Michele Vargiu
PrecariEtà
Quattro stagioni di vita precaria
Anna. Racconto d’autunno.
Tutte le mattine io metto giù i miei piedi dal letto, e so già che si poggeranno su un
filo. Non è facile, camminare sul filo; i movimenti devono essere lenti, meditati e mai
precipitosi; tutto deve avvenire con la massima leggerezza ed economia di
movimento, altrimenti il filo si eclisserà rapido da sotto i miei piedi, l’equilibrio mi
abbandonerà e io farò la conoscenza del vuoto; e non ci sarà nulla, a riportarmi lassù,
con i piedi sul filo.
Io cammino sul filo ogni giorno. Cammino sul filo quando sono per strada, quando
giro per casa, quando mangio, quando studio, quando lavoro. Perfino quando faccio
l’amore, io cammino sul filo. In questo momento ad esempio io sto camminando sul
filo per andare dalla mia camera da letto fino alla cucina; è quasi ora di colazione, se
non mi sbrigo rischierò di arrivare tardi. Neanche faccio in tempo a muovere i primi
passi che subito il mio frigorifero mi si para davanti, mi guarda e mi parla. Pochi
possono vantare di avere un frigo che parla; figuriamoci un frigo che ti parla quando
sei in equilibrio su un filo.
Il mio frigorifero mi parla mostrandomi la sua facciata ricoperta di post-it a loro volta
ricoperti di appunti, orari, scadenze, liste della spesa; sbattendomi in faccia la sua
fauna di coccinelle, elefantini, farfalle e altri animali magnetici che reggono bollette,
avvisi, preventivi di spesa, lettere dell’amministratore di condominio. Il condominio
dei funamboli, dove per i suoi corridoi, sulle scale, nei suoi cortili e nell’ascensore, si
cammina tutti sul filo.
Quando l’orologio segna le otto io sono già pronta; scendo per le scale e prendo la
bici per andare in facoltà, come tutte le mattine; l’autunno ha il cielo grigio e l’aria
umida e fredda, gli alberi scheletrici e le strade ricoperte di foglie, messe
diligentemente a coprire l’asfalto di un unico colore; giallo, giallo, giallo, giallo,
giallo.
La strada la so a memoria; la faccio tutte le mattine da anni; corro veloce nonostante il
freddo che mi graffia il viso, nonostante i semafori ancora lampeggianti e le macchine
che se ne fottono dei ciclisti.
Arrivo in facoltà e percorro gli stessi corridoi, le stesse scale, attraverso gli stessi
androni. Arrivo dai miei colleghi e lui è già li.
Ed è bellissimo. Nicola è sempre bellissimo.
Oggi ha messo la camicia rossa. Quella che gli cade larga sui fianchi e lo ingrassa. Ma
non importa. Nicola è bellissimo. Nicola è sempre bellissimo.
Nicola studia da anni le proprietà delle cellule staminali. Lo fa in un laboratorio non a
norma di legge, utilizzando un computer dai riflessi arrugginiti e dal cervello
elettronico malato. Si porta il camice, i guanti e la mascherina da casa.
Accanto a lui invece c’è Silvia, che fa le stesse cose che facciamo Nicola ed io.
E poi ci sono io.
Io mi chiamo Anna. E sono una ricercatrice precaria.
Sono una di quei tanti cervelli che hanno rinunciato alla fuga. Una degli oltre
duecentomila ricercatori precari di questo Paese che lavorano senza mezzi, senza
sicurezza, senza un soldo; sono una di quelle che il cervello non potrebbero mandarlo
in fuga nemmeno nascondendolo dentro un treno merci clandestino, nemmeno su uno
di quei barconi della speranza che attraversano il mediterraneo.
Io resto qui, insieme a tanti altri, a raggranellare i cocci della ricerca, a lottare con i
computer senza memoria, ad attraversare i laboratori in punta di piedi nella speranza
di non farmi male, muovendomi piano. Come se camminassi sul filo.
Noi stiamo qui. I nostri cervelli non fuggono. I nostri corpi restano in bilico, come
foglie ingiallite attaccate al loro ramo. In equilibrio precario, con la sensazione di
crollare senza avere mai la certezza del quando.
Poi una mattina d’autunno mi svegliai come al solito, e come al solito poggiai i miei
piedi sul filo; come al solito il mio frigorifero aveva qualcosa da dirmi, come al solito
le strade erano dipinte di giallo, come al solito la mia facoltà non si era mossa da li.
