì sulla mensola di marmo anzi
perché poi non si beveva una cosa con loro? Tobhias andò di là a versare tre dita di vino
bianco in un bel bicchiere ancor prima che Eddie potesse dire: <<No grazie, non mi
ubriaco mai di pomeriggio quando la sera devo lavorare, e stasera mi sa tanto che dovrò
darci dentro col lavoro.>> Stavano festeggiando il trasloco. Questo riuscì a capire.
Bevve il suo vino in fretta. Si accorse che c’era qualcosa di strano nel modo in cui
camminavano Tobhias ed il suo amico coi labbroni. Li studiò attentamente. Uno era
magnetico e l’altro affascinante. Di tanto in tanto si invertivano i ruoli, quello che prima
era magnetico diventava affascinante e viceversa, ma non era questa la cosa che lo
colpiva. Notò che si trascinavano i glutei come fossero delle bisacce rigonfie d’acqua
che pendevano rilassate sul fondo della loro schiena. Si accomiatò fra ringraziamenti e
scuse e dubbi palpeggiamenti. Superata la soglia di casa finse di essere ormai sicuro sul
da farsi. Il tizio con il drago sulla maglietta rimase appoggiato, sbilenco allo stipite della
porta finché non lo vide scomparire per le scale. Scesi due piani Eddie rallentò
l’andatura fino a fermarsi completamente. Era successo qualcosa che aveva
dell’incredibile. Tutti i muscoli del suo sedere erano rilassati. O forse non proprio tutti.
Lo sfintere in particolare non rispondeva ad alcuna contrazione. Alzò gli occhi sulla
porta dell’interno otto. Magari era proprio lì che Mary Jane lo stava aspettando. Guardò
l’orologio. Il suo ritardo aveva superato abbondantemente la mezz’ora. Si rese conto che
il cuore gli batteva ancora all’impazzata. Fu quasi tentato di suonare, ma un attimo
prima di farlo si passò una mano sulla schiena. La camicia, per via dell’abbondante
quanto inspiegabile sudorazione gli si era appiccicata alla schiena. Sfiorandosi il brufolo
sulla fronte, gli parve di sentirlo cresciuto. Considerevolmente.
Si accese una sigaretta lì nell’androne del palazzo. A questo punto proprio non se la
sentiva di sedurre nessuno. Uscendo scrutò per l’ultima volta i citofoni numerati e se ne
tornò a casa, con il sedere molliccio. Pensò lungo il tragitto di chiamare Mary Jane e di
scusarsi con una balla qualsiasi ma poi non lo fece. Senza nemmeno sapere bene il
perché. Forse si aspettava di esser richiamato, ma questo non avvenne. Bivaccò fino a
cena.
Quando fu l’ora di mettersi a tavola Eddie si alzò dal divano e si mise seduto senza
nemmeno lavarsi le mani o aggiustarsi la camicia sgualcita. I muscoli del sedere erano
tornati a funzionare ma adesso aveva un gran mal di testa.
La cena era a base di pesce. Gliel’aveva annunciato la madre, senza guardarlo in faccia,
fiera di sé. Prevedeva tartine alle uova di lompo, salmone in guazzetto, trote marinate e
zuppa di polipo. La trovava una grande idea sua madre. Aveva persino apparecchiato
usando il servizio di piatti con l’ancora stampata sulla porcellana. La tovaglia era blu,
come il mare. Si era presentata a cena con una vestaglia lisa e strappata su di un lato,
senza cintura. Sotto indossava soltanto la biancheria intima macchiata dagli schizzi della
cena appena preparata. A tavola, parlando della trama di un film in bianco e nero che
aveva visto quella mattina, raccontando d’una vacanza dei due protagonisti a Venezia,
era improvvisamente scoppiata a piangere. Non che ce ne fosse motivo. Lei non era mai
stata a Venezia ma magari aveva sognato in gioventù d’andarci ed ora si ritrovava a
quarantacinque anni convinta che quel viaggio non l’avrebbe fatto mai più. Chissà.
Eddie cercò di consolarla mentre spalmava burro e uova di lompo su quadratini tostati
di pan carrè. Sua madre non era più la stessa da quando il suo secondo marito l’aveva
lasciata per una cassiera del Discount che però faceva la cassiera solo per pagarsi dei
corsi di teatro visto che sarebbe diventata una grandissima attrice. Eddie su questa cosa
ci si era tormentato. Avrebbe proprio voluto aiutarla ma non sapeva come. Sua madre
era una di quelle donne che da giovani, guardandosi nuda allo specchio dopo aver fatto
l’amore si era sentita destinata a qualcosa di speciale. E adesso ogni mattina nella
grande casa vuota doveva ricordarsi di prendere il suo integratore alimentare per
ritardare gli effetti dell’invecchiamento.
Dopo cena Eddie si chiuse a chiave in camera sua, a lavorare. Dal salotto giungeva la
voce di Rod Stewart. Sua madre aveva messo su un disco. Se ne stava sdraiata sul
tappeto con le spalle appoggiate al divano, le dita tra i capelli, le labbra serrate, un
bicchiere di Chivas Regal in mano. Una sigaretta accesa bruciava in equilibrio
nell’incavo del posacenere.
Eddie aveva disegnato per ore così tanti maiali, di fronte, di profilo o visti da dietro
mentre correvano o si rotolavano nel fango che arrivò a sognarli. Per la verità non fu un
sogno unico. Aveva iniziato la sua nottata immaginando nel torpore onirico di essere lui
stesso un maiale, grasso da far schifo, che grufolava per una saporitissima campagna
arsa dal sole. In un altro momento della notte era stato catturato; si era sognato stretto
fra altri suini urlanti sopra un camion che correva sull’autostrada, al tramonto, con un
gran freddo. Successivamente si era visto nella gabbia gelida d’un mattatoio, con quel
fracasso metallico d’uncini che sbattevano fra di loro e l’odore del sangue che
appesantiva l’aria, dava il voltastomaco e ti faceva impazzire di paura. Venne poi il
momento, durante questa specie di sogno a sequenze, in cui sentì le lame sgozzarlo fino
alla nuca, scotennarlo e sviscerarlo. Giunse persino a provare la salata sensazione di
ritrovarsi coscia di prosciutto sopra un’affettatrice, quindi un attimo dopo esser passato
contro la lama rotante, divenne leggero come una sfoglia e infine privato del grasso
sotto la forchetta e il coltello nel piatto di Mary Jane, sognò d’essere masticato da lei.
All’alba si era svegliato perché doveva andare in bagno. Fuori il sole era ancora in
sottoveste. Un filo d’oro seguiva i contorni delle cose. Di quelle belle e di quelle brutte.
La casa era ancora buia. Al piano di sotto sua madre si era addormentata sul divano,
avvolta nella vestaglia strappata. Eddie entrò in bagno e si mise a pisciare. Fu allora che
iniziò a sentirsi in colpa per non aver onorato il suo appuntamento con Mary Jane.
Ripensò a quel che era accaduto, alle labbra carnose di quel tipo e alle boccette aperte
sul tavolo. A quell’insopportabile odore di vernice. Non riusciva a darsi spiegazioni.
Gli rimanevano due giorni prima di rivederla, tutto il tempo di quel week end che nel
cuore del suo cuore aveva immaginato si sarebbe svolto in maniera diversa. Non scaricò
per non uccidere il silenzio che cresceva sulle pareti e sui mobili della casa. Nello
specchio vide il brufolo in mezzo alla sua fronte orgoglioso e gagliardo. Si era fatto
d’un rosso intenso come le fragole, le gengive che sanguinano o i papaveri. A voler
essere poetici pareva un rubino. Spense la luce e se ne tornò in camera sua. Poco prima
di entrare nel letto gettò uno sguardo fuori dalla finestra. Vide la strada triste e umida di
brina. Gli sarebbe piaciuto dipingerla ma era troppo stanco e faceva troppo freddo per
farlo. Un giorno mi alzerò a quest’ora, decise, e dipingerò la strada deserta all’alba più
bella che si sia mai vista. Userò dei colori invertiti che commuoveranno lo sguardo.
