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LIVORNO
EI GIARDINI DI PIAZZA DANTE di fronte alla stazione cen-
trale il pensionato con i calzoni a pinocchietto chiama
il compagno delle carte sul cellulare e gli domanda
all’altezza di quale albero si trovi. Occhieggia l’orologio: «Bene, allora sarai qui tra meno di un minuto».
Quando arriva, tocca al secondo attaccarsi al telefonino per conoscere la posizione del terzo in avvicinamento. La scena si ripete fino a quando giunge il sesto, l’ultimo della banda. Ognuno ha il
suo albero di localizzazione. Qualcuno ha scritto che la follia è
originaria di Livorno. Se è vero, Massimiliano Allegri, da sempre e per tutti Max, ha goduto di una sorte favorevole o sofferto una sciagura. Dipende dai punti di vista. È stato concepito
in periferia tanto da sembrarne appena sfiorato. La sua follia ha il pentimento incorporato, una specie di optional sentimentale. È la pazzia calma di chi si prepara con cura, non
è andato oltre la terza media e oggi, a quasi cinquant’anni,
è in piedi alle sei e mezzo del mattino per studiare l’inglese
nonostante «il cervello sia più imballato delle gambe» e a
settembre, primo in Italia, lancerà un’app per allenatori
sul NFUPEP "MMFHSJ. Abbonarsi costerà nove euro al mese. L’uomo è estroso e pragmatico, riformista e conservatore, aziendalista e ribelle. Un ossimoro. Un’astuzia.
Da bambino non si è mai addormentato ascoltando
una favola: «Non ci credevo». Ha imparato presto a essere concreto: «La regola è vivere, che tu abbia mille
euro al mese o diecimila. Questa città mi ha insegnato a non patire le differenze, chi non ha nulla ragiona
come se fosse ricco sfondato. Io andavo male a scuola
e ambivo a fare il preside. Non ci prendiamo sul serio,
siamo difficili da capire. Cani che abbaiano molto e
mordono poco. Io mordo educatamente».
È cresciuto al Coteto, quartiere nuovo venuto su dove
alla fine degli anni Cinquanta c’erano strade di terra
battuta, cascine e covoni di grano. «Sono i posti della
mia infanzia, mi piace tornare al bar Ughi per far colazione». Della famiglia operaia conserva l’eleganza semplice dei gesti senza vergogna. A tavola apre la rosetta
di pane e ci ficca dentro tre fette di roastbeef preso dal
piatto. «Mio padre lavorava al porto, usava le mani, sui
palmi gli era cresciuta una seconda pelle da coccodrillo
a forza di sollevare casse». In banchina c’erano le squadre, chi era di turno alle banane della “Dole” bestemmiava per la fatica. Schiene piegate per spostare le “rulline”, ernia del disco garantita.
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UANDO LA SERA PAPÀ CI DICEVA domani sto
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container, dove tutto era meccanizzato, la
cena era una festa. Mamma faceva l’infermiera, tentò di stare a casa, ma uno stipendio non bastava, finì in una ditta di pulizie.
Ogni mattina si svegliava alle quattro». La
sorella Michela ha due anni meno di lui. Il
mio contrario, dice: metodica, ordinata, ansiosa. «Io invece ho seguito l’istinto. L’inconscio di una persona è un magazzino pieno di oggetti buttati là alla rinfusa a prendere polvere. Un giorno ci rovisti dentro e può
capitarti di trovare un tesoro. Sono stato un giocatore mediocre e senza rimpianti. Prima
trequartista, poi mediano basso. Nel 2000 sono a Pescara, ho trentadue anni. Sto facendo
allenamento quando all’improvviso il campo diventa lungo come la pista di un aeroporto.
Ho deciso di smettere in quel momento. Qualche tempo dopo ho cominciato a riflettere su
tutte le volte che avevo litigato con i miei allenatori, non perché mi tenevano fuori, ma perché difendevo le mie idee sul modo di pensare il calcio. Mi sono detto: perché non provi a
realizzarle per conto tuo?».
Si può costruire un allenatore, tirarlo fuori da una scatola di montaggio?
«Sì, se ci si accontenta. Ma esistono le categorie. Tra i chirurghi sono pochi quelli che
sanno operare a cuore aperto. Puoi illuderti di essere un grande pittore, ma non basta scavare un taglio nella tela per diventare Fontana. La magia o la possiedi o non la compri al
supermercato».
Lei ha sostenuto che nei successi di una squadra il tecnico conta a malapena il cinque
per cento. Che cosa ci mette nella sua quota d’incidenza?
«La fantasia e la capacità di gestire l’imprevisto. Le partite si preparano, ma non si prevedono. Mi succede di decidere una formazione il venerdì pomeriggio e di stravolgerla la
domenica sulla base di un’intuizione. Il momento migliore sono le sette e mezzo del mattino. L’ora alla quale solitamente contraddico me stesso».
Quando le è capitato l’ultima volta?
«Juventus-Real Madrid, semifinale di an- go periodo lo sono stato: sport, soldi, dondata. Mi si è accesa una luce in testa. Faccio ne. Avevo cinque anni quando mio nonno
giocare Sturaro e metto Vidal nel ruolo di mi portò all’ippodromo. Nacque una passiomezz’ala offensiva. Mi dicono: Sturaro? Sei ne travolgente per le corse. Ho scommesso,
ho vinto, perso. Sono stato anche proprietamatto! Ho avuto ragione».
rio di cavalli. Mai puntato un soldo però sul
Un presuntuoso, dunque.
«Sono molto sicuro di me. Dico le cose calcio, mai indirizzato un risultato. Nel
dritte per dritte, non mi aspetto gratitudi- 2001 mi beccai un anno di squalifica per un
ne, misericordia, empatia. Sentimenti che presunto illecito che non avevo commesso.
nel calcio non esistono più. Sono bravo a fin- Prosciolto qualche mese dopo. Ma la ferita
gere e a rifugiarmi nella bugia al momento ancora mi offende. Questo è un paese bigotto, puritano e feroce. Il passaggio da Milagiusto».
Ha dimostrato di essere un professioni- no a Torino mi ha fatto bene. Milano è perista della fuga. Da una promessa sposa, colosa e tentatrice: attrae, coinvolge, può
Erika, è scappato il giorno delle nozze a affondarti. Torino è misteriosa e austera, ti
ventiquattro anni, lasciandola sola mette in soggezione. Sono diventato pantosull’altare.
folaio. La sera vado al cinema o a cena con
«L’amore passionale, ammesso che esi- amici, la mattina mi sveglio presto».
sta l’amore, in me non è mai durato più di
Come si diventa amici di Massimiliano
tre anni. Quella volta decisi da solo, dopo esAllegri?
sermi tormentato per mesi. Avevo davanti
«Con la spontaneità e la generosità. Non
un muro alto tre metri. In quei casi hai due ho mai tradito i genitori, i figli e l’amicizia.
possibilità: provi a saltarlo e rischi di spac- Tre quelli veri: Giovanni Galeone, Ubaldo
carti le gambe o torni indietro. Io feci dietro- Righetti e Corrado Ottanelli che giocava
front e sparii per un po’. Poi c’è stato il ma- con me nel Livorno».