Solo che in quella mattina d’autunno dal tetto dell’edificio spuntava un grande
striscione: “università occupata, contro I tagli alla ricerca”.
Percorro i corridoi, bianchi come il cielo che sta fuori; era autunno ma a me pareva di
sentire caldo; e nonostante, come già sapete, io cammini sul filo, andavo cosi’ veloce
da rischiare di perdere l’equilibrio; I laboratori erano vuoti, cosi’ come tutto il resto
delle aule; percorrevo le scale senza nemmeno vederle, fino ad arrivare sul tetto,
l’unico posto della mia università in cui non ero mai stata.
Nicola era li. E insieme a lui Silvia. E Antonio, Andrea, Marta, e tutto il gruppo di
ricercatori che lavorano con me. Avevano attrezzato il tetto come fosse un piccolo
campo base, formato da tende da campeggio portate da casa, sacchi a pelo, piccole
stufette a gas, un fornellino per il caffè.
C’erano stati gli ennesimi tagli del ministero dell’istruzione alla scuola e alla ricerca;
una mossa come un’ altra per giustificare la situazione di crisi economica di un paese
che pretende di andare avanti distruggendo la ricerca, tenendo i suoi cervelli alla fame
e spronandoli a fare sempre di più con mezzi assenti.
Col tempo avevamo imparato a conoscerli tutti, i signori del Governo; li avevamo
etichettati come i personaggi di una favola oscura: la ministra dell’ignoranza Maria
Strega, il Ministro della Pubblica Amministrazione ReNano Brunetta, fino ad arrivare
a sua bassezza, il premier del paese dell’intelligenza stuprata e dei cervelli in fuga .
Per la prima volta, su quel tetto, ci sentivamo tutti parte di una famiglia unita dalla
disgrazia dell’instabilità; precari, insicuri, senza futuro. Come morti che camminano.
Come piccole foglie ingiallite attaccate ad un ramo per un tempo limitato ma che
nessuno conosce. Ci sentivamo deboli ma forti, intelligenti, meritevoli, compatti. La
nostra permanenza sul tetto andò avanti per giorni;
dopo qualche tempo vennero a trovarci anche gli eroi della favola oscura; politici
dell’opposizione, uomini di cultura, altri precari come noi, studenti, tecnici, docenti.
Qualcuno invece si ostinava a dire che fossimo la parte peggiore del paese, di quel
paese che sa solo lamentarsi senza rimboccarsi le maniche. Noi da lassù li vedevamo
tutti, i nostri oppositori; e ci sembravano piccoli, insignificanti come formiche che si
muovono mosse dalla legge del caos.
Sapevamo di essere i custodi del progresso del paese. Sapevamo benissimo che senza
ricerca, conoscenza, cultura, un paese non risparmia, ma diventa spaventosamente più
povero. Sapevamo di avere ragione. Lo sappiamo ancora.
Le nostre idee non sono morte. I nostri cervelli non fuggono. Restano qui, ad aspettare
il freddo dell’inverno, i primi profumi della primavera, I venti secchi dell’estate.
Restiamo qui senza muoverci, come foglie ingiallite che prima di staccarsi dal proprio
ramo vorrebbero vedere nascere nuovi germogli.
Io mi guardo intorno, e vedo tutti I colori del mondo su di un tetto in catrame, sbattere
sul bianco lattiginoso del cielo. Vedo Nicola che è sempre bellissimo.
E sogno un giorno di potergli dare la mano. Sogno un giorno che ci si possa togliere il
filo da sotto i piedi senza cadere.
E che si possa andare.
Non importa dove, ma andare.
Insieme.
E senza muoverci da qui.
Salvatore. Racconto d’inverno.
Mi chiamo Salvatore.
Da bambino mi dicevano sempre che vengo dal paese dei Santi, dei Poeti e dei
Navigatori.
Anche se in realtà i santi mi stanno bene solo inchiodati al muro, ognuno
corrispondente ad un diverso giorno dell’anno, ognuno osservatore silenzioso del
tempo che passa, dell’alternarsi delle fasi lunari, dei cambi di stagione.
Le poesie mi annoiano.
