www.bloomnet.org rimasta, Marieme, dopo essersi brevemente intrattenuta con un giovane che sta aspettando qualcuno, può finalmente raggiungere la porta di casa. Alla convulsione fisica, alla spettacolarità delle prime immagini, calate nell’atmosfera “esotica” di una palestra, con una musica electropop, segue quindi il clima inquieto di quella successiva, dove Céline Sciamma suggerisce la condizione delle ragazze che devono convivere quotidianamente con le prepotenze maschili. Anche se quella sera non accade nulla, è percepibile il nervosismo delle ragazze e la loro solitudine. Solitudine che si prolunga angosciosamente nell’ambito domestico, dove Marieme ritrova, oltre all’affetto delle sorelle più piccole, anche la brutale autorità del fratello, che accompagna gli ordini con le mani. In realtà, Bande de filles, diviso in cinque capitoli, non è un film sociologico e, nonostante le apparenze, gli sta stretta anche l’etichetta di “film-banlieue” perché di quel mondo viene offerto un quadro deliberatamente parziale: non appare un solo poliziotto, pochi bianchi e pochissimi adulti mentre i maschi sono visti esclusivamente dallo sguardo delle ragazze e non esistono come personaggi autonomi. È un film sull’adolescenza come dimensione di metamorfosi interiore e fisica, di fermenti contraddittori e instabili, sulla stessa linea di ispirazione dei due precedenti film di Céline Sciamma, Naissance des pieuvres (2007) e Tomboy (2011), che è stato distribuito anche in Italia. Si inserisce quindi nella continuità ininterrotta di quella variegata filmografia che il cinema francese ha dedicato all’età “difficile” (si pensi solo ai recenti La vita di Adéle di Kechiche –che in La schivata aveva già raccontato una storia adolescenziale nella banlieue – e Giovane & bella di Ozon). L’interesse della Sciamma per l’adolescenza, del resto, lo ritroviamo anche nelle sue collaborazioni con altri cineasti (ha partecipato alla stesura della serie Les Revenants, che, in chiave fantastica, era incentrata anche su personaggi di ragazzi e ha recentemente concluso la sceneggiatura del film di André Téchiné, Quand on a 17 ans, che uscirà nel 2016). Ma ha anche dichiarato di avere concluso un ciclo proprio con Bande de filles. Il linguaggio dei capelli Classe 1980, anche lei originaria della periferia (Cergy Pontoise) ma appartenente alla classe media (e bianca), la Sciamma si inserisce nella filiazione del cinema di Pialat, dove sono la corporalità, l’istintività, la pulsionalità a essere privilegiate per descrivere la natura di un personaggio e raccontarne la storia. Bande de filles è soprattutto un romanzo di formazione alla vita che racconta quattro tappe nella crescita di una sedicenne – Marieme, appunto (impersonata da un’autentica rivelazione, la splendida Karidja Touré): l’iniziale circuito chiuso fra scuola e famiglia, poi l’adesione alla piccola banda formata da tre coetanee, Fily, Adiatou e Lady, poi l’affiliazione alla gang di Abou, uno spacciatore di quartiere, quindi la solitudine, nell’incertezza assoluta del futuro. Con Fily, Adiatou e Lady, Marieme condivide il gusto trasgressivo e liberatorio di esperienze errabonde (dove sfogare la rabbia repressa), scandite da piccole vessazioni (alle ragazze bianche), piccoli furti, parentesi ludiche (come affittare una camera d’hotel e lì giocare, ridere e cantare) ma anche da risse e lotte violente con altre coetanee nere. Marieme è oppressa dalle violenze del fratello, dall’assenza dei genitori (del padre non si sa nulla, la madre lavora tutto il giorno come donna delle pulizie e vorrebbe che anche lei facesse quel lavoro), dall’indifferenza della scuola (che la respinge per la seconda volta) e cerca se stessa in un rifiuto che investe tutti i fronti e si esprime nell’emulazione comportamentale come nella trasformazione del proprio aspetto. Per esempio, il linguaggio dei suoi capelli parla per lei, rendendo visibili i suoi tentativi di crearsi un’identità che non trova: passa dalle treccine “afro” alla “stiratura” su imitazione delle compagne, che cercano di emulare le capigliature