www.bloomnet.org
rimasta, Marieme, dopo essersi brevemente
intrattenuta con un giovane che sta aspettando qualcuno, può finalmente raggiungere la
porta di casa.
Alla convulsione fisica, alla spettacolarità
delle prime immagini, calate nell’atmosfera
“esotica” di una palestra, con una musica
electropop, segue quindi il clima inquieto
di quella successiva, dove Céline Sciamma
suggerisce la condizione delle ragazze che
devono convivere quotidianamente con le
prepotenze maschili. Anche se quella sera
non accade nulla, è percepibile il nervosismo
delle ragazze e la loro solitudine. Solitudine
che si prolunga angosciosamente nell’ambito domestico, dove Marieme ritrova, oltre
all’affetto delle sorelle più piccole, anche la
brutale autorità del fratello, che accompagna
gli ordini con le mani.
In realtà, Bande de filles, diviso in cinque capitoli, non è un film sociologico e, nonostante
le apparenze, gli sta stretta anche l’etichetta
di “film-banlieue” perché di quel mondo viene
offerto un quadro deliberatamente parziale:
non appare un solo poliziotto, pochi bianchi e
pochissimi adulti mentre i maschi sono visti
esclusivamente dallo sguardo delle ragazze
e non esistono come personaggi autonomi.
È un film sull’adolescenza come dimensione
di metamorfosi interiore e fisica, di fermenti
contraddittori e instabili, sulla stessa linea di
ispirazione dei due precedenti film di Céline
Sciamma, Naissance des pieuvres (2007) e
Tomboy (2011), che è stato distribuito anche
in Italia. Si inserisce quindi nella continuità
ininterrotta di quella variegata filmografia
che il cinema francese ha dedicato all’età
“difficile” (si pensi solo ai recenti La vita di
Adéle di Kechiche –che in La schivata aveva
già raccontato una storia adolescenziale nella
banlieue – e Giovane & bella di Ozon). L’interesse della Sciamma per l’adolescenza, del
resto, lo ritroviamo anche nelle sue collaborazioni con altri cineasti (ha partecipato alla stesura della serie Les Revenants, che, in chiave
fantastica, era incentrata anche su personaggi di ragazzi e ha recentemente concluso
la sceneggiatura del film di André Téchiné,
Quand on a 17 ans, che uscirà nel 2016). Ma
ha anche dichiarato di avere concluso un ciclo
proprio con Bande de filles.
Il linguaggio dei capelli
Classe 1980, anche lei originaria della periferia (Cergy Pontoise) ma appartenente alla
classe media (e bianca), la Sciamma si inserisce nella filiazione del cinema di Pialat, dove
sono la corporalità, l’istintività, la pulsionalità
a essere privilegiate per descrivere la natura
di un personaggio e raccontarne la storia.
Bande de filles è soprattutto un romanzo di
formazione alla vita che racconta quattro
tappe nella crescita di una sedicenne – Marieme, appunto (impersonata da un’autentica rivelazione, la splendida Karidja Touré):
l’iniziale circuito chiuso fra scuola e famiglia,
poi l’adesione alla piccola banda formata da
tre coetanee, Fily, Adiatou e Lady, poi l’affiliazione alla gang di Abou, uno spacciatore di
quartiere, quindi la solitudine, nell’incertezza
assoluta del futuro.
Con Fily, Adiatou e Lady, Marieme condivide il
gusto trasgressivo e liberatorio di esperienze
errabonde (dove sfogare la rabbia repressa),
scandite da piccole vessazioni (alle ragazze
bianche), piccoli furti, parentesi ludiche (come
affittare una camera d’hotel e lì giocare,
ridere e cantare) ma anche da risse e lotte
violente con altre coetanee nere.
Marieme è oppressa dalle violenze del fratello, dall’assenza dei genitori (del padre non si
sa nulla, la madre lavora tutto il giorno come
donna delle pulizie e vorrebbe che anche lei
facesse quel lavoro), dall’indifferenza della
scuola (che la respinge per la seconda volta)
e cerca se stessa in un rifiuto che investe
tutti i fronti e si esprime nell’emulazione
comportamentale come nella trasformazione
del proprio aspetto. Per esempio, il linguaggio dei suoi capelli parla per lei, rendendo
visibili i suoi tentativi di crearsi un’identità
che non trova: passa dalle treccine “afro” alla
“stiratura” su imitazione delle compagne, che
cercano di emulare le capigliature delle cantanti nere statunitensi. (in questa fase muta
anche il nome, scegliendo lo pseudonimo di
Vic, come “Victory” ma forse anche come la
protagonista del Tempo delle mele).