trimonio con Gloria e una figlia, Valentina,
Il suo legame con Galeone è un romanzo.
che oggi ha vent’anni. Infine Claudia, la naChe cosa resta da raccontare?
scita di Giorgio quattro anni fa, la crisi du«Giovanni mi ha reso una persona mirante la gravidanza e la rottura. Claudia e gliore, nei sei anni trascorsi con lui ho impaio siamo tornati assieme da pochi mesi, do- rato a stare alla tavola del calcio e sono dipo i miei casini, le mie cazzate. Ha sofferto, ventato persino più intelligente. Nel 2006,
sopportato, perdonato. Le devo molto».
quando fui esonerato dal Grosseto, mi chiaHa vissuto a mille all’ora. Adesso in qua- mò all’Udinese. Vieni, mi dice, farai l’ottile stagione si trova?
mizzatore. Non capisco, gli rispondo, che
«L’inverno, spero. Me la sono goduta. Se cosa significa? E lui: spiegherai ai giocatori
non avessi fatto il calciatore sarei diventa- che se sono capaci di fare la cosa più semplito un cazzaro, come dicono qui. Per un lun- ce in realtà in quel momento stanno facen-
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do quella più difficile. Ho guardato Zidane,
poi Messi e mi sono reso conto che Galeone
aveva ragione. I campioni non fanno mai
nulla di complicato, solo che lo fanno in maniera differente dagli altri. Il passaggio di
un calciatore normale va a trenta all’ora,
quello di Messi a settanta. Il divario è tutto
lì. Galeone mi ha introdotto ai segreti e ai
piaceri del buon vino, i rossi toscani, i piemontesi di Gaja, i bianchi del Sud».
A quando risale l’ultima rivoluzione del
calcio?
«Al 1992, con l’abolizione del retropassaggio al portiere. Venne levato il fermo.
Tutto diventò più veloce. Un tempo a un
quarto d’ora dalla fine le partite morivano,
Boniperti lasciava lo stadio, oggi negli ultimi dieci minuti le gare si rovesciano. La tecnica è diventata fondamentale, i terreni di
allenamento sono stati accorciati per affinare il gioco nello stretto. I match si vincono in due modi, con l’occupazione militare
dello spazio e con la qualità degli interpreti. Il tempo per pensare con il pallone tra i
piedi si riduce, alla fine la palla va per forza
a quello più bravo».
I moduli, gli schemi. Quanto valgono?
«Poco, nulla. Devo ancora trovare quello
che mi spiega l’utilità di uno schema. Lo sa
che durante gli allenamenti spesso non riusciamo a far gol nemmeno nel cosiddetto
undici contro zero, giocando cioè contro sagome di plastica? La media di realizzazione
oscilla appena tra il trenta e il cinquanta
per cento».
Avverto nelle sue parole la nostalgia del
numero 10. Ne cerca uno per la sua Juventus. È un bisogno tattico o il desiderio di specchiarsi nel suo narcisismo?
«Entrambe le cose. Senza Tevez e Pirlo la
Juve dovrà cambiare, sperimentare nuove
soluzioni. Vorrei un inventore di gioco mai
banale, la variabile impazzita all’interno di
un piano tattico equilibrato. Il narcisismo
in modica quantità non è dannoso alla salute. Mi piacciono Isco del Real Madrid e il
brasiliano Oscar, tra gli italiani due giovani: Berardi e Bernardeschi».
Antonio Conte, suo predecessore alla Juve, è un massimalista radicale incapace
di mediazioni. Lei sembra invece un uomo di piccoli gesti, un buffetto, la mano
sulla spalla, di sguardi e non di urla, uno
che tra l’altro non si porta i compiti a casa, che distingue la professione dalla vita, che preferisce la seconda alla prima.
«Sul piano dell’ambizione credo che nulla mi distingua da Conte. Lui ha vinto tre
scudetti di fila, io voglio il quinto consecutivo. Ho accettato la Juventus anche per una
rivincita, ho gente a cui far rivedere certi
giudizi. Se passassi le notti a studiare partite in tv perderei la lucidità. Mi bastano cinque minuti, al resto ci pensa lo staff, loro sono pagati per essere più bravi di me. Amo
molto il mare e sa perché? Perché non si riesce a vederne la fine, il mare è l’immagine
della libertà perfetta».
Come si gestisce uno spogliatoio di giovani milionari?
«Il dialogo è complicato. Entri nello stanzone e trovi quasi tutti con le cuffie alle
orecchie, la musica ad alto volume. Nessuno parla con nessuno. Servono autorevolezza, rispetto e pazienza. Non è mio costume
sottolineare ogni giorno che sono io quello
che comanda, gli spiego che sono costretti
ad ascoltarmi non perché sono più bravo,
ma semplicemente perché sono più vecchio. Ci sono talenti che sono come le onde,
penso a Morata e a Coman per esempio. La
loro parabola si alza e si abbassa, bisogna
dosarli, aspettare il tempo giusto. Alcuni
vanno presi per mano ed educati come
bambini, da altri trovo collaborazione,
esperienza, personalità. L’amicizia, quella
preferisco di no».
Ha litigato con molti. Riassumo per difetto: Pirlo, Seedorf, Ibrahimovic, Zambrotta, Sacchi. Perché?
«Carattere, divergenze, ma anche esagerazioni. Seedorf voleva discutere ogni dettaglio, parlare, parlare, parlare, mi cedevano i nervi. Gli dicevo: Clarence, se si comportassero tutti come te mi servirebbero giorni di settecento ore l’uno. Mai avuto contrasti con Pirlo, il trasferimento alla Juve lo ha
rivitalizzato anche sul piano psicologico, i
cambiamenti spesso rappresentano una catarsi. In quella stagione, la mia terza sulla
panchina rossonera, il Milan non aveva più
Nesta, Gattuso, Ibra e Thiago Silva. Sarebbe stata dura anche per Andrea. In tv divento antipatico, lo ammetto. Sono a disagio,
farei volentieri a meno di tv e moviole».
Ha mai consigliato a un giocatore di
smettere?
«Mai, ma a tutti dico: uscite da vincitori e
sarete rimpianti».
Quando giocava lo chiamavano "DDJVHB
per quanto era magro. Non si è mosso dai
suoi settanta chili eppure per il piccolo Giorgio quel fisico di fil di ferro è un riparo sufficiente. Il bambino è sudato, reclama il suo
papà, gli si aggrappa a una gamba, arriva
dal campetto con l’erba sintetica, gli dice
che ha fatto quattro gol e che adesso ha «sete di acqua gassa». Ci sono sere in cui lo costringe a rivedere su internet qualche spezzone della partita con il Barcellona. Lui non
ha mai voluto riguardarla per intero.
Avremmo avuto bisogno di una finale in
più, dice, giocata, che so, un paio di anni prima, e allora a Berlino avremmo vinto: «Dopo l’1-1 avremmo segnato noi, loro erano
storditi, avevano paura. Invece arrivavamo dal nulla e ci hanno fregati». Si guarda
bene dal confessarlo, ma se avesse centrato il Triplete forse avrebbe salutato. Esci da
vincitore e sarai rimpianto. Il suo tempo in
Italia è quasi finito, non combatte con l’inglese per nulla. Si fida dell’istinto e della
provvidenza. Crede in Dio, ogni sera rivolge un pensiero a chi ha perduto, a quelli
che ci sono ancora e a se stesso.