Pure alle elementari ti insegnano che una frase, per essere corretta, deve avere un
soggetto, un verbo e un complemento. Altrimenti te la segnano in blu, e come minimo
è un punto in meno sul voto finale.
Navigare non mi è mai venuto facile. Credo che la colpa sia da attribuire al fatto che il
mare l’ho sempre visto in cartolina e mai da troppo vicino.
In compenso da qualche tempo navigo sulla rete, specialmente di notte. Vado a
navigare sui siti zozzi. Quelli pieni di donne che fanno acrobazie zozze con uomini,
altre donne, animali, piante e organismi geneticamente modificati, è cosi’ che li
chiamano. Quelli pieni di finestrelle che si aprono, e dentro ogni finestrella c’è una
donna seminuda che ammicca, ti guarda intensamente negli occhi e ti fa cenno di
raggiungerla. Ti dice anche frasi provocanti in una lingua che non capisci, ma che
interpreti come le frasi più zozze e bollenti che una donna ti abbia mai rivolto. Nei siti
zozzi vedo un sacco di cose che nemmeno in sogno mi sarei potuto immaginare; cose
degne della fantasia del primo Spielberg, ingarbugliamenti e incastonamenti umani
inimmaginabili che formano un immenso patchwork fatto di carne; spuntano
convulsamente braccia, gambe, labbra, clitoridi e prepuzi di varie forme, etnie e
religioni.
Un po’ mi vergogno a guardare tutto questo, a violare la privacy di quelle persone
appiccicate tra di loro che un privato, da qualche parte, dovranno pur avercelo; ma per
me è come vedere un documentario. Mi sento come uno di quegli studiosi rinchiusi
nei laboratori di ricerca, che per anni spiano degli animali ignari da dietro un vetro.
Mi sento come se partecipassi ad una lunga conferenza, dove i relatori sono nudi e
disinvoltamente appiccicati fra di loro, e tengono i loro discorsi dimenandosi e
gemendo. Questo almeno è quello che mi viene in mente di notte.
Durante il giorno mi piace andare nei posti affollati; nei centri commerciali, nei
supermercati, nei grandi outlet dell’abbigliamento o nei capannoni dei cinesi in fondo
alla periferia, pieni di persone entusiaste che comprano il nulla a prezzi imbattibili.
Ma la cosa che mi piace fare più di tutte è stare davanti alle casse del supermercato, a
guardare la merce degli altri scorrere sul tapis-roulant per poi essere scansionata,
imbustata, scontrinata.
-Ha la tessera? Vuole un sacchetto? Non si scordi i bollini.
Si capiscono tante cose, guardando i prodotti che compra la gente. Ad esempio il
signore che ho di fronte in questo momento ha comprato un’insalata già lavata,
tagliata ed imbustata, delle fette di prosciutto sottovuoto, del pane già affettato e della
pasta surgelata, quella che con cinque minuti di padella diventa buona come la pasta
surgelata del ristorante.
Io capisco subito che dev’essere un uomo solo, che non ha una famiglia, una moglie a
casa che l’aspetta; è uno di quegli uomini che mangiano l’insalata in busta senza
nemmeno condirla, direttamente dal sacchetto come se si trattasse di un pacchetto di
patatine, magari davanti alla televisione che trasmette qualche amichevole di calcio.
La signora dietro di lui invece ha un carrello pieno di cibo, e cassette incellophanate
d’acqua in bottiglia, assorbenti interni ed esterni, lattine di birra, shampoo e
bagnoschiuma in dosi da caserma, sughi pronti, frutta, verdura e olio biologico in
taniche di latta. Capisco subito che è una madre di famiglia, una che quando tornerà a
casa avrà ad aspettarla un marito e dei figli stronzi che nemmeno le daranno una mano
a scaricare la spesa.
Come cambiano, le persone. Come sono diverse fra loro. Pure quando sono al
supermercato, mi sento un po’ come quando sto dietro al monitor che trasmette i film
zozzi. Mi sento un osservatore della natura, del comportamento umano.
La mia vita però a pensarci bene non è stata un solo osservare. Ho lavorato per tanti
anni io, ma ora, non lavoro più.
Lavoravo in una azienda che produceva motori elettrici. Stavo alla catena di
montaggio; ero l’operaio più veloce, quello più abile con le mani; “la mano del
chirurgo”, mi chiamavano, perché non sbagliavo mai ad assemblare un pezzo,
nemmeno quando il caporeparto aumentava il ritmo di produzione, facendoci scorrere
i pezzi sotto gli occhi a velocità sempre maggiore.