delle cantanti nere statunitensi. (in questa fase muta anche il nome, scegliendo lo pseudonimo di Vic, come “Victory” ma forse anche come la protagonista del Tempo delle mele). Trova una quasi immediata sintonia con le altre nelle gioiose e selvagge escursioni a Parigi e sulla Défense, dove la Sciamma le segue in travelling e lunghi piani sequenza che evitano la frammentazione (abusata da tanto cinema contemporaneo) ed esprimono schiettamente una fascinazione che diviene poetica per la bellezza dei loro volti, dei corpi, della loro pelle e il fascino dirompente di un’energia ancora acerba e sognatrice – si pensi alla sequenza, di immediata seduzione plastica e sonora, dove nella camera d’hotel si esibiscono in un karaoke privato mimando la canzone Diamonds di Rihanna. Ma la Sciamma non ne edulcora le contraddizioni e le debolezze: infatti la forza della loro leader, la bellissima Sophie alias Lady (Assa Sylla), è solo apparente, come dimostra la sequenza in cui scheda critica viene sconfitta e umiliata da una rivale (alla sua sconfitta nella lotta seguirà non a caso il taglio dei capelli, segno di perdita di aura e carisma) e un’analoga vulnerabilità affiora in Adiatou (Lindsay Karamoh), che scoppia a piangere per futili motivi mentre le ragazze stanno giocando a minigolf. Nella terza fase, quando, perduta la verginità con Ismaël, fugge di casa dopo essere stata pestata dal fratello e abbandona anche la banda, Marieme si taglia i capelli in modo quasi punitivo e ritorna alle scriminature africane. Non solo ma la ragazza (quasi come la protagonista di Tomboy) mortifica i suoi connotati di femminilità, tagliandosi i capelli corti e fasciandosi e dissimulandosi i seni. Messasi al servizio di Abou, nasconde provvisoriamente la sua nuova identità semimascolina sotto l’appariscente parrucca bionda con cui entra nelle case lussuose dei bianchi a cui vende la droga. Anche gli abiti indossati da Marieme e dalle ragazze corrispondono nel film a segni precisi: la ragazza passa dalle tute delle prime sequenze, alla giacca di pelle della gang, poi a un abito rosso quando si arruola nella banda dello spacciatore (è la stessa Sciamma ad avere ideato i costumi del film). Ogni mutamento non approda ad altro se non alla speranza innescata da una nuova metamorfosi, che finisce nella disillusione (abbandona anche la gang di Abou quando questi vuole imporle le sue effusioni sessuali durante una festa). Nelle ultime sequenze la vediamo ritornare davanti alla porta delle amiche ma rinuncia a entrarvi per poi uscire rabbiosamente dall’inquadratura in una ribellione che rimane sospesa e incompiuta. Sciamma evita fin dalle prime sequenze i facili cliché tragici e mostra il dramma di Marieme e delle sue coetanee espresso da movimenti che si agitano nel vuoto, nell’assenza di prospettive cui sembrano destinate. Di grande interesse è la scelta, come si diceva, di restringere la visuale del racconto all’angolazione della protagonista, quindi di assumerne la medesima parzialità. Questo dispositivo agisce brillantemente fin dall’inizio, quando dalla sequenza della partita traspare il ricordo della serie televisiva Friday Nights Lights, imperniata su una squadra di giocatrici di football del Texas. Molto bella, in questo senso, è anche l’unica sequenza erotica del film, dove Marieme riesce a entrare nell’appartamento dove vive Ismaël, che stava dormendo, ed è lei a prendere l’iniziativa inducendolo a spogliarsi, a girarsi sulla pancia e a farsi accarezzare il sedere. Bande de filles è un film dove assumono un notevole rilievo evocativo anche gli 02 spazi diurni e notturni, filmati in Cinemascope e con soluzioni diverse (gli esterni sono stati girati a Seine-Saint-Denis, tra Bobigny e Bagnolet, mentre gli interni sono stati realizzati tutti in studio). È significativa, in particolare, la dimensione claustrofobica e coatta dei labirinti di scale, androni, basamenti, palazzi dove le ragazze vivono come in un acquario, sempre sotto lo sguardo dei maschi che le sorvegliano e giudicano dalla sommità delle scale. Quegli spazi di