154 λeússein - n. 2 - 2010 Inediti e Rari 155 “Il Secolo” 6 gennaio 1922 La liquefazione dell’Universo Quindici secoli or sono la Germania distruggeva l’Impero Romano con il martello delle invasioni. Ma ai terribili colpi l’Occidente devastato rispondeva mandando agli invasori, turbolenti e famelici di preda, santi e missionari, che insegnavano loro con il cristianesimo i primi rudimenti di un nuovo ordine morale e sociale. Otto anni fa la Germania assaliva e invadeva non più soltanto l’Occidente, ma l’Occidente e l’Oriente insieme; e in quattro anni distruggeva mezza Europa. L’impero russo è caduto; l’impero inglese vacilla e non pare probabile che debba sopravvivere a lungo ai colpi che il nemico gli ha inferto; la Francia, l’Italia, il Belgio si reggono come possono. Dei paesi sorti sulle rovine dell’impero austriaco non parliamo neppure. Ma l’Occidente assalito risponde, come quattrordici secoli or sono, insegnando a questa formidabile forza, che ha precipitato l’Europa nell’anarchia, lo spirito dell’ordine, il rispetto del diritto, il senso della stabilità e della misura, le discipline di un ideale che non trascendna i limiti dell’umano? All’opposto. Questa volta la Germania, dopo gli eserciti che hanno a colpi di cannone diroccato dalle fondamenta l’ordine politico e sociale dell’Europa, manda i filosofi a distruggere quel po’ di ordine spirituale, che resta ancora nelle menti. Adriano Tilgher, in un suo denso, chiaro, luminoso libretto su i “Relativi- sti contemporanei” studia questa nuova offensiva filosofica - io la chiamerei proprio così - che la Germania ha intrapresa contro l’ordine spirituale della civiltà occidentale. Ecco il Vaihinger, il creatore della “filosofia del come se”, il quale porta alle ultime conseguenze un indirizzo filosofico da venti anni in fervore, cercando di dimostrare che tutti i concetti del nostro spirito, tutte le leggi delle nostre scienze, tutte le categorie dei nostri sistemi, non sono che miti, simboli, finzioni, pieni di contraddizioni, senza consistenza reale, mutevoli da epoca a epoca, da luogo a luogo, da persona a persona. Ecco l’Einstein, il maestro dell’ora che volge, il quale distrugge anche nella fisica il concetto dello spazioo e del tempo obiettivi, esistenti in sé, indipendentemente dalle cose che li riempiono; e nega addirittura il fondamento della scienza galileiana e newtoniana, l’esistenza di una realtà fisica, che lo spirito possa contemplare e conoscere dal di fuori. Ecco lo Spengler, l’autore di un’enorme opera sulla Decadenza dell’Occidente, popolarissima in Germania, per il quale tutte le civiltà si equivalgono, sono irriducibili l’una all’altra e destinate ugualmente a nascere e a perire; onde dall’una all’altra parte non c’è progresso; e il compito del genere umano rassomiglia al tormento di Sisifo: creare per distruggere, distruggere per creare. Adriano Tilgher, Relativisti contemporanei, con prefazione di Mario Missiroli (3. edizione), Roma 1922. 156 λeússein - n. 2 - 2010 Inediti e Rari Per ora, di queste dottrine, soltanto quella dell’Einstein è conosciuta e, in un certo senso, popolare in Italia. Ma a giudicare della rapidità con cui le dottrine dell’Einstein si sono diffuse, non è temerario supporre che né l’Italia né la Francia non avranno la forza di resistere neppure alle altre. Il libro stesso del Tilgher prova, che v’è nell’aria una specie di mania suicida, la quale, aspettando e preparando le catastrofi politiche, a cui queste filosofie precorrono, si diletta di distruggere l’universo con l’immaginazione. *** Il Tilgher è, insieme con il Rensi, uno degli spiriti più vivi e acuti apparsi negli studi filosofici da un pezzo in qua. Meno robusto, come dialettico, del Rensi, è più fine, più artista e direi quasi animato da un intimo senso poetico, che al Rensi manca. Senonché l’uno e l’altro mi sembrano due vigorosi esploratori, che in mezzo allo smarrimento universale degli spiriti hanno trovata la buona direzione per arrivare alla verità; ma che, strada facendo, sono arrivati ad un lago