Trova una quasi immediata sintonia con le altre nelle gioiose e selvagge escursioni a Parigi
e sulla Défense, dove la Sciamma le segue in
travelling e lunghi piani sequenza che evitano
la frammentazione (abusata da tanto cinema
contemporaneo) ed esprimono schiettamente una fascinazione che diviene poetica per
la bellezza dei loro volti, dei corpi, della loro
pelle e il fascino dirompente di un’energia
ancora acerba e sognatrice – si pensi alla
sequenza, di immediata seduzione plastica e
sonora, dove nella camera d’hotel si esibiscono in un karaoke privato mimando la canzone
Diamonds di Rihanna. Ma la Sciamma non ne
edulcora le contraddizioni e le debolezze:
infatti la forza della loro leader, la bellissima
Sophie alias Lady (Assa Sylla), è solo apparente, come dimostra la sequenza in cui
scheda critica
viene sconfitta e umiliata da una rivale (alla
sua sconfitta nella lotta seguirà non a caso
il taglio dei capelli, segno di perdita di aura
e carisma) e un’analoga vulnerabilità affiora
in Adiatou (Lindsay Karamoh), che scoppia a
piangere per futili motivi mentre le ragazze
stanno giocando a minigolf.
Nella terza fase, quando, perduta la verginità
con Ismaël, fugge di casa dopo essere stata
pestata dal fratello e abbandona anche la
banda, Marieme si taglia i capelli in modo
quasi punitivo e ritorna alle scriminature africane. Non solo ma la ragazza (quasi come la
protagonista di Tomboy) mortifica i suoi connotati di femminilità, tagliandosi i capelli corti
e fasciandosi e dissimulandosi i seni. Messasi
al servizio di Abou, nasconde provvisoriamente la sua nuova identità semimascolina sotto
l’appariscente parrucca bionda con cui entra
nelle case lussuose dei bianchi a cui vende la
droga. Anche gli abiti indossati da Marieme e
dalle ragazze corrispondono nel film a segni
precisi: la ragazza passa dalle tute delle prime sequenze, alla giacca di pelle della gang,
poi a un abito rosso quando si arruola nella
banda dello spacciatore (è la stessa Sciamma
ad avere ideato i costumi del film).
Ogni mutamento non approda ad altro se
non alla speranza innescata da una nuova
metamorfosi, che finisce nella disillusione
(abbandona anche la gang di Abou quando
questi vuole imporle le sue effusioni sessuali
durante una festa). Nelle ultime sequenze
la vediamo ritornare davanti alla porta delle
amiche ma rinuncia a entrarvi per poi uscire
rabbiosamente dall’inquadratura in una ribellione che rimane sospesa e incompiuta.
Sciamma evita fin dalle prime sequenze i facili
cliché tragici e mostra il dramma di Marieme
e delle sue coetanee espresso da movimenti che si agitano nel vuoto, nell’assenza di
prospettive cui sembrano destinate. Di grande
interesse è la scelta, come si diceva, di restringere la visuale del racconto all’angolazione della protagonista, quindi di assumerne la
medesima parzialità. Questo dispositivo agisce brillantemente fin dall’inizio, quando dalla
sequenza della partita traspare il ricordo della
serie televisiva Friday Nights Lights, imperniata su una squadra di giocatrici di football del
Texas. Molto bella, in questo senso, è anche
l’unica sequenza erotica del film, dove Marieme riesce a entrare nell’appartamento dove
vive Ismaël, che stava dormendo, ed è lei a
prendere l’iniziativa inducendolo a spogliarsi,
a girarsi sulla pancia e a farsi accarezzare il
sedere. Bande de filles è un film dove assumono un notevole rilievo evocativo anche gli
02
spazi diurni e notturni, filmati in Cinemascope
e con soluzioni diverse (gli esterni sono stati
girati a Seine-Saint-Denis, tra Bobigny e Bagnolet, mentre gli interni sono stati realizzati
tutti in studio). È significativa, in particolare, la
dimensione claustrofobica e coatta dei labirinti di scale, androni, basamenti, palazzi dove le
ragazze vivono come in un acquario, sempre
sotto lo sguardo dei maschi che le sorvegliano
e giudicano dalla sommità delle scale.
