Risguardi Editorial Scouting
Aline Templeton, Gran Bretagna
Evil for Evil
Allison & Busby, 2012, 2013
Traduzione dall’inglese di Marina Rullo
PROLOGO
Penso che impazzirò se non confesso la mia colpa. Ma, ogni volta che provo a parlarne, il dolore
terribile dell’acido che mi sale in gola mi porta via il fiato per formare le parole. Al solo pensiero di
metterla per scritto mi vengono i crampi alla mano, ma per la mia sanità mentale devo provarci,
una pagina straziante alla volta. Se la scrivo solo per me, e non per farla leggere ad altri, forse ci
riuscirò. Eppure ho paura lo stesso, sapendo quanto mi costerà rivivere quell’esperienza. Devo
togliermela dalla testa, buttarla fuori in parole scritte. E poi bruciare la carta, distruggere il
ricordo? Se potessi, oh, se potessi! Ma riuscirei a trovare sollievo se non esiste possibilità di
perdono? Posso solo tentare…
Lui è venuto dal mare, e nei miei incubi vedo il suo corpo avvolto in fronde di alghe che stilla acqua
e fa scricchiolare le conchiglie sotto i piedi. I suoi occhi che luccicano nel buio sono occhi di pesce,
vitrei e inespressivi, e la mano che tiene sulla bocca di mia sorella, o sulla mia bocca perché spesso
nei sogni sono io e lei insieme, è ricoperta di scaglie lucenti. Il terrore mi paralizza; non riesco a fare
niente, neanche a gridare mentre attraversa la stanza con lei, con me, tra le braccia e va alla porta
e l’apre su un inconcepibile orrore.
Poi mi sveglio in un bagno di sudore. E ogni volta mi chiedo: quanto di tutto questo è sogno e
quanto ricordo?
CAPITOLO 1
L’isola. Nella penombra, l’uomo stava alla finestra, guardando il punto della baia dove
s’intravedeva l’isola, appena una sagoma nella bruma del mattino.
Il paesaggio era completamente grigio: il grigio scuro della terra sotto la finestra, e il grigio perla
vellutato del mare e del cielo, con solo un barlume d’argento a oriente, dove cominciava a
schiarire.
Era così vicina! Solo cinquecento metri in linea d’aria, ma nella realtà… Si morse il labbro,
frustrato. Sarà stato anche tutto grigio, ma i suoi occhi vedevano oro, oro, tra le fredde pietre
antiche.
L’isola. Si girò nel sonno, gridando, ma di bocca le uscì solo un lamento strozzato. Si svegliò di
soprassalto al tocco della mano sulla spalla.
— Tutto bene? — fece lui, intorpidito.
— Sì, scusa.
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Aspettò che il respiro di lui tornasse regolare, poi scivolò fuori dal letto nella stanza scura. Non
osava riprendere sonno.
L’isola. Distesa sul letto, con lo sguardo alla finestra le cui tende non venivano mai chiuse, osservò
la luce acquistare forza.
I contorni emergevano più chiari a mano a mano che la bruma si alzava, indugiando tra le cime
degli alberi sulla punta smussata dell’isola che dava sul mare; da lì il terreno digradava verso una
coda rocciosa sommersa dalla marea montante. Ne aveva l’immagine incisa nella mente, poteva
vederla anche a occhi chiusi.
Le lacrime si raccolsero fino a traboccare silenziosamente. Non fece niente per asciugarle,
lasciando che le scendessero sul viso bagnando il cuscino. Era il momento più difficile, la mattina,
quando si svegliava e in un nuovo sussulto di disperazione ricordava la piccola tomba al di là del
mare.
L’isola. La guardò di sfuggita passando in barca per controllare le nasse dei granchi e delle
aragoste. Solo un’altra delle isole Fleet: Ardwall, Murray, Barlocco e poi Lovatt, anche se la gente
del posto preferiva il suo vecchio nome, Tascadan. Non gli piaceva pensare a quel posto e il più
delle volte ci riusciva, ma negli ultimi tempi…
Accennò una smorfia e puntò verso il largo.
L’isola. Era là, in sogno, avvolta dalla magia di una quiete profonda, l’unico suono il mormorio delle
onde e il tenue frusciare della brezza che faceva tremare le foglie sugli alberi. Camminava sull’erba
tenera sfiorandone appena la superficie con i piedi e, mentre andava verso il bosco, un cerbiatto
maculato usciva dall’ombra e l’affiancava senza timore. Gli carezzava le orecchie vellutate,
sorridendo nel sonno.
L’isola. La marea salì, penetrando nella piccola grotta sul lato a mare. Le onde si riversarono nello
spazio angusto, sciacquando le pareti per poi frangersi sotto una delle alte sporgenze rocciose
dell’interno. Solo al culmine della marea gli spruzzi riuscivano a raggiungerla per continuare a
pulire lo scheletro incatenato con un braccio e una gamba alla roccia.
Il mattino si era fatto di un bianco opalescente: il mare calmo, perlaceo, punteggiato dai bagliori
infuocati dell’aurora; il cielo d’un azzurro pallido disseminato di nuvole basse sfumate di rosa e
albicocca. Nella luce dell’alba, l’isola era ancora una massa indistinta.