incassato tra i monti; e dovrebbero attraversarlo in linea retta per arrivare alla meta: operazione facile, a cui una piccola barca basterebbe. Il Rensi invece rischia addirittura di perdersi sulle pendici boscose del lago; e di ritornare sui propri passi verso gli errori, a cui avevano volto le spalle, credendo di continuare nella buona via. Il Tilgher non perde di vista l’acqua; ma invece di imbarcarsi e tagliar diritto vagabondeggia lungo le rive... Il Rensi ha capito e dimostrato, massime nei Lineamenti di filosofia scettica, di cui ora la seconda edizione vede la luce, che G. Rensi, Lineamenti di filosofia scettica (2. edizione) Bologna, Zanichelli. 157 il mondo moderno è una immensa anarchia, alimentata da filosofie e da dottrine sofistiche, le quali sotto i bei nomi di assoluto, di spirito, di diritto, di progresso, di giustizia, di libertà, moltiplicano gli stimoli e gli incoraggiamenti a tutte le passioni e a tutti gli interessi nemici di ogni vera disciplina morale e politica. Ma a questo punto si è fermato e, preso da un grande odio del disordine presente, l’ha maltrattato come una malattia, le cui origini rimontano niente meno che alla battaglia di Salamina; e che merita solo il ferro. Chiamare responsabili della nostra anarchia i Greci e i Romani, che, vincendo i Persiani e i Cartaginesi a Salamina e al Metauro, hanno imposto all’Europa la “concezione politica individualista” mi pare una esagerazione. Quanto alla dottrina della forza, a cui tutta la filosofia del Rensi mette capo, essa mi sembra un po’ campata in aria. Se il mondo occidentale è matto da più di venti secoli, chi fabbricherà e applicherà la camicia di forza? Il Tilgher a sua volta, posto dinanzi a queste filosofie relativiste, si direbbe che non sappia non ammirarle, come una grande conquista edl pensiero umano, e maledirle, come un segno mortale della malattia che travaglia il mondo. Di lodi, in cui vibra il consenso ammirativo, il piccolo libro è pieno. Ma il libro finisce, affermando che il relativismo può soltanto annientare; e che perciò esso è “l’ultimo atto della crisi mondiale”. L’ultimo accesso di una malattia mortale, dunque; perché il Tilgher nella crisi mondiale vede il disfacimento dell’ordine presente di cose. A me pare che il Rensi rischia di smarrire la strada e il Tilgher di fermarsi a mezza via, perché né l’uno né l’altro si rendono conto che l’anarchia presente di 158 tanta parte del mondo è l’ultimo effetto di un grandioso movimento storico, incominciato circa due secoli fa, e che ha spinto la civiltà occidentale alla conquista della terra e dei suoi tesori. In nessuna epoca il genere umano aveva computo uno sforzo più grande di creazione e di distruzione. Ma perché potessero compiere questo sforzo i popoli dell’Europa e dell’America dovevano svegliare e eccitare tutte le energie sonnecchianti da secoli nello spirito umano; e perché queste energie potessero svegliarsi e muoversi bisognava che le qualità delle cose si confondessero nello spirito del mondo. Gli uomini non avrebbero potuto compiere uno sforzo così veemente, così affannoso, così affrettato, se fossero stati impacciati da una morale troppo rigida e precisa, da gusti artistici troppo raffinati ed esigenti, da tradizioni, da costumi, da istituzioni troppo rigorose, da autorità troppo imperiose, così nell’ordine spirituale come nell’ordine politico. Chi considera da questa specola la storia del XIX secolo - la filosofia, la politica, l’arte, l’economia, il costume - può spiegarsi, senza ammettere che il mondo è impazzito, come da un secolo abbiano sempre trionfato le dottrine, i partiti, le scuole che accrescevano il disordine del mondo; ed abbiano trionfato al punto che il mondo comincia a smarrirsi nella nuova confusione delle lingue. Intende come a racconciare il caos presente la forza, che l’ha creato, non serva a nulla e sia tempo perso citare innanzi al tribunale della storia i vincitori di Salamina. E non è sorpreso, perché se li spiega, dai presenti trionfi della filosofia relativista. Questi