Proprio mentre stava per tornarsene a letto gli parve di vedere qualcosa muoversi in
strada. Guardò meglio. Si disse che era un gatto ma sapeva che non era un gatto. Gli era
sembrato di vedere nella cinerea semioscurità il bianco d’ un paio d’occhi. Puntati
contro la sua finestra. Si rimise a dormire, facendo attenzione al benché minimo rumore.
Maledetti cani randagi, disse la madre constatando il caotico spettacolo del prato di
fronte alla loro casa. Eddie che se ne stava al suo fianco, vestito di tutto punto per
andare a pranzo dalla nonna che abitava a venti miglia da lì, in una lussuosa villa
coloniale in mezzo alla campagna con camerieri maggiordomo e giardiniere, si sentì
aggravato da una sensazione di opprimente tensione. Come se qualcuno avesse infilato
il suo cuore in un paio di mutande troppo strette per contenerlo. Non erano stati i cani
randagi a combinare tutto quel macello. Non aveva idea di chi potesse esser stato ma i
cani non c’entravano. Certo, squarciare le buste della spazzatura e disseminare cartoni e
cartacce tutt’intorno è una delle cose che sanno fare meglio ma stavolta non era colpa
loro. No.
Comunque ci avrebbero pensato gli spazzini. Salirono in macchina e si diressero verso
casa della nonna. Prima di arrivare Eddie chiese alla madre di fermarsi all’edicola. Gli
era tornato in mente il nome del giornale sul quale disegnava Francesca la madre di
Mary Jane. Daily Express. Un dollaro e cinquanta. Decise di non sfogliarlo ancora. Sua
madre sequestrata dalle sue inaccessibili riflessioni non si curò di quel che aveva
comprato. Era vestita bene. Si vestiva sempre bene quando dovevano andare a trovare la
nonna. Lei ci teneva a queste cose. Sembrava la direttrice di una importante agenzia con
quel suo tailleur grigio. Guidava piano, gli occhi nascosti da un paio di occhiali neri.
Dopo aver mangiato mentre sua madre era rimasta in sala da pranzo a singhiozzare,
fumando una sigaretta dopo l’altra con la nonna che intanto le ricordava che nella vita
bisogna pur decidere quel che si vuole diventare e che la felicità è come un animale
feroce e per catturarla bisogna essere degli esperti cacciatori, coraggiosi e senza rimorsi,
Eddie si mise fuori in giardino seduto sul dondolo sotto agli alberi con la sua copia del
Daily Express. Era un giornale che conteneva le notizie più disparate: dalla politica, allo
spettacolo, alla cronaca, agli oroscopi. Eddie lesse il suo di oroscopo. Eh no, non era
certo un buon periodo per la salute della Bilancia con il passaggio della Luna nel segno
dei Gemelli. Niente oggetti metallici in camera da letto, si consigliava ai segni d’aria
come il suo, e non dormite con la testa a ovest ma a nord-ovest. Affanculo, pensò Eddie,
io non sono una bilancia, io sono un pittore, e voltò la pagina.
Trovò la pagina con le vignette. Ce n’erano tre, sotto ad un articolo che titolava: Lei
muore e lui la sposa nella bara. Nella prima vignetta un omuncolo buffo era incerto se
suonare al campanello di una sontuosa villa, sul cui cancello d’ingresso era appeso il
cartello ”Attenti al cane”. Tra le sbarre, nel giardino della villa, si intravedeva un
gigantesco rinoceronte imbronciato.
Nella seconda, su di un isola minuscola, così piccola da contenere a malapena lo spazio
per una palma, un naufrago con la barba incolta ed uno straccio intorno ai fianchi,
vedendo un aereo sfrecciare nel cielo sollevava il pollice facendo il segno dell’autostop.
La terza vignetta era ambientata per strada. C’era una folla di signorotti in giacca e
cravatta con le facce totalmente inespressive che si accalcavano intorno ad una bottiglia
di vino infranta per terra. Un tizio identico a loro si faceva strada dicendo: <<Lasciatemi
passare, sono un intenditore.>> Tutti e tre i disegni erano firmati in basso a destra,
semplicemente: Francesca.
La nonna parlava ancora in sala da pranzo con sua madre. Adesso le stava dando
consigli sull’amore. E’ inutile cercarlo, esso non è che un altro dei frutti che cresce sulla
pianta del successo. Più o meno questo era il senso delle sue parole. Avevano acceso la
luce nella stanza. Il tavolo era stato sparecchiato, ora sulla tovaglia ricamata c’erano due
tazze ed una theiera. Sua madre aveva smesso di piangere ma non di riempire il
posacenere con le sue cicche e adesso assentiva, evitando lo sguardo della nonna che
aveva il libretto degli assegni aperto davanti.
Quand’ebbe finito con sua figlia, la nonna andò in cerca del nipote. Lo trovò sul
dondolo sotto agli alberi che leggeva il Daily Express. Si sedette al suo fianco. <<E’ una
persona debole, ma non è una cattiva madre. Stalle vicino. Sei tu l’uomo di casa. E della
sua vita.>> Disse a Eddy così a bruciapelo. <<Prendi questi,>> continuò passandogli
cinquanta dollari, <<sono per le tele ed i colori. Tua madre mi ha detto che sei molto
migliorato. Sarei proprio orgogliosa di avere un nipote come Rembrandt o
Michelangelo.>> Lo guardò negli occhi, dritto negli occhi. Guardava sempre tutti così.
Diceva che era la prima cosa che aveva imparato da bambina. Aveva cercato anche di
insegnarglielo a Eddie, il modo in cui si devono guardare le persone. Per farsi rispettare
e far capire agli altri che le tue intenzioni sono d’acciaio. Devono sapere, gli spiegava,
che tu sei sempre pronto ad andare fino in fondo. E quando lui le rispondeva che certe
volte con certe persone si vergognava, lei sentenziava che la vergogna è per i ladri, per
quelli che non mantengono la parola data e per i comunisti. Era molto vecchia sua
nonna. Più vecchia di quanto possiate immaginare. Eddie le riconosceva un grande
fascino. Gli faceva pensare ad un mazzo di rose bianche fatto seccare a testa in giù.
Tornando a casa in macchina, non riusciva a togliersi dalla testa il modo in cui lei lo
aveva guardato. Accanto a lui, sua madre, indossava gli occhiali neri anche se a
quell’ora poteva farne a meno. La radio era sintonizzata su una stazione jazz. Il suo
stomaco era annodato da un misto di benessere e malinconia. Se ne stava seduto al suo
fianco, cullato dall’andamento uniforme della vettura. Sentiva che quello era uno di quei
momenti a cui si ripensa in tarda età e ci si dice: chissà perché ma mi viene in mente
quella volta che con mia madre tornavamo in macchina a casa dopo una visita alla
nonna. Mi sembra di ricordare che eravamo felici, o se non eravamo felici comunque
eravamo sereni, in empatia. Mia madre. Che nascondeva gli occhi dietro ad un paio di
occhiali neri.
Appena giunti Eddie andò in cerca della bicicletta per andare in cima alla collina che si
ergeva alle spalle della via in cui abitava, poiché da lì si godeva la migliore vista su tutta
Muontain View. Era un posto ottimo per farsi venire delle buone idee. E le buone idee
sono fondamentali per i pittori, per chi s’inventa slogan pubblicitari e per i fuggitivi che
devono superare le frontiere.