All’interno della fabbrica mi ero circondato di amici ma anche di invidie, malelingue,
frasi dette sottovoce, quando magari sei girato di spalle, ma in fondo che me ne
importava. Io il mio lavoro lo facevo bene. Per trent’anni, l’ho fatto bene.
Poi è successa la disgrazia. E quando in fabbrica ti capita una disgrazia, quando cioè
la macchina, la pressa, il rullo, la sega circolare decidono di farti un dispetto, il tuo
cammino all’interno della fabbrica si arresta di colpo. Diventi all’improvviso come
uno zoppo in mezzo ad un branco di centometristi. Non riesci più a stare al passo. E la
fabbrica, da brava mamma selettiva coi suoi cuccioli, ti butta via. Lascia sopravvivere
gli altri. La mia disgrazia è stata quella di farmi schiacciare quattro dita della mano
destra, la mia “mano da chirurgo”, sotto il peso di una pressa. Forse è stato per il
sonno, forse per la distrazione. Quattro dita adesso non le ho più, e non avevo nessuna
assicurazione che pagasse i danni. Perché io, nella fabbrica, avevo sempre lavorato in
nero. Per trent’anni. E quando c’è stato da chiedere i danni, quando sarebbe dovuto
arrivare il momento di sollevare un polverone, io non ho fatto niente. Che il dottor
Angelucci, il padrone della fabbrica, è un sant’uomo. E’ uno che pur di farmi lavorare
ha rischiato di perdere la faccia ,per trent’anni. Che battaglie avrei potuto fare,
arrivato a cinquant’anni; per me questo è l’inverno. Se non è la fine, poco ci manca.
La cosa brutta del ritrovarsi a cinquant’anni con il peso della disgrazia sulle spalle e
quattro dita in meno di una mano che fino al giorno prima funzionava bene, è la
consapevolezza di non servire più. Di non poter più sentirsi utili. Della mia “mano da
chirurgo” era rimasto solo un pollice. Bello, il pollice. Il dito più forte. Quello piu’
tozzo e più resistente.
Il dottor Angelucci, una volta che mi allontano’ dalla fabbrica, mi diede una piccola
liquidazione, un malloppetto stropicciato di soldi estratti direttamente dalla tasca sua.
E quando quei soldi finirono cominciai a cercare un nuovo lavoro, un’occupazione
anche piccola che potesse fare a meno della mia mano disgraziata. Un posto da
operaio potevo scordarmelo; tutti i lavori che trovavo erano posti da venditore
telefonico, con un contratto che nemmeno capivo; era una specie di lavoro a cottimo,
dove piu’ telefoni e piu’ centesimi guadagni, e vai avanti cosi’, per otto, anche dodici
ore al giorno, di centesimo in centesimo, davanti a uno schermo senza piu’ film zozzi,
ma pieno di numeri dei “gentili clienti”, suddivisi in caste in base a quanti soldi
l’azienda prevedeva di potergli spillare dal portafogli.
Avro’ fatto trenta colloqui. E in tutti la risposta era la stessa: troppo vecchio, anche
solo per parlare al telefono. Ci vogliono voci giovani, brillanti, che invoglino la gente
a fidarsi. “Mi dispiace signore, ma è la politica dell’azienda”.
Largo ai giovani. Largo ai giovani precari, magari laureati, confinati nello spazio fra
uno schermo e un auricolare. Largo ai giovani. E per coloro che non sono più giovani
restino solo briciole, guai e merda, un’intera vita di merda aspettando che arrivi
l’inverno, quello definitivo.
Ogni tanto faccio qualche piccolo lavoretto. Piccole riparazioni per le signore del mio
palazzo, fatte con la mano sinistra e quel che resta di quella destra. A volte ci
guadagno un buon pranzo, di quelli fatti ancora come Cristo comanda, senza pasta
surgelata e insalata in sacchetto. Altre volte qualcuna mi paga con soldi veri. Io
saluto, vado verso la porta, e prima di richiudere ringrazio e saluto ancora. E vado
verso il supermercato.
-Ha la tessera? Vuole un sacchetto? Non si scordi i bollini.