trionfi provano soltanto che con la guerra mondiale il disordine dei tempi non ha ancora toccato la vetta; che non avendo trovato λeússein - n. 2 - 2010 la forza di risalire verso un ordine più stabile, noi dobbiamo precipitare verso un disordine più grande. Il Tilgher mi pare aver ragione, quando, sia pur con parole più velate, dice che tutte queste filosofie sono anarchiche, perché facendo di ogni uomo la misura dell’universo, del bene e del male, del vero e del falso, del bello e del brutto, gli riconoscono il diritto, potendo, di far ciò che gli piace. Tutte: anche quelle che sembravano occuparsi soltanto dei movimenti degli astri in fondo allo spazio. La credenza nella realtà obiettiva del mondo è necessaria alla stabilità spirituale, politica e sociale di un’epoca. Chi potrà mai credere che ci sia alcunché di fermo e di fisso nelle leggi e nella morale degli uomini, se pensa che perfino la forma dell’universo non è che una mobile fantasmagoria dello spirito umano? La Chiesa cattolica l’ha capito da un pezzo; e perciò ha messo la realtà del mondo come fondamento di tutta la filosofia. Prepariamoci dunque, dopo tanti imperi e regni e stati e leggi e fortune che sono caduti, a veder tutta la fabbrica dell’Universo rotolare in un gigantesca rovina, con il tempo e con lo spazio, con la materia e con la forza, giù giù per i burroni dell’infinito. È una catena. Ma presto o tardi, il giorno in cui, dopo tanto distrugere, occorrerà ricominciare a costruire, verrà. E quel giorno l’uomo, nel tempo stesso in cui sentirà più solido il terreno sotto i piedi, sentirà anche più ferma la volta del cielo sul suo capo. L’universo, che oggi si sta liquefando, a mano a mano che la società si dissolve, si rapprenderà di nuovo in forme solide, quando l’ordien sociale si ricostituirà. Guglielmo Ferrero Libro Garibaldi o superiorità e sentimento comunitario 160 λeússein - n. 2 - 2010 Inediti e Rari 161 “Il Secolo” 13 gennaio 1922 Fra due disperazioni Lettera aperta a Guglielmo Ferrero Caro Ferrero, Le considerazioni che giorni fa, con una cortesia di parole nei miei riguardi di cui Le sono infinitamente grato, pubblicava nel Secolo a proposito del mio volumetto sui Relativisti Contemporanei mi suggeriscono in risposta alcune riflessioni che chiedo il permesso di esporre ai lettori del Secolo. Ella è d’accordo con me nel giudicare l’inaudito dilagare delle dottrine relativista in Germania e, di là, in tutta Europa, come ultimo atto, per ora, nel mondo delle idee della crisi mondiale aperta nel fatale agosto 1914, crisi alla quale ha messo, e doveva logicamente metter capo, la civiltà capitalistica. Civiltà essenzialmente dinamica volontaristica attivistica, dico io, civiltà la cui anima profonda è la volontà di potenza, la sete è frenesia di azione, onde l’uomo considera il mondo come docile materia della sua attività, grazie alla quale egli va lentamente rimovendo sempre più lontano da sé ogni limite che lo serra e costringe, approssimandosi così sempre più, se pur senza giungervi mai, all’assoluta e divina onnipotenza. Civiltà quantitativa, dice Lei, come quella che ha rovesciato e distrutto tutte le qualità create dalle civiltà precedenti, cioè tutti i limiti, principii, convenzioni, tradizioni, autorità, regole, elaborati in un secolare travaglio dalle anteriori civiltà, ed ha rotto ogni diga dinanzi all’infinita attività e libertà dello spirito. Come vede, nel giudizio sulle caratteristiche essenziali della civiltà contemporanea noi andiamo abbastanza d’accordo, solo che, mentre io la considero come una civiltà animata, al pari di tutte le grandi ed originali civiltà fiorite sulla terra, da un principio sui generis, che, man mano ch’essa avanza nella sua storia, si va facendo sempre più chiaro, evidente e trasparente a sé medesimo e perciò stesso si va realizzando sempre più in tutta la purezza della sua natura, Ella considera o dovrebbe logicamente considerarla come degenerazione e negazione di civiltà, civiltà consistendo per lei essenzialmente in un sistema di