Quegli spazi di passaggio erano stati concepiti
dalla società per collegare le aree dei grattacieli l’una all’altra ma sono diventati – come il film
suggerisce itinerari esposti al pericolo e che
chiudono, anche fisicamente, la gioventù in
una precarietà che la minaccia da ogni parte.
DIAMANTE
NERO
di Sofia Bonicalzi,
tratto da www.spietati.it
Curioso come – in contrasto con il collettivistico originale francese (Bande de filles) – il
(discutibile) titolo italiano dell’ultimo film di
Céline Sciamma punti tutto sull’unicità identitaria della sua protagonista. L’adolescente
Marieme, sedici anni, attraversa diverse
esistenze possibili, nel contesto urbano
ipercementificato della banlieu parigina. In
una sorta di fenomenologia dell’adolescenza,
la regista di Tomboy costruisce una serie di
quadri in successione e, altrettanti ne lascia
immaginare. Marieme è l’adolescente timida
che gioca nella squadra femminile di football
(l’intensa, quasi surreale, scena iniziale) e arrossisce quando incontra Ismaël. La ragazza
di strada che stringe un patto d’acciaio con
una banda di coetanee. La sorella responsabile che supplisce a una madre spesso
assente. La piccola delinquente che accetta
la protezione interessata di un mafioso locale.
Potrebbe essere – per un istante sembra
pensarci – una ragazza perbene, una sposa
e, forse, una madre. I suoi poco promettenti
www.bloomnet.org
risultati scolastici sembrano invece indirizzarla verso qualche rapido corso professionalizzante.
Sciamma non ricompone il quadro, non
offre una prospettiva privilegiata o un punto
d’arrivo. Marieme è tutte queste cose insieme
e al tempo stesso nessuna. Nel suo rifiuto
ostinato di qualsiasi etichetta è contenuta, al
tempo stesso, la ricerca di un’identità che non
sia un destino preconfezionato, e l’incapacità
di trovare un ancoraggio stabile. La moltiplicazione identitaria è suggerita anche dal doppio
nome della protagonista, che a lungo si porta
dietro l’appellativo di Vic (Victoire). La regista
francese fotografa la volatilità dell’adolescenza, il senso di un tempo in divenire, in cui
mancano gli appigli e le guide, e l’identità personale si costruisce attraverso meccanismi di
inclusione ed esclusione. Un’estrema libertà
e una totale assenza di sintesi. Nel finale,
aperto e sospeso, ogni possibilità è rilanciata,
rimanendo ancora una volta in gioco.
Alle molte vite di Marieme corrispondono i
suoi repentini, spesso esasperati, cambiamenti di look. Trucco, vestiti e capelli sono
sottoposti a una girandola di variazioni,
dettate dal contesto di riferimento. Treccine
afro e parrucche bionde, felpe da maschiaccio e mini-abiti attillati, mascara e volto acqua
e sapone. All’enfasi sulla dimensione estetica
fa da sponda un’attenzione costante, suggerita fina dalla scena di apertura, all’incontro e
alla sovrapposizione fra corpi diversi – quelli
femminili di Marieme e delle sue amiche,
quelli di Marieme e di Ismaël nel buio della
camera, quello in evoluzione della sorellina.
Come Naissance des pieuvres e Tomboy, Diamante nero è anche un film sulla costruzione
dell’identità sessuale e di genere, capace di
giocare con gli stereotipi e di ribaltare i luoghi
comuni – Marieme che prende il comando
nel gioco delle parti con il compagno, si fascia
il seno e rifiuta un’inaspettata proposta di
matrimonio.
Interpretato quasi esclusivamente da attori
di colore, il film aspira anche a essere una
sorta di manifesto politico-culturale, che
fotografa l’assottigliarsi delle prospettive cui
ciascuno può personalmente ambire in un
contesto degradato – con Marieme che cerca
una via intermedia fra due poli contrapposti,
moglie o prostituta. Nel suo passaggio da una
porta all’altra, da una casa all’altra, Marieme
cerca di mimetizzarsi, quasi di annullarsi, con
l’ambiente che di volta in volta abita, fino a un
punto di rottura che coincide con la repentina
consapevolezza di trovarsi, sempre, nel posto
sbagliato. Il peso di una realtà asfittica porta
Marieme a ricominciare ogni volta da capo,
lasciandosi dietro il deserto. È nell’assenza
di un centro gravitazionale, di una narrazione
compiuta, che sta il senso del film di Sciamma.
