Presentiamo qui, per la prima volta in italiano, le discusse
lettere e gli scritti di Louis-Ferdinand Céline alla stampa collaborazionista francese. Queste
lettere, assieme ai cosiddetti pamphlet, hanno consegnato definitivamente Céline al destino
di “Grande reprobo”, sentenza capitale emessa dal Comitato di Grande Purificazione
progressista[1]… e rendendolo un feticcio per altri, che riducevano la biobibliografia di Céline
ai soli pamphlet, facendone un alfiere del Volk, del Reich e del Führer… ignorando le palle
incatenate sparate dal nostro contro praticamente tutti i politici di Vichy, i nazisti e Hitler![2]
Nonostante alcuni studi recenti abbiano cercato di dipingere Céline come in realtà lontano
dagli ambienti collaborazionisti[3], oppure addirittura come “un comunista”[4], la lettura
delle lettere qui integralmente pubblicate, e le recenti, ulteriori inedite testimonianze relative
all’attrazione di Céline verso i partiti nazionalisti europei e d’oltremare[5] illustrano
chiaramente la visione politica di Céline.
Che poi questa visione non fosse quella dell’ortodossia nazionalsocialista, e attraversata invece
com’era da un fiero patriottismo “retrò” e da un socialismo ingenuo[6], e che il comportamento di
Céline all’interno del pur variegato mondo della Collaborazione francese fosse più orientato
all’anarchia polemica che all’Ordine e Disciplina, non è un fatto che possa stupire chi conosca
seppur in maniera cursoria la vita del Nostro. È interessante a tal riguardo notare come Céline fu
nella quotidianità ben lontano dai tetri propositi dei pamphlet, punto efficacemente sollevato da Karl
Epting[7] in un suo ricordo di Céline:
Già durante la mia prima visita a rue Lepic, poco dopo la pubblicazione di Bagatelles, mi
avevano sorpreso il potere soprasensibile e quasi medianico del suo sguardo sugli uomini e
sulle cose, e contemporaneamente il contrasto profondo tra la sua presa di posizione verso le
collettività impersonali, per esempio, americane, inglesi, russe, ebraiche e massoniche, nella
quale poteva essere di una crudeltà che, nei suoi discorsi, arrivava sino al parossismo, e il
suo comportamento verso l’individuo concreto, uomo o animale che fosse, nel quale non ha
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mai cessato di restare il medico e il protettore. La vita e l’opera di Céline non acquistano
significato che attraverso la sua professione di medico, ed è solo partendo da là che esse
possono essere comprese nel loro doppio significato. Nel suo essere tra queste due
condizioni, nel doppio sguardo che ha gettato verso un lontano dai contorni indecisi e in un
cerchio ristretto su di un essere corporeo vicino, hanno messo radice i numerosi malintesi
che hanno reso così dura la vita a Céline e alla sua compagna.
Tornando alla “visione politica” di Céline, e rendendoci pur conto che pensare di riuscire ad
apporre sul pensiero del nostro una comoda etichetta sia fatica di Sisifo, forse un termine che
più si avvicina a delineare la sua sensibilità è “antimoderno”, anzi, “anticontemporaneo”, nel
senso ben delineato da Giancarlo Pontiggia, traduttore tra l’altro del Bagatelles, nel suo
scritto Cinécéline:
Quello che oggi chiamiamo mondo contemporaneo può essere compendiato nelle parole
“democrazia”, “sinistra”, “America”, tre parole così diverse tra loro, e che pure, proprio nel
loro intricarsi, definiscono il carattere del Novecento. E qui Céline, nei romanzi come nei
terribili libelli antisemiti e anticomunisti, urla delle verità che nessuno aveva mai saputo dire
con tanta forza: la tempesta della chiacchiera ha ormai rimbambito il mondo, lo ha reso come
un pugile suonato, come un idiota pronto a ingoiare tutto. I sistemi democratici, le istituzioni
democratiche, sono diventati dei circhi equestri, delle palestre di buffoneria a buon mercato.