principii, convenzioni, regole, autorità, cioè qualità, elaborati ed imposti da una volontà grande, cioè da una volontà collettiva che riassorbe in sé la volontà individuale e la forza di piegarsi. Appunto perché nella civiltà quantitativa Ella, più che una civiltà sui generis, vede la degenerazione e corruzione di una civiltà, Ella spera, e Le è lecito sperare, in un rinsavimento degli uomini, in un ritorno ai principii di limitazione che furono proprii di vecchie civiltà qualitative e che ora sembrano morti per sempre, e sono invece, Ella pensi, semplicemente latenti. Menoottimista sono, e debbo necessariamente essere io, che nella civiltà capitalista e nella fase presente di essa che volentieri caratterizzerei come quella dell’imperialismo democratico in politica e dell’attivismo assoluto in filosofia, vedo non già la corruzione di una civiltà, ma la necessaria fase di sviluppo per principio profondo da cui è animata la civiltà capitalistica. È su questo punto che il dissen- 162 λeússein - n. 2 - 2010 Inediti e Rari so fra Lei e me è veramente profondo e insanabile. Ella crede (e deve crederlo, se lo va invocando) che si possa tornare indietro. Io credo, invece, che si andrà avanti, sempre più avanti, e con ritmo tanto più accelerato, quanto più netta e precisa è la coscienza che lo stato d’animo, che è alla base della civiltà capitalistica, va assumendo di sé, fino a che questo si sia consumato ed esaurito per intero. Deriva da questa persuasione profonda quello che Ella chiama il mio vagabondare sulle rive del lago senza risolvermi mai a traversarlo ed a scampare sull’altra riva. Gli è che, per me, quello che a Lei par lago è un oceano in tempesta, tempesta che si va facendo sempre più alta e tremenda, ed io non vedo riva a cui riparare, né zattera su cui avventurarmi. *** Quanto a Lei, crede, evidentemente di essere al sicuro dall’uragano e di sentirsi la terra ferma sotto i piedi. Mi consenta, l’illustre e caro amico, anche se ciò possa recarle dispiacere e sembrarle nera ingratitudine, di disingannarla completamente. La sua filosofia della vita e della storia, quella filosofia di cui il libro Fra i due mondi contiene l’esposizione migliore che ella ne abbia dato, di cui gli altri libri La vecchia Europa e la nuova e Memorie e confessioni di un sovrano deposto sono le conseguenti applicazioni, quella filosofia – dico – è, in fondo in fondo – lo crederebbe? – niente altro che la filosofia dell’illimitato di cui il secolo XIX si alimentò così abbondantemente e di cui le filosofie relativiste oggi in fiore sono, per ora, l’ultimo avatar. Stringi stringi, tutta la filosofia enunciata in quel suo libro si riduce a questo: lo spirito umano è avvolto da tutte le parti dall’infinito, ma per la 163 sua limitazione fondamentale, non riesce a prenderne possesso che per frammenti successivamente cumulatisi. Lo spirito è, sì, sempre serrato e stretto in un limite, ma non in un limite fisso immobile, bensì in un limite che esso va spostando all’infinito, benché non possa mai del tutto rimuoverlo. Il suo progresso consiste appunto nello spostamento graduale del limite, nell’accumulo successivo e graduale di principi di modelli di tradizioni che mutino, sì, ma con un moto lento e regolare, sì che si conservino e si organizzino senza distruggersi reciprocamente, realizzando sempre più riccamente le infinite possibilità che lo spirito umano porta nel seno. Ma, di grazia, non è forse questa la filosofia del Progresso inteso come superamento, come negazione che è conservazione ed inveramento, di cui, da Fiche in poi, si è nutrito tutto il secolo XIX, di cui la filosofia della pratica di Croce è la più chiara formulazione che se ne sia fatta qui da noi. Questa filosofia del Progresso o, se piace meglio, della Vita come Storia o Progresso (e niente altro che questo vuol dire, in fondo la famosa identità crociana di storia e filosofia, in cui Storia sta per Progresso e Filosofia per Spirito) non è che traduzione idealogica della fase riformista ed evoluzionista degli Stati occidentali