Il titolo francese si concentra sulla dimensione temporalmente più rilevante del film.
Dopo l’incontro casuale con Lady, Adiatou e
Fily, Marieme entra a fare parte di un gruppo
organizzato, che ha le proprie regole e i propri
riti di iniziazione, che includono insulti, botte
da strada, furtarelli. Il momento di massima
coesione del gruppo è suggellato da una
canzone di Rihanna (Diamonds), intonata in
coro dal quartetto. I momenti più interessanti
del film sono quelli che fotografano i passaggi
fra le diverse fasi, il senso di qualcosa che
sta per finire e di qualcos’altro, qualcosa di
incerto, che sta per cominciare. Fondamenta
sempre fragili e pavimenti sdrucciolevoli.
Una fuga senza fine di cui la banlieu parigina
– anonimi blocchi squadrati e grandi spazi
vuoti in cui i personaggi sono punti inquadrati in campo lungo – resta l’unico orizzonte
possibile, la dimensione ineluttabile alla
quale tutte le esistenze di Marieme mettono capo. È, questa, l’impossibilità di uscire,
davvero, da se stessi. Il realismo anti-retorico,
quasi cronachistico, della messinscena – di
cui Sciamma evita alcuni abusati espedienti
(vedi camera a mano) – si stempera così
nella rappresentazione di una dimensione più
universale, in cui si coagulano tutte le paure e
le incertezze dell’età più fragile.
DIAMANTE
NERO
di Francesca Monti,
tratto da www.filmidee.it
“This movie isn’t about diversity, but exclusiveness: the male and female actors are
exclusively colored”
Céline Sciamma
Pur non essendo una traduzione fedele all’originale Bande de filles, Girlhood, titolo scelto
scheda critica
per l’uscita anglosassone dell’ultimo film di
Céline Sciamma, definisce con precisione oltre a strizzare l’occhio al pubblico di Richard
Linklater - l’arco di trasformazione esplorato
dal cinema della regista francese. Con il suo
debutto del 2007, Naissance des pieuvres,
Sciamma aveva messo in scena l’emergere
del desiderio all’interno di un trio di quindicenni; il successivo Tomboy (2010), opera più
compiuta, raccontava invece di una preadolescente alla scoperta dei codici di genere.
Diamante nero - questo, l’inspiegabile titolo
italiano - prosegue l’osservazione della fase di
sviluppo dei corpi femminili e delle loro identità in evoluzione, anche se in un contesto
sociale distante da quello dei film precedenti,
incentrati sulla classe media francese. In
questo caso veniamo infatti immersi nel pieno
della banlieue parigina, con la sua working
class in larga parte composta da immigrati di
seconda e terza generazione.
Ancora una volta la regista offre un’apertura
di tipo spettacolare alla narrazione, in netto
contrasto con i toni sussurrati che caratterizzano le altre parti del film. Se in Naissance des
pieuvres a costituire l’incipit era lo sfarzo di
un numero di nuoto sincronizzato, in maniera
quasi speculare in Diamante nero è la lotta
che si svolge su un campo di football americano, sul quale una squadra multietnica si
sfida in slow-motion, con caschi scintillanti e
paradenti, come nelle migliori epopee sportive
di Hollywood. Queste ragazze, che in campo
sembrano farsi beffa dei limiti attribuiti al loro
genere sessuale, vengono ricondotte alla realtà del loro status già al rientro a casa, quando
nel percorso attraverso i palazzi scrostati del
quartiere ricevono insistenti provocazioni e
apprezzamenti da parte dei coetanei maschi.
L’allegro chiacchiericcio che accompagna il
post-partita viene così annichilito dal rispetto
di un ordine non scritto ma già ben assimilato.
Bagnolet e Bobigny sono parti di un universo
governato da una legge maschile e brutale, un
perimetro di cemento armato da cui è possibile
evadere solo nelle provvisorie scorribande a
bordo di un RER o in un centro commerciale.
Per la protagonista del racconto, Marieme,
questa forma di sorveglianza prosegue anche
all’interno delle mura domestiche, con le
minacce del fratello maggiore. Tutta la pellicola
ruota intorno alla rabbia e al desiderio femminili, con le ragazze protagoniste che cercano
di resistere a quello che è considerato l’ordine
delle cose: i soldi rubati alle compagne di scuola servono a fuggire in una camera d’albergo,
per mangiare caramelle, indossare abiti rubati
e fingere di essere qualcun altro.