Trovò le ruote della sua bicicletta squarciate. Quella davanti e quella di dietro. Non
sgonfie. Qualcuno aveva infilato in profondità un coltello nella gomma del copertone e
perdendoci del tempo aveva fatto forza nella direzione della lama per affondare e
peggiorare il danno. Di nuovo quella strana sensazione di ansietà da condannato o da
colpevole che attende di essere scoperto. Intorno soltanto vialetti di ghiaia col muschio
cresciuto sopra le pietre ricoperti di foglie cadute, fili telefonici sospesi come sorrisi del
cielo per aria, grosse jeep mute e vuote nei loro box.
Raggiunse comunque la cima della collina. A piedi. Si trattava del suo lavoro
d’altronde. Doveva darci dentro a qualunque costo. C’è qualcosa che accomuna tutti i
celebri pittori. L’inesauribilità del loro mestiere. Tutti i più grandi non trovavano
nemmeno il tempo di mangiare, dipingevano e dipingevano per ore e ore, fino a sera
quando si recavano esausti in qualche bettola a sbronzarsi con colleghi, amici e donne di
malaffare sollevando i calici in alto, alla florida giornata appena trascorsa.
Sottobraccio aveva un’enorme cartella per i disegni. Qualche pennello gli spuntava dalle
tasche. Gli acquarelli stavano in una borsa di stoffa con i manici, insieme ad una
bottiglia d’acqua, ad una vecchia spatola arrugginita e ad alcuni piattini di plastica
macchiati dai residui dei colori impastati.
Seduto sul possente tronco biforcuto di una quercia, con le gambe a penzoloni e la
vallata che si dispiegava più arancione di una zucca sotto alle lusinghe luminose del
tramonto, Eddie J.Largo il più giovane e promettente pittore vivente si fumava una
sigaretta rubata dalla borsa della madre, soddisfatto e sollevato. Aveva appena terminato
il suo primo acquarello astratto. L’aveva intitolato:Dov’è il Mar Caspio? Dava sempre
questo genere di titoli alle sue opere. Non all’inizio, certo, anche lui aveva cominciato
chiamando i suoi quadri: Ritratto di mia madre, Porta finestra della casa dei Chambers,
Interno con mele e arance, Nudo di schiena o Nudo con le braccia alzate, ma un giorno
dopo aver visto alla televisione un brutto film su Van Gogh che si chiamava Brama di
vivere o Brama di vita, si era convinto che un artista che non usa i suoi mezzi fino in
fondo è un umile servo. Così aveva cominciato a dare titoli presuntuosi e stimolanti a
tutto ciò che faceva.
Sapevo che prima o poi avrei rotto con tutte quelle regole sul figurativo. La vera arte è
così, dire cose nuove su verità antiche, in un modo straordinario, che indirizzi una vita.
Questo si diceva Eddie sputando fuori il fumo mentre col pollice della mano in cui
teneva la sigaretta si grattava incredulo la punta dolente del brufolo che deturpava quel
tempio della bellezza che per lungo tempo era stato il suo viso.
Quando poche dozzine di minuti prima con la sua pittura aveva saltato il recinto che
costringe e circoscrive gli artisti imitatori della natura, gli erano tornati in mente i
vecchi maestri impressionisti. Anche a lui sarebbe piaciuto invecchiare com’erano
invecchiati loro. Accidenti se ne era certo. Farsi legare un pennello alla rugosa e
tremante mano per riuscire a dipingere quadri fino agli ultimi rincalzi di vita, fino a
restarci secco crollando di faccia sulla tela.
Un giorno anch’io troverò la mia Tahiti, come Gaguin, e lì invecchierò, pensava
tornando a casa che era quasi buio.
In cucina il tavolo era apparecchiato solo per lui. Alcune scatole di cibo cinese ancora
chiuse e un tempo fumanti stavano addossate al piatto ed al bicchiere. Doveva essere la
sua cena. Posò l’enorme cartellina che conteneva il suo primo acquarello astratto sul
tavolo. Dal salotto veniva altissima la canzone La Bamba. Cristo, quella canzone non la
poteva proprio soffrire. Eddie entrò per abbassare lo stereo. C’era il televisore acceso.
Sullo schermo si vedevano canguri e koala. Sconfinati deserti, spiagge bianchissime,
commoventi tramonti sull’oceano e poi ancora canguri e koala. Soprattutto koala. Se ne
vedevano dovunque. Per terra, sugli alberi di eucalipto, sulle panchine dei parchi, sulle
spalle di un poliziotto che sorrideva e salutava la telecamera. Era il filmino di un
viaggio che sua madre aveva fatto in Australia con il suo secondo marito. All’epoca
stavano insieme soltanto da un anno. A quel tempo Eddie non gli rivolgeva ancora la
parola a suo marito. A quel tempo Eddie si strofinava i denti nel sonno fino a
consumarseli.
Si guardò intorno. Il divano era vuoto, affossato. La porta del bagno in fondo al
corridoio era chiusa dall’interno. Si sentiva soltanto il rumore della doccia.
Squillò il telefono. Eddie rispose, ci fu un attimo di esitazione dall’altra parte, un paio di
respiri, poi riagganciarono.
La cosa successe anche mentre era in cucina a mangiare gli spaghetti di soia con bambù
e gamberetti. Alzò la cornetta, il silenzio con i respiri stavolta fu un po’ più lungo.
Persino nella morta cavità della notte il telefono tornò a squillare echeggiando con il suo
trillo per le stanze addormentate come il grido disperato d’un gufo.
Nella confusione delle lenzuola impregnate di sonno Eddie udì la fragile voce di sua
madre che ripeteva: Pronto? Pronto?
Domenica, il giorno più Santo della settimana, il giorno di Dio, Eddie e sua madre si
alzarono così tardi che decisero di non fare nemmeno colazione e di passare
direttamente al pranzo. Entrambi, chiusi nei loro bagni, ancora in pigiama desiderarono
che quel giorno passasse veloce. A Eddie la domenica non piaceva perché puzzava di
inerzia e rassegnazione. Lui di domenica lavorava con ancor più accanimento per
ricordarsi chi era e cosa voleva. Figurarsi che proprio di domenica aveva dipinto la sua
prima serie di ceramiche. Dodici piatti fondi che la madre aveva conservato in soffitta.
Su ognuno di loro ci aveva dipinto teste di animali viste da dietro. Uno struzzo, un
leone, una zebra. Magari era dura a riconoscerli, ma questo faceva parte del suo stile:
mostrare non mostrando.
Per sua madre la faccenda era un po’ diversa. Da quando il suo secondo marito, proprio
una domenica, si era svegliato dicendole che aveva deciso di lasciare il lavoro, per un
po’ di tempo almeno, lei aveva desiderato che le giornate, in attesa che lui tornasse in
sé, passassero nel minor tempo possibile. Ma quelle erano continuate a durare
ventiquattro ore e il suo secondo marito non era affatto tornato in sé. Un’altra domenica,
dopo che aveva lasciato il lavoro e si era messo a leggere libri sulla rivoluzione interiore
e sui nomi degli angeli e a fare lunghe passeggiate da solo durante tutto il tempo che gli
rimaneva da spendere, l’aveva abbracciata forte nel prato davanti casa, quello dove il
giorno prima era sparsa la spazzatura, e le aveva raccontato tutto. Di lui e della sua
amante, del fatto che si trasferivano a New York, lei in cerca di un ruolo serio in uno
spettacolo di Broadway e lui in cerca del vero sé stesso, ma naturalmente non aveva
iniziato da lì. Per l’amor del cielo no. Aveva cominciato spiegandole che il destino di
ognuno di noi è irrimediabilmente segnato dalle vite precedenti e spesso ci può
sembrare di perdere tutto o di non aver mai posseduto niente, può capitare di sentirsi
inutili e inetti, ma quelle sono solo influenze negative che derivano dalle zone erronee
nella nostra testa e vanno combattute e via di questo passo una macedonia di cazzate
durata quasi due ore.