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PARIGI
OLLETTINO C 49. Alle autorità responsa-
bili della misurazione e della distribuzione del tempo. Nella notte fra il 30
giugno e l’1 luglio 2015 inseriremo il
secondo intercalare. L’esatta sequenza di dati sarà la seguente: 23h 59m
59s, 23h 59m 60s, 0h 0m 0s”. Daniel
Gambis è il direttore dell’istituto che
controlla il tempo ufficiale del mondo.
Dirama la circolare dall’Osservatorio
di Parigi a tutti gli altri osservatori del
pianeta. Grazie a lui il 30 giugno ci sarà concesso un secondo di vita in più. Il fatto è che la rotazione terrestre ha una velocità irregolare a causa delle forze di marea, dei terremoti e di altri eventi naturali che ne rallentano o accelerano il corso. Mentre gli orologi atomici, che segnano il tempo coordinato universale, hanno una cadenza fissa e precisa. Le due rotazioni, della Terra e delle lancette,
prendono così direzioni diverse. Il secondo intercalare le riavvicina, portandoci nella stessa dimensione. Dal 1972 a oggi ne sono stati inseriti venticinque. Cosa ne abbiamo fatto di
questo tempo in più? Quanto dura davvero un secondo e come può cambiare la vita? Per
rispondere a queste domande ho visitato gli uffici in cui si decidono le nostre ore. La rotazione terrestre e la rotazione dell’umanità. Questo è il mio bollettino dall’Osservatorio di
Parigi, secondo per secondo.
Daniel Gambis, dicevamo. È in ritardo di 29m 08,51s. Mi soffermo ad ascoltare la musica classica in filodiffusione nell’ascensore. Al quinto piano c’è l’Istituto di Meccanica Celeste e di Calcolo delle Effemeridi, all’ottavo piano il Laboratorio di Studi sulle Radiazioni
della Materia in Astrofisica, al quarto il Sistema di Riferimento Spazio Tempo, che fa parte dell’International Earth Rotation and Reference System. È qui che sono diretto.
Le porte si aprono su un corridoio buio e stretto. Accanto alla macchinetta del caffè ci sono dei calici e una bottiglia di rosso del 2011, quell’anno il secondo intercalare non è stato
aggiunto. Leggo il titolo di un articolo appuntato in bacheca, -FT NBÔUSFT EV UFNQT, due
“padroni del tempo” mi indicano l’ufficio del direttore.
Daniel Gambis ha un sorriso gentile, una
sessantina d’anni, un
completo
marrone,
una scarpa slacciata,
un ciuffo slacciato anche lui dai capelli, un tono di voce calmo e rilassato e mi dice che ha
tardato perché alcuni
pedoni camminavano
sui binari e il tram procedeva lento. Lavora all’Osservatorio di Parigi dal 1978. Il 16 settembre di quell’anno,
alle 9h 05m 55s ore locali di Tabasi, Iran,
un terremoto causò la morte di più di diecimila persone. La Terra, scossa, aumentò la
rotazione e così il 31 dicembre venne aggiunto un secondo intercalare. Sulla sua
scrivania sono accumulati fogli, bigliettini,
cartoline, una lettera dell’istituto di navigazione e un apparecchio radio anni Novanta.
Mi fa venire in mente una puntata del telefilm "J DPOGJOJ EFMMB SFBMUË in cui un vecchio apparecchio radio si sintonizza sulle
frequenze del passato e il protagonista, un
anziano in un ospizio, ascoltando le trasmissioni ringiovanisce. Gambis ascolta
musica jazz. Sulla parete alle sue spalle ci
sono alcuni poster di conferenze scientifiche e la locandina del concerto di un trio
jazz. Lui è uno del trio, sax tenore: «Ho studiato in Brasile, lì avevo degli amici che suo- na, appuntamenti nello stesso momento
navano bossa nova e appena li ho visti suo- ma senza riuscire a incontrarsi, riunioni di
nare per la prima volta mi sono detto “Farò lavoro in vacanza. Solo un team di controlloquesto nella vita!”, ma non l’ho fatto, quin- ri potrebbe riportare l’ordine, vigilando suldi la mia scelta di un secondo è stata una la popolazione affinché nessun cittadino
scelta mancata».
perda tempo nella propria vita. Gambis mi
Suo padre era il contabile del circo Me- mostra due libri di science-fiction, *M HJPSOP
drano. Gambis andava a vedere lo spettaco- DIF MB UFSSB IB TNFTTP EJ SVPUBSF TV TF TUFT
lo ogni tre settimane. Il suo numero preferi- TB di Jean-Marc Auclair e *M CJ[[BSSP JODJ
to era quello del clown Grock, figlio di un EFOUF EFM UFNQP SVCBUP, di Rachel Joyce, tiorologiaio, divenuto uno dei più popolari tolo originale %FVY TFDPOEFT EFT USPQ, ampagliacci di quel periodo. Da adolescente bientato nel 1972: nel romanzo i due seconascoltava il Tour de France alla radio e ap- di intercalari riportano un bambino a vivepuntava su un quaderno tutti i ritardi dei ci- re due secondi in un’altra epoca. Nel proloclisti. Oggi capita che sua moglie gli chieda go c’è un ringraziamento a Gambis.
che tempo fa e lui le risponda con l’esatta
Lo ringrazio anch’io prima di dirigermi
temperatura, «19°C, per lo più soleggiato, nella stanza dell’Orologio Parlante dove inumidità al 44 per cento». Il suo proverbio è contro l’addetto alle sequenze temporali. È
“È urgente non fare niente”. Mi spiega che un ingegnere italiano che lavora qui da vense la durata di un secondo sulla Terra è im- ticinque anni. Un albero piantato, con una
percettibile, nello Spazio assume un’impor- grande barba bianca a coprirgli metà voltanza enorme e che se la rotazione terre- to, un paio di occhialini in bilico sulla punta
stre non andasse di pari passo con il tempo del naso, i capelli lunghissimi che scendoconvenzionale, in un lontano futuro l’uomo no su una maglia a maniche corte bianca e
potrebbe ritrovarsi a pranzare a mezzanot- che s’intrecciano ai fili e agli spinotti dei terte. Cene a lume di candela alle otto di matti- minali. Un mago, un hippie, un naufrago
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nella sala del tempo. Mi mostra un cavo collegato a un calcolatore e mi dice, «Il tempo
è qui. Se mi sposto di trenta centimetri nello Spazio, mi sposto di un nanosecondo. Il
tempo è una dimensione fisica».
Al polso non ha orologi dall’età di dieci
anni, da quando giocando a battaglia di pietre nel suo paese, in Piemonte, venne colpito al polso e il quadrante andò in frantumi.
«Poi se lavori con il laser dell’orologio atomico non devi avere nulla perché prima o
poi metti la mano nel fascio. Infatti ho un
sacco di magliette piene di buchi».