di Europa: è la filosofia dell’azione, ma di un’azione lenta, cautelosa, che si muove col passo di piombo e non vuol perdere nulla dei risultati già conquistati, ma conservarli, accumularli, farne boule de neige e valanga. È la filosofia che corrisponde alla pratica collettiva ed in grande stile del risparmio, ad una concezione borghese della vita, per la quale il pregio e la dignità dell’esistenza sono riposti nel 164 lavoro, e il lavoro si misura dal risultato, e i risultati valgono tanto più quanto più hanno forza di far mucchio, di collettivizzarsi e spersonalizzarsi. Ferrero, come Croce, vorrebbero restar fermi a questa dottrina, che essi considerano come la verità morale assoluta, come il codice eterno della vita morale, e, in realtà, è la morale che corrisponde ad un determinato periodo della storia dei popoli europei, periodo che – come tutti vedono – è ormai finito o, se piace meglio, superato. Poiché, grazie alla pratica della vita di cui quella dottrina era la teorizzazione, venne su una nuova generazione, cui quel movimento lento e cauteloso, quel non muovere mai un passo innanzi senza prima essersi assicurati che il terreno fosse ben saldo sotto i piedi, venne ben presto a schifo e noia. Concepito lo spirito come superamento eterno di un limite che più oltre spostato più oltre perpetuamente risorge, perduta la speranza di arrivar mai ad una meta in cui quel moto ascensionale si fermasse e spirasse, era fatale che lo spirito volesse il moto per il moto, l’azione per l’azione, senza preoccupazione alcuna λeússein - n. 2 - 2010 del risultato cui moto ed azione mettono capo. Agire solo è bello, e tanto più bello quanto più intenso e potente, dove che sia che l’azione vada a finire. Dallo storicismo o attivismo prudente, moderato, legalitario, borghese, risparmiatore ecco necessariamente sgorgar fuori il mobilismo assoluto, l’assoluto attivismo e relativismo. Ecco, in Italia, al giolittismo succedere il fascismo, a Croce succedere Gentile, la fortuna del quale, presso la giovane generazione, che ha fatto la guerra al fronte ed ora fa la guerra civile in casa, si piega col fatto che in Gentile è molto più vivo, acuto e pungente che in Croce il senso dell’attività dello spirito o dello spirito come assoluta ed incondizionata attività. Con quale diritto, caro Ferrero, condanna quelle dottrine attiviste che sono la legittima filiazione del punto di vista storicista che è anche il suo ed al quale Ella si vorrebbe fermare, ma al quale non si vuole non si può fermare la Vita? La terraferma sulla quale Ella crede di poggiare tranquillo, non è, in realtà, che una modesta isoletta, cinta tutta intorno dalle acque di un fiume che offre una certa sicurezza a Inediti e Rari chi vi sta sopra, finché il fiume scorre con un corso moderato e tranquillo. Ma che le piogge del cielo o un più abbondante getto d’acqua dalla sorgente gonfino le acque del fiume, e la isoletta sprofonderà nei flutti in tempesta. Se Ella vuole stare veramente al sicuro, se vuol poggiare davvero i piedi sulla terraferma, sa cosa deve fare? Deve fare un salto indietro, non di cinque o di sei ma di venti secoli almeno e rifugiarsi sul terreno della civiltà greca. Là si che davvero verità, bontà, giustizia, bellezza sono realtà esistenti in sé, al di fuori dello spirito, prima ed indipendentemente dall’attività sua, e di cui allo spirito non resta che prendere atto ed inchinarsi sommessamente. Là sì che davvero troverà quella oggettività di cui va in cerca, e che, finché resta sul terreno della filosofia idealistica del secolo XIX non troverà mai. Ma posto l’essere, la verità la bontà come cosa esistente in sé, fuori ed indipendentemente dall’attività dello spirito che la conosce e l’apprende, ne deriva necessariamente che lo spirito non ne sarà mai in saldo e duraturo possesso finché non si sarà confuso con l’essere la verità in sé e totalmente negato come spirito, ché, in quanto spirito, egli è fuori dell’essere e della verità. Donde il misticismo e l’ascetismo, nei quali, sviluppando il