Eddie era rimasto in bagno più a lungo di sua madre. Per quanto lo riguardava, aveva
atteso anche troppo. La sua distratta superiorità era terminata. C’era qualcosa che
doveva fare. Subito.
Provò con le dita, premendo agli angoli del bastardo con una forza nera che veniva dalle
latrine della sua anima. Eppure quello resisteva, sembrava fatto di gomma, non riusciva
neppure a scalfirlo. Restava lì, rosso e burlone, a gonfiarsi di fierezza mentre intorno la
pelle si tingeva di viola. Edward frugò nel cassetto di fianco al lavandino e scovò una
lima per le unghie. S’avvicinò allo specchio e lavorò sulla sua fronte con una precisione
da orafo. Con la punta aguzza della lima s’incise la carne che rivestiva il brufolo. Un
rivolo di sangue scese dalla fronte e traversò il suo viso.
Fu lui ad accorgersi per primo di quel merlo morto, davanti alla porta di casa sua, sullo
zerbino. Rimase fermo per un attimo davanti a quell’animale senza vita cercando di
capire la situazione. Accanto alle ali riverse del merlo c’erano alcune gocce di sangue
che s’erano imbevute nella paglia grezza dello zerbino. Più in là notò un fazzoletto di
carta gettato con noncuranza sull’erba del suo prato. Anch’esso era intriso di sangue.
Certo, qualcuno poteva aver perso sangue dal naso, essersi tamponato l’emorragia con
quel fazzoletto averlo gettato in terra e il vento averlo trascinato fino al prato di casa
sua. C’era da crederci, come no. E quel merlo poteva esser morto in volo per
complicazioni personali ed essersi schiantato proprio sullo zerbino di casa sua. Vedi
merlo cosa succede a non farsi fare una visitina di controllo di tanto in tanto? Anche
questa era una supposizione possibilissima chi lo nega. Ma poteva anche darsi che
qualcuno l’avesse trovato già morto quel merlo. E poteva anche essersi aiutato con quel
fazzoletto a trasportarlo davanti alla porta di casa sua. Per fargli un dispetto. Mica era
una cosa difficile a farsi. Ma chi diavolo poteva avercela con lui fino al punto di girare
per la città, di mattina presto con un merlo morto, tenuto con il fazzoletto per una gamba
o un ala, fino alla porta di casa sua?
Trasferì la carcassa del merlo su di un foglio di giornale e lo nascose in un angolo del
garage.
<<Vado in chiesa e poi a lavare la macchina. Oggi mangiamo un po’ più tardi del
solito.>> Disse sua madre avvicinandosi all’auto. Andare a lavare la macchina era un
rito che le era rimasto nel sangue come un virus dai tempi felici col suo secondo marito.
Va bene, le rispose Eddie e poi aggiunse: <<Come va?>> La vedeva peggio del solito
quel giorno. Si era vestita tutta di rosso. Anche le labbra erano fiammeggianti..
<<Che domande fai, vado in macchina!>> Non aveva capito, ma Eddie non se la sentì
di ripetere la domanda. Restò attonito a guardare mentre lentamente se ne andava.
Amedeo Modigliani era un pittore Italiano che si trasferì a Parigi in cerca di fortuna per
scolpire e dipingere visi e corpi di persone, ma morì senza averla ancora trovata.
Divenne però quand’era ancora in vita, il più celebre ubriacone di Parigi insieme a
Maurice Utrillo, un pittore suo amico che invece dipingeva esclusivamente paesaggi.
Sebbene gli fosse capitata in sorte la maledizione che vestì di povertà le esistenze di
molti geni incompresi ad Amedeo non mancò il vero amore, quello che profuma lo
spirito agli uomini straordinari. La sua compagna Jeanne Hèbuterne un giorno dopo la
sua scomparsa mantenne fede alla promessa di felicità eterna fatta ad Amedeo in punto
di morte. Si suppone che avesse atteso con calcolata rassegnazione che gli altri nella
casa si assopissero. Quindi appoggiata di schiena al davanzale, si era lasciata cadere nel
vuoto.
Non riuscì mai a vedere il tributo d’onore che la storia avrebbe riservato nella sua
faraonica memoria ad Amedeo ed alle sue donne scandalose dai colli sinuosi. A me
questo non capiterà, si diceva Eddie mentre dava le ultime pennellate su una tela
montata sul cavalletto in garage. Conquisterò con lo stile delle mie mani tutti i regni del
mondo e guadagnerò così tanti tesori da non dovermi più preoccupare del valore dei
soldi. Poco più in là, appoggiato su uno sgabello, il foglio di giornale con il merlo
morto. Per lui i quadri erano impugnature sulla verità. Tutta qui la sua ideologia.
Impugnature più o meno strette sulla verità.
Avrebbe poi intitolato quell’acrilico su tela: Alcuni cantano, altri no.
Come stava bene in compagnia di sé stesso.
Sua madre rimase fuori per tutto il pomeriggio. Non seppe mai quel che le era successo
in quella giornata. Se aveva incontrato qualcuno in vena di dare buoni consigli. O se in
chiesa ci era andata per davvero. Fatto sta che la macchina era stata lavata. La vide
scintillare nel vialetto d’ingresso al garage mentre tornava, nel buio della sera.
<<Hai mangiato?>>Era stata la prima domanda che gli aveva fatto.
Eddie aveva annuito, senza sapere che mentre era in garage a dipingere, il telefono di
casa era squillato ben sei volte senza che nessuno rispondesse. E cinque di quelle sei
volte all’altro capo del telefono c’era stata la persona cui appartenevano i sospiri del
giorno prima. Per quanto riguarda l’altra telefonata ,lasciatevi dire che veniva da molto
lontano. Da New York.
<<Ha chiamato qualcuno?>>
<<No.>> Rispose Eddie.
Salendo le scale la madre inciampò. Era ubriaca fradicia. Per non cadere dovette
afferrarsi d’istinto al corrimano attaccato al muro. Fortuna che esistevano ancora i
corrimano. Un tacco delle sue scarpe rosse si staccò. Sua madre non emise un fiato ma
proseguì la scalata zoppicando.
Eddie cenò con latte e biscotti. Le uniche cose che erano rimaste nel frigorifero oltre al
sedano, alla margarina e ad alcuni trucchi di sua madre.
C’erano due motivi che lo rendevano contento. Primo, la domenica era finalmente
passata. Il week end era passato. Le pance gonfie stavano finalmente digerendo i loro
pranzi magnifici. Il russare dei lavoratori stava per spegnersi. Le industrie che
fabbricavano i tubetti di colore per dipingere stavano per rimettersi in moto. I boscaioli
che abbattevano gli alberi con cui si facevano i pennelli stavano per calare l’ascia.
E secondo, mentre in bagno cercava di scrostare dalle sue mani le macchie di vernice,
aveva notato che il brufolo sulla fronte, sotto l’assalto della lima per le unghie aveva
desistito dalla sua cocciuta guerra, mostrando la resa con una piccola crosticina nera su
di un gonfiore che andava di minuto in minuto fiaccandosi. Certo questa non era una
notizia sorprendente ma delle volte un uomo deve pur concedersi l’illusione che tutto
stia andando per il verso giusto.