Mi racconta che nel 1676 l’astronomo danese Ole Rømer scoprì proprio qui la propagazione della velocità della luce, mentre
era in visita per incontrare l’allora direttore dell’Osservatorio, Giovanni Cassini, «Io
in Italia abitavo in via Giovanni Cassini».
Martedì 30 giugno a mezzanotte non sarà
in questa sala. Il secondo intercalare sarà
inserito automaticamente, ma alle due del
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mattino un suo giovane collega chiamerà
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l’Orologio Parlante per accertarsi che tutto
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sia andato a buon fine. Allora dal sottofon7*7& 26&- 4&$0/%0
do di aria condizionata che soffia rumorosa
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e feroce nelle tubature sopra il soffitto, si lei46- 4&5 40/0 530110
verà una voce che pronuncerà l’ora esatta.
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Azioniamo la levetta “1BSMBUFVS” e le voci
di un uomo e di una donna annunciano la
data, le ore, i minuti e i secondi
precisi, “Fra quattro rintocchi
saranno le...”, seguono quindi
quattro suoni acuti e arriva
l’ora annunciata.
Sono le 11h 52m 32s eppure
fuori dalla mensa si è già formata la coda. Gli impiegati del tempo si siedono ai tavoli, guardano il parco fuori dalle finestre.
Si fermano per un attimo. Io
esco dall’Osservatorio alle 14h
17m 06s. Camminando mi ritro.*$)"&- 1)&-14 )"
vo in una grande casa d’aste.
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Tre piani, sedici sale, e come
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Gambis con il suo quaderno dei
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ritardi del Tour de France, inau%* $&/5&4*.0
guro un quaderno per scoprire
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quanto valgono in denaro i se.*-03"% $"7*$
condi. Una coppia di cristalli di
Boemia, prezzo di partenza
700 euro, raggiunge in 1m
39,79s la cifra di 4.700 euro. Un
uomo srotola delicatamente un’antica pergamena giapponese impiegandoci 29,80s
e 50mila euro. Una raccolta di lettere originali di Alexander Dumas in 36,41s arriva a
700 euro. Una veste da sacerdote in 13,32s
trova chi la indosserà.
Per un’ora rimango affascinato dal rito
della vendita. Penso al tempo infinito che
può starci in un secondo.
Il 30 giugno del 1985 viene aggiunto un
secondo intercalare e il giorno successivo,
a Padova, un uomo spara alla madre con un
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fucile da caccia. Senza quel secondo in più
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si sarebbe fermato all’idea del delitto e non
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avrebbe avuto il tempo di premere il grillet%* -&5563" 7&-0$&
to. Il 30 dicembre del 1990 viene inserito
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un secondo intercalare. La sera dopo gli abi3*&4$& " -&((&3&
tanti di Berlino hanno così voglia di guarda'*/0 " 1"30-&
re avanti che l’orologio della città segna la
mezzanotte in anticipo, ingannando il secondo in più.
Il 2 ottobre del 1959 (in quei giorni lontani l’essere umano per misurare la rotazione del pianeta Terra guarda ancora su in alto, al cielo) va in onda negli Stati Uniti
d’America la puntata -B CBSSJFSB EFMMB TPMJ
UVEJOF del telefilm "J DPOGJOJ EFMMB SFBMUË.
L’episodio si conclude con questa voce fuori campo, “Lassù c’è l’immensità dello Spazio, il senso dell’infinito. Lassù c’è un nemico che si chiama solitudine. Se ne sta lì con
le stelle e aspetta, aspetta con la pazienza
dell’eternità, impassibile, ai confini della
realtà”.
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UTTO COMINCIA QUANDO, LA NOTTE IN CUI MUORE VISCONTI, qual-
cuno svaligia la sua villa di Castel Gandolfo. Il regista non vi
aveva mai abitato, ma la grande dimora custodiva materiali
inestimabili. Indisturbati, i ladri trascinano in giardino molte
casse contenenti documenti. Non trovando preziosi, abbandonano sul posto «una marea di detriti, avanzi, scorie, in una specie di desolata Pompei» spiega oggi Quirino Conti, stilista, regista e scenografo per Lattuada, Fellini, Welles. Molto andò
smarrito, e il vento spinse via le povere carte sin nella cavea
del vulcano lì accanto. Solo più tardi gli eredi recuperarono i resti scampati al disastro. E qui, sebbene estraneo alla vicenda,
va ricordato un pensiero del grande architetto Alvar Aalto:
“Le poesie scritte sulla sabbia non servono né agli editori né alle riviste. Il loro editore è il
vento. Un buon editore”. In questo caso, purtroppo, non fu così. Infatti quei bauli non contenevano versi, ma tutta la produzione di Visconti: sceneggiature e corrispondenza, foto e
testi. Solo anni dopo, grazie alla Fondazione Istituto Gramsci, si raccolsero i fogli perduti
— perduti, inutile dirlo, come il 5FNQP che dà il titolo a quell’opera di Proust cui Visconti si
dedicò tanto a lungo. Ma ecco la sorpresa: fra i reperti smarriti, la parte più integra («Traboccante di vita», precisa Conti) risultò proprio la trasposizione cinematografica della 3F
DIFSDIF: appunti e illustrazioni raccolti in una scatola siglata UA35. Nasce da questo scrigno “Alla Ricerca del Tempo Perduto, Visconti-Proust. Sulla Tracce di un Film Im- */ .0453" 0((* "--& /&--".#*50
maginato” (da un’idea dello stesso Conti, %&- '&45*7"- %* 410-&50 4* */"6(63"/0
direttore artistico per la Fondazione Carla $0/ 6/" 1&3'03."/$& "- 5&"530 $"*0
Fendi, che l’ha realizzata a Spoleto nell’am- .&-*440 -& %6& */45"--";*0/* $)*&4"
bito del festival diretto da Giorgio Ferra- %&--" ."//" %030 &% &9 .64&0 $*7*$0
ra). Occorre precisare che quella che si $)& $0.10/(0/0 i"--" 3*$&3$"
apre oggi è più di una mostra: è una sorta di %&- 5&.10 1&3%650 7*4$0/5*130645
installazione-performance in cui appaiono 46--& 53"$$& %* 6/ '*-. *.."(*/"50w
su grandi specchi — come delle visioni — i 3&"-*;;"5& %"--" '0/%";*0/& $"3-"
personaggi immaginati da Visconti per il '&/%* $0/ -" %*3&;*0/& "35*45*$"
film. Una performance felicemente proget- %* 26*3*/0 $0/5* * 5&45* %* &/3*$0
tata a partire da una performance tragica- .&%*0-* & * ."5&3*"-* %"--" '0/%";*0/&
mente realizzatasi quarant’anni fa, nella *45*5650 (3".4$* 4"3"//0 */ .0453"
notte del furto. Amico e collaboratore del '*/0 "- -6(-*0
regista, Enrico Medioli muove da là per ricostruire l’atmosfera di casa Visconti, raccontando come, un giorno del 1920, il giovane
Luchino vide suo padre assorto in un libro
giunto da Parigi: «Accortosi del mio stupore mi confessò che soffriva a ogni pagina
voltata, pensando che ben presto quel romanzo prodigioso sarebbe arrivato alla fine. Era %V DPUÏ EF DIF[ 4XBOO di Proust.