Ma questo è Céline, direte: no, questo è il mondo nel quale viviamo, che Céline è stato il
primo, forse l’unico, ad aver denunciato. Senza ombrelli ideologici, senza vanità, senza
protezione, senza speculazione: del resto non c’è niente di più sterile e noioso che leggere
tutti quegli scrittori impegnati che denunciano in nome di un partito, di un’idea[1][1][8].
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Ad ogni modo, discutere a fondo dei motivi che spinsero Céline a scrivere le righe sulfuree
dei pamphlet[1][1][9], o queste lettere, necessiterebbe di uno spazio ben maggiore che
questo libretto[1][1][10]; basti dire che per noi gli scritti sopra citati non spostano di una
virgola non solo il giudizio – un capolavoro – sull’opera letteraria di Céline, ma anche sulla
vita del Dr. Destouches, che ha dimostrato, nel concreto delle sue vite di soldato, scrittore, e
di medico del lavoro prima, e dei miserabili della banlieu poi, di essere infinitamente
superiore, moralmente e letterariamente, alla stragrande maggioranza dei suoi critici.
ANDREA LOMBARDI
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22
Lettera a Lucien Combelle, Dalla parte di Proust, di L.-F. Céline, in “Révolution nationale”,
n. 71, 20 febbraio 1943, p. 3.
Traduzione di Valeria Ferretti.
Mio caro Combelle,
Ecco ritornare Proust. Gran Tema! Fernandez[11] pubblica su di lui un libro. Brasillach, un magnifico
articolo in cui lo consacra, all’incirca, il più grande romanziere “puro” della letteratura francese. Non
ne buttate più! Gli organizzatori dell’Esposizione 36 hanno preceduto Brasillach e Fernandez in questa
opinione. Hanno saputo piazzare Proust sullo stesso piano di Balzac: stessa importanza, stessa gloria,
stesso merito. Benissimo. Ma sono certo che alla prossima Esposizione 36 con gli stessi organizzatori,
Balzac verrà relegato questa volta al decimo piano e Proust, e Bergson, e Marx da soli in primissimo
piano, incontestati, incomparabili. Senza rivali ormai. Abbiamo assistito nel ’36 a un ripetersi di
apoteosi, una preparazione dell’opinione letterata… Il gioco è fatto. Si cavilla molto su Proust. Questo
stile?… Questa costruzione bizzarra? … Da dove? Chi? Che? Cosa?
Oh! È semplicissimo! Talmudico. Il Talmud è all’incirca costruito,
concepito, come i romanzi di Proust, tortuosi, arabescoide, mosaico disordinato. Il genere senza capo
né coda. Da quale parte prenderli? Ma in fondo infinitamente tendenziosi, appassionatamente,
ostinatamente. Lavoro da baco. Questo passa, ritorna, rigira, riparte, non dimentica niente,
all’apparenza incoerente, per noi che non siamo Ebrei, ma di “stile” per gli iniziati! Il baco lascia così
dietro di sé, come Proust, una sorta di tulle, di vernice, iridato, impeccabile, capta, soffoca, riduce
tutto ciò che tocca e sbava – rosa o stronzo. Poesia proustiana. Quanto al fondo dell’opera proustiana:
conforme allo stile, alle origini, al semitismo: designazione, mascheramento delle élite marce
nobiliarie mondane, invertite, ecc., in vista del loro massacro. Epurazioni. Il baco passa sopra, sbava,
le irida. Il carro armato e le mitragliette fanno il resto. Proust ha compiuto il suo compito, talmudico.
Mi pensa ossessionato? Mio Dio, no! Il meno di tutti!
Viva Proust! Viva il Talmud! Se vuole. Non sono indifferente. Lungi dall’idea. Sono prontissimo a
riconoscere il genio talmudico. Centomila prove, ahimé! L’occultamento, l’inganno, da soli, mi
feriscono.
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Notiamo ancora che Proust salva, tenta di salvare, la sua famiglia dai massacri spirituali che reclama
e pratica per noi! Da qui tutta quella tenerezza, quella compassione per la nonna, d’altronde molto
ben accetta, ne convengo, riuscita, e di cui tutti i critici ariani a giusto titolo si stupiscono.