La lucida testa scura simile a quella di una foca, l’uomo che nuotava verso la spiaggia come una
punta di freccia da cui si allargava una serie di increspature attraversò con energiche bracciate il
basso canale che portava alla baia sabbiosa. Dall’alto di un soffice terrapieno erboso accanto a un
viluppo di felci e d’erica lo teneva d’occhio il suo cane.
L’uomo emerse nudo e tremante nell’aria fredda del mattino, poi, scrollate spalle e braccia,
raggiunse la riva vicino al piccolo molo dov’erano ormeggiate un paio di barche e una chiatta.
L’ultima nuotata dell’anno, decise. Anche se le previsioni annunciavano ancora qualche giorno di
quel settembre dorato, nell’acqua di quella mattina si avvertiva già un crudele accenno d’autunno.
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Il cane gli corse incontro a balzi e l’uomo gli arruffò il pelo folto del collo, poi prese dal molo un
accappatoio con cui si asciugò il viso e si strofinò i capelli scuri prima di infilarlo. La pelle ustionata
sotto l’occhio destro, liscia e quasi plastificata al tatto, gli provocò come sempre un vago disgusto.
Annodò la cinta dell’accappatoio e restò lì a contemplare Lovatt. La sua isola.
L’aria oggi sembrava piena di ricordi. In una mattina come quella di tre anni prima, Matt Lovatt
aveva attraversato a nuoto per la prima volta lo stretto braccio di mare che separava l’isola dalla
terraferma quando non c’era bassa marea. Ma era tarda primavera allora e il tempo limpido una
promessa anticipata di primavera; oggi gli alberi dell’isola cominciavano a rosseggiare e le felci
imbrunite ad avvizzire, mentre l’alba tardiva già parlava del viaggio verso le lunghe notti scure.
Della fine e non di un nuovo inizio.
Melissa stava seduta sul molo come una sirena sullo scoglio con i suoi lunghi riccioli castani.
Cantava, e nell’uscire dall’acqua l’uomo notò due o tre foche emergere a tratti con la loro testa
rotonda dalla baia.
Lei gli sorrise da sopra la spalla senza smettere di cantare: “Sulla terra sono un uomo, ma
appartengo al mare…”
Le foche la guardarono con i loro grandi occhi miti, poi, alla fine della malinconica ballata, si
immersero soffiando in un vortice di bolle.
Gli occhi di Lissa brillavano di gioia. — Non ci credevo, sai. Pensavo che era solo una bella leggenda
che gli piacesse la musica. Oh, Matt, questo posto è magico! È il paradiso! Sento che potrei essere
felice qui.
Lui aveva fatto cenno di sì, ridendo del suo viso raggiante. Era tutto quello che aveva sempre
sperato, ma anche allora lo tormentava un presentimento. Lissa era così volubile, così fragile!
Aveva già visto in lei quell’eccitazione malsana, quell’entusiasmo tanto facile a spegnersi davanti
alla fredda realtà. Per nessuno dei due la felicità era uno stato d’animo naturale.
E non ci era voluto molto perché il serpente facesse la sua comparsa in Paradiso: una scritta
abbozzata con la calce su un muro, “Via i forestieri”. Si erano ritirati in se stessi come lumache
sotto una spruzzata di sale; forse erano stati troppo suscettibili, scambiando per ostilità quella che
magari era solo timidezza o indifferenza, ad ogni modo, quelle piccole persecuzioni avevano
lasciato loro ben poca voglia di entrare nelle grazie della gente.
Il paradiso era diventato un purgatorio. La tragedia di un bambino nato morto, ora nella sua
piccola tomba sull’isola, invece di riavvicinarli li aveva spinti ciascuno nel proprio dolore privato.
Quando parlavano, le parole sembravano gravate da troppi significati e il silenzio del lutto aveva
finito per dilatarsi finché tra loro non era rimasto altro che lo spazio di un’eco. Matt vedeva le
tenebre distruttive tornare ad avvolgere la moglie nelle loro spire ogni giorno di più, e stavolta non
poteva fare altro che assistere impotente.
L’arrivo di Kerr Brodie era stato un sollievo. Il loro matrimonio era diventato, come si dice, un
triangolo, ma se non fosse stato per Brodie il matrimonio non ci sarebbe stato affatto. Per quanto
le occasioni di stress siano inevitabili in qualsiasi relazione che coinvolga tre persone, loro
riuscivano a chiacchierare e perfino a ridere seduti insieme a tavola, prima di ritirarsi ciascuno
nella propria stanza a combattere i propri demoni interiori.
Il cane, annoiato, smise di scavare nella sabbia e si avvicinò con un balzo al padrone, alzando verso
di lui uno sguardo speranzoso.
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— Sì, ho voglia di colazione anch’io — disse Matt, infilando i piedi in un paio di mocassini
deformati e avviandosi su per la collina.
La prospettiva della giornata non lo entusiasmava. Decise che se ne sarebbe andato in giro finché
non fosse passata, magari per una bella camminata. Dopo che alla televisione erano venuti a
sapere non si sa come del suo progetto di riabilitazione, aveva acconsentito a essere intervistato,
ma non sarebbe mai apparso in video come una specie di fenomeno da baraccone. Nell’aprire il
cancello della fattoria, si portò inconsciamente la mano alla parte sfigurata del viso.