Fuori comincia a nevicare. E’ finalmente arrivato l’inverno. Io passo i miei prodotti
sul nastro scorrevole della cassa. C’è un signore di fronte a me che guarda la mia
spesa, conta con gli occhi le cose che ho comprato e sta in silenzio. Chissà che idea si
sarà fatto di me. Per un attimo ho la sensazione di sentirmi meno solo. Metto la mia
spesa dentro il sacchetto ed esco dal supermercato, sotto questa prima neve d’inverno.
Lancio al signore un’ultima occhiata che però cade nel vuoto; i suoi occhi stanno già
studiando la spesa del signore che era dietro di me. “E’ giusto cosi’”, penso. E torno
verso casa incrociando uomini, donne, e ragazzi di belle speranze. Tutti che si
muovono in fila ed in silenzio. Ognuno con gli occhi bassi. Ognuno custode della
propria disgrazia.
Marco. Racconto di primavera.
Ci sono due mosche che ronzano davanti al monitor del computer.
Io le guardo rincorrersi, avvicinarsi e allontanarsi di colpo; e fra me e me penso che se
solo per un istante si potesse evidenziare la loro traiettoria nell’aria con un
qualsivoglia colore, sarebbero uno spettacolo piu’ divertente delle frecce tricolori.
Volano in cerchio, poi in ordine sparso, poi si fermano nuovamente sulla superficie
dello schermo, una di fronte all’altra, esattamente come due pugili che si studiano
durante un incontro.
Certo che se potessi essere io una mosca, se potessi avere il dono di poter volare via
quando mi pare e piace, mi cercherei un posto migliore dove stare.
Ma d’altronde, penso, in fondo le mosche sono mosche.
E chi le ha mai capite, le mosche.
In un certo senso, a quelle due mosche sventurate sono riconoscente; con tutti i
monitor che ci sono qui dentro, hanno scelto proprio il mio per esibirsi nelle loro
acrobazie; e mi ritrovo li a guardarle, e nel mentre che le guardo non penso a
nient’altro che a loro; cerco di farmi piccolo piccolo per poterle capire meglio, per
sentirmi anch’io un pochino più mosca, per capire quanta fatica si faccia nel volare
cosi’ in fretta, e quanta determinazione ci voglia, per faticare cosi’ tanto e potersi
rifocillare solo mangiando cadaveri e merda.
Ma proprio nel mentre che sono completamente calato nel ruolo della mosca, il
monitor cambia improvvisamente colore; io perdo le mie ali immaginarie da mosca,
cado sbattendo il culo per terra, e torno al mio lavoro.
“Servizio clienti, sono Marco, mi dica”.
Questo è il mio lavoro. Che poi io non mi chiamo neanche Marco. Ma dopo un po’
ho capito che il nome Marco ai clienti piace, dà sicurezza e tutti se lo ricordano in
fretta; se per esempio durante una telefonata cade la linea, il cliente può sempre
richiamare e chiedere di Marco. Tutti i miei colleghi sanno che io qui dentro sono
Marco. Mentre il vero Marco, che lavora a pochi metri da me, si fa chiamare
Antonio. Abbiamo il nome d’arte. E tutti conosciamo il nome d’arte di tutti.
Io con i clienti sono gentile. Mi piace parlare con la gente. “Pronto, servizio clienti,
sono Marco, mi dica”. E tu, cliente, puoi dirmi tutto. Tant’è che la gente mi chiama
per dirmi proprio di tutto. Mi chiamano gli studenti che fanno sega a scuola, le
casalinghe frustrate, i mariti insoddisfatti in cerca di consigli. A volte gli amanti delle
donne bollenti che pero’ le donne bollenti, nella vita reale, non se le possono
permettere. Ogni tanto chiamano anche i clienti che hanno dei problemi tecnici. Non
che io li sappia risolvere, i problemi tecnici. Io di telefonia non ci capisco niente. Ma
d’altronde, non si può pretendere che una telefonata ti salvi la vita.
Per ogni cliente che chiama il mio guadagno si aggira fra i 20 e i 50 centesimi, con
punte massime di 80 centesimi, se la chiamata supera i 2 minuti. Ma se la chiamata
dovesse durare, ad esempio, dieci, venti, trenta, cento minuti, il mio guadagno sarebbe
sempre di 80 centesimi. Lordi.