Mi vede un po’ prevenuto.
Se vivesse ancora, da quale parte starebbe Proust?
La lascio pensare.
La caduta di Stalingrado[12] non gli farebbe certo nessuna pena.
E molto cordialmente la saluto.
18
Lettera a Henri Poulain e al “Je suis partout”, 15 giugno 1942[13].
Traduzione di Valeria Ferretti.
Fouesnant il 15 giugno
Mio carissimo Poulain,
mi coglie su due piedi! Ah, capita bene! Capita a fagiolo! Mi chiede un articolo. Prenda questa lettera
e a gratis! Celebrare un anniversario? Quello dei Beaux draps? Perbacco! Sempre proibiti! I governi si
succedono, mandano avanti i loro gran cavalli [14], le loro fanfare, e patatì e patatà… e niente
cambierà intendiamoci. Glielo dico molto educatamente. La storia della Francia va avanti. Piccolissimo
indizio mi dirà: narcisismo d’autore che vede il mondo solo dal suo ombelico. La Francia continua!
Come vorrà! Andrà avanti senza di me! Non se n’avrà a male.
Maurois, Bernanos, adulati, classici a Tolosa[15], Céline nella merda.
Domani Duhamel grande censore. Tutto questo è proprio regolare, può sorprendere solo un coglione.
La Francia odia istintivamente tutto ciò che le impedisce di darsi ai negri. Li desidera, li vuole. Buon
pro le faccia! Che si dia! tramite l’Ebreo e il meticcio, tutta la sua storia in fondo è solo una corsa
verso Haiti. Quale ignobile cammino percorso dai Celti agli Zazou[16]! Da Vercingetorige a Gunga
Diouf[17]. Tutto qua! Tutto sta lì! Il resto non è che farsa e discorsi. La Francia muore dalla voglia di
finire negra, la trovo piuttosto a puntino, marcia, zeppa di meticci. Mi fanno proprio ridere quando mi
dicono 5 o 800.000 ebrei in Francia! La battutona! Solo San Luigi[18], l’eletto, ne fece battezzare
800.000 tutti in una volta nella Narbonense [19] ! Pensi se hanno avuto prole! Altri 50 anni, e
nemmeno un francese che non sia meticcio di qualcosa in “ide”, araboide, armenoide, bicoide,
polaccoide… E chiaramente “francese” 100.000 volte più di lei e di me.
L’arroganza “patriottica”, la faccia tosta, è sempre in proporzione al meticciaggio, alla giuderia
personale. Un altro bel giornale è da creare, molto opportuno, il “giallo e nero” emblema del futuro
francese. Se la guerra civile fosse durata sarebbe del resto già fatto. Avremmo due milioni di morti,
ariani, sostituiti immediatamente (Mandel dixit) da due milioni di asiatici e di negri, il grande
programma ebreo. Tutto il resto è iperbole, discorso iperbolico, chiacchiere per Arthur [20] .
Costituisca in Francia un parlamento secondo le razze (e non secondo i più bavosi) e troverebbe
soltanto un’ala destra “Vercingetorige” insignificante per numero, il residuo delle origini, gli avanzi dei
“Celti”, umiliati da un centro enorme, sbraitante, imperativo recriminante, maggioritario schiacciante,
la palude degli ibridi, gracchianti, per ordine di Blum, e composto da tutti i negroidi del mondo,
armenoidi, assirioti, narbonoidi, ispanioti, alvernoidi, pétanisti, semiti maurrassici, ecc. ecc. tutto
quello che urla di più “francese” e si sente sempre più cafro, e poi un’ala sinistra mora, in piena
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crescita. Ben più simpatici a dire il vero a paragone i tipici “Abd-el-Kader” nubiani, “Gunga Diouf”, gli
ilari, gli eredi celti. Ridurre l’ala destra in schiavitù, farla sparire, ecco qual è l’ideale quasi confessato
di quel parlamento. Nessuna bavosa protesta, mani sul cuore! Grazie! Tutti i meticci, gli allogeni, i
Maurras, sono mossi da un odio sordo, animale, irriducibile per tutti i Celti e i Germani. Il Parlamento
razziale francese nella sua maggioranza schiacciante desidera con tutto se stesso la sconfitta assoluta
della Germania e del suo ideale razzista. Bisogna come proclama Churchill “cancellare l’Hitlerismo
dalla mappa del mondo”. Mi spiego. Il padiglione nazionale francese copre tutte le mercanzie. La
Francia attuale così meticcia non può essere che antiariana, la sua popolazione assomiglia sempre più
a quella degli Stati uniti d’America. Stessi auspici, stessa politica profonda. Attoniti dappertutto riuniti
per ordine ebreo, più qualche rimasuglio nordico e celtico a rimorchio, del resto fusi, in via di
estinzione (suppergiù come i pellirossa). Veda le nostre squadre nazionali sportive, accozzaglie
grottesche, frettolose ammucchiate di non importa chi, pescati non importa dove, dall’Africa alla
Finlandia!