La donna che parlava alla telecamera aveva alle spalle un paesaggio che sembrava uscito da un
depliant turistico di VisitScotlandGalloway. Il cielo doverosamente azzurro punteggiato di
nuvolette fioccose, l’erba di un verde improbabile e al largo di Wigtown Bay le isole Fleet quasi in
attesa di un provino per la parte di “gemme preziose incastonate in un mare d’argento”.
La reporter era accompagnata da un tipo brizzolato dalla corporatura tozza, con un portamento
militare in contrasto con l’andatura goffa e claudicante. — Così ne abbiamo parlato con il
Maggiore Matt e abbiamo pensato che se questo posto aveva aiutato me poteva aiutare anche gli
altri — stava dicendo l’uomo. Aveva un forte accento di Glasgow.
La telecamera passò a inquadrare una giovane donna dai tratti marcati e dai capelli castani
spettinati che accarezzava sorridendo una cerva, mentre questa le strofinava il muso sulla mano
con un gesto che agli spettatori parve più affetto che avidità per la carota che la donna teneva in
mano fuori campo. Poi tornò con un primo piano sulla reporter.
— E così, qui all’allevamento dei cervi, in quest’oasi di serenità messa a disposizione dal Maggiore
Matt Lovatt, e naturalmente con l’aiuto di Dancer… — la cronista sorrise mentre la telecamera
inquadrava di nuovo la cerva sempre più impaziente —… ex soldati in difficoltà come la nostra
Christie trovano pace e sollievo per le ferite, visibili o invisibili, che hanno avvelenato la loro vita.
Carla Brewer, TG Ore Sei, Innellan, Galloway, Scozia sudoccidentale.
Eddie Tindall studiava di sottecchi sua moglie fingendo di leggere il quotidiano della sera. Erano
passati otto anni, ma quella donna per lui era sempre un miracolo e quando si trovavano nella
stessa stanza i suoi occhi ne erano calamitati. Sapendo che non sopportava di essere fissata, aveva
escogitato una serie di sotterfugi: un certo modo di portarsi la mano alla fronte per nascondere gli
occhi, un’occhiata da sotto in su con la testa china sui documenti oppure, come ora, l’artificio del
giornale.
Su un enorme schermo al plasma sopra il caminetto di marmo dell’attico nell’esclusivo Salford
Exchange Quay scorreva il notiziario delle sei. Il pavimento lucido era color miele, i soffici divani di
pelle color biscotto e il più costoso architetto in circolazione aveva usato per gli interni una
tavolozza di sfumature calde e vellutate, creando una parete speciale tappezzata di carta lucida
nelle tonalità bronzo e oro. Perfino Eddie era rimasto sconcertato da quanto gli era costata quella
parete.
Aveva comprato l’appartamento per Elena tre anni prima. Fino ad allora erano vissuti nella casa in
cui Eddie e l’ex moglie avevano cresciuto i figli, rimasta com’era dal giorno in cui Debra, suo figlio e
sua figlia se n’erano andati via, arrabbiati e feriti, per rifarsi una vita a Londra. Naturalmente,
aveva detto a Elena che poteva rivoltare la casa da cima a fondo, ma a lei l’idea non era piaciuta e,
a quanto pare, non si era neanche curata che in giro non ci fosse niente di suo.
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Quell’indifferenza aveva cominciato a preoccuparlo. Eddie non nutriva alcuna fiducia nel proprio
ascendente sulla moglie e temeva che, senza le cose che amava ad ancorarla, lei avrebbe potuto
semplicemente uscire della sua vita con la stessa casualità con cui un giorno vi era entrata.
Scegliere era comunque una forma di espressione, così le aveva offerto quell’appartamento
all’Exchange Quay come una tela bianca, con la speranza, se non l’aspettativa, che le sue decisioni
gli fornissero la chiave per penetrare il mistero che Elena restava anche dopo tutti quegli anni. Se
l’avesse compresa meglio, sarebbe stato meno ossessionato da lei.
Ma l’unica decisione di Elena era stata la scelta dell’architetto — assunto, come Eddie aveva
tristemente intuito, in base ai consigli delle signore Salford con cui era solita pranzare (non si
poteva definirle amiche) — e il fatto di lasciargli carta bianca. Se si guardava intorno, Eddie non
riusciva a vedere un solo oggetto scelto da lei.
La donna stava seduta immobile davanti alla televisione. Non era una persona irrequieta; la sua
immobilità possedeva una peculiarità che a Eddie sembrava permeare tutta la stanza, tanto che
quando rincasava da una giornataccia di lavoro sentiva tutte le sue preoccupazioni svanire nel
momento in cui metteva piede in quell’oasi di pace. Ora, tuttavia, notò in lei un segnale di
tensione.
Non che fosse ovvio. I suoi occhi color ardesia erano tranquilli, le mani curate raccolte in grembo,
le lunghe gambe affusolate nei pantaloni neri dal taglio elegante accavallate proprio come cinque
minuti prima. Eppure, c’era una lieve pulsazione alla coda dell’occhio, che Elena cercò di calmare
portandosi una mano al viso.