passaggio erano stati concepiti dalla società per collegare le aree dei grattacieli l’una all’altra ma sono diventati – come il film suggerisce itinerari esposti al pericolo e che chiudono, anche fisicamente, la gioventù in una precarietà che la minaccia da ogni parte. DIAMANTE NERO di Sofia Bonicalzi, tratto da www.spietati.it Curioso come – in contrasto con il collettivistico originale francese (Bande de filles) – il (discutibile) titolo italiano dell’ultimo film di Céline Sciamma punti tutto sull’unicità identitaria della sua protagonista. L’adolescente Marieme, sedici anni, attraversa diverse esistenze possibili, nel contesto urbano ipercementificato della banlieu parigina. In una sorta di fenomenologia dell’adolescenza, la regista di Tomboy costruisce una serie di quadri in successione e, altrettanti ne lascia immaginare. Marieme è l’adolescente timida che gioca nella squadra femminile di football (l’intensa, quasi surreale, scena iniziale) e arrossisce quando incontra Ismaël. La ragazza di strada che stringe un patto d’acciaio con una banda di coetanee. La sorella responsabile che supplisce a una madre spesso assente. La piccola delinquente che accetta la protezione interessata di un mafioso locale. Potrebbe essere – per un istante sembra pensarci – una ragazza perbene, una sposa e, forse, una madre. I suoi poco promettenti www.bloomnet.org risultati scolastici sembrano invece indirizzarla verso qualche rapido corso professionalizzante. Sciamma non ricompone il quadro, non offre una prospettiva privilegiata o un punto d’arrivo. Marieme è tutte queste cose insieme e al tempo stesso nessuna. Nel suo rifiuto ostinato di qualsiasi etichetta è contenuta, al tempo stesso, la ricerca di un’identità che non sia un destino preconfezionato, e l’incapacità di trovare un ancoraggio stabile. La moltiplicazione identitaria è suggerita anche dal doppio nome della protagonista, che a lungo si porta dietro l’appellativo di Vic (Victoire). La regista francese fotografa la volatilità dell’adolescenza, il senso di un tempo in divenire, in cui mancano gli appigli e le guide, e l’identità personale si costruisce attraverso meccanismi di inclusione ed esclusione. Un’estrema libertà e una totale assenza di sintesi. Nel finale, aperto e sospeso, ogni possibilità è rilanciata, rimanendo ancora una volta in gioco. Alle molte vite di Marieme corrispondono i suoi repentini, spesso esasperati, cambiamenti di look. Trucco, vestiti e capelli sono sottoposti a una girandola di variazioni, dettate dal contesto di riferimento. Treccine afro e parrucche bionde, felpe da maschiaccio e mini-abiti attillati, mascara e volto acqua e sapone. All’enfasi sulla dimensione estetica fa da sponda un’attenzione costante, suggerita fina dalla scena di apertura, all’incontro e alla sovrapposizione fra corpi diversi – quelli femminili di Marieme e delle sue amiche, quelli di Marieme e di Ismaël nel buio della camera, quello in evoluzione della sorellina. Come Naissance des pieuvres e Tomboy, Diamante nero è anche un film sulla costruzione dell’identità sessuale e di genere, capace di giocare con gli stereotipi e di ribaltare i luoghi comuni – Marieme che prende il comando nel gioco delle parti con il compagno, si fascia il seno e rifiuta un’inaspettata proposta di matrimonio. Interpretato quasi esclusivamente da attori di colore, il film aspira anche a essere una sorta di manifesto politico-culturale, che fotografa l’assottigliarsi delle prospettive cui ciascuno può personalmente ambire in un contesto degradato – con Marieme che cerca una via intermedia fra due poli contrapposti, moglie o prostituta. Nel suo passaggio da una porta all’altra, da una casa all’altra, Marieme cerca di mimetizzarsi, quasi di annullarsi, con l’ambiente che di volta in volta abita, fino a un punto di rottura che coincide con la repentina consapevolezza di trovarsi, sempre, nel posto sbagliato. Il peso di una realtà asfittica porta Marieme a ricominciare ogni volta da capo, lasciandosi dietro il deserto. È nell’assenza di un centro gravitazionale, di una narrazione