I nostri clienti sono tutti schedati e catalogati. Quando un cliente mi chiama, sul
monitor del computer io vedo già se è un tipo “gold”, “silver” o “copper”. Un cliente
“gold” è un cliente d’oro, che fa guadagnare soldi all’azienda, da trattare in guanti
bianchi; un cliente silver è un cliente d’argento; un po’ meno nobile del precedente,
ma ugualmente degno di rispetto. Mentre il “copper” è un cliente di rame. Il peggior
cliente che si possa trovare; è il cliente micragnoso, che non spende mai una lira e che
chiama per ogni fesseria. Per ogni tipologia di cliente c’è un trattamento diverso; guai
a chi concede troppo tempo ai clienti copper, o a chi cazzeggia troppo sulla
postazione; ci pensano gli AST a ristabilire l’ordine. Gli AST sono gli Assistenti di
Sala. Gente che sta un gradino sopra noi altri. Generalmente si tratta di ex telefonisti
come me, che leccando i culi giusti sono riusciti a guadagnarsi una posizione che gli
consente di girare in abito, scarpe lucide e cravatta ogni giorno di un colore diverso.
Gli AST fanno unicamente gli interessi dell’azienda, spronando il personale a
lavorare di più in ogni situazione. Io, quando passano gli AST, faccio sempre di si con
la testa, mentre mentalmente li mando affanculo.
Dopo otto ore stacco il turno e torno a casa dai miei. A tren’anni vorrei potermene
andare a stare per conto mio, magari con Irma, la mia fidanzata. Ma come si fa a farsi
una vita con quattrocentocinquanta euro al mese, quando una casa in affitto non ne
costa meno di seicento.
Ogni volta che apro la porta di casa e mio padre incappa nei miei occhi spenti mi
guarda e cerca di farmi coraggio, ripetendomi sempre la stessa frase. Dice che io sono
uno fortunato; fortunato ad avere i miei cinquecento euro al mese, che lui quando era
giovane era talmente povero da non avere nemmeno gli occhi per piangere.
Io gli occhi per piangere li avrei. Ma a me, da piangere, non viene mai.
Dopo otto o dodici ore di “pronto sono Marco mi dica” e di luce del monitor sugli
occhi, non ho più voglia di fare niente. A casa evito persino di rispondere al telefono.
Anche perché risponderei dicendo “servizio clienti, sono Marco, mi dica”. Ormai il
corpo va in automatico.
Mangio qualcosa davanti al telegiornale. Mio padre commenta ogni notizia ad alta
voce, si gira verso di me in attesa di un segnale, di un gesto, un rantolo di
approvazione o disaccordo. Ma io non dico mai niente. Sto con gli occhi bassi e do
per l’ennesima volta a mio padre l’opportunità di formulare le sue teorie sui suoi
tempi, sulla mia fortuna, e sui miei occhi per piangere.
Vado nella mia stanza e mi sdraio sul letto. Guardo la mia laurea in lettere,
incorniciata e appesa sul muro di fronte, complemento d’arredo utile come i souvenir
dei viaggi, le foto di famiglia, le chincaglierie dei cinesi in plastica che sembra
ceramica. Tutti oggetti che occupano uno spazio, che arredano, e dei quali non ci
accorgiamo più.
Mi addormento.
In questi giorni faccio spesso sogni ribelli, incazzati e strani. Sarà colpa della
primavera in arrivo, penso. In questi sogni mi capita di sognare il mio call center in
cui gli AST girano per chiederti come stai, offrirti un caffè, una sigaretta, o invitarti a
una partita di calcetto; altre volte sogno il direttore in persona che mi porge un
contratto a tempo indeterminato, che mi stacca quell’auricolare dalle orecchie e
comincia a farmi esprimere liberamente, senza dovermi presentare dicendo “sono
Marco, mi dica”.
Altre volte invece sogno delle rivolte sindacali, in cui con tutti i miei colleghi ci
alziamo e smettiamo di lavorare, usciamo nel cortile dell’azienda, strozziamo gli AST
con le loro cravatte e urliamo “Vaffanculo” al direttore, prendiamo possesso
dell’edificio e rileviamo l’azienda con un golpe autorganizzato. E poi sogno un lavoro
giusto per tutti noi che ammuffiamo li dentro come topi da laboratorio, sogno di
potermi presentare a casa di Irma con il mazzo di rose più grande che lei abbia mai
pensato di ricevere, sogno di baciarla sulla porta di casa e di urlare a tutti che voglio
passare la mia vita con lei; sogno di potermi dimenticare gli occhi per piangere e di
avere solo occhi per ridere. Sogno un futuro migliore.