Poi girò la testa come se avesse avvertito lo sguardo del marito su di lei. Eddie si chinò in fretta a
prendere il telecomando proprio nel momento in cui partiva la sigla di chiusura, spense la
televisione e si raddrizzò.
— Un drink, tesoro?
— Sì, grazie —. La donna gli rivolse un sorriso, che Eddie ricambiò avvertendo come sempre un
tuffo al cuore davanti alla sua bellezza.
Aveva comprato tutto lui, naturalmente: il nasino all’insù, il lucido caschetto color caramello
acceso da sottili colpi di sole, i denti candidi perfettamente allineati. Ma erano state scelte di
Elena, non sue; Eddie aveva visto la sua bellezza fin da quando era stato per la prima volta suo
cliente, quando lei aveva i capelli sfibrati dall’ossigeno e due occhi cerchiati di ombre livide troppo
grandi per il viso affilato.
A quel tempo, era diffidente come un gattino selvatico, più a suo agio sul marciapiede che con la
promessa di un cuscino di seta e una ciotola di latte, perché l’esperienza le aveva insegnato che
ogni cambiamento è una minaccia. Eddie aveva comprato un’ora dietro l’altra del suo tempo,
portandola a mangiare fuori, parlandole, facendola divertire finché lei in ultimo si era fidata, tanto
quanto si sarebbe fidata di chiunque altro.
Non avrebbe mai saputo cosa l’aveva convinta a sposarlo; la morte atroce di un’altra prostituta,
forse. In un raro, prezioso momento d’intimità, lei aveva accennato a una storia che le piaceva
tanto quand’era bambina, quella bambina di cui non parlava mai: “Sono il gatto che se ne va da
solo e tutti i posti sono uguali per lui”. Era ancora così.
Il mobile bar anni Trenta aveva uno specchio interno e, nel tirare fuori i bicchierini triangolari per
un Martini vodka, Eddie colse la propria immagine riflessa: un uomo di mezz’età dalla calvizie
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incipiente, con un inizio di rotolo di grasso intorno al collo e una faccia da comico in pensione.
Come faceva una donna così ad amarlo?
D’altronde, Elena non l’aveva mai detto né lui glielo aveva mai chiesto. Era già tanto che fosse lì,
che fosse sua. Gli era costata il matrimonio e due figli che non gli rivolgevano la parola da dieci
anni. Ma, per quanto comprati, i suoi sorrisi erano dolci perfino a quel prezzo.
Le portò un bicchiere. Teneva ancora la mano premuta sulla guancia, il che suscitò in lui una fitta
d’inquietudine. Inutile chiedere cosa la turbava: avrebbe risposto con una risata che non era
niente; ma Eddie l’avrebbe spiata ansioso per vedere se i grandi bracciali che le coprivano i polsi
avrebbero fatto la loro ricomparsa.
A quell’ora del venerdì sera al Contrabbandiere regnava la calma. Quasi tutti i villeggianti erano
ripartiti, anche se le scuse tardive di un settembre mite seguito a un’estate deludente stavano
richiamando per il finesettimana alcuni proprietari delle tante villette e roulotte annidate
sull’altura che dominava Fleet Bay. Durante il giorno il sole era abbastanza caldo, ma la sera aveva
un’asprezza che stava già vestendo gli alberi della loro livrea autunnale, e le notti più lunghe
annunciavano che il declino verso il lungo inverno scuro era ormai iniziato.
Il locale, già Innellan Arms, era stato ribattezzato con quel nome romantico dall’ex proprietario in
omaggio ai tempi in cui gli esattori delle tasse come il poeta Robert Burns — quel paladino del
whisky e della libertà — pattugliavano l’estuario del Solway, dove i fautori del libero scambio
introducevano le merci dall’isola Man.
Il villaggio di Innellan, affacciato sulla baia di fronte alle isole Fleet, sorgeva all’estremità di una
strada angusta: nient’altro che due dozzine di case, un pugno di cottage e di fattorie isolate, una
chiesa abbandonata e un cimitero. Secondo Georgia Stanley, che gestiva la locanda, i morti
superavano i vivi dieci a uno.
Georgia si trovava a Innellan perché si era innamorata. Lei e Barry. Entrambi sedotti dalla bellezza
del luogo. Ogni anno, dopo le consuete due settimane in campeggio trovavano sempre più difficile
tornare a Walsall e alla fine avevano cominciato a chiedersi perché farlo. Poi il Contrabbandiere
era stato messo in vendita a un prezzo irrisorio e non ci avevano pensato su due volte a lanciarsi
nell’avventura.
Poco dopo, Barry era morto. Chi muore senza preavviso a quarant’anni? Non era certo colpa sua,
eppure in un certo qual modo complicato Georgia lo riteneva responsabile se ora lei si ritrovava lì
da sola, con cinque anni in più e una proprietà invendibile sulle spalle, mentre le ombre si
allungavano verso un altro interminabile inverno. Lei e Barry non l’avevano mai visto l’inverno a
Innellan dal campeggio.