Avrò avuto diciassette anni… Be’, fu proprio una febbre… E io sono rimasto lì. A
Proust».
Nato nel 1906, il contino fu un autentico
Guermantes (la nobile famiglia della 3F
DIFSDIF), erede di chi resse la città di Milano per secoli, ne fece costruire la cattedrale
e fu presente nella storia del Teatro alla Scala. Ripercorrendo la tortuosa avventura del
«non film», Medioli sottolinea le assonanze
fra lo scrittore francese e il suo potenziale
regista: il ricordo di un’infanzia mitizzata,
l’evocazione di un mondo sull’orlo dell’abisso, l’inafferrabilità dell’amato, l’amore per
la madre, l’omosessualità. Il caso volle che,
nel 1962, la produttrice Nicole Stéphane
(nata Rothschild e attrice negli &OGBOUT UFS
SJCMFT di Cocteau) acquisisse i diritti della
3FDIFSDIF, scegliendo René Clément e Ennio Flaiano come regista e sceneggiatore, e
pensando, per i ruoli principali, a Mastroianni e Jeanne Moreau. Ma Georges Beaume, agente della Stéphane e di Delon, consiglia: «Il regista ideale è Visconti». Detto
fatto, nel 1969 quest’ultimo accetta, mentre lo stesso Medioli e Enzo Siciliano lavorano a un nuovo trattamento, basato sull’intera opera. Nel frattempo, interrotta la col-
laborazione con Flaiano, a preparare un’ennesima sceneggiatura viene chiamata Suso Cecchi d’Amico. Ne verrà fuori una stesura in francese, fatta di soli dialoghi e descrizioni narrative, che inizia col soggiorno a
Balbec, e si conclude senza salti temporali
con la serata dai Verdurin. Suso Cecchi
d’Amico, con Mario Garbuglia, lavora al
progetto per otto mesi, passando al setaccio la Francia per sei settimane. Medioli ricorda i sopralluoghi a Parigi, poi nel castello di Ferriére, quindi a Combray e a Cabourg, la Balbec della 3FDIFSDIF: le foto
son qui a Spoleto. Tra gli aneddoti più curiosi, quello secondo cui “gli italiani” riuscirono a convincere le autorità a posticipare la
demolizione del Grand Hotel, là dove Proust era solito alloggiare. Quanto agli attori,
se alcuni avevano già firmato, molti restavano in ballo. Rispetto a Charlus, la preferenza era andata a Marlon Brando, ma la casa di produzione puntava su Laurence Olivier. Inoltre, visto che Brigitte Bardot desiderava apparire, le era stato affidato il piccolo ruolo di una Odette invecchiata. In tutto ciò Piero Tosi disegna i bozzetti per i costumi. L’inizio delle riprese è previsto per
l’agosto del 1971, anno in cui cade il centenario dello scrittore. Visconti afferma: «So
fin d’ora che nessuno sarà soddisfatto, che
tutti protesteranno, contesteranno, resteranno indignati, offesi, scandalizzati. Non
me ne preoccupo. Lavoro in serenità, perché sono sicuro che dispiacerò a tutti».
Tutto procede, insomma, quando il progetto si ferma per problemi economici: il
preventivo, in effetti, è stratosferico. E qui,
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a sorpresa, Visconti dichiara di rinunciare al film. La produttrice si precipita a Roma, gli raddoppia il compenso.
Niente: il regista comincia a girare
-VEXJH. Mentre la casa di produzione passa agli avvocati, Nicole Stéphane, sentendosi tradita, intraprende a sua volta un’azione legale e si rivolge a Joseph Losey per la regia, sceneggiatura di Harold Pinter. Ma la situazione è bloccata: serve il permesso di Visconti, le major non sostengono il costo eccessivo. Morale: l’opera non vedrà la luce.
Visconti scomparirà nel 1976 senza mai
aver spiegato le ragioni del gran rifiuto.
Tuttavia, nota Medioli, il sogno infranto
continuerà a seguirlo. Così, ricreerà la
spiaggia di Balbec in .PSUF B 7FOF[JB, esalterà Wagner in -VEXJH e trasfigurerà
l’amore fra Charlus e Morel nella relazione
fra i personaggi della Mangano e di Helmut
Berger in (SVQQP EJ GBNJHMJB JO VO JOUFS
OP. Per non parlare de -JOOPDFOUF, in cui
prima viene ricostruito il salotto dei Verdurin, poi è messa in scena la fine dello scrittore Filippo D’Arborio (tanto simile al personaggio di Bergotte). Del resto Visconti confessa: «La mia ambizione più grande è che
Tancredi e Angelica, nella notte del ballo a
Palazzo Ponteleone, ricordino allo spettatore Odette e Swann». La foto finale dell’installazione a Spoleto ritrae la sceneggiatura posata sui quaderni autografi di Proust.
«Si tratta di un elogio della parola», termina Conti: «Segno che non c’è più spazio per
le immagini».
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LOS ANGELES
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Deve chiedere il permesso mentre oltrepassa le fila serrate, pazienti, nate per
assistere all’anteprima di qualche gioco. Sotto i riflessi viola e rossi mandati dagli schermi giganti che campeggiano sopra gli stand, si presenta tendendo la
mano e ostentando il suo esser fuori posto nel clamore post adolescenziale
dell’E3, la grande fiera dei videogame. È costretto ad alzare un po’ la voce per
farsi sentire. Si qualifica come oculista, chiede il permesso di controllare le nostre pupille e con un visore che ha attaccato al collo ne misura la distanza. Annota un numero su un cartellino, saluta, va via. Qualche minuto dopo finiamo
in una stanza che sembra esser parte della Nostromo del tenente Ripley, solo
in cartongesso dipinto alla bell’e meglio, indossando un paio di occhiali calibrati dal medico. Al centro un tavolo sul quale danzano degli ologrammi in alta definizione: figure, edifici, velivoli tridimensionali quasi di materia e a portata di mano. Il
campo visivo è limitato, basta inclinare un po’ la testa perché svaniscano. Eppure, malgrado i limiti, sono i primi esemplari di una nuova specie che potrebbe invadere il nostro mondo. Permettendo così ai pixel, fino a oggi confinati oltre uno schermo, di mischiarsi alla
realtà. Il miracolo si deve agli occhiali, gli HoloLens, nati in seno alla Microsoft a ventidue
anni di distanza dall’incubo vissuto da Chevette Washington. Noi però non facciamo i fattorini, come il protagonista di -VDF 7JSUVBMF di William Gibson, e gli HoloLens non permettono per ora di visualizzare in quali aree ci saranno le speculazioni più redditizie semplicemente dando un’occhiata dall’alto al profilo di una metropoli. Ma la visione è la stessa descritta nel 1993. A Los Angeles la chiamano “mixed reality”, sintesi fra i Google Glass e la
loro realtà aumentata e i visori per la realtà virtuale alla Oculus di Facebook.