principio che è alla sua base, la civiltà antica va a finire. È disposto, egregio amico, a spingersi fin là? Si, Ella ha ragione: il soggettivismo assoluto conduce alla liquefazione dell’Universo. Ma l’assoluto oggettivismo conduce alla liquefazione dello spirito e di ogni sua attività. La sua posizione – mi consenta di dirglielo, illustre e caro amico - è equivoca e contraddittoria ed esposta agli attacchi dai due fianchi. Sentendo l’abisso sotto i pie- 165 di, Ella vorrebbe fermarsi a mezza strada, ma fermasi non si può. L’abisso chiama l’abisso, in cui tutte le civiltà vanno a precipitare, spremuto che abbiamo fino all’ultima goccia il principio che le muoveva ed animava: l’abisso in cui la nostra civiltà precipita ormai visibilmente, a sbalzi sempre più rapidi e furiosi. Ma questa posizione equivoca e contraddittoria ha pure il suo pathos, quel pathos che rende così vive le Memorie e confessioni di un sovrano deposto, il libro letterariamente più bello che Ella abbia scritto, quel pathos che di Ferrero fa così caratteristica voce del nostro tempo. Quanto a me io sto a guardare, cercando di fissarne, come posso qualche tratto, il dramma ideale di cui tutti siamo gli attori e gli spettatori, sforzandomi di comprenderlo e di abbracciarlo in tutta la sua orrida e grandiosa bellezza. Posizione di storico, se pure – questo sì – non freddo ed apata, ma commosso e palpitante. Quanto a credere di poterlo arrestare non ci penso neppure. Come ben disse il nostro amico Missiroli, nella prefazione al mio libricino: - Accade e più ancora accadrà quello che è inevitabile. Adriano Tilgher 166 λeússein - n. 2 - 2010 Inediti e Rari 167 “Il Secolo” 20 gennaio 1922 Il trionfo di Alverighi Lettera aperta a Adriano Tilgher Caro Tilgher, è dunque proprio vero che la civiltà moderna vuole e deve agire per il solo fine e bisogno di agire, “senza preoccupazione alcuna del risultato, a cui azione e moto mettono a capo?”. Ma quel che lei scrive con tanto vigore e con tanta chiarezza, io l’avevo già sentito dire, quindici anni fa, a bordo del Cordova, nelle solitudine dell’Atlantico, in quelle grandi dispute di cui sono stato il fedele stenografo, tra Arnaldo Alverighi e Emilio Rosetti. Alverighi avrebbe dunque ragione… Ricorda? Il vecchio savio, che tante cose mi insegnò venticinque anni fa nella sua casa ospitale di via Monte Napoleone e nella sua villa di Belluria, prese un giorno in parola l’Alverighi, il fortunato filosofo che ritornava in Europa mutato in milionario americano, il quale aveva affermato che ognuno è e deve essere padrone di giudicare bello ciò che gli piace, brutto ciò che gli dispiace. E concessagli questa piena libertà, di ragionamento in ragionamento, gli dimostrò che la sua ricchezza non gli poteva procurare nessun bene né fisico né ideale, perchè non c’era nessun criterio sicuro, per distinguere il bene dal male, l’utile dal dannoso, il piacevole dal doloroso, il vero dal falso, il bello dal brutto; e che tutte le qualità delle cose potendosi scambiare e invertire, la ricchezza non valeva né più né meno della povertà, e non c’era differenza dall’essere ricco dal povero. Acchiappato in questa rete dialet- tica, l’Alverighi si svincolò per un pezzo vigorosamente; sinché alla fine tentò liberarsi con uno strappo. La ricchezza? Non c’era che un modo serio e alto di desiderarla: in sé e non per i beni che può procurare. Arricchire per arricchire, senza inquietarsi dell’uso a cui possono servire le acquistate ricchezze; questa la vera saggezza! Ma che cosa rispose il Rossetti? Se ne ricorda? Prendendo lo spunto da casi e da eventi che avevamo sott’occhi, chiese all’Alverighi, se l’azione per l’azione poteva essere ideale della vita, anche per le donne. “Le donne – disse – sono su per giù la metà del genere umano e il grande impiccio di tutte le filosofie dell’azione. Se fare – la guerra, il commercio, il governo – è la ragione unica della vita, quale è il compito della donna, oltre al mettere al mondo dei figli e divertire gli uomini a tempo perso, sinché son giovani e belle?”