Non che volesse tornare a Walsall… mai! Kirkcudbright, magari. Con le sue casette graziose, i
negozi animati e la gente cordiale che ti salutava con un sorriso… Non come in quel buco di paese
strano e omertoso con le sue misteriose alleanze e faide vecchie di generazioni, dov’era così facile
per il nuovo venuto fare una figuraccia visto che nessuno ti spiegava chi era amico di chi. Aveva
imparato a essere diplomatica a proprie spese e adesso era tollerata, anche se non ci si poteva
aspettare di essere accettati senza vantare almeno una faida di cinquant’anni.
Non che fosse così difficile cominciarne una. Sarebbe stato un lusso non essere costretti a fare
buon viso a certa gente, ma nella vita di Georgia per il lusso non c’era più spazio. A volte pensava
di avere la lingua scorticata a furia di mordersela, ma al momento buono riusciva sempre a tirare
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fuori un sorriso. Finché il pub era in attività poteva sempre capitare un turista estivo abbagliato e
ingenuo come lo erano stati loro e a quel punto avrebbe mollato tutto. Era quello il sogno che la
sosteneva ogni sera quando usciva di casa per aprire il locale.
Lucidare il bancone di mogano, le rifiniture d’ottone e il pavimento di legno scavato da anni di
passaggio era il suo motivo d’orgoglio. Teneva il fuoco acceso nel camino di ghisa anche d’estate
perché quella costruzione bianca dalle finestre piccole e le pareti spesse era sempre fredda. Presto
avrebbe chiuso le tende rosse e acceso le lampade con il paralume dello stesso colore; il pub aveva
un’aria molto più intima e accogliente durante i tetri mesi invernali, anche se sei clienti potevano
già dirsi una serata affollata. Quando le giornate si accorciavano e tutti si rinchiudevano in casa,
Georgia non vedeva quasi più i vicini. Era, come dire, inquietante.
Quella sera, però, c’era un’atmosfera allegra, con gli ultimi raggi di sole che riscaldavano il locale e
la porta sul retro aperta sul paesaggio e l’aria dolce di mare. Georgia stava lucidando i bicchieri,
con un occhio alla TV in fondo al bar che trasmetteva il notiziario delle sei. Da quando i giornalisti
erano arrivati alla fattoria di Lovatt, la gente non stava più nella pelle ed era facile prevedere
un’ondata di pettegolezzi più tardi. Al momento, però, al bancone c’erano solo due clienti fissi più
una coppia in pantaloncini e scarponi da trekking che beveva birra a un tavolino.
Per tutta la durata del servizio Derek Sorley si era prodotto in una serie di piccoli rumori esplosivi,
come una teiera sul punto di fare saltare via il coperchio per il troppo vapore accumulato. Sorley
era uno dei candidati principali per la faida di Georgia, con quel muso da topo e la testa calva sul
davanti con quattro capelli grigi arruffati sulla nuca legati a coda di cavallo, scelta infelice che
faceva pensare a un graduale smottamento all’indietro.
A volte le sembrava di vedere intorno all’uomo un’esalazione malsana di rancore e invidia. Sorley
ce l’aveva a morte con chiunque avesse dei “vantaggi”, il che voleva dire chiunque non avesse
perso come lui una sfilza di lavori per colpa della maleducazione e dell’indolenza, come Georgia
sapeva per certo. Però, andava bene per un paio di pinte ogni sera e lei non poteva permettersi di
fare la schizzinosa.
Alla fine del notiziario, Sorley esplose. — Grande! Chissà com’ha fatto san Matt a guadagnarsi
tutta questa pubblicità. L’eroe di guerra ferito che cura “i nostri ragazzi”! E, già che c’è, pure le
ragazze, non so se avete notato. Con quella ha fatto centro! Chissà che ne pensa la signora Lovatt
del suo coraggioso soldatino —. Fece una risatina antipatica. — E che probabilità ci sono ora di
ottenere un ordine esecutivo per accedere all’isola? Gli basta dire che quelli hanno bisogno di
starsene in pace e tutti si faranno venire la lacrimuccia. Ah, lo dicevo io che non era fesso! Diritto
di pubblico accesso… tutte balle! Questi governanti del cazzo promettono libero accesso in tutta la
Scozia e poi davanti ai padroni dei terreni si calano le braghe.
Georgia non aveva alcun motivo particolare per difendere Matt Lovatt. Era un mezzo sfigato con la
luna storta e le volte che era entrato nel pub si contavano sulle dita di una mano, però, di certo
non l’avevano fatto sentire benvenuto dopo che aveva rifiutato di affittare la sua terra a Steve
Donaldson per mettere su una fattoria per conto proprio. Il galateo del pub avrebbe richiesto una
risposta evasiva, ma la donna si lasciò sfuggire: — Beh, ha un allevamento di daini lassù. Sono più
timidi dei cervi, magari si spaventano se vedono turisti in giro.