Prima di salire in camera per infilarsi a letto ad intrecciare uno dopo l’altro i motivi per
cui non desiderava morire da ignoto, così da farne una collana da portare sempre sul
collo della sua tenacia, transitò per il salotto. Intravide la sagoma di sua madre seduta su
una sedia, vicino al tavolo, in sottoveste, gli occhi persi davanti a sé.Occhi da cervo che
ha sentito uno sparo nel bosco. Struccata. Niente più rossetto, niente più colore. Stava in
silenzio su quella sedia, senza nemmeno aver acceso la luce nella stanza. A Eddie non
vennero in mente tante cose da dire. La vedeva come una nave che ha perso l’albero
maestro, ancorata nel porto della miseria e dell’eterna sconsolatezza.
La salutò con un cenno della testa cui mise sottobraccio un candido sorriso.
Stava per dirle: <<Ehi, mamma, io lo so come ti senti, non so che dirti ma so come ti
senti. Potrai sentirti così quanto vuoi, io ci sarò sempre.>> Ma invece alla fine
soggiunse:
<<Io vado a letto buonanotte.>>
Sua madre alzò una mano. <<Notte.>> Mormorò. L’accento della sua voce era
agghiacciante. A Eddie fece venire in mente un elefante in bilico sull’orlo di un
bicchiere di cristallo. Il fatto che un elefante possa rimanere in bilico sull’orlo d’un
bicchiere di cristallo è di certo più spaventoso che se quel bicchiere si polverizzasse
all’istante sotto il peso del pachiderma.
Forse quel suo secondo marito non c’entrava più di tanto.
La sua era una resistenza che manteneva in gran segreto e con dura fatica nel buio
infetto della sua testa, tra le erbacce velenose cresciute tra i suoi pensieri. Sua madre, un
bicchiere di cristallo. E l’elefante? Cos’era l’elefante che gravava su di lei?
Ad essere onesti, non sapeva che rispondersi.
Magari la faccenda era più semplice del previsto.
Forse non era un buon periodo nemmeno per il suo segno.
Lunedì Eddie si svegliò così insicuro spaesato e malinconico che prima ancora di
mettere i piedi fuori dal letto aveva già deciso che la scuola per quanto lo riguardava,
quel giorno poteva aspettarlo in eterno. Doveva cercare di superare quella mattina senza
che nessuno lo obbligasse a rimanere seduto in un banco o gli proibisse di andare al
bagno in qualsiasi momento gli pareva. E poi cos’era quella storia di dover chiedere il
permesso per parlare. Eddie J. Largo che deve alzare la mano per chiedere la parola?
Non oggi, signore e signori. Per Mary Jane però gli dispiaceva. Qualcosa da dirle ce
l’aveva. La notte prima non aveva nemmeno dipinto per pensare a lei, a lui, al futuro.
Alle cose che avrebbero fatto insieme, a quello che si sarebbero detti ed al modo in cui
si sarebbero comportati dopo essersele dette quelle cose. C’erano stati anche un paio di
pensieri sconci devo dire, ma giusto un paio lo giuro. Chissà se Mary Jane ci sarebbe
venuta con lui a Parigi. Era certo di sì. Lui era un pittore e Parigi per i pittori è come la
Mecca per i musulmani, doveva andarci e rimanerci il più a lungo possibile.
Un’altra cosa che lo amareggiò fu vedere che il brufolo sulla sua fronte era
completamente svanito. Anche a lui sembrava paradossale e contraddittorio l’aver
cercato con tanta determinazione l’annientamento di quell’indesiderata visita cutanea e
poi sentirsi triste perché ciò era avvenuto. Che te ne importa? Cercava di dirsi, ma
gliene importava eccome. Sfiorandolo adesso si sentiva soltanto la crosta che aveva
ricoperto il taglio.
Guardandosi allo specchio si sentì misero come la scodella vuota e sporca d’un cane,
come una piscina d’inverno senz’acqua, come una fila di stampelle senza vestiti, come
un preservativo usato che galleggia in una pozzanghera, come un barbone che ruba
carne cruda dalla bocca d’un randagio, oh insomma! Si detestava con quell’orrenda
crosticina in mezzo alla fronte. Lo faceva sentire un debole.Un codardo. Era una cosa
più forte di lui, una sensazione che provava a prescindere, che non riusciva a controllare
e questo un po’ lo infastidiva. Gli ricordava sua madre quando si metteva a piangere
senza motivo e lui gli chiedeva: che cos’hai? E lei gli rispondeva: niente tesoro, sto bene
è solo una cosa che non riesco a controllare.
Riempì lo zaino di matite colorate e cartoncini. A Kansas Street, giù oltre i nuovi
quartieri residenziali avevano aperto un nuovo supermercato. Eddie voleva passarci
buona parte della mattinata. Starsene lì a guardare i prodotti per i pavimenti e i barattoli
di caffè, cioccolata e marmellata e le scatole di cibo per cani senza che nessuno facesse
caso a lui. In attesa che l’ispirazione lo baciasse sulle labbra. Poi magari sarebbe salito
di nuovo sulla quercia che cresceva sulla collina che sovrastava Muontain View ed
avrebbe reso immortale con un disegno la marca di qualcuno di quei prodotti come
Andy Warhol aveva fatto con i barattoli della zuppa Campbell’s.
<<Vai a scuola?>> Disse piano sua madre, come da lontano.
Stavolta lo stava spaventando sul serio. Non si era affatto mossa dalla sedia in cui
l’aveva lasciata la sera prima. La luce era ancora spenta. Adesso la stanza era piena di
sole che filtrava dalle finestre spargendosi sui mobili, sulle pareti, sul pavimento e sul
suo viso terribile e raggiante ad un tempo. Ma durante tutta la notte? Cosa le era
successo? A cosa aveva pensato? Quali voci aveva sentito?
Pareva essersi rimpicciolita dentro alla sua sottoveste. Gli occhi assonnati erano
cerchiati di rosso, sopraffatti dalla fatica e dalla atroce consapevolezza. Ne teneva uno
strettamente ammarrato, l’altro tondo e sgranato. Lo sguardo fisso alla parete di fronte a
lei, dove il muro incontrava il pavimento. Con una mano tamburellava la sigaretta sul
piano del tavolo. L’altra penzolava come morta lungo il fianco. Aveva i piedi nudi
poggiati sul freddo parquet. Una delle caviglie si era gonfiata per la caduta del giorno
prima.
<<Sì, sto andando e sono anche in ritardo.>>
<<Ci vediamo nel pomeriggio?>> Domandò lei cercando di dominare la voce.
<<Sì, quando torno.>>
<<Eddie?>> Forse non gli aveva detto tutto.
<<Sì?>>
<<E’ da un bel pezzo che noi non parliamo.>> Disse sua madre guardandosi i piedi
<<Lo so mamma.>>
<<Eddie, tu devi soltanto avere pazienza. Le cose cambieranno. Tutto si aggiusterà
vedrai.>> Si passò le mani sul viso e si aggiustò i capelli. Se li tolse dalla fronte.
Guardava ancora in terra. Faceva dei lunghi e profondi sospiri, tremando tutta mentre
espirava. Eppure Eddie non l’aveva mai vista più vera e più bella di così.
<<Vieni qui.>> Disse. Eddie si avvicinò. Vide il suo labbro inferiore mangiucchiato
fino a mostrare la carne viva. <<Di là in cucina ti ho preparato la colazione. Mangia
tutto. Spero che ti piaccia.>> Soggiunse spezzando in un fremito la sigaretta spenta che
teneva fra le dita. Tirò su col naso e fece un franco sorriso. Passò una mano gelida fra i
capelli arruffati di suo figlio.
<<Tu non sei come me. Tu sì che sei destinato a grandi cose.>>
A grandi cose.