Il colpo di grazia, senza dubbio, ci fu inferto dalla guerra del ’14-’18: due milioni di morti, più di cinque
milioni di feriti e di abbrutiti dai combattimenti e dall’alcol, ossia tutta la popolazione maschile valida,
(in maggioranza ariana ben inteso) sfinita, annientata. E tra questi certamente tutti i nostri quadri
reali, tutti i nostri capi ariani. La faccenda dei capi! La massa non conta. È plastica, anonima, fa
carne, peso di carne, tutto qui. La guerra, la vita lo dimostrano. La massa, la truppa non vale che solo
attraverso i suoi quadri, i suoi capi. La truppa meglio inquadrata vince la guerra. È il segreto, il solo. I
nostri capi, i nostri quadri sono morti durante la guerra super criminale del ’14-’18. Sono stati
immediatamente sostituiti al volo dall’afflusso degli armenoidi, araboidi, italoidi, polaccoidi etc. tutti
estremamente avidi, cullati da sempre nel sogno, nei loro paesi infetti, di venire a recitare qui la parte
dei capi, di asservirci, conquistarci, (senza alcun rischio). Un ottimo affare! I nostri eroi del ’14-’18,
cedettero loro senza esitare i posti ancora caldi. Furono occupati immediatamente. 4 milioni di
pulcinella anti-francesi nell’anima e nel corpo, soltanto francesi di chiacchiera, si è visto bene quanto
valessero i quadri Boncourt, i naturalizzati Mandel durante la guerra ’39-’40!
Le donne si sposano con ciò che trovano! Certo! Nuova fioritura di meticci! Che commedia! Che
lupanare! E così sia!
“Vengono fin tra le nostre braccia! Sgozzare, ecc.” non sono affatto i “feroci soldati” a devastare e
distruggere la Francia quanto piuttosto i rinforzi negroidi del nostro stesso esercito. Per essere precisi,
non sgozzano niente di niente, montano. Ed è l’imprevisto della “Marsigliese”! Rouget non aveva
capito niente, la conquista, quella vera, ci viene dall’oriente e dall’Africa la conquista intima, quella di
cui non si parla mai, quelle dei letti. Un impero di 100 milioni di abitanti di cui 70 milioni di caffellatte,
per volere Ebreo è un impero in via di diventare Haitiano, in modo del tutto naturale. Siamo
completamente abbrutiti? È un dato di fatto, per via dell’alcol e dell’incrocio, e poi per molte altre
ragioni… (veda i Beaux draps, proibiti…)
Anestetizzati, insensibili al pericolo razziale ? Lo siamo, è evidente. 50.000 stelle gialle non
cambieranno niente. La Francia intera per un po’, più dreyfusarda che mai, per simpatia così cristiana,
sfoggia con fierezza il simbolo giudaico. Nuova Legione d’onore, zazou, molto più giustificata
dell’altra. E tutto per Blum e per de Gaulle!