. E Siccome l’Alverighi non gli poté rispondere che anche le donne, come gli uomini dovevano mettersi a produrre ricchezze per produrle, agire per agire, il Rosetti a poco a poco lo costrinse a riconoscere che la ricchezza non vale e non esiste, se non perché serve a procurarci certi beni; e che perciò anch’essa si scolorisce, rinvilisce e quasi si spegne in un pugno di cenere, se la qualità delle cose, confondendosi nelle menti, rinviliscono e si scoloriscono tutti i beni fisici e spirituali che l’uomo può desiderare. 168 λeússein - n. 2 - 2010 Inediti e Rari Se il Rosetti vivesse ancora, applicherebbe e allargherebbe facilmente, caro Tilgher, il suo ragionamento ai nostri tempi e alle sua dottrina, che è quella stessa dell’Alverighi, espressa e in forma generale. Le direbbe: “Agire per agire? Sia pure. Ma le forme dell’azione umana sono molte ed opposte. Agiscono tanto il muratore e l’architetto che edificano la casa, quanto il guerriero e l’insorto che la bruciano. Agisce l’ufficiale che conduce fuori trincea i soldati, quanto il pacifista, che predica tra le turbe la diserzione, come un dovere. Agisce tanto il fascista che rompe la testa al comunista quanto il comunista che spara al fascista”. “Or bene: un’epoca può, come spesso è accaduto, scegliere una tra queste diverse forme d’azione – la guerra o il commercio, per esempio – ed imporsela ad esclusione di tutte le altre o come la precipua. Ma per quale ragione farà questa scelta? Perché giudicherà che quella particolare forma di azione le può procurare certi beni più preziosi di tutti gli altri, o risparmiarle certi mali più funesti. L’azione dunque non avrà più per scopo se stessa, ma quel bene desiderato o quel male temuto. Supponiamo invece che un’epoca, desiderando confusamente molte cose opposte, non sappia scegliere: che cosa accadrà? Che agendo gli uni contro gli altri, gli uomini si azzufferanno senza tregua e dovunque; ed ogni gruppo combattente, per giustificarsi dinnanzi a se stesso e al gruppo nemico, cercherà di dimostrare che esso vuole il bene e il nemico il male. Ossia assegnerà per fine alla propria azione, quel tale bene o male, che vuol conquistare o respingere”. “Per esempio: fascisti e comunisti si rompono oggi la testa a vicenda. Ma c’è 169 un sol fascista o comunista, che pensi o dica di farlo, così, tanto per fare qualche cosa, per non rimanere con le mani in mano, per tenersi in esercizio? Se uno solo osasse, il mondo lo giudicherebbe, a ragione, un mostro o un pazzo. I fascisti rompono le teste comuniste, perché vogliono salvare la patria, che a loro giudizio, è un bene, e distruggere il comunismo, che è un male. I comunisti rompono le teste fasciste, perché, secondo essi, la patria è una pericolosa menzogna e il comunismo la salvezza del genere umano. L’azione degli uni e degli altri non ha per fine sé medesima, ma un che estrinseco all’azione stessa, vero o immaginario”. *** Mi pare, caro Tilgher, che alle sue obbiezioni avevo già risposto prima che fossero fatte, nel Tra due mondi. Che molti, non riuscendo più a raccapezzarsi nella propria coscienza e a sapere quel che proprio vogliono, si consolino oggi, dicendo che agiscono per agire, è verissimo. Che questo disordine sia per durare lungamente, è possibile. Che abbia partorito e partorirà pessime filosofie, è certo. Ma sarà uno dei tanti disordini e smarrimenti, che hanno colpito l’umanità nella sua lunga storia; non una forma nuova di civiltà. Una civiltà dell’“azione per l’azione” non può sussistere, perché “l’azione per l’azione” è contraria alla natura stessa dello spirito umano, e può essere al più, per i nostri tempi come per Alverighi, una disperata scappatoia per non confessare che non sappiamo quello che vogliamo. L’uomo agisce, perché appetisce certi beni o perché teme certi mali. Nessuna civiltà può agire, se non è spinta all’azione da una dottrina del bene e del male. 170 Difatti il secolo XIX, che è stato il più attivo dei secoli, è stato anche il più fecondo di queste dottrine. Le ha tutte