L’uomo all’altro capo del bancone era rimasto a guardare in silenzio. Cal Findlay aveva una barca
per la pesca dei gamberi dalle parti di Kirkcudbright, ma viveva con la madre in un cottage isolato
sulla collina dietro il villaggio. Veniva quasi tutte le sere al pub, dove se ne stava per lo più in
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disparte con un’espressione negli occhi, così scuri da sembrare quasi neri, che pareva cinico
disprezzo per gli esseri più socievoli. Georgia ci avrebbe fatto volentieri un pensierino, ma lui non
le aveva mai dimostrato interesse.
— Ce l’hai con Lovatt perché t’ha beccato col metal detector e t’ha buttato fuori dall’isola — disse
Findlay con freddezza.
Sorley si risentì, diventando paonazzo. — Bugiardo!
L’altro si chiuse in un silenzio esasperante, limitandosi a inarcare un sopracciglio e a bere un sorso
di whisky.
Sorley attaccò a imprecare, ma Georgia tagliò corto: — Non permetto questo linguaggio nel mio
pub, Derek. Là c’è il salvadanaio per la lancia di salvataggio, sono due sterline.
L’uomo aprì bocca per protestare, ma lo sguardo d’acciaio di Georgia gli fece cambiare idea. Mise i
soldi di malagrazia nel salvadanaio, si alzò in piedi e scolò il resto della birra.
— Perché non lo chiedi a lui — disse, puntando contro Findlay un dito tremante — chi è andato a
fare la spia da Lovatt quando stavo solo facendo quattro passi sulla terra che appartiene di diritto
a tutti gli scozzesi?
Findlay non replicò. Mentre Sorley usciva dal pub come una furia, tornò a guardare il notiziario con
espressione impassibile, anche se Georgia avrebbe giurato che non stesse ascoltando neanche una
parola.
Il piccolo televisore in un angolo della cucina a Mains of Craigie era sintonizzato sul notiziario, ma
né Janet Laird né Catriona Fleming gli prestavano attenzione.
Janet era intenta a preparare lo skirlie, facendo cuocere lentamente cipolle e avena per
accompagnare il pollo che già arrostiva nella grande cucina economica, un bell’esemplare grasso
del loro allevamento. Nella cuccia a fianco, Meg la collie uggiolava piano, torturata dall’aroma
squisito.
Cat stava pelando le patate. Aveva diciott’anni ed era di una bellezza singolare, avendo ereditato i
capelli chiari e gli occhi azzurri del padre e le lunghe gambe affusolate della madre. Guardò con
aria dubbiosa il lavoro fatto.
— Pensi che basterà, nonna?
Janet Laird era sulla settantina, ma ancora attiva e allegra, anche se gli occhi castani si erano fatti
un po’ appannati e le spalle più cadenti. Era sempre indaffarata con qualche buona causa, come ad
esempio garantire che l’inadeguatezza culinaria di sua figlia Marjory non privasse la famiglia di una
sana cucina casalinga scozzese. Insieme a Karolina, moglie di Rafael che lavorava alla fattoria con
Bill, faceva in modo che le faccende di casa non aggiungessero ulteriore stress al già stressante
lavoro della figlia.
La donna valutò con un’occhiata il mucchio di patate. — Meglio che ne sbucci qualcun’altra,
tesoro. Lo sai che quando ci sono le patate arrosto Cammie è un piccolo lupo.
— Solo tu puoi chiamare “piccolo” Cammie — protestò la ragazza. Suo fratello Cameron a sedici
anni aveva raggiunto il metro e ottanta e non dava segni di volersi fermare. — È solo un maiale
senza fondo.
— Ma no, ha bisogno di mantenersi in forze con tutti quegli allenamenti di rugby. A che ora torna
stasera?
— Verso le sette. E mamma ha promesso di non fare ritardo… per chi ci crede.
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La ragazza si rimise al lavoro con un sospiro. Era terribilmente importante che quella sera ci fosse
tutta la famiglia riunita. Aveva scelto la sua cena preferita (crema di cavolfiore, pollo arrosto e la
speciale crostata al limone meringata di nonna), perché il giorno dopo se ne sarebbe andata da
casa. Il solo pensiero le fece venire un nodo allo stomaco.
Oh, non vedeva l’ora, non stava nella pelle per quel posto alla facoltà di veterinaria di Glasgow e
poi il suo ragazzo, Will Irvine, era già lì al secondo anno di medicina. Finalmente, si sarebbero
ritrovati: quell’estate lui aveva lavorato come inserviente all’ospedale di Glasgow e si erano visti
poco o niente.
Sarebbe stato mitico! Vivere in una grande città invece che in un noioso buco di provincia era una
cosa fantastica.
Ma quella sera non ne era più tanto sicura. Non riusciva a immaginare di aprire gli occhi in una
stanza dove non ci fosse neanche un ricordo del suo passato: peluche che non si era decisa a
regalare al mercatino parrocchiale, libri d’infanzia che a volte ancora rileggeva, la parete
tappezzata di foto che andavano dalla festa per i tredici anni al ballo di fine anno scolastico a
giugno. Senza il suo passato, tra gente estranea, poteva diventare una persona totalmente diversa
e straordinaria, oppure del tutto confusa e smarrita. In quel momento, propendeva più per la
seconda ipotesi.
Ci fu uno squillo di telefono e qualcuno rispose prima che Cat potesse asciugarsi le mani e pensarci
lei. — Ci scommetto la testa che era mamma per avvisare che fa tardi al lavoro — commentò con
voce inespressiva.