«È un computer indossabile fatto a forma di occhiale», snocciola poco dopo Shannon Loftis, una donna pacata e cordiale che a Redmond hanno messo a capo del progetto. multinazionali, da Google a Qualcomm,
«Non richiedono di essere collegati a uno hanno stanziato per Magic Leap.
smartphone. È tutto al loro interno, comAnche in quel caso c’è di mezzo un camipreso Windows 10. Possono analizzare ce bianco, o qualcosa che gli somiglia. Rony
l’ambiente circostante e riconoscere i suoi Abovitz viene dal mondo della robotica apelementi, poco importa che siano pareti, se- plicata alla medicina. Nel 2004 fondò la Madie, tavoli, tappeti o quadri. E sono capaci ko Surgical Corporation, poi acquisita dalla
di creare degli ologrammi che interagisco- Stryker Medical a settembre del 2013 per
no con chi li indossa. Immagini per esem- un miliardo e 600 milioni di dollari. Nel suo
pio un personaggio digitale che dialoga con unico Ted, il ciclo di conferenze dedicate
noi seduto sul divano di casa» .
all’innovazione, si è presentato vestito da
Immaginare non costa nulla, ma di so- astronauta. Lo show, fra filmati, citazioni a
gni finiti nel dimenticatoio le autostrade 0EJTTFB OFMMP TQB[JP e un brano harddella tecnologia son lastricate. Anche se core suonato dal vivo, è stato incomprensistavolta, su questa nuova forma di realtà bile. Ma la sua idea di “realtà cinematica”,
ibrida che potrebbe permettere a un archi- il prossimo passaggio epocale nella rappretetto di visualizzare in tre dimensioni il suo sentazione visiva generata dai computer, è
progetto e di cambiarlo semplicemente chiara. Intende creare un visore simile a
muovendo le mani, i numeri sono troppo HoloLens con una tecnologia (pare) ancogrossi perché si tratti di una sperimentazio- ra più avanzata.
ne che resterà nei laboratori.
Al progetto sta lavorando la Weta di PeCome i 542 milioni di dollari che alcune ter Jackson e al fianco di Abovitz siedono il
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game designer scozzese Graeme Devine e
lo scrittore americano Neal Stephenson,
che tutti ricordano per 4OPX $SBTI del
1992. Dalla letteratura cyberpunk, o post
cyberpunk, viene l’idea di una forma di relazione con il digitale che superi tastiera e
display, poco importa se tattile, con tutto
quello che ne potrebbe conseguire sul piano economico per chi produce televisori e
smartphone. E viene sempre da lì la voglia
di aprire le porte del nostro universo a quel
che è confinato nei computer o nelle console, lasciando che una mail in arrivo fluttui
sul tavolo, uno show televisivo in streaming possa esser proiettato sulla parete
del soggiorno e poi spostato e rimpicciolito
per adattarlo a quella della cucina con un
semplice gesto, o che l’invasione aliena del
videogame di turno cominci fra i tavoli
dell’ufficio.
Questa unione fra mondi in Giappone la
rappresentano da anni, sempre su uno
sfondo a tinte cupe. Il “The World”, l’universo immersivo di )BDL che pian piano invade la realtà, parliamo del 2002, e ancor prima il “Wired” e i suoi doppi di 4FSJBM &YQFSJ
NFOUT -BJO del 1998.
«Fare previsioni è azzardato» » , mette le
mani avanti Peter Moore, uno dei gran capi
della Electonic Arts, colosso del settore dei
videogame, lo stesso di 'JGB, 4JN $JUZ, %SB
HPO "HF, .BTT &GGFDU, «ma certo, questa potrebbe essere davvero la prossima grande
rivoluzione. Ci vorranno ancora anni, quattro o cinque, e poi potrebbe cambiare tutto». Con ventidue anni di ritardo su Gibson,
tornato sul tema con l’arte locativa di (VFS
SFSPT del 2007. Opere d’arte, rievocazioni
di eventi drammatici, fatte di “mixed reality” e piazzate esattamente dove quei fatti
si erano svolti. Dal suicidio di una rockstar
all’incidente mortale di un attore di Hollywood. «Sorprendente, non trova?», nota
Shannon Loftis salutandoci alla fine dell’intervista. «William Gibson ha predetto molte cose. È stato una fonte di ispirazione importante per tutti noi».
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L CARRETTO PASSAVA/ E QUELL’UOMO GRIDAVA, GELATI!”.
La canzone di Lucio Battisti non specifica se a tirarlo fosse una bici (versione d’antàn) o se si trattasse invece di
una più moderna Ape, il motofurgoncino a tre ruote
che imperservava negli anni Sessanta davanti a scuole
e spiagge, primo esempio di GPPE USVDL formato mignon.
Fino a quel momento, l’unica proposta di cibi itineranti su ruote era identificata con i furgoni gastronomici, che abitavano i piazzali delle fiere e quelli davanti
agli stadi, i mercati alimentari e qualche punto strategico delle città, pronti a tacitare i morsi della fame di visitatori, tifosi, passanti, a cui aggiungere la variegata platea degli habitué nottambuli.
Addentando un robusto panino con salsiccia o una pizza piegata a libretto, nessuno pensava di regalarsi il pranzo dell’anno, e nemmeno un semplice intermezzo goloso. Si trattava di bocconi massicci e ad alto rischio di bicarbonato, da trangugiare per bonificare lo stomaco messo a dura prova da carni bruciacchiate, salumi di terza scelta e formaggi da. Da un punto di vista antropologico, l’uoplastificati figli della neonata industria ali- mo dietetico ha bisogno di certezze salutimentare.
stiche e identitarie. In caso di spuntini erMezzo secolo più tardi, la rivoluzione del ranti, una focaccia a lievitazione naturale,
GPPE USVDL sta trasformando l’offerta del ci- un hamburger vegano, un gelato certificabo su ruote per struttura e qualità, come to bio tacitano i sensi di colpa e affratellano
ben testimoniano i festival dedicati che la clientela. In quanto al gusto, selezionare
punteggiano il calenderio gourmet della adeguatamente le materie prime e alzare
nostra estate, in un inseguirsi di sandwich il livello tecnico significa differenziarsi dal
firmati da cuochi stellati e degustazioni di mare magnum di hot dog e pop corn, collofinger food, cocktail da mangiare e abbina- carsi nella scia della nuova gastronomia
d’autore, dare legittimità a menù dai prezmenti con birre artigianali.
Il cambiamento è doppio, e riguarda tan- zi non proprio stracciati.
E poi ci sono gli artigiani del cibo, strozzato il palato quanto il concetto di cibo da stra-
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ti tra la grande distribuzione che li considera fuori mercato e i nuovi circuiti commerciali pronti a ingoiarli in un sol boccone con
la scusa di dar loro visibilità e supporto economico. Grazie al patto di mutuo soccorso
con i neo-ristoratori furgonati, i produttori
virtuosi di mozzarelle, carni, verdure, pani, olio diventano protagonisti dei bocconi
prêt-à-porter, con tanto di nome e logo sulle lavagnette che campeggiano davanti al
bancone.