Maturi per essere colonizzati ? Lo siamo! Da non importa chi! Parlare di razzismo ai francesi, è parlare
di sangue puro ai nordafricani, stesse reazioni. Non si fa piacere a nessuno. Vichy si occupa, sembra
del razzismo, a modo suo, come si occupa dei miei libri, ha offerto al Sig. Carrel[21], fachiro, LionNew-Yorchese, 50 milioni di crediti (Bouthiller[22]-Reynaud) per occuparsi della faccenda. Vada un
po’ a chiedere a Claude Bernard quel che pensa del problema ebraico!… Sarà servito. All’incirca quel
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che pensano, immagino, il Sig. Spinasse[23] e il generale Mac Arthur[24]!
“Si figuri raccontano i suoi assistenti che se il Sig. Bergson fosse ancora qui, i tedeschi gli farebbero
indossare la stella gialla!”
Altrettanto attaccabriga!
Allora bella cosa, ci dica lei stesso, un po’, quel che preconizza? Ah! quant’è più delicato… scomodo…
arduo… crudele… che Dio mi guardi dal potere! Dalle pesanti confidenze popolari ! Le ridurrò tutte in
poltiglia ! Taglierei innanzitutto la Francia in due parti. Per la comodità delle cose, la tranquillità dei
partiti. Lo slogan “Una, Indivisibile” mi è sempre sembrato una cosa da “massoni”.
Al punto in cui siamo arrivati nella decadenza, saremo per forza le vittime nell’“Indivisibile” noi gente
del Nord, poiché è il Sud che comanda, cioè l’ebreo. I Romani troppo meticciati si sono dati due
capitali, farò altrettanto. Marsiglia e Parigi. L’una per la Francia meridionale, latina se vogliamo,
bizantina, “sovralgerica”, tutto ai meticci, tutto agli zazou, dove si avrebbe tutto il piacere, tutta la
libertà di ospitare, amare profondamente tutti i più bei ebreoni del mondo, di eleggerli tutti deputati,
commissari del popolo, arcivescovi, druidi, geni, di farsi inculare da loro, all’infinito, aspettando di
diventare tutti negri, questione di trenta o cinquanta anni, per come vanno le cose, di raggiungere
infine lo scopo supremo, l’ideale delle Democrazie. L’altra per la Francia “a nord della Loira” la
Francia lavoratrice e razzista, senza Blum, senza Bader[25], se possibile, nemmeno senza Frot[26], è
da tentare. Credo che sia forse il momento di attuare alcune grandi riforme… La Francia tipo Santo
Domingo non mi interessa davvero. Può farsela chi si presenta, me ne frego alla grande. Mi dispiace
semplicemente di aver lasciato tanta carne (75 per 100)[27] per difendere questa porcheria che non
sogna altro che Lecache. Una così grande guerra, tanta miseria, per andare da Rotchild [sic] a
Worms! Ci vorrà davvero del nuovo per farmi ritornare patriota. Credo che sarà per un’altra volta,
forse per un altro mondo, quello dei morti se ho ben capito, la vera patria dei testardi.
A lei Poulain! Stia ben attento! Ah ! non mi tradisca! la minima parola ! tutte le virgole! e coraggio!
L.F. Céline
P.S. Mi metta da parte 10 numeri!
Louis-Ferdinand Céline, «Céline ci scrive – Le lettere di Louis-Ferdinand Céline alla stampa
collaborazionista francese, 1940-1944»
A cura di Andrea Lombardi
Prefazione di Stenio Solinas
F.to 15×21, pagg. 240, numerose ill. in b/n, brossura, euro 25,Edizioni Il Settimo Sigillo, [email protected], tel. 06.3972.2155
Da “Il Giornale” del 30 giugno 2011: Tra le iniziative editoriali che ricordano i
cinquant’anni dalla morte di Louis-Ferdinand Céline (nato nel 1894 e morto il 1° luglio
1961), la più importante è senza dubbio la pubblicazione delle lettere dello scrittore alla
stampa collaborazionista francese fra il 1940 e il 1944: Louis-Ferdinand Céline, «Céline ci
scrive – Le lettere di Louis-Ferdinand Céline alla stampa collaborazionista francese,
1940-1944» (Edizioni Il Settimo Sigillo, pagg. 240, euro 25; [email protected], tel.