03
Eppure, nonostante siano sottoposte costantemente al giudizio della comunità, riescono a
costruire uno sguardo autonomo sul mondo,
appropriandosi dei codici di comportamento
appresi nella banlieue e mescolandoli ai
sogni, all’immaginario, alle pulsioni che caratterizzano le adolescenti di oggi. La parte centrale del coming-of-age tripartito di Sciamma
mette in scena questa femminilizzazione del
maschile, attraverso una serie di combattimenti di strada che hanno le ragazze per protagoniste. Nei momenti in cui la violenza è più
accesa, i partecipanti si dispongono in cerchio
attorno alle contendenti, facendo il tifo per l’una o per l’altra, chiedendo sangue, esultando
o disperandosi di fronte all’umiliazione della
sconfitta. Quando la stessa Marieme estrae
improvvisamente un coltello nel corso di uno
scontro, non lo fa per danneggiare la sua
avversaria, ma per tagliare il reggiseno della
ragazza e mostrarlo in seguito come un trofeo
di guerra. Sciamma decide di concludere
questo capitolo del film tornando al primo dei
combattimenti rappresentati, quello in cui la
leader del gruppo, Lady, aveva subito un’avvilente sconfitta. La reiterazione dell’episodio
si basa però su immagini di natura differente
rispetto alle precedenti, in quanto riprese con
un cellulare da uno degli astanti. Attraverso
questa diversione visiva, Sciamma trascende
il contesto della banlieue e costruisce uno
sguardo generazionale, pulsante di emozione
per la violenza filtrata dal dispositivo, e incapace di sottrarsi allo spettacolo.
Come nei suoi film precedenti, la regista ricorre
a un continuo riorientamento drammaturgico,
per cui l’adesione a un personaggio non è
mai esclusiva, così come non abbiamo mai la
certezza di conoscere un soggetto, nonostante
suono e immagine vengano modulati sulla base
dei suoi stessi umori. Piuttosto, in Diamante
nero la macchina da presa si trova in diversi
momenti a scivolare sui corpi in slanci lirici al
limite della pura astrazione, senza che il verismo
della rappresentazione perda mordente. Il
risultato è un’opera in cui la vocazione neorealista di portare sul grande schermo un contesto
marginalizzato dal cinema di finzione si equilibra
alla perfezione con l’apertura al sogno e all’immaginazione dei personaggi. Per questo, forse,
i momenti in cui un simile cortocircuito sembra
dare gli esiti più sorprendenti sono quelli in cui i
corpi reagiscono alla musica: la processione dei
volti delle ragazze sullo sfondo della Défense, che
diventano così una pura forma, è paradigmatica
in questo senso, rivelando l’universalità di una
storia periferica. La musica pop è essa stessa
mezzo di evasione dalla dimensione micro della
www.bloomnet.org
banlieue e segno di appartenenza a un mondo
più esteso e ricco di possibilità, come racconta
la scena in cui la bande de filles danza e canta
in lip sync Diamonds di Rihanna. Avvolte in una
luce blu, inebriate dal senso di completezza di
quell’istante, le ragazze divengono - per citare la
cantante - “a vision of ecstasy”. Il Cinemascope
consente di non escludere nessun personaggio
dall’inquadratura, preservando il senso di unione
e figurando il momento di grazia in cui il presente
diviene l’unica dimensione temporale possibile.
Solo quando si affaccerà la prospettiva del futuro
Marieme dovrà provare a reinventarsi, indossando nuove maschere e travestimenti.
Il corpo diviene infatti nel corso della narrazione il veicolo privilegiato della metamorfosi
della protagonista, soprattutto nell’ultimo
capitolo del film. Marieme finisce per lasciare
la sua gang e unirsi a un boss della droga, e il
cambiamento coincide con una trasformazione
estetica profonda, che la vede tomboy con i
seni fasciati nel privato, e creatura erotizzata
- in abito rosso e parrucca bionda - quando
deve fare le proprie consegne. Forse una
reincarnazione di troppo, quest’ultima, che
confligge con la spontaneità e la mancanza di
artifici dell’approccio della regista. Ogni dubbio
si dissolve, tuttavia, di fronte al minimalismo
del finale: portare a compimento la propria
crescita significa uscire dalla sfera d’influenza
dell’altro, dalla sottomissione al suo sguardo.