compiuta, che sta il senso del film di Sciamma. Il titolo francese si concentra sulla dimensione temporalmente più rilevante del film. Dopo l’incontro casuale con Lady, Adiatou e Fily, Marieme entra a fare parte di un gruppo organizzato, che ha le proprie regole e i propri riti di iniziazione, che includono insulti, botte da strada, furtarelli. Il momento di massima coesione del gruppo è suggellato da una canzone di Rihanna (Diamonds), intonata in coro dal quartetto. I momenti più interessanti del film sono quelli che fotografano i passaggi fra le diverse fasi, il senso di qualcosa che sta per finire e di qualcos’altro, qualcosa di incerto, che sta per cominciare. Fondamenta sempre fragili e pavimenti sdrucciolevoli. Una fuga senza fine di cui la banlieu parigina – anonimi blocchi squadrati e grandi spazi vuoti in cui i personaggi sono punti inquadrati in campo lungo – resta l’unico orizzonte possibile, la dimensione ineluttabile alla quale tutte le esistenze di Marieme mettono capo. È, questa, l’impossibilità di uscire, davvero, da se stessi. Il realismo anti-retorico, quasi cronachistico, della messinscena – di cui Sciamma evita alcuni abusati espedienti (vedi camera a mano) – si stempera così nella rappresentazione di una dimensione più universale, in cui si coagulano tutte le paure e le incertezze dell’età più fragile. DIAMANTE NERO di Francesca Monti, tratto da www.filmidee.it “This movie isn’t about diversity, but exclusiveness: the male and female actors are exclusively colored” Céline Sciamma Pur non essendo una traduzione fedele all’originale Bande de filles, Girlhood, titolo scelto scheda critica per l’uscita anglosassone dell’ultimo film di Céline Sciamma, definisce con precisione oltre a strizzare l’occhio al pubblico di Richard Linklater - l’arco di trasformazione esplorato dal cinema della regista francese. Con il suo debutto del 2007, Naissance des pieuvres, Sciamma aveva messo in scena l’emergere del desiderio all’interno di un trio di quindicenni; il successivo Tomboy (2010), opera più compiuta, raccontava invece di una preadolescente alla scoperta dei codici di genere. Diamante nero - questo, l’inspiegabile titolo italiano - prosegue l’osservazione della fase di sviluppo dei corpi femminili e delle loro identità in evoluzione, anche se in un contesto sociale distante da quello dei film precedenti, incentrati sulla classe media francese. In questo caso veniamo infatti immersi nel pieno della banlieue parigina, con la sua working class in larga parte composta da immigrati di seconda e terza generazione. Ancora una volta la regista offre un’apertura di tipo spettacolare alla narrazione, in netto contrasto con i toni sussurrati che caratterizzano le altre parti del film. Se in Naissance des pieuvres a costituire l’incipit era lo sfarzo di un numero di nuoto sincronizzato, in maniera quasi speculare in Diamante nero è la lotta che si svolge su un campo di football americano, sul quale una squadra multietnica si sfida in slow-motion, con caschi scintillanti e paradenti, come nelle migliori epopee sportive di Hollywood. Queste ragazze, che in campo sembrano farsi beffa dei limiti attribuiti al loro genere sessuale, vengono ricondotte alla realtà del loro status già al rientro a casa, quando nel percorso attraverso i palazzi scrostati del quartiere ricevono insistenti provocazioni e apprezzamenti da parte dei coetanei maschi. L’allegro chiacchiericcio che accompagna il post-partita viene così annichilito dal rispetto di un ordine non scritto ma già ben assimilato. Bagnolet e Bobigny sono parti di un universo governato da una legge maschile e brutale, un perimetro di cemento armato da cui è possibile evadere solo nelle provvisorie scorribande a bordo di un RER o in un centro commerciale. Per la protagonista del racconto, Marieme, questa forma di sorveglianza prosegue anche all’interno delle mura domestiche, con le minacce del fratello maggiore. Tutta la pellicola ruota intorno alla rabbia e al desiderio femminili, con le ragazze protagoniste che cercano di resistere a quello che è considerato l’ordine delle cose: i soldi rubati alle compagne di scuola servono a fuggire in una camera d’albergo, per mangiare caramelle, indossare abiti rubati e fingere di essere qualcun altro. 