Certo, attivare un GPPE USVDL non è facile
come racconta il film americano $IFG, che
l’anno scorso ha incantato migliaia di ragazzi di tutto il mondo, con le disavventure
(a fine lietissimo) di un cuoco nevrotico, rinato vendendo sandwich cubani su un furgone itinerante tra Florida e California. Eppure, malgrado burocrazia e norme sanitarie spesso gratuitamente vessatorie, i fatturati delle officine che allestiscono i GPPE
USVDL sono raddoppiati, così come le richieste di licenze.
Che vogliate trasformarvi in cuochi su
ruote, o semplicemente godervi uno spuntino coi fiocchi, scaricate la app di 4USFFUFBU
'PPE 5SVDL 'JOEFS per trovare date e luoghi dei GPPE USVDL gourmet, e godervi finalmente un hamburger senza bicarbonato al
seguito.
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RRIVAVA IL MARTEDÌ e il
venerdì. Solo d’estate e
sempre nell’ora più calda,
quando gli uomini che si
erano alzati all’alba
riposavano a letto o sul fieno sotto il
portico e i bambini potevano giocare ma
senza alzare la voce per non disturbare.
Nel silenzio dell’afa la trombetta si
sentiva da lontano. «A ghè quel di slè» ,
c’è quello dei gelati. I bambini uscivano
tutti dalle case, come se fosse arrivato il
carro con Pinocchio e Lucignolo diretto
al Paese dei balocchi. «Pee...pee…».
Il gelataio mobile della bassa
modenese, invece, non aveva certo la
forza di gridare. Il suo food truck era
infatti un carretto-bicicletta, a tre ruote,
spinto su una strada non asfaltata. Un
cilindro con la panna, un altro con la
crema. In mezzo, coperta da un sacco di
juta, una grande stecca di ghiaccio.
Bisognava pedalare in fretta, fra i campi
di cocomeri e barbabietole, e canali con
anguille e pesci gatto, per riuscire a
vendere i gelati prima che si
squagliassero. I bambini andavano dalla
mamma a chiedere i soldi. Dieci lire per
una pallina, venti lire per due palline.
«Ma l’hai già preso martedì, non è che
ogni giorno…» . E allora, di nascosto, si
andava nel pollaio. Si rubava un uovo e
lo si portava all’uomo del carretto. Un
uovo, una pallina di gelato. I bambini
“ladri” non erano pochi, in quelle
campagne dove negli anni Cinquanta il
boom economico non era nemmeno
una speranza. “Quello dei gelati” aveva
infatti un cesto pieno di uova, materia
prima per il prossimo viaggio con panna
e crema. Si alzava in piedi sui pedali, per
ripartire. C’era un mezzo chilometro,
prima di arrivare all’altra casa. Per sua
fortuna anche là una nidiata di bambini
e un pollaio.
Un altro mini food truck percorreva la
Bassa: un carretto spinto a pedali, poi
“rinforzato” con l’applicazione di un
motore Garelli Mosquito. Arrivava
soltanto in certe domeniche, quando
nella chiesa in mezzo alla valle c’erano le
cresime o le prime comunioni. Ferruccio
detto Ferucìn vendeva arachidi,
castagne secche, semi di zucca e
liquirizie. Un sacchettino di arachidi
costava venti lire. Voleva soldi, non
uova. Poi alzava le sponde del suo
carretto e metteva in mostra tante
meraviglie: pistole da cowboys,
maschere e spade di Zorro, fucili per
sparare agli indiani… «Guardare e non
toccare è una cosa da imparare» , diceva.
E noi si stava lì, a guardare. Se non eri tu,
quello vestito da cresima o comunione,
inutile chiedere regali. Tanto, le fionde
fatte con le camere d’aria delle bici e gli
archi con i rami di salice erano “armi”
migliori di quelle di Ferucìn. Si
mangiavano le arachidi seduti accanto
al carretto e sputando le pellicine rosse.
E si pensava al martedì, a “quello dei
gelati”.
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“Eravamo felici e non lo sapevamo” e pensa alla sua Roma di quando era “regazzino“, una città “festosa, verace, solare”. Aveva sedici anni quando Pasolini gli propose una particina nel “Vangelo secondo Matteo”. Lui si vergognava, la cinepresa gli sembrava un
mostro. “Per me gli attori erano Totò, Charlot e Stanlio e Ollio. Pierpaolo mi rassicurò: fai solo quello che ti dico io, guarda qui, guarda là, sorridi”. E ora che torna in teatro con “Il vantone” ed è fresco
di Nastro d’argento alla carrie- sperato di fare cinema. «Per me gli attori erano Totò e Charlot e Stanlio e Oldice. «Pierpaolo mi rassicurò, non devi far nulla di trascendentale, solo
quello che ti dico io, guarda qui, guarda là, sorridi. Fu più problematico in 6D
ra, il suo maestro resta sempre lio»,
DFMMBDDJ VDDFMMJOJ, lì dovevo anche parlare. Ero un ragazzino, terrorizzato di trovarmi davanti a Totò, l’idolo che avevo adorato al cinema. Con lui e Pierpaolo
anche $IF DPTB TPOP MF OVWPMF e -B UFSSB WJTUB EBMMB MVOB, prima che il
quello: “Morto? Macché. È sem- feci
Principe morisse, nel ’67. Ecco come, improvvisamente, mi sono ritrovato a fare questo lavoro. Non oso ancora dire attore, attore è Gassman (col quale feci
io faccio me stesso, e per quello non c’è bisogno di scuola. Non
pre a lui che chiedo consiglio pri- "GGBCVMB[JPOF),
mi costa fatica, non metto in moto strategie».
I riccioli generosi sono gli stessi, candidi ormai, gli occhi festosi e la faccia
paffuta sempre quelli, Davoli non ha perso la romanità allegra e caciarona che
ma di accettare un nuovo lavo- conquistò Pasolini e che ora si riaccende di vitalità nel 7BOUPOF. «Pierpaolo
non chiese a nessuno consulenze sul dialetto», ricorda Davoli, «aveva lavorato
a lungo con Sergio Citti, uno che viveva alla Marranella, un romano vero.
ro: a Pa’, che dici, se po’ fa’?”
Quando arrivò dal Friuli furono i Citti a guidarlo nella capitale. Poi cominciò a
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ROMA
ASOLINI E SANDRO PENNA AVREBBERO ADORATO. Roma, periferia est.
Alluminio anodizzato a incorniciare gli abusi che negli anni Settanta sfregiarono l’edilizia spontanea del Dopoguerra. La periferia di Mafia Capitale è terra di gramigna, tra polvere e caligine i ragazzini si rincorrono lanciandosi pallonate e parolacce, dalle finestre un odore penetrante di soffritto e una voce di donna che strilla un elenco
di nomi da telenovela; a tavola! «Eravamo felici e non lo sapevamo», mormora
Ninetto Davoli seduto in un angolo del teatrino accanto alla parrocchia dove
sta provando *M WBOUPOF .JMFT HMPSJPTVT di Plauto tradotto in romanesco da
Pierpaolo Pasolini, stasera in scena al Festival di Spoleto (regia di Federico Vigorito; con Ninetto anche Edoardo Siravo e Gaetano Aronica). «La Roma di Pasolini è la mia Roma da ragazzo. Una città splendida e festosa, più verace e solare. C’erano un’altra sensibilità, un’altra poesia, un altro odore, altri modi di vivere, WPMFNPTF CFOF, concedersi. Nelle borgate, porte di casa sempre aperte,
le chiavi nella toppa, TJHOP DJBWFUF O HPDDFUUP EPKP DIF MIP GJOJUP eravamo
una grande famiglia. Pierpaolo adorava quella semplicità e quella sensazione
di estrema libertà, era sedotto dalla sincerità, dall’ingenuità, dalla purezza di
noi ragazzi di borgata. Oggi non ci si guarda più in faccia, perché tutti abbiamo la coscienza sporca. E si corre, ci si affanna per un’altra automobile e un altro cellulare. Non mi faccia ripetere luoghi comuni — TF TUBWB NFKP RVBO
OP TF TUBWB QFHHJP — ma è proprio così».