Il tavolo della cucina era vuoto. Nessuna colazione pronta. Non c’era più niente di
commestibile in casa. Ma questo sua madre pareva non saperlo o se anche lo sapeva non
poteva più importargli. Il bicchiere di cristallo aveva definitivamente ceduto sotto al
peso dell’elefante.
Dopo che Eddie fu uscito di casa per andare a scuola, così come lei credeva, Beverly
J.Largo, sua madre si alzò dalla sedia. Subito le vertigini la fecero vacillare. Trovò
un’altra sigaretta e l’accese. Salì in camera sua e tirò fuori la valigia che usava per fare i
grandi viaggi. All’epoca del suo secondo marito si dividevano gli scompartimenti uno
per lei, uno per lui. Era la stessa valigia usata per andare in Australia. La poggiò aperta
sul letto e la riempì di tutti i vestiti che contenevano i suoi armadi o almeno tutti quelli
che riuscivano ad entrarci. Sapeva che non le sarebbero serviti a niente, che non li
avrebbe mai indossati, ma voleva portarli con sé.
Poi scese al piano inferiore e seduta al tavolo del salotto, prese in mano la penna ed
iniziò a scrivere una lettera a suo figlio bagnandola di lacrime.
Piccolo mio, cominciava.
Ve l’ho già detto che oltre i quartieri residenziali avevano aperto questo nuovo
supermercato. Era il più grande di Mountain View ma in quanto ai prezzi l’uno valeva
l’altro. E poi una casalinga non cambia supermercato così, dalla mattina alla sera.
Insomma uno alle cose, ai posti ci si affeziona anche. Questa era una faccenda che il
proprietario di quel supermercato non riusciva a mandare giù. Nella sua testa il
vocabolo affetto era stato spazzato via dal termine ben più ingombrante di mutuo. Se
quel posto non cominciava ad ingranare per lui sarebbero stati guai. Strozzini e bottiglie
di pessimo vino ammiccavano dalle proiezioni negative che si faceva del suo futuro.
Comunque prima di arrivarci Eddie J. Largo attraversò nel sole pulito e fresco di quella
mattina il quartiere residenziale costruito da pochi anni. Ad essere precisi non si trattava
di un vero e proprio quartiere residenziale, era più un insieme di ville, ben più costose
delle casette a schiera in cui viveva lui o del palazzo da mare con l’intonaco bianco
dove stavano Francesca e Mary Jane. Nel giro di una decina di mesi, camion ruspe e
betoniere avevano aiutato un gran numero di operai e architetti ed ingegneri a tirar sù
quella decina di moderne ville. E gli abitanti di Muontain View, i più ricchi intendo,
stavano ancora sognando e facendo i calcoli del loro conto in banca quando grazie al
lavoro di una efficiente agenzia immobiliare tutte le ville erano state vendute.
I compratori però ci venivano soltanto d’inverno, quando nevicava o nei week end, ma
non sempre. Per gran parte dell’anno le ville erano vuote.
Passando di fronte ad una di esse, Eddie notò un certo movimento. Parcheggiate di
fronte alla villa c’erano due auto sportive, tirate a lucido, ed un camioncino con gli
sportelli posteriori aperti. Guardò all’interno. C’erano cavi neri arrotolati su sé stessi.
Cavalletti di ferro, cassette per attrezzi, scatole di ferro tonde e proiettori luminosi.
Alzò lo sguardo in direzione della villa. Dentro c’era un interessantissimo via vai. Le
finestre erano tutte chiuse e le luci, nonostante fosse giorno, tutte accese.
Fece un giro largo.Voleva esaudire la sua curiosità. Passò attraverso il giardino della
villa adiacente. Si guardò bene intorno, cercando di capire qual’era la mossa migliore da
fare.
La cosa successiva di cui Eddie ebbe coscienza fu che le foglie e i rami di quella fitta
siepe gli graffiavano la faccia. Si era nascosto in un punto della siepe di confine tra le
due ville, da dove riusciva ad intravedere l’enorme finestra della camera da letto. Lì
dentro stava succedendo qualcosa. Innanzitutto era così illuminata che gli riusciva quasi
doloroso fissarsi in quella direzione. Due alti proiettori accesi puntati sul soffitto
spargevano la loro luce filtrata da quadrati di tessuto bianco. Si vedevano due uomini.
Uno dietro ad una macchina da presa, grande e nera poggiata su di un carrello con le
ruote di gomma, ed un’altro, con le cuffie in testa che teneva una lunga asta che non
riusciva a vedere dove finiva. Forse sopra il letto di cui riusciva a scorgere soltanto una
parte. Vide le gambe nude d’un uomo e d’una donna che si strofinavano. C’era una
musica elettronica, accattivante che risuonava nella stanza. Aveva un gran ritmo. Era
trascinante. Per un po’ si convinse che stessero girando un video musicale.
Ad un certo punto le quattro gambe smisero di muoversi. Scomparvero dalla vista di
Eddie. Al loro posto spuntò contratto dallo sforzo e dal piacere il viso della donna. Non
riusciva a vederla bene così in movimento, ma gli sembrò bella. Portava capelli corti,
rossi, un poco mossi. Era appoggiata sui palmi delle mani che premevano sul materasso.
Le braccia tese dallo sforzo. Su una delle due spalle aveva un coloratissimo tatuaggio.
La pelle del corpo era molto chiara, velata dal sudore che la faceva quasi brillare sotto ai
riflettori. Faceva smorfie spropositate verso l’occhio nero della telecamera. Ondeggiava,
si scuoteva. Pareva gridasse e subito dopo sorridesse. Adesso a quella cosa del video
musicale Eddie non ci pensava più. Andò avanti così per un po’ fino a che il regista
gridò lo stop. Lo disse a voce così alta che Eddie ne rimase profondamente colpito.
Stooooop! Le luci si abbassarono. La musica cessò tutt’insieme. Il tizio che teneva
l’asta, la poggiò per terra e passò una vestaglia alla donna che all’improvviso si era fatta
scura in volto. Uscì per prima dalla stanza. L’uomo invece, dopo essersi infilato un
accappatoio blu scuro si mise a chiacchierare con il regista. Si fecero anche un paio di
risate insieme. Eddie si era quasi stufato di starsene nascosto nella siepe. Le ginocchia
che teneva piegate, cominciavano a fargli male. Stava per uscire di lì ed andarsene via
quando sentì una della finestre che davano sul giardino aprirsi. Sbirciò tra le foglie.
L’uomo e la donna che poco prima avevano recitato su quel letto adesso passeggiavano
in pantofole per il giardino. Entrambi fumavano una sigaretta. Eddie aveva visto bene,
la donna non molto alta era però di una bellezza incredibile sebbene segnata. Logorata.
Opacizzata. Doma. L’uomo che le camminava a fianco era un fusto che si aggiustava in
continuazione la pettinatura dei suoi capelli. A Eddie pareva un manichino.
Lo so che lo dici perché sei mio amico, gli stava dicendo lei, ma non ho bisogno di
essere rincuorata cazzo, ho bisogno di un buon consiglio. David, se fosse per quello
stronzo del mio avvocato la causa l’avrei già persa. Ogni volta che entro nel suo studio
quell’idiota mi guarda con occhi penosi e mi dice che non la vede affatto bene. Dice: mi
dispiace ma non la vedo affatto bene.
L’uomo al suo fianco le mise un braccio intorno alle spalle. Eddie la sentì ancora
strillare che sua figlia non la lasciava a quel bastardo,che nessuno poteva portargliela
via. Neanche il giudice. Che c’era solo un modo per trattare con quel figlio di puttana.
Sparargli in faccia.