03 Eppure, nonostante siano sottoposte costantemente al giudizio della comunità, riescono a costruire uno sguardo autonomo sul mondo, appropriandosi dei codici di comportamento appresi nella banlieue e mescolandoli ai sogni, all’immaginario, alle pulsioni che caratterizzano le adolescenti di oggi. La parte centrale del coming-of-age tripartito di Sciamma mette in scena questa femminilizzazione del maschile, attraverso una serie di combattimenti di strada che hanno le ragazze per protagoniste. Nei momenti in cui la violenza è più accesa, i partecipanti si dispongono in cerchio attorno alle contendenti, facendo il tifo per l’una o per l’altra, chiedendo sangue, esultando o disperandosi di fronte all’umiliazione della sconfitta. Quando la stessa Marieme estrae improvvisamente un coltello nel corso di uno scontro, non lo fa per danneggiare la sua avversaria, ma per tagliare il reggiseno della ragazza e mostrarlo in seguito come un trofeo di guerra. Sciamma decide di concludere questo capitolo del film tornando al primo dei combattimenti rappresentati, quello in cui la leader del gruppo, Lady, aveva subito un’avvilente sconfitta. La reiterazione dell’episodio si basa però su immagini di natura differente rispetto alle precedenti, in quanto riprese con un cellulare da uno degli astanti. Attraverso questa diversione visiva, Sciamma trascende il contesto della banlieue e costruisce uno sguardo generazionale, pulsante di emozione per la violenza filtrata dal dispositivo, e incapace di sottrarsi allo spettacolo. Come nei suoi film precedenti, la regista ricorre a un continuo riorientamento drammaturgico, per cui l’adesione a un personaggio non è mai esclusiva, così come non abbiamo mai la certezza di conoscere un soggetto, nonostante suono e immagine vengano modulati sulla base dei suoi stessi umori. Piuttosto, in Diamante nero la macchina da presa si trova in diversi momenti a scivolare sui corpi in slanci lirici al limite della pura astrazione, senza che il verismo della rappresentazione perda mordente. Il risultato è un’opera in cui la vocazione neorealista di portare sul grande schermo un contesto marginalizzato dal cinema di finzione si equilibra alla perfezione con l’apertura al sogno e all’immaginazione dei personaggi. Per questo, forse, i momenti in cui un simile cortocircuito sembra dare gli esiti più sorprendenti sono quelli in cui i corpi reagiscono alla musica: la processione dei volti delle ragazze sullo sfondo della Défense, che diventano così una pura forma, è paradigmatica in questo senso, rivelando l’universalità di una storia periferica. La musica pop è essa stessa mezzo di evasione dalla dimensione micro della www.bloomnet.org banlieue e segno di appartenenza a un mondo più esteso e ricco di possibilità, come racconta la scena in cui la bande de filles danza e canta in lip sync Diamonds di Rihanna. Avvolte in una luce blu, inebriate dal senso di completezza di quell’istante, le ragazze divengono - per citare la cantante - “a vision of ecstasy”. Il Cinemascope consente di non escludere nessun personaggio dall’inquadratura, preservando il senso di unione e figurando il momento di grazia in cui il presente diviene l’unica dimensione temporale possibile. Solo quando si affaccerà la prospettiva del futuro Marieme dovrà provare a reinventarsi, indossando nuove maschere e travestimenti. Il corpo diviene infatti nel corso della narrazione il veicolo privilegiato della metamorfosi della protagonista, soprattutto nell’ultimo capitolo del film. Marieme finisce per lasciare la sua gang e unirsi a un boss della droga, e il cambiamento coincide con una trasformazione estetica profonda, che la vede tomboy con i seni fasciati nel privato, e creatura erotizzata - in abito rosso e parrucca bionda - quando deve fare le proprie consegne. Forse una reincarnazione di troppo, quest’ultima, che confligge con la spontaneità e la