Pasolini aveva appena finito di tradurre il .JMFT quando conobbe Ninetto adolescente, nel 1963. «La prima volta che feci *M WBOUPOF fu
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vent’anni dopo con Franco Citti nel mitico Tendastriscie di Roma, e di nuovo nei primi anni Novanta con Paolo Ferrari», ricorda. «Riprenderlo ora è una gioia, quest’anno si celebrano i
quarant’anni della morte di Pasolini, 2 novembre 1975. Sarà
molto impegnativo per me, conferenze e proiezioni in tutt’Italia. La più grande soddisfazione è quando mi chiamano al MoMa di
New York o a Londra o San Francisco o a Parigi o a Berlino a presenziare mostre e eventi dedicati a lui. È amato, dai giovani soprattutto. Vogliono sapere, lo studiano, sono incuriositi da un pensatore
così lungimirante. Mi toccano come un santo solo perché l’ho conosciuto, come fossi un discepolo rimasto sulla Terra a diffondere
il suo verbo». Aveva sedici anni quando Pasolini gli propose una
particina nel 7BOHFMP TFDPOEP .BUUFP. Lui si vergognava, la cinepresa gli sembrava un mostro, non aveva mai sognato e tantomeno
condividere anche con me il dialetto, esaltò la mia romanità e insieme al dialetto la gestualità. %FWJ FTTF /JOFUUP mi diceva. A volte cercavo di fare il forbito, e
lui: “" /JOÏ NB EJMMP DPNF P EJSFTUJ UV OP ”. Pierpaolo si aggrappava a me.
Era come uno scambio di vite: io gli offrivo la mia spontaneità, lui la trasformava in arte».
I Davoli erano arrivati a Roma da San Pietro a Maida, provincia di Catanzaro, quando Ninetto aveva quattro anni, nel 1952. «Salimmo quassù a cercar
fortuna. E io per la verità l’ho trovata», sussurra distogliendo commosso lo
sguardo. Poco tempo per il sussidiario. Alla Borgata Prenestina anche i ragazzini aiutavano la baracca. «Facevo il falegname, lucidatore di mobili, lavoravo
per la famiglia, come si faceva una volta. Ho fatto il barbiere e il cascherino, la
mattina a scuola, il pomeriggio a imparare un mestiere». Il garzone del fornaio in bicicletta l’ha poi rifatto da attore in una pubblicità fortunatissima, dal
1971 al 1983. «Non aspiravo a diventare un numero uno, neanche in falegnameria per dire. Lavoravo e basta». Pasolini non l’avrebbe neanche notato se
fosse stato uno dei tanti pieni di sovrastrutture e «grilli per la testa». Lui, nelle
borgate, cercava materia prima per sceneggiature e scritti corsari. Da lì era
uscito 3BHB[[J EJ WJUB, il romanzo del 1955; lì era ambientato .BNNB 3PNB,
il film del ’62 che Ninetto neanche aveva visto quando pochi mesi dopo incontrò quel tizio che gli propose di far l’attore. «Mi chiese dove abitavo. Gli dissi:
RVBMDIF TFSB WJFOJ EB NF DIF UF GBDDJP DPOPTDF NJ QBESF F NJ NBESF. Venne e
restò a cena, mangiando quel che si mangiava in casa. I miei lo ammiravano,
non perché conoscessero il suo cinema (non lo conoscevo manco io), ma per la
gentilezza, la semplicità e l’umanità. Lo chiamavamo “Signor Paolo” — nessuno era mai stato così gentile e disponibile e umile con noi. Ci siamo frequentati
per tredici anni, nove film insieme. Ogni giorno per me un evento: le partite di
pallone, i sopralluoghi, il set, le vacanze. Nel 1965 mi portò a New York. 4V OB
NBDIJOB TDBQQPUUBUB MVOHIJTTJNB EB RVJ B MË JO NF[[P B UVUUJ RVFJ QBMB[
[Jy Si viveva con gioia. In borgata, tutti increduli, curiosi, contenti. Pensi che
successe quando videro sui giornali le foto di Cannes, JP JO QPTB DP B GBSGBMMFU
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GBOBUJDP DPNF GBOOP J SFHB[[JOJ».
Si sentì orfano, disorientato, perduto, dopo l’assassinio del regista. Non ha
mai smesso di dire come la pensa, che Pelosi quella notte lì non era solo, che
Pierpaolo era scomodo perché guardava lontano e non conosceva altra dittatura che quella della verità. «Per me non è mai morto, come fa a morire
uno che ha predetto il nostro futuro? È sempre qui dentro. Mi consulto
con lui, ancora oggi. Prima di accettare una parte, gli chiedo (scruta un
punto lontanissimo, sorride): “" 1B DIF EJDJ 4F QP GB $JB GBSÛ ”. Lo
sogno spessissimo, noi insieme sul set. Gli dico: “" 1B NB UV TFJ NPSUP”.
E lui: “.B DIF NPSUP UF TFNCSP NPSUP?”. Io Pierpaolo lo vivo. Ancora. I miei due figli si chiamano Pierpaolo e Guidalberto, che è il
nome del fratello minore di Pasolini (partigiano morto diciannovenne nell’eccidio di Porzûs). Li ha battezzati entrambi, è il
loro compare». Ninetto ha interpellato Pierpaolo anche quando gli hanno chiesto di rifare *M WBOUPOF: «“" 1B BSJFDDIJDF
OBSUSB WPSUBw. E lui sereno, “#FOF CFOF”». Dopo il recente Nastro d’argento alla carriera: «“" 1B TF TP SJDPSEBUJ EF NF
.B NJDB Ò GJOJUB OF WPKP OBSUSP”». E quando gli offrono un
filmaccio utile solo per sbarcare il lunario: «“1B DIF EJDJ 0
GBDDJP ”».
Il cinema non è più quello di allora. Davoli è spaesato nel
panorama odierno, più serial tivvù che film. Nessuno riuscirà
a strappargli la maschera del ragazzo innocente, sereno e incosciente che fece la sua fortuna anche in film controversi come *M GJPSF EFMMF NJMMF F VOB OPUUF e 5FPSFNB; è la sua, di Ninetto.
«Tanto tempo fa, quando feci $BTPUUP con Sergio Citti, chiesi a Paolo Stoppa: “Ma secondo te il cinema tornerà come prima?”. Rispose: “" /JOF RVBOOP VOP NPSF NPSF NJDB SFTVTDJUB”».
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