06.3972.2155). Curato da Andrea Lombardi, il libro ha una lunga prefazione – di cui anticipiamo in
questa pagina una parte – di Stenio Solinas, firma storica del «Giornale». Tra i temi toccati da Céline
in queste lettere-articoli «maledetti», tutti tradotti per la prima volta in italiano, alcuni sono più
«urticanti» (il collaborazionismo, Vichy, gli ebrei, il razzismo, come nel lungo articolo-intervista a
Jamet o la lettera dove lo scrittore auspica una divisione etico-etnica nord-sud della Francia), altri
sono invece più letterari (contro Proust, contro Peguy, la lettera a Théophile Briant…). Nel volume
sono anche riprodotte le pagine originali delle ormai introvabili riviste e quotidiani dove apparvero gli
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scritti tradotti, mentre le appendici comprendono anche la risposta di Céline alle accuse della Procura
francese, il ricordo di Karl Epting, un testo sulla cultura politicizzata della Sinistra in quegli stessi anni,
uno sui rapporti tra gli intellettuali francesi e tedeschi, e numerose fotografie.
[1] “Definitivamente” perché il suo rifiuto di schierarsi tra le file degli autori della sinistra francese dopo il successo del
Voyage e il primo entusiasmo per questo autore che denunciava nel suo best-seller guerra, colonialismo e capitalismo, lo
aveva già reso sospetto agli occhi dei Sartre-de Beauvoir e degli Aragon. Come noto, Jean-Paul Sartre stimava Céline tanto
da citarlo in epigrafe al suo romanzo La nausée, e Louis Aragon tentò più volte di portare Céline a prendere posizione nella
sinistra; Céline rispose agli appelli della gauche con questa lettera del 1934 a Elie Faure…
Sono anarchico da sempre, non ho mai votato, non voterò mai per niente né per nessuno. Non credo negli uomini. Perché vuole che mi
metta d’improvviso a suonare lo zufolo solo perché decine e decine di falliti me lo suonano? io che me la cavo piuttosto bene col
pianoforte? Perché? Per mettermi al loro livello di gente meschina, rabbiosa, invidiosa, piena d’odio, bastarda? Questa è davvero buona.
Non ho niente in comune con tutti questi froci – che sbraitano le loro balorde supposizioni e non capiscono nulla. Si immagina a pensare e
a lavorare fra le grinfie di quel gran coglione di Aragon, per esempio? Questo sarebbe l’avvenire? Colui che dovrei adorare, è Aragon!
Puah! […] Non sente, amico, l’Ipocrisia, l’immonda tartuferia di tutte queste parole d’ordine ventriloque! […] I nazisti mi detestano al pari
dei socialisti, e i comunisti anche, senza contare Henri de Régnier o Comoedia. Si intendono tutti quando si tratta di sputarmi addosso.
Tutto è permesso tranne che dubitare dell’Uomo. Allora non c’è più niente da ridere.
Ho fatto la prova. Ma io me ne frego, di tutti.
Non chiedo nulla a nessuno.
…e più in generale, con il passo sotto riportato dell’“Omaggio a Zola” da lui pronunciato a Médan nel 1933:
Noi siamo giunti alla fine di venti secoli di alta civilizzazione e, comunque, nessun regime potrebbe resistere a due mesi di verità. Io voglio
dire che vedo la società marxista uguale alla nostra borghese ed a quelle fasciste.
[2] Ricordiamo a tal proposito il seguente aneddoto, citato da Lucien Rebatet nelle sue memorie, v. bibliografia:
Céline, che non beveva un goccio di vino, intavolò [durante una cena a Sigmaringen] un accanito parallelo tra la sorte delle “spie”, che
avevano trovato il modo di farsi sconfiggere, per rientrare però subito nei loro ranghi di bravi soldati e bravi cittadini, con la coscienza
pulita, non dovendo rendere conto a nessuno ed avendo assolto il loro dovere di patrioti; e quella dei “collaborazionisti” francesi che
avevano tutto da perdere, beni, onori e vita, in una simile impresa da fessi. Quindi Céline non vedeva più cosa gli potesse impedire di
proclamare che la divisa tedesca l’aveva sempre avuta in antipatia e che altrettanto non era stato abbastanza ponderante per immaginarsi
che sotto un’egida del genere la collaborazione non poteva essere che un terribile maleficio. Gli altri gradi militari presenti avevano però
deciso di trovare la battuta eccellente, rallegrandosene assai, e quando Ferdinand andò a dormire, venne rimpianto.