abborracciate; ma ne ha abborracciate molte. Non c’è secolo che abbia promesso agli uomini tanti e così diversi paradisi. Altro che l’azione per l’azione! Il Progresso, la Libertà, la Rivoluzione, la Civiltà, la Democrazia, l’Imperialismo, il Socialismo, il Comunismo, sono altrettanti nomi, sotto cui scuole e partiti ci hanno promesso la felicità in terra, come premio della nostra attività. No, caro Tilgher, io non considero punto i nostri tempi cone “la corruzione e la degenerazione di una civiltà”. Non amo punto, anzi ho in orrore, la compagnia filosofica in cui lei vuole cacciarmi. E non credo di professare “una filosofia che risponde alla pratica in grande stile del risparmio, ad una concezione borghese della vita, per la quale il pregio e la dignità dell’esistenza sono riposti nel lavoro e il lavoro si misura dai risultati, e il risultati valgono tanto più quanto più hanno forza di far mucchio, di collettivizzarsi e spersonalizzarsi”. Il mio caso mi pare più semplice, che lei non supponga. Ho sempre ammirato la civiltà moderna come una grande civiltà, che ha compiuto meraviglie. Ma un bel giorno, un po’ cercando quel che si nascondeva dietro certe filosofie troppo vantate, un po’ osservando gli uomini, un po’ studiando il passato, un po’ riflettendo sullo spirito umano, sulla sua natura, mi sono accorto che questa civiltà era afflitta da una debolezza incurabile. Era conformata in modo da non poter tolerare più nessuna autorità stabile, antica, temibile, seria, vera, né nell’ordine temporale, né nell’ordine spirituale; da dover cercare λeússein - n. 2 - 2010 di costituire dovunque delle autorità false, posticce, scadenti, mutevoli, spicciole, giornaliere, che avessero paura di coloro a cui dovevano comandare: era perciò destinata a terminare in una confusione universale, in cui non avrebbe saputo più riconoscere non solo il diritto e il dovere, il bene o il male, ma neppure il danno e il vantaggio! Ho passato quattr’anni, dal 1909 al 1913, a meditare, approfondire, esporre questa verità, che poteva sembrare nel tempo stesso una semplicissima scoperta del senso comune, e una rivelazione apocalittica, capace di scuotere dalle fondamenta l’ordine della civiltà occidentale, allora saldo come l’ordine cosmico. Debbo però confessare che esposi questa terribile verità molto serenamente, perché non sospettavo punto che il disordine, annunciato con matematica sicurezza, era alle porte, e che avrebbe fatto irruzione come un uragano. Credevo porprio che sarebbe entrato furtivamente, come il ladro! Ma fosse una scoperta del senso comune o una rivelazione apocalittica, questa verità corrispondeva così poco alla “concezione borghese della vita”, che il libro, in cui l’esposi, fu ingiuriato, vilipeso, deriso, contraffatto con un furore indicibile da tutte le scuole e da tutti i partiti. Oggi ancora esso non è stato capito che in circoli elettissimi ma ristrettissimi, composti per la maggior parte di cattolici di alta cultura. Che la mia “posizione” sia, come ella dice, esposta agli attacchi, è vero. Che sia equivoca e contraddittoria, almeno per quanto concerne la diagnosi del male, di cui il mondo muore, non credo. Ma lei mi dirà, come mi hanno detto molti, che è inutile studiare il male, se non si cer- Inediti e Rari 171 ca anche il rimedio. Ed io le risponderò francamente che non sono alieno dall’attribuire a questa dottrina anche una certa virtù di farmaco, nel senso che essa possa indicare almeno la direzione in cui potranno trovare le vie dell’avvenire. Ma un giornale quotidiano è una specie di fòro affollato e rumoroso, dove si possono scambiare soltanto brevi e affrettati discorsi. Per discuter queste ardue questioni ci vorrebbero i recessi dei giardini di Academo. Cercheremo, se non proprio i giardini di Academo, di cui Silla rase al suolo i platani secolari per farne - egli pure! - delle macchine da guerra, qualche altro luogo meno turbolento del fòro, per continuare questa discussione. E cordialmente, in mezzo alla folla del fòro, la saluto. Guglielmo Ferrero