— Non è detto, cara — fece Janet, ma in tono poco convinto, e qualche minuto dopo arrivò Bill
Fleming.
Un uomo alto e ben piazzato, dalla carnagione fresca, con i capelli chiari che si andavano facendo
impercettibilmente più grigi e radi di pari passo con il giro vita che si allargava, ma i cui occhi
avevano ancora lo stesso azzurro della figlia.
Allo sguardo interrogativo delle due donne, fece la faccia lunga. — Purtroppo è così. Era mamma.
— Non dirmi niente. La trattengono al lavoro, tanto per cambiare.
— Le dispiace tanto, Cat — replicò Bill in difesa della moglie. — Dice di cominciare senza di lei.
La figlia gli lanciò un’occhiataccia. — Senza di lei? Vuoi dire che non viene per niente a cena?
— Pare di no. Lo sai come vanno queste cose, tesoro. Non ha scelta. È il lavoro.
— Lo so fin troppo bene! Lavoro del cazzo… stramaledetto lavoro del cazzo! —. La ragazza sentì gli
occhi riempirsi di lacrime umilianti. — Vado a finire la valigia — balbettò e corse su per le scale.
Teddy Grande, la sua consolazione nei momenti di infelicità durante l’infanzia, era ancora sulla
sedia accanto al letto. Lo afferrò e, affondando il viso nella sua pelliccia logora, si gettò sul letto in
singhiozzi.
Il bar in uno dei vicoli più squallidi di Glasgow aveva un’aria decrepita e poco invitante. La vernice
delle pareti portava i segni di innumerevoli risse e i vetri smerigliati delle finestre sudice avevano
ancora inciso sopra il nome di un distillatore ormai caduto nell’oblio. Dai bevitori allontanati dal
locale, assiepati intorno alla porta aperta, si spandeva una nube di fumo e la clientela era quasi
interamente maschile. Quella sera gli affari andavano bene e il pavimento era già costellato di
pozze di birra versata.
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Risguardi Editorial Scouting
Il televisore a parete, ignorato da tutti tranne che per le partite di calcio, era sintonizzato sul
notiziario, a malapena intelligibile al di sopra del coro di voci rauche. L’unico che lo seguiva, sia
pure oziosamente, era un giovane segaligno e mal rasato, che, a giudicare dagli abiti trasandati,
sembrava avere dormito vestito. Se ne stava seduto in disparte, sorseggiando adagio la birra più
economica del locale come a sperimentare quanto riusciva a tirarla in lungo.
Quando partì il servizio sul Galloway, si drizzò improvvisamente fissando lo schermo, poi scese
dello sgabello e si fece strada fino all’altro capo del locale per sentire meglio. Dopo aver ascoltato
il servizio con angosciato interesse, chiese al barista: — Hai mica una penna, capo?
L’altro si guardò intorno e ne trovò una vicino alla cassa. — Eccola. A posto così?
— Grazie.
Il giovane scolò la birra in due sorsate, poi si appuntò qualcosa sul palmo della mano e, restituita la
penna, uscì in fretta dal locale.
Il sole stava tramontando all’estremità della scia dorata lasciata dai raggi sulle acque calme di
Wigtown Bay. Mentre il piccolo fuoribordo traversava scoppiettando la baia davanti alle isole
Fleet, le increspature dell’acqua frantumarono il riflesso in una miriade di schegge luminose, ma lo
splendore di quel tramonto autunnale era sprecato per gli occupanti della barca.
Al timone c’era un ragazzino di tredici anni dai capelli color stoppa e il fisico che andava già
assumendo i contorni più marcati dell’adolescenza. Il suo viso accaldato era dovuto solo in parte al
pomeriggio di sole e di mare: c’era anche la soddisfazione per lo sgombro dai riflessi argentati
adagiato sul fondo della barca accanto agli attrezzi da pesca. Restìo a salutare la fine della
giornata, il ragazzo rallentò il motore e chiamò il compagno.
— Vieni qua, Jamie! Che dici, andiamo a dare un’occhiata a quella grotta laggiù? La marea è giusta.
Stavano passando davanti alla costa occidentale di Lovatt e il ragazzo indicò una piccola grotta
marina quasi a metà dell’isola. La scogliera era ancora illuminata dai raggi caldi del sole, ma la luce
si affievoliva rapidamente e l’imbocco della grotta si presentava già scuro e minaccioso.
Jamie, più giovane ed esile, dai capelli neri e il viso delicato, dissimulò un brivido di paura
guardando l’orologio. — No, papà mi ha detto di tornare alle sette, sennò m’ammazza, e sono già
quasi le otto.
— Allora t’ammazza comunque — replicò Craig con logica spietata. — Tanto ci vuole un minuto.
Queste grotte una volta le usavano i contrabbandieri —. Si chinò a dare gas al motore.
Il sole era improvvisamente sparito. Le scogliere da dorate erano diventate grigie e nelle fessure
della roccia si addensavano le ombre.
Jamie non riuscì a nascondere un altro brivido. — È troppo buio — balbettò. — Non vedremmo
niente.