L’attrice scoppiò in singhiozzi. Si gettò a faccia in giù nel petto dell’uomo che rimase
immobile indeciso sul da farsi. Ascolta, ehi, stammi a sentire, non fare così dai, sta a
sentire, le disse infine, a Baltimora mio fratello ha un grosso negozio di
elettrodomestici. Vendita all’ingrosso. Lavora per i ristoranti, i motel. Quelli lo
chiamano e gli dicono, ci servono dieci televisori, dieci tostapane e dieci frullatori, e lui
glieli manda, dieci di ognuno. Le cose gli stanno andando molto bene. Potrei chiamarlo
e chiedergli se ha bisogno di una mano. E’ mio fratello e qualche favore lo deve anche a
me. Magari questa che ho detto è una stronzata, ma, non lo so, potresti trasferirti lì.
Provarci. Toglierti di mezzo. Con o senza tua figlia. Un po’ di soldi da parte ce l’hai no?
Io ti darei una mano.
Tacque per qualche secondo quindi acuì lo sguardo nella direzione di Eddie. <<Ehi ma..
chi c’è qualcuno in quella siepe?>>
Piombò nel supermercato ad una velocità tale che non riuscì neppure a frenarsi ed urtò
contro lo scaffale delle banane poco oltre la porta scorrevole dell’entrata. Si aggrappò al
grosso cestino di ferro che conteneva la frutta per riprendere fiato. Non riusciva più ad
ossigenarsi, credeva che di lì a poco gli sarebbe venuto un infarto. O forse gli era già
venuto perché mentre schizzava via dalla villa, attraverso i giardini del quartiere,giù
oltre Kansas Street come un proiettile aveva sentito qualcosa tirare e strapparglisi nel
petto. Appena racimolò un po’ di forze, Eddie si addentrò per i lunghi corridoi del
supermercato togliendosi da davanti all’entrata. Era convinto che per le strade del
quartiere avessero organizzato una spietata caccia all’uomo con i cani feroci, i sensitivi
e tutto il resto. Eddie J.Largo, il più miserabile guardone di tutta la città.
Nel reparto carni, camminando a piccoli passi, sfinito e ancora senza fiato, la ruota di un
carrello l’urtò sul tallone. Si voltò di scatto, convinto che l’avessero scoperto lì dentro.
Mary Jane che spingeva il carrello e l’aveva colpito, gli fece uno strano sorriso.
<<Che ti è successo sulla fronte?>> Chiese.
<<Un brufolo. Non voleva andarsene via, così l’ho ucciso.>> Rispose lui ansimando,
pietrificato. Una volta su di un libro del secondo marito di sua madre aveva letto che al
destino piacciono le ripetizioni, le varianti e le simmetrie.
<<Devi comprare dei surgelati?>> Domandò Eddie.
<<No. Perchè?>>
<<Sennò dovevi andare subito a casa a metterli nel freezer. Vuoi venire con me da una
parte?>>
Mary Jane rimase in silenzio riflettendo in un solo istante su tutto ciò che aveva pensato
su di lui nei giorni precedenti. Poi roteò maliziosamente i suoi occhi spiritati all’indietro
e disse: <<Ohm... va bene, andiamo dove vuoi basta che non sia un cimitero.>>
No, Eddie non l’avrebbe mai portata in un cimitero. Magari a Parigi ma non in un
cimitero.
<<No, non è vero. Ci sono rimasta male. Tu sei l’unica persona che conosco qui a
Mountain View oltre a mia madre e a mia zia.>> Disse lei mentre era alla cassa e
metteva i prodotti uno ad uno sul nastro scorrevole. Poco prima le aveva detto che sua
zia era andata a Detroit per lavoro e sua madre stava a letto con la febbre, così lei aveva
saltato scuola per accudirla, per darle una mano, fare la spesa e cose del genere. Poi
disse anche: <<L’altro giorno, venerdì, ero così arrabbiata con te che se ti avessi
incontrato che stavi affogando e avessi avuto tre ciambelle sotto un braccio e tre sotto
l’altro, non te ne avrei tirata neanche una. Se non volevi venire potevi anche
telefonarmi, i numeri ce li eravamo scambiati.>> D’accordo poteva sembrare una cosa
brutta a dirsi, ma non era questo il senso in cui lei lo aveva detto e Eddie lo sapeva
benissimo. A quel punto il fiatone gli era passato e gli pareva che quella fosse una delle
migliori mattinate che avesse mai vissuto. E’ strano il modo in cui vanno le cose. Un
momento ti senti come se tutto il mondo volesse prenderti a calci sui reni ed un attimo
dopo ti viene voglia di rivolgere la parola a chiunque e raccontargli i fatti tuoi. Fatto sta,
che si sentiva proprio bene, pieno di idee e di speranza. Era arrivata la primavera e
nell’aria si riusciva a sentirla. Anche Mary Jane la sentiva perché era stata lei a
dirglielo. Insieme avevano raggiunto a piedi la collina con la quercia respirando a pieni
polmoni. La busta con la spesa l’aveva portata lui fin lassù. Erano le undici del mattino
e loro due stavano seduti ai piedi della quercia a guardare Mountain View nel bel mezzo
della sua microscopica attività. C’erano macchine per la strada, attori ed attrici davanti
alle telecamere, camerieri nei ristoranti, commessi nei negozi. I netturbini spazzavano,
gli uccelli cantavano, i malati gravi morivano, quelli meno gravi se la cavavano. Sua
madre aveva ragione a dire che tutto si sarebbe aggiustato. Eddie era strasicuro di questa
e di molte altre cose magnifiche che gli sarebbero capitate.
Si voltò verso Mary Jane. Teneva i capelli lunghi raccolti in maniera indisciplinata da
alcune forcine sopra la testa. Le estremità più bionde spuntavano fuori come virgole
impazzite. Eddie la guardò abbastanza a lungo da poterne in seguito eseguire un ritratto
a memoria che avrebbe intitolato: Di Parigi che ne pensi?
Rimasero per un po’ in silenzio. Ognuno accartocciato nel cestino delle proprie ardite
supposizioni. A Eddie dispiaceva di non averle ancora detto qualcosa di importante.
Pensò a qualcosa da dirle e per la verità ce n’erano tante di storie che le sarebbe piaciuto
raccontarle. Magari così. Anche solo per fare due chiacchiere. Ne conosceva moltissime
sui pittori famosi. Non lo so ma poteva essere un modo per confessarle la sua passione.
Per esempio c’era quella su Picasso, il più grande pittore del secolo. Eddie credeva
ciecamente in lui e in ogni affermazione che aveva fatto. <<Un buon quadro,>> aveva
detto un giorno <<dovrebbe essere irto di lame di rasoio.>> Lui questo non l’aveva più
dimenticato. Anche Picasso aveva cominciato a dipingere in una maniera abbastanza
singolare. Don Josè, suo padre, era un pittore che amava dipingere in prevalenza
piccioni. Accortosi immediatamente del talento precoce e straordinario di suo figlio un
giorno aveva preso le zampe di un piccione morto, le aveva fissate su una tavoletta nella
posizione voluta e gliele aveva fatte copiare e ricopiare fino a quando non fu soddisfatto
del risultato. Ben presto aveva cominciato a lasciar dipingere a lui le zampe dei piccioni
che affollavano le sue tele. Eddie credeva fosse una cosa carina da raccontare ma al
dunque non lo fece. Un po’ perché sentiva che non era ancora il momento di svelare chi
era e un po’ perché non sapeva da che parte cominciare.Alla fine fu lei a parlare. Eddie
la guardò dritto negli occhi come gli aveva detto tante volte sua nonna. I suoi però erano
occhi irriducibili, grandi come il mondo, anzi erano il mondo. Ti ci potevi perdere.