[3] Per esempio Marina Alberghini nella sua peraltro documentata biografia dedicata a Céline, v. bibliografia.
[4] Stefano Lanuzza, Maledetto Céline, Roma 2010.
[5] Come la fotografia attestante la presenza di Louis-Ferdinand Céline ad un raduno del Partito Nazional Socialista
Cristiano canadese nel 1938, pubblicata in Jean-François Nadeau, Adrien Arcand, führer canadien, Montréal 2010.
[6] Il “comunismo Labiche” tratteggiato in Les Beaux Draps.
[7] Direttore dell’Istituto tedesco di Parigi tra il 1940 e il 1944; il testo completo è riprodotto in appendice. In questo
Céline fu simile ad un altro grande scrittore a parole antisemita, omofobo, xenofobo, razzista e filotedesco: Howard Phillips
Lovecraft, che come noto sposò una ebrea russa, fu fraterno amico di omosessuali e ebrei, e cercò di arruolarsi volontario
nell’US Army nella prima guerra mondiale, dichiaratamente per combattere contro i “barbari Huns”, v. H.P. Lovecraft (a
cura di Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco), L’orrore della realtà. La visione del mondo del rinnovatore della narrativa
fantastica. Lettere 1915-1937, Roma 2007.
[8] In Céline e l’attualità letteraria, 1932-1957, Milano 2001, pag. 143. Pontiggia prosegue poi rilevando come, d’altra
parte, il carattere “nichilista, sprezzante, irridente” del “rifiuto di tutto” di Céline lo colloca in pieno nel “carattere
dominante della cultura contemporanea”. Su questo paradosso céliniano, interessanti i lavori di Loredana Trovato (cur.),
L’attualità dell’antimodernità. Da Céline alle espressioni artistico-letterarie contemporanee, Lugano 2008 e di Patrizio
Paolinelli, Nello specchio della modernità, Catania 2011.
[9] Pamphlet che sarebbe ad ogni modo errato considerare come marginali nell’opera letteraria di Céline; il francesista
Nicholas Hewitt, riportando il disappunto con il quale la pur bendisposta critica letteraria collaborazionista accolse
Guignol’s Band, scrisse come (corsivo nostro):
per Alméras, “Guignol’s Band inaugura in effetti il periodo astratto durante il quale Céline vuol essere innanzitutto stilista: Proust alla
rovescia, dicono alcuni”, un periodo che si estende ai due volumi di Féerie pour une autre fois e che non cessa completamente con la
Trilogia. I pamphlet avevano liberato Céline, sia strutturalmente e stilisticamente, dall’impasse nella quale si era trovato dopo Mort à
crédit, e un riconoscimento implicito di ciò si trova nei debiti infratestuali in Guignol’s Band da Bagatelles pour un massacre […] Quello
che Céline perfeziona nei pamphlet, particolarmente nella sezione conclusiva de Les Beaux Draps, che, come abbiamo visto, stava
scrivendo contemporaneamente all’inizio di Guignol’s Band, è quella qualità astratta e percussiva del linguaggio che diventò,
letteralmente, musicale: la “petite musique” dello stile céliniano non è per nulla metaforica. È al contrario uno strumento concreto per
trasformare le parole da significanti a suoni.
Da Nicholas Hewitt, The life of Céline: a critical biography, Malden 1999, pag. 222.