Craig gli lanciò un’occhiata sprezzante. — C’è una torcia nel bauletto. Sei solo un cacasotto!
— No, invece. È che… ci sono i fantasmi. Non ci si deve andare sull’isola di notte.
— Ah, i fantasmi! Come no! — disse Craig per nulla impressionato e, agitando le mani davanti alla
faccia dell’amico, fece un verso lugubre.
Ma Jamie non si diede per vinto. — Ci sono eccome. Me l’ha detto mia madre… piangono e si
lamentano. Li ha sentiti proprio lei, anni fa. Non si avvicinerebbe all’isola manco se la pagassi.
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Risguardi Editorial Scouting
A un tratto, si era fatto più freddo. La barca rollò sulla cresta di un’onda e Craig, turbato
dall’agitazione dell’amico, lanciò un’occhiata alla grotta che adesso si apriva davanti a loro come
una voragine scura.
— Lo diceva solo per pigliarti in giro — disse senza molta convinzione.
— Ma li ho sentiti pure io. Ecco come lo so. Tempo fa ero giù alla spiaggia e stava facendo notte,
proprio come ora, e li ho sentiti… grida, lamenti, cose così. E poi lo sai che sull’isola c’è un bambino
morto.
Fu un dettaglio eloquente. Craig trattenne il fiato. — E tu che hai fatto?
— Sono tornato a casa, e ti dico che non mi convinci ad andare in quel posto di notte.
In tutte le loro imprese Craig faceva sempre la parte del capo ed era poco incline a cedere. — Per
me sono tutte cazzate. Probabile che erano solo i cervi. Fanno certi versi strani che uno scemo
penserebbe subito ai fantasmi. Ci vuole un minuto, dai —. E diresse la barca verso l’imbocco della
grotta.
— Non dobbiamo avvicinarci troppo alla costa se ci sono gli scogli. Papà darà fuori di matto —
disse Jamie in un ultimo tentativo disperato. — Non ci farà più prendere la barca.
— E chi glielo va a raccontare? —. Mentre Jamie tendeva l’orecchio per cogliere qualche rumore
insolito, Craig pilotò la barca nell’interno della grotta.
Anche se era quasi notte, fu subito evidente che quel posto non aveva niente di speciale:
nient’altro che una cavità poco profonda scavata nel fianco della scogliera, senza gallerie di
comunicazione con l’esterno o altro. Deluso, Craig illuminò intorno con la torcia, mentre la barca
rollava sulle onde nello spazio stretto.
— Hai visto che non c’è niente? — fece Jamie, un po’ risollevato. — Dai, andiamocene via prima
che fai scuffiare la barca e ci mettiamo davvero nei guai.
— Va bene — acconsentì di malumore Craig, illuminando per l’ultima volta le pareti e la volta. —
Aspetta, che roba è?
Una grande sporgenza rocciosa, in alto. Qualcosa di bianco. Ossa. Un teschio che luccicava alla
luce, con un ghigno sulle forme scarnificate e due orbite vuote che sembravano fissare proprio
loro. I ragazzi si sentirono mozzare il respiro, poi mentre Jamie scoppiava in un pianto terrorizzato
Craig riuscì a fare marcia indietro e a filare verso il mare aperto.
— Ora che facciamo? — chiese Jamie, quando ritrovò la parola. — Dobbiamo dirlo a qualcuno.
Anche se pallido e scosso, Craig era più composto. — Se lo diciamo in giro non ci fanno più uscire
in barca. Vedrai che sarà solo un vecchio contrabbandiere, roba di cent’anni fa… niente che ci
riguarda.
— Come, non diciamo niente? —. Jamie era combattuto. Sembrava il tipo di cosa di cui si doveva
parlare, ma suo padre l’avrebbe fatto a pezzi se avesse saputo dov’era stato. E poi che roba
schifosa, se non l’avessero detto a nessuno forse sarebbe riuscito a dimenticarla.
Mentre tornavano a Innellan nessuno dei due aprì bocca.
Cosa ricordo con chiarezza di quella notte? Sicuramente, i raggi della luna sul viso. Una delle tende
che venivano sempre chiuse al momento di andare a letto era stata tirata bruscamente di lato e
quando ho aperto gli occhi, nel torpore del sonno, ho visto una grande luna piena bianca sullo
sfondo di un cielo nero e la sagoma di un uomo nel buio.
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Si era chinato sull’altro letto e l’aveva presa in braccio, mia sorella. Le aveva messo una mano sulla
bocca e io vedevo gli occhi di lei sbarrati, pieni di paura. Mi pare che lui avesse una calza sul viso. O
forse una maschera? È ancora tutto così poco chiaro, così confuso, come un sogno.
So che si era accorto che lo stavo guardando. So che mi ha detto rabbiosamente sottovoce: — Sta’
zitto. Non dire niente o tocca a te domani notte, o quella dopo o quella dopo ancora… —. Le sue
parole mi sono rimaste incise a fuoco nel cervello.
L’ha portata fuori della stanza, mentre lei piangeva e cercava di divincolarsi. Mia sorella. La mia
gemella. E poi ha chiuso piano la porta.
Io non ho… la mia mano… non posso
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