E so, una volta sveglio, che dovrò lottare per averlo.
Nel frattempo, contate pure su di me.
In fin dei conti, noi ci conosciamo già.
Sono Marco.
Servizio clienti.
Pronto.
Mi dica.
Carla. Racconto d’estate.
La telecamera inquadra il volto teso della concorrente; i suoi occhi lucidi, le mani
sudate che non riescono a stare ferme, la bocca che non riesce a chiudersi.
Il conduttore suda vistosamente, tiene gli occhi sgranati e le mani giunte; cerca di
rassicurare la concorrente parlandole della vita, del prezzo delle scelte, del coraggio
delle responsabilità. Le parla come un amico, mentre un grande orologio alle sue
spalle segna gli ultimi istanti di una agonia che sembrava potesse non finire mai.
La concorrente decide. Il tempo scade. Ha scelto di cambiare il pacco.
Vittoria.
La concorrente piange. Abbraccia il conduttore, che piange pure lui. Tutti
applaudono, e se potessero tutti abbraccerebbero tutti.
Fine.
Pubblicità.
“Anche questa sera hanno guardato il solito programma scemo”, penso io.
Anche questa sera l’hanno commentato ad alta voce, anche questa sera si sono fatti
travolgere dall’entusiasmo e anche questa sera pure loro avrebbero abbracciato la
concorrente, augurandole ogni bene per la sua partenza verso il nuovo, luccicante
mondo dei ricchi, proprio come si faceva tempo fa per chi invece partiva povero verso
il Nuovo Mondo dei poveri.
Credo che i miei genitori, anche se tanto giovani, si annoino; e d’altronde non è facile
riempire il tempo, quando intorno a te non accade mai niente.
Non che qui da me le cose cambino molto; però, ogni tanto, io mi concedo il gusto
della novità; oggi ad esempio ho scoperto di avere delle mani, e di poterle muovere
come voglio.
Credo che questa sia una scoperta degna di nota, no?
Voglio dire, credo che con le mani si possano fare un sacco di cose; talmente tante
che per riassumerle non basterebbe nemmeno un enorme libretto di istruzioni!
Avrei voluto rendere partecipi tutti di questa scoperta sensazionale; ma qui non c’è
mai anima viva.
- C’è nessuno? – Mi chiedo ogni tanto.
Ma ogni volta, mai nessuna riposta; qui è tutto liquido, tiepido e ovattato.
Qui ci sono sempre e solo io. E insieme a me c’è mia sorella. Ma mia sorella dorme
sempre. Non fa testo.
Secondo il dottore che fruga dentro la mamma, io e mia sorella dovremmo nascere il
ventisette di agosto. Ma in realtà io e mia sorella sappiamo benissimo che nasceremo
il quattro settembre. Il quattro settembre del duemilaundici.
Io poi so anche che mi chiamerò Carla. E mia sorella sa benissimo che si chiamerà
Barbara. Io e mia sorella siamo già entrate nell’ordine di idee che non appena verremo
alla luce ci saranno un sacco di persone intorno a noi che non vedranno l’ora di
prenderci in braccio, farci delle facce spaventose e cantarci una sfilza raccapricciante
di filastrocche e canzoncine sceme. Fa tutto parte di un rischio calcolato; d’altronde,
siamo noi che abbiamo scelto di nascere; sapevamo a cosa saremmo andate incontro.
Una anticipazione spesso ce la da nostro padre, quando alla sera, al termine del
programma scemo, si inginocchia davanti al pancione della mamma, lo accarezza, gli
parla e e lo sfiora con l’orecchio, come se volesse origliare. Noi ce lo siamo già
immaginato, il nostro grande papà. Con un po’ di pancetta, la camicia azzurra e una
cravatta buffa, diversa ogni settimana; i capelli in ordine, un po’ di barba, e mani
grandi e forti. La mamma invece ce la immaginiamo bellissima, con lunghi capelli, la
pelle candida e lineamenti dolci come dune di sabbia.