Ecco la prima cosa che disse: <<Io so tutto sull’umorismo. Non so se sono brava a farlo
ma ne conosco ogni sfumatura. Mio padre faceva il comico. Era la persona più spiritosa
che io abbia mai conosciuto. Lui e la mamma si erano sposati giovanissimi. Lei mi
raccontò che all’inizio fu difficile, molto difficile tirare avanti con i pochi soldi che
guadagnavano. Lei faceva la cameriera o vendeva prodotti cosmetici porta a porta
prendendo una percentuale ridicola sulle vendite; insomma lavoretti così. A quei tempi
non aveva ancora cominciato a disegnare vignette umoristiche. Fu lui che un giorno la
convinse a farlo. Dovresti metterti a disegnare sul serio o iscriverti al campionato di
lotta libera nel fango, le aveva detto e lei lo aveva fatto. Mettersi a disegnare intendo.
Comunque i genitori di mia madre avevano ostacolato in tutti i modi la loro relazione.
Che razza di mestiere è il comico? Gli diceva mia nonna. Non si è mai sentito. Uno fa
l’avvocato, il medico o l’ingegnere. Che cos’è il comico? Fa il giullare di corte? E in
che corte lavora? Ma a mia madre non importava quello che gli altri avevano da dire.
Figuriamoci a lui poi. Erano innamoratissimi ed era quanto gli bastava. L’ultima volta
che era stato a pranzo dai suoi suoceri, da mio nonno e mia nonna, per allentare la
tensione, dopo il dessert mio padre si era gettato in terra, nella costernazione generale e
si era messo a parlare con Dio della partita dei Dodgers. Aveva cominciato scrivendo
battute per altri comici. Piccoli sketch, freddure. Moglie e marito sono a letto. Squilla il
telefono, risponde la moglie:”Caro è la signora che abita nel palazzo di fronte, ti implora
di smettere di russare” Cose così. Ne conosceva a milioni. Una battuta dopo l’altra. A
casa, quando mia madre preparava il caffè, lui arrivava da dietro, la baciava sulla nuca e
le diceva:”Fallo buono come lo sai fare te, con quel sapore di detersivo per stoviglie.”
Ad ogni modo, con gli anni mio padre si era fatto un nome ed aveva iniziato a recitare
da solo le cose che scriveva. La sua prima apparizione televisiva la fece al Garry Moore
Show. Da quel momento in poi le cose si erano messe bene. Il lavoro non mancava. Si
esibiva nei teatri, ai festival, lo chiamavano per serate inaugurali di ogni tipo. Gli
dicevano semplicemente: tu falli ridere. E lui ci riusciva sempre. E quando non era al
lavoro portava mia madre a letture di poesie e a concerti, dati magari da un pianista al
sesto piano di un palazzo, cinque file di persone in una soffitta che lo ascoltavano al
buio. Gli piaceva tutto e non si arrabbiava mai. Delle volte me lo ricordo stanco, sfinito,
ma anche in quelle occasioni lui aveva sempre qualcosa di simpatico da dirti. Mi sembra
ancora di sentire la sua voce:”Ehi Mary Jane che fai? Ti va di aspettare che tua madre si
addormenti e poi ballarle il tip tap sulla schiena?” Quando tornava a casa mia madre gli
chiedeva sempre: com’è andata? E lui ogni volta rispondeva con cose tipo: ho rubato
una macchina ad una donna incinta, ho rapito un condizionatore d’aria e poi sono
andato in centro a puntare l’auto sui vecchietti. Una volta, tornò prima del previsto da
una delle sue turnè. Era domenica. Io e mia madre ce ne stavamo in giardino quando lo
vediamo scendere da un taxi vestito da donna. Con la parrucca bionda i tacchi a spillo,
truccato e tutto il resto. Ci corre incontro gridando che ha dovuto farlo, perché come
uomo non si sentiva più lui. Ci faceva morire dal ridere. E poi il Natale scorso il suo
agente gli dice che l’Hilton di Las Vegas lo vuole ingaggiare per una serata, la notte di
Capodanno, ma deve correre lì per accordarsi sull’ingaggio. Mi ricordò che partì il
ventidue Dicembre. Ci disse che per la vigilia ce l’avrebbe sicuramente fatta a tornare
da noi. Ma il giorno della Vigilia non arrivò. E neppure il giorno dopo. Non avevamo
più ricevuto notizie dalla sera prima. Mia madre telefonò al suo agente e lui gli disse
che la cosa era davvero strana perché erano tornati insieme in aereo da Las Vegas
all’ora di pranzo del ventiquattro. Mio padre sembrava sparito nel nulla. Il giorno dopo
mamma chiama la polizia e denuncia la sua scomparsa. Quel pomeriggio ce ne stavamo
in casa quando cominciamo a sentire quello strano odore. E’ lei per prima a dirmi che
sente un odore sgradevole. Io mi metto ad annusare l’aria e le dico che ha ragione c’è
davvero un odore strano. Proviamo a capire da dove viene e alla fine ci accorgiamo che
esce dal camino. Lei infila la testa lì dentro e cerca di vedere cos’è successo. Alla fine
chiama i pompieri. Ci dev’essere qualche animale morto dentro la canna del camino di
casa mia, dice. Il camion dei pompieri arriva con le sirene spente, senza fretta. Uno di
loro si cala nella canna fumaria. Dopo mezz’ora di lavoro tirano fuori da lì il corpo di
mio padre. La testa gli ricadeva da tutte le parti. Aveva il collo spezzato. Doveva
esserselo rotto mentre cercava di calarsi lì dentro. Era vestito da Babbo Natale. Si era
anche messo degli occhiali di plastica rossi senza lenti, a forma di cuore. Voleva farci
una sorpresa. Farci ridere. Per questo ce ne siamo andati da Bangor.>> Finito di
raccontare si tirò su di scatto e fece qualche passo verso i cespugli che crescevano sul
declivio della collina. Vide qualcosa tra i rovi. Lo raccolse. Sembrava un giornale. Era
completamente incartapecorito ad un angolo ma il resto delle pagine era intatto. Fu a
quel punto che Mary Jane dandogli le spalle disse a bassa voce: <<Mi dispiace per la
tua bicicletta.>> Girò la faccia verso Eddie. Lui era ancora lì con le spalle appoggiate al
tronco. Seduto all’ombra della quercia aveva scrollato la testa, tirato un lungo respiro e
sorriso.
<<Guarda che roba>>, gli aveva detto lei risistemandosi al suo fianco, <<è un catalogo
di soppalchi.>> Sfogliò qualche pagina, poi aggiunse: <<Questi qui vendono soppalchi
per corrispondenza. C’è scritto che sono tutti facili da montare.>>
<<Fammi vedere.>> Le disse Eddie tirando verso di sè il giornale. Voltarono alcune
pagine. C’erano davvero delle fotografie di soppalchi. Di legno o di ferro. Sfiziosi con
la ringhierina decorata o spartani, con una corda da barca che ne seguiva il perimetro.
Ce n’erano di economici e di molto costosi.
Rimasero lì a guardare quel catalogo con attenzione per un sacco di tempo. Certo che
erano davvero pratici quei soppalchi, ti facevano guadagnare un sacco di spazio. Un
soppalco dentro casa è una cosa che uno non ci pensa subito quando devi arredarla
anche per via del fatto che devi avere il soffitto molto alto, ma sulla praticità non si
poteva discutere. Nossignore. E intanto lei teneva una mano sulla sua gamba. La tenne lì
finché non videro un soppalco che li fece gridare insieme: <<Eccolo.>>, col dito
puntato. <<E’ questo il nostro.>>
Ottobre 1999
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Il Brufolo - Marco Costa