mancanza di artifici dell’approccio della regista. Ogni dubbio si dissolve, tuttavia, di fronte al minimalismo del finale: portare a compimento la propria crescita significa uscire dalla sfera d’influenza dell’altro, dalla sottomissione al suo sguardo. Letteralmente: abbandonare il quadro. QUATTRO DIAMANTI NERI SUL PIEDE DI GUERRA di Fabien Lemercier, tratto da www.cineuropa.org A poche fermate di treno dal centro di Parigi c’è un mondo spesso raccontato dai media con notizie o appassionati documentari, un’area dove si allineano palazzoni, dove i ragazzi vagano sul terrazzo dell’ultimo piano e lo spaccio si sostituisce spesso al lavoro, data l’assenza di prospettive professionali. è un mondo di volti neri raramente rappresentato dall’industria cinematografica francese, ancora dominata dai bianchi. Un mondo chiuso che ha regole proprie, che rende difficile la vita alle donne, etichettate come prostitute se cercano anche solo di sopravvivere in un luogo dominato da uomini. è il durissimo mondo dei ghetti della periferia parigina che la brava Céline Sciamma racconta con insolita energia in Diamante Nero (Girlhood), che, in un momento di gloria, ha aperto la 46^ Quinzaine des Réalizateurs al 67° Festival di Cannes. Shy Marieme (Karidja Toure) ha 16 anni e vive a Clos-France insieme con le due sorelle minori delle quali si prende cura, l’ostile fratello maggiore (arbitro potenzialmente violento) e la madre, che pulisce di notte gli uffici a La Défense. Indietro a scuola (ha ripetuto la terza superiore e sta per essere mandata in un istituto professionale), fa amicizia con tre ragazze sbruffone prossime a commettere piccoli crimini - Lady (Assa Sylla), Adiatou (Lindsay Karamoh) e Fily (Marietou Toure). Dalle discussioni accese alle vere e proprie risse con altre bande di ragazze fino ai viaggio a Parigi (a Les Halles) per guardare le vetrine e alle serate passate a scherzare con gli amici in hotel, le quattro ragazze di colore mostrano una vera fame di vita, che contrasta enormemente con il profilo basso costrette a tenere (come evitare di mostrare i segni della loro femminilità o della vita amorosa che tutte le adolescenti vorrebbero avere) quando si confrontano col dominio maschile che pervade ogni angolo del quartiere. Spinta dal desiderio di fare qualsiasi cosa vogliano e di trovare una via di fuga dal tunnel che può offrire solo solo un futuro senza uscita, Marieme diventa sempre più ardita, e inizia a diventare una sorta di ‘capetto’ (tra crimini e risse). Inizia così una relazione segreta, e lascia la casa di famiglia accettando la protezione offerta dallo scheda critica spacciatore e protettore locale, che la porta in un altro quartiere in cambio di piccoli servizi. Fuggire dal destino predeterminato di donna del ghetto (come prostituta del gangster o donna sposata) non è facile come pensa... Dopo Water Lilies e Tomboy, Céline Sciamma continua nella sua originale, umile (sempre autolimitata e a basso budget) e talentuosa strada nel cinema francese. Dopo la scena musicale dell’inizio, estremamente dinamica e riuscita, sviluppa la storia attraverso sezioni di sequenze, cinque parti divise da tagli in nero che durano diversi secondi e servono come ellissi nel viaggio di Marieme. La sensibilità della regista e la sua attenzione verso il senso dell’umanità le consentono di riprodurre, in dettaglio e con superba semplicità, la vita quotidiana e gli umori di Clos-France, che traspirano di momenti di vero potere cinematografico grazie all’energia esplosiva delle quattro protagoniste (con una intensa, euforica sequenza in cui tutte ballano Diamond di Rihanna). Questo non le impedisce però di suggerisce con furbizia un messaggio sulla Francia di oggi. Esperta nell’arte del ritratto di donne e giovani, la filmmaker dimostra con stile la sua regia in movimento, legata ai personaggi e che preferisce una efficienza discreta alla teatralità più esibita per accendere la luce più chiara possibile sulle sue attrici quattro vere rivelazioni che faranno indubbiamente parlare di sé. Scheda critica a cura di Jurij Razza 04