Letteralmente: abbandonare il quadro.
QUATTRO DIAMANTI
NERI SUL PIEDE
DI GUERRA
di Fabien Lemercier,
tratto da www.cineuropa.org
A poche fermate di treno dal centro di Parigi
c’è un mondo spesso raccontato dai media
con notizie o appassionati documentari,
un’area dove si allineano palazzoni, dove i
ragazzi vagano sul terrazzo dell’ultimo piano e
lo spaccio si sostituisce spesso al lavoro, data
l’assenza di prospettive professionali. è un
mondo di volti neri raramente rappresentato
dall’industria cinematografica francese, ancora dominata dai bianchi. Un mondo chiuso
che ha regole proprie, che rende difficile la
vita alle donne, etichettate come prostitute se
cercano anche solo di sopravvivere in un luogo dominato da uomini. è il durissimo mondo
dei ghetti della periferia parigina che la brava
Céline Sciamma racconta con insolita energia
in Diamante Nero (Girlhood), che, in un momento di gloria, ha aperto la 46^ Quinzaine
des Réalizateurs al 67° Festival di Cannes.
Shy Marieme (Karidja Toure) ha 16 anni e vive
a Clos-France insieme con le due sorelle minori delle quali si prende cura, l’ostile fratello
maggiore (arbitro potenzialmente violento)
e la madre, che pulisce di notte gli uffici a
La Défense. Indietro a scuola (ha ripetuto la
terza superiore e sta per essere mandata in
un istituto professionale), fa amicizia con tre
ragazze sbruffone prossime a commettere
piccoli crimini - Lady (Assa Sylla), Adiatou
(Lindsay Karamoh) e Fily (Marietou Toure).
Dalle discussioni accese alle vere e proprie
risse con altre bande di ragazze fino ai viaggio
a Parigi (a Les Halles) per guardare le vetrine
e alle serate passate a scherzare con gli amici
in hotel, le quattro ragazze di colore mostrano
una vera fame di vita, che contrasta enormemente con il profilo basso costrette a tenere
(come evitare di mostrare i segni della loro
femminilità o della vita amorosa che tutte le
adolescenti vorrebbero avere) quando si confrontano col dominio maschile che pervade
ogni angolo del quartiere. Spinta dal desiderio
di fare qualsiasi cosa vogliano e di trovare
una via di fuga dal tunnel che può offrire solo
solo un futuro senza uscita, Marieme diventa
sempre più ardita, e inizia a diventare una
sorta di ‘capetto’ (tra crimini e risse). Inizia
così una relazione segreta, e lascia la casa di
famiglia accettando la protezione offerta dallo
scheda critica
spacciatore e protettore locale, che la porta in
un altro quartiere in cambio di piccoli servizi.
Fuggire dal destino predeterminato di donna
del ghetto (come prostituta del gangster o
donna sposata) non è facile come pensa...
Dopo Water Lilies e Tomboy, Céline Sciamma
continua nella sua originale, umile (sempre
autolimitata e a basso budget) e talentuosa
strada nel cinema francese. Dopo la scena
musicale dell’inizio, estremamente dinamica
e riuscita, sviluppa la storia attraverso sezioni
di sequenze, cinque parti divise da tagli in
nero che durano diversi secondi e servono
come ellissi nel viaggio di Marieme. La sensibilità della regista e la sua attenzione verso il
senso dell’umanità le consentono di riprodurre, in dettaglio e con superba semplicità, la
vita quotidiana e gli umori di Clos-France, che
traspirano di momenti di vero potere cinematografico grazie all’energia esplosiva delle
quattro protagoniste (con una intensa, euforica sequenza in cui tutte ballano Diamond
di Rihanna). Questo non le impedisce però di
suggerisce con furbizia un messaggio sulla
Francia di oggi. Esperta nell’arte del ritratto
di donne e giovani, la filmmaker dimostra
con stile la sua regia in movimento, legata ai
personaggi e che preferisce una efficienza discreta alla teatralità più esibita per accendere
la luce più chiara possibile sulle sue attrici quattro vere rivelazioni che faranno indubbiamente parlare di sé.
Scheda critica a cura di Jurij Razza
04
Scarica

QUI - Bloom