[10] Notiamo soltanto che, per quanto dure possano sembrare al lettore odierno certe frasi, sarebbe ipocrita non
considerare come, in generale, il lessico politico-militante delle varie fazioni dell’epoca, polarizzato dalle tensioni tra
ideologie e nazionalismi, non era certo improntato all’esprit de finesse. Questa circostanza dovrebbe essere evidente anche
a chi abbia solo una cursoria conoscenza del periodo; comprendiamo comunque come un certo milieu intellettuale valuti
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ancora oggi lo “sterminio di classe” cantato da Aragon e Majakovskij (vedi appendice), e imbellettato da Sartre e Brecht, in
maniera più indulgente che l’antisemitismo professato dai Collabos. Per lo strabismo, dopo una certa età, non vi è infatti
più rimedio.
[11] Ramon Fernandez (1894-1944), intellettuale comunista poi passato al Parti Populaire Français nel 1937 e quindi tra i
Collabos, autore del saggio À la gloire de Proust ou Proust ou la généalogie du roman moderne, del 1943.
[12] La sconfitta della 6ª Armata del Feldmaresciallo Friedrich Paulus rappresenta evidentemente per Céline un momento
fondamentale non solo della seconda guerra mondiale, ma anche della civiltà occidentale; infatti, molti anni dopo questa
lettera, Céline dirà all’amico Pierre Duvergier:
Tra qualche generazione, la Francia sarà completamente meticciata, e le nostre parole non vorranno più dire nulla. Che piaccia o no,
l’uomo bianco è morto a Stalingrado.
[13] Questa lettera inviata a Henri Poulain, segretario di redazione dal “Je suis partout” e delegato da Robert Brasillach a
tenere i rapporti con Céline, non fu però data alle stampe, su decisione della redazione, per l’“attentato al morale della
nazione” insito nella proposta di Céline di dividere in due la Francia. Ringraziamo Stenio Solinas per averci indicato questa
singolare lettera.
[14] I “Grand Chevaux de Lorraine” erano quattro antiche e potenti casate nobiliari francesi del 1500.[15] Vedi lettera 12.
[16] Furono così soprannominati durante la guerra i giovani amanti del Jazz, riconoscibili dal loro abbigliamento vistoso.
[17] Qui Céline fonde spregiativamente il Gunga Din di Kipling con il diffuso cognome senegalese Diouf.
[18] Luigi IX (1214-1270), canonizzato nel 1297. Durante il suo regno prese delle severe misure contro gli ebrei: dalla
conversione forzata, pena l’espulsione (decreto poi sospeso dietro il pagamento di un tributo) all’obbligo di portare un
segno distintivo.
[19] La Gallia Narbonense, corrispondente alle odierne Linguadoca, Provenza e Costa Azzurra.
[20] L’uomo qualunque, da uno slogan pubblicitario dell’epoca della Pernod.
[21] Alexis Carrel (1873-1944), nato a Lione, noto chirurgo e biologo, premio Nobel nel 1912, ricercatore alla Fondazione
Rockefeller sino al 1939, propugnatore e reggente della Fondation Française pour l’Etude des Problèmes Humains, creata
dal Governo di Vichy nel 1941. La fondazione, dallo staff di 300 ricercatori e il cui ambito principale di studio era
l’eugenetica, ricevette più di quaranta milioni di franchi di finanziamenti sino alla data della sua chiusura nel 1944.
[22] Yves Bouthillier (1901-1977), ispettore delle Finanze, ebbe ruoli di rilievo in diversi dicasteri francesi, anche durante
Vichy.
[23] Charles Spinasse (1893-1979), politico socialista, ministro dell’Economia nel governo del Fronte Popolare, collaborò
poi con il Governo di Vichy.
[24] Il Generale statunitense Douglas MacArthur (1880-1964), protagonista della guerra nel Pacifico (1941-1945) e di
Corea (1950-1951).
[25] Théophile Bader (1864-1942), fondatore con il fratello Alphonse Kahn dei grandi magazzini Galeries Lafayette.
[26] Léon Frot (1900-1942), sindacalista, organizzò in sindacato i disoccupati. Catturato e preso come ostaggio dai
tedeschi, fu fucilato per rappresaglia nel 1942.
[27] La percentuale d’invalidità riconosciuta a Céline per le ferite da lui riportate nella prima guerra mondiale.
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Le lettere di Louis-Ferdinand Céline alla stampa