La nostra mamma lavorava in una ditta privata di spedizioni fin dai tempi in cui noi
eravamo grandi quanto una ciliegia. Poi io e Barbara abbiamo incominciato a
crescere, e con noi pure la pancia della mamma cresceva. E più questa cresceva, più il
lavoro della mamma diminuiva. Fino a quando la mamma al lavoro non ci andò più.
Restò a casa in maternità, ma con un diritto di maternità che non andava al di là della
rotondità morbida della sua pancia; semplicemente la mandarono a casa, senza
motivazioni, senza garanzie, senza niente. Da allora la nostra mamma lavora al suo
romanzo: una sorta di storia complicata dove c’entrano gli antichi romani e tutti gli
imperi che hanno conquistato negli anni. La mamma è sempre stata forte in storia.
Non ha studiato che questo per tutta la vita.
Papà invece è un insegnante; ma non un insegnante qualsiasi. Il nostro papà è un
insegnante speciale. Il nostro papà aiuta a studiare tutti quei bambini che per loro
sfortuna hanno un cervello che cammina fra le nuvole, più lento e distratto degli altri.
Guai a chiamare “diversi” quei bambini di fronte a papà. Una volta, a pranzo, la
nonna li chiamò in quel modo e lui si arrabbiò moltissimo. La puni’ offrendole doppia
razione del suo budino al cioccolato. “Suo” in quanto comprato da lui nel discount
sotto casa, aperto e servito come fosse una sua, geniale, creazione.
Mamma e papà ogni tanto discutono, e parlano dell’affitto, delle bollette da pagare,
delle spese che dovranno affrontare quando noi verremo al mondo; quando ci sono
queste discussioni pure Barbara, che dorme in continuazione, si sveglia. Gira la testa
lentamente, mi guarda, e con gli occhi mi sussurra : “Che c’è?”
La mia sorellina ha due occhi grandi e bellissimi. E mi sento orgogliosa di poter
essere ancora la sola a poterli vedere. Io la guardo e le sorrido, come per volerle dire
di non preoccuparsi, che non c’è niente di cui aver paura. Lei sorride a sua volta, si
raggomitola su se stessa, e torna a dormire.
Mamma e papà invece continuano; continuano a parlare, a discutere, a preoccuparsi.
Papà allenta il nodo della sua cravatta buffa. La mamma lo ascolta cercando di
pensare ad altro: agli abitini del nostro corredo, ai commenti delle sue amiche, ai
sistemi per riacquistare la linea dopo il parto, alle espressioni del conduttore del
programma scemo; papà le dice che stanno eliminando tutti gli eroi dei bambini coi
cervelli fra le nuvole, tutti gli insegnanti di sostegno come lui; dice che vogliono
radunarli in una specie di ghetto per tenerli lontani dalla vita dei bambini normali.
Dice anche che rischierà di perdere il lavoro. Anche lui, proprio come la mamma.
Dice anche che la situazione non è buona.
Poi, smette improvvisamente di parlare.
La mamma lo guarda.
Lui guarda la mamma.
E nel silenzio si prendono per mano, si baciano e si stringono cosi forte da stringere
anche noi.
Sussurrano insieme.
“Ce la faremo”, dice la mamma.
“Ce la faremo”, risponde papà.
E si baciano ancora.
Io rimango ad ascoltarli e sorrido perché so che nascerò fra due persone che si amano,
nonostante le ingiustizie, le difficoltà, nonostante l’imbecillità, nonostante tutto.
Guardo mia sorella dormire felice e mi chiedo a quanti minuti di distanza nasceremo
l’una dall’altra; mi chiedo chi sarà la prima, mi chiedo quanta strada potremmo fare
insieme, mi chiedo se davvero valga la pena venire al mondo.
E continuo a rispondermi comunque di si, nonostante tutto.
Poi penso che ogni cosa sia destinata a cambiare, a muoversi, ad animarsi di vita
nuova, proprio come la mia mano che mi è apparsa solo questa mattina; e penso anche
che con il tempo il mondo diventerà anche nostro, e più il tempo continuerà a passare
e più potremo continuare ad appropriarcene. Penso ad un futuro che appartenga a noi
e non alle regole che vorrete imporci. Penso che rispetto a tutto ciò che di marcio ci
lascerete, noi saremo sempre infinitamente più libere e veloci.
Talmente veloci, da non permettervi di prenderci mai.
©Michele Vargiu 2011 – www.michelevargiu.com
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PrecariEtà - Michele Vargiu